UNIVERSITÀ, RIFORMA IN 800 PAGINE SUBITO UN POSTO CON LA LAUREA ZECCHINO: UN POLO EUROPEO PER LA RICERCA I PRIVILEGI DEI DOCENTI SAPIENZA, DISCO VERDE ALLE LAUREE SPRINT. UNIVERSITÀ: I RETTORI CHIEDONO AL GOVERNO IL FINANZIAMENTO OLTRE LA METÀ DEGLI ITALIANI NON SA LEGGERE I GIORNALI. INCENTIVARE I DOCENTI MIGLIORI È LA VERA PRIORITÀ FINANZIARE LA CULTURA SENZA TEMPI PERSI SCUOLA, ADESSO BASTA CON IL CAOS LO STUDENTE INFORTUNATO VA RISARCITO COME L'OPERAIO ANTITRUST: L'ESE NON DÀ LA LAUREA ================================================================== SANITA' USA: PER TUTELARE LA SALUTE IL MERCATO NON BASTA POLICLINICO ARESU: QUI LA SANITÀ FUNZIONA I MEDICI DI FAMIGLIA: LA CAUSA DEL DEFICIT NON SONO I FARMACI INTRAMOENIA: CODE CON IL TICKET SOTTO ACCUSA VIA LIBERA AI FARMACI ANTI-DOLORE CAGLIARI: IN CRESCITA I CASI DI TUMORE NELL'ISOLA LE NUOVE TECNICHE PER I CASI L'INSUFFICIENZA RESPIRATORIA ACUTA TERAPIA SPERIMENTALE CONTRO LA SCLEROSI MULTIPLA SANITÀ: AL BANDO I CONVEGNI NELLE LOCALITÀ TURISTICHE CONVEGNI: IL CODICE DEONTOLOGICO VIETA IL RIMBORSO AGLI ACCOMPAGNATORI ACCORDO OPPI-SINDACATI SONO IN ARRIVO 682 MILIARDI MODENA: TRIONFO DI UN BISTURI CAGLIARITANO SGRADITO ALL'ATENEO IL PROFESSOR LICINIO CONTU ATTACCA IL RETTORE ================================================================== ================================================================== _________________________________________________________ Il Corriere Della Sera 24 gen. '01 UNIVERSITÀ, RIFORMA IN 800 PAGINE Il ministro Zecchino ha commissionato il volume ad un editore romano Guerzoni: apparato eccessivo ma serviva. Eco: ne bastavano cento ROMA - Per il professor Umberto Eco la riforma universitaria si doveva fare, però quel volume... Nella biblioteca del semiologo, scrittore e saggista, "La Riforma dell'Università", 800 pagine ben rilegate, commissionate dal ministro Ortensio Zecchino a un editore romano, forse non figureranno mai tra i testi di immediata consultazione. Eco, quando il tomo gli è stato presentato nel corso di un convegno, ha espresso un giudizio graffiante: "Credo che il nostro compito sia quello di mantenere lo spirito delle prime 80 pagine della "Riforma Universitaria" e di distruggere le altre 700". Il professore dell'università di Bologna si sarebbe accontentato di cento pagine di leggi, decreti, raccomandazioni dell'Unione europea, senza l'infinita appendice delle 42 classi delle lauree triennali e delle 104 classi delle lauree specialistiche, dove in settecento pagine vengono presentati, per ciascuna classe, i settori disciplinari codificati ai quali le università devono attingere per creare i propri corsi di laurea e offrirli agli studenti. Per ciascuna delle classi di lauree vengono indicati gli obiettivi formativi qualificanti, e poi gli ambiti disciplinari, distinti tra indispensabili, caratterizzanti e affini o integrativi. Per il sottosegretario all'Università, Luciano Guerzoni, il volume rappresenta un notevole sforzo di sintesi: "Prima c'erano le famigerate tabelle, con oltre 4000 discipline. Il Consiglio universitario nazionale, espressione della comunità scientifica, le ha ridotte a 3-400 aree scientifico disciplinari". "Gabbie da distruggere", le ha definite Umberto Eco, che impediscono ai nuovi saperi di emergere e farsi strada nelle università. Un esempio? L'Informatica giuridica, ogni giorno più richiesta ma che nelle "classi" riguardanti le discipline giuridiche manca. Il primo che si è occupato di questa materia, ha spiegato Eco, era un filosofo del diritto. Ne consegue che un docente per guadagnarsi una cattedra di Informatica giuridica deve partecipare ad un concorso di Filosofia del diritto, e sottoporsi al giudizio dei titolari di questa materia con scarse possibilità di farcela, mentre invece è probabile che ce la faccia un filosofo del diritto, che però non serve. Le gabbie, insomma, come espressione dei vecchi saperi codificati nel librone, delle aree disciplinari riconosciute che impediscono ai nuovi di farsi strada. "Un apparato eccessivo, forse - ha replicato Luciano Guerzoni - ma indispensabile per assicurare uno zoccolo formativo di saperi e competenze comuni all'intero sistema universitario. Non si può, però, parlare di gabbie perché nelle 700 pagine non si fa riferimento a discipline ma a un vasto insieme di saperi e insegnamenti ai quali, come se si trattasse di pozzi, le università possono attingere nella più ampia autonomia". Le rigidità, le gabbie, la chiusura al nuovo, ha osservato Guerzoni, non dipendono dalla riforma che offre ampia libertà di scelta, ma dalle strutture di potere accademico: "La maggior parte dei docenti universitari considera la propria materia intoccabile". E il librone di 800 pagine? "Non siamo riusciti a trovare una riforma meno macchinosa - è la conclusione del professor Guerzoni -. Potevamo limitarci a cento pagine e rimandare ai volumi della Gazzetta Ufficiale o al sito Internet del ministero. Abbiano preferito fare un'operazione di praticità, raccogliendo in un unico volume le classi delle lauree triennali e specialistiche. Non tutti i professori navigano nella rete e poi, durante un consiglio di facoltà, è più agevole aprire un libro che collegarsi a Internet". _________________________________________________________ Il Sole24Ore 27 gen. '01 SUBITO UN POSTO CON LA LAUREA Secondo un'indagine dell'università di Bologna 6 "dottori" su 10 sono occupati entro un anno BOLOGNA Una laurea serve a trovare lavoro e in tempi sempre più rapidi. Sessanta nuovi dottori su cento della sessione estiva '99, provenienti da 18 atenei italiani (pari al 55% del totale), hanno trovato un'occupazione nell'arco di un anno e quasi il 20% è senza lavoro, ma non sta cercando, probabilmente perchè impegnato in altre attività di studio e approfondimento. Sono dati che evidenziano un sensibile miglioramento nel giro di pochi anni, visto che i laureati della sessione estiva '98 che hanno trovato lavoro nei 12 mesi successivi sono il 55,8% e quelli della sessione estiva '97 sono il 52,5 per cento. È quanto emerge da un'indagine di Alma Laurea (banca dati di laureati e diplomati del sistema universitario italiano), curata dall'Osservatorio statistico dell'ateneo di Bologna diretto da Andrea Cammelli. Quasi tremila telefonate, con l'82,7% di risposte, per sapere dai neolaureati della sessione estiva '99 (13.141), ma anche dai laureati delle sessioni estive precedenti qual è la loro condizione rispettivamente dopo uno, due o tre anni. Ne emerge un quadro confortante, benché naturalmente caratterizzato da luci e ombre. La media nazionale è, infatti, il risultato di percentuali molto diverse: a Bologna i laureati '99 che hanno trovato lavoro dopo un anno sono il 64,8%, a Firenze il 66,2%, al Politecnico di Torino addirittura il 74%, ma a Catania scendiamo al 42,8% e a Messina al 33,2%, con il 42,4% che cerca lavoro e non lo trova. Dopo tre anni però le cose migliorano per tutti: a Udine il 91,6% dei laureati '97 ha un'occupazione, ma anche a Messina si arriva al 51,4 per cento. Per quanto riguarda le facoltà diverse sorprese emergono dal rapporto: per esempio Lettere e filosofia non potrà più essere considerata una fabbrica di disoccupati, visto che i laureati '99 che hanno trovato qualcosa da fare dopo 12 mesi sono il 72,6% contro il 57,3% dei laureati '98. E anche facoltà come Scienza della formazione e Scienze politiche sfornano dottori con ottime prospettive di lavoro nel breve periodo (rispettivamente l'84% e il 75%). Discorso a parte meritano facoltà come Medicina o Giurisprudenza. A un anno dalla laurea solo il 21,2% dei medici fa qualcosa, mentre il 75,8% "non lavora e non cerca", probabilmente perché impegnato nelle specializzazioni, così il 38,5% dei laureati in giurisprudenza "non cerca" occupato a fare pratica e a studiare per i vari concorsi. Infine dopo tre anni gli studenti di ben quattro facoltà bolognesi superano la soglia di occupazione del 90 per cento. Fra queste accanto a ingegneria (96,4%) svetta Agraria (96%). "Ciò significa - osserva il rettore Pier Ugo Calzolari - che le facoltà scientifiche, che purtroppo interessano sempre meno le matricole, offrono ancora sbocchi sicuri". Fra tre mesi l'Osservatorio illustrerà anche il tipo di occupazione dei laureati '99. Il dato per ora non distingue fra lavoro atipico, nero, temporaneo e a tempo indeterminato e non precisa se l'occupazione è coerente con la laurea conseguita. Maria Teresa Scorzoni _________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 gen. '01 ZECCHINO: UN POLO EUROPEO PER LA RICERCA Innovazione[]Il ministro Zecchino: è l'ora di fronteggiare la sudditanza verso Stati Uniti e Giappone Un polo europeo per la ricerca Bianco (Cnr): un'intesa fissi i livelli minimi di investimento nella Ue ROMA La ricerca scientifica italiana mostra i primi segni di riscatto e fa appello all'Europa. È giunta l'ora di creare un polo unico continentale per fronteggiare la sudditanza con Usa e Giappone e per fare anche della nostra ricerca un vero moltiplicatore di sviluppo per tutti i settori chiave dell'economia. L'auspicio viene dal ministro della Ricerca, Ortensio Zecchino. E Lucio Bianco, presidente del Cnr, ne fa un vero e proprio richiamo programmatico. L'occasione è data dalla giornata nazionale per la preparazione del sesto Programma quadro di ricerca e sviluppo tecnologico della Ue, promossa dal ministero oltre che dal Cnr e dall'Apre (Agenzia per la promozione della ricerca europea). Troveremo udienza? Sì, promette dalla stessa platea il commissario europeo per la Ricerca, Philippe Busquin. Convinto, anche lui, che solo una nuova "sinergia" tra gli Stati membri possa consentire un buon recupero del Vecchio Continente. Per noi, va detto, il confronto continua a essere impietoso, anche se i segni di recupero ci sono. Zecchino sottolinea con giusto orgoglio l'effetto traino determinato dal recente varo del Piano nazionale di ricerca, che ha tra l'altro istituito un nuovo e più efficace sistema di valutazione dei programmi e dei risultati, e dai nuovi incentivi (tra essi la defiscalizzazione delle spese dedicate al settore) previsti dall'ultima legge Finanziaria. Sta di fatto che l'Italia continua, per ora, a essere il fanalino di coda della pur sgangherata ricerca Europea. Investivamo l'1% del Pil. Con i nuovi incentivi arriviamo al massimo all'1,2%. La media europea è all'1,8% contro il 2,8% degli Usa e il 2,9% del Giappone. Non basta: il divario è in tendenziale aumento, visto che nel '98 - secondo i dati diffusi nel convegno di ieri - gli Usa hanno dedicato alla ricerca pubblica e privata 60 miliardi di euro in più rispetto alla Ue, contro i 12 miliardi di gap registrato nel '92, mentre i ricercatori rappresentano in Europa il 2,5 per mille della forza lavoro delle imprese contro il 6,7 per mille degli Usa e il 6 per mille del Giappone. "Stiamo comunque uscendo da un decennio vissuto con affanno e fatica per le scarse risorse economiche disponibili per il settore" insiste Zecchino. È dunque il momento di "concordare - incalza Lucio Bianco - una sorta di Maastricht della ricerca, pervenendo a un accordo per un piano di convergenza che comprenda un livello minimo di investimento atto a stabilire rapporti di collaborazione paritetici. Per l'Italia sarebbe una nuova occasione per rientrare nel novero dei Paesi che contano. Un miracolo possibile" azzarda il presidente del Cnr. Il commissario Busquin approva in pieno. L'obiettivo da raggiungere è quello "spazio europeo della ricerca" che ha avuto come primo artefice e promotore proprio l'ex commissario Antonio Ruberti, recentemente scomparso. Ma al di là del coordinamento e delle sinergie tutti i Paesi devono fare di più, insiste Busquin tracciando il bilancio delle attività svolte con il V Programma quadro di ricerca e sviluppo tecnologico dell'Unione. Approvato nel '98 e attivo fino al 2002, il Programma - ricorda il commissario - ha un budget complessivo di poco meno di 15 miliardi di euro e punta proprio a semplificare la struttura europea della ricerca e a migliorare gli strumenti di gestione per garantire maggiore efficacia e trasparenza ai programmi comuni, attivando un flusso costante di informazioni tra imprese, autorità nazionali e Parlamento europeo. Guai, in tutto ciò, a disperdere risorse che appaiono ancora limitate. La ricerca europea - avverte Busquin - ha bisogno di individuare pochi ma strategici settori competitivi, coinvolgendo le piccole e medie industrie che mostrano di avere maggiore competenza nei settori specifici. Una radiografia aggiornata del patrimonio esistente sarà - avverte il commissario - il prossimo compito strategico che spetta alle istituzioni. F.Re. _________________________________________________________ Repubblica 21 gen. '01 I PRIVILEGI DEI DOCENTI Benedetto De Vivo Professore di geochimica Università di Napoli Federico II Avevo letto il 29.12.00 la lettera del collega Cellucci in merito al funzionamento della laurea triennale concordando totalmente con le argomentazioni contenute nella lettera; mi ero ripromesso di scrivere a mia volta a "la Repubblica" per rafforzare le posizioni espresse da Cellucci. Il sopraggiungere delle vacanze di fine anno però mi ha alquanto distratto e non ho più pensato alla lettera, finché con mia grande sorpresa ho letto il commento del collega (ed amico) D'Alessio dell' Università di Napoli Federico II. Chi conosce gli Usa sa bene che comunque il sistema universitario americano è assolutamente improponibile per la realtà italiana. In Italia, il sistema Università è ancora fortemente dipendente da decisioni che vengono centralisticamente propinate per decreto ministeriale per almeno due terzi (concordo con Cellucci); l'altro terzo delle decisioni dipende dagli interessi corporativi dei professori universitari. In particolare, l'organizzazione dei curricula della laurea triennale costituisce l'ennesima "lotta al coltello" che si sta svolgendo nei vari atenei italiani a difesa degli interessi corporativi dei professori (attribuzione di crediti a questo o quel raggruppamento disciplinare, che sono poi propedeutici alla richiesta di posti da mettere a concorso nel prossimo futuro per gli afferenti a questo o quel raggruppamento disciplinare). Gli studenti sono solo lo strumento di questa logica protezionistica e corporativa. Rimane incontrovertibile il fatto che negli Usa, partendo da una platea studentesca di livello medio-basso (high school), si ottengono poi nelle università, mediamente, risultati eccellenti (soprattutto a livello di Master e PhD); in Italia, viceversa, partendo da una platea studendesca di livello medio- alto (scuole superiori) si ottengono mediamente, nelle università risultati non assolutamente comparabili con quelli delle università americane (o anche inglesi, francesi). Di chi la colpa, se non del corpo docente che governa tutto il processo formativo delle università italiane? Il processo riformatore per essere portato veramente a compimento deve battere il partito trasversale dei professori universitari esistente nel Parlamento e che al di là di ogni schieramento politico è sempre concorde e compatto nel non mettere in discussione i propri privilegi. La riforma che vede l'introduzione della laurea triennale (bachelor anglosassone), seguita dalla laurea specialistica (master) rappresenta per il momento solo un encomiabile tentativo da parte del Legislatore di fornire ai gestori delle università (professori) gli strumenti per mettere al passo le università italiane con quelle dei paesi sviluppati. Saranno i professori capaci di "rompere" con il passato e fondare una nuova università? Io nutro forti dubbi che ci sia questa volontà, perché tutti i segnali sembrano indicare che come al solito si vuol cambiare tutto per non cambiare niente! _________________________________________________________ Il Messaggero 25 gen. '01 SAPIENZA, DISCO VERDE ALLE LAUREE SPRINT. Dopo le polemiche e il caso di Giacinto Canzona, la prima decisione ufficiale. Il preside Dazzi: "Percorsi universitari più veloci". Il Senato accademico dice sì: uno studente sarà "dottore" in anticipo. di RAFFAELLA TROILI Ormai è ufficiale: la Sapienza strizza l'occhio a chi si laurea con molto anticipo. Dopo aver ostacolato tanto Giacinto Canzona, già quest'estate nei confronti di Incoronata Boccia l'ateneo aveva mostrato di cambiare rotta. Allora fu il rettore, su richiesta del consiglio di corso di laurea, a esprimersi favorevolmente. Stavolta è il Senato accademico a dire sì: una decisione importante, presa la settimana scorsa, che permetterà a Stefano Simonetta, romano, 23 anni, di laurearsi in Psicologia già tra un mese. E che certamente, rappresenterà un precedente per quanti riescono a finire gli esami prima dei tempi previsti. Nel caso di Stefano un anno prima visto che Psicologia ne prevede cinque. "A giugno scorso ho finito tutti e 26 gli esami - spiega il ragazzo, che tra il luglio '97 e il luglio '98 ha anche svolto il servizio militare - E a settembre ho chiesto di poter anticipare la data della discussione, visto che in base alle norme vigenti avrei dovuto attendere la sessione estiva". Stefano vive dalle parti della Fiera di Roma, ha la media del 28 e sta preparando una tesi sui test di personalità. "Poi, farò tirocinio e la scuola di specializzazione in Psicoterapia. E pensare che ho il diploma di perito industriale e che a scuola non brillavo. Invece ho trovato la mia strada e un certo rigore di studi: per me l'università è passione e metodo. In assenza dell'uno o dell'altro non si va avanti, a meno che non si abbiano raccomandazioni". Passione e metodo, dunque. Ma non uno qualunque, "puntate sul metodo Simonetti", dice semiserio Stefano. "Mi spiego: io studio a blocchi: il primo giorno faccio il primo e il secondo capitolo, il secondo li ripeto. Il terzo studio il terzo e il quarto capitolo e il quarto ripeto di nuovo primo e secondo. Il quinto giorno, studio quinto e sesto capitolo e ripasso il terzo e il quarto. E così via: insomma, divido il libro a blocchi". Mister 90 esami, come lo chiamano gli amici facendo il verso a una pubblicità di Vieri, ora forse per scaramanzia, dice che non se l'aspettava: "Adesso mi trovo a dover studiare in fretta...". In realtà, Pendolino ("mi chiamavano così all'università perché andavo come un treno") ha già chiaro il suo futuro: "Entro i 30 anni, intendo laurearmi in Lettere. E voglio diventare psicoterapeuta perché mi piacciono le persone e credo di avere una certa predisposizione nel comprendere gli altri". Intanto, per la fine di febbraio dovrebbe laurearsi. Così non pagherà inutilmente altre tasse universitarie. "Perché non dare la possibilità di laurearsi prima del termine burocratico a quegli studenti che hanno una marcia in più?", commenta il prorettore Gianni Orlandi. Il merito di tutto ciò è anche di Nino Dazzi, preside di Psicologia: "La nuova riforma ha come scopo quello di introdurre le lauree brevi per incentivare percorsi universitari più veloci - spiega Dazzi - per questo ho deciso di portare il caso di Stefano Simonetta in Senato accademico, accompagnato dal mio parere favorevole. A Canzona dicemmo di no, con Incoronata Boccia il rettore D'Ascenzo si è espresso favorevolmente. Ormai la cornice è completamente cambiata e questa decisione rappresenterà un precedente: si va verso le lauree brevi e non si può impedire ai più bravi di far presto. Senza contare che il ragazzo avrebbe dovuto pagare inutilmente altre tasse universitarie". Tra l'altro appena aumentate. _________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 gen. '01 UNIVERSITÀ I RETTORI CHIEDONO AL GOVERNO IL FINANZIAMENTO Corsi "Campus" senza fondi I rettori fanno appello alla Presidenza del Consiglio perché l'esperienza dei diplomi "Campus" - caratterizzati dall'interazione tra cultura universitaria, territorio e mondo del lavoro - non finisca con il venir meno del finanziamento proveniente dal Fondo sociale europeo. La conferenza dei rettori ha infatti presentato al presidente del Consiglio, Giuliano Amato, un progetto per attingere, dalle risorse dell'Umts, 600 miliardi in cinque anni così da finanziare 370 corsi di laurea triennali (naturale trasformazione dei precedenti diplomi), da organizzare in joint-venture tra atenei e forze produttive, secondo lo schema sperimentato con il Progetto Campus. "Questo modello - spiega il presidente della Conferenza dei rettori, Luciano Modica - ha dimostrato come sia possibile progettare e pianificare la didattica in modo innovativo coinvolgendo, oltre agli accademici, esponenti del mondo produttivo. Con Campus si è introdotta nelle università la cultura della valutazione continua dei risultati così da migliorare l'offerta formativa". Con la riforma universitaria delineata dal decreto 509/99, secondo Modica, "c'è la possibilità di fare un salto qualitativo nel senso di un raccordo maggiore con il mondo del lavoro e del radicamento sul territorio". Infatti, in base al decreto 509 gli atenei devono delineare l'offerta formativa attraverso il confronto con le forze produttive. Nato nel 1995 con il patrocinio anche di Confindustria, Campus è stato realizzato, nell'ambito dell'Obiettivo 3 del Fondo sociale europeo, con i finanziamenti destinati ad attività formative professionalizzanti nel Centro- Nord. In sei anni sono stati spesi per i diplomi del progetto - che hanno ospitato complessivamente poco meno di 30mila studenti - circa 150 miliardi. Anche grazie alla collaborazione con il mondo del lavoro (da cui sono stati presi in prestito molti docenti), oltre l'80% degli studenti che hanno frequentato un diploma universitario Campus risulta occupato. Ma il piano presentato a Palazzo Chigi dalla Conferenza dei rettori (Crui) non è l'unico tentativo di salvare il progetto Campus, ora rivolto alle nuove lauree triennali. Rodolfo Zich, rettore del Politecnico di Torino e responsabile per la Crui di Campus, sta infatti cercando di arrivare a una convenzione tra atenei e Regioni (con l'appoggio dei ministeri del Lavoro e dell'Università) perché una parte dei fondi regionali destinati alla formazione siano "dirottati" alle lauree triennali. "Per noi - commenta Zich - è importante non perdere la spinta forte che il rapporto con i programmi europei ha dato all'università. Non è solo un problema di risorse: vogliamo partecipare al processo di trasformazione degli equilibri con i diversi attori dello sviluppo. Sarebbe un peccato disperdere i paradigmi di Campus, imperniati sull'occupabilità, sull'analisi dei fabbisogni formativi e su un rapporto paritario tra cultura aziendale e universitaria".---firma--- Maria Carla De Cesari _________________________________________________________ L'Espresso 26 gen. '01 OLTRE LA METÀ DEGLI ITALIANI NON SA LEGGERE I GIORNALI. È incapace di risolvere banali problemi quotidiani. Ed è esclusa dal potere. Ma spesso ha un reddito alto. Radiografia choc di una sorprendente divisione in classi di Romeo Bassoli Bel Paese di ignoranti A vederlo è un tipo normale ed elegante. Ventiquattr'ore, giacca, cravatta forse un po' allentata, un lavoro invidiabile, buon reddito, automobile dell'ultima generazione. Esce dal lavoro con un gran mal di testa ed entra in farmacia. Chiede qualcosa che glielo faccia passare. Apre la scatola del farmaco e prova a leggere le indicazioni. Ma non le capisce. Possibile? Proprio possibile. L'Italia soffre in forma grave di una malattia curiosa chiamata "illiteracy" che tradotto in italiano suona come "illetteratismo". Che in pratica vuole dire: cultura scarsa, ignoranza, fatica a maneggiare le conoscenze che danno accesso al potere o al controllo del potere. Insomma l'Italia è in piena recessione culturale, e con lei quasi tutti i paesi più industrializzati. A documentare tutto questo è una ricerca che lascia sconcertati. Si intitola: "Competenza alfabetica in Italia", ed è realizzata dal Cede (Centro europeo per l'educazione), il gruppo di teste d'uovo del ministero della Pubblica Istruzione. La struttura che recentemente è stata trasformata in Istituto per la Valutazione con il compito di dare i voti alle scuole italiane valutando, appunto, i loro prodotti. Cioè gli studenti. Cosa hanno fatto i ricercatori del Cede? Semplice, sono andati da un campione di popolazione, e gli hanno somministrato tutta una serie di test. Per capire quanto questi signori siano in grado di maneggiare, di comprendere, un testo scritto, un grafico, e addirittura qualche addizione o qualche conto della spesa. Niente di trascendentale, cose in cui ci si imbatte tutti i giorni della nostra vita quotidiana. I risultati sono al di là di ogni pessimismo possibile. Noi italiani perdiamo colpi, e si vede. Ma non si deve pensare che siamo tornati analfabeti come si sarebbe detto un tempo. Figuriamoci, quel tipo di analfabetismo scompare sempre di più a mano a mano che le vecchie classi d'età poco scolarizzate passano a miglior vita (anche se in Italia abbiamo pur sempre due milioni di adulti, tra i 16 e i 65 anni, che possono essere definiti analfabeti). Quello che si perde invece è la capacità di utilizzare l'alfabeto per capire e per comunicare. Sta aumentando la gente che si esprime con un vocabolario povero e capisce solo concetti elementari. Si estende sempre di più quello che gli esperti chiamano "rischio alfabetico". L'ideatore e l'anima di questa ricerca è il professor Benedetto Vertecchi, direttore del Cede. Scuote la testa, sconsolato: "Nei maggiori paesi industrializzati", spiega, "la popolazione ad alto rischio alfabetico è compresa tra un quarto e un ottavo del totale. Se aggiungiamo anche un medio rischio alfabetico, in molti casi si raggiunge e si supera il 50 per cento della popolazione". Diplomi inutili Ma in Italia, se Dio vuole, le cose vanno anche peggio. Da noi l'illetteratismo guadagna terreno anche tra quei ceti che una volta si sarebbero definiti intellettuali, ma che dimostrano di non riuscire a utilizzare le proprie competenze alfabetiche e linguistiche al di fuori del proprio ristretto campo specifico. Per fotografare questo fenomeno, la ricerca divide le competenze linguistiche in cinque livelli. Le persone che raggiungono soltanto il primo o il secondo livello vengono considerate ad alto o medio rischio alfabetico. I livelli dal terzo in su permettono di dire che la persona non è illetterata o, nel caso del 4° e 5°, che ha un buon grado di competenze linguistiche. Per intenderci, il livello minimo è quello in cui si può essere in grado di tracciare la propria firma, o di riconoscere l'insegna di un negozio, ma non si è in grado di utilizzare il linguaggio scritto per produrre o ricevere messaggi che richiedono una pur modesta organizzazione del discorso. Se è così, c'è un dato stupefacente: l'8 per cento di quelli che stanno al livello più basso, quello che viene considerato al limite dell'analfabetismo, è laureato. E il 10 per cento diplomato. Ma ancora più drammatico è che molti di questi siano giovani. Non sono soltanto gli anziani, quelli che hanno vaghi ricordi dell'università o della scuola media superiore a collocarsi nei due livelli più bassi di competenze. Certo, tra coloro che hanno un'età compresa tra i 56 e o 65 anni, ben l'80 per cento è ad alto o medio rischio alfabetico. Ma tra i ragazzi che sono a scuola o che l'hanno appena lasciata, il dato è un impressionante 48 per cento. Più della metà di una generazione con altissimi tassi di scolarizzazione si colloca nei due livelli più bassi di competenza. "Ognuno di noi sa di aver dimenticato molta matematica", spiega Vertecchi: "o di non saper più leggere il greco o tradurre il latino. Ma ora sta accadendo qualcosa di nuovo: ora non si perdono più solo le conoscenze di discipline specifiche. Ora ci si perde la cultura di base, quella alfabetica". Eppure sono ricchi Siamo un popolo che ha poca confidenza con le parole, ma non con il conto in banca. La ricerca dell'Istituto di valutazione disegna infatti una classe di illetterati che, contrariamente al passato anche recente, non ha affatto redditi bassi. O non necessariamente. Circa il 60 per cento delle persone che si collocano nei primi due livelli, quelli più bassi, ha un reddito da lavoro che supera i 42 milioni annui e un reddito familiare superiore ai 140 milioni. Non si tratta più di un'eccezione. Una maggioranza degli italiani con un buon reddito e buone capacità di consumo, ha un basso livello di competenza alfabetica. Vertecchi è convinto che questo dato fotografi "una fenomeno che porta alla creazione di due classi ben distinte. Una prima, costituita da una sorta di Nuovi Mandarini, con un riferimento culturale solidamente alfabetico. Persone che sanno decifrare i messaggi mediatici e sono in grado di esercitare o per lo meno condizionare il potere. Accanto a questa, ecco la seconda classe, sospinta ai margini della fruizione culturale, ma non dei consumi". I Nuovi Mandarini rappresentano non più del 15-20 per cento della popolazione. La netta maggioranza si colloca invece nella classe "culturalmente marginale", avvantaggiata dal punto di vista dei consumi ma svantaggiata da quello dei diritti civili e politici. Per Vertecchi questa distinzione di classe è quella più rilevante nelle società contemporanee e scavalca quella legata alla posizione nella produzione e al livello del reddito. Ma è anche la più difficile da percepire, perché i media forniscono alla "seconda classe" un'immagine di agiatezza e di soddisfazione. Che peraltro si ritrova puntualmente nella ricerca: l'80 per cento degli intervistati si sente infatti assolutamente a proprio agio con le competenze alfabetiche che si ritrova. Ritiene anzi che siano sufficienti per il loro lavoro e il loro compito di cittadini. Peccato che più della metà di questo 80 per cento sia ad alto o medio rischio di analfabetismo. Del resto, negli studi internazionali si vede con chiarezza che la classe svantaggiata è quella più omologata nei consumi e nei comportamenti "globalizzati". Subalterni e senza identità ma "internazionalizzati". Scuola per adulti? Che cosa si può fare per cambiare questa situazione? Vertecchi è convinto che "occorre pensare a interventi che contrastino sia l'analfabetismo che l'illetteratismo". Ma questi interventi debbono trovare un nuovo obiettivo: non più i giovani e i giovanissimi, ma gli anziani, i genitori. Per tre motivi. Il primo: nelle classi di età superiori ai 45 anni si concentrano ancora sacche estese di analfabetismo puro e semplice. Il secondo: tutte le ultime ricerche sul rapporto tra contesto culturale nel quale si muovono gli studenti e le competenze che questi acquisiscono, dicono chiaramente che è l'ambiente familiare, più di quello scolastico, a essere decisivo. Il terzo: "Imparare a tutte le età", sostiene Vertecchi, "è una condizione reale perché la vita democratica di un paese avanzato possa davvero esprimersi". Quali siano concretamente questi strumenti, è tutto da inventare. Una proposta immediata, dice Vertecchi, potrebbe essere la creazione di un Osservatorio Nazionale sulla Lettura che segua e analizzi con precisione l'evoluzione verso questo nuovo, inedito conflitto di classe. Ma ci si riuscirà? Nessuno per ora è in grado di rispondere. Nel frattempo cresceranno sempre più gli illetterati, incapaci di prenotare un albergo, fare il conto della lavanderia, leggere le avvertenze della Cibalgina, fare una moltiplicazione, leggere un grafico. Forse laureati, probabilmente ricchi. Contenti loro... _________________________________________________________ Il Sole24Ore 27 gen. '01 INCENTIVARE I DOCENTI MIGLIORI È LA VERA PRIORITÀ L'accordo di Natale tra Governo e organizzazioni sindacali della scuola ("Il Sole-24 Ore", 16 dicembre 2000) ha rappresentato una tappa importante della difficile vertenza. Si tratta di un primo risultato, che però non risolve i numerosi problemi sul tappeto: primo fra tutti la necessità di riservare una parte consistente degli aumenti richiesti per premiare (e quindi incentivare) i docenti che si sono impegnati di più e hanno ottenuto migliori risultati. E da questo punto di vista va denunciato che destinare al merito solo una parte esigua dei 1.260 miliardi originariamente stanziati dal contratto sarebbe un grave passo indietro. Il 2000 è stato l'anno in cui la "questione insegnanti" si è posta nella sua effettiva drammaticità. La scuola italiana è, tra i sistemi educativi europei, quella che manifesta le maggiori difficoltà e arretratezze nella gestione e valorizzazione della figura del docente. Retribuzioni al di sotto della media europea, appiattimento delle carriere, mancanza di risorse per l'aggiornamento rappresentano solo le manifestazioni tangibili di un ruolo professionale che per anni è stato identificato con quello dell'impiegato ministeriale. Era inevitabile, in una fase di profonda trasformazione dell'architettura del sistema educativo italiano, che la questione della professionalità e della funzione del docente tornasse alla ribalta come uno dei problemi chiave della nuova scuola. Al di là delle retoriche e delle diverse posizioni, il punto di snodo di tutta la vicenda era e resta la questione della differenziazione meritocratica nella politica salariale. Una volta concordata l'esigenza di riportare gradualmente il livello medio delle retribuzioni sugli standard europei, l'introduzione del principio del merito nell'attribuzione di incentivi economici resta uno dei punti più controversi, ed è destinato a condizionare nel bene e nel male tutto il dibattito contrattuale. Per affrontare il problema in modo costruttivo appare necessario porsi due domande di fondo. È giusto premiare gli insegnanti più bravi? E, soprattutto, è possibile garantire meccanismi che consentano di rendere praticabile tale principio? Sulla necessità di retribuire di più chi si impegna di più e chi investe sistematicamente sul proprio lavoro permangono numerose resistenze. Ma, se è difficile far accettare tale principio agli insegnanti, sarebbe altrettanto complicato spiegare all'opinione pubblica che la qualità dell'insegnamento non può essere premiata. Tanto più che, secondo una recente indagine Censis, più del 60% dei cittadini riconosce come essenziale una diversa retribuzione del docente in base al merito. Come rendere praticabile tale principio? Su questo punto, si ricorderà, è stato sacrificato il ministro Luigi Berlinguer, reo di aver applicato l'articolo del contratto che prevedeva il famigerato "concorsone". Probabilmente è stato un errore ritenere praticabili "prove oggettive" individuali che avrebbero messo in difficoltà i docenti, delegittimandoli anche agli occhi degli studenti. Molto più semplice e logico sarebbe puntare sull'autonomia delle scuole e la valutazione d'istituto. In altre parole, si tratterebbe di affidare all'autonoma gestione delle scuole gli incentivi professionali integrativi della retribuzione contrattuale, affidando al consiglio d'istituto la funzione di regolamentazione e garanzia sul processo di valorizzazione del merito. Tale funzione potrà valersi dei risultati della valutazione di istituto, che consentirebbero di indirizzare gli investimenti e gli incentivi destinati alle scuole in modo mirato; fornendo altresì agli organi collegiali la possibilità di confrontare i risultati con i parametri medi predisposti dall'Istituto nazionale di valutazione, per orientare le strategie educative della scuola e attribuire gli incentivi ai docenti in modo coerente con i risultati della scuola. Chi meglio degli organismi democratici, dove sono rappresentate tutte le componenti, sarebbe in grado di valutare le competenze in atto degli insegnanti? Il riconoscimento dei meriti professionali è un passaggio essenziale per migliorare la qualità dell'offerta educativa: principio peraltro condiviso dalle organizzazioni sindacali maggiori, che, seppure con qualche differenziazione, avevano sottoscritto il contratto che lo prevedeva. Le elezioni delle Rsu hanno dato la prevalenza alla Cgil - che si è battuta per conservare l'aumento di merito, abbandonato dalla Cisl - e a Cgil, Cisl e Uil circa il 60% dei voti. È auspicabile che, una volta concordati gli aumenti base per tutti, le grandi organizzazioni sindacali riprendano con forza il principio della valorizzazione professionale. _________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 gen. '01 FINANZIARE LA CULTURA SENZA TEMPI PERSI Ed è proprio qui che nascono i dubbi. Su quell'elenco di soggetti possono imbastirsi mediazioni tra un localismo e l'altro nell'ambito della Conferenza Stato-Regioni (io ti ammetto i circoli culturali della Val Camonica se tu mi ammetti i vernacolieri toscani, le bande di piazza della Calabria o i "diavoli" delle settimane sante siciliane), pressioni di parte. E su tutto può continuare a pesare l'ombra del mediatore-superiore, del ministero, con tanto di ministro, sottosegretari, apparati nazionali e locali. Si rischia un pasticcio all'italiana, insomma. O un "elenco del principe" con tentazioni politico- clientelari. Tutti, oggi, negano interessi distorti, respingono sospetti. E le dichiarazioni di buona fede non si mettono in discussione (sino a prova contraria). Ma meglio evitare i rischi, pensare a criteri più oggettivi, le categorie (per esempio gli enti lirici, le biblioteche, le attività legate all'arte contemporanea, i musei d'impresa, le ricerche etnologiche o la musica d'avanguardia e così via) lasciando semmai al ministero di controllare, ex post, la correttezza della destinazione dei fondi da parte delle imprese, con penalità di revoca del vantaggio fiscale in caso di scorrettezze, conflitti d'interesse, distorsioni, ecc. Il ministro Melandri, ieri a Milano, ha dichiarato pubblicamente d'essere più favorevole al meccanismo delle "categorie". Vedremo come andranno davvero le cose. La seconda perplessità su quell'articolo 38 riguarda il tetto dei 270 miliardi all'anno di detrazione possibile. "Una cifra altissima", sostiene il sottosegretario al Tesoro Piero Giarda. Può darsi, anche se meglio sarebbe stato non aver posto tanti limiti: le perdite di gettito nell'immediato potrebbero essere compensate a lunga scadenza dalla crescita di valore complessivo per le imprese, le comunità locali e il sistema Paese dalla valorizzazione delle attività culturali. Terza osservazione critica: la deducibilità riguarda le imprese e non i singoli privati. Una lacuna della legge che il ministro Melandri riconosce e che si impegna a superare. Promemoria per la prossima legislatura e il prossimo Governo, di qualunque colore sia. ---firma---Antonio Calabrò _________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 gen. '01 SCUOLA, ADESSO BASTA CON IL CAOS Freud sosteneva che il mestiere dell'educatore è impossibile. Anche se riguarda una sola persona. Figuriamoci se si tratta di educare le masse. In effetti, si può tentare di comunicare cultura solo a chi lo desidera. Ma il sistema dell'istruzione nel suo complesso, e ancora di più la scuola dell'obbligo, sono basati sul principio opposto. Sarebbe a dire che bisogna insegnare se non a tutti almeno a quante più persone possibile. Quindi anche a quelle che non hanno alcun desiderio di istruirsi. Come si può notare, si tratta di un vero paradosso. Per uscirne, dobbiamo chiederci: come si può operare per far sì che più persone possibile desiderino imparare qualcosa di quello che possiamo loro insegnare? Posto in questi termini il problema chiama in gioco le istituzioni, in senso lato, di un Paese, cioè il modo in cui esso funziona e si autoregola. Mario Pirani, che ha avuto il merito di scatenare l'ultima bagarre sulla scuola italiana (su "la Repubblica" del 21 gennaio) attribuisce esplicitamente la crisi del nostro sistema educativo al fatto che "un minimo di disciplina è saltato". Sono nel complesso d'accordo con questa tesi, almeno se si concepisce la disciplina in senso assai esteso fino a farla coincidere con la curiosità, l'interesse e il rispetto, non solo degli studenti ma anche dei professori. Meno d'accordo sono invece con la seconda parte della sua analisi, quella in cui attribuisce la responsabilità di ciò al tentativo di affibbiare la colpa del disordine al mercato. Se non altro perché di mercato, in Italia, ce n'è poco in generale e pochissimo nella scuola. Bertrand Russell, nella sua autobiografia, racconta di un anziano professore di Cambridge che usava, durante gli esami, o dissentire con lo studente oppure bloccarlo subito. Non capendo le ragioni di quel comportamento, il giovane Russell si vide rispondere che nel primo caso gli studenti avevano torto, mentre nel secondo, e più grave: "non avevano raggiunto la dignità dell'errore". Bene, quest'ultimo mi sembra il caso della scuola italiana, in cui più che il perseguimento ostinato di un metodo sbagliato, per esempio il mercato, si naviga nel caos più assoluto. Assumendo che Stato e mercato siano due metodi diversi per perseguire simili fini, e cioè che gli studenti abbiano più occasioni per imparare qualcosa, bisogna cercare di avere sufficienti serietà e coerenza per fare in modo che il metodo prescelto funzioni. Qualsiasi esso sia. Pubblico e privato, per quel che credo, hanno le loro regole che, se non rispettate, creano disordine istituzionale e individuale. Con entrambi i metodi si può così promuovere il merito e dare un senso allo stare in classe. Tutto sta nel perseguirli. _________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 gen. '01 LO STUDENTE INFORTUNATO VA RISARCITO COME L'OPERAIO La legge equipara lo studente a un lavoratore durante le attività di laboratorio. Il capo di istituto deve quindi mettere in atto tutte le misure per la sicurezza sul lavoro: in caso di inadempienza, è perseguibile come qualsiasi altro datore di lavoro. In base a questi principi, la quarta sezione penale della Corte di cassazione (sentenza 526) ha confermato la condanna nei confronti del preside di un istituto professionale di Cremona, a 1 milione e 200mila lire di multa, "per colpa e violazione di norme di prevenzione infortunistica". Per la Cassazione, inoltre, lo studente infortunato, come l'operaio, deve essere risarcito applicando le "misure antinfortunistiche". _________________________________________________________ Il Sole24Ore 22 gen. '01 ANTITRUST: L'ESE NON DÀ LA LAUREA L'Antitrust ha bocciato i messaggi pubblicitari della European school of economics (Ese). La scuola prometteva all'utente un titolo di studio - la laurea avente valore legale in Italia - diverso da quello realmente rilasciato. Di più: l'Ese si definiva "università" senza esserlo realmente e vantava di poter assicurare, ma senza averne la certezza, un posto di lavoro alla fine del corso di studi. Sul valore del titolo rilasciato dall'Ese già lo scorso anno era nata una querelle fra il ministero dell'Università e l'istituto (si veda "Il Sole-24 Ore del lunedì" del 6 dicembre 1999). Ora l'Autorità garante del mercato, confermando quanto sostenuto dal ministero, ha affermato che "l'European school of economics non gode di alcun riconoscimento nell'ordinamento universitario nazionale e non può definirsi università". Ha inoltre chiarito che i titoli rilasciati dalla scuola "non sono riconosciuti in Italia e non sono quindi equipollenti ai diplomi di laurea rilasciati da università statali o private riconosciute". Quanto al claim sulle ottime possibilità per gli studenti di ottenere un inserimento nel mondo del lavoro a conclusione dei corsi quadriennali, la società non è stata in grado di dimostrare all'Autorità l'esattezza dei dati contenuti nei messaggi pubblicitari. L'Ese ha infatti presentato al Garante solo un parziale elenco, nel quale, accanto alle iniziali degli studenti, risultano annotate le attività che questi svolgerebbero presso imprese di cui non è indicata neppure la ragione sociale. Troppo poco per provare le ottime chance lavorative pubblicizzate. Un'inesattezza ritenuta dall'Autorità ancora più colpevole "in considerazione delle attuali oggettive difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro". Pesante per l'immagine della scuola - che ha varie sedi in Italia (Roma, Milano, Lucca, Bologna, Vicenza, Verbania, Genova, Napoli, Bari e Catania) ed è legata da una convenzione all'inglese Nottingham trent university - la pena inflitta dall'Authority. L'Ese international Ltd e la Isman Srl (che ne ha curato la pubblicità) dovranno pubblicare a loro spese sul "Corriere della Sera" una dichiarazione di rettifica predisposta dalla stessa Autorità di garanzia. Una sorta di pubblicità "al contrario", con gli stessi caratteri e lo stesso spazio usato in precedenza, ma con un contenuto che smentisce in toto quanto affermato nei vecchi spot. Davvero una brutta bocciatura. Mariolina Sesto ================================================================== _________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 gen. '01 SANITA' USA: PER TUTELARE LA SALUTE IL MERCATO NON BASTA Il caso Usa spiega l'utilità dell'intervento statale Una ricerca sulla mortalità infantile in relazione al Pil procapite e alla distribuzione del reddito in molti Paesi giunge alla conclusione che "lo stato della salute di una popolazione dipende più dalla distribuzione del reddito che dal livello assoluto del reddito nazionale procapite" (Simon Hales in "The Lancet interactive"). Con alcuni ricercatori di Nomisma ho voluto verificare se l'ipotesi era valida anche per i Paesi industriali. Il tasso di mortalità infantile, cioè la quota percentuale di nati che non arriva al primo anno di vita, è legato alla povertà. Questo parametro si sta riducendo: ad esempio oggi in Italia è tra i più bassi del mondo, 10-15 volte inferiore agli inizi del Novecento (meno di sei decessi ogni mille nati contro più di 200 di un secolo fa, cioè un neonato su quattro). Molti Stati non hanno beneficiato di tali progressi per povertà crescente (la desertificazione dell'Africa subsahariana), iniqua distribuzione dei redditi, privatizzazione del settore. Accanto alla globalizzazione della ricchezza c'è anche una globalizzazione della povertà. Dopo anni i divari di reddito tra Paesi ricchi e poveri aumentano: oggi il reddito procapite del 20% di popolazione più ricca del pianeta (dagli Usa alla Svizzera, Italia inclusa) è 74 volte più grande del reddito medio del 20% di popolazione più povera, dall'Afghanistan allo Zambia, mentre nel 1990 era di 60 a 1 e nel 1960 di 30 a 1. Non solo aumentano i divari tra Paesi ricchi e poveri, ma all'interno dei Paesi aumentano le distanze tra base e vertice della piramide sociale: in Europa il 20% delle famiglie più ricche guadagna 5 volte di più del 20% più povero e in America 10 volte di più. Come vedremo dai dati di fonti autorevoli - Oms (Organizzazione mondiale della sanità) e Cia (Central intelligence agency) - la "qualità materiale di vita" è influenzata dal livello di reddito medio, ma soprattutto dalla distribuzione del reddito tra la popolazione e quindi dai sistemi di Welfare più spiccatamente pubblici e diffusi o, all'opposto, più spiccatamente privatisti ed escludenti. Nel 2000 l'Oms, ha prodotto per la prima volta un indice globale di efficacia sanitaria per 200 Paesi, che considera costi e risultati dei sistemi sanitari nazionali, mortalità infantile, mortalità entro i primi cinque anni di vita media e così via. I risultati vedono la Francia al primo posto seguita dall'Italia, con tutti i Paesi europei nei primi 20 posti e i Paesi più poveri agli ultimi posti. Ci sono alcune eccezioni: ad esempio, un Paese ricco come gli Usa è piazzato male, solo al 37° posto della graduatoria, mentre un Paese povero come Cuba è al 39°. Ma vediamo dati più analitici. Oggi c'è un solo Paese, gli Stati Uniti, in cui la componente privata della spesa sanitaria supera quella pubblica. In Europa e in Giappone la componente pubblica di spesa sanitaria è sempre superiore al 70%, mentre negli Usa essa è poco più di un terzo. L'America è anche il Paese che spende di gran lunga più di tutti gli altri in sanità, in assoluto e in relazione al Pil, 14% contro il valore medio dell'8% della maggioranza degli altri Paesi industrializzati. I principali dati sanitari e salutistici confermano invece la netta superiorità complessiva di Europa e Giappone: tra gli altri dati colpiscono una mortalità infantile in Usa del 30% superiore e una vita media di almeno due anni più corta. Poiché sono noti i livelli di eccellenza mondiale dei settori medico, ospedaliero e farmaceutico americani, è logico dedurre che lasciare la "mano invisibile del mercato" operare troppo liberamente in settori strategici e delicati come questo può andar bene alle lobby ospedaliere, mediche o farmeceutiche, ma non alla gran massa della popolazione. Una cosa saggia è mettere in concorrenza strutture sanitarie, pubbliche e private, ai fini di massima efficienza, ben altro è lasciare "dualizzare" iniquamente un mercato, dove la parte privata si prende il "ricco e facile" e alla pubblica rimane il "povero e difficile", per di più con risorse calanti. Questi dati devono invitare alla riflessione quanti, pur con la buona intenzione di migliorare un sistema pubblico non senza pecche, intendessero mettere interamente, o quasi, materie strategiche per lo sviluppo e la democrazia come la salute (discorso analogo per l'istruzione) nelle "mani invisibili del mercato". Tutti i dati, alla base e anche ai vertici della scala del "benessere" mondiale, dimostrano che la cura sarebbe peggiore del male. _________________________________________________________ L'Unione Sarda 24 gen. '01 POLICLINICO ARESU: QUI LA SANITÀ FUNZIONA Sono una ottuagenaria residente a Cagliari dal 1966. Ho trascorso parte del dicembre 2000 ricoverata nel policlinico universitario Aresu. Per le infermità che gli ottant'anni mi hanno regalato, ho provato cliniche e ospedali di tutta Cagliari, ma quest'ultima degenza mi è servita molto. Benché la struttura dell'edificio sia in degrado evidente e porti i segni di cinquant'anni di usura, quando capita un'improvvisa emergenza tutto il personale medico e paramedico è pronto ad accorrere e a prestare assistenza. In una notte interminabile ho visto avvicendarsi infermiere e infermieri professionali, tirocinanti e medici di guardia. Poi, al mattino, i pazienti venivano trasportati con cura nei diversi reparti di laboratorio per essere sottoposti ad analisi ed accertamenti. Il personale paramedico si è inoltre attivato per allestire un presepio sotto l'albero di Natale, in modo da creare un ambiente più familiare rendendo meno triste la lontananza da casa. Approfitto della vostra rubrica per ringraziare di cuore tutto il personale che ci è stato tanto vicino. Anita Bissano Cagliari _________________________________________________________ L'Unione Sarda 21 gen. '01 I MEDICI DI FAMIGLIA: LA CAUSA DEL DEFICIT NON SONO I FARMACI Asl.Replica al direttore "Sulle medicine non bisogna risparmiare. Del resto, non sono questi gli sprechi nella sanità". Giampiero Andrisani, rappresentante dei medici di famiglia, non ci sta e rispedisce al mittente le accuse mosse qualche giorno fa dal nuovo direttore generale Emilio Simeone. Quest'ultimo, incontrando la commissione ai servizi sociali del Comune, non aveva nascosto la sua preoccupazione per la crescita della spesa farmaceutica. "Nella nostra Asl - ebbe modo di dire - abbiamo incrementato le spese per le medicine del 26 per cento. Invece, tutte le altre Asl sono all'incirca sul dodici-tredici per cento". "Non è questo il modo di avvicinarsi ai problemi sanitari - spiega Andrisani -, e non si può neppure parlare di azienda Asl che avrebbe chiuso se fosse stata privata. Siamo di fronte ad un servizio pubblico del quale la società deve farsi carico". Andrisani ha, inoltre, espresso una giustificazione, per così dire, sulla spesa maggiore registrata dall'Asl. "Questo territorio - ha spiegato - sta registrando un altissimo numero di casi tumorali. Soprattutto nei Comuni vicini alle industrie". Un esempio: in sei anni il medico a Fluminimaggiore ha avuto solo un paziente col tumore maligno. A Gonnesa, per lo stesso periodo, ne ha contati 26. "Non so se possa esistere correlazione, bisognerebbe studiare, ma a queste persone bisogna comunque prescrivergli i medicinali giusti". Un altro aspetto è quello della prevenzione. "Certi farmaci servono a prevenire, ma il paziente costerebbe molto di più se dovesse ricorrere al ricovero ospedaliero". In soldoni per il rappresentante dei medici di famiglia i costi della sanità sono soprattutto quelli del personale , delle spese alberghiere ospedaliere e le convenzioni esterne con gli specialisti. "Sono questi i costi sui quali la direzione dovrebbe intervenire per ridurli". Insomma, i camici bianchi degli ambulatori rivendicano la razionalizzazione del settore. "Quando si accusa in questo modo non possiamo che sentirci offesi", dice Andrisani. Il quale ha annunciato la disponibilità dei medici di base a partecipare ad un confronto pubblico, cui partecipi anche il direttore generale, per parlare della sanità del Sulcis Iglesiente. "Forse - ipotizza - si riuscirà, finalmente, ad individuare le lacune, le esigenze e disegnare le possibili prospettive dello sviluppo sanitario che il territorio merita". Antonio Martinelli _________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 gen. '01 INTRAMOENIA: CODE CON IL TICKET SOTTO ACCUSA ROMA Altolà a ogni attività di intramoenia negli ospedali dove le liste di attesa per le prestazioni istituzionali (con il pagamento del solo ticket) sono troppo lunghe: è la richiesta alle Camere e alle Regioni della Fp-Cgil per sbloccare una situazione "insostenibile" che risulta da un'indagine svolta dal sindacato in 34 strutture, a conferma della più ampia inchiesta del Sole-24 Ore di lunedì 15 gennaio, che dimostra come solo chi chiede (a pagamento) le prestazioni in intramoenia aggira le liste d'attesa. "Esiste un'autostrada per l'intramoenia ma neanche un viottolo per le visite con ticket", ha detto il segretario generale Laimer Armuzzi. La Fp-Cgil propone di dirottare tutte le forze (operatori e macchine) per ridurre le liste. E per questo ha avviato una raccolta di firme, rivolgendo alle Regioni la richiesta di un impegno sistematico (a partire dall'avvio dei Cup), e a Camera e Senato il varo di una commissione d'indagine. _________________________________________________________ Repubblica 24 gen. '01 VIA LIBERA AI FARMACI ANTI-DOLORE Passa la legge. Veronesi: "Un antidoto contro l'eutanasia" La morfina e altre sostanze analgesiche potranno essere usate come terapia a domicilio di GIOVANNA CASADIO ROMA - Hanno abbandonato le scaramucce pre elettorali, hanno messo da parte i tatticismi partitici e ieri il Senato ha approvato definitivamente la legge che aiuterà i malati terminali e non solo, grazie all'uso della morfina e dei cosiddetti farmaci analgesici oppioidi nella terapia antidolore. A commentare l'obiettivo raggiunto è stato per primo il ministro della Sanità Umberto Veronesi: "È il migliore antidoto contro l'eutanasia, il Parlamento si è dimostrato all'altezza del proprio ruolo di interprete del sentire comune dei cittadini". L' ok è arrivato all'unanimità dalla commissione Sanità di Palazzo Madama (nella quasi totalità composta da medici) riunita in sede deliberante, dopo alcune sedute convocate e sconvocate e le polemiche degli ultimi giorni. Come avrebbero potuto del resto Carla Castellani, senatrice di An (medico anestesista), Annamaria Bernasconi dei Ds (internista), il senatore di Forza Italia Antonio Tomassini (ginecologo), il Verde Francesco Carella (medico igienista e presidente della commissione Sanità di Palazzo Madama), il medico legale nonché capogruppo Udeur Roberto Napoli - tanto per citarne alcuni - acconsentire a nuovi rinvii politici sulla pelle di chi soffre? Ciascuno ieri ha la sua storia di pazienti, di "casi" dolorosi da raccontare. Finalmente, ecco la legge che modifica il testo unico delle leggi in materia di stupefacenti. L'ennesimo stop and go aveva visto l'accusa di boicottaggio dell'Ulivo a Forza Italia, e una rissa durante la seduta in commissione. "Accuse infondate. Figuriamoci, io so cosa è questo calvario, dopo la malattia di mia madre...", confida il capogruppo di Forza Italia, Enrico La Loggia. E sia chiaro, che le emozioni in politica questa volta non solo contano ma sono del tutto scoperte. "Abbiamo vinto una scommessa: da oggi niente più ostacoli burocratici alla lotta al dolore", commenta la diessina Marida Bolognesi. _________________________________________________________ La Nuova Sardegna 26 gen. '01 CAGLIARI: IN CRESCITA I CASI DI TUMORE NELL'ISOLA Ma il Businco precisa: "Siamo poco sotto la media nazionale" Luigi Alfonso CAGLIARI. "I casi di tumore in Sardegna? Più o meno siamo rimasti sui livelli degli ultimi quattro/cinque anni: nel 2000 abbiamo contato 357 nuovi casi su 100 mila abitanti, più o meno nella media nazionale. Per essere precisi, siamo leggermente al di sotto". Maria Teresa Orano, dirigente sanitario dell'oncologico "Businco" di Cagliari, detesta l'approssimazione. Chiede di poter spiegare le statistiche, in modo da escludere ogni possibilità di confusione nei lettori o, peggio, diffondere allarme. "Soprattutto nel nostro ambito, una corretta informazione è basilare", sottolinea. È molto facile incorrere in errori quando scorrono tra le mani le cifre sui malati tumorali. Perché i più ripetono ciclicamente le terapie di "bombardamento" delle cellule cancerogene (chemio e radioterapia sono le più frequenti), altri preferiscono affrontare i viaggi della speranza fuori dell'isola. Ma ci sono persino i casi, quelli che sfuggono alla visita dello specialista e quindi alle statistiche ufficiali: i casi più "subdoli", insomma, che non vengono individuati perché si curano altre presunte patologie. Gli specialisti non lo dicono perché dappertutto i numeri sono sottostimati per questi motivi. Ma la media è piuttosto omogenea in sede nazionale: la Lombardia registra 450 casi ogni 100mila abitanti, quasi 100 to in più rispetto alla Sardegna. La metà dei tumori si manifesta maggiormente nelle persone al di sopra dei 65 anni. "La prevenzione è cresciuta notevolmente, anche grazie alle campagne di informazione. E la vita media di un malato si è allungata di parecchi anni, con le cure più recenti", spiega la dottoressa Orano. I dati sono forniti dall'unico ospedale nell'isola attrezzato (nel 1972) per curare le malattie oncologiche: in via Jenner accorrono da tutta la Sardegna. "Ma molti, eseguito un intervento, si rivolgono a strutture più vicine alla loro residenza per effettuare la terapia. La distanza certe volte è un handicap. Quindi le statistiche finiscono con l'avere una chiave di lettura un po' alterata dalle variabili". Gli uomini sardi sono colpiti prevalentemente al polmone, le donne alla mammella. Al secondo posto, senza distinzione di sesso, ci sono le forme tumorali riguardanti l'apparato digerente. In Italia le percentuali possono variare a seconda del tasso di inquinamento ambientale e dell'alimentazione ma, in linea di massima, rispettano l'andamento isolano. Una peculiarità ha la Barbagia, dove l'alcolismo è più radicato: sono piuttosto frequenti i casi di cancro del cavo orale. Insomma, la qualità della vita è indubbiamente migliore rispetto all'Italia settentrionale (questo è uno dei segreti della longevità dei nonnini di Tiana), ma neppure la nostra regione può dirsi realmente al riparo dal rischio dell'insorgenza di neoplasie. L'ospedale Businco conta trecentotrentanove posti letto per il ricovero ordinario, riservati ai pazienti che hanno necessità di un intervento chirurgico o di una semplice diagnosi. Nei casi più lievi è previsto il "day hospital", che consente di rimanere in ospedale anche per il tempo necessario alla terapia. Intanto fa discutere la proposta del presidente dell'Associazione sarda assistenza emeopatici (sezione di Cagliari dell'Associazione italiana leucemie): in una lettera inviata alle autorità regionali e del comparto medico-sanitario, Antonio Cancedda ha chiesto nei giorni scorsi il potenziamento delle strutture del "Businco" e l'attuazione del decreto legislativo 229 del 1999, per costituire l'ospedale oncologico in Azienda autonoma. Da tempo, il distacco dall'Asl 8 è ipotizzato da più parti. "In questo modo - sostiene Cancedda - si potrebbe accrescere l'osservazione epidemiologica e incentivare la diagnosi precoce. È auspicabile che la Regione istituisca una commissione oncologica e decentri l'attività in tutta l'isola, con la creazione di poli che garantiscano un'assistenza adeguata". Ma qui la palla passa dai medici (che, secondo il direttivo dell'Asae, mascherano con la professionalità le gravi lacune del "Businco") direttamente ai politici. _________________________________________________________ La stampa 24 gen. '01 LE NUOVE TECNICHE PER I CASI L'INSUFFICIENZA RESPIRATORIA ACUTA Andrea Purro Giorgio Carbone UNA percentuale significativa dei pazienti che arrivano ai Dipartimenti di emergenza dei nostri ospedali manifestano un quadro di insufficienza respiratoria acuta. In parole povere, hanno malattie che compromettono la capacità dell'organismo di assumere ossigeno e/o di espellere anidride carbonica. Le cause possono essere molteplici, ma nella pratica quotidiana di Pronto soccorso il medico deve fronteggiare soprattutto l'esacerbazione della malattia cronica ostruttiva delle vie aeree (bronchite cronica ostruttiva ed enfisema polmonare), broncopolmoniti e scompenso cardiaco acuto o edema polmonare acuto. I presidi terapeutici in nostro possesso sono rappresentati dai farmaci e, nei casi più gravi, dal supporto meccanico ventilatorio, che può essere sia di tipo non invasivo sia invasivo, in altre parole mediante l'intubazione delle vie aeree. Come si può intuire, la strategia terapeutica da utilizzare nei singoli casi non sempre è facilmente percorribile: in particolare non sempre è agevole individuare subito quei pazienti che necessitino dell'assistenza fornita dal ventilatore meccanico per respirare. Una migliore definizione della diagnosi consente non solo di "curare meglio e il più presto possibile" il malato, ma anche di ottimizzare l'impiego delle risorse ospedaliere (i pazienti di area critica, quali sono coloro affetti da insufficienza respiratoria acuta, richiedono un notevole impegno di risorse sia umane, personale medico ed infermieristico, sia tecniche). La capacità di ciascuno di noi di respirare senza alcun supporto meccanico dipende dalla corretta interazione di tre componenti fondamentali: 1) l'impulso che si origina dal sistema nervoso centrale; 2) la forza dei muscoli respiratori; 3) il carico dell'apparato respiratorio che i muscoli devono affrontare ad ogni respiro. La metodica costituita dalla valutazione della "meccanica respiratoria" consente di valutare le tre suddette componenti attraverso la misurazione di parametri di flusso e di pressione utilizzando specifici rilevatori, alcuni dei quali vengono temporaneamente collegati alle vie aeree, altri introdotti in stomaco ed esofago. La lunghezza media di un esame è di circa 30 minuti: il paziente deve effettuare alcune semplici manovre di respirazione e il suo disagio è contenuto al minimo. Il sistema impiegato è costituito da un prototipo e da un software elaborato dal servizio di Bioingegneria e dalla Divisione di Pneumologia del Centro Medico di Veruno, appartenente alla Fondazione S. Maugeri. I dati acquisiti durante la misura costituiscono parametri fisiologici, la cui interpretazione può essere utilizzata per individuare il problema fondamentale che eventualmente impedisce la respirazione spontanea del paziente o che non ne permette lo "svezzamento" dal ventilatore meccanico, se il suddetto paziente si trova in ventilazione assistita e/o controllata mediante tubo endotracheale. Per questo motivo, le potenzialità dello studio della meccanica respiratoria sia in termini di miglioramento della definizione diagnostica, sia in termini terapeutici sono notevoli. Tra le potenzialità di questo sistema diagnostico vanno sicuramente sottolineate sia quella di individuare con precisione i pazienti che necessitino del supporto meccanico ventilatorio, sia anche quella di ottimizzare l'interazione macchina/paziente attraverso il settaggio del ventilatore meccanico per ciascun paziente (è noto, infatti, che differenti patologie richiedono differenti strategie ventilatorie). La meccanica respiratoria è da considerare una metodica ai limiti tra l'impiego clinico e la ricerca scientifica. Il massimo esperto mondiale della materia, Milic-Emili, ha contribuito a creare nel mondo una scuola "itinerante", che si è sviluppata con ramificazioni importanti anche in Italia. Punto d'eccellenza dell'ospedale Gradenigo di Torino e in particolar modo del servizio di Pronto soccorso e area critica è proprio l'utilizzo di questa metodica nella pratica quotidiana. Ogni anno i pazienti ricoverati in insufficienza cardio-respiratoria tale da essere necessario un trattamento di supporto ventilatorio meccanico (invasivo o non) rappresentano l'1,5 per cento dei ricoveri nella nostra area critica (circa 70). In alcuni casi, ben selezionati, vengono effettuate valutazioni di meccanica respiratoria con lo scopo di decidere il trattamento più adeguato. L'attività di Pronto soccorso nel nostro ospedale ha visto negli ultimi 10 anni incrementare l'attività del 400 per cento toccando nell'ultimo anno i 40 mila passaggi; 500 di questi vengono ricoverati in area critica per patologie acute o tali da porre a rischio la vita del paziente: il 75 per cento di questi pazienti viene ricoverato per patologia cardio-respiratoria. Un progetto scientifico è il nostro sogno nel cassetto: lo studio e quindi la validazione attraverso la valutazione dei parametri fisiologici con la meccanica respiratoria di tutto ciò che facciamo sul paziente acuto respiratorio. Ospedale Gradenigo, Torino _________________________________________________________ Le Scienze 24 gen. '01 TERAPIA SPERIMENTALE CONTRO LA SCLEROSI MULTIPLA Incoraggianti i test effettuati sulle scimmie Una nuova terapia si è dimostrata efficace nel trattamento nelle scimmie di una malattia simile alla sclerosi multipla. I promettenti risultati sono stati ottenuti dai ricercatori del National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID) statunitense, e saranno pubblicati sul prossimo numero della rivista "Journal of Immunology". "Gli attuali trattamenti della sclerosi multipla - ha spiegato Michael Lenardo, ricercatore del laboratorio di immunologia del NIAID e coautore dello studio - provocano una forte immunosoppressione e possono indurre gravi effetti collaterali di tossicità. Questo nuovo trattamento invece, chiamato immunoterapia antigene-specifica, ha come bersaglio le sole cellule T, riconosciute come causa della malattia. Per questo motivo si pensa che non possa causare effetti collaterali della stessa gravità." La sclerosi multipla è un a malattia invalidante che colpisce i nervi sia nel cervello sia nel midollo spinale rendendo difficoltosi il linguaggio, la visione e il movimento. Colpisce in prevalenza soggetti in giovane età, di sesso femminile e a latitudini medio-alte. Il disturbo è causato da un malfunzionamento del sistema immunitario, che attacca e distrugge per errore le guaine mieliniche, le coperture protettive che circondano le fibre nervose. L'immunoterapia antigene-specifica è basata su una scoperta di Lenardo e dei suoi colleghi, secondo cui le cellule T esposte a piccole quantità delle proteine che costituiscono la guaina mielinica sono stimolate ad attaccare la stessa guaina. Viceversa, quando le cellule T sono esposte a grandi quantità della stessa proteina vanno incontro a un processo di autodistruzione programmata. Perciò, introducendo una grande quantità di proteine mieliniche nell'organismo, è possibile rimuovere le cellule T e fermare la progressione della malattia. "La terapia è controintuitiva - ha concluso Lenardo - e da un certo punto di vista è come buttare benzina sul fuoco. Ma la sequenza autodistruttiva innescata protegge l'organismo dall'abbondanza di cellule T, evitando molti danni". _________________________________________________________ L'Unione Sarda 24 gen. '01 SANITÀ: AL BANDO I CONVEGNI NELLE LOCALITÀ TURISTICHE Camici bianchi in trasferta, Sardegna addio. Fine dei convegni-fiume in amene località turistiche, mai più pensosi meeting a ridosso di spiagge mozzafiato. Soli, con mogli o fidanzate, non fa differenza. Lo stop arriva da Farmindustria, l'associazione delle aziende farmaceutiche aderenti a Confindustria. Nel novembre scorso, il sindacato dei produttori di pillole e affini ha detto basta alla commistione tra scienza e turismo. Si parli pure di medicina, si discuta sui problemi della salute, mai però in un villaggio-vacanze. Lo impone un severo Codice deontologico varato per riportare su un binario di correttezza i rapporti tra l'industria del farmaco e i rappresentanti della sanità. Ce n'era bisogno, per stroncare una certa moda vacanziera sempre in agguato tra un congresso sui tumori e una tavola rotonda sull'influenza cinese. Il codice non si limita a disciplinare l'imbarazzante materia dei convegni, ma detta regole precise sui rapporti tra la potentissima lobby del farmaco e i medici. E per chi non si adegua, scattano le sanzioni, sino all'espulsione dal sindacato di categoria. Tutto bene, quindi, ma forse si è esagerato. Nel disciplinare il comportamento delle aziende, il codice stabilisce infatti che i convegni organizzati direttamente o indirettamente, non possono tenersi "in località a carattere esclusivamente turistico". Sacrosanta decisione, se non significasse la fine del turismo congressuale in Sardegna, cioè di una fetta significativa dell'industria delle vacanze. Bando alle ipocrisie. Il 90% dei convegni scientifici organizzati nell'isola viene ospitato proprio in quelle località "esclusivamente turistiche" messe all'indice dal Codice deontologico. Sono villaggi e alberghi creati dall'industria delle vacanze in località rinomate, che nella bassa stagione languirebbero se non ricevessero ossigeno dal sempre numeroso popolo dei congressisti. Non sono molte: in provincia di Cagliari l'Hotel Chia laguna, Forte Village e Tanka Village. Nel sassarese Porto Cervo, nel Nuorese Cala Gonone. Gli organizzatori le scelgono soprattutto per motivazioni, diciamo così, extra scientifiche, ma anche per stato di necessità. In Sardegna i centri congressi sono merce rara, allora bisogna ripiegare sugli ampi spazi disponibili nei complessi turistici, che mettono a disposizione sale decenti e un adeguato numero di posti letto. "Nell'isola", spiega Serenella Ticca, della Imc Congressi "si organizzano manifestazioni con un massimo di duemila partecipanti. Raramente però nelle città capoluogo, perché Cagliari, Sassari, Nuoro e Oristano non dispongono di centri congressi adeguati alle necessità del settore". "Cagliari sta correndo ai ripari con la costruzione di un nuovo, grande complesso in Fiera", aggiunge Alfredo Sirianni, della "Corsi e congressi" "ma una volta ultimato, resterà da risolvere il problema della ricettività alberghiera". Se il codice venisse applicato alla lettera, la Sardegna rischierebbe quindi di perdere una consistente fetta del mercato delle vacanze. Dalla mannaia di Farmindustria si salverebbe solo Alghero, città turistica, ma non esclusivamente, come recita il codice (articolo 3.9). A questo punto, dalla normativa di Farmindustria emerge una chiara contraddizione. Che senso ha, infatti, vietare l'organizzazione di convegni un un villaggio-vacanze della Sardegna e consentirlo in una città come, ad esempio, Venezia, considerata non esclusivamente turistica? Sotto questo profilo, se l'obiettivo era scoraggiare l'abbinamento vacanza & scienza si profila un fallimento. Nel senso che agli organizzatori basterà spostare l'attenzione da paradisi per vacanzieri, come la Sardegna, a grandi città d'arte o monumentali per salvare la forma aggirando il codice. Per avere un'idea del danno che l'isola subirebbe da un'applicazione alla lettera delle nuove norme bisogna rifarsi a dati nazionali. In Sardegna, infatti, né la Regione né l'Esit hanno la minima idea (in termini di cifre) della consistenza economica del turismo da meeting. Secondo una valutazione dell'Osservatorio congressuale italiano, il fatturato annuo del settore raggiunge i 30 mila miliardi (sui 13 mila se si considerano solo le manifestazioni con più di 50 partecipanti). E la Sardegna è, tra le regioni italiane, tra il terzo e il quarto posto. Nelle prime file, ma sino a quando? Lucio Salis _________________________________________________________ L'Unione Sarda 24 gen. '01 CONVEGNI: IL CODICE DEONTOLOGICO VIETA IL RIMBORSO AGLI ACCOMPAGNATORI Il Codice non lascia scampo. Quando organizzano manifestazioni regionali, nazionali o internazionali le aziende farmaceutiche possono assicurare ospitalità ai partecipanti solo nelle dodici ore precedenti e in quelle che seguono la conclusione. Niente programmi turistici, niente spese pagate agli accompagnatori, tagliati fuori dall'ospitalità persino "i medici di medicina generale" (art. 3.12). Se poi si tratta di una manifestazione a carattere locale, "potrà essere offerto ai medici partecipanti esclusivamente un coffee break" (art. 3.15). Ma per i camici bianchi il giro di vite non si limita solo alla partecipazione ai convegni. Dal primo gennaio scorso il ministro Veronesi ha infatti introdotto l'aggiornamento continuo "a punti". Ufficialmente si chiamano "crediti formativi", sorta di "bollini blu" che dovranno essere raccolti per testimoniare l'aggiornamento professionale. Se ne dovranno avere almeno 150 in tre anni (da un minimo di 20 a un massimo di 80 all'anno). Sino a giugno prossimo il nuovo meccanismo di aggiornamento avrà carattere sperimentale; dal 1° luglio sarà obbligatorio e riguarderà tutte le categorie sanitarie. L'aggiornamento avverrà attraverso una serie di manifestazione, a svolgimento residenziale o telematico, preventivamente accreditate dal ministero della Sanità. (l.s.) _________________________________________________________ L'Unione Sarda 24 gen. '01 ACCORDO OPPI-SINDACATI SONO IN ARRIVO 682 MILIARDI Pioggia di miliardi in arrivo per la sanità sarda: giunta regionale e governo hanno raggiunto l'intesa sull'accordo di programma che prevede investimenti nell'Isola per 682 miliardi. Lo ha annunciato ieri l'assessore della Sanità Giorgio Oppi firmando un protocollo con Cgil, Cisl e Uil sui problemi socio- assistenziali e che prevede un rapporto ,di più stretto tra sindacati e Asl. "Entro 20 giorni - ha detto Oppi - saranno avviati nei territori incontri specifici sulle questioni socio-assistenziali". Con obiettivo di "accelerare l'attuazione degli interventi per la riduzione delle liste d'attesa, promuovere adeguate campagne per la prevenzione, attivare capillarmente l'assistenza domiciliare integrata". L'assessore ha sottolineato che "l'intesa segna un cambiamento di rotta rispetto al passato nelle relazioni tra direzioni delle Asl e le rappresentante territoriali confederali e dei sindacati di categoria sui temi che riguardano la Sanità". Oppi si prepara a partire per Roma dove, assieme al presidente della Regione Mario Floris, firmerà nei prossimi giorni l'accordo di programma con il ministro della Sanità Veronesi. I 682 miliardi saranno destinati tra l'altro all'edilizia ospedaliera (509) alla realizzazione di residenze sanitarie assistite con la creazione di 800 posti letto (78,5 miliardi). Ma, ha spiegato ancora l'assessore, nei giorni scorsi la Giunta regionale ha approvato una delibera che stanzia 40 miliardi a favore delle Asl. Tra le priorità la prevenzione dei tumori al seno: le Asl dovranno dotarsi almeno di un mammografo dell'ultima generazione. Dopo l'accordo raggiunto tra l'assessore regionale della Sanità, Giorgio Oppi, e le segreterie confederali, dei pensionati e della sanità Cgil-Cisl-Uil, inizieranno nei prossimi giorni i confronti tra i direttori generali delle Asl e le organizzazioni sindacali territoriali. Obiettivo di questa nuova tornata di trattative, l'esame delle tematiche specifiche alla base della piattaforma dei pensionati con particolare riferimento al settore socio-assistenziale. "L'avvio di questi incontri rappresenta - ha detto il segretario regionale della Cisl, Mario Medde - uno dei risultati più importanti dell'accordo, premessa importante di un protocollo d'intesa generale sulla Sanità e sull'assistenza in Sardegna, che dovrà essere sottoscritto tra Giunta regionale e organizzazioni sindacali confederali. Per questo risultato si sono battuti Cigl-Cisl-Uil - ha aggiunto - che fin dallo scorso febbraio avevano presentato all' assessore le linee generali di un Piano Sanitario Regionale, e nei mesi scorsi i pensionati sardi con una serie di manifestazioni, concluse da un sit-in davanti al Consiglio regionale". L' accordo sottolinea l' urgenza di accelerare l'attuazione degli interventi in atto per la riduzione delle liste d'attesa, di promuovere adeguate campagne sulla prevenzione, di attivare capillarmente l' assistenza domiciliare integrata. La difficile situazione finanziaria delle Asl sarde, gravate da un notevole passivo di bilancio, sarà illustrata questa mattina in una conferenza stampa. Mariella Pilo (FI), Noemi Sanna Nivoli (AN), Antonio Cassano (Riformatori), Alberto Randazzo (Convergenza Sarda), Nello Cappai (CCD), Gerolamo Licandro (FI) e Antonio Angelo Liori (AN), componenti la commissione "Sanità" ed esponenti delle forze politiche che sostengono la Giunta, illustreranno il preoccupante stato dei bilanci delle Aziende Sanitarie Locali, ne illustreranno le origini e indicheranno le iniziative necessarie per ridurre drasticamente il deficit. _________________________________________________________ L'Unione Sarda 27 gen. '01 MODENA: TRIONFO DI UN BISTURI CAGLIARITANO SGRADITO ALL'ATENEO Inaugurato il centro trapianti diretto dal cagliaritano Antonio Pinna L'università lo ha costretto ad emigrare Dal nostro inviato Modena Lo schiaffo ricevuto dall'Università gli brucia, ma la Sardegna ce l'ha nel cuore. Mentre Modena gli decreta un trionfo inaugurando il primo centro italiano per trapianti di fegato e intestino, il chirurgo Antonio Pinna non esclude un grande ritorno: "Ho preso un impegno con gente che mi ha dato fiducia e sono deciso a mantenerlo, ma in futuro, chissà, potrei anche rientrare nell'isola". Nel suo piccolo studio del Policlinico non pensa certo ai baroni dell'Ateneo cagliaritano che gli hanno negato la possibilità di eseguire i trapianti, campo in cui è considerato scienziato di livello internazionale. Fama conquistata in un tirocinio di dieci anni, prima Pittsburgh poi Miami. Tutto, intorno a lui, ricorda il recente passato negli Usa. Appesi alle pareti, un attestato dell'Università di Pennsylvania, una foto di gruppo con colleghi di Miami, ragazzi che giocano a baseball. Ma c'è anche uno scorcio di azzurro solcato da vele. "No - sospira - non è la Sardegna, è il mare. Mi manca molto". Non c'è tempo per la nostalgia. Dietro la porta dello studio, nelle corsie, si lavora come ogni giorno. Anzi, di più, perché i trapiantati italiani a Miami ieri si sono concentrati a Modena per far festa al professore. E qualcuno ne approfitta per sottoporsi a un controllo. Con loro, anche Andreas Tzakys, direttore del Jackson Memorial Hospital della Florida. Nei piani bassi, intanto, fervono i preparativi per il taglio del nastro. Cerimonia a scoppio ritardato, sono stati già eseguiti due interventi all'intestino: "L'ho voluto io - spiega Pinna - per chiarire che questa è un'opera che già esiste, lavora, produce". Nessuna concessione al trionfalismo per questo monumento al welfare made in Emilia Romagna. Qui sono stati felicissimi che l'Università di Cagliari abbia sbattuto la porta in faccia a Pinna. Volevano una clinica per trapianti da affiancare al Sant'Orsola di Bologna e sono riusciti a realizzarla a tempo di record. "Dieci mesi - commenta il professore - dieci mesi da quando la Regione ha adottato la prima delibera, in gennaio, sino al primo trapianto, in ottobre". In questo lasso di tempo è stata chiesta (e ottenuta), l'autorizzazione del ministero, sono stati erogati i fondi necessari e approntate le sale operatorie. Spesa, due miliardi. Un autentico record antiburocrazia, se si considera che, nel frattempo, gli efficientissimi modenesi hanno messo a concorso una cattedra di Chirurgia e l'hanno assegnata al chirurgo cagliaritano. Da non crederci. Ma allora qui non ci sono baroni? "Non è questo il problema - si schermisce il rettore dell'Università di Modena e Reggio Gian Carlo Pellacani - qualche difficoltà l'abbiamo avuta, ma alcuni colleghi sono andati a Miami, hanno visto cosa faceva Pinna e sono rientrati entusiasti. In pratica hanno costituito una task force perché gli fosse affidata la direzione del Centro. Decisione che abbiamo preso in perfetto accordo con le altre autorità istituzionali e della quale siamo molto soddisfatti. Abbiamo scelto una persona eccezionale". Peccato che in Sardegna non se ne siano accorti. Quando, a fine '99, Pinna decise di rientrare in Italia, ebbe, in prima battuta, contatti con i vertici dell'ateneo cagliaritano. A incoraggiarlo fu soprattutto un suo amico, Franco Meloni, allora direttore del Policlinico Universitario, che sognava di creare a Monserrato un centro trapianti d'avanguardia. Altro sponsor di prestigio Thomas Starlz, chirurgo di Pittsburgh, massima autorità mondiale nel campo dei trapianti di fegato. Durante un soggiorno a Cagliari (ospite di Paolo Pani, ordinario di Patologia Sperimentale) Starlz consigliò all'Università di non lasciarsi scappare il giovane chirurgo. Tutto inutile. I trapianti - fu la risposta - non rientravano nei programmi locali. E Pinna la considera assolutamente plausibile: "Un investimento può essere giudicato più o meno opportuno. Forse in Sardegna i tempi non erano maturi per i trapianti multiorgano, in Emilia Romagna sì". Nessun sospetto di meno nobili motivi, anche se alla fine ammette che "un po' quella risposta mi ha ferito. D'altro canto, mi sarei sorpreso se avessero accolto la proposta". Perché? "Perché per accettarla ci sarebbe voluta molta fantasia". Dopo il no dell'Università, Pinna non ha comunque rischiato di restare disoccupato. Il primo a farsi avanti fu proprio Starlz, il quale gli spiegò che "quando si rientra dopo un lungo periodo di assenza, certe reazioni bisogna pure metterle in conto e lo invitò ad andare a lavorare da lui, a Pittsburgh. Ma ormai la decisione di operare in Italia era presa e la proposta di Modena era assai allettante: dirigere un centro trapianti multiorgano, il primo in Italia, in contatto diretto col Sant'Orsola di Bologna. Tutto da realizzare in tempi brevissimi. "L'incontro con le istituzioni fu molto stimolante - racconta Pinna -: mi riferisco alle autorità accademiche, direzione dell'ospedale, Regione, Asl". Non ci volle molto a raggiungere un accordo. Il resto è storia recente: "Qui c'è molto spirito di collaborazione e conto di organizzare un network nel campo dei trapianti utilizzando tutte le risorse professionali esistenti nella regione". Insomma, il professore ha trovato l'ambiente giusto per realizzare il suo progetto, "in Emilia Romagna, quando si crede in una iniziativa, si concentrano tutte le risorse disponibili per realizzarla", anche se forse ci rimetterà parecchio. A soldi come è andata? "Diciamo che è stata una scelta di cuore, non di testa". Cuore matto. Lucio Sal _________________________________________________________ L'Unione Sarda 21 gen. '01 IL PROFESSOR LICINIO CONTU ATTACCA IL RETTORE Giù le mani dal Genoma "Perché Mistretta parla solo oggi?" "Chiederò alla Regione che il progetto sul Genoma dei sardi non venga affidato all'Università". Il professor Licinio Contu, titolare della cattedra di Genetica medica, ha perso la pazienza. Dal mese di ottobre 2000 attende che l'Università dia via libera alla convenzione con l'assessorato alla Programmazione che prevede un finanziamento di tre miliardi per una ricerca sul Genoma. Il professor Pasquale Mistretta ha detto che Contu non può occuparsene perché il prossimo anno andrà in pensione. E da pensionato, non potrebbe svolgere attività che implichino anche assistenza. Ma il genetista non è assolutamente d'accordo. "Ho l'impressione che il professor Mistretta non abbia letto il mio progetto e neppure il riassunto. Altrimenti si sarebbe reso conto che non ha alcuna ricaduta sul piano assistenziale. Nel caso, sarebbe stato finanziato dall'assessorato alla Sanità e non da quello alla Programmazione". Lo studio in questione fu presentato il 20 aprile 2000 dall'assessore Pittalis, durante una conferenza stampa alla quale parteciparono i due rettori delle università di Cagliari e di Sassari. "Il professor Mistretta era presente quando io illustrai il programma della ricerca - precisa Contu - . E sapeva benissimo che io nel 2001 sarei andato in pensione: allora perché, in quel momento, non ha rifiutato il finanziamento che l'assessorato ci concedeva ? Invece fa conoscere il suo pensiero solo oggi, dopo che il rapporto con la Regione è andato avanti e non resta che firmare la convenzione. Un fatto inspiegabile. Non riesco a capacitarmi di come il professor Mistretta dimentichi, con tanta facilità, le iniziative di cui è stato testimone e protagonista come rappresentante legale dell'università. Ed è grave che trascuri l'aurea regola della prudenza quando esprime giudizi e valutazioni su un problema senza essersi prima debitamente informato". Il professor Contu è infatti convinto che il Rettore, nel negargli la possibilità di mandare avanti la ricerca sul Genoma, faccia riferimento a un'interpretazione non corretta delle norme. "Le leggi sull'università - spiega il genetista - prevedono infatti, obbligatoriamente, che il docente eserciti le funzioni di assistenza, didattica e ricerca. Ed è vero che, secondo la legge Bindi, a 70 anni deve abbandonare l'attività assistenziale ordinaria. Ma la stessa legge obbliga il Rettore a stipulare un protocollo d'intesa con la Regione perché sia assicurata ai professori universitari la possibilità di svolgere attività assistenziale funzionale alla ricerca e alla didattica. Queste cose un Rettore dovrebbe saperle". È veramente deluso il professor Contu e gli sembra lontano anni luce quel 20 aprile in cui, insieme a Mistretta e all'assessore Pitalis, presentavano a giornali e Tv un progetto destinato a suscitare un'eco enorme nel mondo scientifico. La delusione sfocia così in una decisione molto grave: "Chiederò ufficialmente alla Regione che la ricerca non venga assegnata, per la gestione amministrativa, all'Università. Io potrò continuare ad occuparmene, ma indipendentemente dall'Università. Perché è vergognoso che si siano persi quattro mese senza neppure esaminarla". Quando parla si mesi persi, Contu si riferisce al fatto che la convenzione Regione Università è stata stilata a tempo di record, ma una volta giunta in rettorato, si sarebbe arenata e non è mai stata portata in Consiglio di amministrazione. "Il professor Mistretta ha detto che non sarebbe materia da Consiglio di amministrazione - puntualizza Contu - ma allora dovrebbe spiegare come mai è stata inserita nell'ordine del giorno del 19 dicembre". Contu non capisce, infine, come mai il Rettore lo abbia invitato a ripresentare lo studio, ma a nome di un altro titolare abilitato. "Il professor Mistretta dimentica che il progetto è mio. Nel senso che l'ho pensato, formulato e scritto io, personalmente. Sono io il proponente, io devo realizzarlo. E la Regione ha approvato il mio progetto, a me a chiesto le credenziali e non ad altri". Lucio Salis