BLOCCARE LA RIFORMA? MEGLIO CORREGGERLA. MODICA: LA RIFORMA DEGLI ATENEI NON SI TOCCA UNIVERSITÀ, DIAMO ANIMA ALLA RIFORMA UNIVERSITÀ, SALVARE LA RIFORMA UNIVERSITÀ, PIÙ AUTONOMIA PER RICERCA E FORMAZIONE DI QUALITÀ LAUREA A RISCHIO PER 250. FACOLTÀ NEI GUAI SENZA L'OK AL 3+2 RIFORMA UNIVERSITARIA: IL TIMBRO FINALE DEL POLO AL DEBUTTO NELLA SANITÀ LE LAUREE TRIENNALI L'UNIVERSITÀ ITALIANA NON INSEGNA LE LINGUE NON DECOLLA LA RICERCA PUBBLICA ================================================================== POLICLINICO: SALVATI DAI MEDICI ALL’ULTIMO MINUTO POLICLINICO: IL DIRETTORE GENERALE CHIEDE UN PO’ DI PAZIENZA APPROVATO DAL GOVERNO IL NUOVO CONTRATTO DELLA SANITÀ LA SANITÀ STUDIA NUOVI TICKET PER FRENARE LA SPESA SANITÀ, CURA «PRIVATA» PER IL DEFICIT CENTRO DI CHIRURGIA DEL FEGATO AL BROTZU? IMPROVVISA GELOSIA AL NORD SARDEGNA: SANITÀ PRIVATA, LICENZIAMENTI IN VISTA SANGUE PULITO, C’È MOLTO DA FARE UN VIRUS IBRIDO CONTRO I TUMORI UN VIRUS IBRIDO CONTRO I TUMORI SCLEROSI, IL RISCHIO DEI SARDI ================================================================== ___________________________________________________ Corriere della Sera 6 giu. ’01 BLOCCARE LA RIFORMA? MEGLIO CORREGGERLA. CHE FARE ADESSO DELL'UNIVERSITÀ di ANGELO PANEBIANCO C'è un ministero di cui si parla poco mentre si attende l'annuncio della formazione del governo. È quello della Pubblica Istruzione (con annesse Università e Ricerca scientifica). Eppure, è una poltrona che rischia di essere caldissima. Scuola e Università sono, in questo momento, "cantieri aperti" a causa delle radicali riforme innescate dal centrosinistra. A seconda dell'atteggiamento che il centrodestra assumerà rispetto a queste riforme cambierà in un senso o nell'altro il destino delle nostre istituzioni educative. Per giunta, trattandosi di tradizionali bacini elettorali del centrosinistra, Scuola e Università saranno anche cruciali banchi di prova per la nuova classe di governo: essa dovrà mettere particolare impegno per dimostrare di essere capace di fare una seria ed efficace politica nel settore educativo. Insieme ai Beni Culturali quello della Pubblica Istruzione è, infatti, il ministero in cui il centrodestra si giocherà la possibilità di sfidare una egemonia culturale che, finora, è appartenuta ai suoi avversari. È anche nell'interesse del centrodestra che quel ministero vada a una personalità di alto profilo, e con una competenza solida nel settore. Ed è importante che, fin dall'inizio, non vengano fatti passi falsi. Si sa già che il governo Berlusconi bloccherà la riforma dei cicli scolastici. Da critico di quella riforma penso che bloccarla sia una buona idea. Peraltro, si è ancora in tempo per farlo. Il discorso è assai diverso per quanto riguarda l'Università: qui la riforma, varata dal centrosinistra, del "tre più due" (laurea triennale di primo livello; laurea biennale di secondo livello) è ormai giunta ai nastri di partenza. Le Università, nell'anno appena trascorso, sono state tutte impegnate, come la legge imponeva, nella preparazione della riforma. Quasi ovunque, sono già pronte le guide per gli studenti che si immatricoleranno fra pochissimi mesi, iscrivendosi alle lauree triennali. Se la nuova maggioranza pensa semplicemente di cancellare la riforma, fa un grave errore. La riforma del tre più due (a differenza di quella dei cicli scolastici) è, mentre parliamo, come un treno in corsa lanciato alla massima velocità. Se qualcuno si prova a bloccarlo di colpo, può solo provocare un disastro, un deragliamento. E allora, che fare? Il mio suggerimento al futuro ministro è di procedere con rapidità ma anche con cautela e buon senso. Bloccare, giunti a questo punto, non si può. Riformare strada facendo, in corso d'opera, eliminando gli aspetti peggiori della riforma, è invece possibile. Occorrono però alcune mosse strategiche fatte in successione. Prima mossa strategica (da fare immediatamente): si stabilisce che solo il primo anno delle lauree triennali verrà attivato nel prossimo anno accademico (e solo il secondo in quei pochissimi corsi di laurea che avevano scelto di anticipare all'anno accademico ora al termine il primo anno della laurea triennale). Il che significa che per gli studenti degli anni precedenti continuerà a valere il vecchio ordinamento. In questo modo, ci sarà tempo sia per intervenire sull'organizzazione degli anni successivi della laurea di primo livello, sia per pensare in modo meno concitato di quanto non si sia fatto finora alla struttura delle lauree di secondo livello, specialistiche. Tra l'altro, ciò darà anche il respiro necessario per sapere quanti soldi affluiranno alle Università per attuare con la necessaria gradualità la riforma. Tra le idee sbagliate del centrosinistra in questa materia c'era quella secondo cui una riforma così radicale poteva e doveva essere attuata dalle Università praticamente a costo zero. Una follia, come ognuno capisce. La seconda mossa strategica dovrebbe consistere nel ripensare (in tempi brevissimi: su mandato dei consigli di facoltà e dei diversi corsi di laurea, le conferenze dei presidi potrebbero pronunciarsi in merito già subito dopo l'estate) la durata delle lauree di primo livello. Non ho prove certe (solo indizi) per affermare che l'imposizione della laurea triennale a tutta l'università sia il frutto di un colpo di mano voluto soprattutto dai Politecnici. È un bene che facoltà come Ingegneria abbiano ottenuto, se così volevano, la laurea triennale. È un male che abbiano contribuito a imporla a tutti gli altri. Il criterio da adottare è il seguente: chi pensa di poter offrire una laurea davvero "professionalizzante" di tre anni, immediatamente spendibile sul mercato (Ingegneria, forse Economia, forse Giurisprudenza, forse altri ancora) lo faccia, e buona fortuna. Gli altri siano lasciati liberi di optare per la durata quadriennale della laurea di primo livello. Per fare il verso a certi esponenti del centrosinistra (che, su questo punto, hanno assai ciurlato nel manico) il ripristino, in molti settori, della laurea quadriennale, ci permetterà di nuovo l'aggancio con l'Europa e il mondo occidentale in genere, ove la laurea di durata quadriennale, come è noto, è stata, è, e sarà, la più diffusa. La terza mossa strategica dovrebbe consistere nell'eliminazione delle troppe rigidità imposte dalla legge. Luciano Canfora e io abbiamo promosso qualche mese fa un appello (pubblicato da questo giornale il 6 marzo) per chiedere non il blocco della riforma ma una decisa liberalizzazione. Abbiamo raccolto tantissime adesioni. Abbiamo chiesto che vengano spazzate via tutte le rigidità imposte sia nel calcolo dei crediti che nella loro attribuzione ai diversi ambiti disciplinari. Insieme alla durata triennale della laurea imposta a tutti, è proprio qui, nell'eccesso di rigidità burocratiche (una vera e propria gabbia d'acciaio) che risiede la principale causa dell'opposizione di tanti accademici, compreso chi scrive, alla riforma così come è stata alla fine varata. Se non interverranno correzioni nel senso di una decisa liberalizzazione, la riforma produrrà disastri, dequalificazione, trasformazione definitiva dell'università in una mediocre scuola professionale. Faccio un'ultima segnalazione a beneficio del futuro ministro. La riforma contiene anche diverse cose buone, che è bene conservare e valorizzare. In un certo senso, si tratta di tornare, almeno in parte, allo spirito del primo documento (noto come bozza Martinotti) che contribuì, qualche anno fa, a innescare il processo di riforma. Quel documento proponeva un cambiamento all'insegna della flessibilità, della libertà di sperimentazione e della gradualità. Ma flessibilità, libertà di sperimentazione e gradualità sono state spazzate via man mano che l'iter decisionale si avviava alla conclusione. Per responsabilità dei politici, certo, ma anche di altri soggetti, come il Consiglio universitario nazionale (Cun) e, forse, anche settori della burocrazia ministeriale. Compito del nuovo ministro dovrebbe essere quello di ridisegnare queste istituzioni. Così come sono, e come prova proprio la vicenda della riforma, non aiutano le università, ne ledono gravemente l'autonomia, sono produttrici di vincoli assurdi e di forme di burocratizzazione esasperata. Proprio ciò di cui l'università non ha bisogno. ___________________________________________________ Il Sole24Ore 3 giu. ’01 MODICA: LA RIFORMA DEGLI ATENEI NON SI TOCCA Il presidente della Conferenza dei rettori delle Università italiane, Luciano Modica, ha "ribadito l'esigenza di dare avvio alla riforma degli ordinamenti didattici nei tempi stabiliti, e di non frapporre ostacoli alla sua concreta realizzazione: ostacoli che provocherebbero contraccolpi molto negativi sull'intero sistema universitario nazionale". Modica è intervenuto a Bologna, nel corso di un convegno sulla riforma degli ordinamenti didattici, chiedendo al nuovo Governo di "non vanificare il prezioso ed intenso lavoro svolto in questo ultimo anno dalle Università". Un appello condiviso dal rettore dell'Università di Bologna, Pier Ugo Calzolari, dal presidente della Conferenza dei presidi di Lettere, Nicola Tranfaglia, che è anche prorettore per la didattica all'uNiversità di Torino, dal presidente della Conferenza dei presidi di Scienze, Gabriele Anzellotti (Trento) e dal presidente della Conferenza dei Presidi di Ingegneria, Alfredo Squarzoni (Genova). ___________________________________________________ L’avvenire 8 giu. ’01 DIAMO ANIMA ALLA RIFORMA Gli esperti a confronto: no a una moratoria, ma servono modifiche al più presto. Quale futuro per l'università? E la riforma che entra in vigore col prossimo accademico deve essere fermata? Quest'ultimo è un quesito che da settimane sta animando il dibattito politico e culturale intorno e dentro gli atenei. Avvenire ha messo a confronto più voci. Al forum hanno preso parte Luciano Guerzoni, sottosegretario uscente all'Università, Giandomenico Boffi, ordinario di Algebra presso la facoltà di Economia dell'Università "D'Annunzio" di Pescara, Michele Colasanto, prorettore vicario dell'Università Cattolica di Milano, Raffaele Simone, ordinario di Linguistica generale presso l'Università Roma III, e Angelo Panebianco, docente universitario ed editorialista del "Corriere della Sera". A coordinare l'incontro i giornalisti di Avvenire Roberto Righetto, Gianfranco Marcelli ed Enrico Lenzi. Il prossimo anno accademico è ormai alle porte. Alcune voci si sono alzate per chiedere che la riforma non parta, altre hanno sostenuto che ormai siamo fuori tempo massimo, ma non sarebbe male fare dei ritocchi in corsa. Il problema cruciale è proprio questo: come realizzare la riforma, attuarla così com'è o apportare subito delle modifiche in tempi brevi, o addirittura fermarsi subito. Professor Guerzoni, lei cosa ne pensa? Guerzoni. "L'ipotesi di bloccare ora la riforma ritengo che abbia controindicazioni pesanti. In primo luogo c'è un problema legale, visto che la legge 370/99 fissa la partenza della riforma e l'adeguamento dei corsi di studi entro 18 mesi dalla pubblicazione dei decreti ministeriali attuativi. Dunque un'eventuale sospensione potrebbe esserci soltanto a seguito di una legge ordinaria. Ma c'è anche da tenere in considerazione che l'eventuale sospensione della riforma arriverebbe quando tutti i decreti attuativi sono stati emanati, le risorse finanziarie sono state stanziate (287 miliardi per quest'anno e altri 825 nel triennio successivo) e soprattutto gli atenei hanno inviato al ministero i propri regolamenti didattici, al termine di un lavoro lungo e complesso. Ecco, davanti a queste cose, bloccare la riforma ora significherebbe vanificare il lavoro di oltre un anno, ma soprattutto farebbe deragliare un treno in corsa. Ma dico di più: bloccare la riforma, seppur atto legittimo per una nuova maggioranza parlamentare, sarebbe comunque lesivo dell'autonomia degli atenei che hanno lavorato per questo traguardo. Insomma, porterebbe le università in una situazione di caos difficilmente gestibile". Panebianco. "Concordo con il sottosegretario sul fatto che non è più possibile bloccare la riforma, vista anche la mole di lavoro prodotta. Chi lo propone forse non ha il polso della situazione. Credo invece che sia necessario e possibile intervenire in corso d'opera, almeno su alcuni punti qualificanti. È una teoria che propongo da tempo. Del resto la riforma contiene anche molte cose buone, accanto ad aspetti che non funzionano. Insomma non sono un avversario della riforma a tutti i costi come qualcuno vorrebbe dipingermi. Tra gli aspetti positivi inserisco, ad esempio, la distinzione tra lauree di primo e di secondo livello, e l'introduzione del sistema dei crediti. Altre vanno corrette e per farlo propongo di far partire solo il primo anno dei nuovi corsi e non attivare l'intero corso, in modo da poter ripensare le cose che non vanno". Colasanto. "Da parte mia voglio sottolineare che almeno nella mia università, la Cattolica, la riforma è vissuta come un'opportunità di cambiamento. Forse bisognava in questa fase accentuare il carattere sperimentale proprio per permetterci di apportare correzioni in corsa. Non dimentichiamoci che questa riforma è un patto che i nostri atenei stipulano con famiglie e studenti per raggiungere maggior efficienza, qualità, sbocchi occupazionali. Tra i molti aspetti che hanno suscitato perplessità mi soffermo su quello dell'attribuzione dei crediti, le cui modalità penalizzano l'autonomia dell'università. Anche la connessione tra le lauree triennali e quelle specialistiche non è semplice. Infine è impossibile pensare percorsi differenziati, all'interno delle lauree triennali, tra chi è orientato a chiudere senza proseguire nel corso di specializzazione e chi invece intende farlo". Simone. "Se il treno in corsa non si può fermare, certo non possiamo nasconderci i difetti di fabbricazione che evidenzia. In primo luogo l'eccessiva complessità, che, ad esempio, rende difficile raccordare i due livelli di laurea, che diventano 5 se consideriamo i due livelli di master e il dottorato di ricerca. Armonizzare il tutto è davvero una sfida. Senza dimenticare che alcuni ordini professionali hanno già messo le mani avanti dicendo che per ottenere il pieno riconoscimento non basta la laurea triennale, ma serve anche quella specialistica. Il tutto con un risultato paradossale: allungare i tempi invece di ridurli, come invece pensava di fare la riforma. Tra gli aspetti che più mi preoccupano vi è anche la scomparsa della titolarità dell'insegnamento e la stessa idea di corso di studi. Infatti nell'applicazione della riforma scompare la figura del responsabile del corso e così gli studenti non sapranno più a chi rivolgersi. Questo grazie all'introduzione dell'insegnamento a moduli sviluppati da diversi docenti". Boffi. "Anche a me sembra proprio che a questo punto non ci si possa più fermare. Non dimentichiamo che per alcuni percorsi didattici si è creata in questi mesi un'aspettativa anche tra gli stessi studenti, soprattutto nei campi più innovativi. Un'aspettativa probabilmente meno presente in percorsi di studi con una tradizione consolidata. Non possiamo comunque nasconderci che il sistema previsto dalla riforma è complesso e riserva, in fase di applicazione, anche alcune sorprese non gradevoli. A preoccupare è soprattutto la gestione amministrativa di questi percorsi di studi. Il timore è che anche in futuro la gestione di questo sistema possa assorbire sempre di più l'attività dei docenti a scapito del lavoro di ricerca e di didattica, che, al contrario, devono essere le caratteristiche del nostro impegno". Avvenire. Di fronte a tutte queste perplessità e difficoltà emerse, signor sottosegretario, non crede che l'opzione di partire soltanto con il primo anno consentirebbe meglio quegli aggiustamenti in corso d'opera che la riforma tutto sommato sembra richiedere? Guerzoni. "Nessuno può impedire alle università di attivare l'intero corso di laurea, stante la legge approvata. Accanto all'aspetto giuridico, sottolineo che una simile imposizione sarebbe una ferita per l'autonomia delle università. Ma c'è anche un aspetto tecnico che rende oneroso avviare soltanto un anno. Infatti questo obbligherebbe a prolungare la presenza simultanea del vecchio e del nuovo ordinamento per molto più tempo. Un obbligo per gli atenei, che invece in molti casi hanno promesso la possibilità a molti loro studenti di poter transitare dal vecchio al nuovo ordinamento. Ma da parte mia non credo che l'avvio dei nuovi corsi impedisca di poter procedere a cambiamenti. E poi non dimentichiamoci che l'articolazione su due livelli è considerata nell'Unione, e non solo, la struttura verso la quale tendere per creare uno spazio comune europeo". Avvenire. Ma non si potrebbe accentuare l'aspetto sperimentale della sua applicazione, almeno in questa prima fase? Guerzoni. "Questa riforma è una cornice, probabilmente complessa e pesante, ma pur sempre una cornice che contiene in sé gli elementi per potersi correggere in corso d'opera. Più che di sperimentazione parlerei di impegno da parte di tutti ad un monitoraggio dell'applicazione. Per quanto riguarda i crediti non ritengo che vi sia lesione dell'autonomia delle università, visto che l'offerta negli ambiti disciplinari è davvero vasta, con le 47 classi di laurea e le 109 specialistiche. Inoltre il numero medio di settori scientifico-disciplinari per ciascuna classe di laurea è di 63, che diventano 52 per ogni classe di laurea specialistica. Eppure nonostante questa complessità il nuovo sistema formativo è stato recepito da tutti gli ordini professionali, anche da parte di chi (ingegneri e architetti) aveva qualche perplessità". Simone. "Però i notai vi hanno già detto che per loro vale soltanto la laurea su cinque anni". Guerzoni. "Ma nel loro caso c'è un percorso di studi regolato da un'apposita legge che prevede la laurea, poi quella specialistica e infine la scuola di specializzazione delle attività forensi. Dunque anche per avvocati e magistrati. Capisco che ci sono problemi di coordinamento tra i due livelli di laurea, ma non credo che sia impossibile trovare una soluzione, soprattutto perché la riforma è una cornice. Il "cosa" inserire e il "come" è demandato agli atenei. Credo che sia importante distinguere ciò che è imputabile, e che andrà corretto, alla legge di riforma e ciò che è imputabile agli atenei in fase di applicazione della stessa". Avvenire. Professor Panebianco, a questa che appare come un'arringa difensiva da parte del sottosegretario Guerzoni, lei ha altri capi d'accusa da aggiungere? Panebianco. "In realtà contesto l'idea di una laurea triennale imposta a tutti, indipendentemente dalle differenze di ambito. Già diverse facoltà hanno espresso l'orientamento ad allungare di un anno la laurea di primo livello. Penso a molti colleghi di materie umanistiche che ritengono assolutamente insufficiente pensare ad una laurea in soli tre anni spendibile sul mercato del lavoro. Ma anche colleghi di facoltà scientifiche dicono la stessa cosa. Insomma non è escluso che in futuro qualcuno decida di rivedere l'impianto per qualche facoltà e allungare i tempi del percorso di studi. Proprio per questo l'attivazione solo del primo anno permetterebbe di approfondire e fare chiarezza. Ma ritengo anche difficile tenere nello stesso triennio chi punta a spendere al più presto nel mondo del lavoro il titolo di studio e chi invece punta alla specializzazione. Solo questo punto basterebbe per decidere di partire con cautela e ripensare l'intero impianto delle lauree triennali. Non concordo con Guerzoni quando sostiene che non c'è rigidità nell'attribuzione dei crediti o delle gabbie tabellari. In realtà solo il 30% del totale è scelta opzionale delle università, mentre il 70% resta fissato direttamente dal centro e a livello nazionale. Forse i rapporti andrebbero rovesciati, in favore degli atenei, anche se riconosco che la responsabilità di tutto questo non è imputabile solo al mondo politico, ma anche a quello accademico". Colasanto. "Raccolgo la velata critica del sottosegretario sulla responsabilità degli atenei nella fase dell'applicazione. Detto questo, però, non nascondo di essere preoccupato dalla polverizzazione dell'offerta formativa, cioè dalla nascita di molti corsi di laurea dai titoli accattivanti, ma che alla lunga potrebbero non mantenere le promesse. Una nascita dettata dal regime di concorrenza non sempre serio". Avvenire. Dunque c'è il rischio di avere corsi destinati a deludere gli studenti? Colasanto. "Il rischio c'è. Dobbiamo promettere ciò che possiamo mantenere. Probabilmente tanta confusione nasce anche da un vizio d'origine, cioè quello di aver parlato di lauree 3+2, invece di spiegare che esistono lauree triennali più professionalizzanti e lauree quinquennali specialistiche. Molte facoltà, soprattutto quelle umanistiche, hanno una spiccata tensione verso i 5 anni. Ma anche alcune professioni sembrano preferire la soluzione più lunga". Simone. "Senza dubbio l'effetto trascinamento è forte, e non solo per le materie umanistiche, vanificando di fatto l'obiettivo della riforma che andava in senso opposto. Rischiamo di ricreare tra i due livelli di laurea quella che negli anni '50 era la differenza tra l'avviamento al lavoro e la scuola media ancora non obbligatoria. E non è l'unico rischio. L'introduzione dei moduli avrà come conseguenza il degradamento della professionalità dei docenti". Avvenire. In che modo? Simone. "In primo luogo nella didattica, che nel triennio deve essere di iniziazione, dunque di livello propedeutico e basso. Penso che molti colleghi, a cominciare da me, cercheranno di spostarsi nel biennio di specializzazione. Ma anche i carichi di lavoro sono destinati ad aumentare e non è detto che tutti i docenti accetteranno. Penso ai professionisti che insegnano all'università. Si andrà verso una accentuazione della divisione del corpo accademico tra il "popolo", di cui faccio parte, e gli "ottimati", che si sottrarranno all'enorme attività burocratica e amministrativa che incombe sui docenti". Boffi. "Vorrei tornare sulla polverizzazione dell'offerta formativa. È l'effetto pratico di aver voluto accontentare tutti con l'attribuzione di crediti. Di fatto è mancato il coraggio di fare scelte culturali chiare e si è preferito dividere i 180 crediti previsti tra tutte le materie presenti. Ma non è il modo migliore di fare una riforma. È mancata una riflessione seria sulle finalità di queste lauree triennali. Forse bisognava domandarsi quali sono gli obiettivi culturali. Per quanto riguarda il ragionamento sul ruolo dei docenti, non credo che sia una diminuzione della propria professionalità insegnando nelle lauree triennali". Simone. "Credo che i docenti con maggior esperienza siano in parte sprecati al livello iniziale". Colasanto. "Ma questa è l'impostazione anglosassone. Al contrario credo che dobbiamo prenderci carico anche di questo primo livello". Boffi. "Concordo. Sarebbe meglio che i docenti avessero carichi di lavoro su entrambi i livelli". Avvenire. È stata sottolineata la necessità di una maggior attenzione al progetto culturale alla base della riforma. Professor Guerzoni, se ne è tenuto conto? Guerzoni. "Sono d'accordo con Boffi, va rovesciato l'approccio alla riforma. Bisogna stabilire questo obiettivo, questo progetto culturale per comprendere se il periodo scelto (3 o 5 anni) sarà sufficiente al raggiungimento del traguardo. Abbandoniamo lo stereotipo che per gli studi scientifici è sufficiente un breve periodo, mentre per quelli classici serve maggior tempo. La durata non è sinonimo di qualità, quest'ultima si misura sul progetto culturale che vi è alla base. E questa lunghezza dei nostri corsi di studio rischia di mettere fuori gioco a livello europeo i nostri giovani rispetto ai loro colleghi. C'è necessità di flessibilità nel percorso di studi". Avvenire. Dagli interventi è emersa la preoccupazione di trasformare i docenti in burocrati. Ma l'università deve restare un luogo dove fare anche ricerca. Con questa riforma sarà ancora possibile? Colasanto. "La riforma in questa fase ci ha indotto a tenere in secondo piano questo aspetto. Ovviamente bisogna recuperarlo al più presto, anche perché l'università senza ricerca appare molto simile ad una formazione professionale di alto livello. Ma così non produciamo cultura. Ci limiteremmo soltanto a consumarla". Simone. "Didattica e ricerca devono essere fortemente legati, ma da quando l'università è diventata di massa va onestamente detto che è diventato impossibile trasferire la ricerca in aula. Ad aggravare il tutto sono arrivati i nuovi meccanismi dei concorsi che hanno ottenuto il risultato di abbassare un livello qualitativo già non elevato. Credo che l'unico luogo dove sarà possibile recuperare questo rapporto sia il dottorato di ricerca, che potrebbe diventare il punto più alto di questo nuovo meccanismo universitario. Certo, bisognerebbe raccordarlo meglio con il mondo del lavoro e non considerarlo soltanto come una strada per entrare nella carriera universitaria". Boffi. "A volte il mancato rapporto ricerca-didattica nasce da manchevolezze delle nostre strutture amministrative. Spesso manca il supporto di una struttura amministrativa, tecnica e non docente valida. Certo se puntiamo esclusivamente ad una funzione di formazione professionale dei nostri studenti veniamo meno alla nostra vocazione di formare persone. L'eccessiva rigidità negli studi è un altro elemento negativo: perché non permettere a un ingegnere di inserire un corso di sociologia o di storia antica nel proprio percorso formativo?". Guerzoni. "Questa riforma vuole ripristinare l'università come luogo di cultura, di metodo critico. Non può che essere così, altrimenti l'università rischia di andare incontro a un rifiuto da parte della società. Negli ultimi 40 anni, almeno 9 milioni di italiani si sono iscritti all'università, ma in 6 milioni ne sono usciti senza nulla. Un rapporto fallimentare. La riforma non vuole trasformare l'università in un prolungamento delle superiori, ma creare le condizioni per insegnare conoscenze e competenze, in modo tale da saper gestire e organizzare i saperi acquisiti. È questa la sfida maggiore. È qui che si gioca il rapporto tra didattica e ricerca". Avvenire. Professor Guerzoni, dopo 5 anni, tra poche ore lascerà il ministero dell'Università. Abbiamo parlato delle molte cose fatte. Ma quali problemi vengono lasciati in eredità al futuro ministro? Guerzoni. "Nella passata legislatura molte cose sono state fatte, ma alcuni provvedimenti non hanno avuto esito favorevole in Parlamento. Credo siano principalmente tre i problemi che la nuova legislatura dovrà risolvere: la riforma dello status giuridico dei docenti e dei ricercatori, la riforma degli strumenti di sviluppo del sistema universitario per evitare il moltiplicarsi di piccoli atenei, magari mono-facoltà o mono-corso, e la riforma degli organi di governo dell'università". a cura di Enrico Lenzi ___________________________________________________ Il Centro 9 giu. ’01 UNIVERSITÀ, SALVARE LA RIFORMA Negli atenei italiani sta circolando un'appello contro la Riforma universitaria. Le firme, come si evince dall'elenco pubblicato su "il Centro", di mercoledì 30 maggio, sono circa una quarantina e di queste quasi la metà sono espressione delle Università di Chieti, Pescara e Teramo. Per i firmatari "la Riforma è nata in modo arbitrario, al di fuori di una verifica seria in ambiente accademico" e pertanto "va respinta per il gravissimo passo indietro che configura e per il contributo che dà alla distruzione di quel poco che resta dell'Università alla quale abbiamo scelto di dedicarci". In verità, le cose sono andate in maniera diversa, dal momento che la Riforma, ormai già avviata in tutte le sedi, è stata varata al termine di un lungo iter (accademico e parlamentare) ed ha visto via via coinvolti il gruppo di lavoro ministeriale presieduto dal prof. Guido Martinetti che ha analizzato e discusso le osservazioni dei docenti di tutte le aree disciplinari, mentre la Crui (Conferenza dei Rettori) ha dedicato intere sessioni alla Riforma che è stata successivamente discussa nei singoli atenei in riunioni specifiche dei senati accademici, dai consigli di facoltà e infine anche in consultazioni con le forze sociali. Questo per dire che probabilmente ha ragione il rettore dell'università di Napoli, Fulvio Tessitore, quando afferma: "Non sono mai stato un ammiratore incondizionato della Riforma. Una proposta così innovativa avrebbe avuto bisogno di tempi più lunghi per aggiornare, se così posso esprimermi, le strutture mentali dei docenti. Ma, dopo anni di riunioni e di convegni, non si dica che non c'è stata discussione. Non ha discusso solo chi non ha voluto". E infatti, per restare in Abruzzo, viene spontaneo chiedersi in quali delle sedi deputate all'elaborazione e all'organizzazione dei nuovi ordinamenti i firmatari locali dell'appello abbiano mai espresso osservazioni e proposte. Per quanto poi attiene alle critiche di merito, anche qui sembra prevalere un'enfasi demolitoria della Riforma la quale porterebbe addirittura "alla distruzione di quel poco di positivo che resta dell'Università" mentre in realtà è stata pensata per gli studenti e mira a combattere gli abbandoni e a qualificare gli studi con una pluralità di titoli. In rapporto all'Europa, l'Italia è il paese con il più basso numero di laureati; si laurea solo uno studente su 3, e solo il 10% cento degli italiani tra i 25 e 64 anni è in possesso di laurea. E non è neanche vero che il nuovo ordinamento obblighi i docenti a svolgere nuove e insensate mansioni gestionali; li obbliga semmai (contrariamente a quanto accade oggi) a una maggiore presenza e attività nelle sedi a tutto vantaggio della qualità e continuità della didattica; né va dimenticato che gli spazi aperti dalla Riforma e dall'autonomia consentono ai singoli Atenei di deliberare ogni iniziativa necessaria per ridimensionare il fenomeno dell'abbandono, assicurando un'offerta formativa più attenta alle condizioni degli studenti. Ecco perché ci sembra non sia utile e neanche sensato invocare l'azzeramento della riforma. "Entro giugno", ricorda Augusto Martinelli, rettore dell'ateneo di Firenze, "dobbiamo fornire agli studenti il percorso formativo in base al quale iscriversi. Se ci saranno aggiustamenti da fare, li faremo in corso d'opera. Bloccare tutto ora getterebbe le università in un caos ingestibile"; una preoccupazione analoga a quella di Nicola Tranfaglia - preside della facoltà di Lettere di Torino - che arriva anzi a dire che "solo persone che non conoscono la situazione reale delle università possono pensare di bloccare la Riforma". Il blocco immediato della laurea triennale e della laurea specialistica biennale è invece l'obiettivo dichiarato di Giuseppe Palumbo - ordinario di Chimica ostetrica a Catania e responsabile università di Forza Italia; un'ipotesi che per Rodolfo Zich, del Politecnico di Torino, "è semplicemente assurda". Infine, appare fuorviante attribuire alla Riforma l'effetto di "svilire e mercantilizzare la cultura perché tende ad avere come referente non tanto la società nel suo complesso quanto solo ed esclusivamente il mondo delle imprese" perché, è sempre il prof. Tessitore a sottolinearlo, "non va attribuito alla Riforma ciò che non dipende dalla nuova struttura delle lauree ma da processi sociali in corso da tempo. E poi, non è affatto vero che sia impossibile conciliare la preparazione al lavoro garantendo la dignità dell'insegnamento teorico". In conclusione, si può affermare che, al di là dei proclami, nelle università si è messo in moto un processo di rinnovamento che merita di essere sostenuto con grande responsabilità. Non esiste infatti un'idea di sospensione utile per meglio attuare la Riforma; se questo accadesse si aprirebbe solo un processo regressivo di marginalizzazione con conseguenze disastrose per l'intero sistema. Una prospettiva che non si vede come possa essere sottovalutata e proprio da quanti dichiarano di aver scelto di lavorare nella e per l'università. La Segretaria reg. Snur Cgil sindacato università-ricerca Il Segretario reg. Ffr Cgil Federaz. formazione-ricerca ___________________________________________________ Repubblica 5 giu. ’01 RIFORMA UNIVERSITARIA: IL TIMBRO FINALE DEL POLO GUIDO MARTINOTTI Docente di Sociologia urbana Università di Milano Della situazione universitaria si è parlato poco nella campagna elettorale e il nuovo governo, che ha invece una posizione ben definita sulla scuola secondaria, si troverà di fronte una situazione complessa e assai delicata che riguarda due importanti aspetti. Uno è il cosiddetto stato giuridico dei docenti, cioè la definizione di compiti, diritti e doveri dei cinquantamila circa docenti universitari, nonché del loro trattamento economico. Il secondo è la riforma dei curricoli e dell'autonomia didattica, che ha introdotto profonde innovazioni nella università italiana, dal doppio titolo di laurea, ai crediti, peraltro già in uso nella Facoltà di Medicina, all'esame di orientamento al momento dell'iscrizione. Benché inevitabilmente collegati, i due aspetti richiederanno un trattamento diversificato. Il parlamento uscente non è riuscito a portare in porto un provvedimento sullo stato giuridico e quindi il nuovo parlamento ha campo libero, ma non sono disponibili al momento indicazioni che permettano di fare ragionamenti fondati su ciò che avverrà. Diverso è il caso della autonomia didattica che, con le decisioni del consiglio dei ministri del 24 maggio, relative agli ordini professionali, ha praticamente completato il lungo iter per l'avvio concreto della laurea triennale a partire dal prossimo ottobre, che, accettando il suggerimento dell'Accademia della Crusca, si chiamerà "laurea iunior" (vulgo "giunior", ci possiamo scommettere). La generalità degli atenei sta infatti completando i manifesti degli studi in base ai quali, tra poche settimane, gli studenti si iscriveranno al prossimo anno accademico. Il Comitato universitario nazionale, Cun, sta esaminando i regolamenti di 74 atenei italiani, che comprendono l'elenco delle lauree triennali e specialistiche, nonché degli altri titoli che ciascun ateneo intende offrire. Per arrivare a questo punto è stato necessario un lungo lavoro che ha richiesto la discussione e l'approvazione dei nuovi corsi di studio da parte di alcune centinaia di Consigli di corsi di laurea, di svariate decine di Consigli di Facoltà, di poco meno di una ottantina di senati accademici e altrettanti consigli di amministrazione, nonché dei 20 Comitati regionali di coordinamento, delle rilevanti Commissioni parlamentari, ma soprattutto delle parti sociali, studenti, imprenditori di settore e sindacati a livello locale e da ultimo da parte degli ordini professionali. Senza contare le innumerevoli riunioni delle varie conferenze di Facoltà. Come tutte le riforme di grande complessità anche questa, soprattutto nella fase conclusiva, ha dato l'impressione a molti di ingabbiare lo spirito originario in un troppo rigido carapace burocratico. Va detto in proposito che, paradossalmente, gli irrigidimenti sono venuti soprattutto dal basso, grazie alla accresciuta autonomia che si è tradotta in più di un caso nella difesa di interessi particolari, imponendo vincoli derivati dal timore che alcuni settori disciplinari, se non sostenuti da obblighi di legge, potessero venire emarginati. Il nuovo governo finirà per trovarsi nella fortunata condizione di portare a casa la realizzazione di un provvedimento di enorme portata, da inserire nell'elenco delle annunciate grandi modernizzazioni del paese, capitalizzando sulla grande mole di lavoro già fatto ed essendo nella posizione assai vantaggiosa di apportare quelle migliorie che si renderanno necessarie, come sempre avviene, nel periodo di rodaggio. Alcune delle quali sono già in parte emerse dall'intenso e informato dibattito che dentro e fuori l'università ha seguito lo sviluppo della riforma. In questa situazione di passaggio, un piccolo gruppo di docenti, si è mobilitato invece con l'obiettivo di bloccare del tutto la riforma, senza una proposta alternativa, ma obbedendo a quel riflesso condizionato di rifiuto dei cambiamenti che Pareto definiva misoneismo. Alla testa di questo gruppo si è posto negli ultimi tempi l'esponente di Rifondazione Comunista Luciano Canfora, che, sul Corriere del 25 Maggio gratifica automaticamente di pasdaràn tutti i sostenitori della riforma, nel momento stesso in cui avanza la moderatissima proposta di bloccare le iscrizioni di un milione e passa di studenti, provocando di conseguenza la paralisi di qualche decina di migliaia di insegnamenti universitari, in attesa di una non meglio definita riproposizione della "vera" riforma, compito che difficilmente potrebbe essere completato negli attesi primi cento giorni del governo Berlusconi. Naturalmente, per la famosa regola del morso del cane, chi protesta raggiunge più facilmente sia le pagine dei giornali che gli esponenti politici i quali affermano di aver ricevuto solo fax con giudizi negativi, in numero peraltro che sarebbe interessante verificare. Ma gli umori del popolo dei fax sono, come è ben noto, assai effimeri e poi la grande maggioranza di chi è a favore della riforma non ha tempo di mandare fax perché impegnata allo spasimo nell'attuarla e parla (anzi, come abbiamo già visto, ha già parlato esaurientemente), come si dice, per acta. Sembra però improbabile che il nuovo governo possa e voglia bloccare una riforma arrivata a questo punto accogliendo la proposta estrema di congelare tutto al buio, atto che creerebbe un caos al cui confronto quello che abbiamo visto la sera del 13 maggio apparirebbe come una recita di No. Intanto il nuovo governo avrà già una non piccola gatta da pelare con la riforma della scuola, su cui ha peraltro idee precise, che le si condividano o meno, annunciate da tempo e concernenti un provvedimento assai controverso e lontano dall'attuazione. Per l'università tutte le analoghe condizioni hanno segno contrario: la riforma è praticamente in porto, l'opinione pubblica è stata da tempo informata delle novità, e non sembra che nonostante i mugugni e le iniziative di un gruppetto di estremisti, vi siano opposizioni di una qualche sostanza, che se ci fossero state avrebbero trovato sbocco in una delle centinaia di istanze istituzionali che abbiamo descritto. Esistono poi le aspettative del mondo imprenditoriale che sono molto attente e favorevoli al nuovo ordinamento: infatti una delle critiche della parte politica che fa riferimento a Canfora è che la riforma ha svenduto l'università all'industria, e in secondo luogo (va da sé) agli americani, ma ognuno è in grado di giudicare della ragionevolezza di questo giudizio. È vero però che il mondo imprenditoriale a tutti i livelli ha compreso, con una sensibilità superiore a quella di certi settori accademici e forse anche politici, che sulla formazione superiore si gioca una partita cruciale per il nostro paese. Esistono infine impegni europei con le relative aspettative, anche se valgono quel che valgono per la politica italiana, questo si sa. Non si vede però perché il nuovo governo, che avrà molte questioni aperte con l'Europa, debba caricare quel difficile tavolo di un ulteriore spinoso problema. Anche se ho ben chiaro che sono ancora disponibili elementi insufficienti per valutare la futura politica del Polo in tema di università e ricerca, si può pensare che il nuovo governo decida per una linea di attuazione della riforma, introducendo cammin facendo correzioni che potrebbero anche essere ben accette da tutti. E che sia quindi probabile che venga seguito il parere del pasdaràn Andrea Casalegno sul Sole24Ore del 28 maggio, "anche in questo caso il meglio potrebbe essere nemico del bene. Inceppare l'attuazione della riforma non è nell'interesse di nessuno: né degli atenei né degli studenti, né del Paese". ___________________________________________________ Il Sole24Ore 9 giu. ’01 UNIVERSITÀ, PIÙ AUTONOMIA PER RICERCA E FORMAZIONE DI QUALITÀ di Adriano De Maio* La polemica sorta sull’idea di bloccare o meno la riforma universitaria si sta fortunatamente smorzando. La larga maggioranza è d’accordo sul fatto che, indipendentemente dai giudizi complessivi sulla riforma stessa, il danno provocato dal fermare un treno in corsa sarebbe estremamente elevato. Molti — la maggioranza, forse — sostengono che la riforma vada controllata e migliorata in itinere. Molti, infine, ritengono che "le velocità dei treni" attualmente siano differenti e, probabilmente, debbono essere mantenute differenti anche nel futuro prossimo. L’articolo di Angelo Panebianco sul «Corriere della Sera» del 5 giugno mi sembra sia un chiaro esempio di quanto appena detto. Chiuso, quindi, per ora, il problema del blocco della riforma, è opportuno prendere in esame anche alcuni elementi finora tenuti un po’ in ombra. Innanzitutto, a mio avviso, la "riforma" universitaria va analizzata tenendo conto congiuntamente della scuola pre-universitaria, dell’università e della formazione post-secondaria non universitaria. Alcune delle motivazioni che stanno alla base della riforma universitaria, infatti, non si capiscono se non si considera lo stato della formazione pre-universitaria e della formazione post-secondaria non universitaria. * Rettore del Politecnico di Milano ___________________________________________________ Il Sole24Ore 7 giu. ’01 AL DEBUTTO NELLA SANITÀ LE LAUREE TRIENNALI Paolo Del Bufalo ROMA - Approdano in «Gazzetta Ufficiale» (Supplemento Ordinario n. 136 alla GU n. 128 del 5 giugno) i due decreti del ministro dell’Università, di concerto con il ministro della Sanità, con cui si dà il via libera alle lauree triennali e a quelle specialistiche dell’area sanitaria. I provvedimenti prevedono le quattro classi di laurea indicate dalla legge 251/2000: professioni infermieristiche e di ostetrica, della riabilitazione, tecnico-sanitarie, della prevenzione. E da questo momento parte anche il conto alla rovescia negli Atenei per l’organizzazione dei corsi relativi ai profili professionali coinvolti: 18 mesi, dopodichè dovrebbero gradatamente "scomparire" i diplomi universitari e l’unico titolo valido per la professione resterà quello di laurea. Intanto però le Università, e le facoltà di Medicina in particolare, non sono rimaste con le mani in mano. È già stata avviata, infatti, la procedura per l’iscrizione ai corsi di laurea triennale in alcuni Atenei (primo fra tutti quello di Milano) che cammineranno di pari passo con i corsi di diploma universitario previsti per l’anno accademico 2001/2002 nelle altre Università meno previdenti. Quindi, il prossimo anno accademico sarà caratterizzato da un doppio canale formativo: da un lato i diplomi universitari, dall’altro le lauree. In tal senso, il decreto sulle lauree triennali prevede che gli iscritti a un Du, possano optare per la laurea. In questo caso, l’Università dovrà assegnare agli esami già sostenuti i relativi crediti, "traducendo" così la formazione da un tipo di corso all’altro. Più avanti, un ulteriore provvedimento dovrà provvedere alle eventuali equivalenze fra lauree e titoli conseguiti con il "vecchio" ordinamento. Le lauree triennali dovranno essere caratterizzate da molta pratica e poco studio individuale (non più del 30% delle ore complessive) e daranno direttamente accesso alla professione. La formazione potrà avvenire all’interno delle aziende ospedaliere, ospedaliero-universitarie, negli Irccs o presso altre strutture del Ssn o private accreditate e i corsi saranno affidati "di norma" a personale del ruolo sanitario. Simili in tutto per procedure di istituzione, suddivisione in classi, luogo di formazione e criteri di definizione dei crediti, sono le lauree specialistiche biennali. Che richiedono, naturalmente, il titolo di laurea triennale per l’ammissione e un elemento di valutazione in più per l’accesso: il curriculum. In questo i regolamenti didattici fisseranno i requisiti che devono essere posseduti per l’ammissione a ciascun corso ed eventuali integrazioni devono essere chiare prima della verifica sull’adeguatezza della preparazione personale del candidato all’ammissione al corso. E chi otterrà la laurea specialistica si dovrà occupare anche di management sanitario. Per l’ammissione ai corsi 2001-2002 l’appuntamento è fissato per mercoledì 11 settembre, quando il Murst ha già stabilito che si dovranno svolgere gli esami. Ancora da definire sono invece il numero dei posti da mettere a bando e la relativa ripartizione fra le varie tipologie dei corsi e l’assegnazione ai rispettivi Atenei. ___________________________________________________ La Stampa 7 giu. ’01 LAUREA A RISCHIO PER 250. FACOLTÀ NEI GUAI SENZA L'OK AL 3+2 Circa 250 aspiranti dottori dell'Università degli Studi rischiano di dover rinunciare a confetti, inviti, banchetto e cotillon già prenotati per la festa di laurea. Per oltre un centinaio di loro, il rinvio è già stato deciso: la facoltà di Scienze li sta avvisando, uno ad uno, del fatto che la data, già fissata, slitterà dalla seconda metà del mese alla prima quindicina di luglio. Il motivo? Dal ministero non è ancora arrivato l'ok alle facoltà che fin dallo scorso anno hanno deciso di aderire alla riforma del "3+2". Il che significa due problemi diversi. La riforma resta "congelata" per le facoltà che avevano deciso di partire dal prossimo settembre, con il blocco delle guide, della pubblicità e dell'orientamento nelle scuole che doveva partire in questi giorni, e manifesto degli studi a rischio per tutto l'ateneo. Il secondo, più urgente, guaio riguarda le prime lauree. Per le facoltà che avevano anticipato i tempi del "3+2" di un anno, e che si trovano con i primi 250 che aspirano ora al nuovo titolo triennale, lo stop è d'obbligo, in attesa del via libera prima dal Cun, il Consiglio universitario nazionale, e poi dal ministero, ai nuovi ordinamenti didattici. Il problema, discusso nell'ultimo Senato accademico, riguarda tutti gli atenei d'Italia, tranne i tre (tra cui la Statale di Milano) cui è già arrivato il semaforo verde dalla capitale. Le università dovevano inviare i nuovi ordinamenti del "3+2" a Roma entro aprile, e il ministero s'era impegnato ad esprimere il suo parere entro maggio. "Le elezioni - spiega Giovanni Garbarino, rappresentante torinese nel Cun per il personale amministrativo - hanno rallentato l'esame della documentazione inviata dalle università. Dal ministero non ci è ancora stato sottoposto l'incartamento di Torino: spero lo faccia entro fine mese, o al massimo nella prima metà di luglio". Peccato che le prime lauree fossero fissate tra pochi giorni. "A Scienze - spiega il preside Enrico Predazzi - siamo costretti ad informare dello slittamento delle tesi più di cento studenti che hanno aderito al "3+2" e hanno terminato il triennio. È una situazione molto spiacevole, che vede Torino, ancora una volta particolarmente efficiente nell'applicare subito la nuova legge, presa in contropiede dagli organi centrali". "Noi - dice Roberto Alonge, preside di Scienze della Formazione - abbiamo una ventina di casi. Siamo riusciti a spostare le date prima di comunicarle agli studenti, ma quanto sta avvenendo è inaccettabile. Per far partire la riforma abbiamo pure aumentato le tasse. Bloccare le lauree sarebbe un'enormità". Se Alonge ha in mente di laureare comunque, arrivi o meno l'ok da Roma, i suoi studenti, ad Agraria il preside Roberto Chiabrando (che non era entusiasta, lo scorso anno, quando la facoltà anticipò la riforma) non ha dubbi: "i nostri dieci si diplomeranno quando sarà consentito dalla legge. Non intendo certificare titoli che non so se lo Stato riconosce. Se non si potrà procedere a luglio, li rinvieremo a settembre". Mario Montinaro, da Scienze politiche, sospira: "Abbiamo in calendario le prime tesi il 4 luglio. Spero che nel frattempo arrivi il via libera". Se ieri il "Magnifico", Rinaldo Bertolino, era a Roma anche per sollecitare una soluzione della faccenda, il vicerettore delegato alla didattica, Nicola Tranfaglia, calcola in 80-90 gli studenti "a rischio-tesi" nella sua facoltà, Lettere e Filosofia: "Non si può che deprecare il ritardo del ministero: ho inviato a tutti i presidi una circolare che consiglia di far slittare le lauree alla seconda metà di luglio. Spero che per quella data avremo risolto ogni cosa". ___________________________________________________ Il Mattino 5 giu. ’01 L'UNIVERSITÀ ITALIANA NON INSEGNA LE LINGUE Le università italiane stanno per mettere in pratica la riforma dei cicli universitari, un disegno vasto, la cui ambizione è di mettere gli studenti italiani in grado di competere con i loro colleghi europei. Orbene, per competere, il buon senso insegna che bisogna saper comunicare e quindi potenziare le competenze linguistiche dei futuri laureati. Questo lo dice il buon senso che però sembra assente dal governo dei nostri atenei che usa la riforma per liberarsi di una categoria scomoda: i lettori di madre lingua straniera. Ma chi sono i "lettori"? Sono una figura anomala delle università che la legge 382 istituì, nel lontano 1980, per potenziare l'insegnamento delle lingue. I lettori venivano reclutati per un anno, il loro contratto non poteva essere rinnovato per più di cinque volte. Allo scadere di tale periodo successe un "pandemonio giuridico": i lettori si appellarono ai tribunali nazionali ed europei perché vittime di discriminazione. Non esisteva, infatti, nessun'altra categoria di insegnanti, nel panorama italiano, vittime di un tale trattamento. Fu così che la Corte di giustizia europea e la Corte Costituzionaleitaliana dettero loro ragione e imposero agli atenei di riassumerli. Dopo vari pronunciamenti dei tribunali, in Europa e in Italia, la risposta delle università nel 1995 fu la seguente: il licenziamento in massa di tutti i lettori che furono però riassunti sotto mentite spoglie con il nome di collaboratore ed esperto linguistico. A tale figura fu dato un contratto, inserendolo nel contratto nazionale della categoria dei lavoratori tecnico-amministrativi. Ma qui la situazione continuò a peggiorare: c'era il problema di dare una distinta disciplina ad una categoria che difatti lavora autonomamente in aula per insegnare agli studenti le fondamenta di una conoscenza linguistica, che quindi non svolge mansioni amministrative ma nemmeno tecniche! L'ulteriore dimostrazione di tale contraddizione la dà il mancato rinnovo del contratto. Il contratto nazionale è stato firmato nell'agosto 2000, ma rimanda ad un accordo ulteriore la parte che riguarda questi insegnanti. È così che da 4 anni (dal 1998!) questi sono senza contratto. Nel frattempo, più di mille lettori stanchi di aspettare, hanno affidato le loro sorti ai tribunali che, con rare eccezioni, danno loro ragione e impongono agli atenei il pagamento di somme notevoli. Ma a cosa servono i lettori? Nelle varie facoltà insegnano agli studenti le competenze fondamentali: leggere, capire, parlare, scrivere; insegnano pure le lingue di specialità legate alle specifiche professioni ai quali gli studenti sono destinati. Arricchiscono la proposta formativa costruendo corsi ad hoc che mettono a disposizione di tutti sulla rete di ateneo (invito tutti a connettersi con il sito del centro linguistico: www.claweb.cla.unipd.it), tutto questo in collaborazione con i docenti. Insegnano la lingua non come mero strumento di comunicazione, ma come testimone di una cività. Orbene la riforma attribuisce ad ogni insegnamento dei crediti che coprono a mala pena le ore di insegnamento svolte dai docenti. Qui arriva la domanda: le ore svolte dai lettori che fine fanno? Nessun problema risponde il professor Luciano Modica, presidente della Conferenza dei Rettori: l'università è tenuta a verificare, e non a trasmettere le conoscenze linguistiche, degli studenti, se queste sono insufficienti, liberi loro di rivolgersi ad enti privati. Nella lingua imperante del liberalismo si chiama "esternalizzazione". E così il governo dell'università si libera dei lettori, piantagrane che hanno avuto l'ardire di appellarsi ai tribunali e alle istituzioni europee, smacco che la "baronia" non perdona a questa categoria. Si libera pure di costi che gli studenti dovranno sostenere privatamente. I lettori si augurano che la famosa "autonomia" sia uno strumento di difesa della qualità dell'insegnamento e dei servizi formativi offerti agli studenti e non un'arma diretta contro una categoria di lavoratori. L'8 giugno faranno sciopero in tutta Italia perché venga finalmente dato loro un contratto dignitoso che riconosca le loro reali mansioni e andranno a manifestare a Pisa, ateneo del professor Modica. ___________________________________________________ Il Sole24Ore 4 giu. ’01 NON DECOLLA LA RICERCA PUBBLICA Sara Todaro Istituzioni pigre, pochi fondi e soprattutto poche idee: nonostante le necessità acuite dalla spinta alla transizione federalista la ricerca Ssn non decolla. È il deludente bilancio dei lavori della Commissione per la ricerca sanitaria, che ha chiuso la settimana scorsa l’attività di selezione dei progetti presentati dai diversi soggetti istituzionali (Regioni, Agenzia per i servizi sanitari, Istituto superiore di Sanità, Istituti scientifici, Ispesl) in relazione al bando per il 2001: 215 progetti approvati su 509 proposti, per un finanziamento complessivo di 117 miliardi. E pensare che i fondi a disposizione potevano essere il doppio: la riforma sanitaria ha destinato all’approfondimento dei temi di stretto interesse per l’Ssn l’1% del Fsn, ma anche questa volta non si è andati oltre lo 0,5 per cento. Come se non bastasse, a totalizzare il bottino più grosso è stata come sempre la ricerca biomedica (93 miliardi per 179 progetti), mentre la ricerca sugli aspetti operativi dell’assistenza — che dovrebbe essere "di punta" almeno per gli enti non dediti solo ad attività scientifiche — arriva solo a 24 miliardi per 35 progetti. Le stesse Regioni stentano a impegnarsi su questo tipo di ricerca (28 progetti). «Forse perché dà poca notorietà ed è più scomoda: mette in discussione i comportamenti degli operatori e dei politici; cerca di rendere tra loro compatibili concetti tra loro spesso distanti, come garanzia di accesso a tutti e qualità, progresso tecnologico ed economicità di gestione, libertà professionale e controllo dei risultati», commenta Angela Testi (Università di Genova, membro della commissione selezionatrice). Così — confermando il trend degli ultimi anni — le Regioni sono rimaste al palo e gli istituti di ricerca hanno realizzato il bottino più importante, ottenendo un 45% di «consensi» (133 progetti approvati su 293 proposte) contro il 38% totalizzato dagli enti istituzionali (216 proposte, solo 82 finanziate). I primi, inoltre, pur assorbendo il 55% delle disponibilità per l’anno in corso, risultano mediamente meno «costosi»: il finanziamento medio per i progetti degli istituti resta inferiore ai 500 milioni, mentre le proposte regionali quotano in media 650 milioni ciascuna. Prima in classifica la Toscana che con soli due progetti si aggiudica oltre tre miliardi, destinati per l’85% alla telemedicina, gettonatissima dagli enti istituzionali. Seguono Lazio (cinque progetti per 2,9 miliardi di finanziamenti) e Veneto (4 progetti, 2,8 miliardi). In coda alla lista la Provincia autonoma di Trento (2,675 milioni) e la Valle d’Aosta (un progetto da 482 milioni). Fin qui l’agenda dei lavori che — per quanto complessi possano essersi rivelati finora — non rappresentano che il primo step, in vista della concreta realizzazione. Tra stipula delle convenzioni, approvazione dei piani esecutivi, erogazione delle diverse tranche di finanziamento passeranno probabilmente ancora diversi mesi. A detta degli esperti sarebbe già un risultato lusinghiero riuscire a rimanere entro l’anno per l’erogazione dei primi fondi ai diversi destinatari: i progetti finanziati coi fondi 2000 nello scorso ottobre, infatti, non sono ancora partiti. Ancora più lusinghiero — e francamente indispensabile — il solenne impegno assunto dalla reinsediata commissione per la ricerca sanitaria: realizzare un serio monitoraggio degli esiti dei progetti finanziati. Incredibilmente, se ci si riuscirà sarà la prima volta. ================================================================== ___________________________________________________ L’Unione Sarda 5 giu. ’01 POLICLINICO: SALVATI DAI MEDICI ALL’ULTIMO MINUTO Policlinico universitario. A Monserrato manca il reparto di Rianimazione: due pazienti sono vivi per miracolo Rischiano di essere fatali le carenze dell’ospedale modello La milza che si rompe all’improvviso, un cuore che impazzisce. Una uomo e una donna, accomunati dall’età (una sessantina d’anni) e dalla buona sorte sono salvi grazie alla professionalità dei medici, alla velocità dei soccorsi e alle strade insolitamente sgombre. Già, il traffico: se ci fosse stato un ingorgo, forse i due pazienti sarebbero morti in ambulanza. Può succedere quando per raggiungere un ospedale più attrezzato c’è da doppiare la statale 554. E quando in un policlinico bello come un albergo a quattro stelle medici e pazienti convivono senza far affidamento su un reparto di Rianimazione. Monserrato, cittadella Universitaria: dietro il semaforo più odiato da studenti, professori e malati è successo che quel si temeva. I medici sapevano che prima o poi sarebbe successo, ma un gioco del destino ha voluto che in pochi giorni la tragedia venisse sfiorata due volte. Un ammalato in cura al policlinico universitario ha avuto la rottura spontanea della milza. I medici hanno fermato l’emorragia e tamponato la lesione interna: l’immediato trasporto al Santissima Trinità (il traffico, nel tardo pomeriggio, non era per fortuna intenso) ha fatto il resto. Ma non c’è tempo per sorridere davanti allo scampato pericolo: tempo qualche giorno (è successo la scorsa settimana) e una paziente, durante un intervento in day hospital, va in bradicardia, con un pericoloso rallentamento del battito del cuore: immediato il soccorso dei medici che già operavano sulla paziente, ma è stato solo con il trasporto all’ospedale Brotzu, con ricovero nel reparto di Unità coronarica, che la crisi cardiaca è stata superata. Rosa Cristina Coppola, direttore generale del policlinico universitario, dal suo ufficio di via San Giorgio, Clinica Aresu, invita (soprattutto i colleghi medici) a «non esasperare questi episodi, che possono capitare ovunque». Tutti consapevoli, ma chi opera al policlinico non si consola all’idea che, prima o poi, il presidio sanitario diventerà a tutti gli effetti una struttura all’avanguardia in Europa. Nell’attesa, insomma, si dovranno fare i conti con la realtà. E la realtà impone (la conferma, drammatica, è arrivata dai due recenti episodi) che si arrivi al più presto all’apertura di un reparto di Rianimazione. Il protocollo d’intesa, in via di definizione tra la Regione sarda e l’Università degli studi di Cagliari, prevede l’autorizzazione di 150 nuovi posti letto di Chirurgia generale, con annessa la Rianimazione. Ma, nell’attesa, si sollecita la sistemazione una sala per le emergenze, in attesa di poter contare (il primo problema resta capire quando) su un reparto vero e proprio. Progettati all’inizio degli anni ’90, i lavori per il policlinico universitario di Monserrato (che sorge su un’area di trentamila metri quadrati) erano iniziati nel 1993. Cinque anni dopo la consegna della struttura, dopo aver doppiato i consueti ostacoli burocratici e qualche ricorso al Tar. Il progetto generale prevede la possibilità di ospitare un migliaio di malati in sedici padiglioni, ma per arrivarci sarà necessario investire molti altri miliardi (ne sono già stati spesi un centinaio), aspettare altre gare d’appalto e tutte le insidie del caso. Oggi i posti letto, al policlinico, sono 104, tutti di Medicina interna, con un’attività poliambulatoriale, assistenza in day hospital e ricoveri, affidati a una quarantina di medici e a un centinaio abbondante di paramedici. Un policlinico, quello di Monserrato che, come tutta la Cittadella universitaria, si trascina una pesantissima palla al piede chiamata 554. La Regione ha stanziato una ventina di miliardi per eliminare l’incrocio semaforico che, ogni giorno, causa code interminabili. Previsioni ottimistiche indicano in settembre il mese buono per chiudere la partita con gli ingorghi. Spiace dirlo, ma non ci crede nessuno. Emanuele Dessì ___________________________________________________ L’Unione Sarda 6 giu. ’01 POLICLINICO: IL DIRETTORE GENERALE CHIEDE UN PO’ DI PAZIENZA Parla Rosa Cristina Coppola: «Capisco le reazioni dei colleghi ma presto sarà tutto a posto» «Giustifico a livello umano la reazione di alcuni miei colleghi, ma non esaspererei queste vicende, anche perché noi dobbiamo rispettare gli accordi legati a un protocollo Università-Regione». Rosa Cristina Coppola, per dieci anni docente di Igiene nella facoltà di Medicina, è dal marzo scorso direttore generale del Policlinico universitario. «Una struttura bellissima, ma decentrata». Allora ha ragione chi protesta. «La struttura non è ancora sfruttata appieno, ma credo che lo sarà molto presto. Tanto più perché, venerdì scorso, il Governo ha approvato le linee guida cui ci si dovrà attenere nel protocollo con la Regione, che porterà all’apertura, a Monserrato, dei reparti di Chirurgia e di Rianimazione e, quindi del Pronto soccorso. Su questo si sta lavorando in modo intenso, per garantire la sicurezza del paziente anche a Monserrato». Appunto, a Monserrato. «Sei chilometri non sono poi così tanti da percorrere con un’ambulanza. Anche se la struttura più vicina, nel nostro caso, è il Brotzu, cui non sempre ci possiamo appoggiare in quanto non legato alla Asl 8. Le tragedie possono capitare a Monserrato come in qualsiasi altro presidio. Qui, nella Clinica Aresu, per esempio, non c’è la Rianimazione. Anche se, girato l’angolo, c’è il San Giovanni di Dio, e questo rappresenta una garanzia». Al Policlinico c’è di mezzo la 554. «La 554 è quello che è, la conosciamo tutti. Però si può passare anche da Sestu, come fanno le nostre ambulanze. In tutti i casi, si sta pianificando l’intervento per la rotatoria allo svincolo. Certo, i tempi non saranno immediati come noi vorremo». Quanti sono i nuovi posti letto previsti a Monserrato? «Agli attuali 104 di Medicina generale si aggiungeranno i 150 di Chirurgia, con una dotazione di posti letto ben oltre la sufficienza per la Rianimazione. Nel nuovo blocco del Policlinico, che sta per essere appaltato, troveranno spazio la Cardiochirurgia, la Neurochirurgia e l’Ortopedia. E ci sarà l’unità coronarica: in città, a livello di Asl 8, l’unica opera al San Giovanni di Dio». C’è il rischio di perdere altro tempo per il personale? «Penso di no. Anche perché, nell’ambito della convenzione, sarà prevista un’integrazione tra personale universitario e ospedaliero». Chi potrebbe accelerare i tempi? «Questo è un matrimonio che vede protagonista l’assessore alla Sanità. Noi speriamo che il protocollo si possa chiudere in tempi brevissimi». E. D. ___________________________________________________ L’Unione Sarda 7 giu. ’01 APPROVATO DAL GOVERNO IL NUOVO CONTRATTO DELLA SANITÀ Il Consiglio dei ministri ha approvato ieri il nuovo contratto del comparto sanità, che riguarda 570 mila lavoratori. Gli infermieri, come i tecnici radiologici e di laboratorio, le ostetriche, i fisioterapisti, gli assistenti sociali e i livelli più alti del settore, riceveranno, in base a questo, un aumento medio di circa 400 mila lire lorde al mese. Tutti gli altri riceveranno in busta paga, invece, 181.500 lorde al mese. Un’indennità di tre milioni lordi l’anno verrà riconosciuta a chi ricopre posizioni di coordinamento e responsabilità, elevabili ad altri tre milioni annui a chi svolge funzioni di particolare impegno e complessità. La maggiore novità dal punto di vista normativo è rappresentata dalla ricollocazione di 300 mila addetti nel livello D, quello dei laureati. Ora l’Aran perfezionerà l’atto pronto per l’invio alla Corte dei Conti per la prevista certificazione. Dopo l’approvazione della Corte dei Conti e la firma definitiva delle parti il contratto diventerà operativo. Per il rinnovo contrattuale, ha poi reso noto il dipartimento della Funzione Pubblica, sono previte complessivamente, oltre alle risorse destinate al recupero dell’inflazione e a quelle per l’incremento dei fondi contrattualli, ulteriori risorse, pari allo 0,40% di incremento a decorerrere dal 2001 e pari ai risparmi del recupero delle retribuzioni individuali di anzianità del personale cessato dal servzio con decorrenza del 1 gennaio 2000. Sono rese inoltre disponibili risorse aggiuntive per 400 miliardi utilizzabili dal primo gennaio 2001 e 800 miliardi con decorrenza 31 dicembre 2001. ___________________________________________________ Repubblica 8 giu. ’01 LA SANITÀ STUDIA NUOVI TICKET PER FRENARE LA SPESA ROBERTO PETRINI ROMA - Per ora è solo un'ipotesi. Porta la firma della «Commissione per la spesa farmaceutica» del ministero della Sanità ed è contenuta in un rapporto che si intitola «Proposte di interventi per il contenimento della spesa farmaceutica». Nel ventaglio di proposte c'è quella della reintroduzione dei ticket sui farmaci aboliti dalla Finanziaria dal 1° gennaio di quest'anno e l'assistenza indiretta per i redditi alti. La reintroduzione del vecchio sistema (ticket da 3.0006.000 lire per ricetta, 50 per cento sulla classe «B», ecc.), secondo i calcoli della «Commissione per la spesa farmaceutica» potrebbe dare un gettito di 1.700 miliardi all'anno, più una riduzione dei consumi di 5 punti percentuali con un risparmio di 1.100 miliardi di spesa annua. L'altra ipotesi è quella di introdurre un ticket simbolico di 1.000 lire oppure di rimborsare i farmaci in base ad un prezzo di riferimento medio. Se i tecnici studiano Veronesi getta acqua sul fuoco. Una nota del ministero della Sanità ieri ha spiegato che l'incremento della spesa farmaceutica è stato nei primi tre mesi del 2001 del 30,6 per cento (circa 1.300 miliardi) rispetto al precedente trimestre. Di questo sfondamento solo il 1012 per cento, cioè un terzo, è imputabile ai ticket; il 7,5 è dovuto all'incremento fisiologico dei consumi; mentre il 3 per cento viene dall'adeguamento dei prezzi dei medicinali. «Si conferma che i ticket hanno determinato il maggior aumento», ha dichiarato Ivan Cavicchi direttore di Farmindustria. Intanto dopo il colpo di freno del fabbisogno delle Regioni nei primi cinque mesi dell'anno la spesa dei comuni fa registrare una crescita in linea: sebbene il fabbisogno sia salito del 56,5 per cento, arrivando a 5.391,8 miliardi, la lettura corretta dei dati - spiegano al Tesoro - è quella di depurando i dati da Milano, Roma e Torino, che lo scorso anno hanno registrato un fabbisogno molto basso perché incassarono i fondi di nuovi mutui. In questo modo l'aumento si riduce al 3,2 per cento. ___________________________________________________ Il Sole24Ore 7 giu. ’01 SANITÀ, CURA «PRIVATA» PER IL DEFICIT Nel 2001 sfondamento di 10mila mld - Tra Visco e Berlusconi polemica sulle cifre Roberto Turno ROMA - La prima mossa sarà la definizione dei livelli essenziali di assistenza: quali (e quante) prestazioni sanitarie, cioè, lasciare ancora gratuite a carico del servizio pubblico. Secondo passo: il lancio in grande stile, con tanto di sconti fiscali, dei Fondi integrativi, forse su base regionale, cui i cittadini potranno accedere (a pagamento) per compensare gli eventi sanitari non più coperti dallo Stato. Quindi sarà la volta della riforma quater del Ssn: forte impulso al ruolo dei privati, massima libertà di scelta degli assistiti, ricorso alle Fondazioni no profit per gestire gli ospedali. E tra un federalismo la cui venatura in chiave di devolution non mancherà di spaccare Nord e Sud, a stretto giro di posta arriveranno altri interventi mirati: farmaci (nuovi prezzi), medici (esclusiva attenuata), tecnologie (nuovi strumenti d’acquisto). Mancano i dettagli, ma il "programma sanitario" della Casa delle libertà è già pronto. In parte finirà nelle prossima Finanziaria. In parte invece, avrà bisogno di provvedimenti successivi da varare nel 2002. Per tappe successive, evitando giri di valzer traumatici, ma con passo accelerato. «Riforme serie e strutturali»: l’invito del Governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, sarà raccolto a piene mani dal prossimo Governo. Che su alcuni fronti caldi della partita sulla Sanità, non mancherà di trovare sulla sua strada gli stop dell’opposizione e del sindacato, Cgil in testa: sui Fondi sanitari (quale "integrazione"?), sulla devolution, sulla copertura pubblica e sul ruolo da conservare al Ssn. E la partita sarà accesissima sulla spesa sanitaria. Ne è prova lo scontro di questi giorni sull’entità del "buco" 2001: un anno che pure, con 131mila miliardi, può contare sul più elevato Fsn (pubblicato proprio ieri sulla «Gazzetta Ufficiale») mai ripartito tra le Regioni. Ieri il presidente del Consiglio in pectore, Silvio Berlusconi, ha negato di aver mai parlato di un disavanzo sanitario da 3mila miliardi al mese: «Ho solo ribadito la mia preoccupazione per la differenza che esiste tra quello che il Centro-sinistra diceva in campagna elettorale e quello che ci troviamo davanti», ha dichiarato. Una "messa a punto" anche in risposta alle contestazioni del ministro del Tesoro uscente, Vincenzo Visco («Berlusconi non sa fare i conti»), il quale non ha mancato di mettere le Regioni davanti alle loro responsabilità e di accusare il futuro Governo di voler «coprire lo sfondamento privatizzando la Sanità e non facendo così transitare sul bilancio pubblico i costi del settore». Per sapere quale sarà la reale entità dello sfondamento a fine anno, occorre attendere poco meno di un mese: quando saranno pronti gli esiti del tavolo di monitoraggio sulla spesa sanitaria. Ma di sicuro non mancheranno all’appello soltanto i 5mila miliardi già stimati di crescita della farmaceutica. Altre voci — dall’effetto di contratti e convenzioni alla spesa socio-assistenziale — peseranno sul disavanzo finale. A conti fatti, le prime valutazioni ufficiose accreditano per il 2001 uno sfondamento di almeno 8-10mila miliardi di lire. In questo quadro, sarà decisivo conoscere le riserve 2002 per il Ssn. Le Regioni, da destra e da sinistra, battono tutte cassa: il rapporto spesa sanitaria/Pil, ripetono, è tra i più bassi d’Europa. Ci saranno i fondi? E i ticket, allora, rinasceranno sotto il "Berlusconi 2"? Un’ipotesi, che sarà formalizzata oggi dalla Commissione per la farmaceutica, ne prevede la rinascita sotto mentite spoglie col prezzo di riferimento per categorie terapeutiche omogenee di farmaci. Un’altra decisione imbarazzante sarà la decisione da prendere sulla franchigia per specialistica e diagnostica: dal 2002 dovrebbe scendere a 23mila lire (dalle 70mila attuali) per essere azzerata dal 2003. Ma l’operazione vale almeno 4mila miliardi: sarà un onere sostenibile? Il rischio di prendere una decisione impopolare, sembra più che probabile. Ma Berlusconi ha detto di aver messo nel conto il rischio di dover prendere decisioni impopolari. Giovedí 07 Giugno 2001 ___________________________________________________ L’Unione Sarda 6 giu. ’01 CENTRO DI CHIRURGIA DEL FEGATO AL BROTZU? IMPROVVISA GELOSIA AL NORD I trapianti dividono Cagliari e Sassari Derby chirurgico tra Cagliari e Sassari. In palio, i trapianti di fegato. Al Brotzu si preparano da tempo, all’università turritana non sono d’accordo: basta con Cagliari pigliatutto. Dopo qualche polemica sottotraccia, ormai è guerra senza esclusione di colpi. Politici. È aperta la caccia ai padrini, meglio di centrodestra, schieramento vincente a Sassari, Cagliari, in Regione e persino nelle Asl. Per certi versi è un affare di famiglia, un bel guaio per l’assessore regionale alla Sanità, il leader del Ccd Giorgio Oppi, sottoposto a pressioni non indifferenti. Dal primo luglio spetterà a lui decidere, col rischio di mettere in crisi la Casa delle libertà. Insomma, anche sul fegato sarà braccio di ferro, il solito mercato delle vacche, alla faccia della programmazione sanitaria. Per la cronaca, l’ultimo Piano regionale risale al 1985. L’aggiornamento è atteso da 16 anni, nel frattempo i pazienti sardi sono costretti a vagare per l’Europa e i fegati prelevati nell’Isola (17 nel 2000) vengono utilizzati solo negli ospedali del continente. Per la verità, a Cagliari i trapianti di fegato si sarebbero potuti fare da tempo. Al Policlinico di Monserrato. Ma l’università di Cagliari non ha considerato interessante la proposta del chirurgo Antonio Pinna, che, reduce dal Jackson Hospital di Miami, voleva creare un Centro per i trapianti multiorgano. Ipotesi archiviata, questi interventi di avanguardia Pinna li esegue ora al Policlinico di Modena. Pare con qualche successo, almeno a giudicare dall’eco straordinaria che suscitano sui mezzi di informazione. Svanita l’opportunità universitaria, si è fatta avanti l’azienda Brotzu. A fine 2000 il nuovo direttore generale Franco Meloni ha predisposto un programma di attività nel quale i trapianti di fegato figuravano al primo posto. Il documento è stato poi inviato, per l’approvazione, all’assessorato alla Sanità. E lo stesso Oppi lo ha valutato con favore: «Si tratta di un progetto che non possiamo non giudicare positivamente», disse l’assessore al nostro giornale, «per i notevoli benefici che apporterà a quanti soffrono di gravi patologie epatiche, oggi costretti a rivolgersi all’estero». Nell’occasione il responsabile della Sanità ricordò le decine di miliardi che la Regione spende ogni anno per far curare i sardi fuori dai confini dell’isola. Viaggi della speranza pagati pronta cassa, anche per terapie che si potrebbero assicurare in Sardegna. Nel programma del Brotzu (dove sinora sono già stati eseguiti 700 trapianti) è previsto anche un Centro di chirurgia epatica. In attesa dell’ok regionale, l’azienda ha chiesto l’autorizzazione al Ministero (competente in materia sino al 30 giugno). Da Roma è giunta una commissione dell’Istituto superiore di Sanità che ha visitato i locali disponibili (sale chirurgiche ecc.) e ha suggerito una serie di modifiche strutturali, alle quali ha subordinato l’approvazione definitiva. Nel frattempo il Brotzu ha stipulato una convenzione con l’ospedale Umberto 1° di Roma, in vista di un rapporto di collaborazione col chirurgo Massimo Rossi, che ha già eseguito un centinaio di trapianti di fegato. Mentre a Cagliari si predispone l’apertura del nuovo centro, a Sassari la Clinica chirurgica, diretta dal professor Giuseppe Dettori, avanza la propria candidatura per i trapianti di fegato. Sulla base di una singolare ripartizione geopolitica, fa presente che nel capoluogo regionale si eseguono già i trapianti di cuore e rene, mentre Sassari, che si occupa solo del rene, rivendica quelli di fegato. L’università è decisa a raggiungere l’obiettivo. Per questo mobilita tutto il mondo politico e sollecita una decisione positiva dell’assessore alla Sanità. Oppi, oggi, attraversa un momento di comprensibile imbarazzo. Perché se si era sbilanciato a favore del Brotzu, non può ignorare il “grido di dolore” che si leva dal capo di sopra. D’altro canto, dal primo luglio le autorizzazione per i centri trapianti passeranno dallo Stato alla Regione. Sarà lui, quindi, a decidere, ma dovrà tener conto dell’autorevole parere di qualche collega di Giunta e di partito. «Ancora non abbiamo adottato alcuna decisione - dice Oppi - . Lo faremo sulla base di un serie di parametri: donazione di organi, stato delle sale operatorie, costi. Se non comportasse oneri particolari, si potrebbero anche autorizzare due centri, ma è ancora presto per esprimersi». “Todos caballeros”. Non sarebbe la prima volta. Negli anni Ottanta, un altro assessore alla Sanità, Billia Pes, prese una decisione del genere: per mettere d’accordo i docenti universitari che si disputavano il centro trapianti di midollo ne autorizzò addirittura tre. Tutti a Cagliari. Lucio Salis ___________________________________________________ L’Unione Sarda 5 giu. ’01 SARDEGNA: SANITÀ PRIVATA, LICENZIAMENTI IN VISTA Licenziamenti in vista nelle cliniche private sarde. È l’allarme dei sindacati che si mobilitano e chiedono un incontro urgente con l’assessore regionale alla Sanità, Giorgio Oppi, e con i dirigenti dell’Aiop, l’associazione delle cliniche private. «È una situazione ormai esplosiva per 1500 lavoratori - denunciano in una nota le segreterie di Fp-Cgil, Fps-Cisl e Fpl-Uil - per i quali si prospetta e già si annunciano processi di licenziamento, senza peraltro alcuna garanzia di ammortizzatori sociali. A ciò si unisce uno stato insostenibile di precarietà contrattuale: gli stipendi sono regolarmente in arretrato da mesi, l’orario di lavoro richiesto è di 40-45 ore settimanali, non si attuano le norme sulla sicurezza previste dalla legge 626». I sindacati sottolineano le «responsabilità politiche» della Giunta regionale e accusano le cliniche private: «Un privato peraltro un po’ particolare poiché le loro attività sono finanziate con le risorse pubbliche del bilancio regionale destinate al servizio sanitario, attraverso il sistema di accreditamento provvisorio» Per le segreterie dei sindacati di categoria c’è «una grave responsabilità non più giustificabile, che ormai assume il carattere di scelta colpevole. Non si capisce a chi giova non avere il Piano sanitario regionale e quindi il rapporto quantitativo e qualitativo nella gestione dei servizi fra pubblico e privato, la nuova rete ospedaliera con la previsione dei limiti massimi dei posti letto per “acuti”, la definizione degli accreditamenti». Cioè, «l’insieme della programmazione regionale». Sulla base di quali criteri «si consente la creazione di nuovi posti letto, di nuove cliniche private, quando gli attuali posti letto nella Regione sono utilizzati al 60%?». I sindacati perciò annunciano la «mobilitazione regionale a sostegno della vertenza realizzando entro giugno un’iniziativa di lotta dei lavoratori della sanità privata». ___________________________________________________ L’Unione Sarda 6 giu. ’01 SANGUE PULITO, C’È MOLTO DA FARE Il professor Girolamo Sirchia consiglia prudenza dopo la scoperta americana Considerati prematuri gli esperimenti sull’uomo La pulizia del sangue da trasfondere attraverso il metodo dei raggi ultravioletti sarà l’arma vicente per combattere le infezioni virali. Lo ha detto l’ematologo del policlinico di Milano Girolamo Sirchia, commentando l’annuncio delle ricerche statunitensi che dovranno essere valutate dall’ente americano per la sicurezza dei farmaci (Food and Drug Administration). «Gli studi condotti dai colleghi americani con il metodo Helinx - ha spiegato Sirchia - non sono ancora a portata di mano. Servono altre ricerche per dire se pulire il sangue corpuscolato come piastrine e globuli rossi, utilizzando gli psoraleni è un metodo efficace». Le sostanze utilizzate, ha spiegato l’ematolgo, si legano al materiale genetico dei microrganismi (virus e batteri) e dopo essere sottoposte ai raggi ultravioletti li danneggiano. «I metodi di inattivazione dei microrganismi nel sangue che sono allo studio - ha spiegato Sirchia - sono numerosi, ma queste ricerche ( vanno avanti da almeno 5 anni) sembrano le più promettenti. Tuttavia - ha precisato - si devono attendere altre conferme per dire se si tratta di test sicuri. Per questo motivo - ha concluso l’ematologo - partiranno altre sperimentazioni su scala limitata». Secondo la professoressa Gabriella Girelli, direttrice del centro trasfusionale dell’Università La Sapienza di Roma, che ha seguito le ricerche condotte da Stefen Isaac con il metodo Helinx, «servono ancora conferme di efficacia e di assenza di tossicità prima di applicare il metodo sull’uomo». «Secondo lo studioso americano - ha spiegato Girelli - con il metodo degli psoraleni e dei raggi ultravioletti, non si danneggiano le cellule del sangue che dovranno essere trasfuse. Ma la Fda dovrà verificarlo. Gli psoraleni - ha spiegato Girelli - sono sostanze fotoattive che si legano bene agli acidi nucleici (Rna e Dna) dei virus. I raggi ultravioletti poi attivano queste sostanze che alla fine danneggiano irrimediabilmente il materiale genetico. I virus e i batteri colpiti rimangono nel sangue e dunque vengono trasfusi ma non hanno più la capacità di replicarsi. ___________________________________________________ Le Scienze 5 giu. ’01 UN VIRUS IBRIDO CONTRO I TUMORI Secondo gli studi, distrugge solo le cellule neoplastiche e non provoca danni collaterali Un ibrido ottenuto dal virus della poliomielite e quello del raffreddore comune potrebbe diventare l'arma definitiva contro uno dei tipi più comuni di cancro. Gli scienziati della Duke University di Durham, nel North Carolina, hanno riferito al congresso della American Society for Microbiology come sia sufficiente un’iniezione del preparato in topi affetti da un glioma maligno per provocarne la guarigione completa. L'aspetto più interessante di questa ricerca è di aver utilizzato per scopi terapeutici un virus che può causare una grave malattia. Per rendere innocuo il virus della polio, i ricercatori vi hanno inserito uno tratto di genoma di rinovirus, responsabile del normale raffreddore poiché quest’ultimo, a differenza del primo, non attacca le cellule del cervello. Secondo gli scienziati, questo ibrido rappresenta un'arma molto potente contro i tumori al cervello, perché ha la capacità di distruggere solo le cellule tumorali senza danneggiare i tessuti sani. A differenza di tutti gli altri tipi di terapia, da quelli chimici a quelli chirurgici, questo metodo non provoca danni collaterali. ___________________________________________________ Repubblica 6 giu. ’01 FIGLI IN PROVETTA, L'ORA DEGLI OVOCITI Veronesi dà via libera alla sperimentazione di Flamigni Nuovo impulso alla tecnica italiana contro l'infertilità. Consentirà anche di ricavare cellule staminali MARIO REGGIO ROMA - Via libera del ministro della Sanità Umberto Veronesi al professor Carlo Flamigni per la ricerca biologica e clinica sulla crioconservazione degli ovociti umani. «Sono tre gli indirizzi che seguiremo: sostituire con la crionconservazione degli ovociti quella degli embrioni - spiega il professor Carlo Flamigni - rendere possibile la fertilità futura delle donne che la stanno per perdere in conseguenza di terapie antitumorali o interventi chirurgici, avere a disposizione ovociti residuali per la produzione di cellule staminali». Il ministro Veronesi ha sottolineato l'importanza di «studiare l'utilizzo della crioconservazione degli ovociti per evitare il rischio di sterilizzazione e impossibilità a procreare per molte donne». Da anni il professor Flamigni sta sperimentando la tecnica della crioconservazione degli ovociti, «abbiamo fatto nascere 34 bambini, ma sono ancora troppo pochi per poterla estendere, anche se i risultati sono incoraggianti. All'inizio abbiamo avuto una serie di difficoltà - spiega Flamigni - con una media di 1.4 bambini su 100 uova mature congelate, contro il 3.6 di successi ottenuti con gli emrbioni. Se riusciremo a diffondere questa metodologia avremo, in poco tempo, 2.9 nascite. Un risultato non troppo lontano da quello ottenuto con gli embrioni. Inizieremo al lavorare dal prossimo settembre, intanto cercheremo di coinvolgere un numero consistente di centri per la procreazione medicoassistita, e di arruolare un folto gruppo di genetisti». La nuova ricerca dovrebbe mettere la sordina alle roventi polemiche sollevate dal mondo cattolico sull'uso degli embrioni nelle fecondazione assistita. Ne è convinto anche il professor Umberto Veronesi: «Per mesi il dibattito è stato molto acceso e abbiamo rischiato d'impantanarci in diatribe senza via d'uscita. Adesso con il protocollo sperimentale sugli ovociti, le riserve etiche e religiose di una parte degli italiani dovrebbero essere superate. La crionconservazione degli ovociti, infatti, non pone problemi perché l'ovocita è una cellula e non ha in sé alcuna potenzialità, non può essere in nessun modo considerata una persona». Ma la ricerca biologica e clinica affidata al professor Flamigni non è priva di ostacoli: «Fino ad ora siamo riusciti a conservare gli ovociti congelati fino a 3 anni e mezzo afferma Flamigni adesso dovremo arrivare a 5 6 anni, il tempo necessario per considerare una persona guarita da una malattia tumorale. Secondo passaggio delicato: evitare qualsiasi danno nelle fasi di congelamento e scongelamento dell'ovocita». ___________________________________________________ La Nuova Sardegna 7 giu. ’01 SCLEROSI, IL RISCHIO DEI SARDI Nei giorni scorsi una tavola rotonda all'università sassarese È partita una ricerca scientifica sulla popolazione isolana Sassari. Ha fatto registrare un significativo momento di confronto e verifica l'incontro sugli aspetti genetici delle malattie neurologiche a carattere polifattoriale (sclerosi multipla e malattia di Alzheimer) svolto nell'Aula Magna della facoltà di Medicina e Chirurgia dell'università di Sassari. La conferenza, promossa dall'istituto di Clinica neurologica, diretto da Giulio Rosati ha visto il prezioso contributo di due dei ricercatori più affermati a livello mondiale nel settore delle malattie neurologiche, in particolare per quanto riguarda gli aspetti genetico-epidemiologici. Si tratta di Dessa Sadovnick, genetista presso l' università della British Columbia, a Vancouver, in Canada, e di George G. Ebers, docente di Neurologia a Oxford. L'azione del gruppo di ricerca dell'istituto di Clinica neurologica, diretto da Rosati, è indirizzata, in particolare, sull'individuazione degli elementi che rendono la popolazione sarda notevolmente suscettibile a una malattia come la sclerosi multipla. Per rendere più incisivo questo impegno, sono state stabilite collaborazioni con gruppi di ricerca nazionali e internazionali, rivolte a analizzare possibili fattori ambientali a rischio e fattori di suscettibilità genetica individuale che predispongono il soggetto a sviluppare la sclerosi multipla. "La collaborazione con la professoressa Sadovnick e con il professore Ebers - ha sottolineato Giulio Rosati - è stata statbilita in quest'ultima ottica, con il preciso obiettivo di quantificare il peso del fattore genetico nel determinare la malattia in una popolazione geneticamente peculiare come quella sarda. C'è stato un approccio basato sul calcolo del rischio di sclerosi multipla tra i familiari di soggetti affetti e sullo studio delle caratteristiche del loro genoma, per poter far luce su meccanismi patogenetici ancora oscuri e attuare in futuro misure di prevenzione attraverso un'appropriata consultazione genetica". Dessa Sadovnick e George G. Ebers forniscono, da circa tre anni, al gruppo di ricerca dell'Università di Sassari, le linee-guida necessarie allo svolgimento dell'ambizioso progetto attivato in Sardegna. Scambi di competenze, strumenti di ricerca (database, questionari) e la pianificazione di corsi e stage nelle università di Vancouver, Oxford e Sassari caratterizzano questa collaborazione. Una collaborazione che è giunta a una terza fase di un progetto con il quale sono stati prodotti dati significativi sul rischio di sclerosi multipla nei familiari di soggetti affetti su popolazioni europee e nordamericane a livello mondiale. Nella conferenza tenuta all' Aula Magna ci si è soffermati sui fattori genetici e su quelli ambientali. "Si tratta - ha sottolineato Giulio Rosati - di capire il peso di questi fattori. Ci si riferisce, prendendo come riferimento la pooolazione sarda, alle caratteristiche uniche della stessa popolazione. E' stata individuata un'alta incidenza di un malattia come la sclerosi multipla in Sardegna, in Scozia e in certe regioni del Canada. Per quanto riguarda la malattia di Alzheimer, il maggior rischio sul piano epidemiologico è quello di aver avuto un familiare di primo grado con la stessa patologia". Gli interventi, corroborati con l'esposizione di dati e tabelle, di Ebers e Sadovnick hanno poi dato la possibilità di sviluppare un approfondimento, attaverso osservazioni e domande. Le ipotesi di incidenza di fattori ambientali sono emerse da un quadro riguardante diverse zone di uno stesso continente. E' stato osservato come componenti di popolazioni che, in origine, non vedono un' alta incidenza della malattia, nel trasferirsi in altre zone del mondo acquistano una maggiore suscettibilità al morbo, con i rischi che caratterizzano la comunità che li ospita. La professoressa Sadovnicka ha comunque invitato alla cautela sull'analisi di questi dati. Ci sono state anche osservazioni legate all'esigenza di ridiscutere il rapporto tra il processo di invecchiamento e lo sviluppo della malattia. Sotto questo aspetto sono stati illustrati alcuni dati da ricerche e analisi sulla popolazione sarda. Marco Deligia