Università: Non basta alleggerire i carichi di studio Ordinamenti didattici: La sfida è guidare i mutamenti in atto Atenei, il provincialismo fa emigrare i migliori UNIVERSITA':Mille tirocini in un anno Politiche di eccellenza tecnologica Salute: Un mondo di doppie verità ================================================================== Londra: Ospedali, test igiene: uno su tre non passa L'università di Cagliari gli ha sbattuto la porta in faccia "Aids, nessuna schedatura" Medici dentisti senza specializzazione: arriva la sanatoria Veleno di tarantola contro i disturbi cardiaci? Bisturi monouso per le tonsille Anticorpi killer di cellule cancerose Un molare cambia la storia dei mammiferi? Vecchiaia: sembra che non esistano limiti biologici insuperabili Inibizione dell'angiogenesi per tumori al cervello Fondi alla Asl, si aspetta solo la firma a Roma dell'intesa ================================================================== Natale: Bilancio magro per il commercio elettronico Catastrofisti nemici dell'ambiente ================================================================== _______________________________________________________ Il Sole24ore 4 gen. 01 Università: Non basta alleggerire i carichi di studio di Massimo Firpo È a dir poco singolare il modo in cui non di rado alcuni dei più accaniti fautori della riforma universitaria sono soliti rispondere alle critiche sollevate da più parti. Una delle più diffuse e motivate, com'è noto, è che tale riforma non potrà non provocare una grave dequalificazione del livello culturale e professionale dei nostri laureati. Nel rispondere ad essa Guido Martinotti ("Il Sole-24 Ore", 22 dicembre 2000) si avvale, tra l'altro, di una serie di incontrovertibili dati statistici, che indicano lo scarso numero dei laureati italiani, a causa dell'elevatissima e crescente percentuale di abbandoni. È verissimo: si tratta di un problema molto serio, che non può essere ignorato. È altrettanto vero, tuttavia, che la risposta fornita dalla riforma consiste in sostanza nell'abbreviare e facilitare il percorso universitario, vale a dire si riduce appunto a nulla più che una sostanziale dequalificazione degli studi. È dunque prevedibile che tra qualche anno il nostro Paese potrà vantare percentuali migliori nel rapporto iscritti/laureati, ma è anche prevedibile che tali laureati saranno di più basso livello (si vedrà se mediocre, scadente o pessimo). È difficile non osservare che a fare le riforme così, a un tanto al chilo, sono capaci tutti: si riducono i corsi di un anno, si dimezzano i carichi di studi (è quanto sta avvenendo) e un po' di studenti in più ce la faranno. Eccellente soluzione! Anche perché se poi non funzionasse basterà abbreviare e ridurre ancora un po' e tutto andrà a posto. Peccato che un altro strenuo sostenitore della riforma come Aldo Schiavone si affanni a spiegarci ("la Repubblica", 5 agosto 2000) che il primo triennio dovrà impartire "saperi moderni e diffusi, con attitudini alla critica e all'autocontrollo... sapere qualificato e diffuso (diciamo anche di massa) senza del quale la nostra società non avrà futuro". Ce lo auguriamo tutti, naturalmente, ma si tratta di stabilire se la strada segnata dalla riforma andrà in questa direzione, oppure - come io credo - in quella opposta. Sono del tutto convinto, tanto per sottrarmi all'immagine di accanito laudator temporis acti che Martinotti cerca di cucirmi addosso, che il "3+2", avrebbe potuto essere una buona strada per uniformare gli studi universitari italiani a quelli europei e per consentire tappe intermedie ai percorsi formativi. E quindi ben venga. Ma sarebbe stato indispensabile definire con qualche chiarezza i compiti di formazione generale e quelli di professionalizzazione per il primo triennio - perché le due cose ovviamente sono molto diverse - senza abbandonare la soluzione del problema ai cento fiori dell'autonomia, che a sua volta, a causa del permanente valore legale dei titoli di studio, nelle facoltà che già hanno avviato la riforma (almeno per quanto riguarda quelle umanistiche) sta scatenando una vergognosa concorrenza al ribasso tra facoltà e corsi di laurea alla disperata caccia di nuovi iscritti. Oppure, tanto per restare al problema cruciale degli abbandoni studenteschi, si sarebbero potute percorrere anche altre strade; per esempio un maggior raccordo tra università e ultimo anno della scuola media superiore, oppure test d'ingresso che valutassero attitudini e preparazione di base e ponessero qualche condizione minima di accesso. In molte facoltà gli abbandoni scaturiscono non solo e non tanto dalla lunga durata e dalla difficoltà degli studi, come dimostra il fatto che la maggior parte di essi si verifica nel primo o secondo anno, talora senza neanche l'esperienza di qualche esame: scaturiscono cioè anche dall'utilizzazione dell'università come area di parcheggio giovanile, dal riversarsi su di essa di istanze velleitarie, nonché da molti dei mali endemici di un mondo accademico da sempre poco attento alle esigenze studentesche. E molto si sarebbe potuto e dovuto fare in termini di organizzazione degli studi, riforma della didattica, accorpamento delle discipline, diritto allo studio, strutture, biblioteche e servizi, funzioni e compiti dei professori, incentivi alla qualità e continuità della ricerca, reclutamento del corpo docente, possibilità di accesso alla carriera universitaria da parte delle nuove generazioni, e così via. Ma di ciò poco o nulla si vede all'orizzonte, tanto da autorizzare i sospetti di chi ritiene che la riforma in sostanza non sia altro che una semplice degradazione dello status quo a un livello più basso; come del resto dimostra al di là di ogni dubbio il nuovo meccanismo dei concorsi, a dir poco indecente. Sono ben lungi, dunque, dal difendere a oltranza la vecchia università, con tutti i suoi vizi, i suoi limiti e anche le sue aberrazioni, e sono convinto che essa necessitasse di una incisiva riforma. Credo invece che quella infine varata dal Governo, dopo molteplici variazioni e svolte in corso d'opera, sia né più né meno che pessima, priva di ogni coerente disegno generale, spesso scaturita solo dalla pressione di incontrollabili spinte corporative, come l'ultimo decreto sulle lauree specialistiche dimostra in modo plateale (si veda "Il Sole-24 Ore" del 5 dicembre 2000). Mi parrebbe quindi opportuno che i padri fondatori della riforma entrassero nel merito delle questioni specifiche, senza limitarsi a indossare i panni degli arditi e moderni innovatori, capaci di guardare al futuro a onta delle tenaci resistenze di baroni ottusi e reazionari, come fa Martinotti con qualche futile battuta. Gli consiglierei di andarsi a leggere quanto sulla riforma scrive l'autorevole "Neue Zürcher Zeitung" (2/3 dicembre 2000), a giudizio della quale "mezza Europa riderà di quanto sta avvenendo", la reputazione dell'università italiana è destinata a "degradarsi molto al di sotto della decenza", la laurea triennale "varrà meno di una schedina del totocalcio non giocata", i nuovi concorsi sono una "farsa", un "disastro". Per quanto attiene gli studi umanistici, infine, i più esposti ai cambiamenti in atto, abbandonati alla dilagante ondata mediatica e relegati a margini residuali, sarebbe bene che si prestasse qualche ascolto alla voce di tanti autorevoli esponenti dell'alta cultura italiana. Fare piazza pulita dei saperi che, a quanto mi consta, costituiscono ancora lo strumento migliore per una comprensione critica del presente potrebbe avere entro breve tempi conseguenze devastanti in relazione ad alcune delle più impegnative sfide del futuro. ___________________________________________________ Il sole 24 gen. 01 Ordinamenti didattici: La sfida è guidare i mutamenti in atto di Alessandro Figà-Talamanca La discussione in atto tra critici e sostenitori della riforma degli ordinamenti didattici universitari ha il difetto di mantenersi a un livello molto astratto. Si discute come se la nuova normativa fosse destinata a cambiare la natura dell'istruzione superiore, abbassandone irrimediabilmente il livello per gli uni, migliorandone il rendimento, o adeguandola all'Europa, per gli altri. Essa però interviene su una realtà che, fin dagli anni 60, si è profondamente trasformata per effetto di spinte economiche e sociali, in gran parte ignorate dalla legislazione universitaria. L'apparente immobilità del sistema è quindi più formale che reale. Altrettanto formali potrebbero risultare i cambiamenti imposti dalla riforma, se non fossero sostenuti dalle mutazioni ormai da tempo avvenute nei rapporti tra la società e le istituzioni universitarie. In effetti, la paventata trasformazione dell'istruzione universitaria in istruzione post-secondaria di massa è già avvenuta. E non solo per l'incredibile aumento, acceleratosi negli ultimi anni, dei diciannovenni che, almeno inizialmente, chiedono una formazione universitaria (quasi la metà paga la prima rata per un corso di laurera), ma anche per l'aumento dei laureati. Infatti, nonostante la lunghezza dei percorsi didattici e l'altissimo tasso d'abbandono, i laureati stanno raggiungendo il 15% della rispettiva fascia di età. È una percentuale paragonabile a quella dei giovani che, fino a qualche anno fa, conseguivano in Inghilterra un diploma universitario triennale. È vero che il Governo inglese ha deciso di raddoppiare questa cifra. Ma è anche vero che la metà almeno dei diplomi universitari inglesi è conseguita in istituzioni dove non si pretende di svolgere ricerca scientifica e che, fino al 1992, non potevano nemmeno fregiarsi del nome di università. Anche la diversificazione, in termini di qualità, degli studi universitari è ormai un dato irreversibile del nostro sistema. Sappiamo bene che solo sulla carta i laureati italiani ricevono una formazione dello stesso livello: persino nella stessa sede e per la stessa disciplina ci può essere un'enorme differenza tra il migliore e il peggior laureato. Capita che la preparazione di un laureato italiano superi quella di un collega inglese o americano che ha conseguito con ottimi voti un Master, nella stessa disciplina, in una delle migliori università del suo Paese. Ma capita anche che le conoscenze veramente possedute, e non solo acquisite sulla carta, da un laureato italiano siano inferiori a quelle di un diplomato inglese che ha frequentato per tre anni soltanto un'università di livello medio o basso. Insomma, abbiamo già un'università di massa, che fornisce un prodotto ampiamente diversificato: lo sviluppo economico e sociale ha prodotto una trasformazione non pianificata, e forse non voluta, del sistema universitario italiano, che lo ha reso non dissimile da quello degli altri Paesi industriali. L'abbandono d'ogni tentativo di governare questa trasformazione ha dato luogo però ad alcune pesanti anomalie. Prima di tutto, in Italia il laureato mediocre è, in generale, quello che ha speso più tempo negli studi. Negli altri Paesi chi passa otto anni della propria vita a pieno tempo in un ateneo ne esce con una preparazione di altissimo livello, certificata in genere da un dottorato di ricerca. In Italia, invece, i lunghi anni spesi a studiare come "fuori corso" sono, quasi sempre, faticosamente impiegati per dimenticare quello che si è imparato nei primi e per perdere la disponibilità ad apprendere che si possedeva prima di iniziare gli studi. La laurea meno qualificata è quella che costa di più: allo studente, alla famiglia e anche alla società, che paga il ritardo nell'immissione dei giovani laureati nel mercato del lavoro. È questa l'anomalia che la riforma dovrebbe proporsi di correggere, fornendo agli studenti un'istruzione compatibile con le loro aspettative e capacità, di livello non inferiore a quello effettivamente conseguito oggi dalla maggioranza degli studenti, ma in tempi più brevi. Sul piano teorico non dovrebbe essere difficile, dato il livello effettivamente raggiunto dalla maggioranza dei laureati. Ma perché questo possa avvenire bisognerà che i docenti abbandonino il pregiudizio che la lunghezza degli studi universitari corrisponda per tutti a un maggior approfondimento, e non porti invece in molti casi a spegnere la curiosità e a diminuire la capacità di affrontare in modo autonomo problemi e situazioni nuove, non contemplate nei libri di testo e nei manuali. Si tratta di un pregiudizio difficile da abbandonare, perché riflette, o almeno rifletteva, l'interesse all'espansione dell'organico dei docenti nelle diverse aree disciplinari. Questo interesse è ora incrinato dagli effetti del calo demografico che, a partire dal 1994, ha portato a una diminuzione, in valori assoluti, del numero degli immatricolati, mentre continua a crescere la percentuale dei diciannovenni che si iscrivono all'università. Questa diminuzione, più accentuata nelle facoltà scientifiche e tecniche, porterà i docenti a riflettere più attentamente sugli effetti del loro insegnamento e a adattare i programmi alle effettive esigenze degli studenti e del mercato del lavoro. Non per nulla i docenti che fanno più resistenza al cambiamento sono quelli delle facoltà dove la diminuzione del numero degli immatricolati è meno sentita, o è vissuta come un fatto positivo, in particolare a Giurisprudenza. Tuttavia è difficile trovare un professore di diritto che non lamenti l'incapacità della maggioranza dei laureati a svolgere correttamente un ragionamento giuridico; e che non ammetta che memorizzare migliaia di pagine di manuali, al fine di riprodurne meccanicamente il contenuto al momento dell'esame o in un concorso pubblico, non può porre rimedio a una simile carenza, ma rischia piuttosto di aggravarla. Un'altra anomalia del sistema - lasciata intatta dalla riforma, ma della quale si deve tener conto nell'applicazione dei nuovi ordinamenti - è che l'Italia è forse il solo Paese dove è prevista un'unica istituzione, l'università, per impartire un'istruzione che è già e sarà sempre più differenziata per livello e qualità. Altrove sono previste istituzioni di diverso livello, che spesso non pretendono di essere anche "sede primaria della ricerca scientifica", come invece è richiesto dalla legge italiana a tutti gli atenei. L'Italia è insomma il solo Paese dove lo stesso corpo docente dovrà fornire un'istruzione di massa, che in molti casi non si discosterà molto, per qualità intrinseca, se non per contenuti, dall'istruzione impartita negli anni 60 dai migliori istituti tecnici, e allo stesso tempo formare l'élite scientifica e professionale. Questa peculiarità è frutto di scelte, o meglio "non scelte", che risalgono agli anni 60, quando l'ipotesi di creare istituzioni parauniversitarie analoghe a quelle sviluppate negli stessi anni nei principali Paesi europei fu clamorosamente bollata dalla sinistra come un bieco tentativo di consolidare la struttura classista della società. Ad oltre trent'anni di distanza da quella decisione, non esistono strade alternative. L'università italiana, infatti, non ha soltanto un corpo studentesco molto differenziato per capacità, aspettative e ambizioni, ma anche un corpo docente che, a seguito di un'espansione più che proporzionale a quella degli studenti, è, in tutte le sedi, profondamente differenziato in termini di qualità scientifica. L'ipotesi di concentrare la formazione di élite e i docenti scientificamente più attivi in poche sedi sarebbe non solo politicamente inagibile, ma praticamente impossibile. Ogni conato in questo senso finirebbe per favorire le ambizioni dei docenti più anziani, meglio connessi politicamente e probabilmente meno creativi, che potrebbero ritirarsi in amene e prestigiose sedi, nelle quali sarebbe un grave errore convogliare gli studenti migliori. Questo significa che l'istruzione di élite e l'istruzione di massa dovranno essere compito di tutte le sedi. _______________________________________________________ Il Sole24ore 3 gen. 01 ATENEI, IL PROVINCIALISMO FA EMIGRARE I MIGLIORI di Alessandro Schiesaro È recentemente tornato in primo piano il dibattito sulla fuga dei cervelli dal nostro Paese, alimentato in parte dalle polemiche su alcuni episodi di malcostume accademico, in parte da una riflessione più generale sull'università e la ricerca italiane nel contesto internazionale. Pur in assenza di statistiche dettagliate, è evidente che il problema esiste. Il brain drain è simbolizzato dai Nobel Levi Montalcini e Rubbia, che hanno entrambi conseguito il Premio lavorando in istituzioni estere; e molti altri esempi sarebbero possibili. In Gran Bretagna e negli Usa - ma anche in Canada, Francia, Germania - non sono pochi gli italiani che hanno conseguito posizioni di rilievo nella ricerca e all'università. Che cosa provoca la "fuga", e in che modo porvi rimedio? Quasi tutti gli studiosi che si trovano all'estero iniziano con esperienze di studio, come corsi di Master o PhD, che presentano, soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, opportunità di ricerca e di finanziamento spesso inimmaginabili in Italia. Si inserisce, a quel punto, la profonda differenza nel reclutamento del personale accademico, in quei Paesi praticamente opposto a quello italiano: trasparente, veloce, meritocratico, mobile a tutti i livelli. Di norma, tra la domanda di lavoro e la decisione finale intercorrono solo pochi mesi: circa quattro negli Usa, spesso meno di tre in Gran Bretagna. I concorsi sono frequenti e prevedibili. La possibilità di contrattare non solo e non tanto lo stipendio, quanto soprattutto un pacchetto complessivo, che include fondi di ricerca, posti di assistente, borse di studio, fondi di viaggio, consente scelte consapevoli e un rapido reinserimento in nuovi ambienti di ricerca. Da ultimo, la fiducia nei meccanismi di finanziamento nazionale - fondazioni, enti pubblici, ministeri - assicura che progetti di ricerca validi troveranno al momento opportuno ulteriore sostegno, senza essere soggetti alle cabale di comitati e commissioni troppo spesso influenzate da fattori non scientifici. Anche settori quali le scienze umane e sociali troverebbero senza dubbio giovamento dal rientro di studiosi che hanno accumulato esperienze e competenze all'estero. Ma è soprattutto l'emigrazione intellettuale di ricercatori in campo scientifico e tecnologico a costituire uno spreco inaccettabile in settori nei quali l'Italia necessita ora come non mai di decise spinte in avanti. Non si tratta solo di aumentare le risorse finanziarie disponibili: si tratta soprattutto di utilizzarle meglio - l'Italia presenta uno dei rapporti più sfavorevoli tra denaro speso e risultati ottenuti, quasi sempre a causa di eccessivi costi di struttura - e di creare un sistema che possa effettivamente proporsi come possibile destinazione di rientro per gli italiani all'estero. In questo momento le possibilità concrete sono quasi nulle. L'ostacolo principale è costituito dal meccanismo dei concorsi. Fino al 1998 questi erano poco frequenti e del tutto imprevedibili. Chi era abituato ai sistemi in uso all'estero, difficilmente era disposto ad attendere anche cinque anni per presentare una domanda. Anche maggiore era l'ostacolo costituito dalla natura nazionale del concorso. Studiosi abituati a scegliere a ragion veduta l'istituzione dove concorrere raramente accettavano di rientrare in Italia partecipando a concorsi che - anche quando condotti nell'esclusivo rispetto dei meriti scientifici - potevano spedirli indifferentemente a Trento o a Palermo, in un'istituzione di ricerca di valore internazionale o in una sede periferica che di universitario, nel senso forte del termine, aveva solo il nome o poco più. Ma il sistema oggi in vigore è anche peggio. Certo, ora i concorsi sono più frequenti e si può presentare domanda sede per sede. Il concorso, però, non designa un vincitore ma tre "idonei" (due a partire dall'anno appena iniziato), di cui uno solo sarà effettivamente chiamato dall'università che ha bandito il posto. In pratica il candidato locale ha quasi sempre la garanzia di essere chiamato, anche perché alla sede che ha bandito il posto è riservato in pratica un diritto di veto; gli altri idonei saranno prima o poi promossi dall'università in cui già si trovano. Grazie a questo sistema, due terzi dei posti da ordinario o associato effettivamente coperti negli ultimi anni non sono mai stati banditi, e per essi nessun candidato, italiano o estero, ha potuto presentare domanda. Anche qualora conseguisse l'idoneità, chi non si trova già inquadrato in un ateneo italiano rimarrebbe per tre anni in attesa di una chiamata (in una sede diversa da quella per cui ha fatto domanda) possibile in teoria ma in pratica, vista la deriva localistica ormai inarrestabile, quasi impossibile. Come porre rimedio a questa situazione? Prima di tutto eliminando il meccanismo delle idoneità multiple ed esigendo che ogni concorso abbia un solo vincitore: alla commissione la responsabilità di scegliere il migliore o di esporsi allo scandalo preferendo chi non lo merita. Non saremo di fronte a una revisione complessiva dei meccanismi di concorso: per farla bisognerebbe almeno rivedere i meccanismi di composizione delle commissioni, e distinguere in modo serio tra meccanismi di assunzione e di promozione. Sarebbe però un primo passo tangibile nella direzione giusta. Il beneficio sarebbe ovvio non solo per gli italiani all'estero, ma per tutti i concorrenti: i migliori hanno solo da guadagnare da un sistema più meritocratico e aperto. La stagnazione della ricerca e dell'università è dovuta in misura preponderante proprio all'immobilismo garantito dall'attuale legislazione: quando per sedi anche prestigiose presentano domanda solo tre candidati - tutti, quindi, destinati a vincere - ci troviamo evidentemente di fronte a un meccanismo incancrenito e disonesto. Altre iniziative per rimediare al brain drain hanno carattere più specifico. Il ministro Ortensio Zecchino, anche in risposta alle esigenze espresse dalla prima Conferenza degli italiani nel mondo, che si è svolta a dicembre a Roma, ha annunciato la creazione di un apposito Fondo nazionale che incentivi chiamate dall'estero, sia di italiani sia di stranieri. Il Fondo prevede, come è giusto, anche finanziamenti per specifici progetti di ricerca. Si tratta di una scelta importante e innovativa e ci si deve augurare che le università superino inerzie interne e colgano a pieno questa occasione di cambiamento. _____________________________________________________ La Nuova 2 gen. 01 UNIVERSITA':Mille tirocini in un anno Entro il mese 50 studenti parteciperanno agli stage Cagliari. L'Università di Cagliari, tra il 1999 e il 2000, ha attivato circa 950 tirocini. È stata inoltre predisposta la documentazione necessaria per consentire ad altri 50 studenti di iniziare lo stage nella prima metà di gennaio. L'iniziativa, correlata alle attività di orientamento, consente agli studenti che abbiano concluso gli studi universitari o prima del conseguimento della laurea, l'ingresso "protetto" nel mondo del lavoro. Attraverso un "contratto" trimestrale a carico dell'ateneo, che prevede, oltre all'assicurazione, un compenso forfettario. Gli universitari o i neo-dottori possono avere maggiori chanches per inserirsi nel mondo produttivo, acquisendo competenze operative. I tirocini hanno anche la finalità di completare la formazione dello studente e rappresentano un "credito" per il laureando. Su 711 tirocinanti che hanno terminato il periodo di "vita in azienda" - il trimestre peraltro può essere semestralizzato se l'impresa si assume l'onere del compenso - le donne sono quelle che hanno maggiormente usufruito dell'opportunità. Sono state infatti 492 (i maschi 219). Il 70% dei partecipanti ha colto la possibilità subito dopo aver conseguito la laurea (498 casi), mentre il 30% (213) ha voluto effettuare l'esperienza prima di concludere il percorso formativo. Anche su questo fronte, le donne hanno fatto la parte da leone. Sono state, infatti, 337 su 498 quelle in possesso della laurea e 161 su 213 quelle che non avevano ancora discusso la tesi conclusiva. Per quanto attiene le Facoltà di provenienza, è stata quella di Scienze della Formazione, con 174 tirocini attivati, a innestare sul mercato il maggior numero di universitari. Agli umanisti hanno fatto eco i tecnici: 158 sono stati i giovani ingegneri che hanno maturato questa esperienza. Un pò staccata dai primi due, Economia ne ha promosso 86. Seguono Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali con 68 tirocini, Scienze Politiche con 53, Giurisprudenza e Lettere e Filosofia con 52. Le ultime in "graduatoria" risultano Farmacia (39), Medicina e Chirurgia (19) e Lingue e Letterature Straniere (10). Il fenomeno tirocini, nato in sordina con una prima esperienza nell'ambito dei diplomi universitari, ha avuto una crescita esponenziale nella prima metà del 2000. Tra marzo e giugno ne sono stati attivati 280 e successivamente hanno mantenuto una media di 80 al mese. Il successo dell'iniziativa è stato inoltre riscontrato dall'apposito "Sportello Tirocini" dell'Ufficio orientamento dell'ateneo, che ha registrato una media mensile di 600. _______________________________________________________ Il Sole24ore 3 gen. 01 Politiche di eccellenza tecnologica di Riccardo Viale* Ha ancora significato la presenza del ministero dell'Industria in un paese come l'Italia? Per rispondere a questa domanda è opportuno chiedersi quali dovrebbero essere oggigiorno le funzioni pubbliche dirette (centrali o periferiche) a supporto del mondo dell'impresa industriale (tralasciando le politiche di sistema come quelle per la Pubblica amministrazione e le infrastrutture). Vi sono alcuni compiti tradizionali ovvii, ad esempio quelli di politica finanziaria e monetaria. Banca d'Italia e ministero del Tesoro hanno un ruolo cruciale nel favorire o meno uno degli input fondamentali di ogni impresa industriale, il capitale finanziario. A questa funzione si lega strettamente quella fiscale che ha la possibilità di pilotare lo sviluppo dell'impresa attraverso il piano più o meno inclinato dato dalla struttura degli incentivi selettivi. Infine non possono essere dimenticate le funzioni di politica del lavoro e dell'istruzione e formazione che sovrintendono allo sviluppo di un altro fattore cruciale dell'impresa quello del capitale lavoro (anche se la auspicata progressiva liberalizzazione diminuirà drasticamente il ruolo del decisore pubblico). Oggigiorno, però, una nuova funzione si sta affermando prepotentemente negli esecutivi dei principali pesi Ocse, quella della politica scientifica e tecnologica. Un tempo la politica della ricerca era relegata ai margini dell'attività di governo, in ministeri senza portafoglio e senza peso o dispersa in diversi ministeri dove rimaneva compressa e soffocata da altre priorità. Oggigiorno, invece, i governi Ocse più accorti stanno ripensando il ruolo che dovrebbe giocare il coordinamento dell'attività di ricerca ed innovazione. Le ragioni sono evidenti. Non si tratta solo del rapporto positivo noto a tutti fra capacità innovativa e crescita economica o fra intensità tecnologica e competitività nell'export (con tassi di crescita nell'export superiori al 10% per industria farmaceutica, della comunicazione ed informatica). Vi é un altro dato socialmente e politicamente più "pesante". Le industrie ad alta tecnologia, cioè quelle dove è maggiore l'investimento in ricerca, sono quelle che creano più posti di lavoro e come si evince dai dati dell'Ocse le nazioni, ma anche le regioni europee che investono di più in Ricerca & Sviluppo sono quelle più capaci a combattere la disoccupazione (con all'estremità positiva il Baden Württemberg e a quella opposta Andalusia ed Estremadura). La politica della Ricerca & Sviluppo che i governi oggi devono coordinare e, però, ben più complessa di quella del passato. Non si tratta di aiuti diretti alle imprese per promuovere l'attività innovativa o di rinverdire in senso tecnologico gli esangui e burocratizzati distretti industriali. Oggi la politica scientifica e tecnologica ha soprattutto lo scopo di creare le condizioni per promuovere da una parte l'eccellenza della ricerca accademica in settori tecnologicamente prioritari e dall'altra il trasferimento di questa conoscenza nel mondo industriale. Sembra questo infatti uno dei principali catalizzatori della innovazione tecnologica e della competitività industriale. Ad esempio negli Stai Uniti in una recente valutazione della legge federale Bayh-Dole del 1980 a favore del trasferimento tecnologico tra università, centri di ricerca ed imprese, si è stimato come ogni anno l'attività economica diretta attribuita alla commercializzazione di nuove tecnologie da parte delle istituzioni accademiche sia ammontata a circa 60mila miliardi di lire e 250mila nuovi posti di lavoro. Questa è, però, una stima media del periodo a partire dal 1980 che i dati odierni non fanno che amplificare e non considera l'attività economica indiretta legata alla industrializzazione di nuovi prodotti. Si potrebbe obiettare da parte dei sostenitori dell'"eccezionalismo" americano che l'esempio statunitense non può darci significativi insegnamenti per la peculiare connessione tra finanza, impresa ed università di quel paese che rende inutili molte delle, altrimenti necessarie, tradizionali ricette europee di politica industriale. Questa obiezione lascia, però, il tempo che trova se si va a vedere proprio cosa sta succedendo in Europa. In primo luogo cosa contraddistingue le regioni a più alta crescita industriale e occupazionale è un'attenzione sempre maggiore proprio verso il trasferimento di conoscenza tra ricerca pubblica ed industria. Il Baden Württemberg con l'iniziativa delle Fondazioni Stenbeis o alcune università britanniche con i loro incubatori e parchi tecnologici sono un esempio promettente, anche se ancora insufficiente. In secondo luogo sono proprio le tradizionali ricette dirigistiche ed in certi casi assistenzialistiche di politica industriale ad essere sul banco degli accusati per la fiacca crescita economica e la scarsa competitività europea. La politica industriale dei principali paesi europei, nata nel dopoguerra per sostenere settori a bassa tecnologia e per salvare aree in crisi, si trova impreparata a promuovere lo sviluppo di settori hi-tech come la nuova industria farmaceutica e biotecnologica, quella dell'informazione, della comunicazione e della microelettronica che rappresentano il vero volano del primato industriale odierno. Come ci insegna l'esperienza statunitense la nuova politica a sostegno della competitività tecnologica ed industriale è composta da due elementi principali scarsamente presenti in Europa: da una parte dalla politica finanziaria e fiscale per indirizzare dal basso l'afflusso di maggiori capitali privati verso il finanziamento della ricerca, del trasferimento tecnologico e della formazione di nuove imprese hi-tech e dall'altra dalla politica scientifica e tecnologica per sostenere lo sviluppo dell'eccellenza scientifica e della ricerca di frontiera in quelle tecnologie "critiche" considerate prioritarie per il futuro sviluppo industriale del paese. Il recente programma di Clinton a sostegno della ricerca sulle nanotecnologie ne è un esempio. Per ritornare alla domanda di partenza la ovvia conclusione di questo ragionamento è che non sembra più avere molto significato la presenza di un Ministero dell'Industria in un paese come l'Italia. La politica che serve per l'industria si fa fuori dal ministero dell'Industria. Essa è diventata ormai un sottoinsieme della politica macroeconomica, fiscale e della ricerca. Servirebbe semmai potenziare il ministero della Ricerca scientifica e tecnologica che in Italia è ancora considerato la cenerentola della compagine governativa. Questo ministero dovrebbe ottenere il coordinamento totale della politica scientifica e tecnologica. Che significa anche di quella legata ai settori di bassa e media tecnologia. Purtroppo con la legge Bassanini c'è il rischio di andare nella direzione opposta, annichilendo la politica della ricerca a quella della istruzione primaria e secondaria. La Spagna, in grave ritardo tecnologico, ma con meno vincoli rispetto a schemi superati del passato, ha imboccato con coraggio e lungimiranza questa strada. Nel suo governo non esiste più un ministero dell'Industria, mentre il motore della politica industriale è diventato il nuovo ministero della Scienza e tecnologia. E se uno ha la possibilità di visitare la sede dell'Ocse a Parigi si affannerà non poco a cercare la Direzione di politica industriale. Infatti non la troverà per il semplice motivo che è una piccola parte di quella sulla politica scientifica e tecnologica! *Fondazione Rosselli _______________________________________________________ La Repubblica 7 gen. 01 Salute: Un mondo di doppie verità di GIORGIO BOCCA IL revisionismo dilaga e domina non solo nella storia. Non c'è aspetto della nostra vita individuale e associata che non venga ogni giorno sottoposto al gioco massacrante dei sì e dei no che si alternano in un vuoto assoluto, in una assenza assoluta di gravità, esente dalla fatica di ragionevoli smentite. Tutto in forma di scoperta da new age, da vita nova. Lo sport, udite udite è un toccasana, fa bene alla intelligenza al sesso alla salute. E sulla stessa pagina, nello stesso giorno: lo sport fa male, sette calciatori sono morti di sclerosi da usura agonistica se ne occupa anche il pretore di Torino Guariniello, quello che fa collezione di veleni e fatture polisportive. E le cento verità sull'uranio impoverito? E' innocuo come dicono a Bruxelles dalla Nato o seminatore di cancri e leucemie come sospettano gli alleati minori e subalterni. In questa partita dei sospetti e delle doppie verità la Nato ha da decenni una parte regina, è lei a condurre la danza ora comica ora macabra dei golpe riusciti o falliti, o smentiti e delle tragedie amletiche tipo Ustica, con quell'andirivieni di accuse e contraccuse che vanno regolarmente a spegnersi contro il muro di gomma del più forte: "Voi dite che il missile contro l'aereo Itavia l'ho sparato io, il grande fratello americano, e io vi dico ancora una volta di no. E allora che fate se non abbozzare? E' l'uranio impoverito ad avvelenare uomini e terra? No sono le armi chimiche fabbricate da Milosevic. E dove stanno? Prima erano nascoste al confine con la Croazia ma ora sono sparite. Bisogna indagare, tutti i capi dei governi europei lo esigono, ma se quello americano uscente di Bill Clinton o quello entrante di George Bush dicono che non è necessario, che si fa? Si abbozza? E cosa ottiene il nostro ministro della difesa Mattarella se chiede ai serbi notizie sulle armi chimiche? Che succede se su un quotidiano italiano il politologo Giovanni Sartori dà al mondo settanta anni di vita o poco più, spiegando come l'acqua, la terra, l'aria siano consumate e avvelenate e lo stesso giorno lo stesso giornale riferisce che i tecnici dell'Enea hanno regalato al loro presidente e premio Nobel una valigetta contenente il primo congegno che trasforma l'idrogeno in energia elettrica, quanto a dire il combustibile senza fine e senza macchia? Niente succede, il ballo sulla corda continua giorno e notte. Il nostro vicesegretario generale dell'Onu, Pino Arlacchi, dice al convegno di Palermo che la lotta alla Mafia procede e subito i media traducono che la Mafia è morta. Ed è appena uscito un saggio della Ada Bechi in cui si spiega che ormai il confine tra la malavita organizzata e l'economia legale è quasi invisibile, che insomma la Mafia è ufficialmente morta ma campa benissimo dentro le banche e i vari uffici dei lavori pubblici... Che succede? Perché tutta questa confusione fra cielo e terra? Forse dipende dal fatto che non è facile di questi tempi trovare dei capri espiatori tipo Belzebù anche se il reverendo Milingo ci offre esorcismi e duelli vittoriosi con il Maligno. Ci accontentiamo del capro espiatorio, irraggiungibile e teorico che diamo per esistente, perché come ha detto il ministro Nesi a proposito della trappola Malpensa, "un colpevole deve pur esserci". E invece non c'è, non è il presidente Fossa e neppure il direttore generale che Fossa accusa di congiura, i colpevoli sono tanti e si credono incolpevoli, sono la neve e il gelo che si sono permessi di arrivare nonostante la presunta primavera eterna dell'effetto serra, sono i settantamila che volevano partire tutti lo stesso giorno. La ragione vera di questa grande confusione fra cielo e terra è che ci rifiutiamo di prendere atto che stavolta siamo arrivati davvero alla resa dei conti fra i nostri desideri e appetiti infiniti e un mondo non solo finito ma in via di autoconsumazione. Come in un gigantesco gioco allo "schiaffo del soldato" o se preferite al passaggio del cerino acceso cerchiamo colpevoli errori e rimedi che non esistono fuori di noi, dei nostri numeri incontenibili, dei nostri appetiti insaziabili. Dopo aver sconfitto il reverendo Malthus con la moltiplicazione dei pani e dei pesci delle rivoluzioni industriali o scientifiche dobbiamo prendere atto che i grandi numeri umani non sono compatibili con i confini stretti e le risorse limitate del mondo e che essendo l'emigrazione spaziale fuori dalle nostre ragionevoli attese non resta che autolimitare i numeri e regolare le scienze. Così pare che non sia, mentre preti ambientalisti e benpensanti tengono le loro prediche, si moltiplicano gli esperimenti di clonazioni e di manipolazioni dagli effetti imprevedibili e ognuno nel suo piccolo, appena può vi partecipa. Nei laboratori dell'università statale di Milano hanno inventato il topo lucciola, estraendo la luciferasi dagli insetti e inserendola in un topolino. Con quali effetti? "E chi lo sa - ancora oggi dice una delle scienziate Adriana Maggi - non conosciamo a fondo l'azione degli estrogeni sui vari organi umani". La confusione c'è perché la regola generale nella incertezza è il "qui lo dico e qui lo nego". Rimandando possibilmente la scelta a chi congenitamente non può darla autorità militari o civili obbligate al silenzio o alla menzogna, ricercatori che non rinunciano alla loro piccola gloria, industrie alla ricerca di nuovi profitti. Ma vedrete ci abitueremo anche a questo ballo di San Vito. ================================================================== _______________________________________________________ L'Unione Sarda 7 gen. 01 Londra: Ospedali, test igiene: uno su tre non passa Casi d'infezione in corsie sporche LONDRA La sporcizia si annida tra le corsie degli ospedali britannici: ben un terzo degli istituti gestiti dal Servizio sanitario nazionale, non ha passato i test sull'igiene voluti dal Governo Blair. La notizia, pubblicata dal quotidiano Times, è destinata a provocare ulteriore imbarazzo per l'Amministrazione, che proprio l'estate scorsa aveva messo a punto rigide direttive per tutti gli ospedali pubblici del Paese proprio per combattere questo fenomeno. Nel febbraio del 2000, infatti, era emerso che circa 5.000 pazienti muoiono ogni anno nelle corsie del servizio sanitario non a causa di medici incompetenti, ma in seguito alle infezioni contratte al loro arrivo negli ospedali. Il quadro, poi, era stato completato con i dati sui pazienti che si ammalano sui letti degli istituti: altri 100.000 all'anno. Nonostante questi dati, sembra che nulla sia cambiato. Nel suo piano per la Sanità, il Governo Blair si era impegnato a ispezionare regolarmente le condizioni igieniche degli ospedali. Vennero creati così i cosiddetti gruppi d'ispezione, formati da infermieri e rappresentanti degli stessi pazienti, che hanno realizzato il sondaggio. I risultati, pubblicati sulla rivista 'Health Service Journal', non sono affatto incoraggianti: su circa 700 ospedali esaminati, ben 250 sono stati bocciati. I test eseguiti sono semplici, ma alquanto indicativi: in molti casi sono state trovate lenzuola e asciugamani sporchi, un servizio di raccolta dei rifiuti inefficiente nonché corsie in disordine con pavimenti sporchi. L'opposizione ha colto al volo i risultati della ricerca per attaccare il Governo: "I pazienti che entrano negli ospedali temono di contrarre infezioni mortali" ha commentato Liam Fox, ministro della Sanità nel Gabinetto "ombra conservatore". "Ci dispiace vedere il servizio ospedaliero della quarta economia del mondo in queste condizioni, sporco e abbandonato", ha aggiunto. L'associazione che rappresenta i manager degli ospedali pubblici britannici, intanto, ha puntato l'indice verso lo stesso Governo, che per risparmiare ha ridotto gli investimenti in questo settore. Lo scorso agosto l'ospedale londinese di St. Thomas è stato costretto a chiudere le sue sale operatorie per due settimane dopo la morte di due pazienti attribuita a un'infezione contratta nelle sue corsie. _______________________________________________________ L'Unione Sarda 3 gen. 01 L'università di Cagliari gli ha sbattuto la porta in faccia Il primo trapianto di intestino si sarebbe potuto fare a Cagliari, ma l'università ha detto no. No al ritorno in Sardegna del chirurgo Antonio Pinna. Dopo dieci anni di permanenza negli Stati Uniti, per lui non c'era possibilità di sistemazione decente. Che ripassasse un'altra volta. A Modena ne hanno subito approfittato. Quando hanno saputo che un allievo del mago del bisturi Andrea Tzakis, (Jackson memorial hospital di Miami) era disponibile, gli hanno subito assegnato una cattedra e attrezzato un reparto al Policlinico. E dopo aver ottenuto dal ministero l'autorizzazione a eseguire trapianti di fegato e intestino, domenica scorsa hanno annunciato il primo intervento. Il primo in Italia, eseguito con una tecnica innovativa di livello internazionale, che ha consentito di salvare la vita a un paziente di Catanzaro. Pinna avrebbe voluto farlo a Cagliari, ma quella che lui definisce "una mancata coincidenza di eventi" glielo ha impedito. Un signorile eufemismo, per celare un'assai meno nobile verità. Professor Pinna, ci vuole spiegare perché a Cagliari le hanno sbattuto la porta in faccia? "Sono sempre stato interessato ai trapianti. Così nell'86 andai al Policlinico di Milano. Avevo iniziato a svolgere una certa attività sperimentale sul fegato nella Clinica chirurgica di Cagliari, ma allora in Sardegna non era possibile andare avanti. Almeno in quel campo. Così nel 90 emigrai in America". Con la prospettiva di rientrare a Cagliari? "Sì, nel 92 mi promisero una certa sistemazione, ma alla fine non se ne fece niente. Così tornai subito negli Stati Uniti". E da allora non ha più pensato alla Sardegna? "Per la verità ci ha pensato Franco Meloni (ex direttore del Policlinico universitario e attuale manager del "Brotzu" ndr), una delle poche persone che ha creduto in me sino all'ultimo. È riuscito a farmi rientrare in Italia, ma non a Cagliari". Il motivo? "Lo chieda a lui". Non c'è niente da fare, il dottor Pinna ha uno stile decisamente refrattario alle polemiche. La verità però viene a galla lo stesso. Franco Meloni non ha infatti difficoltà a spiegare il fallimento di di una battaglia in cui ha creduto sino in fondo. "Conoscendo il valore del dottor Pinna e l'attività che svolgeva negli Usa, ho pensato che riportarlo a Cagliari rappresentasse un arricchimento per l'università e la sanità pubblica in generale". Veniamo al sodo, com'è andata? "Ne ho parlato col rettore e col preside della facoltà di Medicina, ma mi hanno fatto capire che la presenza del dottor Pinna non rientrava nei programmi di sviluppo dell'università". Insomma, le hanno risposto picche. Cos'è stato, un rigurgito di arroganza baronale? "Diciamo che non hanno saputo cogliere un'occasione". E a Modena? "A Modena non ci hanno pensato due volte". Prontezza di riflessi. Lucio Salis _______________________________________________________ La Repubblica 6 gen. 01 "AIDS, NESSUNA SCHEDATURA" L'Agenzia per la Sanità smentisce ma è scontro con Storace Dopo la denuncia di Aiuti il presidente del Lazio chiede senza ottenerle le dimissioni di Perucci di ALBERTO MATTONE ROMA - "Ci rifiutiamo di schedare i sieropositivi, come chiede l'Agenzia regionale per la salute pubblica. È un atto irresponsabile, che allontana i malati dagli ospedali". Francesco Storace blocca la ricerca dell'Asp, e accoglie l'appello dell'immunologo Ferdinando Aiuti, che giovedì aveva lanciato un grido d'allarme parlando di liste con nomi, professioni e persino abitudini sessuali di persone che hanno contratto l'Hiv. Il presidente della Regione accetta le dimissioni annunciate ma poi ritirate in serata da Carlo Perucci, direttore dell'Agenzia, e minaccia di commissariare il Cda dell'Asp se non caccerà il dirigente. La cura dei sieropositvi diventa un caso politico, che esplode dopo la richiesta dell'Asp di avere, per fini di studio, nomi e cognomi di persone contagiate. Il Polo decide di cacciare Perucci, il centrosinistra parla di "ennesima epurazione della destra". L'obiettivo della ricerca dell'Agenzia, finanziata dal ministero della Sanità, è di verificare se ci sono disparità di trattamento tra malati di diversa condizione sociale. Aiuti parla però di un floppy disk con 12.500 nomi di persone che, tra il '92 e il '99, si sono fatte curare presso le strutture sanitarie del Lazio. Nella lista ci sarebbero vip e gente comune, professionisti e attori, medici e infermieri. Il dischetto sarebbe protetto da una password, conosciuta però da tutti i centri di cura. "L'Agenzia viola la legge sulla privacy", attacca Storace, che convoca i giornalisti nel palazzo della Regione. "Non ero a conoscenza e non condivido la schedatura - aggiunge - se l'avessi proposta io mi avrebbero dato del nazista, non so se daranno del comunista al signor Perucci". Storace sollecita in una lettera al cda dell'Asp provvedimenti tempestivi, definendo "un atto grave la richiesta di schedatura, che allontana le persone dai centri di cura". "Se il consiglio di amministrazione non interverrà - avverte - interverrò io". Lo scontro sulla schedatura è l' ultima tappa di una guerra traPerucci, nominato insieme al Cda dall'ex presidente Badaloni, e la giunta polista di Storace, che imputa all'Asp "un'autonomia di cui non ha diritto". L'ultima battaglia, è stata sullo screening sanitario agli immigrati, proposto dall' assessore Vincenzo Saraceni e aspramente criticato da Perucci. "Si tratta di un servizio di assistenza agli extracomunitari che ne fanno richiesta", puntualizza il responsabile alla Sanità che, invece, dice di aver dato "parere contrario alla schedatura voluta dal direttore dell'Asp". "Chiederò che i floppy disk con i nomi dei malati di Aids siano distrutti", dice poi il professore Aiuti e aggiunge: "Perucci deve andare via, sono d' accordo con Storace". "Non esiste alcuna lista di 12.500 persone - si difende il direttore dell'agenzia regionale di sanità - se qualcuno lo sostiene, lo denuncio per diffamazione". Perucci nega di aver violato la legge sulla privacy e ricorda che "la ricerca sulla disparità di trattamento è stata approvata dalla Regione". "Il sistema di sorveglianza per le infezioni da Hiv - dice - è su base anonima, e gestisce informazioni su codici criptati". "Abbiamo poi un elenco - precisa il direttore dell'Agenzia - con informazioni nominative di 1086 sieropositivi volontariamente fornite dai centri clinici per la cura dell'Aids che partecipano dal '93 ad uno studio. In tutte le pubblicazioni della ricerca, compare il policlinico Umberto dove lavora il professor Aiuti, che è anche citato". "La violazione sulla privacy è solo un pretesto - sostengono Meta e Rodano dei Ds - si tratta di una epurazione politica. Storace umilia l'autonomia dell'Agenzia e la dignità di professionisti seri". Ora, la parola passa al consiglio di amministrazione dell'Asp, e si troverà lunedì prossimo di fronte al caso Perucci. Che, in serata, ritira la disponibilità a dimettersi, annunciando che "replicherà ad eventuali contestazioni". _______________________________________________________ Il Sole24ore 2 gen. 01 Medici dentisti senza specializzazione: arriva la sanatoria La nuova direttiva comunitaria sulle professioni, oltre a incidere sulla situazione dei medici, avrà un impatto molto importante per altre categorie. In prima linea dentisti e farmacisti italiani. Infatti, con questo provvedimento, viene definitivamente sanata l'annosa questione dei medici che esercitano la professione di dentista senza specializzazione, dopo lo spirare del termine ultimo previsto dalla direttiva 78/686/Cee. Si tratta dei laureati in medicina che hanno iniziato il corso di formazione tra il 28 gennaio 1980 e il 31 dicembre 1984. Per questo inadempimento l'Italia aveva già subito nel giugno 1995 una condanna da parte della Corte di giustizia. Il riconoscimento a livello comunitario è subordinato all'attestazione da parte dell'Italia: a) che il richiedente ha superato una prova attitudinale specifica che comprovi il possesso di competenze e conoscenze dello stesso livello di chi possiede una specializzazione riconosciuta; b) che ha esercitato per almeno tre anni consecutivi nel corso dei cinque anni precedenti la professione di dentista; c) che egli è autorizzato all'esercizio della professione in Italia. Va ricordato che all'inizio di dicembre l'aula della Camera ha dato, su questa materia, il via libera al progetto di legge per l'istitutzione di un Albo ad hoc per gli odontoiatri. Il progetto, che passa ora all'esame del Senato e si trascina da inizio legislatura, dovrebbe contenere anche la soluzione per superare il contenzioso con Bruxelles in relazione ai laureati in medicina, immatricolati fino al 1984-1985, che esercitano l'odontoiatria al di fuori dei parametri Ue. La direttiva in arrivo sulle professioni prevede, inoltre, una sanatoria anche per i farmacisti italiani diplomati che hanno iniziato il loro ciclo di studi universitari prima del 1º novembre 1993 e lo termineranno entro il 1º novembre 2003 e la cui formazione non è conforme alla direttiva 85/42/Cee. Infatti l'Italia ha recepito tale direttiva con oltre tre anni di ritardo, a partire dal 1º novembre 1990 anziché dal 1º ottobre 1987, per cui coloro che hanno iniziato il corso di studi universitari prima del 1º novembre 1993 hanno seguito una formazione non pienamente conforme a quella prevista dalla direttiva stessa. Nel febbraio 1994 l'Italia aveva subito per questo inadempimento una condanna da parte della Corte di giustizia. An.P. _______________________________________________________ Le Scienze 5 gen. 01 Veleno di tarantola contro i disturbi cardiaci? Il peptide GsMtx-4 agisce bloccando l'eccitamento dei canali ionici che dà inizio alla fibrillazione atriale Se il cuore soffre di aritmia, potrebbe essere utile un po' di veleno di tarantola. Lo ha scoperto un gruppo di ricercatori della State University of New York guidati da Frederick Sachs: un frammento di proteina contenuta nel veleno può calmare i disordini nelle contrazioni del muscolo cardiaco. La speranza è ovviamente di poter sviluppare farmaci efficaci contro la fibrillazione atriale, un disturbo che colpisce il cinque per cento della popolazione oltre i 65 anni. La patologia insorge quando le fibre muscolari nelle camere superiori del cuore, gli atri, cominciano a contrarsi a caso e in modo incompleto. Sebbene non sia di pericolo immediato per la vita del soggetto, la fibrillazione atriale può causare seri problemi di salute. Il flusso irregolare di sangue, infatti, può dar luogo alla formazione di coaguli che possono entrare in circolo, con conseguenze gravi: si calcola che circa il 30 per cento dei pazienti che hanno subito un ictus soffra anche di fibrillazione atriale. Nessuno conosce la causa precisa della fibrillazione, se non che è associata a eventi che allungano il muscolo cardiaco. Tale fenomeno stimola l'attivazione dei canali ionici che fanno battere il cuore a un ritmo più veloce. Secondo la ricerca di Sachs l'attività di questi canali ionici può essere bloccata dal peptide GsMtx-4, estratto dal veleno della tarantola nota con il nome scientifico di Grammostola spatulata, non pericolosa per l'uomo. Gli effetti di riduzione della durata e dell'intensità dell'aritmia sono stati sperimentati su un gruppo di conigli con fibrillazione atriale indotta artificialmente. I peptidi - ha spiegato Sachs - non sono un farmaco ideale poiché non possono essere assunti oralmente; la speranza è che il GsMtx-4 possa preparare il terreno per nuove terapie, guidando lo sviluppo di piccole molecole". Ma nell'ambiente medico-scientifico c'è anche chi invita alla cautela. "Certamente - ha commentato Andrew Grace, cardiologo dell'Università di Cambridge - si potranno iniziare sperimentazioni molto interessanti. Tuttavia non bisogna alimentare le speranze di una immediata applicazione sull'uomo: la fisiologia del coniglio è molto differente e non può dare indicazioni certe." _______________________________________________________ La Repubblica 5 gen. 01 BISTURI MONOUSO PER LE TONSILLE LONDRA - Per prevenire il "rischio teorico" di contrarre la versione umana del morbo della mucca pazza in sala operatoria, il ministero della Sanità britannica ha annunciato oggi l'introduzione di bisturi usa e getta. In particolare questi strumenti monouso saranno impiegati all'inizio solo nelle operazioni di tonsille, organo nel quale essendo costituito da tessuti linfatici si può annidare il virus della vCJD, la malattia degenerativa del sistema nervoso che ha già colpito in Gran Bretagna 86 persone che si ritiene abbiano mangiato carne bovina infetta. L'impiego di strumenti chirurgici usa e getta costerà 25 milioni di sterline l'anno, mentre altri 200 milioni saranno investiti per modernizzare i sistemi di sterilizzazione degli ospedali. Intanto i test rapidi anti-mucca pazza varati anche in Belgio hanno prodotto per la prima volta un "risultato positivo". _______________________________________________________ La Stampa 3 gen. 01 Anticorpi killer di cellule cancerose A Torino importanti sviluppi dei "monoclonali" creati da Milstein Vittorio Ravizza IL gruppo di Cesar Milstein del Medical Research Council dell'Università di Cambridge, Inghilterra, 25 anni fa annunciava la scoperta del metodo di produzione degli anticorpi monoclonali. "The magic bullet", il proiettile magico, fu definita la nuova arma in mano ai ricercatori, perché in grado di raggiungere e riconoscere selettivamente le cellule tumorali risparmiando quelle sane. La scoperta fruttò il Nobel al suo autore e suscitò grandi speranze perché prometteva di essere un'alternativa alla chemioterapia. In realtà è stato necessario un lungo lavoro per migliorare le caratteristiche degli anticorpi; i primi erano ottenuti da topi, poi si è passati a molecole miste o chimeriche (anticorpi "umanizzati"); la generazione più recente è costituita da anticorpi artificiali ottenuti in laboratorio da batteri o da piante, di solito dalle foglie del tabacco. Grazie alla nuova generazione di anticorpi si sono messe a punto applicazioni diagnostiche e terapeutiche molto innovative; in campo diagnostico gli anticorpi sono usati come dei segugi chiedendo loro, dopo averli marcati con sostanze radioattive, di andare a cercare nell'organismo gruppi piccolissimi di cellule non rilevabili in altro modo; nel campo della terapia si sfrutta la capacità selettiva degli anticorpi monoclonali per indirizzare il loro carico farmacologico direttamente sulle cellule cancerogene. Non è un caso che proprio nel venticinquesimo anniversario della scoperta di Milstein l'ottava edizione del Premio per la ricerca finalizzata alla lotta contro i tumori, istituito dalla Cassa di Risparmio di Asti insieme con la Lega italiana per la lotta contro i tumori, sia stato assegnato a Fabio Malavasi, direttore del laboratorio di immunogenetica, Dipartimento di genetica, biologia e biochimica della facoltà di Medicina di Torino; la giuria, presieduta da Umberto Veronesi, ha voluto sottolineare l'importante contributo che il gruppo di Malavasi sta dando all'impiego degli anticorpi monoclonali nella lotta al cancro. Nel laboratorio di Torino è stata allestita la più grossa collezione esistente di "ibridomi", cellule producenti anticorpi in grado di riconoscere cellule normali e cellule patologiche; il laboratorio è diventato così il punto di riferimento per la comunità scientifica internazionale impegnata in un grande sforzo per ottenere reagenti in grado di riconoscere molecole e recettori situati sulla superficie delle cellule normali e vederne le differenze rispetto alle cellule che sono andate incontro a trasformazioni neoplastiche. La tecnica ha segnato l'avvio della biotecnologia, con enormi effetti scientifici ed economici; e questo, ricorda Malavasi, benché l'MRC, l'organismo britannico che aveva finanziato le ricerche di Milstein, richiesto di un parere, avesse sentenziato che la scoperta "era totalmente priva di applicazioni pratiche". Milstein incorniciò questa precipitosa "sentenza", tenendola bene in vista nel suo studio. L'Unione Sarda 4 gen. 01 Laurea e master? "Ma per lavorare serve la spintarella" In Inghilterra le "conoscenze altolocate" da inserire nel curriculum le chiamano references. Anche in Italia le raccomandazioni si cercano, ma non si dice troppo in giro. Lei invece, laureata in lingue con il massimo dei voti e prima in un master di specializzazione alla Westminster University di Londra, la "buona parola" ha deciso di chiederla pubblicamente, dato che il mondo del lavoro sinora le ha sbattuto puntualmente la porta in faccia. "La meritrocrazia? Qui la strada è ancora lunga. Io chiedo chiaramente la raccomandazione. Non è possibile che sino adesso non sono riuscita a far valere le mie capacità". Una provocazione, certo, ma non più di tanto, quella di cui si è resa protagonista Roberta Curreli, 26 anni, autrice di una insolita lettera spedita per ora al "Costanzo show", ma destinata a finire fra qualche giorno sulle scrivanie dei vari uffici del personale dei diversi enti pubblici. Come dire: se il lavoro arriva per vie traverse, allora bisogna adeguarsi a costo di cercare la spintarella alla luce del sole. Roberta non è ancora alla disperazione, è ovvio, e la sua missiva non ha la pretesa di essere accolta. Ma l'iniziativa è comunque degna di riflessione. "Le ho provate proprio tutte e continuerò ad insistere - racconta - ma evidentemente i meriti non bastano". Eppure le sue referenze non sono da buttare: diploma con sessanta sessantesimi al Liceo classico di Carbonia, laurea con 110 e lode in lingue all'Università di Cagliari (conseguita in anticipo rispetto al piano di studi ufficiale). Poi, vincitrice di borse di studio e di corsi finanziati dalla Comunità Europea e, per finire, studentessa premiata con il massimo dei voti anche al master frequentato per un anno di fila in uno dei più prestigiosi atenei inglesi. Per il momento non le è servito a nulla conoscere l'inglese e il russo come le sue tasche. "Potrei anche insegnare in Inghilterra se mi appoggiassi a qualche agenzia specializzata, ma non è così facile", testimonia Roberta. Da quando ha terminato il normale corso di studi, la dottoressa in lingue non è certo rimasta ad aspettare la grazia. "Ho spedito il curriculum dappertutto, a Roma, nel Triveneto, in Lombardia. L'episodio più incredibile l'ho vissuto quando un'azienda mi ha chiesto il numero di partita Iva. Ma un disoccupato come fa ad avere la partita Iva?". Il suo sogno è fare la traduttrice. Ma, preso atto che talvolta per ottenere un lavoro ci vogliono le conoscenze, Roberta ha deciso di scuotere le coscienze con la lettera provocatoria: "Cerco una raccomandazione". _______________________________________________________ Le Scienze 5 gen. 01 Un molare cambia la storia dei mammiferi? Il ritrovamento di un molare tribosfenico al centro di un piccolo giallo paleontologico Il segreto dello straordinario successo evolutivo dei mammiferi placentati e marsupiali - spiegano i paleontologi - sta nei denti. Tali animali possiedono infatti un molare tribosfenico, adatto sia a tagliare sia a macinare: tale fattore è stato determinante per l'ampliamento della dieta. Ora tre paleontologi propongono una tesi innovativa: questo tipo di molare non fu una singola innovazione morfologica, ma il frutto di due successive evoluzioni. Fino poco tempo fa, i paleontologi credevano che i mammiferi con questo tipo di dente derivassero tutti da un antenato comune, vissuto nell'emisfero settentrionale durante il Cretaceo. A differenza di quanto accadde per i mammiferi placentati e marsupiali, i più primitivi monotremi non subirono variazioni morfologiche del molare, e continuarono a evolversi nell'emisfero australe. Le prime crepe nella teoria apparvero nel 1985, con il ritrovamento di una mascella fossile di mammifero chiamato Steropodone nelle rocce di formazione cretacica dell'Australia. La mascella chiaramente apparteneva a un monotremo, ma mostrava una posizione relativamente avanzata dei denti che li facevano somigliare vagamente a molari tribosfenici. Un ulteriore ritrovamento di questo tipo di molari avvenne nei tardi anni novanta in Australia e in Madagascar. La datazione fece risalire il reperto al Giurassico: l'animale visse nell'emisfero meridionale dieci milioni di anni prima che le specie con caratteri transitori popolassero il Nord. Per risolvere il mistero, Richard Cifelli del Museo di storia naturale dell'Oklahoma di Norman, Zhexi Luo del Carnegie Museum of Natural History di Pittsburgh, in Pennsylvania, e Zofia Kielan-Jaworowska della Accademia delle Scienze polacca, hanno proposto sull'ultimo numero di "Nature" che il molare tribosfenico possa essersi originato indipendentemente in due gruppi di mammiferi con storie evolutive separate: il primo vissuto nell'emisfero nord, il secondo nell'emisfero sud. "L'ipotesi spiega Bill Clemens dell'Università della California a Berkeley - è molto stimolante, ma non credo possa essere accettata senza riserve. Se ci si basa solo sui reperti, manca ancora una quantità impressionante di informazioni". _______________________________________________________ La Stampa 3 gen. 01 VECCHIAIA: SEMBRA CHE NON ESISTANO LIMITI BIOLOGICI INSUPERABILI RICERCA SVEDESE Supera i 120 anni la speranza di vita dei giovani d'oggi Ezio Giacobini L'ETA' massima della vita umana è cresciuta senza sosta nell'ultimo secolo e la tendenza continua. Contrariamente a quanto hanno sostenuto più volte i gerontologi, non sembrano esistere limiti fissi per la lunghezza della vita umana. L'idea che si potesse aumentare solo l'età media ma non quella massima si è dimostrata del tutto sbagliata. Né esiste un muro invalicabile dell'età media massima. In Europa e negli Usa si è ormai superata la soglia dei 100.000 centenari. Negli Anni 50 per trovare dei centenari bisognava salire in villaggi sperduti nelle montagne del Caucaso nella Georgia sovietica dove socialismo e aria pulita sembravano produrli in massa. Oggi basta recarsi nelle valli di Cuneo (o in qualsiasi paesetto italiano) per trovarli numerosi e attivi. Il limite massimo fissato dai gerontologi per la specie umana era di 120 anni. L'anziana signora francese Jeanne Calment è morta di polmonite nel 1997 a 122 anni in buone condizioni mentali. Smentendo gli assertori dell'età limite di 120 anni, la Calment faceva parte dei 4000 centenari francesi. Un campione di 700 di essi rivelava che il 60% godevano di buona o ottima salute. In effetti non si è ancora potuto osservare con certezza una morte la cui causa fosse solo l'età avanzata. Per verificare questo fatto è iniziato uno studio longitudinale danese che seguirà fino alla morte 3000 persone giunte a 70 anni nel 1995. L'idea che "se vivi abbastanza a lungo diverrai demente" è stata smentita da uno studio internazionale multicentrico sui centenari che ha dimostrato che il 30% giunge a quell'età "cognitivamente intatto". Secondo lo studio svedese del Centro di ricerca gerontologica dell'Università di Lund oltre il 50% dei centenari non mostra segni di demenza. L'esame post-mortem del cervello ha confermato la mancanza di segni patologici della demenza nella stessa proporzione. Su 100 centenari svedesi 15 abitano da soli e sono indipendenti, 10 sono in casa con un parente e 50 se la cavano con l'aiuto di una minima assistenza. La convinzione che si può aumentare la vita media della popolazione ma non quella massima oltre un "limite biologico fisso" a meno di una manipolazione genetica (non ancora fattibile) è stata dunque ampiamente smentita. Non esiste più una età fatale al di sopra della quale è impossibile andare. La smentita meglio documentata è giunta da un recente studio pubblicato nella rivista "Science" che riporta una analisi estesa a tutta la popolazione svedese su 140 anni, dal 1860 al 1999. Si tratta della più lunga serie di informazioni sicure sul limite della lunghezza della vita umana. I dati indicano un guadagno medio di circa un anno ogni venti nell'età media massima (105 anni) nel periodo di tempo che si estende dal 1860 agli Anni 70. Negli Anni 80-90 si constata una brusca impennata che porta a un guadagno della vita media di un anno ogni 10, fino a raggiungere nel 1990 una vita media massima di 108 anni. Poiché non si notano segni di rallentamento nell'andamento di questa curva, si possono predire ulteriori graduali aumenti nei prossimi anni. Una analisi multifattoriale mostra che l'aumento della vita media umana è dovuto per il 70% a una riduzione della mortalità degli ultra 70enni e a un aumento del numero dei sopravviventi di età avanzata. La più rapida ascesa dell'età media a partire dagli Anni 70 è dovuta più a un declino più rapido della mortalità nelle persone anziane che tra i giovani e gli adulti. Come si traducono questi dati statistici in pratica? Qualunque sia l'opinione degli ambientalisti, i due fattori principali che hanno finora contribuito a questi risultati sono il progresso medico in genere e le nuove terapie usufruite dalla popolazione anziana unite a un notevole miglioramento delle condizioni di vita della maggior parte della popolazione. I fattori genetici sono certamente importanti per la longevità in quanto i centenari sono in sostanza un gruppo di scampati a malattie gravi associate all'età avanzata che ha potuto godere di un filtro costituito dai "buoni geni". Vale qui la semplice (ma documentata ) conclusione secondo la quale "più vecchio diventi tanto più sano sei stato in passato". Il rispettivo contributo genetico e ambientale che porta a condizioni ottimali di sopravvivenza deve essere ancora chiarito. Si è ritenuto finora che non si potesse vivere oltre il limite di 100-120 anni. La riduzione della mortalità nell'età avanzata si è accelereta negli ultimi venti anni e la tendenza sembra continuare. Il limite previsto della longevità umana è stato sorpassato e lo studio svedese prevede un graduale ulteriore aumento della vita media massima che porterà ad una età calcolata tra i 125 e i 140 anni nel periodo 2035-2050. I centenari attivi di oggi formano il gruppo avanzato degli anziani delle prossime generazioni quando, ad esempio, la metà delle donne (se continueranno ad essere più longeve degli uomini) toccherà i cento anni (dati di previsione della attuale popolazione femminile giapponese). Poiché è prevedibile che anche in futuro il progresso medico continui a dare benefici (curabilità della maggior parte dei tumori, riduzione delle malattie cardio e cerebrovascolari, stabilizzazione dei disturbi neurodegenerativi), avremo una popolazione anziana sempre più numerosa e attiva. Questa prospettiva demografica richiede soluzioni realistiche per affrontare la futura maggiore richiesta di assistenza medica: e in particolare un'età lavorativa molto maggiore con relativo ritardo del pensionamento. _______________________________________________________ Le Scienze 4 gen. 01 Inibizione dell'angiogenesi per tumori al cervello Cellule renali su una matrice polimerica vengono impiantate in prossimità della neoplasia Il glioblastoma è un tumore responsabile di un quarto dei casi di tumore al cervello e la maggior parte dei pazienti non sopravvive più di 18 mesi dalla diagnosi. Una crescita così rapida del tumore ne fa tuttavia un buon candidato per la sperimentazione di composti medicinali chiamati inibitori dell'angiogenesi. Queste proteine, tra cui l'endostatina, inibiscono la crescita dei vasi sanguigni che necessitano al tumore per crescere e diffondersi. In una zona difficile da raggiungere come il cervello, vi è però il problema di portare tali sostanze direttamente sulla neoplasia e di mantenerle in situ. Nel numero di gennaio di "Nature Biotechnology", due gruppi di ricerca hanno riportato il successo di una sperimentazione condotta su topi e ratti. L'idea di base consiste nell'impiantare una matrice polimerica - che aiuta a prevenire la risposta del sistema immunitario dell'ospite - riempita con cellule renali geneticamente modificate per produrre le proteine necessarie all'inibizione dell'angiogenesi. Il gruppo della neurologa Rona Carroll, della Harvard Medical School di Boston, ha trovato che iniettando le capsule sotto cute nei topi, si riduce il peso del tumore del 72 per cento in tre settimane. Un altro gruppo guidato dalla biologa Tracy-Ann Read dell'Università di Bergen, in Norvegia, ha trovato che i ratti con tumori al cervello a cui erano state somministrate le capsule sono sopravvissuti l'84 per cento più a lungo dei ratti del gruppo di controllo. "Se questo tipo di trattamento si dimostrasse altrettanto efficace nell'uomo - spiega Read - i pazienti con glioblastoma potrebbero sopravvivere almeno un altro anno. Non bisogna però illudersi che possa essere una cura decisiva per questo tipo di tumori". Favorevole alla ricerca è stato anche il commento di Judah Folkman, considerato il pioniere dell'inibizione dell'angiogenesi come metodo per combattere il cancro. "La possibilità di portare gli inibitori direttamente al cervello - ha spiegato - danno il via a un metodo del tutto nuovo. Se funzionasse anche sull'uomo, renderebbero superfluo un intervento chirurgico". _______________________________________________________ L'Unione Sarda 4 gen. 01 Fondi alla Asl, si aspetta solo la firma a Roma dell'intesa I soldi destinati a dare una boccata d'ossigeno al settore sanità, dopo una lunga serie di ritardi, arriveranno presto. Manca infatti solo la firma, che suggellerà la prossima intesa tra Stato e Regione, per ufficializzare l'arrivo dei 680 miliardi destinati alla sanità pubblica in Sardegna, una buona parte dei quali destinati all'Asl ogliastrina. A confermare la buona notizia è stato lo stesso assessore regionale alla Sanità, Giorgio Oppi. "Abbiamo lavorato e continuiamo a lavorare - ha commentato Oppi - con i manager delle aziende sanitarie di tutta l'isola per predisporre un programma di intervento che tenga conto di tutte le priorità per il triennio 2001/2003". L'assessore Oppi ha voluto anche chiarire come verranno utilizzati i finanziamenti statali: "I soldi, stanziati in base all'articolo 20 della legge 67, saranno utilizzati per tre punti cardine: l'edilizia sanitaria, l'acquisto di attrezzature, ed infine, le Residenze sanitarie assistite per anziani". Il prossimo appuntamento è quindi a Roma, dove si sottoscriverà l'accordo di programma che farà fare, almeno si spera, un salto di qualità alla sanità isolana ed ogliastrina. (Gy. Fe.) ===================================================== _______________________________________________________ Il Sole24ore 2 gen. 01 MATALE: Bilancio magro per il commercio elettronico dopo le grandi attese sugli acquisti di Natale: a livelli record le giacenze di magazzino Vendite online, è boom solo per i saldi Numerosi siti italiani giocano la carta delle liquidazioni di fine serie - Il mercato si fa selettivo mentre le imprese si riorganizzano MILANOIl momento della verità è arrivato. E non è stato dei più gradevoli. Secondo le aspettative accreditate da esperti e analisti di mezzo mondo abbagliati dall'eccitazione collettiva della new economy, le festività del 2000 avrebbero dovuto celebrare il trionfo del commercio elettronico. Ma così non è stato, almeno secondo i primi consuntivi circolati proprio sul Web. Anzi, l'unico boom delle vendite elettroniche 2000 sembra proprio sia risultato quello dell'esordio in grande stile dei "saldi online" resi appunto obbligati dalle forti giacenze accumulate. Questo non significa che il giro d'affari complessivo non sia stato significativo (secondo gli analisti di Jupiter i 31 milioni di "cybernauti" europei hanno concentrato nelle feste un terzo dello shopping online dell'intero 2000), ma quello che sta emergendo con grande chiarezza è la forte selettività del mercato rispetto ai diversi siti. Ad esempio Yahoo! ha dichiarato vendite raddoppiate rispetto al '99. Per la maggior parte dei siti è invece scattato il fenomeno che viene definito del "window shopping" (quello che fa chi guarda le vetrine senza comprare). In pratica i frequentatori del web "cliccano" su Internet, ma corrono a comprare nei "vecchi" negozi. E anche i siti italiani non sono sfuggiti a questa regola. Non per niente i saldi iniziano a far breccia sul Web. Pochi esempi bastano a fotografare il fenomeno: Giacomelli sport riserva una pagina del sito ai prodotti "fine serie", tra cui scarpe e maglie per il fitness scontate rispettivamente del 58 e del 39 per cento. Dallo sport all'hi tech: anche Media world riserva una pagina del sito ai "prodotti in promozione", dalle web cam e ai personal computer passando per agli scanner e le stampanti. Peck e Cosmix sembrano per adesso non essere ancora caduti nella tentazione delle liquidazioni. Altra strada quella scelta da Tuttosaldi.com, il sito italiano che sarà attivo a fine mese con l'obiettivo di fornire ai navigatori un elenco dei negozi tradizionali - non virtuali - che praticano saldi per ogni categoria merceologica. Il sito sarà riservato inizialmente agli esercizi commerciali romani, per estendersi poi ad altre piazze. Insomma, sembra proprio di capire che nemmeno Babbo Natale abbia portato fortuna all'e-commerce: le vendite sono state sottotono. Secondo le rilevazioni raccolte da Media Metrix (la maggior società specializzata nelle statistiche su Internet) il traffico dei siti dedicati allo shopping online, nella settimana conclusasi il 24 dicembre, è infatti diminuito del 10,9% rispetto ai picchi stagionali. Insomma, passato Natale sembra davvero tirare aria di crisi presso le vetrine del Web, decisamente meno affollate di quanto si potesse supporre. E sono così spuntati in tutto il mondo i "supersaldi": giocattoli scontati del 75%, prodotti in regalo al di sopra di una soglia minima di spesa. Secondo la società di ricerca BizRate.com, a dicembre l'incremento delle vendite è stato ben al di sotto del tasso di aumento atteso. Ma non basta. Un sondaggio condotto dalla Cbs evidenzia addirittura un decremento: soltanto il 33% dei 1.048 intervistati ha infatti dichiarato di aver utilizzato la Rete per il proprio shopping natalizio, percentuale che nel '99 era stata pari al 35 per cento. La crisi dei web store non è del resto una novità: molti negozi virtuali, (da Garden.com a Mothernature.com, da Forniture.com a Living.com), non hanno infatti mangiato il panettone. E altri ancora, secondo Anthony Noto, ricercatore della Goldman Sachs, potrebbero essere prossimi al fallimento. Tra i nomi citati la famosa Toys.com (giocattoli), Vitaminshoppe.com (integratori alimentari), PlanetRX.com (casalinghi, farmaci da banco e cura della persona), Egghead.com (articoli per ufficio). E la crisi si fa tangibile. Basta navigare pochi minuti per scoprire presso i principali indirizzi di shopping, all'indomani delle festività natalizie, "clearance center": ovvero sconti e saldi sulle rimanenze di magazzino. PlanetRX.com promette infatti due prodotti in omaggio ogni 25 dollari di spesa, cinque se si raggiungono i 100 dollari. Da Toys.com, un banner offre sconti fino al 75% su giocattoli, libri, video games, software e quant'altro. Egghead.com, solo per una settimana, assicura spedizioni gratuite su una larga selezione di articoli. Ma le occasioni non mancano anche su altri siti arcinoti. Sempre dedicati ai bambini Kbkids.com e Smartekids.com, dove scovare sticker Pokemon, Barbie e monopattini "Harley Davidson" a prezzi stracciati. Gli uomini potranno approfittare delle interessanti le proposte di BrooksBrothers.com, che presentano sconti sulle proprie famose camicie dal 20 al 60 per cento. Sempre per quanto riguarda l'abbigliamento, i saldi sono già iniziati anche da Gap.com, dove un girocollo in cashmere da donna costa ora 99,99 anziché 175 dollari. Da Barnes&Nobles invece si trovano calendari al 50% e sconti consistenti anche su libri e Cd. Alla nuova "moda" dei saldi online non rinuncia neppure il pioniere del commercio elettronico: Amazon, dove si trovano per esempio anche binocoli a prezzi ridotti del 40 per cento. Insomma, le ricerche sul campo sembrano confermare lo stesso fenomeno. Una ricerca di Jupiter ha messo in evidenza come il 36% della popolazione europea che naviga online abbia utilizzato Internet solo per individuare i regali natalizi per poi recarsi direttamente nei negozi tradizionali per effettuare gli acquisti. "I negozianti tradizionali non possono ignorare l'influenza crescente che Internet ha sul modo in cui la gente spende off-line. Mentre i negozi presenti solo su Internet non possono trarre vantaggio dai "window shoppers", i rivenditori tradizionali possono incoraggiare gli "internauti" ad effettuare gli acquisti nei loro negozi attraverso il coordinamento delle loro proposte online e off-line" dice ad esempio Nick Jones, di Jupiter. I rivenditori tradizionali possono quindi trarre vantaggio dall'Internet off- line. "Nonostante l'apertura, nell'arco di quest'anno, di numerosi negozi online da parte di rivenditori tradizionali - spiega ancora Jones - l'integrazione tra il sito e il negozio è ancora povera in alcune aree chiave. Spesso non è possibile individuare online l'articolo che interessa e verificarne la disponibilità nel negozio più vicino, elemento indispensabile negli acquisti natalizi dell'ultimo minuto. Inoltre, le procedure per la restituzione di acquisti effettuati online può essere specificata chiaramente sul sito, ma messa in pratica in maniera poco efficace dai commessi del negozio". La sicurezza in termini di pagamento e informazioni personali su Internet rimane un ostacolo fondamentale per coloro che non hanno mai fatto acquisti online. I commercianti devono inoltre trasmettere la sensazione che i prezzi non siano sempre migliori online. "Il periodo dopo Natale è sempre pessimo per i rivenditori. I negozi online, sia tradizionali sia "pure-play", devono puntare - conclude Jones - su questi navigatori. È indispensabile proporre incentivi in grado di stimolare il cliente a completare l'acquisto. I negozianti tradizionali potrebbero anche utilizzare promozioni sul sito per incoraggiare gli acquisti nel negozio reale". _______________________________________________________ Il Sole24ore 5 gen. 01 Catastrofisti nemici dell'ambiente di Emilio Gerelli Duemila e non più duemila: il terrorismo ambientale per la fine del secondo millennio non poteva mancare, all'insegna del più classico déja vu. Il terreno era già stato ampiamente preparato dalla più popolare e sbagliata analisi sui destini del mondo: il volumetto sui Limiti dello sviluppo (1971). Per predire le tristi sorti dell'umanità i temerari autori avevano predisposto un modello di lungo periodo, fondato sulla falsa ipotesi di assenza del progresso tecnico. Come dire un mondo odierno senza Internet, che può evitare spostamenti e relativo inquinamento, senza progresso nei nuovi materiali meno inquinanti, senza biotecnologie. Inutile dire che le previsioni erano tragiche. Successivamente Paul Ehrlich, nella sua Population Bomb, aveva previsto tremende crisi da sovrappopolazione prima del Duemila. E il catalogo potrebbe continuare. Su questo solco ampiamente arato si è posto all'inizio d'anno, sul "Corriere della sera", Giovanni Sartori, illustre studioso di sistemi elettorali. Il messaggio non brilla per novità: sovrappopolazione, effetto serra (che per il suo fascino terroristico fa ignorare i pur attuali e gravi inquinamenti locali), totale disinteresse ecologico degli umani, cui si raccomanda - quale brillante rimedio - di trovare una pillola per rinsavire. Occorre dire forte e chiaro: ora basta! Chi vuole utilmente scrivere di ambiente, per stimolare comportamenti quotidiani e politiche adeguate, agisce colpevolmente se si adagia soltanto sull'impressionismo o sulla scarsa correttezza scientifica di alcuni profeti, il cui effetto è solo di provocare generici sensi di colpa e impotenza operativa. È vero: la situazione ambientale desta giustificate preoccupazioni. Ma perché nascondere i progressi fatti, elemento fondamentale per infondere volontà di migliorare e capacità di scegliere? È una via seguita dagli ambientalisti più intelligenti, ad esempio in Legambiente. Essi non ignorano, per esempio, che l'emissione in atmosfera di anidride solforosa, causa di malattie respiratorie, è scesa al disotto dei livelli di guardia nelle principali città che hanno preso provvedimenti, così come per il piombo e altri inquinanti. I recenti negoziati sull'effetto serra sono stati sospesi, è vero: ma non per follia collettiva, bensì per l'insipienza della presidenza francese dell'Unione europea. Essa ha offerto un ministro che, per scarsa conoscenza della lingua veicolare inglese, indispensabile per i necessari negoziati di corridoio, è stata accusata a caldo dai colleghi di non capire la situazione, e ha poi respinto un compromesso con gli Stati Uniti, per motivi di politica Verde. Le cose si rimetteranno in marcia, certo ancora in misura insufficiente per la vastità del problema. Ma, anche qui, perché non rilevare che per far fronte all'inquinamento globale si è messo in moto un qualcosa che assomiglia a un governo del Pianeta? E si potrebbe continuare: i rifiuti urbani aumentano ancora, ma progredisce il riciclo per gli imballaggi, e diminuiscono notevolmente i rifiuti industriali. I progressi nelle tecnologie pulite sono stati notevoli, grazie alle normative che rendono costoso inquinare. Insomma: il bicchiere per la conquista della qualità ambientale è solo mezzo pieno, ma si può procedere. Predicare l'inevitabile catastrofe è falso e disincentivante.