SENZA CONCORSI ATENEI PIÙ RESPONSABILI LA RICERCA VA ABOLITA (O SOSTENUTA DAVVERO) ZECCHINO:"NON CI SARANNO ATENEI DI SERIE A E DI SERIE B" CNR, IN SARDEGNA RICERCA DECAPITATA CNR: MISTRETTA: BASTA PIANGERE UNIVERSITÀ E MODELLO USA: STUDENTI INCARICATI DEI SERVIZI DE LORENZO REINTEGRATO ALL' UNIVERSITÀ MISTRETTA SENATORE O SINDACO? ================================================================== ADDIO AI TICKET, BOOM DI RICETTE PARISI: RICADRÀ SULLE IMPRESE IL COSTO DEI TICKET OSPEDALI, CHI PAGA LA VISITA NON FA CODE INTRAMOENIA: UNA FORMA DI COMPLICITÀ TRA MEDICI E AZIENDE SANITARIE VERONESI: MA A FEBBRAIO IL PROGETTO DI RIORGANIZZAZIONE SANITÀ MIGLIORE CON GLI OSPEDALI IN CONCORRENZA UNA PROTEINA IMPLICATA NELL'INSORGENZA DEL DIABETE GESSA: "SOTTO I 15 ANNI TUTTI GLI STUPEFACENTI ROVINANO IL CERVELLO" TRAPIANTI, I VOLONTARI "TRADITI" DALLA LEGGE IL CONTAGIO DELLA MALATTIA DI LYME CLONAZIONE TERAPEUTICA, SCOPERTA INGLESE GRAZIE A UN ERRORE IN LABORATORIO CELLULE STAMINALI E FAVOLE INDIANE IL LAVORO MANTIENE GIOVANI I NEURONI ================================================================== P.ISOTTA:"CAGLIARI? UNA DELLE PIÙ BELLE CITTÀ DEL MONDO" ================================================================== ______________________________________________ Il Sole24Ore 19 gen. '01 SENZA CONCORSI ATENEI PIÙ RESPONSABILI Andrea Crisanti* Il male che affligge gran parte dell'università italiana è quello di aver progressivamente esaurito la capacità di generare nuove conoscenze attraverso la ricerca, per svolgere prevalentemente una funzione didattica. L'università italiana ogni anno assorbe ingenti risorse economiche e non restituisce agli italiani questo investimento sotto forma di progresso scientifico, sviluppo tecnologico e opportunità di sfruttamento economico per l'industria nazionale. Il danno economico che ne deriva è incalcolabile. La scomparsa di aziende italiane da importanti settori industriali, come quello farmaceutico, diagnostico e biotecnologico, insieme alla totale dipendenza da brevetti stranieri dell'industria elettronica e informatica testimoniano l'inadeguatezza dell'università italiana a rispondere alle esigenze di una società in rapida trasformazione tecnologica. È stato messo in evidenza da più parti come la penuria di fondi per la ricerca, la mancanza di infrastrutture e l'eccessivo carico didattico dei docenti siano all'origine dei problemi dell'università. Per porvi rimedio sono state proposte diverse misure, con l'obiettivo di modificare i concorsi universitari, riformare la didattica e indirizzare l'attività di ricerca verso forme più strette di collaborazione industriale. Queste misure, mutuate da sistemi universitari di altre nazioni, rischiano, se attuate, di compromettere ulteriormente le opportunità di riscatto dell'università, poiché non incidono sostanzialmente sulla causa principale della situazione attuale: il meccanismo di selezione del personale docente, basato sui concorsi. È sicuramente possibile migliorare il processo di selezione, inserendo norme più rigorose e criteri quantificabili. Tuttavia queste modifiche non renderebbero il concorso immune da errori, e non eliminerebbero i suoi effetti più dannosi per l'università. Il concorso di fatto solleva facoltà e dipartimenti dalla responsabilità di scegliere liberamente la composizione del personale docente (professori e ricercatori), in base a esigenze locali e con criteri modificabili di volta in volta (meriti accademici, affinità culturali, capacità d'interazione, conoscenza diretta del candidato). Al contrario in Paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti i professori e i ricercatori sono scelti da commissioni costituite dal personale docente del dipartimento dove i candidati andranno a lavorare, con criteri che a noi italiani possono sembrare arbitrari e manipolabili. In realtà questa totale libertà di scelta genera una catena di responsabilità, e pertanto tutte le singole strutture universitarie (dipartimenti e facoltà) sono chiamate a rendere conto periodicamente delle loro scelte. In Gran Bretagna questo processo di revisione viene fatto ogni quattro anni attraverso una valutazione comparativa di indicatori di qualità, come la produzione scientifica, la raccolta di finanziamenti per la ricerca e la qualità dell'insegnamento. L'esito di questo processo valutativo ha delle conseguenze molto importanti per la sopravvivenza e lo sviluppo delle strutture universitarie. I fondi per il funzionamento dell'ateneo e per gli stipendi del personale docente vengono distribuiti in modo progressivo secondo una scala di merito da 1 a 5. Un dipartimento al quale fosse attribuito un punteggio basso (1 o 2) in due valutazioni successive metterebbe a repentaglio la propria esistenza e lo stipendio di coloro che vi lavorano. La conseguenza è che le università inglesi, dotate di ampia flessibilità nel negoziare spazi, fondi di ricerca e stipendi, sono in continua competizione per assicurarsi i ricercatori migliori. Questo formidabile sistema selettivo non è applicabile all'università italiana, a meno di abolire i concorsi, così come sono strutturati, poiché non è possibile chiamare le facoltà e dipartimenti a rispondere di scelte operate da commissioni giudicatrici composte da membri esterni, che non sono direttamente coinvolti nelle conseguenze delle scelte stesse. Sarebbe invece ingenuo, controproducente e contrario agli interessi nazionali cercare di risolvere i problemi di finanziamento della ricerca universitaria privilegiando la ricerca applicata, o promuovendo programmi il cui fine sia la collaborazione con l'industria. Questo indirizzo determinerebbe una minore libertà degli atenei, con il pericolo che la gestione dei risultati della ricerca possa essere influenzata da interessi privati. Emblematico è il caso dei ricercatori di un'università canadese che, per aver pubblicato risultati in contrasto con gli interessi di un'azienda farmaceutica, sono stati licenziati per aver contravvenuto alle clausole contrattuali di segretezza. Questo condizionamento della libertà accademica è difficile da contrastare, specialmente se i ricercatori hanno degli interessi economici nel progetto che svolgono; ed è sicuramente in conflitto di interesse con il diritto di tutti a conoscere i risultati di una ricerca, indipendentemente dalle implicazioni economiche. Indirizzare l'università verso la ricerca applicata e incoraggiarne la collaborazione con il settore privato comporta certo dei benefici a breve termine (maggiori risorse economiche e trasferimento tecnologico all'industria); tuttavia ha un prezzo, in termini di perdita di libertà e garanzie, di cui bisogna essere consapevoli. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dove la collaborazione tra mondo accademico e industria è sviluppata e incoraggiata, le possibili conseguenze negative sono acutamente avvertite a livello politico e di opinione pubblica, e bilanciate dall'esistenza di una serie di programmi nazionali, finalizzati a promuovere la ricerca di base direttamente originata dalla curiosità dei singoli ricercatori e non vincolata nei suoi indirizzi. La libertà e l'indipendenza nella selezione del personale docente e nell'indirizzo della ricerca scentifica sono l'unica garanzia per costruire un'università in grado di rispondere alle esigenze di innovazione scientifica e tecnologica e di trasmissione della conoscenza della società italiana. *Imperial College, Londra ______________________________________________ Il Sole24Ore 14 gen. '01 ZECCHINO:"NON CI SARANNO ATENEI DI SERIE A E DI SERIE B" Roma. "Non ci saranno università di serie A e di serie B". Lo ha assicurato il ministro dell'Università Ortensio Zecchino nel corso della tavola rotonda "La riforma universitaria", svoltasi nella sede della Banca di Roma, alla quale hanno partecipato tra gli altri lo scrittore Umberto Eco ed il presidente della Pirelli Marco Tronchetti Provera. Il doppio binario, il cosiddetto '3+2' della laurea di base e della laurea specialistica, ha spiegato Zecchino, risponde alle nuove esigenze della società moderna in cui l'università deve da un lato continuare a formare l'élite di alti specialisti e dall'altro deve formare a livello superiore un sempre maggior numero di tecnici e operatori nei diversi rami della conoscenza. La laurea triennale quindi, ha precisato Zecchino "svolgerà una funzione di preparazione nei saperi di base, dei quali la nostra società non può fare a meno, mentre il biennio di specializzazione costituirà il momento di più alta qualificazione". I due sistemi, ha aggiunto il ministro, "convivono e sono modulari, senza separazioni". Zecchino ha inoltre sottolineato che laurea triennale sarà direttamente spendibile sul mercato del lavoro, compresa la Pubblica Amministrazione. Quanto alla questione dell'accesso, Zecchino ha affermato di essere contrario al numero chiuso ("è un'odiosa misura dirigista"), ma ha ribadito l'importanza della "adeguatezza della preparazione rispetto all'itinerario che lo studente intende seguire". Questo, ha detto, soprattutto per quanto riguarda il biennio di specializzazione per il quale occorre un "giudizio meritocratico". Obiettivo finale della riforma, secondo Zecchino, è dunque "realizzare una tipologia di formazione che sia spendibile nelle imprese, ma per fare ciò - ha aggiunto - è necessario un potenziamento della ricerca universitaria". Per Zecchino, comunque, non si tratta di una "riforma statica, bensì di un processo che si è avviato". La riforma, ha concluso il ministro, "sarà quella che nella quotidianità verrà realizzata dalle università". Dal canto suo Umberto Eco promuove, nel complesso, la riforma universitaria, ma mette però in guardia dai rischi delle "gabbie" disciplinari e delle possibili "resistenze baronali". "Sono molto favorevole - ha detto Eco - alla riforma; si doveva arrivare ad una soluzione del genere". Ma per poterci arrivare, ha aggiunto lo scrittore, "e per dare massima libertà agli atenei, si è dovuta rispettare però l'esistenza di aree disciplinari riconosciute costruendo così una specie di gabbia". A detta del ministro, ha quindi sottolineato Umberto Eco, "tali gabbie sono talmente ampie da permettere la massima libertà, ma secondo me invece possono costituire una costrizione specie se nelle mani di qualche burocrate". Quindi, "e mi pare che sia nell'intenzione dello stesso ministero - ha proseguito - questa gabbia è un punto di partenza. Poi, come tutte le riforme, sarà l'esperienza quotidiana dei vari atenei a modificarla". Certo, ha concluso Eco, "le resistenze baronali rappresentano un ostacolo. Questo è vero in tutto il mondo, ma ancor più in Italia". Tuttavia, ha concluso lo scrittore, dal nuovo sistema "nascerà certamente una maggiore competitività tra gli atenei". ______________________________________________ L'Unione Sarda 18 gen. '01 CNR, IN SARDEGNA RICERCA DECAPITATA Sugli istituti dell'Isola cala la mannaia della riforma sul sistema scientifico nazionale: autonomia addio Accorpati i centri di Cao e Gessa, Casula va a Napoli e Agus a Roma La scienza scippata: la Sardegna rischia di pagare un prezzo molto alto (e caro) alla Grande Riforma dell'università e della ricerca. La mannaia dei tagli decisi per il Cnr piomba silenziosa, ma inesorabile, sui "deboli" istituti sparsi tra Cagliari, Sassari e Torregrande. Zac. Dei quattro centri Cnr del capoluogo due verranno accorpati a Roma e Napoli, e due riuniti in uno solo. A Sassari va anche peggio. Si profila una ritirata in massa: i sette istituti potrebbero essere cancellati con un'unica imbarcata, perdendo 42 miliardi e mezzo di investimenti per la cittadella della ricerca. Un timbro e una firma bastano a far sparire decenni di gloria conquistata con ricerche dagli echi internazionali, congressi che hanno richiamato premi Nobel, pubblicazioni di libri e riviste. Tutto finito? Probabilmente no, ma sicuramente il ruolo degli studiosi sardi e dei loro laboratori verrà ridimensionato. In questi giorni si giocano le carte decisive. Nelle stanze che contano, a Roma, i massimi dirigenti dell'Ente stanno mettendo a punto con i burocrati la pianta organica del nuovo Cnr. Il rebus, che mette in crisi anche i luminari più illustri, è una semplice sottrazione: come ridurre 355 organi (tra istituti e centri) a meno di cento? Non basta un tratto di penna, qui bisogna pesare nomi prestigiosi, conti miliardari e potere politico. Provate a indovinare. Chi verrà tagliato o accorpato? Naturalmente i sardi. L'Istituto sui rapporti italo-iberici di Cagliari finirà sotto l'ala protettiva di un centro napoletano. "Non capisco", dice subito il suo direttore "storico" Francesco Cesare Casula. Storico nel senso che l'ha fondato nel 1979, l'ha allevato come un figlio sino a vederlo adulto e affermato a livello europeo. E storico perché è il suo mestiere. "In Campania ci sono già 28 centri del Cnr: non vedo la ragione "tecnica"di aggiungere anche il nostro". Forse ci sono altri motivi che Casula non conosce o non vuol dire: "Chissà...", glissa. L'istituto, con elegante sede in Largo Gennari, nel mondo accademico è visto con rispetto, ma anche con un pizzico d'invidia. Casula mette sul tavolo i 22 volumi della collana di studi storici sull'area mediterranea e latino-americana, i 25 numeri della rivista annuale, i congressi internazionali (nel 1990 quello sulla Corona d'Aragona richiamò 660 relatori e mille ospiti). Il bilancio annuale? "Appena 120 milioni per la ricerca, più gli stipendi per dodici studiosi e le spese di gestione", risponde il direttore. Il centro ospita anche una trentina di giovani laureati che aspirano alla carriera universitaria. Tutto questo fra breve sarà messo in discussione. "L'accorpamento non significa chiusura. Per ora resteremo qui. Però non sappiamo cosa succederà", riprende Casula: "soprattutto non capiamo lo spirito di certe decisioni". Secondo il docente cagliaritano, sulla base di recenti esperienze con istituti di Milano e Torino, si era delineata la convinzione di poter realizzare in città una grande struttura incentrata sulle civiltà del Mediterraneo e le culture dei paesi emergenti. La candidatura della sede sarda nasceva dalla vocazione dell'isola quale crocevia storico e culturale del Mediterraneo e come cerniera tra nord e sud. Inoltre avrebbe garantito a Cagliari una significativa presenza del Cnr. "Il progetto sembrava in dirittura d'arrivo. Poi ha preso un'altra direzione". Napoli. Casula non demorde e spera ancora in un ripensamento all'ultimo minuto. L'altro Cnr che cambia indirizzo e potere è il centro di studi geominerari e mineralurgici, con sede nella facoltà di ingegneria di piazza d'Armi. Dipenderà da Roma. Fondato nel 1969 dal famoso professor Mario Carta ha operato nella ricerca mineraria nell'isola e all'estero con importanti risultati sotto la direzione di Clemente Del Fa e Ivo Uras. Da dieci anni lo guida Michele Agus. "La riforma colpisce tutti", afferma: "bisogna prenderne atto. Per ora è in fase sperimentale e quindi non sappiamo se saremo in qualche modo penalizzati. Speriamo che almeno la direzione vada a un sardo". In città resteranno i due centri medici diretti da scienziati di fama internazionale: Antonio Cao, esperto di talassemia, e il farmacolo Gianluigi Gessa, unico sardo tra l'altro a far parte del comitato nazionale di consulenza scientifica. Si uniranno in un unico centro con sede da definire. "Se il rettore ci ospiterà - conclude Cao - siamo pronti ad andare nel nuovo Policlinico di Monserrato. Altrimenti si vedrà". Carlo Figari ______________________________________________ L'Unione Sarda 19 CNR: MISTRETTA: BASTA PIANGERE Sardegna penalizzata? Macché, per il rettore dell'ateneo cagliaritano è un passo avanti verso la razionalizzazione delle risorse nazionali. "Basta piangere", sostiene Pasquale Mistretta: "La riforma del Cnr nasce per ridurre i costi di gestione e per polarizzare centri con interessi simili sotto un unico tetto. Anziché lamentarci dobbiamo mettere in gioco le nostre intelligenze e competere con gli altri". Mistretta è addirittura felice per la prospettiva di accogliere Gessa e Cao in una struttura del nuovo Policlinico di Monserrato. "Sicuramente troveremo uno spazio per creare il centro che unificherà gli attuali istituti diretti da Gessa e Cao", afferma il rettore: "Gli illustri scienziati sono i benvenuti. Dalla loro unione potrà nascere un polo di ricerca di livello mondiale che darà grande prestigio alla nostra università. E questo senza togliere niente ai tanti colleghi che operano con abnegazione e risultati eccellenti nella nostra università". ______________________________________________ Il Sole24Ore 19 gen. '01 LA RICERCA VA ABOLITA (O SOSTENUTA DAVVERO) di Adriano De Maio* Periodicamente, con più o meno enfasi, si punta l'attenzione sulla ricerca e la formazione universitaria. "Siamo attrezzati per competere con successo nel nuovo ordine economico internazionale?" si domanda l'estensore di un ottimo documento. E risponde: "I dati e le tendenze dell'ultimo decennio evidenziano una vera e propria deriva del nostro Paese dall'Europa e più in generale dal contesto dei Paesi industrializzati... Nell'ultimo decennio l'Italia parte da un valore basso per la spesa di ricerca rispetto al Pil (1,3%) rispetto all'Europa (2%)... La ricerca di base in Italia è fortemente sottodimensionata, e praticamente inesistente nelle imprese... La spesa per studente universitario è di circa un terzo del valore medio dei Paesi Ocse". Chi è questo estensore? Una Cassandra, un visionario, un ricercatore universitario frustrato? No: è la segreteria tecnica del ministero dell'Università e della ricerca scientifica e tecnologica, nel documento "Linee guida del programma nazionale di ricerca". È un documento ufficiale del Governo. Ma queste stesse affermazioni le sentiamo ripetere dal presidente della Conferenza dei rettori nell'incontro annuale con il Presidente della Repubblica, da importanti esponenti di partiti del Governo e dell'opposizione, dal presidente e da diversi organismi di Confindustria, dai sindacati, da molti rettori e organi accademici, da economisti di vaglia e opinionisti. Per quanto è a mia conoscenza, non mi risultano voci dissonanti. E allora? Ci si dovrebbe aspettare un grande fervore, un'analisi approfondita e accurata degli interventi da progettare e realizzare, dei punti più critici da affrontare, degli ostacoli da rimuovere. Ci si dovrebbero aspettare da un lato una tensione nel Paese analoga a quella creatasi in occasione dell'entrata nell'euro, che includa eventualmente una richiesta ai cittadini di sacrifici in vista di un futuro migliore, dall'altro un progetto di intervento a tutto tondo, e non soltanto un incremento di stanziamenti, non sempre destinato a creare risultati positivi (quali sono stati gli effetti dei contributi ai parchi scientifici e tecnologici, per fare un esempio?). Se, dopo quanto detto, ci fosse da scegliere - e, purtroppo, quasi sempre bisogna scegliere - fra incrementare la spesa per l'istruzione preuniversitaria (che, per studente, è superiore alla media europea) ed extrauniversitaria (i cui nuovi meccanismi sono di un'estrema macchinosità) e aumentare la spesa per l'università (didattica e ricerca), per la quale i dati sono quelli sopra riportati, e che è pur sempre dotata di un sistema di valutazione e comparazione, tutto da perfezionare ma pur sempre positivo, la risposta dovrebbe essere ovvia. Le decisioni, viceversa, finora sono andate e vanno nel senso opposto. Allora è necessario porsi una domanda che, nonostante il modo in cui la formulerò, non è affatto provocatoria. È proprio necessaria la ricerca, soprattutto quella scientifica e tecnologica? È necessario avere atenei all'altezza delle migliori università europee, nordamericane, giapponesi e degli Stati emergenti, di alta qualità nella ricerca e, quindi, nella formazione superiore? Non è una domanda priva di senso. L'innovazione non richiede sempre e necessariamente ricerca, neppure quando si basa sulle tecnologie. Gran parte della cosiddetta e-economy, soprattutto del tipo sviluppato in Italia, non è basata sulla ricerca. E, se non si fa ricerca, non bisogna necessariamente disporre di università di eccellenza, ma solo di istituti di formazione superiore di buon livello, come ne esistono tanti nel mondo occidentale: un buon livello di istruzione e di competenze che permetta di "comprare" tecnologia in modo intelligente, di adottarla, trovare nuove applicazioni e procedere a innovazioni di secondo livello, ma non per questo meno positive economicamente. La globalizzazione e, più specificamente, la creazione dell'Europa come Stato unitario (prima o poi) impongono di ragionare in un'ottica diversa da quella che abbiamo adottato (o avremmo dovuto adottare) finora. Se, come sembra accettato, la competitività di una comunità è basata anche, se non prevalentemente, sulla ricerca e la formazione di altissimo livello, qual è la comunità di riferimento? E perché non può essere l'Europa? Se ragioniamo in un'ottica regionale, o provinciale, potremmo continuare a proporre per l'Italia un modello analogo a quello, in larga misura fallimentare, del processo di industrializzazione, più o meno forzata, del Mezzogiorno, che ha creato le cosiddette cattedrali nel deserto, probabilmente addirittura peggiorando la situazione in molte zone, non foss'altro che dal punto di vista paesaggistico. Perché replicare ovunque lo stesso tipo di sviluppo? Non tutti gli Stati degli Usa hanno lo stesso livello di attività di ricerca e godono di università di eccellenza. I talenti si spostino: vadano dove c'è maggiore opportunità. Purché i benefici ricadano su tutti, questo non è un danno. L'ottica del "tutti uguali", o del "se ce l'ha lui, lo voglio anch'io", è una logica perdente. Può darsi che la vocazione futura dell'Italia non sia la ricerca tecnologica di alto livello, né quella delle università scientifiche e tecnologiche di eccellenza. Solo se una comunità crede intensamente a uno sviluppo basato sulla ricerca e sulle conoscenze di alto livello, e ci crede con il cuore, non soltanto con la ragione, è possibile un'inversione di rotta. Questa comprensione non c'è, checché se ne dica: altrimenti non saremmo nella situazione di oggi. È una constatazione, che può piacere o meno, ma è la dura realtà. Una comunità può vivere bene anche in assenza di ricerca. Ne vogliamo discutere seriamente, senza ideologismi né giudizi aprioristici, senza frasi fatte? Se risponderemo che la ricerca non è necessaria, eviteremo di perdere tempo. Ci dedicheremo maggiormente all'innovazione tecnologica di secondo livello, e a sviluppare la ricerca in campo umanistico, dove siamo a un ottimo livello internazionale, a curare e mantenere il nostro patrimonio storico e paesaggistico, a rivalutare le colture agricole di eccellenza. Punteremo sull'arte, la cultura, la musica - tutti aspetti qualificanti una cultura di alto livello - ed eventualmente ci limiteremo, nella ricerca scientifica e tecnologica, a pochissimi settori, in un numero molto limitato di centri. Se viceversa affermiamo, convinti, che la ricerca è necessaria, dobbiamo essere conseguenti. Esistono già (o ancora) campi in cui siamo alla frontiera avanzata della ricerca e abbiamo grandi potenzialità. Investiamo allora sui pochi, o molti, punti di qualità, e creiamo le condizioni perché se ne generino altri. Selezioniamo, valutiamo, analizziamo i prerequisiti. Andiamo senza pietismi a indagare su tutto il processo formativo, affrontiamo di petto la riforma della scuola, che innanzitutto comporta una valutazione, una selezione e un sostegno adeguato a tutti i docenti (quanti insegnanti dovrebbero essere spostati ad altre attività, quanti saranno in grado di fare ciò che la riforma Berlinguer-De Mauro richiede?). Selezioniamo le università e i centri di ricerca; valutiamo come sostenere le industrie che vogliono fare ricerca e la svolgono effettivamente; indaghiamo sulle condizioni per attrarre talenti da altri Paesi e generare un fecondo scambio di culture, di competenze, di scuole. Per il mio ruolo e la mia storia, preferirei che la risposta fosse positiva e, come molti, ho parecchi motivi per sostenere questa scelta. Ma sarei comunque contento se, con ponderazione, si decidesse per il no. Sarebbe comunque una risposta più consapevole della situazione attuale, in cui c'è una distanza eccessiva e inaccettabile fra dichiarato e realizzato. La richiesta di prendere finalmente posizione è rivolta alle diverse realtà territoriali, industriali, finanziarie, politiche, culturali. È troppo aspettarsi una risposta? *Rettore del Politecnico di Milano ______________________________________________ L'Unione Sarda 19 gen. '01 UNIVERSITÀ E MODELLO USA: STUDENTI INCARICATI DEI SERVIZI Ho letto la lettera del 12 gennaio 2001 a proposito della biblioteca di Ingegneria a Cagliari. Sono un dottore in Ingegneria, e vorrei esprimere tutta la mia solidarietà a tutti gli studenti universitari che devono spesso sorbirsi lezioni ad orari assurdi, in luoghi poco confortevoli e in perenne scarsità di attrezzature. Io sono stato più fortunato, avendo frequentato il Politecnico di Torino che, pur non essendo un Ateneo perfetto, ha certamente molti, molti pregi. Per esempio, dal lontano 1988 avevamo a disposizione i terminali automatizzati di segreteria, tramite i quali era possibile prenotarsi agli esami, avere certificati, e persino iscriversi e pagare le tasse senza estenuanti code in segreteria. Per tutti i servizi per i quali c'era carenza, temporanea o meno, di personale, il Politecnico bandiva un mini-concorso per una borsa di studio aperta agli studenti del Politecnico, dando precedenza ai più meritevoli. Nell'attesa di un concorso per l'assunzione di un impiegato a tempo pieno per coprire questo ruolo, tre o quattro studenti con una borsa di studio di 15-20 ore settimanali dovrebbero essere in grado di coprire il ruolo. La pratica di assumere studenti per svolgere questo tipo di mansioni è comunissima, qua negli Stati Uniti. Per esempio nell'Ucla (University of California in Los Angeles) sono gli studenti che gestiscono i punti di informazione per i nuovi iscritti, in biblioteca, in sala computer (dove, per dare un'idea, chiunque può entrare e usare i computer per navigare su internet), che lavorano alla caffetteria o ai parcheggi. Roberto Congiu Los Angeles, USA (rcongiu@pacbell.net) Gentile ingegner Congiu, l'Università di Cagliari si è già incamminata sulla strada che lei suggerisce. "Ogni anno pubblichiamo un bando che offre agli studenti 300 posti da 150 ore", spiega il rettore Pasquale Mistretta. I ragazzi lavorano perlopiù nelle biblioteche, o in qualche ufficio di presidenza. Sono selezionati in base alle condizioni economiche e non al merito, che in Italia sembra essere una colpa, o un trascurabile "di più". I posti disponibili vanno rapidamente esauriti e il bando viene riaperto: solo l'anno scorso hanno prestato la propria opera 463 studenti, pagati 15 mila lire all'ora. Però non bastano ."Ormai stiamo ricorrendo alle agenzie di lavoro interinale", spiega il professor Mistretta. E aggiunge: "Ci stiamo attivando per farci assegnare gli studenti che scelgono il servizio civile". La morale è la solita: i progressi ci sono, e notevoli, ma non sono sufficienti a rendere quello cagliaritano un ateneo normale con servizi normalmente funzionanti. Importare a pieno il modello Usa con gli studenti al lavoro in bidelleria o anche in mensa non sarebbe possibile, aggiunge il rettore, perché "i campus americani hanno una gestione privatistica". Mentre l'Università italiana, nonostante le riforme approvate e in fieri, è ben lontana da una piena autonomia. Senza contare che anche questa avrebbe il suo rovescio della medaglia nell'inevitabile innalzamento delle tasse. Comunque, gentile lettore, grazie per la testimonianza. Potrà essere utile agli studenti e ai loro genitori, contribuenti che poco ottengono dallo Stato italiano per quanto versano al Fisco. Sapere che i disservizi non sono una costante universale e che esistono atenei (all'estero, o in Italia) dove le cose funzionano, serve almeno a non rassegnarsi. Daniela Pinna ______________________________________________ Corriere Della Sera 17 gen. '01 DE LORENZO REINTEGRATO ALL' UNIVERSITÀ L' EX MINISTRO DELLA SANITA' De Lorenzo reintegrato all' Università L' ex ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, condannato in appello per tangenti sui farmaci e imputato in altri procedimenti, è stato reintegrato nelle funzioni e nella retribuz ione nell' Università "Federico II" di Napoli. La reintegrazione di De Lorenzo, titolare di cattedra nel Policlinico dell' ateneo, è stata ratificata dal Senato accademico e dal rettore dell' Università. Il provvedimento risale alle scorse settimane, ma la notizia si è appresa soltanto ieri. Oltre che per De Lorenzo, la reintegra accademica riguarda altri ex politici e amministratori, tutti docenti universitari, coinvolti in Tangentopoli. Tra questi, l' ex sindaco di Napoli, Nello Polese (assolt o in numerosi procedimenti), l' ex assessore provinciale del Pli, Raffaele Perrone Capano, e l' ex parlamentare del Pri, Giuseppe Galasso. La sospensione di De Lorenzo era stata adottata negli anni scorsi dallo stesso rettore, Fulvio Tessitore, che o ra ha reintegrato l' ex ministro. Dopo cinque anni dalla sospensione cautelativa, la reintegra nel corpo accademico è automatica. "La legge prevede - ha spiegato Fulvio Tessitore - che un dipendente dello Stato che subisce una restrizione della liber tà personale viene sospeso obbligatoriamente. La sospensione può arrivare a cinque anni. Alla scadenza, con la stessa automaticità, i sospesi vengono reintegrati. E quindi, a varie scadenze, sono rientrati nell' Università tutti coloro che erano stat i sospesi". ______________________________________________ L'Unione Sarda 19 gen. '01 MISTRETTA SENATORE O SINDACO? ....... SENATO. Ancora da assegnare il collegio di Cagliari: spera in una candidatura il sindaco Mariano Delogu che, comunque, in caso contrario, fa sapere di esser felice di restare primo cittadino di Cagliari e avvocato. Piace molto all'uscente, il cossighiano Valentino Martelli, boccone che però il centrodestra sardo si rifiuta di mandar giù dopo la fuoriuscita da An e l'ingresso nel governo D'Alema come sottosegretario agli Esteri. Un collegio su cui ha puntato gli occhi anche Forza Italia: si fanno con insistenza i nomi di Gabriella Pinto e di Emilio Floris. L'Ulivo non ha ancora scelto il suo uomo: si parla di una personalità e qualcuno pensa che potrebbe trattarsi del rettore Pasquale Mistretta, l'uomo buono del centrosinistra anche per la scalata al comune di Cagliari ....... Fabrizio Meloni ================================================================== ______________________________________________ Corriere Della Sera 17 gen. '01 ADDIO AI TICKET, BOOM DI RICETTE Di Frischia Francesco Addio ai ticket, boom di ricette ROMA - Aboliti i ticket sulle medicine, si impennano le prescrizioni: è salito del 27-30% il numero di ricette arrivate nelle farmacie italiane durante i primi 15 giorni di gennaio dopo le misure previste dal Governo nella Finanziaria. Il dato, annunciato ieri da Franco Caprino, segretario nazionale della Federfarma, viene da un sondaggio effettuato nelle farmacie delle principali città e lascia intravedere il rischio dell' aumento incontrollato della spesa per i medicinali. La ricerca della Federfarma, partita da 10 farmacie romane, si è estesa in tutta la penisola. E il dato potrebbe essere viziato per difetto: sono ancora molti, secondo la Federfarma, gli italiani che non si sono ancora accorti che i tick et sulle medicine non si pagano più. La percentuale di aumento delle ricette "ci preoccupa molto - spiega Caprino -. In teoria dovremmo guardare al futuro con ottimismo perchè il fatturato delle nostre farmacie potrebbe aumentare. Purtroppo temo che senza ticket non ci sia più alcun calmiere al mercato e la responsabilità delle prescrizioni appropriate cada unicamente sui medici". I farmacisti comunque non sono contrari all' abolizione dei ticket, voluta dal ministro della Sanità, Umberto Verone si, che ha fatto risparmiare 50 mila miliardi ai contribuenti: "Ma il provvedimento rischia di promuovere tanti sprechi - conclude Caprino - e causare un aumento vertiginoso della spesa farmaceutica a carico dello Stato". Nel 2000 il Servizio sanitar io nazionale ha speso circa 15 mila miliardi per le medicine, con un aumento del 17% rispetto al ' 99. Francesco Di Frischia ______________________________________________ Il Sole24Ore 19 gen. '01 PARISI: RICADRÀ SULLE IMPRESE IL COSTO DEI TICKET MILANO Il boom della spesa sanitaria derivante dall'abrogazione del ticket sui medicinali ricadrà sulle spalle delle imprese con un un rialzo dell'Irap. L'allarme è stato lanciato ieri dal direttore generale della Confindustria, Stefano Parisi, che teme per i prossimi anni il rincaro delle imposte regionali per contenere l'incontrollata spesa sanitaria. "Il tema della spesa sanitaria - ha precisato Parisi parlando a un convegno dei dottori commercialisti di Milano - è il vero problema del futuro delle imprese". Un problema che rischia tra l'altro di "deresponsabilizzare le Regioni" e di "compromettere l'avvio del federalismo fiscale". Parisi è inoltre tornato sulla vicenda della riduzione dell'Irpeg al Sud chiedendo un intervento forte per rilanciare la competitività delle imprese, anche in vista della soppressione degli aiuti Ue al Mezzogiorno prevista per il 2006. Parisi ha riproposto in particolare l'Irpeg al 25%, anche per favorire l'emersione del lavoro nero; o, in alternativa, l'applicazione, attraverso la nuova tassazione detta Dual Income Tax, della stessa aliquota per tutti i capitali. Superando, ha spiegato, "l'anacronistico" concetto della tassazione più elevata (37% invece del 19%) per il cosiddetto superprofitto. Al convegno milanese era presente anche il ministro del Tesoro, Vincenzo Visco, che ha voluto rivendicare i risultati positivi dei Governi di Centro-sinistra in materia economica, soprattutto sul fronte dei conti pubblici. E in Italia le cose cominciano ad andare bene, ha aggiunto: "Il nostro è un Paese robusto, solido, con ottimi imprenditori e un ottimo capitale umano". Il ministro ha comunque riconosciuto che il Paese cresce meno di altri partner europei perché ancora "zavorrato" da un eccesso di spesa pubblica per almeno 50-70 miliardi l'anno. E per rimettersi in sesto occorre anche colmare il gap degli investimenti infrastrutturali per la ricerca a la formazione. E proprio a Visco, come ex ministro delle Finanze e attuale titolare del Tesoro, è giunto un riconoscimento forse inaspettato da parte di Parisi. "Sono stati cinque anni importanti", ha detto il direttore generale di Viale dell'Astronomia, osservando che "la continuità nella politica fiscale è stata un vantaggio" per il Paese. E ha aggiunto: "Sono stati presi provvedimenti nella direzione giusta". ______________________________________________ Il Sole24Ore 15 gen. '01 OSPEDALI, CHI PAGA LA VISITA NON FA CODE Inchiesta sulla sanità Nelle 98 strutture-azienda italiane le prenotazioni in regime ordinario (con il ticket) sono fissate in tempi lunghi Ospedali, chi paga la visita non fa code In media occorrono 113 giorni per una Tac in Campania, anche 180 per un controllo cardiologico a Monza - L'intramoenia è molto rapida Cinque o sei mesi: tanto ci vuole per una visita cardiologica all'ospedale San Gerardo dei Tintori di Monza. Ma se si decide di rivolgersi ai medici dello stesso reparto in regime di intramoenia, tutto si risolve nel giro di 24 ore. Pagando, ovviamente, di più. Se il ticket costa 32mila lire, in libera professione se ne spendono da un minimo di 100mila a un massimo di 140mila lire. Monza non è un caso isolato, né in Lombardia né tanto meno in Italia. Infatti, le cose non vanno molto meglio se si decide di fare lo stesso esame all'ospedale San Carlo di Milano: bisogna aspettare cinque mesi. E un'attesa altrettanto lunga toccherebbe a chi dovesse ricorrere a un'ecografia addominale al Treviglio Caravaggio (Treviglio, provincia di Bergamo). Un mese in meno ci vuole per prenotare la stessa visita al Vittorio Emanuele III di Gela. Sempre in Sicilia, occorrono 109 giorni per un'ecografia addominale all'Umberto I di Siracusa. E sulle liste d'attesa della Tac (cerebrale) cade anche il mito dell'efficienza emiliana. All'ospedale di Parma bisogna aspettare quattro mesi. Che diventano 140 giorni a Reggio Emilia. Il tutto si traduce, su scala nazionale, in un divario tra attesa per esami o visite in regime ordinario e attesa per gli stessi in intramoenia, dove si passa in media da 12 giorni per una visita ginecologica a 37 per l'ecografia addominale. Sempre in media, la Campania tocca il record negativo delle code con 113 giorni per la Tac e la Sardegna (che però ha un solo ospedale azienda) con 90 per la visita urologica. Sono i risultati - riportati nelle tabelle di questa e delle seguenti pagine - dell'inchiesta sulle liste d'attesa messa a punto dal Sole-24 Ore del lunedì nei 98 ospedali azienda italiani. In qualità di privati cittadini (e non di giornalisti) sono stati richiesti i tempi di attesa e i costi di cinque tipologie di esami o visite, prenotando in regime ordinario e, in alternativa, in attività libero-professionale ("intramoenia" o "intramuraria"). Subendo tutti i disguidi, le inefficienze e talvolta persino le angherie cui sono sottoposti spesso gli utenti. Nell'era di Internet, infatti, se da un lato si può acquistare a Milano un cannolo confezionato in una pasticceria di Palermo, ordinandolo dall'ufficio o comodamente da casa, dall'altro ci sono ancora troppi ospedali che non consentono nemmeno di prenotare per telefono. Costringendo così i cittadini ad andare di persona allo sportello, solo per fissare un appuntamento. Ma anche dove sono in funzione i centri di prenotazione non sempre sono efficienti. Se quello dell'ospedale San Carlo di Potenza è attivo dalle 8 alle 20 dal lunedì al venerdì e fino alle 13 il sabato, il Cup dell'ospedale Garibaldi di Catania ha un orario all'insegna del "cogli l'attimo": un'ora al giorno, dalle 12 alle 13. Tutto diventa più facile se si decide di fare a meno dell'assistenza sanitaria e si pronuncia la parola magica, capace di abbattere quasi ogni ostacolo: intramoenia. Al massimo in una ventina di giorni ci si può sottoporre all'esame più inaccessibile in regime ordinario, e anche per prenotare diventa tutto più facile, visto che non mancano primari che lasciano disposizioni al personale paramedico di comunicare il proprio telefono cellulare ai potenziali pazienti. L'attività in intramoenia è diffusa in tutta Italia, ma soprattutto in Lombardia, dove la maggioranza degli ospedali l'ha attivata in quasi tutti i reparti. Le tre aziende ospedaliere del Friuli Venezia Giulia fanno addirittura l'en plein, mentre in Emilia Romagna l'unico reparto (su cinque aziende ospedaliere) che non effettua esami in intramoenia è quello di ginecologia dell'Ospedale di Bologna. L'attività intramuraria stenta, invece, a decollare in Sicilia e in Sardegna. Quanto alle tariffe, possono variare da un minimo di 80mila lire al mezzo milione. Gli esami più costosi sono le Tac e le ecografie addominali, che sono i più cari pure in regime ordinario. Per le visite diagnostiche a immagini il ticket è di 70mila lire in tutt'Italia. Varia, invece, quello per le visite cardiologiche, urologiche e ginecologiche. La Regione più "a buon mercato" è il Lazio dove questi esami costano 26.400 lire. Seguono Lombardia, Emilia Romagna, Umbria e Marche: qui si pagano 32mila lire. La Regione più cara è il Friuli Venezia Giulia, con un ticket di 41.200 lire, poco più di quanto si spende in Liguria, Calabria e Basilicata: 40mila lire. In tutte le altre Regioni il ticket è stabilito a quota 36mila. ---firma---Gianluca Di Donfrancesco ______________________________________________ Il Sole24Ore 15 gen. '01 INTRAMOENIA: UNA FORMA DI COMPLICITÀ TRA MEDICI E AZIENDE SANITARIE Per le organizzazioni sindacali è un errore pensare che la semplice offerta di prestazioni a pagamento possa ridurre le liste di attesa I medici: l'intramoenia non fa miracoli Secondo alcuni c'è il rischio di una complicità tra professionisti e aziende, per le quali il nuovo regime si sta rivelando una fonte di entrate La libera professione intramoenia non riesce a risolvere, o almeno ad alleggerire, il problema delle liste d'attesa? È vero. Ma guai a tentare di chiamare in causa i medici. È compatto il fronte sindacale dei camici bianchi nel declinare qualsiasi responsabilità nell'annosa questione delle attese talvolta lunghissime cui sono costretti i cittadini che richiedono una prestazione sanitaria. "Aziende Usl e ospedali hanno a disposizione alcuni strumenti per affrontare la questione - dicono i rappresentanti dei medici -. Tutto sta a saperli utilizzare". Una questione di organizzazione, insomma. I primi "distinguo" arrivano da Serafino Zucchelli, segretario nazionale dell'Anaao-Assomed, l'associazione dei medici dirigenti: "Non si può stabilire nessun nesso tra i soldi che i medici hanno ottenuto con il nuovo contratto, in virtù dell'opzione per il servizio esclusivo nel Ssn e il fatto che le liste d'attesa continuano ad essere molto lunghe in alcune zone del Paese. È vero: il contratto prevede che le aziende sanitarie possano ricorrere alla libera professione per ridurre i tempi d'attesa, ma in questo caso si parla di "libera professione d'azienda". Non è la normale intramoenia che il medico esercita a pagamento, ma una prestazione aggiuntiva che l'azienda chiede al professionista proprio con lo scopo di rispondere alla domanda di prestazioni, concordando con lui il compenso e senza richiedere alcun pagamento aggiuntivo al cittadino". "Il fatto è che - prosegue Zucchelli - quasi nessuna azienda (qualche eccezione c'è in Emilia Romagna), finora, ha fatto uso di questo strumento". Per Giuseppe Garraffo della Cisl, "l'errore sta nel fatto di aver pensato che l'intramoenia potesse creare un'automatica riduzione delle liste. Così com'è organizzata ora l'intramoenia rischia di creare, invece, una sorta di complicità economica tra il medico e l'azienda per cui lavora: la libera professione svolta all'interno dell'ospedale si sta infatti dimostrando un'importante fonte di entrata per gli ospedali. Un fatto che potrebbe avere l'effetto di "distrarre" i direttori generali dal problema delle liste". "Ricorrere all'intramoenia per tagliare le liste d'attesa deve essere solo l'extrema ratio - avverte Roberto Polillo della Cgil medici - chiediamo piuttosto un maggiore impegno ai medici visto che l'ultimo contratto li ha premiati con uno stipendio finalmente a livello europeo". "E poi devono essere le aziende a organizzarsi meglio - dice ancora Polillo - con la modifica degli organici dove i servizi sono più inefficaci e utilizzando premi di risultato per chi è più efficiente". Per Stefano Biasoli, segretario della Cimo (medici ospedalieri) - "chi ha pensato di ridurre i tempi di attesa grazie all'intramoenia ha fatto un errore di valutazione perché la scelta dell'esclusività non significava per forza fare la libera professione intramoenia". "Tanti professionisti - spiega Biasioli - non la facevano prima e continuano a non farla adesso". E la possibilità di ricorrere ai medici fuori dall'orario di lavoro per ridurre le liste d'attesa? "Non mi sembra uno strumento granché utilizzato anche perché molte Usl non sono disponibili ad attingere ai propri fondi spesso già molti risicati". Biasioli è anche convinto che la graduale abolizione di tutti i ticket previsti dalla Finanziaria "non farà altro che aumentare la domanda e quindi anche le liste d'attesa". Infine, per Raffaele Perrone Donnorso dell'Anpo (primari ospedalieri) l'intramoenia non è mai decollata, "al limite quella allargata" (negli studi privati, ndr). "A dimostrazione - dice ancora Donnorso - che la riforma della Bindi è fallita". Non è dunque l'intramoenia la soluzione delle liste d'attesa, "si tratta piuttosto - spiega il segretario dell'Anpo - di un problema organizzativo- strutturale: invece di inseguire gli ospedali di Renzo Piano proposti da Veronesi miglioriamo i servizi in quelli attuali". ---firma---Chiara Bannella Marzio Bartoloni L'esclusiva vale fino a 34 milioni È il compenso lordo annuo per gli ex primari (e in più ci sono le parcelle) Il passaporto per l'intramoenia si chiama esclusività. Oltre il 90% dei medici dipendenti l'ha scelta il 14 marzo 2000 giurando fedeltà al Ssn e ricevendo in cambio un "premio" che va dai 4 milioni l'anno per i neo-assunti ai 34 milioni per gli ex primari. A questi si aggiungono i guadagni che derivano dalle parcelle che i clienti pagano per il servizio. Parcelle con tariffe determinate in base a meccanismi indicati nel contratto 1999-2001. Numerosi i criteri in campo, accompagnati da una verifica annuale. Per le attività ambulatoriali e di diagnostica strumentale e di laboratorio la tariffa è riferita alla singola prestazione o a gruppi integrati di prestazioni. In questo senso deve comprendere anche i costi sostenuti dalle aziende per l'ammortamento e la manutenzione delle apparecchiature, costi che devono essere messi bene in chiaro. In compenso il medico non ha costi nè di avviamento nè di gestione di uno studio privato. Nelle prestazioni in intramoenia per ricovero e day hospital la tariffa è forfettaria e deve tenere conto della partecipazione regionale. Le relative tariffe, tuttavia, non possono essere inferiori agli importi previsti come partecipazione alla spesa del cittadino, tranne in caso di gruppi di prestazioni che i medici esercitano in libera professione allo scopo di ridurre le liste d'attesa. Le tariffe per le prestazioni in intramoenia richieste direttamente dagli utenti sono definite dalle aziende - che le discutono con i singoli professionisti - nel rispetto dei vincoli ordinistici e questo vale anche se la libera professione avviene in strutture diverse da quella di appartenenza del medico. Se la prestazione si fa in équipe, la distribuzione della quota fra i singoli componenti segue gli stessi criteri di determinazione, ma le aziende la ripartiscono a ognuno in base alle indicazioni dell'équipe stessa. Se l'intramoenia è svolta su richiesta di un'altra azienda sanitaria, la tariffa è determinata, invece, "in convenzione". Le regole contrattuali prevedono anche un "fondo di solidarietà" per quelle specialità che non possono svolgere l'intramoenia. Si tratta del 5% di tutti i proventi derivati dalla libera professione, accantonati e ripartiti con la contrattazione integrativa fra chi non svolge tale attività, avendo cura, naturalmente, di non far superare agli importi il guadagno medio di chi la libera professione la fa sul campo. E se liste di attesa sono troppo lunghe, l'azienda può utilizzare l'intramoenia per ridurle. Il meccanismo era già indicato dal Dlgs 124/1998 (sanitometro): se l'attesa supera il limite indicato dalla struttura pubblica - è scritto nel Dlgs - l'assistito può chiedere la prestazione libero-professionale pagata dal Ssn. E così il nuovo contratto prevede che l'azienda possa richiedere la medico una prestazione extra-orario di lavoro, retribuendola con un salario aggiuntivo concordato in fase di contrattazione integrativa. ---firma---Paolo Del Bufalo ______________________________________________ Il Sole24Ore 20 gen. '01 VERONESI: A FEBBRAIO IL PROGETTO DI RIORGANIZZAZIONE "Ci vogliono centri diagnostici sul territorio" Ai primi di febbraio il ministro presenterà il progetto di riorganizzazione Professor Veronesi, le liste d'attesa sono un dramma vecchio per i pazienti. Lei ha istituito in novembre un Comitato ad hoc per indicare proposte e soluzioni. Cosa dobbiamo aspettarci? Il Comitato sta lavorando per dare risposte intelligenti a un problema gravissimo. A cominciare dalla valutazione della "scala delle necessità" delle prestazioni. Anzitutto va distinto il problema delle liste d'attesa tra esami diagnostici e ricoveri. Quindi tra interventi ed esami urgenti o di prevenzione, spesso programmabili. Oggi purtroppo, almeno per gli esami diagnostici, l'operatore che riceve la richiesta per telefono o per via telematica può non sapere se l'esame è urgente o se è programmabile. La programmazione come prima cartina di tornasole, dunque. Ma, concretamente, quali possono essere gli interventi da attuare? Entro la prima settimana di febbraio presenterò ufficialmente la proposta di riorganizzazione della diagnostica sul territorio e il nuovo modello di ospedale progettato da Renzo Piano. Quali linee operative contraddistingueranno i due progetti? La diagnostica va distaccata dalla terapia e portata interamente sul territorio. Oggi gli esami diagnostici si fanno spesso negli ospedali, caricandoli di attività anche inutili e obbligando i pazienti a percorrere chilometri e chilometri per raggiungere l'ospedale. Per dover poi sopportare le liste d'attesa. Non è un caso che la diagnostica si sia sviluppata nel settore privato, con strutture collocate nel contesto abitativo dei pazienti. Ecco, è questo il modello da seguire: creare centri diagnostici pubblici diffusi sul territorio. La riduzione delle liste d'attesa sarà una conseguenza diretta. E per le attese nei ricoveri? La riforma deve dare efficienza alla rete ospedaliera. Oggi abbiamo troppi ospedali. Per di più con una degenza media troppo lunga, che andrà ridotta a 3-4 giorni. Questo sarà il grande sforzo da compiere: riducendo la durata dei ricoveri, potremmo aumentare il turn-over per posto letto a 70 pazienti l'anno. I dipendenti dovranno lavorare di più? Certamente è una soluzione. Anche se per la diagnostica la risposta sarà la creazione di più centri sul territorio. Ma soprattutto dovranno lavorare più a lungo le apparecchiature. Perché è anche un problema di investimenti: le macchine, sempre più sofisticate e costose, hanno una vita media limitata e anche per questo devono poter andare al massimo. Per dare risposte in tempi rapidi alle richieste dei pazienti e per remunerare gli investimenti fatti. Si prospettano "orari doppi" per i medici negli ambulatori? Certamente, estendendo l'orario di attività le liste d'attesa sarebbero ridotte notevolmente. Anche se c'è un altro problema da risolvere: la carenza di medici in alcune specialità, come i radiodiagnistici, gli endoscopisti, forse i patologi. È un'altra stranezza che ci contraddistngue, se si considera che siamo il Paese che ha il più elevato rapporto medici/abitanti. Ci saranno novità anche per i medici di famiglia? Il nuovo ruolo dei medici di medicina generale è l'altro cruciale capitolo che affronteremo in febbraio. Cosa cambierà? Oggi il medico di medicina generale prescrive, è quasi un impiegato. Deve invece tornare a fare il medico. E potrà così aiutare a ridurre le liste d'attesa, a ridurre i ricoveri e anche i costi per l'intero sistema sanitario pubblico. Ministro, la realtà ci dice che aggirare le liste d'attesa è possibile: basta "andare" in intramoenia. E pagare. E questo è inaccettabile. È inammissibile che esista un doppio regime per l'accesso alle cure e che per evitare le liste d'attesa si debba pagare di più. Una situazione incresciosa che nasce da un equivoco: ci si è scordati che l'intramoenia è una possibilità offerta ai pazienti per scegliere il proprio medico. E non per bypassare le liste d'attesa. Non sono accettabili le differenze macroscopiche tra la durata delle liste d'attesa in attività ordinaria e quella per le prestazioni in intramoenia. Incontrerò presto i direttori generali e chiederò loro interventi e chiarimenti. L'equazione "se paghi ti ricovero subito, se non paghi aspetti", non è degna di un Paese civile. ---firma---Roberto Turno ______________________________________________ L'Unione Sarda 16 gen. '01 SANITÀ MIGLIORE CON GLI OSPEDALI IN CONCORRENZA Finalmente i politici sardi si rendono conto del reale fabbisogno dell'Impresa Sanità... essa è, infatti, la più grossa impresa della nostra Regione. Conta un numero notevole di dipendenti, con un bilancio annuo che supera largamente i 2000 miliardi, eroga un altissimo numero di prestazioni certamente non inferiore per quantità e qualità a quello di altre Regioni. Questa impresa è sottoposta quotidianamente alla verifica di qualità da parte del cittadino/utente. I risultati di tale verifica però sono spesso inferiori alle aspettative a causa: 1) della inadeguatezza alberghiera all'interno dei presidi ospedalieri (è noto a tutti come le strutture siano state spesso e volentieri abbandonate e siano diventate sedi di cantieri aperti quasi perenni); 2) della scarsa compiacenza del personale sanitario, il quale si trova a dover essere, a parità di qualità e professionalità relativamente alla sua produttività, sottopagato (si consideri, infatti, che un infermiere o un medico in Sardegna, vengano retribuiti in media molto meno rispetto a quanto avviene per il personale sanitario di altre regioni a Statuto Speciale). La risposta degli operatori, comunque, è sempre orientata, nei limiti del possibile, alla massima soddisfazione delle esigenze del cittadino utente, a fronte invece delle farraginosità e insipienza della burocrazia. La distribuzione, poi di quote differenziate tra le varie aziende della Sardegna, ha determinato una allucinante sperequazione anche nei servizi erogati ed essa viene evidenziata anche dalle rilevazioni statistiche relative alle prestazioni effettuate. Si evince in maniera molto semplice che nelle aziende sanitarie che ragionieristicamente chiudono i propri bilanci in pareggio non si offrono ai cittadini i servizi richiesti, al contrario invece, le aziende che si sobbarcano il grosso peso di tutte le specialità, spesso sono in disavanzo. Le speranze accese dalla introduzione della riforma sanitaria e della contabilità analitica sono state in modo evidente, vanificate dalla non applicazione delle norme. In quest'ottica si può capire come a tutti i livelli tra il personale sanitario delle Aziende, si auspichi una conversione della politica regionale volta a creare Aziende più agili e più snelle in grado di rispondere ai bisogni del cittadino. Sarebbe quindi opportuno lo scorporo degli ospedali di grosso livello dalla gestione delle Aziende territoriali al fine di creare una reale concorrenza fra gli stessi presidi ospedalieri che determinerà da parte delle Aziende territoriali quella capacità di scelta che esse dovrebbero avere nei confronti dei migliori erogatori di servizi, siano essi pubblici o privati. Marcello Angius Segreteria regionale Anaao Assomed ______________________________________________ Le Scienze 19 gen. '01 UNA PROTEINA IMPLICATA NELL'INSORGENZA DEL DIABETE Un meccanismo simile potrebbe presentarsi anche nell'uomo La scoperta di una nuova proteina potrebbe aiutare a spiegare perché molti soggetti sovrappeso soffrono anche di diabete di tipo II. La proteina, battezzata con il nome di resistina, è prodotta dalle cellule grasse e sembra inibire la risposta insulinica dell'organismo. Il diabete insorge quando misteriosamente l'organismo diventa incapace di risposta insulinica. L'insulina è un ormone fondamentale per regolare la quantità di zuccheri nel sangue dopo i pasti. Le cellule dei pazienti diabetici sono incapaci di assorbire il glucosio, che rimane nel sangue raggiungendo livelli pericolosi per la salute. Nell'arco di decenni, ciò può portare a danni neurologici, insufficienza renale e cecità. Alcuni dei più efficaci trattamenti del diabete di tipo II appartengono a una classe di farmaci, chiamati tiazolodinedioni (TZD), che aumentano la risposta insulinica del soggetto. Il rompicapo per gli scienziati consisteva nel fatto che gli stessi farmaci sembrano attivare un gene coinvolto nello sviluppo di cellule grasse. "Il fatto - ha spiegato Mitchell Lazar, endocrinologo della University of Pennsylvania a Philadelphia - che un farmaco per il diabete incrementi anche la produzione di cellule grasse è un paradosso, poiché le stesse cellule grasse sono tra le cause del diabete." La connessione ha portato a pensare che i farmaci potessero chiarire le cause del disturbo. Lazar e i suoi colleghi hanno ipotizzato infatti che i farmaci possano disattivare un gene che interferisce con la risposta insulinica: il gene diviene così meno attivo in presenza di TZD. Secondo quanto riportato nell'ultimo numero di "Nature", tale gene produce la resistina, una proteina rimasta finora sconosciuta (il nome le deriva dalla capacità di causare una resistenza alla produzione d'insulina). La sperimentazione di laboratorio si è svolta su animali. I ricercatori hanno riscontrato che le cellule grasse nei topi producono resistina che viene immessa nel flusso sanguigno. I topi sovrappeso, infatti, hanno livelli di resistina e di zuccheri nel sangue significativamente alti rispetto ai topi sani. Bloccare la resistina può aiutare gli animali a rispondere più efficacemente all'insulina. I ricercatori, inoltre, hanno trovato anche negli uomini un gene simile a quello responsabile della produzione di resistina nel topo. ______________________________________________ Corriere Della Sera 14 gen. '01 GESSA: "SOTTO I 15 ANNI TUTTI GLI STUPEFACENTI ROVINANO IL CERVELLO" Gianluigi Gessa: l' ecstasy non uccide, ma compromette la qualità della vita Bazzi Adriana L' ESPERTO "Sotto i 15 anni tutti gli stupefacenti rovinano il cervello" MILANO - Non è un "falco" né del proibizionismo né della legalizzazione, ma Gianluigi Gessa, psicofarmacologo di fama internazionale, conosce bene gli effetti delle droghe e pen sa che su questo problema ognuno debba giudicare senza bisogno dei suggerimenti di ministri o premi Nobel. I dati della ricerca scientifica sui danni da droghe non mancano. ECSTASY - "La pericolosità dell' ecstasy non si misura sul numero di morti - dice Gessa, che dirige il Dipartimento di Neuroscienze all' Università di Cagliari -. Non è una droga che uccide, ma è tossica, danneggia irrimediabilmente il cervello e compromette la qualità della vita". Le prove dei danni da ecstasy si sono accumu late negli ultimi anni. Il consumo abituale di questa sostanza, un derivato dell' anfetamina, in sigla MDMA, provoca alterazioni dei neuroni che producono serotonina, un mediatore cerebrale che ha a che fare con molteplici funzioni mentali. Lo si è d imostrato nei roditori, nelle scimmie e anche nell' uomo attraverso esami per lo studio del cervello, come la risonanza magnetica: bastano 20 pastiglie per andare incontro a danni irreversibili. "Il danno ai neuroni che producono serotonina - spiega Gessa - si traduce in una serie di conseguenze negative che vanno dall' alterazione del tono dell' umore, con comparsa di depressione, a disturbi della memoria o dell' apprendimento, da alterazioni del ritmo sonno-veglia fino a problemi sessuali. Di questi ultimi dovrebbero preoccuparsi soprattutto i giovani che rischiano di più la dipendenza: l' ecstasy provoca una perdita del desiderio sessuale". MARIJUANA - Ecstasy e anfetamine sono da considerare droghe "pesanti". Ma ha ancora senso parlare di droghe leggere e pesanti? "Non sono per una divisione manichea fra buoni e cattivi - risponde Gessa -. Scientificamente le droghe vanno valutate una per una, in base al loro principio attivo, alle dosi e agli effetti sull' organismo". Prendiamo la marijuana. Se la concentrazione del suo principio attivo, il tetraidrocannabinolo, non supera 1,5 mg, potremmo chiamarla leggera a confronto di droghe come le anfetamine, la cocaina e l' alcol. Quest' ultimo, insieme alla nicotina, è una sorta di dr oga legale, più pericolosa della marijuana. L' alcol, che è il principio attivo di birra, vino e superalcolici, è una droga pesante perché può dare dipendenza nel 10% dei consumatori, che diventano così alcolisti cronici. Ma chi si limita a un bicchi ere di vino al giorno non è un alcolista. GIOVANI - La capacità della droga di indurre dipendenza, dunque, è un fattore determinante, ma altrettanto importante è l' età. Chi si avvicina alla droga prima dei 15 anni, indipendentemente da problemi soci ali e psicologici, non solo rischia maggiormente la dipendenza, ma va incontro a danni maggiori. Entro i 15 anni, infatti, si completa l' organizzazione del cervello e le droghe, leggere o pesanti che siano, possono interferire con i processi di coll egamento fra i neuroni. "L' eventuale legalizzazione delle droghe leggere - conclude Gessa - dovrebbe tener conto della reale capacità di impedire che ne facciano uso i ragazzi prima dei 15 anni". Adriana Bazzi ______________________________________________ Corriere Della Sera 16 gen. '01 TRAPIANTI, I VOLONTARI "TRADITI" DALLA LEGGE L' Aido milanese chiude 45 sedi su 140: "Il tesserino sulle donazioni disorienta i cittadini". La segretaria provinciale: adesso molti sono convinti che il loro impegno non serva più Manola Olivia Calano gli iscritti ed è più difficile trovare nuovi associati, ma le norme approvate nel ' 99 non sono ancora operative Trapianti, i volontari "traditi" dalla legge L' Aido milanese chiude 45 sedi su 140: "Il tesserino sulle donazioni disorienta i cittadini" MILANO - Il buon cuore dell' Aido batte sempre più lentamente. I dati forniti dalla sezione provinciale fotografano la grave crisi che l' Associazione italiana per la donazione d' organi sta attraversando nel Milanese. Su 125 gruppi locali esistenti oggi nei comuni della provincia e suddivisi nei cinque distretti dell' Asl (Milano, Monza, Legnano, Melegnano e Lodi), almeno una trentina chiuderanno i battenti nel giro di un mese, 15 hanno già chiuso tra novembre e dicembre 2000. Tra questi ci sono soprattutto gruppi della zona sud: Abbiategrasso, che aveva quasi 1400 volontari; Corsico, con più di mille iscritti, compresi anche Buccinasco e Assago; San Giuliano Milanese e Rozzano; e poi le sezioni a nord, come quelle di Paderno Dugnano e Limbiate. Una sorte che colpisce anche centri che magari esistono da vent' anni, ma non riescono più a coinvolgere gli iscritti neanche per l' assemblea annuale o per iniziative di beneficenza. Nell' ultimo anno gli iscritti all' Aido, a Milano e provincia, sono passati da 117 mila a 115 mila e le previsioni per il 2001 non sono ottimistiche. Soprattutto perché, con la scomparsa di alcune sezioni, è difficile pensare che gli iscritti prendano parte ad assemblee o manifestazioni organizzate in nuove sedi, talvolta lontane. "I volontari - spiega infatti Enrica Colsani, segretaria della sezione provinciale e presidente dell' Aido di Monza, uno dei più attivi in Lombardia - con la chiusura dei gruppi locali confluiscono formalmente nella sezione provinciale, che ha sede a Milano. Ma è evidente che sarà molto arduo coinvolgerli in iniziative che si svolgono magari a trenta chilometri di distanza dal loro comune". Caso emblematico è quello del gruppo di Trezzano sul Naviglio. È prossimo alla chiusura perché, di fatto, non svolge più nessuna attività da anni. Ma i responsabili dell' Aido provinciale non riescono nemmeno più a contattare il presidente, da tempo irreperibile, per chiudere la sede. Diminuiscono i potenziali donatori, quindi, e anche i trapianti in Lombardia fanno segnare un lieve calo. "Nella nostra regione, gli interventi seguiti dal Nit, l' agenzia per i trapianti che opera al Policlinico di Milano - continua Colsani - sono passati dai 408 del ' 99 ai 368 del 2 000". Quali sono le cause? Da una parte, l' Aido, come altre associazioni, sta facendo i conti con gli iscritti, meno numerosi e soprattutto meno disponibili a dedicare parte del tempo libero all' attività di proselitismo. Paradossalmente, poi, anche la legge 91 dell' aprile ' 99, nata per incentivare le donazioni d' organi, ha complicato le cose. "Con la nuova legge, i cittadini hanno ricevuto dal ministero della Sanità i famosi "tesserini blu" - spiega Colsani -. Per esprimere la propria volontà alla donazione bastava segnare la casella del "sì" o quella del "no". E, proprio dalla primavera del ' 99, i nostri volontari hanno iniziato a trovare serissime difficoltà ad avvicinare potenziali nuovi iscritti. Molti sono infatti convinti che, c on la consegna dei tesserini ministeriali, il ruolo dell' Aido non abbia più senso". Ma la legge in questione non è ancora operativa: lo diventerà solo quando saranno costituite banche dati informatizzate in tutte le Asl italiane, che censiranno dona tori e non. Al momento, quelle che stanno per varare in via sperimentale il censimento elettronico sono solo 35 in tutt' Italia. "Ma anche quando la norma sarà pienamente in vigore - sottolinea Colsani -, il ruolo dell' Aido continuerà a essere fonda mentale per informare i cittadini. La legge da sola non basta, occorre intervenire nelle scuole, coinvolgendo Asl e medici di base; in questo senso i volontari dell' Aido sono un prezioso punto di riferimento". Un ruolo rivendicato dagli stessi responsabili dei gruppi locali in via di estinzione. Come quello di Corsico, che ha pubblicato un annuncio in cui spiegava come, con la nuova legge ministeriale, riteneva di "avere assolto l' impegno che si era prefissato". "Ho chiuso la nostra sede con grande dolore dopo 18 anni - è l' amaro sfogo di Luciano Cardinali, ex presidente della storica sezione di via Monti a Corsico -. L' avevo fondata io stesso perché mancava una sezione locale e nessuno aveva voglia di raggiungere Milano. Negli anni abbiamo organizzato biciclettate, concorsi canori per bambini, gare di automobiline radiocomandate, oltre agli incontri con medici ed esperti nelle scuole. Eravamo una quarantina, poi siamo arrivati a quasi 1500 iscritti. Negli ultimi tempi, però, reclutare nuovi volontari è diventato sempre più difficile e l' addio è stato inevitabile". Olivia Manola Nel capoluogo 40 mila soci Seguono Monza e Legnano GLI ISCRITTI Da gennaio 2000 a gennaio 2001 gli iscritti all' Aido di Milano e provincia sono passa ti da 117 mila a 115 mila: di questi, 40 mila sono a Milano, 4.500 a Monza e 3.000 a Legnano I GRUPPI Attualmente in tutto il Milanese ci sono 125 gruppi. Di questi, trenta stanno per chiudere, mentre 15 hanno già sospeso la loro attività tra novembre e dicembre scorso. Fra i gruppi che stanno per chiudere ci sono quelli di Cerro Maggiore, Vimodrone, Cassina de' Pecchi, Cambiago, Pozzolo Martesana, Corbetta, Trezzano sul Naviglio, Opera, Pieve Emanuele, Locate Triulzi LA LEGGE Con la legge 91 del ' 99, il ministero della Sanità ha consegnato ai cittadini un tesserino per esprimere la propria volontà sulla donazione di organi. Secondo l' Aido provinciale di Milano solo il quattro per cento dei cittadini che hanno ricevuto la scheda l' ha compilata e consegnata alle Asl o ai medici di base ______________________________________________ Le Scienze 17 gen. '01 IL CONTAGIO DELLA MALATTIA DI LYME Le zecche introducono nell'ospite una popolazione di batteri altamente variabile Una ricerca condotta presso la School of Medicine dell'Università del North Carolina a Chapel Hill sui batteri responsabili della malattia di Lyme ha chiarito alcuni meccanismi fondamentali del contagio. Grazie al risultato, si sono aggiunte nuove conoscenze che potranno permettere lo sviluppo di un vaccino più efficace contro il morbo. La malattia di Lyme è una malattia infettiva dell'uomo causata dal batterio Borrelia burgdorferi e trasmessa dalle punture di zecca. Lo studio ha mostrato chiaramente che, quando una zecca punge il suo ospite, sulla superficie esterna del batterio avvengono cambiamenti molecolari molto più complessi di quanto pensato finora. Ciò è importante in vista di un possibile vaccino, poiché esso dovrebbe preparare il sistema immunitario ad attaccare gli antigeni del batterio, cioè le proteine che si trovano sulla sua superficie esterna. "Le precedenti ricerche - ha spiegato Aravinda de Silva - coautore dell'articolo apparso sull'ultimo numero dei "Proceedings of the National Academy of Sciences" - hanno mostrato la presenza di alcune proteine superficiali del batterio trovato nel corpo della zecca e altre proteine nell'ospite. Il nostro lavoro mostra che la faccenda è più complicata." Nello studio i ricercatori hanno considerato due delle circa 150 membrane associate a B. burgdorferi. "Ciò che abbiamo scoperto - ha continuato de Silva - è che la zecca introduce nell'ospite una popolazione di batteri altamente variabile se confrontata con la popolazione relativamente omogenea presente nelle zecche prima del pasto di sangue." In alte parole, le due proteine, indicate dalle sigle OspA e OspC, possiedono quattro combinazioni di superfici diverse. Alcuni batteri esprimono solo OspA, altri solo OspC, altri entrambe, altri ancora nessuna delle due. Durante il processo di nutrimento della zecca, infatti, sono state trovate tute e quattro le combinazioni. Ciò indica, secondo i ricercatori, che la popolazione di batteri subisce un processo di adattamento durante la trasmissione che rende massima la probabilità di infettare l'ospite. ______________________________________________ Corriere Della Sera 16 gen. '01 CLONAZIONE TERAPEUTICA, SCOPERTA INGLESE GRAZIE A UN ERRORE IN LABORATORIO Pappagallo Mario La novità: non si toccano gli embrioni Clonazione terapeutica Scoperta inglese grazie a un errore in laboratorio MILANO - Potrebbe essere la scoperta del secolo. E come spesso è accaduto nella storia della scienza, sarebbe frutto del caso. Una ricerc atrice dell' università di Cambridge avrebbe messo a punto una sostanza in grado di far riportare indietro nel tempo una cellula adulta fino a trasformarla in cellula staminale. Un metodo per "riprogrammare" le cellule adulte in "indifferenziate" (qu elle in grado di diventare qualsiasi tessuto) da usare per nuove terapie o come "fabbrica" di organi di ricambio. Il tutto senza toccare gli embrioni. Sulla scoperta, riferita dal Times, non ci sono ancora pubblicazioni ufficiali ma l' "errore " è stato presentato alla comunità scientifica inglese, nel dipartimento di Fisiologia dell' università di Cambridge, dalla stessa ricercatrice, Ilham Abuljadayel. Nata in Arabia Saudita, Ilham ha studiato nel King' s College di Londra ed è quindi to rnata nel suo Paese, dove lavora come immunologa. La sostanza identificata per sbaglio è stata già brevettata. E l' esperimento è stato riprodotto con successo da un altro ricercatore della Royal London Hospital Medical School. Molte aziende sono già interessate e non si esclude che i primi studi sull' uomo possano avere inizio fra sei mesi. Ma ecco la scoperta di Ilham Abuljadayel. La ricercatrice stava preparando una coltura di globuli bianchi, ma ha dimenticato di aggiungere una sostanza. Il risultato sorprendente è stato quello di una trasformazione delle cellule adulte in staminali (primordiali o indifferenziate, così come sono a livello embrionale). Abuljadayel ha chiamato questo processo "retrodifferenziazione", poiché si è verificat o il meccanismo inverso a quello che avviene nel normale sviluppo di un organo o di un tessuto, ossia la trasformazione delle cellule da staminali indifferenziate ad adulte e specializzate. "Una notizia straordinaria - commenta il ricercatore dell' u niversità di Pavia, Carlo Alberto Redi -. Se confermato, si sarebbe finalmente trovato un ambiente di coltura artificiale in grado di riprogrammare le cellule (citoplasto artificiale)". Ed è la via auspicata da Dulbecco nel rapporto che ha concluso i lavori della commissione sulle cellule staminali del ministero della Sanità. Mario Pappagallo LA SCOPERTA L' ERRORE La ricercatrice stava preparando una coltura di globuli bianchi, ma ha dimenticato di aggiungere una sostanza IL RISULTATO Si è verif icata una trasformazione delle cellule adulte in staminali (primordiali o indifferenziate, così come sono a livello embrionale) IL MECCANISMO Il processo di "retrodifferenziazione" è l' inverso di quello che avviene nel normale sviluppo di un organo o di un tessuto ______________________________________________ Le Scienze 17 gen. '01 CELLULE STAMINALI E FAVOLE INDIANE Il ringiovanimento delle cellule staminali scoperto a Cambridge potrebbe essere uno storico errore L'antica leggenda indiana dei principi di Serendip narra la storia di tre giovani, fortunati e astutissimi, che partirono per cercare una cosa trovandone sempre altre più utili e interessanti. Ancora oggi la fiaba indiana rivive in un'evocativa parola della lingua anglosassone: serendipity. È per serendipity che un evento inaspettato, un banale errore interpretato con sagacia si trasforma in una scoperta importante e inattesa, a volte in un campo lontanissimo da quello che si stava esplorando. Abbiamo tutti un debole per le storie di serendipity, forse perché, in un epoca di investimenti miliardari che lasciano ben poco spazio alla scoperta fortuita, ci ricordiamo con nostalgia di quando scienziati geniali potevano scoprire gli antibiotici grazie a una muffa cresciuta per sbaglio, di quando una lastra fotografica indebitamente posata su un sasso radioattivo poteva diventare la prima radiografia della storia. L'ultima notizia di serendipity, raccontata in questi giorni dal "Times", sta facendo il giro del pianeta e rischia, se confermata, di rivoluzionare la ricerca biomedica mondiale. Una giovane e sconosciuta immunologa di origine saudita, Ilham Abuljadayuel, durante un esperimento di routine avrebbe dimenticato di aggiungere un ingrediente alla mistura che doveva uccidere dei globuli bianchi. Incredula, dopo poche ore si sarebbe accorta che le cellule così trattate, lungi dall'esalare l'ultimo respiro, avevano invece azzerato il programma genetico che le aveva portate a essere adulte per tornare bambine, cellule staminali pronte a dare origine a nuovo sangue. Grazie a un esperimento maldestro, ecco a portata di mano la pietra filosofale della moderna medicina, quella per cui gli istituti di ricerca pubblici e privati in tutto il mondo stanno spendendo fior di miliardi: se così fosse, un pugno di cellule prelevate da un qualunque tessuto potrebbe presto fornire ricambi utili ai trapianti, alla cura di tumori e di malattie degenerative; il dibattito etico sull'utilizzo delle cellule staminali embrionali e sulla clonazione terapeutica verrebbe di colpo azzerato, sbaragliato dalla possibilità di usare praticamente qualunque cellula del nostro corpo. Se però rileggiamo la notizia armati di buon senso e di un po' di spirito critico notiamo subito che ci sono un po' di cose che non quadrano. A quanto pare, nessuna rivista scientifica avrebbe accettato di pubblicare i risultati della ricercatrice saudita, e l'unico spazio a lei concesso è stato un breve e informale seminario all'Università di Cambridge, poco prima di Natale, davanti a un manipolo di studenti. Com'è possibile che una scoperta di così grande rilievo sia stata accolta con tanta freddezza dalla comunità scientifica? Se è vero che la storia della scienza straripa di scoperte rivoluzionarie ingiustamente snobbate al loro apparire, l'esperienza insegna a trattare con estrema cautela tutte le notizie che aggirano la rigida selezione imposta dai grandi giornali scientifici. È probabile che i revisori incaricati come sempre avviene dai giornali abbiano giudicato insufficienti, se non addirittura errati, i dati della ricercatrice saudita. Intanto, incurante dei sospetti che aleggiano sul suo clamoroso annuncio la fortunata (speriamo) ricercatrice si è già premurata di assicurarsi una dignitosa pensione, brevettando la sua scoperta e mettendo in piedi dal nulla una biotech company, sede Dublino, con a capo il marito Ghazi. Anche se l'odore di bufala si diradasse e la fiaba della giovane baciata dalla serendipity avesse un lieto fine, non è detto perciò che potremo condividerne gratis le gioie e i vantaggi. Sergio Pistoi ______________________________________________ La stampa 17 gen. '01 IL LAVORO MANTIENE GIOVANI I NEURONI Il cervello che pensa non invecchia, anzi... Con gli anni alcune facoltà si appannano ma altre diventano più potenti Lamberto Maffei I medici e i biologi non più giovanissimi sono cresciuti con la convinzione, appresa sui banchi dell'università, che nel nostro cervello migliaia di neuroni muoiono ogni giorno e non vengono rimpiazzati dalla nascita di nuovi. Molti neuroscienziati sono anche molto scettici sulla possibilità che i dendriti e in generale i circuiti nervosi che costituiscono la base dell'apprendimento e della memoria, possano modificarsi con appropriati stimoli ambientali. E' pure previsto, in base a queste conoscenze, che il cervello può ragionevolmente sopportare una certa perdita di elementi senza apprezzabile peggioramento delle sue funzioni in virtù della grande ridondanza di neuroni e di connessioni nervose. Naturalmente con l'avanzare dell'età queste perdite strutturali fanno sentire la loro influenza e comportano quelle alterazioni neurologiche in parte tipiche della vecchiaia. Questa visione del cervello portava e porta i ricercatori a pensare che il declino del cervello con l'età sia inevitabile e che forse non vale la pena investire pensiero, esperimenti e risorse economiche per combattere un fatto di natura. Le ricerche neurobiologiche più recenti stanno per modificare definitivamente questo atteggiamento mentale. Il cervello, da un inesorabile percettore di tempo che con il tempo appassisce, viene ora ad essere concepito come un organo dinamico che risponde all'ambiente con la formazione di nuovi neuroni e circuiti nervosi: ben lontano dall'appassire, può addirittura migliorare in certe funzioni cognitive con l'avanzare dell'età. Infatti, se è indubbiamente vero che alcune funzioni declinano col passare del tempo (la memoria a breve termine, i tempi di reazione, in parte anche la memoria a lungo termine, e tutte quelle funzioni che sono legate all'elaborazione di nuova informazione), altre funzioni importanti come la padronanza del vocabolario, le abilità numeriche, e le relazioni interpersonali, o altre funzioni legate a giudizi complessi dipendenti da molte variabili e legate alla maturità e alla cosiddetta "saggezza", possono addirittura migliorare con l'età. Per quanto riguarda la padronanza del vocabolario, in un recente esperimento eseguito negli Stati Uniti persone di 80 anni si sono mostrate più abili di persone di 25. Inoltre molte ricerche recentissime sono d'accordo nell'asserire che appropriati comportamenti possono se non ridurre a zero, almeno minimizzare il declino cognitivo legato all'invecchiamento. Diventa imperativo rimanere attivi intellettualmente, possibilmente con interessi disparati, in modo da esercitare parti diverse del cervello e fornire al cervello un adeguato apporto di ossigeno con l'esercizio fisico (più del 20% dell'ossigeno fornito dal sangue viene usato dal cervello). Gli anziani che non hanno malattie croniche come l'Alzheimer, l'ipertensione, il diabete, ipercolesterolemia, malattie cardiache o che riescono a controllarle con opportune terapie, regolando o evitando anche il bere, il mangiare, il fumo, l'inerzia fisica e intellettuale, possono statisticamente presentare un declino cognitivo molto minore di altri che non rientrano in questi parametri sanitari e comportamentali. Tre suggerimenti fondamentali suggerisce la medicina moderna alla persona che invecchia per tenere di conto il prezioso giocattolo del cervello: esercitare la propria mente, esercitare il proprio corpo e assumere quelle sostanze che possono avere influenze positive evitando quelle che possono essere dannose; in aggiunta, tenere in gran cura lo stato generale di salute dell'organismo. E' noto ormai da molti anni che animali fatti vivere in ambiente arricchito, cioè in ambiente che li distrae e che li invita ad una vita attiva e giocosa sviluppano, tra l'altro, una corteccia cerebrale più spessa e un maggior numero di connessioni neurali. Questi animali mostrano un numero maggiore di neuroni in aree collegate con l'apprendimento e con la memoria. Si crede che l'esercizio faccia nascere nuove cellule o faccia vivere più a lungo quelle esistenti. Per l'uomo ci sono dati a favore della nascita di nuove cellule nelle stesse zone studiate negli animali. Un curioso ed interessante studio della zona cerebrale collegata all'intelligenza spaziale ha mostrato che nei taxisti di Londra essa è più grande rispetto ad altri lavoratori. Sembra anche che le persone che usano attivamente corpo e mente siano statisticamente meno soggette al morbo di Alzheimer. Dalla scienza viene quindi un ragionato invito a non lasciarsi andare. Anche l'ultima parte della vita ha bisogno di essere conquistata con accorgimenti e fatica per essere più sopportabile, o addirittura piacevole ed utile. Scuola Normale Superiore, Pisa ================================================= ______________________________________________ Corriere Della Sera 14 gen. '01 P.ISOTTA:"CAGLIARI? UNA DELLE PIÙ BELLE CITTÀ DEL MONDO" Isotta Paolo "L' Elena Egizia", la donna fedelmente infedele MUSICA A Cagliari la prima esecuzione italiana, dal 1928, della più controversa opera di Richard Strauss, rivela un autentico capolavoro "L' Elena Egizia", la donna fedelmente infedele È di moda trascorrere le vacanze in California; i giornali sono inondati di fotografie della bella San Francisco, considerata meta suprema. Però in Cagliari, una delle più belle città del mondo, noi italiani abbiamo una San Francisco tirrenica, la quale in spazi più ristretti rinserra ben altra copia di meraviglie. A Cagliari il Teatro Lirico è moderno, funzionale e di buona acustica; ma fino a qualche anno fa la qualità degli spettacoli e delle masse artistiche lasciava troppo a desiderare. Ora non è più così, al punto che questa Fondazione può permettersi stagioni ambiziose, rare, controcorrente: chi dimenticherà i meravigliosi Stivaletti di Ciaicovski allestiti l' anno passato sotto la bacchetta di un mammasantissima come Rozhdestvenski? Ogni teatro può permettersi una volta l' anno di siffatte eleganze; altro è rappresentarle sistematicamente essendovi una omogenea comunità di pubblico che vi assiste con passione. Per un, con rispetto parlando, critico musicale, abituato a farsela principalmente fra i teatri di Milano, Napoli, Roma, è impressionante assistere alla calca di quattrocento persone convenute per ascoltare l' illustre Quirino Principe che insegna su Die Ägyptische Helena (traduzione a nostro avviso corretta: L' Elena Egizia) di Strauss, e ancor più sapere inesaudita la richiesta di biglietti per la "prima" di quest' opera, ch' è anche "prima" assoluta italiana dal 1928, e il successo focoso ma pieno di comprensione che consegue all' esecuzione. De L' Elena Egizia abbiamo ampiamente parlato giovedì: si tratta di una delle più raffinate opere del sommo compositore novecentesco (1928-1933) ma anche, se si eccettua il suo primo Dramma Musicale, l' incompreso Guntram, di quella in assoluto meno popolare fra le sue. Non ci ripeteremo: le difficoltà si debbono alla policromia stilistica della musica, quale un sessantenne pieno di forza poteva permettersi di creare come contemplando il mondo da un alto terrazzo e alla sottigliezza psicologica, diciamo pure alla morbosità, del dramma di Hugo von Hofmannsthal qui messo in mu sica. Il poeta rielabora, secondo sua abitudine, fonti mitiche: come non scorgere anche l' influenza del moderno Pirandello in un Menelao il quale, avendo addotto gl' infiniti lutti e combusto l' alta Troia per vendicarsi del tradimento della sposa E lena, colà fuggiasca, resta segretamente deluso all' apprendere cosa falsa, essere la sposa innocentissima e vissuta in Egitto sognando lo sposo? È di Pirandello un Menelao che insegue il "fantasma" dell' Elena corrottissima, si sente traditore verso di lei per essersi giaciuto con la falsa casta, ed è felice all' apprender che l' inganno è inganno, che può ricongiungersi con "l' una e con l' altra", quell' una "sempre uguale e sempre diversa". Ho spiegato, specie in ordine al I atto, le immense difficoltà esecutive create dalla partitura orchestrale. Dal direttore Gerard Korsten non si ottiene l' ideale; la sua prestazione si inquadra nei limiti della chiarezza ed un rispettabilissimo professionismo: manca a lui il quid specifico straussia no. Ma la lettura orchestrale è rifinitissima, e l' orchestra cagliaritana, trasformati cento in cento solisti, addirittura sbalordisce. L' ambientazione scenica di David Borowski è povera, basata sopra rotanti tende balneari dietro di che s' intravv edono i meccanismi di palcoscenico. I costumi di Luisa Spinatelli sono raffinati e pieni di fantasia: l' artista meriterebbe un bacio solo per come caratterizza la maga Aìthra, con la pettinatura alla Boldini ed eleganti chemisiers violetti: pare la signora Pauline quand' era la fidanzata di Strauss. Siamo solo all' inizio delle difficoltà. Già alla "prima" di Dresda si trovarono in imbarazzo, sempre per l' atipicità dei ruoli vocali. Sotto questo profilo, a Cagliari fanno miracoli: dall' intens ità lirica del canto della protagonista, Vitalija Blinstrubyte trascorriamo all' impressionante disinvoltura con la quale Yelda Kodalli affronta le asperità ritmiche e l' imposto leggero della parte della maga. Peggio si richiede agli uomini. Menelao è tenore di buon timbro brunito, Stefen O' Mara; ma dal seno del II atto scaturisce un altro, delicato personaggio tenorile, sul tema del quale Strauss intreccia struggenti momenti sinfonici: la compostezza e l' intimo raccoglimento di Ulfried Hasel steiner sono esemplari. Poi, la sorpresa finale: dal seno del II atto scaturisce anche un ruolo letteralmente formidabile. Si tratta di un principe berbero, Altair, un basso-baritono che insiste con violenza sulla tessitura acuta del baritono. Qui ab biamo Johannes von Duisburg, un patrizio tedesco di sangue mulatto. Egli ha portamento, bellezza, grande voce, dizione perfetta: e uno si domanda perché Elena a quel punto non scelga per invecchiare la sovranità sull' Africa. Paolo Isotta