UNIVERSITA’:IL SUICIDIO MEDIATICO DELLO SPIRITO CRITICO - UNIVERSITA’:GLI INTELLETTUALI DEL NO E DELL’ANTICULTURA - STATO LAICO: I DOCENTI SCENDONO IN CAMPO - SE IL RETTORE GIOCA A FARE IL GIUDICE - UNIVERSITA’: UN CODICE SESSUALE PER TUTTI I PROFESSORI - QUATTRO IDEE PER LA SCIENZA A SCUOLA - FIGEL: UNA ALLEANZA PER L’ALTA FORMAZIONE - ATENEI AL COLLASSO: SERVE ALMENO 1 MILIARDO - UNIVERSITA’: NON SA COSA INSEGNA, MA LO INSEGNA IN INGLESE - GENI: LA POLITICA ITALIANI SMENTISCE LA SCIENZA - CAGLIARI: PROF CONDANNATO PER ANTISEMITISMO - TUTTE LE NUOVE REGOLE PER RISCATTARE GLI ANNI DEI CORSI UNIVERSITARI - REGIONE: LEGGE SULLA RICERCA DI GESSA, UN'OCCASIONE A RISCHIO - GESSA: LE SEDI DECENTRATE NON HANNO SENSO - SAVONA: TRASFERIAMO A NUORO LE UNIVERSITÀ DI CAGLIARI E SASSARI - SENATO ACCADEMICO: MINIMO DI SEI APPELLI ALL'ANNO - UNIVERSITÀ, DIMINUISCONO GLI ISCRITTI - REGIONE: FORMAZIONE, DALLA SVOLTA AL TRACOLLO - NELL’ITALIA DEI LAUREATI CHE NON SANNO SCRIVERE - A SCUOLA BOCCIARE NON SERVE - L’INNOVAZIONE PASSA PER CAGLIARI - ROMAGNINO: CANTORE E CRITICO DELLA CITTÀ DEL SOLE - REGIONE: QUELLI CHE BUSSANO ALLA FINANZIARIA - ======================================================= COSI’ SI ORGANIZZA L’OSPEDALE MODELLO - SANITÀ, LA SARDEGNA È ULTIMA - INSETTI E RIFIUTI, GLI OSPEDALI FUORILEGGE - OSPEDALI, SASSARI MAGLIA NERA - SVOLTE, RIVOLUZIONI E PROMESSE NELLA NAFTALINA DELLA CRISI - DG: ASL E AO CENTRO-SINISTRA E CENTRO-DESTRA -INDICANO IL 62 E IL 34% - DG: ASSESSORI CONTRARI A RINUNCIARE AL LORO POTERE DI NOMINA - DG: TURCO: COSÌ FAN TUTTI? NON CI STO! - LE CERE ANATOMICHE DI SUSINI IN TRASFERTA A BERGAMO - SASSARI: DAVID HARRIS ALLA GUIDA DELL’AZIENDA MISTA - ENTRO L’ESTATE I TRASFERIMENTI AL POLICLINICO - QUELLA DIGNITOSA PSICHIATRIA DELLE PRECARIETÀ - MICROCITEMICO, FUTURO DA RISCRIVERE - VETERINARI, ALLA ASL SENZA UN CONCORSO - ARTROSI DELLE MANI E BISTURI - VIENE SALVE SENZA PUNTURE - IL CEROTTO É WIRELESS - SANITÀ. PRONTO IL DECRETO SUGLI ALBI - TALASSEMIA: IL SOGNO: MAI PIÙ TRASFUSIONI - ======================================================= ____________________________________________________________ OSSERVATORE ROMANO 8 Feb.‘08 IL SUICIDIO MEDIATICO DELLO SPIRITO CRITICO Una ragione aperta che sa ascoltare ed è consapevole dei propri limiti non può mai temere di entrare in dialogo con la fede Anche alla Sapienza si riflette sul discorso di Benedetto XV di LUCA M. POSSATI Riflettere sul senso dell'istituzione universitaria alla luce delle parole di Benedetto XVI, quelle stesse parole che il Papa avrebbe dovuto pronunciare nel corso della sua visita all'università «La Sapienza» di Roma dello scorso 17 gennaio, visita alla quale ha dovuto rinunciare. Con questo scopo 1a facoltà di Scienze politiche dello stesso ateneo romano ha organizzalo mercoledì 6 febbraio l'incontro dal titolo «Fede, ragione e Università». A coordinare i lavori, Fulco Lanchester, preside della facoltà, insieme ai relatori Vittorio Possenti, ordinario di filosofia politica presso l'università «Cà Foscari» di Venezia, Mario Caravale, ordinario di Storia del diritto italiano presso «La Sapienza», e Teresa Serra, ordinario di Filosofia politica dello stesso ateneo. Due le domande al centro delle discussioni, le stesse che hanno mosso la riflessione del pontefice: qual è la natura e la missione del Papato? Quale è la natura e la missione dell'università? «Abbiamo sentito l'esigenza di riflettere sulle parole del Papa perché riteniamo che l'università debba essere anzitutto un luogo di pluralismo, dove discutere i punti di frizione e chiarirli attraverso il dialogo», ha spiegato il preside Soffermandosi sui fatti che hanno portalo all'annullamento della visita di Benedetto XVI allo Studium Urbis, Lanchester ha ricordato che «i responsabili sono molti, e non si trovano soltanto in questo Ateneo». Lo «scandalo» -- ha detto il preside è stato causalo da «inequivocabili errori» riconducibili soprattutto alle pressioni esercitate da, alcuni mezzi di comunicazione «che hanno sfruttato la situazione per fini polemici». Ancora una volta, ha aggiunto Lanchester, è avvenuta mia «espropriazione del ruolo dell'università come centro della riflessione critica e una « riproposizione di storici steccati che credevamo superati». Proprio per questo rileggere a un mese di distanza l'allocuzione che Benedetto XVI avrebbe dovuto temere per l'inaugurazione dell'anno accademico può gettare una voce importante anche sulla storia recente dell'ateneo, istituzione «che, nel secondo dopoguerra., dalla politica è stata lasciata soffocare nelle sue contraddizioni - ha sottolineato ancora. Lanchester - e che oggi si trova a dover affrontare gravi problemi economici e organizzativi». Che cos'è, dunque, l'università? Quale la sua natura, la sua autonomia e la sua vocazione? Una «palestra nella ricerca della verità»: così la definiva Giovanni Paolo II, rivolgendosi alle autorità e, agli studenti dell'ateneo di Roma Tre, in occasione dell'inaragurazione dell'anno accademico 2002. Università vuole dire ricerca della verità, ma di una verità al di là del sapere soltanto teorico, al di là di quella scientifico che, come ricordava sant'Agostino, da sola è sinonimo di tristitia. «Penso che, si possa dire - scrive Benedetto XVI che la vera, intima origine dell'università stia nella brama di conoscenza che è propria dell'uomo» e che in primo luogo è «conoscenza del bene». Frasi importanti. Frasi che, come ha sottolineata Vittorio Possenti, ripropongono con l'orza la questione del coraggio per la verità. «Nel dibattito pubblico - ha detto Possenti - non possiamo mal mettere da parte la ricerca della verità». «Dobbiamo renderci conto - - ha aggiunto --- che stiamo entrando in un'epoca nuova, che chiude il periodo della privatizzazione della fede. Dopo l'età della secolarizzazione stiamo andando verso una società post secolare, una società nella quale il discorso religioso è presente nel mondo pubblico tra varie forme». Ecco, allora, che tutti siamo chiamati a porci di nuovo la domanda al centro dell'allocuzione di Benedetto XVI: che cos'è la verità? Come la si riconosce? E. dunque, che cos'è. la ragione? «Se deve esserci un rapporto tra fede c ragione ci deve essere, ancor prima, un reciproco riconoscimento», ha rilevato Possenti, «ma un leale rapporto può instaurarsi solo se entrambe le parti capiscono di avere in fondo il medesimo scopo: la verità», Come già nel discorso all'università di Ratisbona (12 settembre 2006), nell'allocuzione per «La, Sapienza» il Pontefice ha affrontato un nodo centrale dell'intera storia della filosofia e della teologia: la ragione umana ha un riferimento che è la realtà: l'essere; mia nello stesso tempo, aprendosi alla rivelazione, può scoprire nuovi campi di azione e conoscere meglio se stessa. «Ecco perché, una ragione aperta, che ascolta e che é consapevole dei propri limiti, non può non entrare in dialogo con la fede - ha precisato il filosofo - mia questo dialoga non intacca l’autonomia dell'indagine razionale». La fede non è mai un dato inerme; essa agisce come un «pungolo» per la ragione, un incitamento a guardare al di là del sapere naturale, a non considerare le scienze positive l'unico criterio possibile di razionalità. In tal senso, Possenti ha richiamato le pagine del capitolo sesto del libro di Tobia: «II viaggio del protagonista può essere letto come una metafora dei rapporti tra fede e ragione», un incitamento alla Ricerca della verità perché, «la filosofia non può scadere in scientismo, così come la teologia non può diventare tiri fatto privato». Ma se la verità è conoscenza del bene, di quella verità che ci rende buoni, quale rapporto intercorre tra conoscenza e agire, tra teoria e prassi? In che modo la verità s'immerge nella comunità e la guida? Si pone così la questione dei fondamenti della vita politica ed etica. «C'è un passaggio del discorso di Benedetto XVI ha spiegato Possenti che non è stato adeguatamente valorizzato, quello in cui il Pontefice si sofferma sulla teologia medievale e sulla disputa tra conoscere ed agire sottolineando l'importanza della sensibilità per la verità nel dibattito politico». L'orizzonte più inquietante per l’Occidente , oggi, è il «nichilismo giuridico», e cioè quella, situazione in cui si nega nel modo più assoluto l'esistenza di una legge, di un diritto fondamentale. Nel nichilismo giuridico a prevalere è l'oblio della legge, il disprezzo per i diritti arcani. Diritto, allora, diventa sinonimo di forza, di volontà che si auto gestisce, anzi di scontro tra diverse volontà di potenza che non si accettano. Non si riesce più a pensare un ordinamento universale del diritto. «Si assimila la legge alla legge positiva», ha spiegato Possenti, «così Nietsche riprende in maniera più forte quel che era già stato detto da Hobbes e attacca il diritto naturale». E’ dunque questa la vera vocazione, dell'università: farsi luogo di confronto per costruire e rafforzare una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà e della dignità umana, quella «forma ragionevole.» richiamata da Benedetto XVI a partire dai testi del filosofo tedesco Habermas «Certo l'università serve per fornire competenze e immetterle nel mercato del lavoro - ha precisato Possenti - - ma deve, anche superare questa dimensione ed educare alla libertà, all'impulso disinteressato alla conoscenza. contro le lotte politiche per la supremazia e contro un laicismo chiuso nei propri pregiudizi, spesso più anticlericale che laico». La necessita di pensare un fondamento del diritto precedente il diritto positivo, la «ragione pubblica» che affonda le sue radici nella tradizione, è confermata anche dalla storia del diritto positivo europeo «In un momento storico come il nostro--- ha detto il professor Caravale un'epoca nella quale la legge non è più la sola fonte del diritto e la sovranità dello Stato viene costantemente messa in discussione, il richiamo alle tradizioni del diritto è fondamentale». Come dimostra la storia delle tre grandi tradizioni giuridiche europee -- il diritto romano, quello francese e quello inglese del common law - - «c'è sempre, in ognuna di esse, l'idea di un diritto più profondo, fatto di valori essenziali senza i quali il diritto non sarebbe diritto», ha spiegato Caravale. Il concetto più importante espresso dal Papa è stato il richiamo al recupero delle tradizioni culturali, all'esigenza di riconoscerle. «Anche quando si parla, spesso, di modificare la nostra costituzione, dobbiamo renderci conto che esistono norme fondamentali non derivanti dalla nostra natura di esseri umani , ma più concretamente dal nostro esser membri di una cornunità». E tuttavia, «gli ambienti culturali sono tanti - ha precisato la professoressa Serra a la storia si chiude nel momento in cui il dialogo cessa l'ascolto reciproco manca». Il senso autentico delle parole del Papa sta dunque nell'invito a riconoscere l'altro essere autentico soggetto di comunicazione libero e portatore di diritti in quanto membro di una comunità. Un senso, questo, condensato nell'appello finale dell'allocuzione: «Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell'università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà» ma «invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio». ____________________________________________________________ Europa 8 Feb.‘08 UNIVERSITA’:GLI INTELLETTUALI DEL NO E DELL’ANTICULTURA Dall'episodio della Sapienza alle polemiche sulla Fiera di Torino PAOLO GIACON La repubblica vive un momento di diffuso malessere e di incertezza». Parole tristi ma vere, pronunciate qualche giorno fa da Tullio Lazzaro, presidente della Corte dei conti in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. Tangentopoli, gli scandali degli anni `90, il ricambio parziale della classe dirigente del nostro paese non sono stati ancora sufficienti per provocare un rinnovamento del senso civico, del mondo della politica, del dibattito culturale. Una strisciante e forse mai risolta questione morale sta alimentando la voce del qualunquismo e dell’antipolitica. La crescente sfiducia nelle istituzioni è il sintomo della paura che i cittadini nutrono nei confronti dell'Italia dei furbetti e dei loro sistemi che hanno bandito merito, trasparenza, qualità e serietà. Da qualche settimana l’antipolitica non è più sola: si è affacciato infatti tra gli intellettuali, gli accademici e i cervelli d'Italia lo spettro di un inquietante fenomeno che potremmo chiamare anticultura. Questa volta la televisione non c'entra perché il virus dell'anticultura utilizza solo in minima parte questo mezzo per propagarsi. Alberga invece nelle università, negli interventi su alcuni quotidiani, nei circoli filosofici, letterari e culturali del paese. Per capire di cosa si tratta è sufficiente ricordare due episodi che negli ultimi giorni hanno messo in luce la profonda crisi culturale che stiamo vivendo, e l’incapacità italiana di rispondere in maniera adeguata alle sfide della modernità. Invece di progettare un futuro diverso, di aprire nuovi orizzonti culturali, invece di essere un autentico pungolo critico, avamposto di modernità, progresso libertà e democrazia, alcuni intellettuali e uomini di cultura italiani (e a volte europei) preferiscono trincerarsi dietro comodi sistemi ideologici, e pregiudizi ingiustificabili. Il primo episodio che illustra il contesto di anticultura in cui rischia di scivolare il paese è quello relativo alla visita del pontefice alla Sapienza. Sono ormai 1500 i docenti universitari che hanno aderito alla levata di scudi contro un possibile intervento di Benedetto XVI nelle aule dell'università. È dunque al laicismo piu' ottuso che si affida l’elite culturale italiana? Sono questi paradossali "non sapienti" della Sapienza i portavoce dell'Italia che pensa, che elabora e guarda al futuro? O sono semplicemente gli epigoni di un passato ormai superato? Mi domando davvero dove siano quei maestri del pensiero e della scienza che lavorano ogni giorno per creare accademie ed università aperte al confronto e al dialogo, luogo di libera espressione e di lotta al pregiudizio e alla chiusura intellettuale. Spesso basterebbe ricordare le parole che Gandhi amava ripetere: «Nessuna cultura può vi vere se cerca di essere esclusiva». Il secondo episodio che testimonia una strana ondata di anticultura è rappresentato dall’invito lanciato da Tariq Ramadan e ripreso da alcuni commentatori italiani, di boicottare la Fiera del Libro di Torino a causa dell'invito ufficiale di Israele (e di un folto gruppo di scrittori israeliani) come ospite d'onore. Ancora una volta nella storia umana i libri e le idee degli scrittori fanno paura. L'invito al boicottaggio è un'iniziativa sbagliata sotto tutti i punti di vista. È un vero e proprio inno al pregiudizio perché non prende, ad esempio, in considerazione il valore letterario degli scrittori invitati e la loro posizione, a volte anche critica, nei confronti delle scelte del proprio governo. Come è possibile confondere la scelta della Fiera del Libro, fatta di amore per la cultura, per i libri e per la letteratura con una mossa politica di sostegno al governo israeliano? Perché essere prigionieri senza se e senza ma, di schemi vecchi e superati? Questa è il sottile ma pericoloso male dell’anticultura: il desiderio di anteporre ideologie. e pregiudizi al diritto di un libero e rispettoso confronto. È la volontà di escludere a priori chi la pensa diversamente e ha una sensibilità culturale diversa. È un finto modo di fare cultura, sterile, atono, in grado di alimentare quel sonno della ragione e dell'autonomia di giudizio di cui il nostro paese deve liberarsi. Una grande sfida si profila di fronte gli intellettuali e i cittadini italiani: essa non si esaurisce con il superamento del qualunquismo e dell'antipolitica, ma con una nuova ricerca culturale comune, che sia terreno di libero confronto e che si alimenti della diversità delle opinioni, delle idee e di tutte le sensibilità culturali e religiose. L'Italia non merita un esercito di furbetti e raccomandati, ma non merita nemmeno di scivolare verso un’elaborazione culturale priva quei valori di autonomia, libertà, impegno sociale, intuizione creativa, difesa dei diritti e dei più deboli che l'hanno sempre sostenuta ed animata. _______________________________________________ Il Manifesto 7 Feb.‘08 «STATO LAICO», I DOCENTI SCENDONO IN CAMPO Le elezioni sono alle porte, il papa faccia un partito politico e si presenti con una propria lista». Un po' provocazione e un po' no. Del resto, Angelo d'Orsi è un «cattivo maestro». Così è stato definito dall'intellighenzia cattolica che lo ha messo al rogo dopo il suo appello di solidarietà ai 67 docenti, «cattivi maestri» prima di lui per aver inviato una lettera al rettore Guarini nella quale chiedevano di non invitare il papa all'inaugurazione dell'anno accademico della Sapienza. Il momento laico per eccellenza. Da quando quella lettera, che doveva rimanere privata, è stata resa pubblica finendo su tutti i giornali, per i prof «ribelli» è cominciata una gogna senza precedenti. Attaccati da ogni parte: dal mondo cattolico, dai media e dalla quasi totalità della classe politica, destra e sinistra senza distinzioni, tutti a difendere lo sgarbo fatto al pontefice. Ma i professori, incuranti (e anche un po' stupiti) di tutto questo clamore, sono andati avanti per la loro strada, continuando a manifestare il loro dissenso e a lavorare nell'ombra. E a ventuno giorni di distanza dalla mancata lectio magistralis papale, ora spunta un'idea stuzzicante: creare «un movimento culturale che risponda all'esigenza diffusa di laicità espressa da molti italiani». A renderla pubblica è lo stesso d'Orsi intervenendo ieri ad un dibattito intitolato «Diritto al dissenso», organizzato dai giovani di Sinistra critica alla Sapienza. «Perché laicismo - ha esordito il docente di storia del pensiero politico all'università di,Torino - non è altro che l'idea della laicità. Un movimento di idee che ritiene indispensabile la laicità per la vita politica». Con lui, gran parte del mondo accademico. Il suo appello on-line (visitabile sul sito www.historiamagistra.it) ha già superato le 1.500 adesioni. Molte le firme illustri, come la grecista Eva Cantarella; lo storico medievale Aessandro Barbero, il filosofo Gianni Vattimo, il matematico Pierluigi Odifreddi, lo storico Nicola Tranfaglia, il sociologo Luciano Gallino e il giurista Ugo Rescigno. Tra loro anche chi «mi ha già chiesto di trasformare questa iniziativa in qualcosa di più, ci sono sollecitazioni perché tutto questo diventi un movimento culturale permanente». Non pronuncia la parola "partito politico" anche se non nega che «qualche esponente politico ha già fatto tentativi di annessione». Ma non è questo che interessa al nuovo «movimento». La missione è solo una: «laicizzare il paese» perché, ha proseguito ancora d'Orsi, «non si può rimanere fermi mentre il papa e la Cei invadono tutti gli spazi, siamo in uno stato fondamentalista, in cui si apre la televisione e tutti i telegiornali dicono quello che Ratzinger ha fatto la mattina e non fanno altro che parlare di lui». Non si può non riconoscere che l'Italia «sta diventando un paese mu1tietnico e multireligioso - a dire dello storico - i fedeli della chiesa cattolica sono ormai una minoranza in Italia e noi viviamo questo paradosso con la chiesa di Roma che rappresenta il vero pensiero degli italiani e questa chiesa si comporta come un superpartito politico». AL momento l'idea di una lista Ratzinger in corsa alle prossime elezioni fa sorridere. Anche se - ed è proprio il santo padre ad insegnarcelo - le vie del signore sono infinite. Alla tavola rotonda di ieri c'era, oltre a Cinzia Arruzza di Sinistra critica, anche il professor Carlo Cosmelli, docente di fisica e tra 167 firmatari della lettera «incriminata». Meno politico il suo intervento, e più virato alla relazione tra ragione e fede. II fisico ha comunque contestato il Pontefice facendo le pulci ai suoi discorsi in tema di scienze, evoluzionismo, omosessualità e diritto alla vita. Virgolettati come «Non agire "con il logos" è contrario alla natura di Dio» (lezione di Ratisbona, 12/02/2006) o «Ogni teoria che neghi alla divina provvidenza qualsiasi reale ruolo causale nello sviluppo della vita nell'universo non è scienza ma ideologia» (Commissione teologica internazionale, 2004), sono tra i motivi per cui il mondo scientifico è in fermento. «Alla fine - ha detto Cosmelli - si arriva sempre al problema di una morale. E anche lo scienziato deve seguire una morale, ma allora, mi chi do, perché proprio quella cattolica? E ori quella induista, buddista o atea?». Duro anche ff giudizio degli studenti che non ci stanno a passare come «intolleranti, integralisti e oscurantisti», così erano stati bollati all'indomani della rinuncia di Benedetto XVI ad intervenire alla cerimonia del 17 gennaio scorso. «Nessuno ha impedito al papa di intervenire - hanno detto Giorgio Sestili del coordinamento dei collettivi - anzi è stato proprio il pontefice a sottrarsi alle critiche e alle voci di dissenso facendolo apparire una vittima e questo è servito per rafforzare la portata de gli attacchi che il Vaticano sta portando avanti su molti temi, non ultimo quello dell'aborto». Il rettore della Sapienza, Renato Guarini, per ora tace. Lo scacco del dietrofront di papa Ratzinger ancora gli brucia. Doveva essere il suo rilancio accademico, per ripulirlo dallo scandalo «parentopoli» scoppiato dopo l'inchiesta sull'assegnazione di tre incarichi di r cercatore andati alle due figlie e ad uno dei generi. Ma il papa non è arrivato e dunque, niente miracolo. Anzi, qualche giorno dopo, il Magnifico si è ritrovato iscritto nel registro degli indagati dalla procura della Repubblica di Roma col reato di abbuso d'ufficio. L'accusa è un presunto scambio con l'architetto Leonardo di Paola, docente di Estimo dell'ateneo romano e presidente della Cpc, l'impresa che dovrà costruire il parcheggio all'interno della città universitaria. _______________________________________________ Il Giornale 3 Feb.‘08 SE IL RETTORE GIOCA A FARE IL GIUDICE STEFANO ZECCHI Tra le nostre istituzioni, l'Università è una delle più gerarchizzate. E non potrebbe essere diversamente per la sua funzione di trasmissione dei sapori e per svolgere la ricerca scientifica. Anzi, se ci fosse maggior rigore nella definizione e nel rispetto delle gerarchie accademiche, se ci fosse maggiore attenzione nel premiare attraverso il merito gli ordini di potere, l'Università vivrebbe in una condizione meno depressa di quella in cui oggi tristemente versa. Però, è inutile nascondere che queste gerarchie sono spesso strumenti di un esercizio indecente del potere. Ed è anche inutile fare le anime belle, affermando che sono rare le trasgressioni alla deontologia professionale e al buon gusto. Quanto più l'Università è decaduta in questi ultimi quarant'anni, perdendo il suo prestigio (e anche il rispetto pubblico), tanto più è aumentata la corruzione (sì, vera e propria corruzione finita nelle aule dei tribunali) nel mondo accademico. Il fatto che importanti Università italiane abbiano stilato un «Codice per la prevenzione delle molestie sessuali e morali» rappresenta la punta dell'iceberg di questa decadenza. Se la perdita di fiducia nella moralità dell'istituzione è un sentimento collettivo, il degrado finisce per avere i mille volti della corruzione. E la moralità dell'istituzione universitaria si basa sul rispetto del sapere, sul riconoscimento del merito come principio fondamentale della vita stessa dell'Università. I concorsi per scegliere i professori sono fatti con regole e mentalità che farebbero inorridire perfino una tribù di selvaggi che deve scegliere i propri capi. Gli esami agli studenti sono pure formalità> perché i finanziamenti arrivano in proporzione al numero degli iscritti, e se si è rigorosi e severi gli studenti emigrano dove non trovano rigore e severità. Allora, quel «Codice» intende sanzionare comportamenti che purtroppo davvero accadono e che sono però il frutto della degenerazione universitaria. Promesse, ricatti, insinuazioni, a sfondo sessuale esistono, spesso diventano monete di scambio per fare carriera o per danneggiare la carriera di altri. Ma quel «Codice» finirà per aggiungere al degrado accademico una barbarie giudiziaria, esercitata senza un vero e legittimo controllo. Come si può giudicare un ammiccamento? Siamo diventati matti? E cosa significa una promessa implicita? Si può immaginare quale intrigo di ricatti, quali delazioni, quali ignobile messinscena si rischiano di favorire per sputtanare qualcuno che non è gradito a qualcun altro. Quel «Codice per la prevenzione delle molestie sessuali e morali» elenca comportamenti che sono già reati previsti dal Codice penale, e l'Università non deve sostituirsi alla magistratura, non può amministrare una propria giustizia privata. Per giudicare e sanzionare i reati elencati da quel «Codice» è previsto un «consigliere esterno», preferibilmente donna, che svolge i compiti del giudice istruttore del pubblico ministero, che invia, il resoconto della sua, indagine al rettore, il quale nel «Comitato Pari Opportunità.» decide se «sanzionare» il docente colpevole o «ripudiarlo». UN BARBARICO DELIRIO GIUDIZIARIO. A giustificazione dell'introduzione di questo regolamento interno, si dice che esiste anche nei college inglesi e nei campus americani. Come spesso ci capita, noi copiamo dagli altri il peggio. A parte il fatto che quelle anglosassoni sono organizzazioni accademiche strutturate in modo totalmente diverso dalle nostre università, anche in quelle realtà oggi si tende sempre più a lasciar funzionare la giustizia ordinaria e ad abolire quella di tipo privato, nata all'interno di una tradizione medievale che isolava la vita dei college da quella delle città. A noi sarebbe sufficiente una buona legge che cambi le Università, che le renda competitive abolendo il valore legale del titolo di studio e che modifichi le regole del reclutamento dei docenti. Ci sarebbe un'altra moralità e non ci sarebbe bisogno di codici interni, di consiglieri di fiducia, di comitati per le pari opportunità, che sono impietose testimonianze del disastro universitario. _______________________________________________ Il Giornale 3 Feb.‘08 L'ULTIMA DELLE UNIVERSITÀ UN CODICE SESSUALE PER TUTTI I PROFESSORI Gaia Cesare Negli Stati Uniti lo definiscono «sexual harassment» e da tempo cercano di combatterlo all' interno delle aziende e delle università. Dal contatto fisico indesiderato, agli apprezzamenti verbali sgraditi, fino alle proposte indecenti, le avances sessuali, specie (ma non solo) se esercitate da chi ha un ruolo di potere, sono perseguibili sulla base del Civil Rights Act. Ora la febbre anti-molestia cresce anche in Italia e gli atenei corrono ai ripari. Dopo Torino, la prima università ad adottare misure per fronteggiare il fenomeno, dopo Milano, Bologna, Padova, Roma 3, Firenze, Genova, anche a Bari è scattato il piano di contrattacco. C'è qualche professore che esagera? Abusa della sua posizione per ottenere in cambio prestazioni sessuali? Manda alle allieve messaggi provocatori o allusivi? D'ora in poi potrà essere denunciato e dovrà rispondere al nuovo codice di comportamento anti-molestie adottato dall'ateneo pugliese. L'anonimato è garantito e la denuncia potrà essere inoltrata anche via telefono 0 via e-mail. Un consigliere di fiducia, preferibilmente donna, esterno al mondo accademico si occuperà della tutela della vittima e deciderà l’iter più idoneo da seguire, proponendo le misure adeguate per mettere fine ai comportamenti molesti. Per il rettore Corrado Petrocelli «il codice è un'ulteriore tappa che consente al nostro ateneo di essere in posizione di preminenza per comportamenti, rapporti, rispetto e trasparenza, ponendo in primo piano i criteri di uguaglianza e par condicio». Molte delle studentesse intimidite da dipendenti o docenti dell'università, anche a Bari - dove un dipendente dell'Ufficio rapporti con il pubblico è stato arrestato per aver allungato le mani su una ragazza - saranno in qualche modo tutelate. Ma in quale modo? Il codice barese, così come quello di molti altri atenei che hanno il merito di aver affrontato un problema sentito in molte università italiane, si spinge fino a contemplare tra gli esempi di molestia, oltre a intimidazioni, minacce e ricatti, anche la voce «ammiccamenti». Un gesto, questo, difficilmente decifrabile e che, a differenza degli apprezzamenti verbali sulla sessualità della vittima o dei messaggi scritti di esplicito carattere sessuale, potrebbe trasformarsi in un'arma di vendetta nella mani di qualche studente, ai danni di qualche professore magari troppo severo. Eppure rompere il muro di omertà che spesso impone a molte allieve di mantenere il silenzio riguardo a comportamenti molesti è difficile anche nella patria della legislazione contro il sexual harassment. Negli Stati Uniti ha fatto discutere il caso della femminista Naomi Wolf, che ha denunciato il noto critico letterario di Yale, Harold Bloom, a distanza di circa vent'anni, per una presunta mano sulla coscia allungata dall'intellettuale in cambio di un parere sulle poesie della studentessa. Il professore si è difeso, sostenendo di avere aiutato la ragazza a ottenere una borsa di studio e lasciando capire di non essere stato per nulla respinto. La Wolf è stata accusata di aver parlato dopo troppo tempo e di aver probabilmente mentito per farsi pubblicità. Yale non ha preso alcun provvedimento contro il professore, mentre la Wolf ha denunciato un clima sessista e di collusione nei confronti dei «poteri forti» dell'università «ancora intatto». Insomma stabilire se molestia c'è stata è già complicato di fronte a una mano di troppo allungata, rischia di diventarlo ancora di più se di mezzo c'è un «ammiccamento». LE REGOLE Si definisce molestia sessuale ogni comportamento indesiderato, inclusi anche atteggiamenti di tipo fisica, verbale e non verbale, a connotazione sessuale o qualsiasi altro tipo di discriminazione, basata sul sessa che offenda la dignità delle danne e degli uomini negli ambienti di lavoro e di studio sono esempi di molestia sessuale: 1 richieste implicite o esplicite di prestazioni sessuali offensive o non gradite 2 affiggere o mostrare materiale pornografico nei luoghi di lavoro 3 promesse, implicite o esplicite, di agevolazioni e privilegi o avanzamenti di carriera in cambio di prestazioni sessuali e ritorsioni e minacce in conseguenza dei diniego di tali prestazioni 4 contatti fisici indesiderati, inopportuni 5 apprezzamenti verbali sul corpo e la sessualità ritenuti offensivi 6 apprezzamenti verbali sul corpo e la sessualità ritenuti offensivi 7 messaggi scritti o gli oggetti provocatori o allusivi 8 le intimidazioni, minacce e ricatti subiti per aver respinto comportamenti finalizzati a un rapporto sessuale CONTRO I MOLESTATORI COLLOQUI CON IL CONSIGLIERE Che cosa succede dopo che scatta la denuncia di uno studente? Le vie sono due. La prima è quella della procedura informale: il consigliere potrà invitare a colloquio il presunto autore dei comportamenti molesti, acquisire eventuali testimonianze e accedere agli atti amministrativi inerenti al caso; promuovere incontri congiunti tra la persona vittima della molestia e il presunto autore, proporre all'amministrazione le azioni ritenute idonee per salvaguardare il benessere psicofisico delle persone interessate. Con la procedura formale, invece, il rettore o il direttore amministrativo potranno adattare le misure organizzative ritenute di volta in volta utili alla cessazione immediata dei comportamenti molesti e al ripristino di un ambiente di lavoro in cui viene tutelata l'inviolabilità della persona. ____________________________________________________________ TST 6 Feb.‘08 QUATTRO IDEE PER LA SCIENZA A SCUOLA D’accordo, come tutti i risultati test, quelli di «Pisa» lo studio dell'Ocse che misura le competenze degli studenti di 57 Paesi e vede l’Italia al 36 Posto - non andranno presi alla lettera. Ma sovrapponeteli a una mappa degli investimenti in ricerca e sviluppo, e con qualche significativa eccezione (gli Usa su tutti), avrete uma coincidenza quasi perfetta. investimenti in ricerca e preparazione degli studenti vanno nella stessa direzione. AL primo posto della graduatoria «Pisa» - Programme for international student assessment - c'è la Finlandia (3,5% del Pil investito in ricerca e sviluppo) e tra i primi il Giappone (3,1%). Perché non si può fare ricerca senza le competenze e le competenze non si rinnovano senza una ricerca e un'innovazione solida. Il dato sull'Italia non dovrebbe, purtroppo, stupire: è in linea con altri indicatori che ci vedono poco dietro la Spagna e poco davanti a Portogallo e Grecia. Che cosa si puo’ dire, dunque, che vada oltre la mera constatazione dello stato della nostra istruzione, le dichiarazioni sempre prevedibili dei politici, l’individuazione di responsabili più o meno plausibili (pee autorevoli commentatori la colpa è, nientemeno di Harry Potter) e che possa contribuire ad individuare, forse, non delle soluzioni, ma uno o più percorsi costruttivi di riflessione e di intervento? Primo. Senza dubbio occorre intervenire sulla qualità dell'istruzione e non soltanto scientifica (i dati negli altri test, come ad esempio la lettura, non sono migliori). Partendo tuttavia da un dato di fatto: gli studenti - e le scuole italiane - non sono tutti uguali. Ci sono mediamente circa 100 punti di distacco tra i licei e gli istituti tecnici e professionali. Le differenze regionali sono estremamente marcate: le scuole del Nord-Est registrano risultati sopra la media internazionale, quelle del Sud molto al di sotto. Secondo. Non è soltanto un problema di risorse finanziarie. Un dato poco pubblicizzato dell'Ocse confronta l'andamento globale della spesa in istruzione con i risultati degli studenti: la prima è cresciuta del 39% in termini reali a partire dal 2000, i secondi sono rimasti, sempre su scala globale, sostanzialmente stabili. Terzo. Se l'Italia ne esce male, l'Europa non ne esce in modo particolarmente brillante, con una media dell'Ue più bassa di quella generale. A parte la punta d'eccellenza della Finlandia, solo l'Estonia riesce a entrare nel gruppo di punta (insieme con Hong Kong, Canada e Taipei), mentre altri peggiorano la propria «performance» rispetto al 2003. E se la giustificazione di «performance» modeste in Italia è spesso quella della carenza di risorse per l'educazione e la divulgazione scientifica, la Commissione Europea ha speso tra il 2002 e il 2006, nel solo Programma Quadro, quasi 30 milioni di euro in moltissime attività di educazione e divulgazione scientifica: feste e festival della scienza, notti dei ricercatori, quiz scientifici a premi trasmessi via webcast, perfino gare sportive tra robot, finanziate nell'intento di avvicinare i giovani alla scienza e la tecnologia (!). Iniziative singolarmente lodevoli, naturalmente, ma insomma: la scienza è dappertutto, fuorché dove davvero ce ne sarebbe bisogno, ovvero a scuola. Quarto: se la scuola deve fare la sua parte, altri soggetti e istituzioni possono senza dubbio dare un contributo. Un esempio europeo: la Royal Society, la storica accademia delle scienze britannica, mette a disposizione in modo chiaro e accessibile sul suo sito Web una serie di strumenti concreti rivolti agli insegnanti di scienze: videoconferenze e materiali da guardare e commentare con gli studenti, piccoli contributi finanziari per organizzare attività ed esperimenti in collaborazione con scienziati, rapporti di ricerca sull'insegnamento delle scienze ai vari livelli. Poca burocrazia, un impegno chiaro a monitorare i risultati e un segnale che per gli insegnanti vale spesso più di tante linee guida: siamo una delle più prestigiose accademie della scienza, ma vi teniamo in considerazione. @@@@@@@@@@ ____________________________________________________________ Avvenire 8 Feb.‘08 FIGEL: UNA ALLEANZA PER L’ALTA FORMAZIONE Da Milano Enrico Lenzi All'Europa «serve potenziare un'alleanza formativa tra Università, ricerca e mondo del lavoro». Un'alleanza che punti «all'innovazione, da porre accanto alla tradizione culturale e formativa di cui è ricca l'Europa», e che sappia «creare un sistema di alta formazione in grado di attirare studenti anche dalle realtà socio-ecomiche emergenti, come la Cina». E un vero e proprio appello quello che il commissario europeo per l'Istruzione, formazione, cultura e gioventù Jan Figel ha lanciato ieri mattina dalla sede milanese dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. L’occasione per questa sua prima visita nel nostro Paese da ministro europeo, è stata la giornata che l'ateneo milanese ha voluto dedicare, per la prima volta nella sua storia, alla consegna dei dottorati di ricerca conseguiti nel 2007. «Abbiamo voluto rendere solenne questa consegna - ha spiegato il rettore Lorenzo Ornaghi - perché da tempo il nostro ateneo sta investendo con determinazione e convinzione sui dottori di ricerca, nella certezza che si giochi sul terreno della loro valorizzazione la partita decisiva non solo per il sistema universitario, ma per il più ampio sistema economico, sociale e culturale del nostro Paese». Ma anche a livello europeo, aggiunge l'eurocommissario Figel, «occorre puntare sull'alta formazione». Un passo in questa direzione è rappresentato anche dall'avvio delle attività dell'Istituto europeo di innovazione e tecnologia, di cui «auspichiamo entro l'estate la scelta della sede, la nomina del comitato di gestione e l'avvio dei primi network di ricerca, noti come Comunità di conoscenza e innovazione». Un attenzione all'innovazione, anche «per diventare un polo di attrazione per i giovani dei Paesi emergenti - ha aggiunto il commissario europeo -, capace anche di instaurare collaborazioni con le migliori realtà formative nel mondo, che si trovano anche fuori dagli Stati Uniti». In questo quadro l'alta formazione diventa una sorta di fiore all'occhiello del nostro sistema formativo. Ne è convinto il rettore della Cattolica. «Proprio nella prospettiva di una maggior qualità - ha sottolineato Ornaghi -, sono state istituite 16 scuole di dottorato, in molteplici settori disciplinari» e anche il numero degli iscritti è in costante crescita, con una fetta crescente di laureati provenienti da altri atenei e pure dall'estero. Non meno importante il capitolo del post-dottorato, cioè l'ingresso nel mondo del lavoro. «Anche in questo caso i dati sono positivi» commenta il rettore Ornaghi, pur non nascondendo una persistente diffidenza del mondo lavorativo verso questo segmento della formazione: il 91,9% lavora dopo il dottorato, il 50% di loro ha un contratto a tempo indeterminato e il 60% del campione formato dai dottori dal XVI al XVIII ciclo, non ha avuto alcun tipo di attesa nell'iniziare a lavorare e un altro 20% ha aspettato meno di tre mesi. Inoltre due dottori di ricerca su tre dichiarano l'esistenza di una coerenza tra l'attuale occupazione e la formazione scientifica ricevuta con il dotto - raro. Interessante anche la tipologia dell'attuale impiego del campione esaminato dal Comitato di valutazione della Cattolica: il 28,4% svolge lavoro autonomo, il 14,8% è libero professionista, il 12,5% ha una collaborazione coordinata e continuativa, l’11,4% ha un lavoro a progetto, il 10,2% fa il consulente, il 5,7% ha prestazioni d'opera occasionale, il 2,3% è imprenditore, e un 14,8% svolge altri tipi di lavoro. _____________________________________________________________ Italia Oggi 8 Feb.‘08 ATENEI AL COLLASSO: SERVE ALMENO 1 MILIARDO Serve almeno 1 miliardo per rimettersi in carreggiata DI BENEDETTA P PACELLI Risorse,regole e rigore. Sembra quasi una spot, ma Guido Trombetti presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane non ha dubbi: è a partire da questi tre punti imprescindibili che si può castruire un sistema universitario di qualità. Risorse perché l'università italiana soffre di un problema cronico di sattofinanziamento, e regole per individuare i mezzi per incentivare comportamenti virtuosi che sviluppano la qualità. E poi basta con i proclami che si leggono in ogni programma di governo, di destra o dì sinistra, perché tanto hanno sempre disatteso le aspettative. Ma è comunque l'annoso problema dei fondi che preoccupa maggiormente il numero uno dei rettori che parla di un nodo che soffoca la vita delle università. Domanda. Prima di qualsiasi riforma quindi c'è il solito irrisolto problema di fondi? Risposta. È proprio così. E la priorità nell'immediato è la spartizione del Fondo del finanziamento ordinario delle università. Con questi tempi noi rischiamo di arrivare alla fine dell'anno: le università stanno aspettando e hanno bisogno di sapere non salo di quante risorse potranno disporre, ma soprattutto, di quando le avranno in concreto. E una priorità assoluta. D. Del resto sono anche le classifiche internazionali a dirlo. R. Certo, in Italia il livello di investimento per la ricerca è in percentuale al di sotto della media europea di circa il 50%. Al nastro sistema manca 1 miliardo di euro per tornare, ai livelli di sei anni fa. Se da aggi fosse, per esempio, bloccato il turnover di spesa del personale continuerebbe a crescere nei prossimi anni con un tasso non inferiore al 4% annuo. D. Non solo risorse, però? R. Certo. È evidente che a fianco di queste ci vogliono norme rigorose e regale più snelle. D. Per esempio? R. Cambiare la governance è per esempio una priorità, ma è una questione dal respiro così ampio che certamente non si può affrontare in poco tempo. Rimane comunque un problema prioritario, anche perché, alcuni atenei riescono a fare degli sforzi in autonomia ma ci vuole una cornice generale per aiutare tutti a cambiare. Non si può più gestire can strutture antiquate un'università moderna, Poi ci vuole rigore e valutazione. D. Valutazione di che cosa? R. Dei comportamenti virtuosi dal punto di vista amministrativa, ma anche dal punto di vista scientifico. D. Favorevole quindi. all'agenzia di valutazione? R. L'Anvur è solo un pezzo di quella che è un'operazione molta più ampia di cui il prossimo governo dovrà assolutamente farsi carico D. Cosa chiede al prossimo governo? R. Dì non inserire nel programma frasi del tipo «... non c'è sviluppo senza formazione». Perché rimane una frase che ha sempre disattesa le aspettative. Potrebbero invece scrivere, in modo chiaro, un elenco di cinque sei interventi programmatici. D. A partire dà quale? R. Sicuramente oltre alla valutazione e alle regole c'è il problema dei concorsi. che va affrontato e modificato integralmente. Si potrebbe anche prevedere una valutazione annuale e dare la possibilità a chi lo merita di fare una progressione di una carriera. In ogni caso il problema va affrontato globalmente e non un pezzo alla volta. _______________________________________________ Il Giornale 7 Feb.‘08 L’ INSULSAGGINE DI UN'UNIVERSITÀ CHE NON SA COSA INSEGNA, MA LO INSEGNA IN INGLESE Cresce la tendenza a mettere in piedi corsi in lingua straniera. Così precipiterà ancora più in basso il semi analfabetismo dei nostri studenti in cambio di modeste prospettive internazionalistiche e di un gergo tecnico povero. La questione non è nuova ma merita attenzione perché sarà sempre più sul tavolo. Si tratta della tendenza, crescente in molte università, a organizzare corsi di laurea totalmente in inglese, per giunta con l'incentivo di un sostanzioso sconto sulle tasse. Bene ha fatto il presidente dell'Accademia della Crusca a segnalare i grandi rischi di queste iniziative: che la capacità di tenere lezioni in inglese faccia premio sulla competenza disciplinare e che si aggravino le drammatiche carenze dei giovani nel dominio della lingua nazionale. È opportuno aggiungere qualche considerazione sulle "vere" motivazioni di queste iniziative, per dissolvere il sospetto che l'opposizione a essi si riduca a una difesa gretta e nazionalistica della lingua italiana. È noto che la preparazione scientifica dei giovani nella quasi totalità dei paesi occidentali sta subendo un declino drammatico. Ciò è testimoniato dal fatto che, nelle università statunitensi, i migliori studenti di PhD (in prospettiva, i migliori matematici, fisici, biologi, eccetera) sono giovani indiani, cinesi, sudcoreani, cingalesi, eccetera, insomma provenienti da paesi dove si fornisce quella solida preparazione disciplinare che ora è considerata da noi un fattore "repressivo" e "impositivo". Le università statunitensi - per la loro elevatissima qualità organizzativa e didattica - rappresentano comunque una grande attrattiva e, reclutando i nuovi soggetti "immigrati", possono sperare di mantenere i loro livelli elevati. Da noi c'è chi ha pensato che, dato il livello mediocre degli studenti nostrani, conviene puntare su soggetti provenienti dall'estero, prevalentemente dall'Asia. Ma noi non possiamo aspirare a offrire strutture neppure lontanamente paragonabili a quelle statunitensi. Come compensare questa patente inferiorità? Tagliando le tasse... ti altra carta che possiamo giocare dipende, paradossalmente, dal disastro del nostro sistema universitario: poiché le prospettive di reclutamento di nuovi ricercatori sono nulle, un docente indiano potrebbe essere incentivato a spedire in Italia un suo allievo, contando sul fatto che certamente ritornerà a coltivare la scienza nazionale... Quindi, nella migliore delle ipotesi, raschieremo il fondo del barile, ovvero gli studenti meno capaci, meno motivati e meno ambiziosi. Otterremmo così il risultato di far precipitare ancora più in basso il semianalfabetismo dei nostri studenti in cambio di queste modestissime prospettive e della conoscenza mediocre di un inglese povero, di un gergo tecnico privo di spessore culturale. Già, perché quel che si dimentica è che la scienza, sebbene sia un'impresa basata sulle relazioni internazionali, se non si riduce a mera tecnica - e i suoi testi al livello di manuali d'istruzioni di apparecchi - ha bisogno di una cultura che può essere sostenuta soltanto da una lingua ricca e strutturata. La scienza si è sempre radicata nelle culture nazionali, pur tendendo all'internazionalismo. Alla fin fine l'inglese è una lingua letteraria per gli americani o gli inglesi... E a noi cosa rimarrebbe? Chi non è preoccupato è Tullio De Mauro, secondo il quale il vero problema non è l'inglese ma l'analfabetismo di ritorno. «Sono trentasei anni che sappiamo che nella scuola media non si insegnano la scienza, la matematica, senza che nessuno abbia fatto nulla». Noi avevamo sentito dire che la scuola era stata gestita dal suo amico Luigi Berlinguer, da molti esperti a lui vicini e che lui stesso era stato ministro dell'Istruzione. Si trattava, con ogni evidenza, di notizie false e tendenziose. _______________________________________________ Il Giornale 2 Feb.‘08 GENI: LA POLITICA ITALIANI SMENTISCE LA SCIENZA L'ULTIMA DEGLI STUDIOSI ANGLOSASSONI: TUTTO SCRITTO NEI GENI Secondo una ricerca il Dna determina la scelta tra destra e sinistra. Ma come si spiega chi cambia idea? Giuseppe 8alvaulo L'educazione, le letture; i rapporti personali; le esperienze, gli interessi, le simpatie e gli umori? Ininfluenti. Uno studio del settimanale britannìco New Scientist sostiene che essere di destra o di sinistra dipende dal patrimonio genetico di un individuo. Dunque si nasce é non si diventa, e questo spiega molte cose. Per esempio, si deve supporre che fu per consentire una comparazione del Dna che il senatore Barbato sputò all'(ex) collega Cusumano durante la drammatica seduta al Senato in cui cadde il governo Prodi: L'inchiesta della rivista scientifica accreditala «teoria genetica dell'ideologia,» citando i test condotti su gemelli omozigoti ed eterozigoti. I primi (totale identificazione genetica) a domande a sfondo politico rispondono nello stesso modo 8 volte su 10. I secondi (in comune solo metà del corredo genetico) solo nel 33% dei casi. Deduzione degli scienziati: gli orientamenti politici dipendono dai geni. «Queste visioni stanno alla radice del nostro cervello», spiega John Alford, ricercatore dell'università di Rice, Texas. Qualcuno dovrebbe suggerire ai valenti studiosi di fare un girò da queste parti, prima di pubblicare certi studi. Senza offesa: se è tutto scritto nel dna, qual è il codice genetico dei voltagabbana di casa nostra, o anche semplicemente dei tanti che hanno «cambiato idea», «fatto un percorso», transitando da destra a sinistra é viceversa? II catalogo è vasto. Per un Bondi già sindaco comunista di Fivizzano folgorato sulla via di Arcore c'è un Fisichella monarchico e teorico della nuova destra approdato - con travaglio - alla corte di Rutelli. Per un Brandirali leader di «Servire il popolo» convertito a Comunione e liberazione si trova un Follini che giura «alla peggio andrò a casa, a sinistra no» e poi si accasa nel Partito democratico. Per non dire delle parabole alla Ferrara, da marxista ad ateo devoto, che metterebbero in crisi la più accurata indagine sul Dna. E poi i ,De Gregorio> i Fuda, i Dini, che con Mastella condivide il primato di aver fatto il ministro sia con Prodi che con Berlusconi. Di più: tra i due incarichi, è anche riuscito a fare il premier essendone osteggiato sia da Prodi che da Berlusconi. Sua la massima: «Non paga essere voltagabbana». Convince di più la teoria materialista di Alessandra Mussolini: «Non è questione di destra e di sinistra. I voltagabbana vanno dove c'è il potere». Lei, uscita da An e fondato un nuovo partito, giurava: «Non sarò mai alleata con la Casa delle libertà». Detto, non fatto. «II primo voltagabbana della storia fu San Paolo sulla via di Damasco», ricorda Cossiga. E come non arrendersi di fronte al sillogismo di Adornato (dal Pci ad Alleanza democratica a Forza Italia all'Udc): «Io ho tradito il comunismo; il comunismo è un tradimento della democrazia; tradire un tradimento non è un tradimento, ma è una catarsi»? L'affare è complicato. Non a caso c'è un'altra teoria genetica, quella di Mastella. Il quale, intervistato da Claudio Sabelli Fioretti, così illustrava il sub pensiero: «Voltar gabbana è nel Dna degli italiani». Si attende una pubblicazione dell'università di Ceppaloni. _____________________________________________________ Il Manifesto 6 feb. ’08 CAGLIARI: PROF CONDANNATO PER ANTISEMITISMO Costantino Cossu Cagliari «Sono vegetariano e animalista. Se poi ebrei mi accusano di essere antisemita soltanto perché voglio difendere gli animali, allora sì, sono antisemita». Così si è difeso Pietro Melis, docente di filosofia all'Università di Cagliari, condannato ieri mattina per istigazione all'odio razziale per aver pubblicato, nel 2004, un saggio («Scontro tra cultura e metacultura scientifica: l'Occidente e il diritto naturale») nel quale si paragonava la crudeltà del rito della macellazione ebraica con la strage perpetrata nei lager nazisti. Il giudice monocratico del Tribunale penale di Cagliari, Ornella Anedda, ha condannato Meìis, sia pure con le attenuanti generiche, a 4.000 euro di multa. Il docente, che secondo l'accusa aveva diffuso volantini con su scritto «maledetti ebrei, per voi dovrebbero essere ancora usate le camere a gas», dovrà inoltre risarcire provvisoriamente con 40 mila euro totali quattro cittadini di fede ebraica costituitisi parte civile. Per Melis il pubblico ministero aveva chiesto una condanna a otto mesi di reclusione con la condizionale. In nome del diritto naturale, da estendere agli animali, Melis condannava nel suo saggio i metodi seguiti nella macellazione ebraica, che prevedono il lento svuotamento di vene e arterie per purificare le vittime dal sangue. Per il docente cagliaritano, quei metodi sono una vera e propria tortura su viventi con eguali diritti degli esseri umani. «Chi ha letto interamente il mio saggio - ha detto ieri Melis commentando la sentenza - ha certamente colto che il mio era un paradosso, paragonabile a quello celebre di Zenone. In sostanza, intendevo dire che se non si riconosce il diritto naturale anche agli animali, allora tutti i delitti sono permessi, compresi quelli nelle camere a gas». E ha aggiunto: «Se il mio libro è stato sequestrato per istigazione all'odio razziale allora chiedo che in Italia venga sequestrato anche il Corano, libro che, incitando chiaramente alla violenza armata, è contrario al nostro ordinamento giuridico e invece L predicato liberamente nelle moschee». _______________________________________________ Il piccolo 28 Gen. ‘08 TUTTE LE NUOVE REGOLE PER RISCATTARE GLI ANNI DEI CORSI UNIVERSITARI I lavoratori dipendenti, autonomi, iscritti ai Fondi speciali di previdenza e parasubordinati, possono coprire con i contributi il periodo del corso legale di laurea (esclusi gli anni Fuori corso tramite il riscatto che può riguardare tutto il periodo o singoli periodi. Sono equiparati alla laurea : 1) la laurea conseguita all'estero purchè riconosciuta o che abbia valore legale in Italia; 2) le lauree in teologia o in altre discipline ecclesiastiche conseguite presso facoltà riconosciute dalla Santa Sede. Sono riscattabili anche sempre che non siano coperti da contribuzione, i periodi corrispondenti alla durata dei corsi di studio universitario a seguito dei quali siano stati conseguiti: 1. i diplomi universitari (di durata non inferiore a due anni e non superiore a tre); 2. i diplomi di specializzazione; 3. i dottorati di ricerca successivi alla laurea della durata non inferiore a due anni. A partire dal luglio 2007 è data la facoltà di riscattare due o più corsi di laurea, anche per titoli conseguiti anteriormente a questa data. Per ottenere il riscatto si deve aver versato almeno un contributo settimanale all'Inps in qualunque momento della vita assicurativa e i periodi da riscatto devono essere coperti da contribuzione obbligatoria o figurativa o da riscatto chiesto in altri re ` mi previdenziali. Dall 1 gennaio 2008, la legge 247/2007, ha previsto una serie di interventi in. materia previdenziale e, in particolare, ha ~ppo~rtato delle modificazioni in materia di riscatto dei corsi universitari di studio. La nuova normativa prevede che i periodi da riscattare possano essere pagati sia in una unica soluzione che in forma dilazionata fino a 120 rate mensili (prima erano 60) senza l'applicazione di interessi prima venivano applicati gli interessi di dilazione calcolati al tasso annuo previsto dalla legge). Un' altra novità è rappresentata dalla estensione della facoltà di riscatto anche a chi ancora non lavora e non è iscritto ad alcuna forma previdenziale, mediante il versamento di un contributo per ogni mese da riscattare, il cui importo viene definito per legge e poi calcolato con un particolare conteggio (per l'anno 2008 circa 4.500 euro). Il contributo viene versato all'Inps in una apposita evidenza contabile separata e rivalutato secondo le regole del sistema contributivo. Il montante maturato sarà trasferito, a domanda, presso la gestione previdenziale in cui il lavoratore sia o sia stato iscritto. La legge 247/2007 prevede inoltre che, in deroga a quanto disciplinato dalla previgente normativa, i contributi da riscatto dei periodi di studio diventano utili ai fini del computo dei 40 anni di contribuzione per acquisire il diritto alla pensione di vecchiaia nel sistema contributivo, quindi anche i giovani che accederanno alla pensione con il sistema contributivo, usufruiranno della totale computabilità dei periodi riscattati anche ai fini del raggiungimento dei requisiti contributivi per l'accesso alle prestazioni pensionistiche. Il contributo è fiscalmente deducibile dall'interessato ovvero detraibile dall'imposta dovuta dai soggetti di cui l'interessato risulti fisicamente a carico nella misura del 19% dell'importo stesso. La domanda può essere presentata in qualsiasi momento presso una Direzione provinciale Inps, direttamente dall'interessato o tramite uno degli Enti di patronato riconosciuti dalla legge o anche dai familiari superstiti che hanno diritto alla pensione di reversibilità. Fabio Vitale Direttore regionale della sede Inps del Friuli Venezia Giulia ______________________________________________________________ La Voce 2 feb. ’08 REGIONE: LEGGE SULLA RICERCA DI GESSA, UN'OCCASIONE A RISCHIO Gestione in mano ai soliti noti terrorizzati da innovazione e cambiamento di Alessandro Mongili * Dobbiamo al prof. Gianluigi Gessa la legge regionale sulla “Promozione della ricerca scientifica e dell'innovazione tecnologica in Sardegna”. Si tratta di una iniziativa di grande rilevanza, per certi aspetti storica, poiché segna l'avvio di una politica organica dello sviluppo tecnicoscientifico in Sardegna. Penso che chiunque ami la ricerca, e magari ne abbia fatto una professione, provi un grande senso di riconoscenza per il prof. Gessa, per il suo lavoro e per i risultati che ha ottenuto per il bene pubblico. Però, se è importante creare delle norme, occorre preoccuparsi anche della loro applicazione, e vigilare perché funzionino come fattori di progresso e di cambiamento. La legge, approvata l'11 agosto 2007, manca ancora di applicazione e, per certi versi, presenta sul versante applicativo alcuni aspetti poco chiari. Inoltre, non è affatto chiaro il modo in cui la legge sarà accolta, soprattutto nel mondo universitario: se avrà davvero rilevanza, o si ridurrà a un proclama o a un'occasione sprecata. In una riunione pubblica dedicata alla discussione della legge Gessa sulla Ricerca, che si è svolta di recente presso la facoltà di Scienze politiche, molti intervenuti hanno sottolineato come nel testo non si parli di finanziamenti all'attività ordinaria dell'università, alle “infrastrutture” e alle solite cose sub specie immobiliare, tradizionalmente curatissime nella nostra Isola. A un certo punto, un collega ha osservato, nel suo intervento, che «questa legge è fatta per un'università che non c'è», e in questa frase ha riassunto tutto. La legge funzionerebbe subito in un contesto in cui vi fossero università interessate, o almeno un po' interessate, alla ricerca. Come quelle, ad esempio, che ci fanno sempre più concorrenza, e verso le quali numerosi i nostri studenti ormai corrono per completare i cicli di studi, o per specializzarsi. La reazione del pubblico non era certo entusiasta, e anzi in molti interventi ci si chiedeva come mai la Regione non si dia da fare per finanziare le attività ordinarie, così come sono, senza perdersi in queste stramberie. Come ha argutamente notato un mio brillante collega, notoriamente l'MIT avanza perché la “regione” del Massachusetts finanzia le sue nuove mense e, magari, dico io, la sede gemmata di Nantucket. In generale, infatti, l'Università non favorisce la ricerca. Si fa molta didattica, e la ricerca (che significa anche apertura e scambi continui con il resto del mondo) è vista come un capriccio, a parte qualche eccezione. A Cagliari, nel corso dell'ultima riunione del Senato accademico (23 gennaio 2008), per dire, si è deliberato di vietare la concessione dei nulla-osta ai soli ricercatori, in modo che non possano più fare dei corsi in altre Università (in aggiunta al loro carico didattico normalmente espletato da noi). Sfidando ogni retorica pubblica relativa all'internazionalizzazione, i membri del Senato accademico hanno attaccato la consuetudine accademica di favorire la circolazione ad ogni livello dei ricercatori, che non può che migliorare, ovviamente, il clima intellettuale. Peraltro, questa possibilità è lasciata agli associati ed agli ordinari, non si capisce bene in base a quale principio. Magnificenti segni di apertura provengono, dunque, dal Bastione del Balice. A livello nazionale i segni sono analoghi. Come ha mostrato Salvatore Settis in un suo recente articolo, fra i 35 vincitori italiani dei primi finanziamenti (molto consistenti) erogati dal neonato European Reasearch Council, solo 5 provengono dai Dipartimenti universitari. Inoltre, fra i vincitori italiani (che, nota positiva, sono molti) solo 22 svilupperanno le loro ricerche da noi. Ben 7 prendono i soldi e scappano. All'estero. In sintesi, da noi la ricerca è una cosa in più, e si preferisce di gran lunga il ripasso. In molti settori, è diffuso il malcostume di occupare posizioni universitarie senza avere un dottorato, o di presentarsi ai concorsi con monografie pubblicate a pagamento e mai distribuite dagli editori, i cosiddetti vanity books che costituiscono una vergogna nazionale, già denunciata più di venti anni fa da Umberto Eco. Senza considerare poi il traffico dei concorsi, le parentele troppo diffuse, le appartenenze politico- assessoriali, e i convegni passerella che poco hanno di scientifico ma molto di sindacal-assessorial-entestrumental. Ovvio, non si può generalizzare, all'Università c'è gente magnifica e appassionata del proprio lavoro. Tuttavia, sarebbe da irresponsabili non pensare a com'è fatto un mondo per il quale si scrive una legge innovativa, e non prepararsi alle fameliche pressioni volte alla pura riproduzione dell'esistente: un conatus, però, resistibile, con un intervento politico decisivo in sede di regolamentazione. L'ideale sarebbe che la Regione facesse come si è fatto in Catalogna o in Alto Adige, istituendo ex novo almeno una sede universitaria (come la Pompeu Fabra o la Freiuniversitaet a Bolzano) che abbia, per quanto è possibile, le stesse caratteristiche di libertà e di serietà delle università di ricerca con cui dobbiamo confrontarci, che ormai non sono solo quelle americane, britanniche o del Nord Europa, ma anche quelle indiane, cinesi, ecc. Per ora, di questo non si parla, ma credo che prima o poi, se la struttura complessiva dell'università italiana non dovesse migliorare, la parte interessata allo sviluppo dell'Isola dovrà porsi seriamente il problema di uno degli snodi essenziali di ogni sviluppo contemporaneo, cioè della nascita di attività di ricerca avanzate in Sardegna (e in Italia) non più come avventure episodiche, ma come strutture permanenti. Troppa burocrazia e troppi printzipales A mio avviso, la legge Gessa presenta alcuni aspetti poco chiari che in sede applicativa possono creare problemi alla crescita dell'innovazione. Essa istituisce tre organi fondamentali per la sua applicazione: la Consulta regionale per la ricerca, i Comitati tecnici consultivi e l'Anagrafe della ricerca. Alla Consulta è demandato il compito di dare le indicazioni generali, attraverso due strumenti detti Piano regionale della ricerca e Piano regionale di sviluppo. È guidata dall'Assessore e composta dai Rettori, dai delegati delle ASL (?!), degli Enti di ricerca, di Sardegna Ricerche, delle imprese, dei sindacati, di AGRIS. Incredibile: si è trovato posto per tutti questi printzipales ma non per i ricercatori! Manca solo l'Arcivescovo Mani. Per coloro che fanno la ricerca, cioè stanno nei laboratori, scrivono i paper, verificano ipotesi, progettano dispositivi, analizzano fenomeni. Insomma, sanno di che cosa si tratta. Per loro, niente, mentre per i mariomedde ulteriori gettoni e gratifiche. Si tratta chiaramente di un organo che può imporre delle linee di ricerca astratte o (nella migliore delle ipotesi) troppo legate ai mainstream, e non rispondenti alle tendenze realmente innovatrici presenti nel mondo della ricerca. Un pessimo finanziatore e, suppongo, poco innovativo. L'unica speranza è che la Consulta sia solo un organo cerimoniale e non faccia troppi danni. Conoscendo però l'innata fame di riconoscimento di questi personaggi, mi permetto di dubitarne. L'altro organo è il Comitato tecnico consultivo. In realtà, sono cinque, per le diverse aree del sapere. Ognuno di cinque membri. Costoro, scelti fra “esperti di comprovata competenza” non meglio specificati, sono nominati dalla Giunta regionale su indicazione della Consulta (cioè dei burocrati prima elencati), sentito il parere della Commissione consiliare competente (che entrerebbero così, caso veramente inedito, nelle decisioni scientifiche senza alcuna mediazione). Ma non di ricercatori che ne capiscano qualcosa, di ricerca. Anche qui, manca solo il Consiglio delle autonomie, il CREL o, magari, il TAR del Lazio. Per cui, mastellico more, ci sarà l'esperto comprovatissimo in quota masson-immobiliare di destra, quello in quota Rifondazione, l'altro in quota Nord Sardegna, il cislino e nessuno in quota Scienza, nessuno in quota Tecnologia e nessuno in quota Ricerca. Nessuna garanzia che la competenza comprovata escluda le mogli di, gli affiliati di, gli ordinari senza dottorato, gli arrabattoni da vanity books, e altra simpatica fauna accademica e da entediricerca assistito. Anzi, tutto sembra fatto apposta per loro. Nessuna garanzia di rigore nella selezione dei progetti. Un grande pericolo! Infine, l'Anagrafe della ricerca. Anche in questo caso, si privilegiano le istituzioni rispetto ai singoli ricercatori, i gruppi di ricerca rispetto alle reti multidisciplinari e in cui la ricerca è distribuita in luoghi e organizzazioni diverse (la vera novità contemporanea). Saranno solo loro ad essere censiti. L'Anagrafe potrebbe fornire i dati per un sistema di valutazione dei singoli ricercatori operanti sul territorio regionale, se solo lo prevedesse. Al contrario, tutto è vago su questo versante, mentre i riferimenti agli enti e alle imprese si sprecano: l'Anagrafe diventerà una vetrina delle istituzioni esistenti, senza che si capisca bene chi c'è dentro e qual è il livello dei ricercatori che le compongono. Un'anagrafe diversa potrebbe anche creare un necessario discrimine fra i ricercatori “veri” e i “ripassatori” da sbarco, favorendo anche la formazione di rappresentanze molto più utili e efficaci dei comitati tecnico-consultivi (che denominazioni terrificanti, fra l'altro), ai fini della formazione di indirizzi politici. L'impianto della legge, sul versante dell'applicazione, è sostanzialmente conservatore, e preconizza una governance del settore verticista e burocratica. Per cui, per i prossimi vent'anni, il ripasso si potrebbe fare più intenso e più ricco (cioè finanziato coi soldi di tutti ma senza grandi risultati). L'idea che sembra sottendere questo progetto non pare prendere in considerazione altre idee della scienza se non quella cumulativa, per cui è meglio non innovare troppo e comunque che lo si faccia solo dopo l'emanazione di appropriate direttive da parte degli organi competenti. Nel mentre, ci supererà anche l'Indonesia, però almeno la nostra sarda dignità sarà difesa e gli onorati “Quaderni Sardi di Qualsiasicosologia” faranno la loro sempiterna porca figura dagli scaffali polverosi delle nostre vetuste istituzioni accademiche. Intonsi. La partecipazione dei ricercatori sardi al sistema mondiale della ricerca avanzata (che dovrebbe essere il fine di questa legge) sarà ancora una volta lasciata alle iniziative individuali circondate dai mugugni e dai boicottaggi dei colleghi conservatori. I possibili rimedi L'unica possibilità di bloccare, almeno parzialmente, questa deriva risiede nello scrivere un regolamento della legge che eviti, almeno, gli esiti peggiori. Posto che, privi di rappresentanza, i soggetti portatori di interessi provenienti dal mondo della ricerca e dell'innovazione sono stati espulsi dai processi decisionali dal dispositivo della legge, occorre regolamentare in modo severo l'accesso alla posizione di esperto nei Comitati tecnico-consultivo. Deve essere chiaro che queste posizioni devono essere ricoperte solamente da figure professionalmente inattaccabili: ovvero che abbiano una formazione accademica standard (nessuno senza un dottorato di ricerca), che facciano o abbiano fatto ricerca (ovvero che abbiano pubblicato su riviste in cui esista il referaggio, che abbiano pubblicato monografie distribuite e reperibili in commercio o in possesso di biblioteche importanti e, che, nei settori più propriamente scientifici, abbiano un fattore d'impatto delle proprie pubblicazioni dignitoso). Sarebbe opportuno, inoltre, che almeno tre dei cinque membri dei Comitati non provengano dalla ricerca che si fa in Sardegna, in modo da sganciare l'assegnazione dei fondi dalle inevitabili clientele e da agganciarlo maggiormente alle correnti internazionali. Inoltre, visti i chiari di luna, sarebbe a mio parere importante introdurre alcune norme di risanamento morale, che escludano esplicitamente la possibilità di assegnare finanziamenti o premialità a membri delle stesse famiglie (in senso non metaforico). Infine, sarebbe bene che l'Anagrafe della ricerca permettesse di costituire non solo una base di dati utile per le politiche (cioè un censimento delle strutture, dei gruppi e dei progetti di ricerca), ma anche uno strumento di valutazione il più possibile neutrale e oggettivo delle qualità scientifiche dei singoli ricercatori. Esistono già molteplici tentativi di questo tipo ai quali ci si può ispirare. Questo con il fine, soprattutto, di evitare che vadano soldi e sostegno a ricercatori poco o per nulla formati e adatti al lavoro di ricerca, e che quindi il nostro sforzo si risolva in uno spreco. La politica della ricerca può essere progettata dai politici, ma poi potrà avere successo solo incarnandosi in comportamenti virtuosi di chi, ogni giorno, fa ricerca e la organizza. La Regione ha fatto tantissimo con questa legge, anche se a mio parere si tratta di una legge migliorabile. Tuttavia, essa si trova di fronte altri soggetti della politica della ricerca. Fra di essi, le Università sarde. Storicamente poco interessate a questo “capriccio”, come tutte le Università italiane, esse dovrebbero cogliere la sfida che questa legge pone e puntare finalmente sulla ricerca e sulla qualità. Puntare sul loro stesso mutamento. Abbiamo un'occasione storica e non dobbiamo lasciarcela sfuggire. L'Università di Cagliari può farlo fra breve, poiché dovrà rinnovare i suoi vertici. Servono candidature nuove, scientificamente autorevoli e sganciate dalle logiche delle appartenenze. Sinora, non se ne vedono molte. Il costo da pagare per la mancanza del coraggio di innovare potrà essere pesante, e a brevissima scadenza. * Dipartimento di Ricerche Economiche e Sociali - Università di Cagliari ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 6 feb. ’08 GESSA: LE SEDI DECENTRATE HANNO UN SENSO SOLO SE FORMANO DAVVERO LAUREATI DI QUALITÀ Occorre stabilire in tempi brevi, fuori dai localismi, quali poli accreditare, investendo su di essi risorse adeguate di Gian Luigi Gessa Le sedi universitarie decentrate, la cosiddetta università del territorio, sono molto preoccupate perché i finanziamenti stanziati nella finanziaria regionale non sono sufficienti per la loro sopravvivenza e tanto meno per progetti più ambiziosi. In effetti, la Regione ha assegnato la somma complessiva di quattro milioni di euro per finanziare sia le numerose sedi universitarie decentrate che l’Ailun, che non è una università ma un’associazione per la istituzione a Nuoro di una libera università. L’anno scorso l’assessore aveva temperato le vivaci proteste dei più sfortunati beneficiari dichiarando che il finanziamento (il doppio di quello attuale) e la sua distribuzione tra le sedi erano «in attesa di ripensare il rapporto tra l’università e il territorio». Poiché questa è la quarta finanziaria a cui partecipo che assegna fondi all’università del territorio «in attesa di ripensare...» mi chiedo quali insuperabili resistenze politiche impediscano il «ripensare» o se l’attesa dipenda da difficoltà organizzative nell’assessorato che pure si avvale di preziose consulenze. Infatti, l’assessore Elisabetta Pilia nel 2005 aveva commissionato al professor Golzio di Modena uno studio sulla situazione didattica (corsi di laurea, docenti, studenti, laureati) di ciascuna delle sedi decentrate in Sardegna. Questo studio è disponibile da quasi due anni così come l’analisi elaborata dal CRENOS, Centro Ricerche Economiche Nord Sud, la quale confronta la situazione didattica con quella finanziaria, cioè chiarisce quanto costa ciascuna sede universitaria decentrata rispetto al suo prodotto in laureati. Inoltre, nel maggio del 2005 è stata istituita la Commissione per il monitoraggio delle sedi decentrate «che dovrà effettuare l’analisi e la valutazione del funzionamento, dei costi e dei risultati raggiunti, con il supporto dei Nuclei di valutazione delle università e della Regione». Nello stesso giorno si proclamava anche l’istituzione della Commissione per il sistema universitario integrato della Sardegna, «il cui primo impegno sarà fare in tempi stretti il monitoraggio e la valutazione degli atenei e dell’università diffusa, attraverso un nucleo di valutazione formato da rappresentati della Regione e delle università, che utilizzerà i parametri fissati dalla Commissione di valutazione nazionale». Non mancano pertanto gli organismi, i consulenti, le commissioni e i nuclei di valutazione (qualcuno riceve emolumenti per la sua intensa attività?) per decidere «in tempi stretti» quale sede decentrata meriti di essere sostenuta e potenziata, quale modificata, quale soppressa non solo in considerazione del prestigio del Comune che la ospita, del suo sindaco e del politico di riferimento, quanto del fatto che fornisca un titolo vero, che abbia valore di mercato. In un recente articolo Francesco Pigliaru ha sostenuto che la diffusione di università sul territorio è importante per formare «in tempi brevi» quei laureati di cui la Sardegna ha bisogno: in Sardegna ha la laurea solo il 10% della popolazione di età compresa tra i 25 e 44 anni, mentre in altri paesi più avanzati queste percentuali variano dal 23 al 46%, in essi il numero dei laureati è legato positivamente al numero delle università e al progresso del paese. Tuttavia, perché l’equazione più università più laureati più progresso sia valida è necessario che i laureati prodotti abbiano reale qualità, altrimenti sarà come stampare banconote che non hanno corso legale in Europa. Pigliaru obiettivamente riconosce che il modello di università diffusa prevalente in Sardegna è mal disegnato, malissimo gestito, basato su scelte sbagliate e talvolta assurde; «In oltre quindici anni di presenza a Nuoro, l’Università di Cagliari non ha creato neanche un posto di ricercatore a sostegno dei corsi lì localizzati. Una situazione che sarebbe inconcepibile anche per il più modesto college americano, perché ogni seria università ha bisogno di infrastrutture adeguate e soprattutto di un corpo docente formato da persone che lavorano e vivono in loco». A differenza di quello di Pigliaru, molti interventi a favore o contro l’università diffusa non si basano su dati obiettivi ma sono distorti da pregiudizi e luoghi comuni rivelando una scarsa conoscenza della materia. Ritengo utile, a costo di risultare pedante, ribadire alcuni concetti. Le sedi distaccate non sono università ma corsi di laurea attivati dalle università di Cagliari e Sassari. L’università di Cagliari ha istituito corsi di laurea a Oristano, Nuoro, Iglesias, Ilbono, Sorgono e Sanluri. L’università di Sassari ha sedi decentrate ad Alghero, Tempio, Olbia, Nuoro, Oristano, Ozieri. Le sedi decentrate svolgono prevalentemente corsi triennali (laurea breve) di cui alcuni sono duplicazioni di quelli presenti nelle sedi di Cagliari e Sassari, altri sono di nuova istituzione. I docenti delle sedi decentrate sono in ruolo presso le sedi di Cagliari e Sassari dove dovrebbero svolgere la loro attività di insegnamento e ricerca. Essi ricevono uno stipendio supplementare per insegnare nella sede decentrata dove si recano per le lezioni e per gli esami. Il corpo docente è costituito prevalentemente da ricercatori e professori associati. Nessun ricercatore o professore è stato mai promosso in un concorso finalizzato a ricoprire un posto nella sede decentrata, che evidentemente non forma docenti, una delle missioni dell’università. Purtroppo le informazioni disponibili non offrono alcuna indicazione sulla qualità dell’insegnamento, dei docenti, sull’indice di gradimento da parte degli studenti e soprattutto non indicano se il titolo erogato ha valore di mercato nel senso che serva veramente nel lavoro e nella vita. Eppure esistono metodi obiettivi per misurare e verificare queste cose. Da qualche anno le sedi decentrate della Toscana sono impegnate in un processo di accreditamento al fine di ottenere un riconoscimento europeo, che nel futuro sarà la condizione per ottenere finanziamenti pubblici. Occorre decidere «in tempi brevi» quali sedi accreditare, dedicando a queste risorse adeguate. La Corea del Sud ha investito, per il potenziamento delle sedial di fuori dell’area metropolitana di Seoul, 130 miliardi di dollari in 5 anni! Occorre risolvere «in tempi brevi” questi problemi concreti prima di pensare a programmi ambiziosi quali quelli di accogliere esperti di fama internazionale, costituire un centro congressi permanente o costituire un laboratorio d’avanguardia in campo aerospaziale collegato con la Nasa per le missioni degli Shuttle. ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 7 feb. ’08 REGIONE: FORMAZIONE, DALLA SVOLTA AL TRACOLLO «Gli ultimi bandi hanno favorito le grandi spa che vengono da fuori» di Sabrina Zedda CAGLIARI. La formazione professionale a un passo dal tracollo definitivo: dal 2004 a oggi il comparto ha perso dieci milioni di finanziamenti regionali e ora la coperta è così corta che il rischio è quello di chiudere, con nuova disoccupazione. A lanciare l’allarme è il Cesfop, acronimo che sta per Coordinamento enti sardi formazione professionale: raggruppa il 90% degli enti del settore. Che ora dicono: «O nella Finanziaria si prendono provvedimenti o questa è davvero la fine di un’esperienza storica». A lanciare il nuovo, disperato, grido di dolore sono stati ieri i rappresentanti di 11 enti del comparto, secondo cui «l’obiettivo di riforma del sistema proclamato dalla giunta ha rivelato solo di essere finalizzato all’azzeramento degli organismi che hanno operato in base a regole stabilite dalla stessa Regione». «Nel 2007 — ha ricordato Antonio Ganadu, amministratore dello Ial Sardegna — il presidente Soru aveva detto che quello sarebbe stato l’anno della svolta per la formazione professionale. Ora appare chiaro che s’è trattato solo di propaganda». Un’affermazione dura, che gli esponenti del Cesfop fondano su alcuni numeri del ministero del Lavoro: se nel 2006, a livello nazionale, alla formazione professionale sono andate il 3,6% delle risorse, la Sardegna s’è fermata a quota 0,17%. Non solo: «Dal 2004 — ha riferito Mario Medda, altro esponente dello Ial — abbiamo ricevuto 10 milioni di euro in meno ». Un disastro perché, ha fatto notare Luisa Zedda, rappresentante dello Isforcop, «gli importi erogati non bastano a consentire la copertura dei costi del personale». Proprio questo è uno dei nodi della questione perché, sottolineano dal Cesfop, «in questi anni ci siamo fatti carico del costo del personale, annullando le procedure di licenziamento ». Una pratica avviata in virtù di accordi, «anche informali », presi tra sindacati e Regione, che puntavano a trovare una soluzione. «Purtroppo però — è la denuncia — gli accordi non sono stati rispettati, e la conseguenza è stata una situazione di forte sofferenza finanziaria degli enti, aggravata dalla scelta della Regione di ridurre i finanziamenti ». Non bastasse questo, rincara la dose il Cesfop, ecco un altro fatto: «Gli ultimi bandi prevedevano requisiti d’accesso che, di fatto, hanno escluso gli enti di formazione regionale, no- profit, avvantaggiando invece società, Srl o Spa, provenienti da fuori». Da qui l’appello rivolto a «tutte le forze politiche in Consiglio regionale» affinché «si eviti la chiusura di questi enti, e al contempo, non vadano perse le competenze e le buone prassi prodotte negli anni». Se ne gioverebbe il sistema istruzione in Sardegna, sottolineano gli enti, ma anche le 200 persone che fanno formazione seriamente e che, se non ci fosse un’alternativa, rischierebbero il licenziamento. ______________________________________________________________ La Repubblica 6 feb. ’08 NELL’ITALIA DEI LAUREATI CHE NON SANNO SCRIVERE MICHELE SMARGIASSI Dirimere un’ambiguità lessicale è un problema per un laureato su cinque. A dir la verità, anche solo comprendere la frase che avete appena letto è un problema per un laureato su cinque. «Termini come dirimere, duttile, faceto, proroga si trovano comunemente sui giornali, ma per molti italiani con pergamena appesa al muro sono parole opache». Luca Serianni, linguista all’università di Roma 3, ne fece esperienza diretta un giorno nell’ambulatorio di un dentista cui s’era rivolto per un’urgenza. «Con le mie lastrine in mano chiamò al telefono un collega per avere un parere: “Senti caro, aiutami a diramare un dubbio...”». E il professore sudò freddo: «Un medico che non sa maneggiare le parole è un medico che non legge, quindi non si aggiorna, quindi forse non sa maneggiare neanche un trapano». Analfabeti con la laurea. Non è un paradosso. E nessuno s’offenda: ci sono riscontri scientifici. Il report2006 del ramo italiano dell’indagine internazionale All-Ocse ( Adult Literacy and Life Skill), coordinato dalla pedagogista Vittoria Gallina, non lascia spazio a dubbi: 21 laureati su cento non riescono ad andare oltre il livello elementare di decifrazione di una pagina scritta (il bugiardino di un medicinale, le istruzioni di un elettrodomestico). Enon sanno produrre un testo minimamente complesso (una relazione, un referto medico, ma anche una banale lettera al capocondominio) che sia comprensibile e corretto. Una minoranza? Sì: un laureato italiano su due, per fortuna, raggiunge il quinto e massimo livello. Ma è una minoranza terribilmente cospicua, anche se si maschera bene. Negli Usa tre anni fa fu uno shock scoprire che i graduate fermi al livello base sono il 14%. Da noi il buco nero si manifesta a tratti, in modo clamoroso, come un mese fa, a Roma, al termine dell’ultimo dei concorsi per l’accesso alla magistratura. Preso d’assalto da 4000 candidati, in gara per 380 posti. Nonostante questo, 58 posti sono rimasti scoperti: 3700 candidati, tutti ovviamente laureati (magari anche più) hanno presentato prove irricevibili sul piano puramente linguistico. «Per pudore vi risparmio le indicibili citazioni», commentò uno dei commissari d’esame, il giudice di corte d’appello Matteo Frasca. Il campanello d’allarme dovrebbe suonare forte. Non si tratta più di scandalizzarsi (e divertirsi) per gli strafalcioni nozionistici degli studenti. No, episodi come il concorso di Roma mettono a nudo il grado zero del problema. Stiamo parlando di chi è senza parole. Di chi dopo cinque (sei, sette...) anni di studio universitario non è riuscito a mettere nella cassetta degli attrezzi le chiavi inglesi del sapere: grammatica, ortografia, vocabolario. Analfabetismo: anche questa parola sembrava scomparsa dal lessico, ma per esaurimento di funzione. Consegnata ai ricordi in banco e nero del maestro Manzi. Falsa impressione, perché di italiani che non sanno leggere né scrivere se ne contavano ancora, al censimento 2001, quasi ottocentomila. Se aggiungiamo gli italiani senza neanche un pezzo di carta, neppure la licenza elementare, arriviamo a sei milioni, con allarmanti quote di uno su dieci nelle regioni meridionali. Ma almeno sono numeri che scendono. Aggrediti dal lavoro di meritorie istituzioni come l’Unla, capillarmente contrastati dai corsi ministeriali di alfabetizzazione funzionale per adulti dell’Indire (frequentati l’ultimo anno scolastico da 425 mila persone, tra cui, guarda un po’, 30.407 laureati, in gran parte, però, stranieri). Nobilmente contrastato ai livelli più bassi della scala del sapere, però, ecco che l’analfabetismo riappare dove meno te l’aspetti: ai vertici. Gli studiosi, è vero, preferiscono chiamarlo Al concorso per magistrati 3700 candidati bocciati: “Testi troppo sgrammaticati” illetteratismo : non si tratta infatti dell’incapacità brutale di compitare l’abicì, di decifrare una singola parola; ma della forte difficoltà a comunicare efficacemente e comprensibilmente con gli altri attraverso la scrittura. Ma non è proprio questo l’analfabetismo più minaccioso del terzo millennio? Nadine Gordimer, per il bene della sua Africa, è di questo analfabetismo relativo che ha più paura: «Saper leggere la scritta di un cartellone pubblicitario e le nuvolette dei fumetti, ma non saper comprendere il lessico di un poema, questa non è alfabetizzazione». Siamo sicuri che l’Italia di Dante sia messa meglio del Sudafrica? Proprio no. Per niente sicuri. Quanti, del nostro già magro 8,8% di laureati (la media dei paesi Ocse è del 15%), leggono ogni giorno qualcosa di più delle réclame e delle didascalie della tivù? Quanti invece sono prigionieri più o meno consapevoli di quella che Italo Calvino chiamò anti l’ingua ? Non saper scrivere nasconde il non saper leggere. Sette laureati su cento non leggono mai (e sono quelli che hanno il coraggio di dichiararlo all’Istat: mancano quelli che se ne vergognano). Altri sette leggono solo l’indispensabile per il lavoro: e siamo già vicini al fatidico uno su cinque. Ma andiamo avanti: uno su tre p ossiede meno di cento libri, praticamente solo i suoi vecchi testi scolastici. Uno su cinque non ha in casa un’enciclopedia. Quasi nessuno (73 per cento) va in biblioteca, e quando ci va, raramente prende libri in prestito. «Manca il tempo», «sono troppo stanco», le scuse più comuni. Ma ci sono anche quelli che non accampano giustificazioni imbarazzate, anzi rivendicano il loro illetteratismo come atteggiamento moderno e aggiornato: «leggere oggi non serve», «è un medium lento», «preferisco altre forme di comunicazione sociale». «La società sprintata», come la chiama il pedagogista Franco Frabboni, preside di Scienze della formazione a Bologna, uno degli autori della riforma universitaria, è arrivata negli atenei. E gli atenei la assecondano: «La trasmissione del sapere universitario è regredita dalla scrittura all’oralità», spiega. Nelle aule della nostra istruzione superiore, il grado di padronanza della lingua italiana non è mai messo alla prova. Persino l’arte dell’argomentazione orale, ponte fra i due universi semantici, è svanita, racconta Frabboni: «Professori sempre più incerti fanno lezione con diapositive, seguendo una traccia fissa. Ai laureandi si lascia esporre la tesi con presentazioni powerpoint . I “test oggettivi” d’ingresso sono crocette su questionari». La competenza linguistica non è considerata un pre-requisito indispensabile: «Devi guadagnarti cinque crediti per la lingua straniera, e cinque per l’informatica, ma non c’è alcun obbligo per quanto riguarda la buona pratica dell’italiano». Un tacito accordo fissa tetti massimi di lettura ridicoli per i testi d’esame: «Quando un professore assegna più di 150-180 pagine, davanti al mio ufficio c’è la fila di studenti che protestano». Protestano, e poi si sfracellano contro il muro dell’esame. Sugli esiti dell’idiosincrasia per la lettura, agenzie private di tutoraggio hanno costruito imperi aziendali, come il Cepu, diecimila studenti l’anno. «Ci chiedono di aiutarli a passare un esame», racconta il responsabile marketing Maurizio Pasquetti, «ma scopriamo quasi sempre che alla radice c’è la difficoltà o la paura di affrontare testi scritti. Escono da scuole superiori abituati a libri di testo ancora simili a quelli delle elementari, con testi spezzettati, già schematizzati, con tante figure e specchietti: di fronte al terribile “libro bianco”, fatto solo di pagine di scrittura continua, restano terrorizzati». «In Francia e Germania gli atenei organizzano gare di ortografia », sospira il professor Serianni. Da noi è difficile perfino reclutare iscritti per i laboratori di scrittura che alcuni atenei, allarmati, hanno messo a disposizione degli studenti in debito di lingua. Quello di Modena è affidato al professor Gabriele Pallotti: «Di solito comincio da virgole e apostrofi...». Pallotti nel cassetto tiene una cartellina di orrori: email, biglietti affissi alle bacheche, «esito profiquo », «le chiedo una prologa », «attendo subitanea risposta». Ma correggere le asinate non è ancora abbastanza. «Saper annotare correttamente parole sulla carta non è saper scrivere », spiega. «Parlare e scrivere sono due diversi modi di pensare. Troppi ragazzi escono dall’università sapendo solo trascrivere la propria oralità, ovvero un flusso continuo di idee non ordinato e difficilmente comunicabile. Cioè restano mentalmente analfabeti». Ma se avessero ragione loro? Perché alla fine si scopre che il laureato analfabeta non fa necessariamente più fatica a trovare lavoro rispetto ai suoi quattro colleghi più letterati. Le imprese non sembrano granché interessate a selezionare i propri quadri dirigenti sulla base delle competenze linguistiche di base. E non perché non si accorgano delle deficienze dei loro nuovi assunti. Parlare con Carlo Iannantuono, responsabile delle risorse umane per la filiale italiana della Sandik, una multina- zionale del ramo macchine per cantieri, reduce da una lunga selezione di personale laureato, è come farsi raccontare una serata allo Zelig: «Quello che se potrei, quello che s’è laureato per il rotolo della cuffia (e si vede), quello cheg lielo dico così, an fasàn (e io: e dü pernìs ...)...». Gli analfabeti conclamati, calcola, sono solo un 3-4 per cento, ma molti altri non sembrano pienamente padroni delle loro parole. E lei li assume lo stesso? «Dipende», si fa serio, «noi cerchiamo bravi venditori. Quello che deve discutere con i dirigenti della Snam è meglio sappia i congiuntivi. A quello che deve convincere un capocantiere della Tav forse serve di più un buon paio di stivali di gomma». «Non c’è alcuna sanzione sociale verso l’analfabetismo con laurea », commenta con sconforto Tullio De Mauro, il padre degli studi linguistici italiani. Forse perché non si riconoscono immediatamente, si mascherano bene da alfabetizzati. «Fino a cinquant’anni fa l’incompetenza linguistica era palese: otto italiani su dieci usavano ancora il dialetto. Oggi il 95 per cento degli italiani parla italiano. Ma che italiano è? Solo in apparenza parliamo tutti la stessa lingua. Quando si prende in mano una penna, però, carta canta, e le stonature si sentono». Non è una questione di stile: l’analfabetismo laureato può fare danni concreti. Il paziente che legge sulla sua prescrizione medica «una pillola per tre giorni», alla fine del terzo giorno avrà preso tre pillole o una sola? «Ci sono guasti immediati come questo. Ci sono guasti a medio e lungo termine, e ben più pericolosi. Chi non legge smette anche di studiare. In Italia solo un venti per cento di quadri segue corsi di aggiornamento: quattro volte meno della media europea. Una classe dirigente male alfabetizzata, quindi non aggiornata, è la rovina di un paese, molto più di un crollo della Borsa». Chi parla male pensa male e vive male: è ormai un aforisma, quella battuta di Nanni Moretti. Se pensa male anche solo un quinto dell’ élite dirigente, per De Mauro è un’emergenza nazionale: «Per il futuro economico del nostro paese migliorare l’italiano degli imprenditori, dei professionisti, dei politici, è perfino più vitale e urgente che migliorare i salari dei dipendenti. E non lo prenda come un paradosso». ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 5 feb. ’08 A SCUOLA BOCCIARE NON SERVE I dati statistici sulla «strage» in prima superiore Circa il trenta per cento dei ragazzi vanno in crisi dopo le medie di Franco Enna Giunti al tramonto della seconda Repubblica, due notizie apparentemente clamorose, provenienti dal mondo della scuola, chiudono la legislatura, lasciando aperte le porte ad altre complicate forme di restaurazione pedagogica che hanno contraddistinto la fine del vecchio millennio e l’inizio del nuovo. La prima notizia è di un mese fa e racconta di un’indagine demoscopica secondo cui ben 60 alunni italiani di seconda media su 100 non sanno che l’alternanza del giorno e la notte è dovuta alla rotazione terrestre. Quasi inverosimile, visto che nelle nostre scuole si parla di pianeti e di rotazioni d’ogni tipo fin dalla prima infanzia. La seconda notizia - collegata alla scadenza delle iscrizioni ai gradi successivi di scuola - è di questi giorni: circa il 30% di alunni tredicenni vengono regolarmente bocciati in prima superiore. E qui qualcosa non torna, perché sembrerebbe che si parli sempre degli stessi alunni, visto che a tredici anni un ragazzo è ancora in seconda media e non in prima superiore. Non voglio dire, naturalmente, che si tratti di informazioni superficiali, ma più semplicemente di notizie incomplete ancorché clamorose. Nel primo caso, un dato statistico, di per sé più curioso che probante, diventa fondamentale per determinare l’incapacità a conoscere i fenomeni astronomici da parte dei nostri ragazzi, senza valutare la complessità degli stessi test delle agenzie di indagine, sempre più simili ai quiz furbetti alla Gerry Scotti, ma soprattutto incapaci di inquadrare il particolare atteggiamento menefreghista dei ragazzini di quell’età. Nel secondo caso, il lapsus dell’età ha un puro valore di curiosità, perché le bocciature sono reali e determinano la ripetizione dell’anno scolastico perduto, se non addirittura l’abbandono definitivo degli studi. In questo caso, gli alunni respinti in prima classe andranno a far parte di quel 45% degli italiani che non raggiunge la maturità, mentre meno della metà dei diplomati tocca il traguardo della laurea; ma quel che è peggio è che, fino a 5 anni fa, poco più del 50% dei nostri ragazzi raggiungeva la licenza media, e non sembra che la situazione sia cambiata. Un’ipotesi di soluzione almeno al problema delle bocciature in prima superiore era già presente nella riforma del ministro De Mauro del 2001, in cui era previsto un biennio intermedio di orientamento degli alunni verso la scuola superiore, che sarebbe dovuto essere gestito in gran parte dai docenti della scuola media, meglio attrezzati su questo versante dei loro colleghi delle superiori. Ma le soluzioni vere dovranno essere ricercate nella ripresa degli studi sulle problematiche dell’età evolutiva di Jean Piaget e Howard Gardner. E soprattutto sarebbe utile rileggere con più attenzione la premessa ai programmi per le scuole superiori del vecchio Progetto Brocca. E’ importante che si sappia, sostengono quei programmi, che ogni adolescente è una sorta di bomba biologica, in cui convivono profonda vulnerabilità psicologica e dinamismo, individualità sfrenata e gregarismo, voglia di conoscere e menefreghismo, necessità di affetto e ribellismo; hanno, sembra, una visione ottimistica del futuro, ma vivono soltanto il presente. Vogliamo continuare a bocciarli per questo o tentiamo prima di capirli meglio? ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 3 feb. ’08 SAVONA: «TRASFERIAMO A NUORO LE UNIVERSITÀ DI CAGLIARI E SASSARI» L’economista cagliaritano incontra in città gli studenti dell’Istituto tecnico “Satta” Il sogno di continuare gli studi a Nuoro Paolo Savona tra i difensori dell’Università di Nuoro. Le opinioni dei futuri diplomati. Chi pensa che i giovani nuoresi preferiscano costruirsi un futuro lontano da casa, si sbaglia di grosso. Al contrario sognano una città “giovane” dove poter prepararsi alle sfide del domani, senza essere costretti ad emigrare. La platea di studenti che si è presentata all’economista Paolo Savona in occasione del seminario promosso dal Lions club era composta di maturandi consapevoli e preoccupati per il futuro della città capoluogo. Le quarte e le quinte classi dell’istituto tecnico “Satta” hanno ascoltato con attenzione la lunga relazione fatta del professionista cagliaritano senza perdere di vista ciò che, nel contingente, sta loro più a cuore: il futuro dell’università nuorese. LA PROVOCAZIONE Argomento a cui non si sottrae Savona: «Chiudiamo Sassari e Cagliari e apriamo a Nuoro. La Barbagia di Grazia Deledda e di Salvatore Niffoi ha una cultura forte, radicata sotto molti punti di vista - sottolinea l’economista - si sta concentrando tutto nella città capoluogo di Regione e la politica deve fermare questo accentramento: l’università è la base, non la soluzione per cogliere gli effetti positivi del sistema». Idealmente erano al fianco degli universitari che venerdì scorso hanno sfilato per il centro di Nuoro, reclamando il diritto allo sviluppo e allo studio. «Credo che chiudere l’università sia una grossa stupidaggine - lamenta Sebastiano, studente della quinta D - ci sono tanti ragazzi che non possono permettersi di vivere lontano da casa. Inoltre Nuoro non offre niente a noi giovani, ha un’economia chiusa, ci sono già pochi servizi e uffici e stanno chiudendo tutto. Così non si crea sviluppo, per invertire la tendenza ci dovrebbero essere turismo, fabbriche e innovazione tecnologica. Questa scuola ci sta dando una buona preparazione, ma non credo che fuori da qui si possa trovare una realtà dove mettere a frutto ciò che stiamo imparando». LE CRITICHE Agli occhi dei giovani Nuoro appare come una città poco vitale, ai margini del dibattito internazionale sul mondo globale. «Che si stia chiudendo l’università è un fatto gravissimo - sbraita Andrea Pulloni, della quinta D - spero che almeno diano la possibilità a chi sta frequentando di ultimare i corsi. Non c’è interesse da parte degli amministratori a far diventare questa una città universitaria, si sta solo favorendo il potenziamento di Cagliari. È però vero anche che la laurea presa a Cagliari vale più di quella presa a Nuoro. Chi ha le possibilità sceglie addirittura di fare i primi tre anni a Cagliari e gli altri due a Roma». Insomma a potersi permettere di diventare dottore in passato erano in pochi, oggi che il numero dei laureati supera la domanda, c’è una corsa generale ad acquisire priorità e punteggi per conquistare un posto di lavoro. I PROBLEMI «Non è giusto neppure che chi ha iniziato gli studi qua a Nuoro, non debba portarli a termine: a mia cugina mancano quattro esami ed ora sarà costretta a trasferirsi a Cagliari per avere un pezzo di carta che si è sudata con tanti sacrifici», aggiunge Andrea Pulloni. «Ho due sorelle che lavorano e studiano - interviene Giusy Ganga - ora dopo tanti sacrifici rischiano di dover interrompere gli studi, io stessa avrei preferito rimanere in città invece la facoltà che voglio frequentare non c’è e purtroppo dovrò andare a Sassari». LE SPERANZE Non è solo una questione di possibilità economiche, alcuni giovani difendono il diritto di poter restare nella città dove sono nati e cresciuti, dove hanno i loro punti di riferimento. «Non abbiamo ancora scelto cosa fare dopo il diploma - dichiarano Andrea Secchi e Giuseppe Goddi - staremo a vedere cosa succede con l’università nuorese, sicuramente se le cose dovessero cambiare, sceglieremo di restare in città». MARIA BONARIA DI GAETANO ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 2 feb. ’08 SENATO ACCADEMICO: MINIMO DI SEI APPELLI ALL'ANNO Università. La novità Il Senato accademico mette la parola fine al far west dei calendari degli appelli all'Università. Fino all'anno scorso ogni docente decideva in modo autonomo, e in alcune facoltà si poteva arrivare anche ad avere soltanto tre appelli in dodici mesi. Con il voto dell'altro giorno i componenti del Senato hanno stabilito il tetto minimo di sei. «È un risultato importante - commenta Maurizio Deiana, rappresentante degli studenti - perché si mette la parola fine ad alcune situazioni che erano diventate insopportabili. C'erano docenti che facevano penare gli studenti con pochi appelli. Questo era possibile perché non c'era un regolamento. Ora finalmente c'è una regola precisa». La novità è stata inserita nell'articolo 20 del regolamento didattico, dopo le numerose proteste degli universitari, in particolare delle facoltà di Economia e Giurisprudenza, dove gli appelli erano troppo pochi. La modifica è stata predisposta da una commissione didattica formata da cinque componenti: uno studente (Deiana), tre docenti e uno del personale tecnico amministrativo. Ai lavori ha partecipato anche il pro rettore alla Didattica. Ma il tetto minimo degli appelli non è l'unica novità emersa in una delle ultime sedute del Senato accademico. Si è discusso anche di riorganizzazione e razionalizzazione dei corsi di laurea. L'offerta formativa 2008/2009 prevederà una riduzione dei corsi che scenderanno da 103 a 96. Il rappresentante degli studenti, Alessandra Frau, ricorda un'altra situazione paradossale che è stata risolta: «C'erano dei corsi di laurea triennale, come quello di Psicologia, che prevedeva 49 esami. Anche in Biologia si arrivava a superare le trenta prove prima di arrivare alla conclusione del percorso di studi. Questo perché esistevano esami che assegnavano un numero di crediti bassissimo. Anche in questo caso il Senato accademico ha deciso di introdurre delle modifiche stabilendo in 20 il numero massimo di esami per i corsi di laurea triennali e in 12 per le specialistiche. Variazioni anche per le lauree a ciclo unico di cinque anni, con un massimo di 30 esami, e per quelle della durata di sei anni, con un tetto di 36 prove». L'Università cagliaritana inizia a seguire le linee dettate dal decreto Mussi che puntano a una riduzione dei corsi e a frenare l'eccessiva frammentazione didattica. (m. v.) ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 1 feb. ’08 UNIVERSITÀ, DIMINUISCONO GLI ISCRITTI Calo “fisiologico” dovuto a questioni economiche e demografiche Meno 77 matricole Ma alcune facoltà sono in crescita Università, calano le iscrizioni La flessione è di 77 immatricolazioni. Nessuno drammatizza Le cause: aumento delle tasse, questioni demografiche, scelte più oculate CAGLIARI. Un’università che cresce e va avanti? Chissà, per adesso il cammino sembra quasi quello d’una lumaca, perché con le sue 5.039 immatricolazioni nell’anno accademico in corso l’ateneo cagliaritano sembra subire, rispetto ad esempio all’anno scorso, quando gli immatricolati sono stati 5.116, una leggera flessione. Niente di grave, giurano e spergiurano gli addetti ai lavori, al più si può parlare di un calo “fisiologico”. Ma se si pensa al tanto sbandierato rilancio delle università, c’è da chiedersi perché allora i numeri non crescano. Il calo (si parla di 77 sette matricole in meno, secondo dati dell’Università aggiornati al 15 dicembre) non è generalizzato. Perdono pezzi, Architettura (29 iscritti in meno), Economia (-64), Lingue e Letterature straniere (-7), Scienze (-71) e Scienze Politiche (-53), mentre ci guadagnano Farmacia (+16 studenti rispetto allo scorso anno), Giurisprudenza (sei matricole in più), Ingegneria (+44), Lettere e Filosofia (+42) e Scienze della formazione (+ 7). Uno sguardo ancora più approfondito, mostra anche come al primo posto nelle preferenze di chi si iscrive all’università per la prima volta ci sia stata la facoltà di Scienze (686 immatricolazioni), seguita a ruota da quella di Scienze politiche (649), Economia (621), Ingegneria (589) e Giurisprudenza (566). ‹‹Leggere un calo anche piccolo delle iscrizioni come un campanello d’allarme può essere fuorviante anche perché ancora non sappiamo a cosa sia dovuto - è l’opinione di Raffaele Paci, preside della facoltà di Scienze politiche - In generale potrei pensare che sia l’effetto dell’aumento delle tasse, ma non escludo neppure un’altra ipotesi: l’effetto dell’andamento demografico››. E poi non va trascurato un altro fatto, fa notare Paci: con l’avvio dell’e-learning l’anno scorso le iscrizioni sono aumentate, e semmai è stato questo il dato anomalo. Di calo fisiologico, dovuto al fatto che le nuove generazioni di potenziali universitari appartengono a un periodo in cui c’è stata una contrazione delle nascite, parla anche il docente di Diritto del lavoro Gianni Loy: ‹‹Fossimo stati in altre parti d’Italia, dove la concorrenza tra atenei è forte, avrei potuto pensare a una fuga da un’università all’altra - dice Loy - Non mi sembra però questo il caso della Sardegna: isolata com’è, e con famiglie che per la maggiore non possono permettersi di mandare a studiare un figlio fuori, direi che le minori iscrizioni siano solo una questione demografica››. Roberto Crnyar, preside della facoltà di Scienze, fa invece un altro ragionamento e parla di “pulizie di primavera”, ovvero di quel meccanismo messo in moto dall’università per orientare gli studenti ed evitargli perdite di tempo, che ha forse permesso di far diminuire il numero degli “universitari fantasma”. ‹‹Si tratta di quegli studenti che non danno esami, solitamente un buon 20 per cento del totale, che s’iscrivono all’università senza esserne davvero convinti, magari in attesa di trovare altro, o solo perché lo status di universitario li difende da attacchi e pettegolezzi di genitori e parenti››. Al di là di tutto, resta comunque il sospetto che l’università stia vivendo un momento di crisi: non più tardi di ieri, il giornalista Beppe Severgnini in un suo editoriale scriveva a proposito di università che ‹‹un sistema che permette tre, cinque, dieci anni di fuori corso è un invito alla sciatteria e una ricetta per il fallimento››. Eppure le colpe, osserva il sociologo Gian Franco Bottazzi, non vanno imputate tutte all’università, ma alla società in cui viviamo, di cui la prima è solo una componente: ‹‹L’università - dice Bottazzi - ha bisogno di rifondarsi, ma non può farlo da sola, perchè è necessario creare, ad esempio, un mercato del lavoro diverso, e far sì che anche le aspettative dei giovani e delle famiglie siano diverse››. Non solo: se prima l’università preparava i dirigenti di domani, oggi bisogna capire che può sfornare anche laureati che mai saranno dirigenti. Anche se il punto vero, è l’amara conclusione di Bottazzi, è che viviamo in una società dove il denaro viene prima di tutto. E allora un’università che produca cultura, come dovrebbe essere, diventa quasi un optional. Sabrina Zedda CAGLIARI. Calano le iscrizioni all’università. L’ateneo cagliaritano subisce rispetto all’anno scorso, quando gli immatricolati sono stati 5.116, una leggera flessione. Niente di grave, giurano gli addetti ai lavori, che parlano di calo “fisiologico” dovuto a questioni demografiche e difficoltà economiche. Il calo (si parla di 77 matricole in meno, secondo dati dell’Università aggiornati al 15 dicembre) non è generalizzato. Perdono pezzi Architettura (29 iscritti in meno), Economia (-64), Lingue e Letterature straniere (-7), Scienze (-71) e Scienze Politiche (-53), mentre ci guadagnano soprattutto Farmacia (+16 studenti), Ingegneria (+44), Lettere e Filosofia (+42). ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 7 feb. ’08 L’INNOVAZIONE PASSA PER CAGLIARI Cagliari città illuminata. Questo il titolo del progetto che sta attraversando l’Italia per scoprire il potenziale innovativo delle città. Organizzato dal Sole-24 Ore, Nòva24 e dall’Ocse, il progetto ha fatto tappa nell’isola per mettere in luce il potenziale di ricerca innovativa di Cagliari. La manifestazione, coordinata dal giornalista del Sole 24 Ore Luca De Biase, è stata aperta dall’assessore comunale all’Urbanistica Gianni Campus che, davanti al presidente della Regione Renato Soru, ha sottolineato il ruolo fondamentale svolto dalle città: «Cagliari sta crescendo e sta scommettendo sulla capacità di strutturarsi in modo complesso per diventare una città moderna», ha aggiunto. ECCELLENZE Il più ottimista di tutti è stato l’americano, ormai trapianto nell’isola, Jon Brownstein che ha iniziato con Video On Line. Nata dal nulla, ma con buone idee, oggi la sua società (NotOn Tv) distribuisce new media in tutto il mondo. Come ultimo affare l’azienda sarda ha comprato i diritti digitali televisivi della fondazione Nelson Mandela. Importante anche lo studio raccontato da Aldo Muntoni, professore di Geoingegneria e tecnologie ambientali all’università di Cagliari, per trasformare i rifiuti solidi in idrogeno con il doppio risultato di smaltire la spazzatura e produrre energia senza emissioni utilizzando la trasformazione batterica. Fiore all’occhiello del Sud Sardegna anche la PharmaNess, il centro di ricerche indipendente più grande d’Europa, nato dall’esperienza dell’Università di Cagliari e del Cnr. Uno dei progetti di punta è stato quello di poter raffigurare in 3D l’anatomia del cervello di un ratto, e si studia anche come un corpo umano metabolizza le medicine. ( an. ber. ) ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 6 feb. ’08 ANTONIO ROMAGNINO, CANTORE E CRITICO DELLA CITTÀ DEL SOLE Le mie tre icone: Castello, San Benedetto e Monte Urpinu CAGLIARI. Canto d’amore alla città del sole: l’esistenza di Antonio Romagnino insegnante, giornalista, scrittore e poeta cagliaritano potrebbe essere sintetizzata in questo atto di fede. L’intellettuale che percorre con passo agile e in piena forma fisica il viale alberato della sua terza età (da due mesi è un novantenne fiorente) parla sempre volentieri della sua città natale, quella di ieri e quella di oggi, dall’infanzia nel quartiere nobile di Castello alla sua residenza attuale ai piedi del Monte Urpinu, uno dei luoghi incantati della Cagliari del nuovo millennio. Continuano ad affascinarlo i luoghi della patria del cuore, nelle passeggiate a piedi e nei percorsi quotidiani in filobus e in autobus. E la vorrebbe più vicina al cuore dei giovani cagliaritani di oggi, questa sua città inondata di luce anche nelle mattinate gelide di gennaio. La chiacchierata con lui nell’attico della sua casa di via Gazano, la stessa strada in cui visse il compianto linguista bonorvese Antonio Sanna, muove dalla Cagliari degli anni Venti. Da un ricordo di scuola, più precisamente: la rievocazione del suo compagno di banco che sarebbe poi divenuto un attore comico: Gianni Agus. «La mia città di allora aveva quello che poi non ha più avuto: la filodrammatica. C’erano i grandi animatori: i Girau, per esempio, che facevano i registi. Gianni Agus è nato lì, poi ha fatto il concorso al centro sperimentale di cinematografia. Gianni era mio compagno di banco, ogni giorno mi rubava la merenda e poi rideva di gusto. Era un ragazzino gioioso. Ma io piangevo. Eravamo in Castello: lui veniva da Villanova, io abitavo in via Lamarmora, s’arruga dereta chi dereta no est, chissà perché era chiamata via dritta». Per il professor Romagnino la via Lamarmora «si può prendere a simbolo di una città finita. Quella via stretta, con i balconi dei due lati vicinissimi tra loro, produceva una civiltà. In Castello c’era una comunità vera. Don Mondino De Magistris era un medico prestigioso, ma anche un personaggio influente nel quartiere con i diversi ceti: borghesi, popolani, nobili». Antonio Romagnino parla di una vera e propria “civiltà del balcone” in una Cagliari ormai scomparsa. «Io ci torno spesso, ma le finestre sono chiuse. Non lo riconosco più, il mio quartiere. La finestra di una volta era amicizia e conflitto, le donne erano le regine. E i ceti diversi erano fra loro in comunicazione fiduciosa». La decadenza del quartiere più alto di Cagliari inizia dalla perdita progressiva delle scuole: il liceo musicale, il ginnasio Siotto vicino alla torre e alla chiesa di San Giuseppe, l’istituto magistrale che era proprio nella via Lamarmora. Castello era - ed è - anche il rione della cattedrale. «Con mia moglie alla vigilia delle nozze c’è stato il problema della differenza del quartiere», racconta il professore. «Lei veniva da Villanova e gradiva sposarsi a San Giacomo, la sua chiesa, anziché in cattedrale. Io l’ho accontentata ma mi sono dovuto giustificare con l’arcivescovo». Già. C’era un rapporto intenso tra l’autorità e il popolo, che andava al di là del rito. «Immaginiamo che cosa era l’arcivescovo nella vita pubblica», invita a meditare Romagnino. «Contava quanto il prefetto. I due palazzi, Arcivescovado e Prefettura, erano nella stessa piazza di Castello». La poesia del quartiere, invece, «era data dal balcone, capace di mettere in comunicazione la gente di ceto diverso. Attraverso il balcone si comunicava e insieme ci si sosteneva, erano tempi difficili». Ha conosciuto anche la fame, lui, l’ha vista in faccia? «In faccia no, l’ho vista nel racconto degli altri. Ho fatto una guerra lunga, io, in Africa prima e negli Stati Uniti poi, prigioniero degli americani per due anni e mezzo. Quei racconti si riferivano allo spopolamento di Cagliari, quando i cagliaritani benestanti andarono a vivere nei paesi del Campidano. Gli aspetti più dolorosi della guerra nascevano dall’impossibilità di avere un rifugio in campagna nei bombardamenti aerei. Però chi l’ha avuto, questo aiuto, lo ricorda in maniera positiva. La campagna del Campidano, nelle narrazioni che ne fecero poi i cagliaritani, era stata un grande sostegno alla città bombardata. Noi avevamo il privilegio di avere il legame parentale fuori città, mia madre era di Serramanna». Guerra lunga, dal 1943 al 1945. «Io sarei potuto venire a Cagliari, invece mi impuntai per andare in Africa, ero un pò acceso in quella direzione. Ho fatto la guerra dopo El Alamein, tutta la ritirata. Fui catturato in Africa dagli Inglesi, che però avevano un gran numero di prigionieri italiani e chiesero agli Americani di prendersene una certa quantità. Così sono finito negli Usa, esattamente nel Missouri, per due anni e mezzo». Nel 1945 il ritorno a Cagliari. E l’inizio della carriera di insegnante di italiano e latino. Qui il professore si illumina. «Mi piaceva la cattedra, la lezione che sostenevo. Avevo fatto precedentemente un’esperienza a Iglesias nel 1939, appena laureato. A Cagliari, nel 1945, molte cattedre erano scoperte: ebbi l’incarico prima alle magistrali e poi al Liceo Dettori. A me insegnare piaceva, fammelo dire, a volte parlavo per un’ora, tra una campana e l’altra. La mia era un’orazione: ho sempre curato molto la forma. Prevaleva la parola detta sulla lettura. C’era una comunicazione affettuosa tra ragazzi e insegnanti e un bel rapporto con le famiglie. Tra le cose importanti della mia esperienza scolastica metto i colloqui periodici con i parenti degli alunni, spesso alla presenza degli stessi ragazzi. Non voglio essere severo, ma molti questa esperienza l’hanno dimenticata. Nei miei trent’anni di docenza vedo il meglio che la vita mi abbia potuto offrire, soprattutto al Dettori. Per me quell’esperienza è anche di ordine sentimentale, affettivo. Il preside Rachel, uomo di valore, diceva sempre, a proposito della durata dei colloqui: «Ma non dd’acabbais prus, ma non la finite più? In realtà quella battuta rimarcava la grande partecipazione dei genitori». Scuola come centralità di un percorso culturale. E l’esperienza giornalistica? «Prima della guerra avevo scritto su giornalini del regime. Quando rientrai dagli Stati Uniti iniziai a collaborare con l’Unione Sarda». Diversi anni dopo un suo ex alunno, Gianni Filippini, divenne responsabile della terza pagina del quotidiano e la collaborazione del professore si intensificò. «Sì, certamente. Gianni era stato un alunno molto bravo ed era già un giornalista brillante. Ho sempre collaborato volentieri con lui». Torniamo al suo rapporto con Cagliari. Come la sente, oggi, questa sua città il professor Romagnino? «Come allora, la mia relazione con Cagliari è rimasta sempre viva. Quando esco a passeggio o attraverso il centro urbano con i mezzi pubblici di cui sono fedele frequentatore, mi torna davanti agli occhi la città che amo. La presenza di Cagliari la porto dal sentimento alla valutazione estetica, continuo a sentirla molto bella. Nelle mie traversate quotidiane ammiro ancora una città di grande bellezza». Dalla terrazza della sua casa si vede la pineta, un quadro straordinario. «Quando ero bambino nella mia scuola di Castello risuonava come in tutte le scuole elementari la promessa della passeggiata. La meta che godeva di maggior fascino in quegli anni remoti era Monte Urpinu. Vivo qui da una quarantina d’anni. Con il matrimonio, dal quartiere di Castello sono andato ad abitare in via Manzoni, rione di San Benedetto, poi sono venuto qui. I miei luoghi cagliaritani del cuore sono tre: Castello, San Benedetto, Monte Urpinu». Ha scritto Victor Hugo: «C’è un’alba indicibile nella vecchiaia felice». ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 5 feb. ’08 QUELLI CHE BUSSANO ALLA FINANZIARIA Mille emendamenti, dalle cozze alla cura dell'incontinenza Tra i mille emendamenti alla Finanziaria, alcune grandi battaglie politiche ma anche molte richieste minime. Ci sono cose che non si possono comprare: per tutto il resto c'è la Finanziaria regionale. Però non basta: per soddisfare le richieste degli 85 consiglieri, di manovre ce ne vorrebbero due o tre. I quasi mille emendamenti alla legge di bilancio descrivono un paesaggio assai frastagliato di esigenze assortite: dalle grandi battaglie politiche alla sistemazione dei marciapiedi del paesello. Proporre richieste minime, sia chiaro, è legittimo e spesso doveroso. E così anche sulla Finanziaria regionale, modellino in scala ridotta di quella nazionale, si aggrovigliano centinaia di operazioni dal sapore territoriale o settoriale. EVVIVA I FORESTALI La premura per determinate categorie, specie se dipendenti regionali, riesce ad affratellare maggioranza e opposizione. Quasi non c'è partito che non si preoccupi dei forestali, ricco bacino elettorale. Scopri allora che Forza Italia ed ex Dl presentano, separatamente, la stessa richiesta di superare i limiti di organico del Corpo forestale per assumere gli idonei ai concorsi. Mentre alle retribuzioni dell'Ente foreste pensano An, Sdi, Fi, Fortza paris. Anche la Giunta dimostra sensibilità, con 9,2 milioni di euro per il contratto integrativo. Quanto a numero di emendamenti, però, vince il personale ex Esaf. Per facilitarne il passaggio alla Regione, dopo che il loro ente è affogato in Abbanoa, ci sono quasi venti richieste di modifica della Finanziaria, da tutto l'arco costituzionale. PAESE MIO Ciò che non tramonterà mai è il cosiddetto «lavoro per il collegio» di provenienza. Ci si impegnano un po' tutti, ma un premio per la costanza spetta ai galluresi. L'arzachenese Giovanni Pileri (Fi) capeggia da un anno la lotta contro le tasse sugli yacht: stavolta ha tentato di farla pagare giorno per giorno e non settimanalmente, ma la maggioranza non ne ha voluto sentire. Renato Lai (Udeur) e Giommaria Uggias (gruppo misto, ex Dl) firmano insieme molte richieste: 577mila euro per l'università decentrata a Tempio e 663mila per quella di Olbia, sempre per Olbia 2 milioni per un centro sportivo e 5 per il secondo lotto dell'ospedale. Uggias, coi suoi amici dell'ex Margherita, spera di strappare anche un milione per i danni alle coltivazioni di cozze dopo l'alluvione del 2004 (purtroppo non ne potranno beneficiare le cozze che ne furono colpite, che si spera nel frattempo consumate). Ma tutto il mondo è paese, per carità. Domenico Gallus (Fortza paris) da Paulilatino cerca di dirottare un milione e mezzo all'impianto polivalente di Ghilarza; Mariano Contu e altri cagliaritani di Forza Italia puntano a 500mila euro per il "Comitato Cagliari capitale del Regno di Sardegna", in occasione del 150° anniversario dell'Unità d'Italia (che vien male celebrare, anche a voler sorvolare sulla resistenza dello Stato pontificio, prima del 2010-2011). Va menzionata l'assiduità di Gavino Cassano (Riformatori), che non dimentica di provenire da Ossi: se la maggioranza gli desse ascolto, il centro a un passo da Sassari otterrebbe 150mila euro per restaurare la chiesa di Santa Croce, due milioni e mezzo per il raccordo con la strada provinciale, un milione per la viabilità del paese, uno e mezzo per le fogne. L'ex sardista Beniamino Scarpa, di Porto Torres, non riesce a tenergli il passo, ma almeno chiede che nella sua città atterri la sede della società sull'energia tra Regione ed Enea. Cassano poi è attento anche al circondario: vorrebbe un milione e mezzo per l'Argentiera, altrettanto al parco dell'Asinara, uno per Porto Conte, due e mezzo allo stagno del Calic (Alghero). ======================================================= _______________________________________________ Corriere della Sera 7 Feb.‘08 COSI’ SI ORGANIZZA L’OSPEDALE MODELLO Alla clinica Kameda di Komogawa gli impiegati vanno a lezione dalle hostess della Japan Airlines per imparare la "say-yes-culture", cioè a essere gentili coi pazienti. Ma c'è anche il network sudafricano in prima linea nella cura dell'Aids e il centro neurologico hi-tech a Phoenix, in Arizona, intitolato all'ex pugile Cassius Clay, alias Muhammad Ali, che della lotta al Parkinson è diventato un emblema. Unica realtà europea, nella lista dei sei ospedali modello premiati dalla Fondazione Bertelsmann, è l’Ieo di Milano, che ha ottenuto l’Internacional Hospital Bench Marking Award per aver rivoluzionato la cura al paziente oncologico, oltre che come esempio di "ospedale del futuro". Un Oscar della medicina, ambito e prestigioso, che è stato assegnato al termine di una ricerca durata ben dieci anni e affidata al centro di management ospedaliero dell'Università di Westfalia. «Di fronte alla crisi della sanità tedesca, la fondazione (la più grande d'Europa) è andata alla ricerca delle Brest practice, sia a livello di sistemi sanitari sia di istituzioni ospedaliere», spiega Leonardo La Pietra, direttore sanitario dell'Istituto europeo d'oncologia. «II modello, traslato dalla cultura americana, è quello del good management, della trasparenza, dell'apertura agli altri». Dopo una preselezione di 57 candidati, sono stati individuati i sei migliori esempi al mondo di innovazione in campo medico-sanitario. Gruppi privaci, come la rete sudafricana Scellenboch - famosa perché in uno dei suoi ospedali, il Groote Schuur Hospital, Christian Bamard effettuò il primo trapianto di cuore-cd enti pubblici come il National Healthcare group che ha sapientemente gestito l'epidemia di Sats e le ricadute psicologiche dello tsunami nel 2004. Ma anche un'organizzazione no-profit come "Volunteers in medicine", creata 15 anni fa da un medico in pensione che decise di mettere la sua esperienza al servizio degli americani che non potevano permettersi la necessaria assicurazione sanitaria (privata, al contrario di quanto avviene in Italia, ndr). PAZIENTE, NON UN NUMERO «Benchmark, in inglese, è il palo che segna l'altezza delle marce, una specie di pietra di paragone: l'idea è quella di segnalare casi di successo da imitare. Modelli che presentano alcuni aspetti fondamencali in comune», spiega La Pietra. «Innanzitutto l'approccio olistico al paziente, che deve essere considerato mi cliente prima che un malato. Significa riconoscere le sue emozioni, la paura del dolore, dell'isolamento sociale, della perdita di autodeterminazione. Senza dimenticare che spesso l'ambiente di per sé è una cura: è provato che i pazienti che godono di una vista più bella, per esempio su un giardino, guariscono prima degli altri». Altro punto in comune dei sei vincitori è la cultura aziendale che fa sentire tutti i membri dello staff, dal chirurgo all'addetto alle pulizie, come parte, orgogliosa, di un'unica impresa. «Il percorso di cura inizia già al telefono, da come mi risponde la centralinista quando prendo il primo appuntamento», ricorda La Pietra. Altro punto qualificante, in particolare allo Ieo, è la cultura della cooperazione e della multidisciplinarità che assicura al paziente il miglior trattamento possibile: «La strategia terapeutica per ciascun paziente viene discussa in riunioni settimanali alle quali partecipano tutte le divisioni cliniche coinvolte nel processo di cura», si legge nella motivazione del premio. «Inoltre l'Istituto ha attribuito la massima importanza alla creazione e allo sviluppo di un dipartimento di Oncologia sperimentale e di un dipartimento di Epidemiologia e biostatistica che operano in collaborazione con le divisioni cliniche, per integrare sistematicamente ricerca e cura», ROMPERE GLI SCHEMI La ricerca dell'eccellenza, accompagnata da un pizzico di coraggio, può smontare anche in campo sanitario consuetudini e regole spesso inutili («perché mai in ospedale bisogna mangiare alle 11,30 del mattino?», si chiede La Pietra) e spesso permette di compiere quel 1àapfrog - il salto della rana come dicono gli americani o il balzo in avanti come direbbe un analista politico-che è foriero di innovazione. «Ciò che ci differenzia, per esempio, da altri centri internazionali di ricerca, quali l'americano Bethesda, è che noi cerchiamo sempre di far vedere al ricercatore il letto del paziente, cioè quali potrebbero essere le ricadute diagnostiche o terapeutiche dei suoi studi». Un esempio su rutti: il linfonodo sentinella che oggi risparmia alle donne afflitte da tumore al seno operazioni chirurgiche molto più invasive di quanto sia necessario. ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 6 feb. ’08 SANITÀ, LA SARDEGNA È ULTIMA Le cause di uno sfascio che coinvolge tutto il Meridione - Efficacia dell'assistenza: l'isola fanalino di coda tra le regioni italiane Non che questo sia il primo dei campanelli d'allarme sull'allargarsi della forbice tra Nord e Sud per quanto riguarda la salute. Di sicuro, però, è uno dei più fragorosi, dato che a suonarlo è stata l'Associazione dei medici dirigenti, provvisti quindi di una conoscenza della realtà ravvicinata e completa. E lo hanno fatto in un convegno dal titolo «Sud e sanità: una nuova questione meridionale?». La risposta sembrerebbe scontata se si fa riferimento all'analisi di alcuni macroindicatori sintetici di salute, di offerta e di livello socio-economico. Man mano che si scende lungo lo stivale, dalle valli alpine al Canale di Sicilia, si registra un tendenziale peggioramento della situazione della salute. A raccontarlo sono le percentuali contenute in una tabella costruita su dati del ministero della Salute e dell'Istat relativi al periodo tra il 2004 e il 2006. La performance complessiva del sistema sanitario, intesa come raggiungimento dei suoi obiettivi generali, è al massimo al Nord. Il Trentino Alto Adige (74,9), Veneto (58,1), Friuli Venezia Giulia (58,7) svettano in cima alla graduatoria con il più alto indicatore sintetico di salute della popolazione (in cui confluiscono mortalità, morbosità, speranza di vita, stili di vita, prevenzione e autopercezione). La coda della graduatoria è occupata dalle regioni meridionali che la condividono con Lazio (48,0), Umbria (46,2) e Liguria (41,9). Nonostante l'eterno flagello dei rifiuti, la Campania è in una condizione migliore rispetto alle altre regioni meridionali (48,9), tanto da eguagliare una regione come il Piemonte. Fanalino di coda la Sardegna che col 37,9 occupa addirittura l'ultimo posto tra tutte le regioni italiane. Che cosa ci dicono questi dati? Che una parte della popolazione globalmente intesa - quella delle regioni italiane del Mezzogiorno - non è messa nelle condizioni di ricevere il tipo di assistenza sanitaria di cui avrebbe bisogno per prevenire le malattie, curarle e ridurre le probabilità di morte precoce. Per rilevare il carattere iniquo di questa disuguaglianza non occorre scomodare la celebre affermazione di Martin Luther King, per il quale l'immensa, irrisolta esigenza di salute era la «più inumana tra tutte le forme di ineguaglianza» che affliggevano le società povere, dominate e mal governate. Nel convegno si è denunciata anche la crisi del carattere unitario del servizio sanitario. Come ha rilevato tra gli altri il segretario dell'Associazione dei medici dirigenti, Costantino Troise, «c'e' un incremento delle differenze tra Nord e Sud non solo sul piano finanziario ed organizzativo, ma anche per i meccanismi di prevenzione e tutela della salute». E «l'introduzione della devolution in sanità fa sì che il livello di servizi sanitari cui gli abitanti delle regioni povere possono accedere rischia di dipendere essenzialmente dal grado di solidarietà manifestato dagli abitanti delle regioni ricche». In alcune di quelle «povere», per di più, pesano altri fattori, come l'alto potenziale speculativo che in molti casi favorisce il «privato» rispetto al «pubblico» e consente fenomeni di malaffare piuttosto consistenti, legati alla presenza capillare dei partiti e delle lobbies in tutte le fasi dell'organizzazione sanitaria. Una diagnosi impietosa, insomma, quella dei medici dirigenti. C'è da sperare che la prognosi lasci ancora qualche speranza. ______________________________________________________________ Corriere della Sera 31 Gen.’08 INSETTI E RIFIUTI, GLI OSPEDALI FUORILEGGE Dossier dei Nas: irregolare uno su due. Il caso della Toscana Il rapporto Le ispezioni dei carabinieri: medicinali scaduti, cucine senza igiene. E a Palermo scattano i sigilli Fiorenza Sarzanini I risultati dell'indagine ispettiva ordinata agli inizi dello scorso anno dal ministro della Salute Turco ROMA - Medicinali scaduti, cibi andati a male, reparti fatiscenti, impianti fuori norma: in Italia un ospedale su due non rispetta leggi e regolamenti. Ci sono le strutture con «lievi carenze», ma ci sono anche le «gravissime irregolarità» che hanno fatto scattare la chiusura di alcuni reparti oltre alla denuncia contro direttori sanitari e amministratori. Alla fine le persone segnalate sono state ben 778. Il dossier A svelare la «malasanità» Regione per Regione è il dossier dei carabinieri del Nas al termine dell'indagine ispettiva ordinata agli inizi dello scorso anno dal ministro della Salute Livia Turco. Si scopre così che su 854 nosocomi visitati ben 417 sono stati sanzionati. Disastrosa è la situazione del Sud con la Calabria (36 irregolari su 39) e la Sicilia (67 su 81). Più che di ospedali, in queste zone si potrebbe parlare di vere e proprie fogne a cielo aperto dove i rifiuti si accatastano nei corridoi, dove c'è muffa e ruggine nelle stanze e nei corridoi, dove gli impianti non sono a norma, le apparecchiature non funzionano, i medici troppo spesso non vanno al lavoro. Ma a sorprendere sono molti istituti del Nord e del Centro. Perché in Toscana, dove la Sanità è considerata «fiore all'occhiello » la metà dei nosocomi non ha passato l'esame. E anche in Emilia Romagna uno su tre non rientra nei parametri. Perfetta la situazione del Trentino: le diciassette strutture hanno tutte ottenuto «bollino verde». Sporco e umidità C'è sporcizia nel Presidio di Brescia, agli Ospedali Riuniti di Bergamo, nella struttura di Desenzano sul Garda. Sono sudici i locali dove si preparano i pasti per il Civile di Ascoli Piceno, così come quelli per il Villa San Pietro di Roma. Al San Bartolo di Vicenza «si riscontra presenza di materiali di consumo in ambienti inidonei, in quanto stoccati in un corridoio di accesso e collegamento con le sale operatorie». Al Civile di Gorizia piove nei reparti e sono state contestate le condizioni della «farmacia» interna, ma la Asl è già intervenuta per sanare la situazione. Per la gestione delle cucine la Mangiagalli di Milano si è affidata a una società privata, ma i carabinieri hanno trovato «carenze igienico sanitarie ». Stesso problema per il Niguarda e per l'Istituto ortopedico Galeazzi e in alcuni nosocomi della provincia. La gestione del servizio mensa viene spesso affidata ad aziende esterne, ma i risultati non confortano: la ditta per la ristorazione dell' ospedale Maggiore di Novara è stata denunciata per truffa e in altre strutture è stato concesso un termine perentorio per la ristrutturazione dei locali dove vengono cucinati i pasti. Al Civile di Verona in cattive condizioni igieniche era il magazzino per la conservazione delle derrate alimentari. All' Azienda ospedaliera di Pavia è stata contestata «l'ordinaria pulizia della cucina», come al S'Antonio Abate di Gallarate in provincia di Milano. Gli impianti fuorilegge Agli Spedali Riuniti di Livorno il reparto di neurochirurgia si caratterizza per «gravi carenze». Muri scrostati e piastrelle rotte sono stati trovati aMedicina generale e Ostetricia del Civile all'isola d'Elba. Al San Salvatore di Pesaro non funziona l'impianto antincendio. All'Israelitico di Roma non è norma quello elettrico, così come al San Giacomo. Al San Camillo, sempre nella capitale, sono illegali i «servizi igienici », e anche per i pavimenti è scattata la contestazione. Al policlinico Umberto I «è stata riscontrata l'inidonea conservazione ed efficienza di attrezzature e immobili oltre alla presenza di cavi elettrici privi di idonea protezione », mentre al San Giovanni Addolorata «il locale del pronto soccorso è stato adibito amagazzino per le lenzuo la ditta per la ristorazione dell'ospedale Maggiore di Novara è stata denunciata per truffa e in altre strutture è stato concesso un termine perentorio per la ristrutturazione dei locali dove vengono cucinati i pasti. Al Civile di Verona in cattive condizioni igieniche era il magazzino per la conservazione delle derrate alimentari. All'Azienda ospedaliera di Pavia è stata contestata «l'ordinaria pulizia della cucina», come al S'Antonio Abate di Gallarate in provincia di Milano. Gli impianti fuorilegge Agli Spedali Riuniti di Livorno il reparto di neurochirurgia si caratterizza per «gravi carenze». Muri scrostati e piastrelle rotte sono stati trovati aMedicina generale e Ostetricia del Civile all'isola d'Elba. Al San Salvatore di Pesaro non funziona l'impianto antincendio. All'Israelitico di Roma non è norma quello elettrico, così come al San Giacomo. Al San Camillo, sempre nella capitale, sono illegali i «servizi igienici », e anche per i pavimenti è scattata la contestazione. Al policlinico Umberto I «è stata riscontrata l'inidonea conservazione ed efficienza di attrezzature e immobili oltre alla presenza di cavi elettrici privi di idonea protezione », mentre al San Giovanni Addolorata «il locale del pronto soccorso è stato adibito amagazzino per le lenzuola sporche». Catastrofico il quadro siciliano: basti pensare che dopo le ispezioni dei carabinieri sono state disposte numerose chiusure di reparti e sale operatorie per ordine delle stesse direzioni sanitarie. È accaduto al Civico, al Policlinico e al Cto di Palermo. Una segnalazione alla Regione Puglia riguarda gli Ospedali Riuniti di Foggia per «carenze igienico strutturali quali infissi obsoleti, servizi igienici non adeguati, intonaci scrostati e tracce di umido, lavori in corso nei reparti di degenza in attività». Farmaci Medicinali scaduti al Grassi di Roma, al Santa Maria della Misericordia di Udine, al Salvini di GarbagnateMilanese. Si fuma in molte corsie e nei reparti: sono centinaia le contravvenzioni firmate. Al Santobono di Napolimancano i posti e così si aggiungono letti nelle camere dove dovrebbero essere ricoverati non più di quattro pazienti. Al Fatebenefratelli del capoluogo campano è sparito il localemalattie infettive, alMoscato di Aversa non hanno neanche i macchinari per lavare le «padelle», mentre al Moscato di Castellammare di Stabia «manca il carrello per la gestione delle emergenze con defibrillatore». Insetti in Sardegna Grave appare la situazione della Sardegna: su 45 strutture, ben 32 sono risultate fuori regola. E nella maggior parte dei casi le contestazioni hanno riguardato «l'omesso adeguamento strutturale dei reparti». Riguardo alla Clinica universitaria di medicina generale di Sassari i carabinieri scrivono: «La struttura sarà segnalata all'assessorato per la mancanza dell'impianto di ossigeno centralizzato, servizi igienici carenti in relazione al numero dei degenti, le precarie condizioni igienicosanitarie e strutturali (riscontrata la presenza di insetti-blatte) di un deposito di materiali del centro ipertensivo nonché la presenza di rifiuti nel cortile». Analoghe segnalazioni sono scattate, sempre a Sassari, anche per la clinica di Neurochirurgia, Neurologia e altri reparti dove sono stati trovati pannelli divelti, macchinari arrugginiti, calcinacci ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 1 feb. ’08 OSPEDALI, SASSARI MAGLIA NERA I risultati delle ispezioni disposte nel 2007 dal ministro Turco in 45 strutture dell’isola: 32 sono risultate irregolari Nel dossier dei carabinieri del Nas, blatte e rifiuti in reparto SASSARI. Reparti fatiscenti, blatte in corsia, rifiuti ammassati. Non fanno una bella figura gli ospedali sardi nel dossier dei carabinieri del Nas al termine dell’ispezione ordinata lo scorso anno in tutta Italia dal ministro della Sanità Livia Turco. Su 45 strutture passate al setaccio nell’isola, ben 32 sono risultate fuori dalle regole e altrettante le persone segnalate per irregolarità amministrative. Niente di penalmente rilevante, ma quanto basta perchè emerga ancora una volta uno spaccato di «malasanità», con una situazione particolarmente pesante nelle cliniche universitarie di Sassari, vera maglia nera della classifica. E sempre in tema di classifica, la Sardegna si colloca nella zona bassa, come tutto il Sud e alcune regioni del Centro. Peggio di noi hanno fatto, tanto per fare qualche esempio, la Calabria (36 gli ospedali da «sanzionare» su 39) e l’Abruzzo (22 strutture su 22 irregolari). Se i dati confermano quelli in parte già diffusi dal ministero fin dal gennaio dello scorso anno, quando il Nas condusse l’indagine ispettiva sull’onda delle inchieste giornalistiche che denunciavano lo stato di degrado di molte strutture sanitarie, la vera notizia è che a distanza di dodici mesi, dopo il pubblico scandalo, le accuse, le promesse di interventi solleciti per rimediare ad una situazione decisamente disastrosa, in molti casi niente è cambiato. A Sassari si ricordano le assicurazioni del direttore amministrativo dell’Azienda mista David Harris che preannunciava la fine dello stato scandaloso del tunnel sotterraneo di collegamento delle cliniche universitarie di viale San Pietro, una sorta di fogna a cielo aperto. Infiltrazioni, muffa, umidità, muri scrostati e tubature arrugginite, lo sconfortante panorama che si presenta ancora a chi voglia andare di persona a verificare quanto la macchina sanitaria sia, purtroppo e troppo spesso, lenta nel curare, non solo i suoi malati, ma anche le sue strutture. Ma veniamo nel dettaglio al rapporto conclusivo del Nas. Soprattutto Sassari mostra con evidenza una serie di carenze e disfunzioni strutturali o legate all’igiene nei reparti universitari, gli unici toccati dall’ispezione. Gli appunti più severi riguardano la clinica di medicina generale. Scrivono i carabinieri: «La struttura sarà segnalata all’assessorato regionale alla Sanità e alla Direzione generale dell’Asl n. 1 per la mancanza dell’impianto di ossigeno centralizzato, i servizi igienici carenti in relazione al numero dei degenti, le precarie condizioni igienico-sanitarie e strutturali». Tant’è che nella clinica è stata riscontrata «la presenza di blatte». Non solo. Sempre nella stessa clinica è stata riscontrata la presenza «di un deposito di materiali vari ubicati presso il centro ipertensivo e di rifiuti nel cortile». E poi l’elenco continua con la neurochirurgia universitaria («trovati un deposito di letti e carrozzine fuori uso e fili elettrici penzolanti»); la clinica neurologica («pavimentazione sconnessa, mancanza di accessori minimi come specchi e portasaponette e disordine generale»), dermatologia universitaria e pediatria («i campanelli di richiesta del medico nei posti letto non funzionanti, le poltrone per le mamme dei ricoverati in degrado»). L’elenco continua con calcinacci che cadono, estintori non sostituiti e altre carenze in altri reparti. Meglio di Sassari sta Cagliari dove le disfunzioni strutturali al Brotzu, al Micorcitemcio, all’Oncologico sono, secondo il Nas di lieve entità. «Inconvenienti strutturali» anche a Tempio, Olbia, Nuoro, Carbonia. E la Regione cosa dice? L’assessore alla Sanità Nerina Dirindin appare un po’ stupita che l’indagine di un anno fa rispunti adesso. «I rilievi mossi dai Nas sono stati 14 e tutti di natura amministrativa - tiene a precisare -. La Sardegna è una delle regioni, insieme ad altre 6 nelle quali non è stata riscontrata alcuna irregolarità da segnalare alla magistratura. Le carenze maggiori riguardano le cliniche universitarie sassaresi. Ricordo che allora su richiesta dei Nas è stato prontamente effettuato il trasferimento dei degenti in strutture più idonee e sono state avviate le procedure per i lavori di ristrutturazione. Le cliniche sono strutture transitate all’Azienda Mista ospedaliero-universitaria di Sassari nata nel maggio del 2007 e note per le storiche carenze strutturali, per fronteggiare le quali l’Università di Sassari aveva già ricevuto finanziamenti statali. Ma mi risulta che nelle altre situazioni le Asl hanno provveduto a intervenire». Paoletta Farina ___________________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 gen. ’08 SVOLTE, RIVOLUZIONI E PROMESSE NELLA NAFTALINA DELLA CRISI Resta nel guado buona parte delle nuove regole faticosamente messe in campo dalla Salute in poco meno di due anni di Governo Anmmodernamento, non autosufficienza, federalismo fiscale: grandi riforme all'impasse - "Milleproroge": ultimi arrembaggi Ultima spiaggia il Dl di fine anno «Ammodernamento, non autosufficienza, federalismo fiscale: scendete dall'ottovolante. La giostra non gira più». «E voi, regole e regolette, bendaggio di vecchie piaghe e nuove fratture, fate i bagagli, lasciate la fuggevole ribalta: si torna nei cassetti della memoria». «Etica, morale, bioetica: che fate ancora lì? Scordatevi l'audience; non è più tempo di massimi sistemi. C'è aria di voto». Così, a Camere appena riavviate, tante rivoluzioni abbozzate restano appese alle grucce del Governo Prodi. Chi verrà, se verrà, farà altro. Chi resta lo farà diverso. Certezza comune: l'ultimo treno da cogliere al volo prima di passare in sala trucco è quello del "milleproroghe", in scadenza il 29 febbraio. L'unico decreto legge che (forse) può sperare di tagliare il traguardo, pieno dei fardelli che parlamentari e forze di Governo sceglieranno di caricarci su. Per lasciare un buon ricordo di sé. E per gettare un ponte (o forse solo il cuore) verso il futuro. Leggi a metà. Dovendo partire da qualcosa, dunque, partiamo dalle proroghe, indispensabili per correggere la Finanziaria appena approvata e dispensare favori dapprima insperati. La stretta ridimensionata su Irpef e Irap, il rinvio al 2009 della norma che tagliava il riposo ai medici, i nove milioni per l'adeguamento delle tariffe termali sono segnali eloquenti. Alla Camera le commissioni hanno detto la loro. La parola passa all'aula della Camera. Che per la verità di questioni da affrontare ne avrebbe anche di più serie. Vogliamo dimenticarci che la delega al Governo (quale a questo punto non si sa; con che criteri ancora meno) ha fatto appena in tempo ad approdare in commissione prima della crisi? Vogliamo far finta che la questione della non autosufficienza ereditata da una legislatura all'altra e fonte di dissidi infiniti - ha fatto appena il tempo a diventare un collegato solo sulla carta? E volendo passare dai temi "epocali" alle questioni sconquassano le categorie e fanno diventare rissosi i ministri: possibile che dopo mesi e mesi di spade roventi farmacie e parafarmacie non possano ancora incassare la parola fine sulla guerra della fascia su ricetta? Il cantiere del Bersani-ter era a un soffio dal voto... ma tutto è rimasto lì. E sicuramente c'è chi sottobanco ha già brindato. Se queste sono le morti in culla alla Camera, anche al Senato c'è poco da stare allegri. A consultazioni finite e urne sigillate, delle ricette agevolate per la terapia dolore chi se ne ricorderà più? Se ne occupava il Ddl sulle semplificazioni burocratiche: ha fatto solo il primo - lentissimo - giro di boa, per morire d'inedia (pare) proprio sulla soglia di Palazzo Madama. Più o meno la stessa sorte che è toccata alla situation tragedy SsnUniversità: l'unica differenza è che per le aziende ospedaliero-universitarie il decesso s'è verificato in assemblea. Fiori e ricordi per tutti gli altri tentativi di legge che facciamo in tempo a citare e in cui qualcuno ha creduto. Il supplizio della messa in opera. Sul tappeto infatti c'è ben di più. C'è il variegato sequel di regole e azioni che pur nell'asfitti-co e traballante percorso del Governo Prodi hanno fatto in tempo a essere scritte, approvate, avviate. Ora serve che qualcuno se ne occupi. L'esempio più eclatante è quello del collegato fiscale, latore della rivoluzione farmaceutica: nuovi tetti, budget d'azienda, accordi di programma. L'Aifa dovrà gestirsi il fardello della messa in opera avendo appena avviato anche una bella rivisitazione della sostituibilità generici-branded in farmacia, almeno per alcuni prodotti (cfr. pag. 6) . E col rischio che chi viene dopo la pensi in un altro modo. Stessa, scomoda (o no?), situazione per le Regioni e per l'Aran: calendari avvincenti; spazi operativi azzerati. In pista ci sono, ad esempio, la revisione dei Lea - di cui i Governatori hanno appena iniziato a discutere, lasciando intravedere subito una palpabile voglia di riscrittura della proposta ricevuta dalla Salute - e la questione dei Fondi integrativi, appesi al Dm atteso per fine febbraio: senza i nuovi Lea e senza i paletti che dovrebbero essere fissati dal ministero, discutere e bisticciare ancora come fanno le categorie su patti e calmieri per le tariffe delle prestazioni odontoiatriche è quanto meno aleatorio (cfr. pag. 23) . Più o meno la stessa riflessione rischia di valere anche per la questione contratti: la convocazione all'Aran attesa per fine mese è slittata di una settimana: tra le prime stime della Salute e le pretese dei sindacati c'è sempre un baratro. E non ci sarà un Governo a rispondere. Vuoto pneumatico. Insomma il panorama è quello di ogni crisi che si rispetti: galleggia tutto. E ancora più di tutto c'è la questione dei manager: tema di cassetta e di rimembranze. Le polemiche sono quelle oltre di 10 anni fa. Le soluzioni strombazzate anche. All'epoca l'elenco nazionale dei papabili fu gettato alle ortiche. Ora che si discute se e come cambiare le regole la crisi rimanda tutto in soffitta. Così non resta che parlarne. A questo tema - e alle polemiche che sono esplose dalla nostra inchiesta sull'appartenenza politica dei vertici di Asl e Ao - sono dedicate le pagine seguenti. Manager multicolor in primo piano. Mentre la crisi impazza sono loro che continueranno a mandare avanti la baracca della Sanità che conosciamo. Il Paese ringrazia . Sara Todaro Eredità «Turco» Nuovo accordo Ecm Dm su pubblicità farmaci Dm accertamenti invalidità Siglato il Patto per la Salute Decreto ricercatori under-40 Ddl intramoenia-liste d'attesa Nuove regole per le nomine Irccs Patto su Sanità al Sud con fondi Ue Ddl su aziende ospedaliero-sanitarie Presentato iI New Deal per la Salute Test antidroga sui lavoratori a rischio Accordi per i piani di rientro regionali Intramoenia: sanciti obblighi strutture Dm sugli standard delle cure palliative Novità per i farmaci a base di cannabis Dlgs con correttivi a Codice medicinali Tu per tutela sanitaria nei luoghi lavoro Elevati i tetti per uso personale di cannabis Insediato il Siveas (verifica e controllo Ssn) Programma quadro "Guadagnare salute" Ddl qualità e sicurezza (ammodernam.to) ___________________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 gen. ’08 DIRETTORI GENERALI: NELLE ASL E NELLE AO CENTRO-SINISTRA E CENTRO-DESTRA INDICANO IL 62 E IL 34% Il «colore» (di riferimento) dei manager Ssn In testa i Ds e la Margherita seguiti (quasi solo nel Nord) da Forza Italia Ma non sempre c'è stato spoil system Sono 297 manager. Sono i direttori generali di Asl e Ao che mandano avanti la Sanità sul campo e devono far fronte alle ristrettezze di risorse che non bastano mai. Sono tecnici e scommettono sulla loro pelle ogni volta che accettano di dirigere un'azienda sanitaria, perché se le cose non vanno tocca a loro pagarla per primi ed è per questo che non in molti riescono a concludere in sella il mandato contrattuale. Sono scelti tra i migliori e da loro le Regioni si attendono sempre di più e li selezionano sicuramente per meriti e capacità che hanno, ma al momento della scelta una garanzia extra non guasta: quella dell'affinità politica al governo locale. Una garanzia insomma che la linea di gestione dell'amministrazione regionale sarà difesa con maggior convinzione e non solo con tecnica e managerialità. Così, anche tra i direttori generali delle aziende sanitarie si assiste a ogni cambio di legislatura locale allo spoil system. Tanto che spesso fioccano i ricorsi alla magistratura, costretta a intervenire quando il manager è rimosso senza ragioni oggettive, solo per una questione, appunto, politica. E così anche i manager nelle varie Regioni hanno un loro "partito di riferimento", che non significa tuttavia avere una tessera in tasca quasi nessuno di loro ce l'ha - né dover amministrare secondo politica, ma solo rispecchiare anche da questo punto di vista le idee del governo regionale. Ed ecco allora che si delinea la geografia politica di riferimento dei manager di Asl e aziende ospedaliere, con colori che rispecchiano quelli dei governi regionali e riferimenti a partiti a cui non necessariamente il Dg è iscritto, ma che comunque sono pronti a garantire per lui. In molti casi il partito di riferimento non è uno solo (ma nell'inchiesta de Il Sole-24 Ore Sanità è riportato quello principale) e spesso si assiste a un doppio "sponsor politico", soprattutto nel Sud. La geografia dei direttori generali (v. grafici in queste pagine) si caratterizza con il 62% dei manager che fanno riferimento al centrosinistra e il 34% al centro-destra. C'è poi un 3% riferito a liste locali e un 1% (tre in tutto) che sono considerati al di là dei partiti esclusivamente tecnici, perché erano presenti con un colore di governo regionale e quello successivo e diverso li ha riconfermati. Fatto che avviene tuttavia anche con alcuni riferimenti politici: la Giunta di centro-sinistra del Piemonte ha riconfermato tre manager indicati a suo tempo da Forza Italia, mentre in Lombardia uno dei Dg ha come partito di riferimento il Partito democratico. In 17 Regioni su 21 in cui sono al Governo, per quantità di posti e di risorse amministrate il riferimento è ai partiti di centro-sinistra: 170 poltrone, il 61,6% del totale. Esattamente di 100 posti, il 36,2%, è la quota del centro- destra in grandissima parte dove questa coalizione governa la Regione (Lombardia, Veneto, Molise e Sicilia). Dal punto di vista dei singoli partiti, non considerando il Pd come coalizione, ma analizzando il riferimento di origine, i Ds hanno la maggior rappresentanza (28,6%) seguiti dalla Margherita (25,4%) e al terzo posto da Forza Italia (21,7%). Segue An (5,1%) e poi la Lega (4,7%) che però è presente solo in Lombardia e Veneto. E soprattutto nel Sud, il partito di riferimento è spesso "doppio" e si crea in alcune Regioni una dualità (in particolare Margherita-Ds o Margherita-Udeur, la maggior parte in Campania), che rispecchia accordi interni alla maggioranza del governo regionale. Red.San. Così a livello nazionale Regione per Regione i partiti «di riferimento» ___________________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 gen. ’08 DG: ASSESSORI CONTRARI A RINUNCIARE AL LORO POTERE DI NOMINA IL CONVEGNO DELLA FIASO «Non abbiamo tessere di partito, valutateci per quello che facciamo» È il giorno dell'orgoglio dei manager delle Asl. Che rifiutano le accuse di lottizzazione piovutegli addosso da tutte le parti e fanno quadrato difendendo quanto di buono fatto finora grazie all'aziendalizzazione nella Sanità. E in coro - durante l'incontro organizzato, la settimana scorsa, dalla Fiaso a Roma sul «ruolo delle aziende sanitarie nella costruzione della classe dirigente» - chiedono di essere giudicati e valutati in modo rigoroso per i risultati del loro lavoro, nella massima trasparenza. Per fugare ogni minimo dubbio su appartenenze, fedeltà politiche e tessere di partito in tasca i direttori generali lanciano l'idea di creare "registri", elenchi o semplicemente misure per accreditare, in base a curriculum e formazione, chi si vuole candidare a guidare un'azienda sanitaria o un grande ospedale. Insomma, un manager con tanto di bollino di qualità. Il tutto senza fare nuove leggi, ma con procedure chiare e trasparenti da studiare insieme e che guardino al futuro «in modo da costruire - avverte Francesco Ripa Di Meana , manager dell'Asl di Bologna e presidente Fiaso - un vivaio dei futuri dirigenti» Il day-after dei direttori generali della Sanità italiana comincia da qui. Da una sorta di seduta di auto-coscienza durante la quale incassano la solidarietà degli assessori alla Sanità, contrarissimi a rinunciare al potere di nominarli (insieme ai governatori), e quella del ministro della Salute, Livia Turco . Che finita nel vortice della crisi di Governo non rinuncia a inviargli un lungo e accorato messaggio: Bisogna lavorare per far «prevalere scrive il ministro - il merito e non la fedeltà, la competenza e non il legame di cordata». Il «nodo», spiega la Turco, è quello di stabilire «dove inizia e finisce l'arbitrio della politica». «Le regole perfette non esistono», insiste il ministro che difende però a spada tratta il suo Ddl sull'ammodernamento del Ssn che «introduce una vera e propria selezione per titoli». Regole, queste, che potrebbero essere stralciate dal Ddl «per tradurle presto in legge». Un cambio di rotta non condiviso però dalla maggior parte delle Regioni «contrarie» ha ricordato, durante l'incontro di Fiaso, Enrico Rossi , assessore alla Sanità della Regione Toscana - a rivedere il meccanismo di nomina dei direttori generali: «Se cambiasse - annuncia polemicamente Rossi - sarei pronto a dimettermi». «Possiamo stabilire dei principi di trasparenza, motivare la scelta dei dirigenti e introdurre la valutazione come abbiamo fatto in Toscana - aggiunge - ma senza nuove leggi, basta applicare bene quelle che ci sono». Che per Rossi funzionano, eccome, nella sua Regione «dove la scelta si fa in base al merito e dove non esiste assolutamente la lottizzazione. E chi lo scrive - spiega infuriato - dice solo indegne falsità». All'assessore toscano, che chiede uno «scatto d'orgoglio» ai manager, si unisce quello del Lazio, Augusto Battaglia , che giura di non conoscere «l'orientamento politico» di molti direttori generali. E sposa quanto proposto dal suo governatore, Piero Marazzo , nei giorni scorsi: dare vita a un albo da cui pescare le nomine dei manager. D'accordo anche l'assessore siciliano, Roberto Lagalla , che difende il primato della politica, ma riconosce che c'è bisogno di «stabilire bene i criteri con cui vengono scelti i manager, come la validità dei titoli, i curricula e i limiti anagrafici». Sul tasto della valutazione dei risultati batte molto Ignazio Marino , presidente della commissione Igiene e Sanità del Senato: «Credo che le pagelle debbano essere il criterio da utilizzare, si tratta di un passo culturale che dobbiamo compiere». Marzio Bartoloni ___________________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 gen. ’08 DG: TURCO: «COSÌ FAN TUTTI? NON CI STO!» Regole ad hoc sulla scelta dei direttori generali e dei primari, che lascino la politica ai margini del sistema e garantiscano «che il manager che amministra le risorse pubbliche e il medico che ha in mano il bisturi da cui dipende la sua vita, siano i più bravi e competenti nel loro mestiere». Livia Turco è scesa direttamente in campo sulla questione alla ribalta in questi giorni delle nomine di direttori generali e primari nelle aziende del Ssn basate sul colore politico di riferimento. E il ministro ha proposto di ridiscutere, subito e con tempi certi di lavoro «il merito delle singole disposizioni già previste nel Ddl sull'ammodernamento attualmente in Parlamento che sono certamente perfettibili. Ma non tiriamoci indietro da questa sfida. Mostriamo ai cittadini che la "buona politica" e i "buoni medici esistono e vogliono riprendere in mano la Sanità». Secondo il ministro «la questione dei manager sanitari e dei primari nominati più per la tessera che per la loro bravura non è nuova. La sensazione, pur essendo personalmente convinta - ha affermato - che il fenomeno non si possa generalizzare più di tanto, è quella di un sistema a lottizzazione spinta. È veramente così? Come ho detto penso di no. Prima di tutto perché non si può equiparare di per sé a lottizzazione il fatto che siano le Regioni a nominare i direttori generali di Asl e ospedali. Come si può infatti immaginare di scindere la responsabilità politica di tutelare la salute dei cittadini, che è compito delle Regioni, dal potere lo- ro affidato di nomina di questi manager ai quali spetterà l'attuazione delle politiche di programmazione e di indirizzo sanitario stabilite dalla Giunta?». Secondo Livia Turco è necessario sgombrare «il campo dal miraggio delle "regole perfette" per nomine al di sopra di ogni sospetto. Semplicemente non esistono. Il nodo sta piuttosto - ha proseguito - nello stabilire dove inizia e dove deve necessariamente finire l'arbitrio della politica nella selezione di manager e primari. Intanto chiariamo che si tratta di due profili distinti. Sul primo, quello dei direttori generali, è indubbio che la politica deve continuare, come abbiamo visto, ad avere un ruolo fondamentale, pur se vincolato da criteri limpidi nella selezione dei manager. Per i medici e gli altri dirigenti apicali della Sanità il discorso è completamente diverso. Qui la politica non deve entrare in alcun modo nella partita delle nomine. Non può infatti che essere il direttore generale, in piena autonomia e in qualità di primo responsabile dell'azienda sanitaria, a scegliere i suoi migliori collaboratori». «Non ci sto al "così fan tutti" che serpeggia in queste settimane - ha concluso Turco -. E se, come penso, non sono la sola a pensare che il Ssn sia nella sua sostanza pulito e indenne da manovre e operazioni di potere, allora sì che la svolta è alla nostra portata. Adesso, non domani». ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 2 feb. ’08 DOPO L'ESPOSIZIONE A BERGAMO LE CERE ANATOMICHE DI SUSINI DI NUOVO ALLA CITTADELLA Sono ritornate a casa le "Cere anatomiche" di Clemente Susini, da ieri ricollocate nelle sale della Cittadella dei musei, a Cagliari in piazza Arsenale. Erano state prestate eccezionalmente per una mostra organizzata a Bergamo tra novembre e dicembre dal Circolo degli emigrati sardi, con la collaborazione scientifica del professor Alessandro Riva dell'università di Cagliari, autore di una recente monografia sull'argomento (edita da Ilisso). Oltre quindicimila i visitatori a Bergamo per una mostra che ha avuto un inaspettato successo. Le cere che costituisco una delle sezioni dell'area museale universitaria, furono realizzate dal celebre ceroplasta fiorentino Clemente Susini tra il 1803 e il 1805. Furono commissionate da Francesco Antonio Boi (docente di anatomia) su incarico del viceré Carlo Felice. Appartengono - sottolinea Riva - all'ultima e più matura produzione di Susini, modellatore capo del museo delle Cere La Specola a Firenze, autore di circa 2mila sculture anatomiche. ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 2 feb. ’08 SASSARI: DAVID HARRIS ALLA GUIDA DELL’AZIENDA MISTA Designato il successore di Gianni Cherchi. Gli uffici trasferiti a Cortesantamaria Il manager americano è stato nominato direttore generale della nuova struttura Da luglio aveva ricoperto la carica di responsabile amministrativo nello stesso organismo SASSARI. David Harris è il nuovo direttore generale dell’azienda mista. Una nomina attesa dopo la scomparsa di Gianni Cherchi, il manager chiamato nel luglio scorso ad avviare la nuova struttura ospedaliero universitaria. A porre l’ultima parola sulla designazione di Harris, nell’aria da settimane, sarebbe stato il presidente Renato Soru, che avrebbe gestito di persona una delicata mediazione con i vertici dell’università di Sassari. L’assessore alla Sanita Nerina Dirindin dovrebbe ufficializzare la scelta firmando la nomina nelle prossime ore. David Harris, erede naturale di Gianni Cherchi, che lo aveva voluto al suo fianco come direttore amministrativo, avrà ora un compito difficile e con non pochi problemi, in una fase delicatissima per il futuro dell’azienda. L’assessore regionale alla Sanità Nerina Dirindin due settimane fa lo aveva annunciato: in tempi brevi la nomina sarebbe stata fatta. La richiesta di una soluzione rapida era stata avanzata più volte dagli uffici di Cortesantamaria, dove di recente è stata trasferita la Direzione. A spingere per una soluzione rapida, in particolare, era stato Antonello Ganau, direttore sanitario dell’azienda ospedaliero universitaria, all’indomani della scomparsa di Gianni Cherchi, che aveva avviato la struttura con un’azione ad alti livelli. Da dicembre, di fatto, l’azienda aveva navigato a vista, alle prese con decisioni importanti e con l’avvio di servizi nuovi che richiedono il lavoro di uno staff al completo. Il nome di David Harris era subito stato dato tra i favoriti, garanzia di continuità rispetto all’operato di Cherchi, che aveva tenuto particolarmente a presentare come scelta personale e autonoma la nomina di Harris a direttore amministrativo nella sua squadra. David Harris, 53 anni, oroginario dello Stato dell’Oregon, negli Stati Uniti, si definisce sardo di adozione perché vive nell’isola da vent’anni, quando venne chiamato come consulente dal Banco di Sardegna e dove si è sposato con una donna di Orgosolo. Per anni ha fatto la spola da Milano, dove ha lavorato fino a quando è stato chiamato, circa due anni fa, per tentare di risollevare da una crisi profonda la Krenesiel, la società di servizi informatici del Banco di Sardegna. Azienda in cui, aveva affermato dopo il passaggio all’azienda mista, «penso di aver salvato il salvabile». Manager stimato e di riconosciuta esperienza e competenza, Harris dovrà ora governare una struttura strategica per il livello di servizi sanitari da erogare ai cittadini. Prendendo in mano l’agenda lasciata da Gianni Cherchi, già fitta di appuntamenti importanti. Sul tavolo, le basi per gran parte dell’attività che riguarda le cliniche universitarie, di cui proprio in questi giorni è stato reso noto il poco incoraggiante rapporto del Nas. Ma manca ancora l’atto aziendale, il provvedimento, non ancora perfezionato, che determina gli obiettivi dell’azienda e delinea il percorso da seguire per raggiungerli. Un documento fondamentale, senza il quale la struttura non ha né può esercitare le proprie facoltà. Nelle mani del nuovo manager sarà poi affidato il programma avviato dalla Regione che riguarda la costituzione del Dipartimento di Radioterapia, che vede l’università di Sassari, insieme con l’ospedale Busincu di Cagliari e il San Francesco di Nuoro, fra i centri scelti dall’assessorato alla Sanità per la creazione della rete di terapia contro i tumori. Altro elemento che ha sollecitato la nomina di un nuovo direttore generale, è l’imminente arrivo di una sofisticata apparecchiatura per la diagnostica tramite radiazioni, la Pet, per l’installazione e il funzionamento della quale occorre mettere in moto una serie di procedure, anche di natura burocratico- amministrativa, che deve poter contare sul lavoro della squadra di vertice al completo. E in più, a David Harris spetterà ora il compito di indicare il proprio successore come responsabile della direzione amministrativa. Una nomina sulla quale è già aperto il toto-favoriti. ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 1 feb. ’08 ENTRO L’ESTATE I TRASFERIMENTI AL POLICLINICO L’ospedale San Giovanni di Dio fu progettato nel 1842 dall’architetto Gaetano Cima. La prima pietra (secondo i dati forniti dal canonico Giovanni Spano) fu posata il 4 novembre 1844 e i primi ricoveri furono effettuati nel 1848. Per la sua realizzazione furono spese 718.798 lire. L’edificio, caratterizzato da una facciata rettilinea con leggere sporgenze e rientranze, ospita nel corpo centrale l’ingresso, appoggiato su sei colonne doriche alte 10 metri. Dietro questa facciata si sviluppa tutto l’organismo del vecchio ospedale, costituito da bracci disposti a raggiera intorno a un corpo di fabbrica semicircolare che si inarca dal parallelepipedo della facciata. In sostanza è una pianta stellare in cui ogni braccio è concepito per una diversa funzione d’uso in relazione alle attività mediche, destinate nel corso degli anni a vari reparti, o cliniche universitarie. Nell’ospedale lavorano circa 200 medici e 430 infermieri, che operano in 22 strutture. La grande rivoluzione del Civile partirà entro l’estate di quest’anno con il trasferimento al Policlinico universitario di Monserrato di Ginecologia e della clinica Macciotta, che confluiranno nel nuovo dipartimento Materno infantile gestito dall’Azienda mista, composta da Asl 8 e Università. Ostetricia e ginecologia sarà l’anticipazione di quello che entro breve tempo avverrà al San Giovanni di Dio. La Clinica Macciotta verrà riconsegnata all’Università. È probabile che diventi parte integrante del progetto del Campus universitario urbano, che da Buoncammino si estende all’Orto botanico e alla facoltà di Scienze. (st. co.) ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 6 feb. ’08 QUELLA DIGNITOSA PSICHIATRIA DELLE PRECARIETÀ di Enrico Perra Il contributo di Gian Paolo Turri su "L'Unione Sarda", in risposta all'intervista di Giorgio Pisano a Pier Paolo Pani, dischiude interessanti prospettive di dibattito e incoraggia la riflessione su ciò che accade nel mondo della psichiatria sarda. Premetto che il sottoscritto ha accolto con interesse il confronto con l'esperienza triestina, anche perchè, lavorando in periferia, non si è imbattuto con la radicalità di posizioni che ha caratterizzato l'esperienza dei colleghi cagliaritani. Va detto però, che, seppure all'interno di errori strategici che hanno dato "fuoco alle polveri", la proposta dell'assessorato tenta di risolvere le lacune organizzative dei Servizi di Salute Mentale, sintetizzabili in una scarsa produzione di percorsi riabilitativi, di inclusione sociale e nell'assenza di una organizzazione dipartimentale degli stessi. Se è vero che gli psichiatri sardi «sanno da tempo che l'intervento non si esaurisce in una ricetta» va anche detto che proprio dopo la ricetta iniziano le difficoltà; si cade subito in un mondo di condizionali: "si dovrebbe.., si potrebbe... se avessimo..". Quante volte, colleghi, ci siamo detti queste cose? Certo, non si può negare qualche successo, prima di questa fase e con altri assessori, ma non si è mai riusciti a creare un'abitualità dei percorsi di riabilitazione, con i fondi che si perdevano nei misteriosi meandri dei bilanci aziendali, con le difficoltà burocratiche, coi nostri limiti culturali. L'unico modello sardo, che accomuna tutti, è quello che io chiamo la "Dignitosa Psichiatria delle Precarietà": fare i salti mortali con scarsissime risorse. In fondo, intervenire sul sociale vuol dire accompagnare chi chiede aiuto dal ruolo passivo di Paziente a quello più attivo di Utente (che usa le risorse dei nostri servizi), a Cittadino (che usa le risorse della comunità), per diventare protagonista della propria vita sociale, lavorativa, affettiva. Per dirla con le parole di Pani: una prospettiva di cura o meglio una cura di prospettiva. Per quest'ultimo passaggio non basta la buona volontà degli operatori ma è necessaria la presenza di altri attori (Servizi Sociali, Volontariato, Cooperazione, etc.). Quando Nereide Rudas inaugurò la Clinica Psichiatrica, in un commosso intervento ci ricordò che «tutti i pazienti sono soli... ma i pazienti psichiatrici sono i più soli tra i pazienti». Un paziente grave che esce dal ghetto del suo disturbo, riprende a lavorare e a vivere con gli altri, contribuisce, col suo esempio, alla riduzione del pregiudizio sociale sulla malattia mentale... e facilita l'accesso ai servizi di altri sofferenti psichici e con questo l'intervento precoce, che è il futuro della Psichiatria: il solo modello che coniuga massima efficacia clinica con il massimo contenimento della spesa. Ebbene colleghi, quante volte siamo riusciti a rompere questa solitudine? Perché tanta ostilità a questo progetto? Io credo che gli psichiatri sardi siano stati disconfermati, anziché gratificati per "aver resistito", colpevolizzati per il funzionamento dei servizi, per il numero dei suicidi o per l'uso (irrisorio) della contenzione. Di contro: un numero di accessi superiore alla media nazionale con organici di poco superiori alla metà; una legge assistenzialista, regalia delle precedenti gestioni della Sanità (che giustamente l'attuale Assessorato ha cambiato) che, unica al mondo, è riuscita a modificare l'entità degli accessi e la prognosi dei disturbi, oltre che depauperare le risorse per la salute mentale. Diciamocelo: quando i servizi sono congestionati dalle richieste, la strategia più usata è anche la più pragmatica: il farmaco, con buona pace, purtroppo, dei modelli integrati. Dalla disconferma è facile scivolare nelle comunicazioni simmetriche e nella radicalizzazione identitaria (fra modelli sardo e triestino), sino alla formazione dei pseudo- partiti. Tremendo potere, quello della disconferma, che trita tutto e tutti: la centralità della Salute Mentale nel Piano Sanitario Regionale, i cospicui finanziamenti, i miglioramenti delle strutture, un collega serio e competente in Regione (la prima volta), e forse anche questa mia riflessione. Non è poi quello che accade nella politica in Italia? A differenza dei politici però noi psichiatri non possiamo permetterci di misconoscere certi meccanismi, pane quotidiano del nostro lavoro. Coraggio, colleghi: usciamo da questo cortocircuito. Riprendiamo a discutere senza pregiudizi. Facciamolo per i nostri pazienti, ma anche un po' per noi. ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 2 feb. ’08 MICROCITEMICO, FUTURO DA RISCRIVERE Asl 8. L'Unione europea fissa nuovi parametri per il Centro trapianti midollo osseo Accorpamento col Businco: se ne riparlerà tra sette mesi Si abbassa il limite dei trapianti e la chiusura del Ctmo torna in discussione. Il futuro del Centro trapianti midollo osseo dell'ospedale microcitemico è ancora tutto da scrivere. Le nuove linee guida europee, che abbassano il tetto di interventi per tenere in vita questi reparti, hanno di fatto rimesso in discussione la decisione di chiusura presa dall'assessore regionale alla Sanità Nerina Dirindin e dal manager della Asl 8 Gino Gumirato. I TIMORI La bozza dell'atto aziendale della Asl 8 che prevede la chiusura del Centro trapianti dovrà essere ancora approvata dalla Giunta. Non si conoscono i tempi, visto che l'esecutivo è impegnato nell'analisi della Finanziaria, ma Tribunale del malato, l'Associazione talassemici, l'Asgop (Associazione sarda genitori oncoematologia pediatrica) e l'Associazione immunodeficienze primitive sono scese in campo per scongiurare la chiusura o il trasferimento del centro al Businco. Una decisione che ha mandato in fibrillazione i genitori dei pazienti che vengono seguiti da sette pediatri e 11 infermieri. In una nota inviata all'assessore e al manager affermano che il Ctmo vanta la maggiore esperienza in campo pediatrico, garantisce continuità terapeutica all'interno dell'ospedale Microcitemico e sarà indispensabile anche per i programmi di terapia genica della talassemia. Le associazioni dei pazienti si chiedono «perché nel costruire un nuovo polo pediatrico di eccellenza si decide intanto di distruggere una struttura che già esiste, che ha raggiunto un'elevata esperienza e specializzazione scientifica e che oltretutto è unica in tutta la nostra Regione?». Ancora, «Perché anziché tagliare il Centro trapianti pediatrico, non si pensa invece di renderlo disponibile per tutti i bambini (sardi ma non solo) che devono eseguire il trapianto, potenziandolo con un adeguato reparto di post-trapianto e con un Day- hospital più spazioso e situato nello stesso piano?». IL MANAGER Gino Gumirato sa bene che scontrarsi contro le associazioni dei pazienti potrebbe essere un suicidio. Un conto sono i medici col mal di pancia , altro affare è mettersi contro i genitori dei piccoli ricoverati. Per questo, dal suo ufficio al sesto piano di via Piero della Francesca, parla di dialogo, di norme comunitarie e di nuovi scenari. Sia ben chiaro, di tornare indietro, cancellando sui due piedi la bozza, non se ne parla, per lo meno in termini così decisi. Il processo di razionalizzazione dei costi, che in politichese fa rima con tagli, non si può certo interrompere. «Nella nostra programmazione è previsto lo spostamento del Centro trapianti di midollo osseo. I dubbi dei genitori dei bimbi ricoverati sono alimentati dalle nuove linee guida europee. Un'innovazione saltata fuori solo dieci giorni fa e che fissa altri parametri, che approfondiremo coinvolgendo tutti. La legge stabilisce che i Ctmo possano esistere anche se effettuano trapianti solo su dieci pazienti all'anno. Devo dire che in città ci sono già altri due centri simili, il Businco e il Binaghi, e con un bacino di utenza come il nostro non c'è bisogno di un terzo». Il manager della Asl 8 fissa i tempi di eventuali rivoluzioni. «Fra sette mesi i lavori del raddoppio Microcitemico saranno conclusi ed entro questa data valuteremo la disposizione degli spazi. Per il momenti, quindi, la parola chiusura è bandita». TRAPIANTO ECCEZIONALE E mentre la discussione tra manager e associazioni dei pazienti è quanto mai calda, i medici del Microcitemico non stanno con le mani in mano. Proprio in giorni hanno eseguito un trapianto di midollo su un paziente talassemico con insufficienza renale cronica, in dialisi. E il primo del genere al mondo ed è il preludio al trapianto di rene. ANDREA ARTIZZU ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 2 feb. ’08 VETERINARI, ALLA ASL SENZA UN CONCORSO In 200 ricorrono al Tar contro l'assunzione di «semplici collaboratori» - Inquadramento garantito per i «coadiutori» della sanità MAURO LISSIA CAGLIARI. Ci hanno provato in tutti i modi: proteste stradali, lettere al governatore, comunicati ai giornali. Adesso non resta che il Tar, il solito costoso e complesso ricorso al tribunale amministrativo. Ma duecento veterinari specializzati e specializzandi fanno sapere da ogni angolo dell'isola che andranno avanti a oltranza, su ogni canale democratico, pur di far valere le proprie ragioni. Ragioni evidenti, a dare un'occhiata alle norme: c'è una legge del 1999 che stabilisce l'accesso alla dirigenza sanitaria pubblica «mediante concorso». Ce n'è un'altra del 1992 che rende obbligatoria la specializzazione, oltre che la laurea, per partecipare ai concorsi. Sono norme chiarissime, indiscutibili, che non lasciano alcuno spiraglio a soluzioni diverse. Eppure la legge finanziaria regionale - all'esame della massima assemblea sarda - contiene un emendamento all'articolo 3 che sembra non tener conto delle leggi. A elaborarlo è stata la terza commissione consiliare, che poi l'ha approvato con voto unanime: «I veterinari coadiutori regionali che abbiano svolto un periodo di attività da almeno quindici anni anche non continuativi sono inquadrati presso le Asl dove hanno espletato l'ultimo periodo di servizio secondo le modalità previste nell'articolo 36 della legge regionale 2 del 2007». Come dire: niente concorsi pubblici per chi avrebbe il titolo a partecipare, la Regione assegna i posti disponibili in base a un diritto che nessuna legge prevede o può semplicemente prevedere. In base al contenuto di quest'emendamento entreranno negli organici del servizio sanitario nazionale i veterinari che negli anni hanno collaborato alle campagne contro la peste suina e la lingua blu, che hanno magari lavorato benissimo ma sempre con un rapporto a tempo e comunque «mai inquadrato - così sostiene il coordinamento dei veterinari specializzati e specializzandi - in un contratto di natura subordinata». Quindi non professionisti precari, la cui posizione dev'essere regolarizzata. Ma semplici collaboratori esterni. Sarebbe come se in un ospedale pubblico al posto di chirurghi specializzati andassero in sala operatoria medici generici. Medici generici in lista d'attesa, non vincitori di concorso: «Una cosa senza capo nè coda - sostengono i veterinari impegnati nella protesta, l'elenco dei nomi è lunghissimo ed è pubblico - che viene fatta passare come una scelta umanitaria. Non si capisce poi - continuano - perchè la solidarietà umana dovrebbe essere destinata ai coadiutori senza diploma di specializzazione e non a chi ha studiato tre anni in più, con impegno e spese, proprio per uscire dallo stato di disoccupato attraverso un concorso pubblico. E' uno schiaffo sulla faccia di chi crede nel valore della legge e vuole rispettarla». In sè dunque la vicenda è banale: si tratta di un errore macroscopico commesso da consiglieri regionali probabilmente disinformati. Errore in contrasto con la politica del governo Soru, che all'alba della legislatura decise di fermare le promozioni interne dei funzionari regionali non laureati per dare spazio ai giovani vincitori di concorso. Ora accade il contrario, ma sono soprattutto le conseguenze a sconcertare. Perchè i veterinari specializzati, persa l'occasione di un prossimo concorso pubblico, resteranno definitivamente fuori dal servizio sanitario nazionale. Pur essendo i soli a possedere il titolo per aspirare a un posto di lavoro nelle Asl dell'isola. «Chiediamo ai consiglieri regionali - è scritto in una nota - di essere coerenti con il loro ruolo istituzionale e di abrogare un emendamento che essi stessi sono consapevoli di come sia in contrasto con le leggi dello Stato e con la stessa Costituzione italiana. Consigliarci, com'è avvenuto, di adire a vie legali è certo un motivo di vanto ma piuttosto un'offesa rivolta alla nostra figura di veterinari professionisti nonchè alla nostra immagine di elettori votanti». A conclusione di un'altra nota inviata al presidente della Regione i veterinari specializzati si chiedono «a cosa sia servito l'impegno e l'utilizzo di tante risorse pubbliche se con un emendamento di poche righe si bypassa in un attimo il lavoro di decenni». Una chiusura amara, quasi disperata. Rimasta finora senza risposta. _______________________________________________ Repubblica 31 Gen. ‘08 ARTROSI DELLE MANI E BISTURI LE SOLUZIONI CHIRURGICHE AL BLOCCO DELLE PICCOLE ARTICOLAZIONI DELLE DITA di Francesco Catalano * Con il termine "artrosi" si definisce una malattia cronica evolutiva che interessa le articolazioni. La base anatomica è rappresentata da un processo degenerativo delle cartilagini che rivestono i capi ossei articolari e che vanno incontro a fenomeni di usura. La graduale distruzione della cartilagine determina la diminuzione dello spazio articolare e la reazione del tessuto osseo circostante. Ne conseguono quadri clinici variabilmente dominati dal dolore e dalla rigidità, associati talora ad atteggiamenti posturali viziati ed, in fase avanzata, dalla deformità e dalla impotenza funzionale. Quando è colpito il pollice L'artrosi nella mano assume forme diverse in rapporto alla sede, al numero di articolazioni colpite ed alle possibili associazioni. Tra le forme più frequenti citiamo l’artrosi trapezio-metacarpale o rizoarnosi e l'artrosi delle articolazioni interfalangee distali o artrosi di Heberden. La localizzazione all'articolazione trapezio - metacarpale (Rizoamosi) rappresenta circa il io% di tutte le manifestazioni artrosiche dell'apparato locomotore. Interessando la "radice" (rizo-) del primo raggio digitale, essa compromette la cinematica di tutta la catena del pollice, determinando una grave invalidità legata alla progressiva perdita della funzione specifica del 2° raggio digitale: la pinza in opposizione del pollice alla altre dita. Le fasi iniziali Nelle fasi iniziali il disturbo è spesso rappresentato da una dolenzia incostante ed è possibile propone un trattamento conservativo basato su alcuni semplici principi: il riposo funzionale, l’economia della articolazione trapezio-metacarpale, l'impiego di agenti fisici e di tutori statici. Nelle fasi più avanzate è presente dolore costante alla base del pollice, deformità ed importante limitazione funzionale che si configura nell'impossibilità di svitare il tappo di una bottiglia, di sollevare oggetti anche di piccole dimensioni o di girare la chiave in una serratura. In questa fase si dovrà prendere in considerazione la necessità di un trattamento chirurgico. Le alternative possibili sono sostanzialmente due: le artroplastiche biologiche e le artroprotesi. II recupero della mobilità Le artroplastiche biologiche, impiegate ormai da circa 30 anni hanno dato certamente buona prova di se, consentendoci di trattare migliaia di pazienti con risultati decisamente buoni e duraturi sia sul dolore che sul ripristino della mobilità articolare e della forza di presa. Proposte con diverse varianti Rizoartrosi in stato avanzato. In alto: quadro radiografico e clinico preoperatorio. In basso: quadro radiografico e clinico a 2 anni di distanza dall'intervento di trapeziectomìa ed artroplastìca In sospensione. È evidente il ripristino della corretta cinematica del primo raggio digitale. di tecnica, le artroplastiche biologiche prevedono fondamentalmente l’asportazione del trapezio (una delle due componenti ossee usurate dal processo artrosico) con risoluzione del conflitto doloroso tra esso e la base dell’ metacarpo e la creazione di una neoarticolazione di sostegno mediante l'impiego di strutture tendinee e capsulari locali, senza impianto di alcun materiale estraneo. Si tratta certamente di un intervento delicato che va effettuato in strutture ospedaliere specializzate, ma che ha il grande vantag.g~o di azzerare tutte le possibili complicanze legate all’"impiego di materiali estranei. Complicanze queste che da sempre limitano invece in questa sede l'impiego delle artroprotesi, ancora oggi, a nostro avviso, gravate da un eccessivo numero di complicanze relative alla difficoltà di ottenere un ancoraggio stabile su segmenti ossei così piccoli ed alle possibili reazioni avverse ai materiali protesici. Potenzialmente tutte le numerose articolazione della mano possono andare incontro ad un processo artrosico determinando: un'artrosi scafo- trapeziotrapezoidale, un'artrosi peritrapeziale, un'artrosi intercarpica. un'artrosi metacarpo-falangea, un'artrosi interfalangea prossimale o di Bouchard. La forma intertalangea La forma, però, di gran lunga più frequente è rappresentata dall'artrosi interfalangea distale o artrosi di Heberden: è la forma di artrosi primitiva più diffusa in assoluto, colpisce prevalentemente le donne e generalmente dopo la menopausa è correlata ad un gene autosomico dominante nel sesso femminile e recessivo in quello maschile. Si manifesta come tumefazione dorsale dura delle articolazioni interfalangee distali (in vicinanza delle unghie), con le caratteristiche nodosità osteocartilaginee para articolari, deviazioni e deformità con rigonfiamento dei capi articolari. Determina rigidità in flessione e deviazione laterale delle falangi distali. con dolore a volte intenso a decorso intermittente. Il disturbo, prevalentemente estetico in fase iniziale, si manifesta con una limitazione funzionale crescente della pinza digitale nelle fasi avanzate, sia su base antalgica che in conseguenza delle ugravescenti deformità articolari. L'eliminazione del dolore. II trattamento conservativo, nelle forme lievi, si propone come unico scopo la riduzione del dolore con impiego di terapia antinfiammatoria ed antidolorifica medica e fisioterapica. Nelle forme avanzate, qualora trovi indicazione, si esegue intervento di artrodesi (fusione) in estensione dell'articolazione interfalangea distale, con risoluzione completa del dolore e correzione dell'inestetismo. ~ Direttore Unità operativa di Ortopedia e Chirurgia della Mano del Policlinico Gemelli di Roma - Complesso Integrato Columbus _______________________________________________ MF 5 Feb.‘08 VIENE SALVE SENZA PUNTURE Medicina Parere positivo del comitato dell’Emea che valuta i farmaci su un anticoagulante orale Dabzqatran non necessita di monitoraggi, è ben tollerato. e ha effetto rapido di Silvia Faoiole Nicoletto Via libera europeo al primo anticoagulante orati; che non vincola i pazienti a continui monitoraggi e correzioni della terapia in corso d'opera. Lo ha annunciata in questi giorni l’azienda tedesca Boehiinnger Ingelheini in seguito al parere positivo espresso dal Comitato deli'Emea che valuta i farmaci per l'uso umano (Chmp) e che ha raccomandato l'autorizzazione alla commercializzazione del nuovo farmaco. Il parere positivo è un consiglio affinché la Commissione europea rilasci l'autorizzazione alla commercializzazione in tutta l'unione europea entro 67 giorni: nei 27 paesi membri. Il principio attivo dell'anticoagulante Pradax è il dabigatran etexilato, un inibitore diretto della trombina, ossia l'enzima che svolge un ruolo fondamentale nel processo di coagulazione che porta alla formazione dei trombi. È stato indicata per la prevenzione del tromboembolismo venoso - (Tev) in pazienti ad alta rischio in seguito a un intervento chirurgico di sostituzione totale dell'anca o del ginocchio. Un rischio che continua oltre il normale periodo di ricovero in ospedale perché il trattamento preventiva viene spesso interrotto alla dimissione del paziente per la complessità legata alla somministrazione degli anticoagulanti oggi disponibili. Essendo amministrato in dose fissa per via orale, dabigatran può essere assunto in ambiente ospedaliero e non, fornendo ai pazienti una protezione efficace contro lo sviluppo di trombi potenzialmente pericolosi. «I risultati hanno dimostrato una sostanziale equivalenza di efficacia tra dabigatran.ed eparina, il farmaco aggi più utilizzato in ortopedia che però si somministra con,un'iniezione sottocutanea», premette Franco Piovella, direttore dell'unità operativa malattie tromboemboliche del Policlinico S. Matteo di Pavia. Va detto che anche l’eparina non richiede alcun monitoraggio, ma il vantaggio di Pradaxa é in questa caso una via di somministrazione. molto più conveniente. L’indicazione attuale conferma l'efficacia e la sicurezza del farmaco in un settore, quello ortopedico, in cui il numero di eventi trombotici è particolarmente elevato così come il rischio emorragico correlato all'intervento chirurgico, fattori ,che possono avere conseguenze negative ,sull'esito clinico,. Superato cori successo cluesto primo step si potrà pensare a un'estensione dell'indicazione anche alla terapia dei tromboembolismo venoso e di alcune cardiopatie», prosegue Piovella. Dabigatran etexilato gode di un meccanismo d'azione rapido che fornisce un ' ,effetto anticoagulante prevedibile, il che non rendo necessario monitorare i parametri della coagulazione; Don presenta alcuna interazione con gli alimenti e ha un basso potenziale di interazione con altri farmaci «Oggi un paziente affetto da trombasi venosa profonda o fibrillazione atriale deve seguire una terapia anticoaugulante che necessita di un controllo costante tramite prelievo del sangue ogni 10-15 giorni. Il principale anticoagulante orale oggi Indi in questi casi, la warfarina, richiede un controllo continua perché è influenzato dall'assunzione di alcuni alimenti a di altri farmaci oppure dal cambia di stagione», continua Piovella, «La prospettiva che lascia intravedere questo nuovo farmaco 'e quella di rendere indipendenti dall’ospedale i pazienti che devono seguire una terapia anticoagulante a lungo termine; per oltre uri anno o addirittura per tutta la vita,». ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 3 Feb.‘08 IL CEROTTO É WIRELESS Rileva i parametri fisiologici e li invia al medico Un cerotto con un chip capace di misurare la temperatura, monitorare il battito, registrare i dati e trasmettere un tracciato ecocardiografico. Questo dispositivo sta per essere brevettato da un gruppo di giovani, che hanno studiato all'Università di Pisa e alla Scuola Superiore Sant'Anna, coordinato dagli ingegneri Antonio Mazzeo, Francesco Randazzo, Pietro Valdastrieilfisico Alessio Misuri. Il cerotto ha già vinto il premio «Giovani idee cambiano l'Italia», organizzato dal ministero per le Politiche giovanili e le attività sportive, che ha fruttato 5omila euro. L'importo servirà ad acquistare i kit necessari per l'hardware, il software e per costituire una società. «Per il momento stiamo concludendo la fase di design e lavorando alla realizzazione di un prototipo - spiega Antonio Mazzeo, ingegnere elettronico. Dopo il brevetto passeremo ai test pratici sui pazienti per fare certificare il cerotto. Per questa prova pratica sono stati presi accordi con alcuni ospedali. L'ultimo step prevede l'affidamento del progetto a una società, per avviare la produzione e riuscire a essere sul mercato entro la fine del 2009». La grande novità del progetto è la semplicità del dispositivo che funziona attraverso un sensore collocato all'interno di un supporto tessile (cerotto). Basta il contatto con la pelle per monitorare parametri fisiologici di fondamentale importanza, soprattutto per alcune tipologie di malati cronici. I dati vengono memorizzati dal chip che, attraverso un sistema di connessione wire1ess, li trasmette al medico dell'ospedale, quando il paziente rientra a casa, dove viene collocata una centralina. Il paziente può quindi svolgere la sua abituale attività quotidiana ed essere monitorato. Le persone che potranno beneficiare del nuovo sistema di monitoraggio sono quelle con malattie croniche, costrette a frequenti ricoveri per accertamenti. Con il cerotto ogni paziente potrà svolgere una normale attività lavorativa e registrare i dati attraverso una centralina domestica collegata con l'ospedale o con una collocata in un ambulatorio dove la persona può recarsi in un qualsiasi momento della giornata. ROBERTO LA PIRA ___________________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 gen. ’08 SANITÀ. PRONTO IL DECRETO SUGLI ALBI La Salute: solo tre Ordini al posto dei vecchi Collegi Paolo Del Bufalo Tre Ordini, non uno di più. Nemmeno se qualche professione numerosa dovesse chiedere l'autononomia. Il ministero della Salute, dopo la firma del ministro Livia Turco, ha trasmesso a Palazzo Chigi lo schema di decreto legislativo in attuazione della legge 43/2006 per l'istituzione di Ordini e Albi delle professioni sanitarie. Il provvedimento attende ora il via libera dal Consiglio dei ministri per avviare l'iter lasciando i giorni utili (40) fino alla scadenza della delega il 4 marzo per il parere di Regioni e Camere. Sempre che la crisi di Governo lasci spazi di manovra. Le ultime modifiche concordate dal ministero della Salute con le categorie hanno cancellato la possibilità di costituire un quarto Ordine e hanno richiamato ovunque possibile i profili approvati tra il 1994 e il 1998, la legge 42/1999 e la 251/2000, tutte sulle professioni sanitarie. Tre Collegi trasformati in Ordini, quindi. Gli attuali vertici resteranno in carica fino all'elezione dei consigli direttivi dei nuovi organismi. Si tratta del Collegio degli infermieri che come Federazione comprenderà due Albi e circa 324mila iscritti, di quello delle ostetriche che avrà nove Albi e 98.200 iscritti e del Collegio dei tecnici di radiologia medica, che si trasforma nella federazione delle professioni tecnico-sanitarie e della prevenzione con 11 Albi e circa 106mila iscritti. Gli Ordini dovranno essere provinciali, ma se il numero di iscritti non supera le 900 unità potranno essere interprovinciali, regionali o interregionali. È prevista una Commissione d'albo per ciascuna professione e nel Consiglio direttivo dovrà essere presente un rappresentante di ciascuna professione. ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 30 Gen. ’08 TALASSEMIA: IL SOGNO: MAI PIÙ TRASFUSIONI Cure sostitutive grazie alla scoperta di un gene Da ieri c’è una speranza in più per i malati di talassemia. I ricercatori cagliaritani del Cnr hanno scoperto un gene che potrebbe far archiviare in futuro il disagio delle trasfusioni. di Andrea Mameli A dispetto del nome in codice, privo di qualsiasi potere evocativo, la scoperta è di quelle che suscitano emozioni. Perché dietro la sigla BCL11A si nasconde un gene molto importante per le sue ripercussioni sulla salute. In particolare quella dei malati di talassemia. Tuttavia, va detto subito, non sarebbe corretto annunciare cure che ancora non esistono. Un giorno si giungerà alla cura sostitutiva della trasfusione, ma l’applicazione clinica non sarà immediata. La scoperta, annunciata ieri nella sede dell’Istituto di Neurogenetica e Neurofarmacologia del Cnr di Cagliari, è frutto del lavoro dei ricercatori del progetto ProgeNIA, guidati da Manuela Uda: «L’approccio che abbiamo utilizzato - spiega la ricercatrice del Cnr - è lo stesso che ci ha permesso di conseguire gli altri importanti risultati in campo genetico. Abbiamo determinato i livelli di emoglobina fetale, o HbF, in tutti i 6.000 volontari partecipanti al Progetto ProgeNIA, che provengono da quattro paesi dell’Ogliastra: Lanusei, dove si svolge il progetto, Ilbono, Arzana ed Elini. Successivamente il DNA di queste persone è stato genotipizzato da un team di otto biologi. Lo studio di associazione gnomica, o Genome-wide association-GWA, che ha portato a questo risultato è stato realizzato grazie all’utilizzo di una nuova strategia fondata sulle conoscenze derivate dal sequenziamento dell’intero genoma e dall’identificazione sul genoma di circa dieci milioni di variazioni di un singolo nucleotide». Cosa avete scoperto? «Una variante del gene BCL11A è risultata fortemente associata a livelli alti di emoglobina fetale nell’adulto L’associazione tra variazioni dei livelli di HbF e specifiche varianti geniche all’interno del gene BCL11A, indicano che questo gene è molto probabilmente responsabile di tali variazioni». Chi ha lavorato a queste ricerche? «Questo studio nasce dalla collaborazione tra numerose figure professionali: medici, clinici, infermieri, biologi molecolari, informatici e statistici, appartenenti a gruppi di ricerca italiani e stranieri. Oltre al nostro gruppo del Cnr ci sono anche i colleghi americani del gruppo guidato da David Schlessinger dell’NIA-NIH di Baltimora, del Children’s Hospital e della Harvard University di Boston, e dell’Università del Michigan. Ma un ruolo determinante è stato svolto anche dall’Ospedale Microcitemico, Clinica Pediatrica e dall’Università di Cagliari.» Cosa resta da scoprire? «Sono in corso ulteriori studi che ci permetteranno di chiarire il meccanismo di azione di questo gene. È da questi approfondimenti che potrà scaturire l’individuazione di molecole capaci di riattivare la produzione, oltre la vita fetale, di HbF e così di migliorare il quadro clinico di pazienti affetti da Talassemia Major e Anemia Falciforme». Per la Talassemia, è bene ricordarlo, non esiste ancora una terapia completamente efficace. È indispensabile (tranne nei casi meno gravi, circa il 10% del totale) sottoporsi alla trasfusione periodica e che i depositi di ferro nel sangue siano ridotti al minimo. In Italia la malattia colpisce circa 5 mila persone, di cui un migliaio in Sardegna: si tratta della malattia monogenica più diffusa nell’isola. Per questa ragione le competenze su questa patologia, nota anche con il nome di Anemia Mediterranea (e questo nome tradisce anche la sua origine) in Sardegna sono tra le più elevate al mondo. Renzo Galanello, direttore della Seconda Clinica Pediatrica, Ospedale Microcitemico, dal 2005 spiega: «Siamo ancora lontani ancora dalla soluzione del problema. Questa importantissima scoperta è solo un tassello del complesso puzzle che abbiamo di fronte. Dal punto di vista clinico: chi ha la variante di questo gene ha la forma lieve di talassemia, sono cioè quelle persone che non hanno bisogno di far trasfusioni. Ora è indispensabile stabilire come questo gene agisce e nessuno lo sa ancora. Serve il segreto del come fa aumentare il livello di emoglobina fetale. Stabilito questo, dovremo cercare qualche sistema per stimolarlo artificialmente anche in quei soggetti nei quali non funziona normalmente.» La cura non è dietro l’angolo? «Esatto. Il primo elemento di cautela è legato alla possibilità che ci siano altri geni che concorrono. Secondo: per l’applicazione pratica servirà del tempo. Ma ci sono due elementi che fanno aumentare la speranza. Innanzitutto, dato che questo stesso gene fa aumentare l’emoglobina fetale anche in chi è affetto da anemia falciforme, assisteremo a un moltiplicarsi degli studi perché interessa una parte della popolazione americana. Questo studio quindi non riguarda solo la Sardegna poiché abbiamo confermato che la correlazione tra i livelli di HbF e varianti di BCL11A è presente anche in pazienti americani affetti da Anemia Falciforme. Ciò significa che questo gene sarà molto studiato. Poi significa che forse non si tratta di un meccanismo di portata limitata ma di un meccanismo generale: quindi è possibile che sia meno complicato da decodificare. In Sardegna i pazienti affetti da Talassemia Major - sottolinea Galanello - sono per lo più omozigoti, hanno cioè entrambe le copie del gene portatrici di una mutazione specifica che abolisce completamente la produzione di HbA. Nonostante portatori della stessa mutazione, alcuni pazienti sviluppano una anemia incompatibile con la vita se non si procede ad un programma di trasfusioni regolare, altri invece manifestano una forma attenuata denominata Talassemia intermedia, in cui le trasfusioni non sono necessarie per la sopravvivenza». In ogni caso si tratta di un successo della ricerca made in Sardinia. «Indubbiamente. Aggiungo che questo lavoro è prezioso anche perché è frutto della collaborazione tra ricerca di base, quella condotta dal Cnr, finanziata solo con fondi Usa, e la ricerca clinica svolta all’ospedale microcitemico, sostenuta in parte con fondi regionali.»