SULLE NUOVE LAUREE PARTITA APERTA "UNIVERSITÀ, GOVERNO SOSPENDA QUESTA RIFORMA" UNIVERSITA’:"SÌ ALLA COMPETIZIONE INDIETRO NON SI TORNA" UNIVERSITÀ TRA CAMBIAMENTO E SORDE RESISTENZE L'UNIVERSITÀ SOTTO ESAME ECCO DOVE SI STUDIA MEGLIO SCUOLA, L'ITALIA INVESTE POCO PER GLI ATENEI. LAUREATI, LA SINDROME DI PETER PAN IL “LION D’ORO” ALLO SCIENZIATO GIAN LUIGI GESSA CAGLIARI: DIECI ASSEGNI DI STUDIO PER FINANZIARE ATTIVITÀ DI RICERCA SASSARI: IN FACOLTÀ 140 TUTOR ==================================================== SIRCHIA: «MEDICI, NON IMPIEGATI: ELIMINERÒ LA RIFORMA BINDI» BINDI: SIRCHIA VUOLE SMANTELLARE LA SANITÀ PUBBLICA SIRCHIA: «SUBITO I PRIVATI NEL POLICLINICO» PRONTO SOCCORSO CON «FILTRO» DEI PAZIENTI BROTZU: LISTA D’ATTESA DI 4 ANNI IN CARDIOCHIRURGIA BROTZU: MARTELLI DENUNCIA 715 IN LISTA D’ATTESA IN CARDIOCHIRURGIA: BROTZU: 700 IN ATTESA – MELONI HA FIDUCIA NELL’ASSESSORE SASSARI: SUI TRAPIANTI ABBIAMO PROFESSIONALITÀ E ATTREZZATURE D’AVANGUARDIA POLICLINICO: CONVEGNO SULLA MAGNETO - ENCEFALOGRAFIA POLICLINICO: BROTZU: SOTTO CHIAVE SALE OPERATORIE GIOIELLO I FALCHI DEL POLICLINICO DI MONSERRATO ALGHERO: PACCHETTI VACANZA PER I DIALIZZATI, TUTTO ESAURITO QUATTROMILA VITTIME DELL’ICTUS NELL’ISOLA: AUMENTANO I RISCHI TROPPI OBESI, ARRIVA LA PILLOLA ANTIFAME ISOLATO IL GENE CASANOVA INQUINAMENTO ATMOSFERICO E ATTACCHI DI CUORE ==================================================== ____________________________________________________ Il Sole24Ore 14 giu. ’01 SULLE NUOVE LAUREE PARTITA APERTA di Alessandro Monti Varata con l’intento di ridurre la permanenza dei giovani all’università e anticiparne l’ingresso nel mondo del lavoro, la riforma degli ordinamenti didattici che ha introdotto in tutte le facoltà la laurea triennale obbligatoria si sta rivelando sempre più complessa e macchinosa. Il Governo di Centro- sinistra ha ignorato le riserve e perplessità di studenti, docenti, intellettuali e ordini professionali, che investono la filosofia della riforma e il suo impianto normativo e organizzativo e, scambiando per ostruzionismo gli inviti alla ragione, ha respinto le sollecitazioni a verificarne il grado di utilità, applicabilità e consenso. Numerosi sono gli aspetti controversi: abolizione dei corsi di diploma universitario professionalizzanti di durata biennale e triennale; soppressione delle tradizionali lauree quadriennali, tuttora esistenti in Europa e Usa, e loro compressione in lauree triennali o loro dilatazione in lauree quinquennali; abolizione delle scuole di specializzazione; numero chiuso e prove di ammissione ai corsi; maggiori vincoli ordinamentali e organizzativi alla didattica; ulteriori adempimenti amministrativi a carico degli atenei. La complessità delle procedure non ha ancora consentito l’approvazione ministeriale di alcun regolamento di ateneo, che autorizza il regolare avvio dei corsi. Ma già emergono incongruenze e complicazioni che rendono difficile il conseguimento degli obiettivi annunciati, e sempre più plausibili esiti peggiorativi rispetto all’assetto da sopprimere, che sta mostrando invece forti capacità di recupero della produttività del sistema. Vediamone alcuni. Moltiplicazione delle lauree e proliferazione dei corsi .Anziché alla riduzione delle tipologie dei corsi si assiste alla loro moltiplicazione: dalle attuali 81 lauree si passa a 170 classi di lauree. Prevalgono le lauree specialistiche (104), molte delle quali rispondono più a esigenze accademiche che formative, alcune in campi ancora privi di consolidato statuto epistemologico o di adeguate competenze di docenza e prospettive di lavoro. La possibilità riconosciuta agli atenei di inventare ulteriori corsi, rispetto alle già numerose tipologie ministeriali, si sta rivelando fonte di effetti perversi: proliferazione incontrollata di corsi( Lettere di Roma da 6 corsi ne propone 25, Scienze Politiche di Milano da 1 a 17), spesso con modeste variazioni nell’articolazione disciplinare e a risorse strutturali e di docenza invariate. L’inflazione delle lauree, poi, non solo disorienta gli studenti ma rischia di accentuare la svalutazione dei titoli. Macchinosità dei crediti formativi. Annunciati per favorire la mobilità degli studenti, ma inadeguatamente testati prima di decretarne l’obbligatorietà (in Gran Bretagna sono facoltativi), i crediti formativi rischiano di produrre più ostacoli che facilitazioni. La sperata automaticità del loro riconoscimento si scontra con la variabilità dei pesi attribuiti dalle facoltà a corsi di insegnamento di identica denominazione. Mentre per il riconoscimento dei crediti a corsi personalizzati e moduli ridotti si annunciano resistenze da parte di molti atenei. Ulteriori complicazioni discendono dall’obbligo di riformulare in termini di crediti formativi le carriere degli studenti già iscritti e i relativi piani di studio, pensati con un’altra logica. Occorrerà introdurre complesse procedure di calcolo, controllo burocratico e verifica accademica per le eventuali integrazioni e compensazioni didattiche. Minori libertà per gli studenti. Sono previste non solo limitazioni di accesso ai corsi, ma riduzioni nella libertà di scelta degli insegnamenti: prima il 15-20% del totale, ora appena 9 crediti su 180 (5%). Inoltre i piani di studio individuali, prima garantiti per legge, sono ora rimessi alla discrezionalità delle facoltà. Nel perverso intreccio tra l’invadenza del ministro, legislatore e controllore, e la difesa corporativa di interessi accademici, a perdere sono i futuri studenti, obbligati a scegliere tra una laurea triennale declassata e una laurea quinquennale che offre gli stessi sbocchi delle attuali lauree quadriennali, ma a costi assai più alti. Gli studenti già iscritti puntano a concludere gli studi secondo il sistema attuale, per non essere coinvolti nella macchinosità del nuovo modello, ritenuto meno qualificante e a esiti incerti sul piano delle prospettive lavorative. Appesantimenti burocratici versus qualità. La creazione delle "classi di lauree" (involucri normativi senza riferimenti a una specifica struttura organizzativa) pone in discussione il ruolo delle attuali facoltà. Si prospetta così una stagione di tensioni per il possibile sconvolgimento del delicato equilibrio di compiti tra facoltà (didattica ) e dipartimenti (ricerca). Rispetto alle 14 facoltà cui afferiscono le attuali 81 tipologie di corsi di laurea, le nuove 170 classi di lauree e il potenzialmente illimitato numero dei corsi attivabili dagli atenei provocheranno la moltiplicazione di strutture e organi collegiali (consigli di classe, di interclasse, di corso) e dei rispettivi regolamenti, con evidenti appesantimenti burocratici. Né vanno trascurati i riflessi che la polarizzazione della vita accademica su una laurea triennale massificata e scientificamente povera provocherà sull’attività di ricerca dei dipartimenti. Rischi di dequalificare i funzionari pubblici. Non debbono infine sottovalutarsi le implicazioni di una recente circolare dei ministri della Funzione pubblica e dell’Università, con la quale si stabilisce che, ai fini dell’accesso alle carriere direttive del pubblico impiego, le nuove lauree triennali siano equiparate alle attuali lauree quadriennali e quinquennali. Se applicata, la circolare farà sentire i suoi negativi effetti su professionalità e competenza dei futuri funzionari pubblici, anche ai più alti livelli: sarà richiesta una preparazione meno impegnativa di quella attuale, con sfavorevoli riflessi su efficienza e funzionalità dell’azione amministrativa. Sospendere la riforma? Rispetto all’insieme di questi non positivi segnali, e ad altri più volte segnalati, l’interrogativo che si pone è se sia opportuno dare corso a una riforma che rischia di incidere pesantemente sulla qualità dei processi formativi e sul grado di professionalità dei futuri laureati, e dunque sulle capacità stesse di sviluppo economico e civile. Per sospendere la riforma basta un semplice decreto ministeriale. Ma dovranno poi essere la comunità universitaria (non solo i suoi vertici) e il Parlamento a valutare le reali esigenze della formazione e della ricerca universitaria, prestando alla definizione di una coerente e condivisa politica d’intervento quella doverosa attenzione e trasparenza che sono mancate nella XIII legislatura. ____________________________________________________ Repubblica 16 giu. ’01 "UNIVERSITÀ, GOVERNO SOSPENDA QUESTA RIFORMA" Roma, l'appello di 120 docenti ROMA - La sospensione, almeno per un anno, della riforma universitaria, quella definita del 3+2, è stata chiesta al governo con un appello sottoscritto finora da oltre 120 docenti dell'ateneo La Sapienza di Roma, il più grande d'Italia. «La riforma - è scritto nel documento - promossa con legge delega, quindi senza alcun dibattito parlamentare e che deve essere attuata a partire dal prossimo anno accademico, così come è oggi articolata e definita, non appare adeguata alle esigenze della società». I docenti di varie facoltà, fra i quali Alvaro, Paratore, Magrì, Palagiano, Chimenti, Capaldo, Dolci, Erba, Campelli, Pio Marconi, Clemezia e Scelzo, hanno spiegato che la riforma non è in grado di far fronte alla sfida di trasformazione che viene non solo dalla società italiana ma anche dall'estero dove «la globalizzazione delle relazioni economiche e sociali è divenuta ormai irreversibile». «Una società tende ad essere colonizzata nella produzione e nella disponibilità delle sue risorse quando in essa - prosegue l'appello al governo - risulta debole lo sviluppo della ricerca e della produzione di quel sapere critico di cui l'Università è la sede di riferimento». I docenti della Sapienza si sono detti «convinti, che se attuata secondo i criteri e le modalità in atto, la riforma realizzerà nel paese un sistema più inefficiente di quello attuale». Secondo questi docenti le lauree brevi rappresentano un titolo di studio «dequalificato rispetto a quello attuale». ____________________________________________________ Repubblica 14 giu. ’01 UNIVERSITA’:"SÌ ALLA COMPETIZIONE INDIETRO NON SI TORNA" Parla Giuseppe De Rita, segretario generale del Censis MARIO REGGIO ROMA - Si avvicina il giorno della pubblicazione della seconda edizione della "Grande Guida all'Università", elaborata dal Censis per conto di "Repubblica". Lo scorso anno la valutazione dei sessanta atenei pubblici ha scosso l'intero ambiente accademico. Per la prima volta qualcuno dava il voto alle università, ne valutava l'indice di gradimento, i risultati didattici, l'organizzazione e la capacità di attrazione. Cosa succederà quest'anno? Abbiamo rivolto alcune domande a Giuseppe De Rita, segretario generale del Censis. L'anno scorso lei annunciò che molti atenei, grazie alla competizione, avrebbero accresciuto i loro livelli qualitativi. Ne è ancora convinto? «Non c'è dubbio, più competizione vuol dire più qualità e più mercato. Anche se non dobbiamo nasconderci le difficoltà: abbiamo un'università autoreferenziale. Rettori, presidi di facoltà e docenti sono poco disponibili a collocarsi in un'ottica competitiva e quindi a farsi valutare dall'esterno. Ma un dato, tra gli altri, ci dice che il mondo universitario è in movimento: quest'anno le risorse spese dagli atenei per farsi pubblicità sono cresciute di oltre il 50 per cento rispetto a quello precedente. Mica poco come indicatore della competizione in atto». Qual è il clima che si respira oggi nelle università? «La competizione è scattata ed ha scatenato un dinamismo infernale. È un punto dal quale non si torna indietro. E' partito infatti un meccanismo d'identità: l'università non è e non può essere uguale dappertutto, quindi ogni ateneo deve diversificarsi dall'altro proponendo opportunità formative specifiche ed originali. La controprova ci sarà quando, tra breve, presenteranno i programmi delle lauree triennali e di quelle specialistiche. Perché l'identità è il vero problema futuro dell'intera accademia, mentre da sempre essa ha lavorato per difendersi dal mondo esterno, rinchiudendosi in una identità comprensibile solo dall'interno». E gli studenti? «Più competizione e più identità sono un'arma in più nelle mani degli allievi e questa è una grande vittoria. Fino allo scorso anno la domanda degli studenti è stata sempre ignorata, ora il singolo studente comincia a giudicare l'università, a valutare i corsi di laurea, i docenti, gli sbocchi professionali. È una novità che sta spaccando in due il mondo accademico: una metà accetta la sfida e decide di navigare in mare aperto, l'altra metà s'arrocca sui privilegi del passato e annuncia: guai a chi mi tocca». Ma la valutazione è diretta conseguenza dell'autonomia. «Certo. È un meccanismo che il Censis sostiene da 15 anni. Per me Letizia Moratti dovrebbe fare una cosa seria: prima rompere gli equilibri interni della burocrazia e dei poteri forti che non vogliono il cambiamento e poi con determinazione coltivare la crescita della autonomia universitaria, affidandosi principalmente ai cittadini, cioè agli utenti della scuola e dell'università». Qual è il rapporto tra riforme e competitività? «C'è un fattore congiunturale: la riforma dell'università può frenare la competitività tra gli atenei per due o tre anni, perché saranno impegnati a ridisegnare il percorso degli studi. Ma la riforma, con l'istituzione della laurea triennale e specialistica, non si può bloccare, sarebbe un disastro. Il secondo è un fattore strutturale: il meccanismo dell'accreditamento da parte del ministero dei corsi di laurea progettati dagli atenei. Perché passi l'accreditamento occorrono risorse e strumenti, vale a dire sedie per gli studenti, sedi, biblioteche e docenti motivati. Ma le università devono stare molto attente: se offrono prodotti senza contenuti reali la manovra può diventare per loro un boomerang. Non basta la comunicazione per convincere gli studenti, dal momento che gli allievi hanno adesso gli strumenti per valutare cosa offre loro l'università». Le grandi università restano però un problema irrisolto. «Il problema è che i grandi atenei si sono trasformati in esamifici. Ma se li spacchi il meccanismo si spezza. L'antidoto è la gemmazione delle facoltà con docenti che lasciano la sede madre, rischiano e s'impegnano nel nuovo. Vedremo come, ad esempio, la Sapienza di Roma vorrà decongestionarsi costruendo dei poli d'eccellenza. Sono convinto che il problema s'affronta evitando il decentramento geografico: meglio 7 università a Roma che 10 nel Lazio». Sta nascendo un sistema del tutto nuovo: quello tra fondazioni e atenei. «L'università sembra abbia trovato oggi sul mercato nazionale ed europeo più di mille e seicento miliardi l'anno, il triplo di quanto il ministero destina al riequilibrio degli atenei svantaggiati. E quando ci sono tanti soldi che vengono dal mercato è evidente che le università devono adeguarsi tessendo rapporti con le fondazioni o creando consorzi». Con la valutazione e la riforma si studierà meglio? «Dipenderà dagli studenti. La riforma dà maggiore spazio alle decisioni dei singoli, ma li responsabilizza anche di più. Il problema è del corpo studentesco: solo il 20 per cento studia bene e lo farà anche meglio nel futuro. Gli altri galleggiano, hanno in realtà altri interessi, fanno di tanto in tanto qualche esame e così arrivano a 30 anni». Si arriverà alla valutazione diretta dei docenti? «Il processo è agli inizi ma è difficile fermarlo. Ci si arriverà quando diventeranno realtà i contratti quinquennali dei docenti, come accade in tutti i paesi evoluti». ____________________________________________________ L’Unità 11 giu. ’01 UNIVERSITÀ TRA CAMBIAMENTO E SORDE RESISTENZE Nicola Tranfaglia Della riforma universitaria non si è affatto parlato negli ultimi tre mesi, a dimostrazione dell'interesse assai scarso che le classi dirigenti italiane, in generale, continuano a nutrire per i problemi della formazione superiore e della ricerca. Ma i risultati elettorali del 13 maggio e l'avvento di un governo Berlusconi ora riaccendono la discussione sul destino del 3+2 e della riforma compiuta dai governi di centro-sinistra negli ultimi cinque anni. All'indomani del voto ci fu persino chi, nella coalizione di centro-destra parlò di bloccare la riforma non rendendosi conto del fatto che gli atti normativi erano già stati approvati e in via di attuazione e che l'intero sistema universitario si stava accingendo ad applicare la riforma: sicché il blocco avrebbe prodotto danni di sicuro maggiori di qualunque altra scena. Accortisi della gaffe, ora il centro-destra ha aggiustato il tiro e parla di correzioni e miglioramenti da apportare alla riforma ma non è dato di capire in quale direzione si muoverà il governo. In compenso si muovono gli intellettuali di complemento della coalizione vincitrice che già nell'ultimo biennio erano intervenuti più volte in difesa dello status quo o contro qualsiasi cambiamento. Tra loro si è sempre distinto, e torna all'attacco, Angelo Panebianco che alcuni mesi fa, insieme a Luciano Canfora, aveva lanciato un appello a fermare la riforma. Panebianco si è ora convertito all'idea di non bloccare la riforma dopo che tutte le persone ragionevoli che lavorano ,elle università gli hanno spiegato che era dannoso e impossibile ma insiste sulla necessità di svuotarla dall'interno: di abolire il 3+2 dove è possibile, di attivare solo il primo anno o solo i primi due, di boicottare dall'interno il meccanismo. Ora io trovo questo modo di ragionare discutibile e in definitiva poso serio. In altri termini, l'editorialista del Corriere dopo aver tentato per anni, insieme con Canfora, di fermare la riforma con una strategia di attacco ora punta alla guerra di posizione e vuol mandare allo sbaraglio decine di migliaia di studenti facendoli iscrivere a un nuovo ordinamento che si trasformerebbe durante il percorso secondo la discrezionalità degli atenei e dei docenti, e li farebbe trovare alla fine del percorso in una situazione diversa da quella iniziale. Un simile ragionamento è inaccettabile dal punto di vista politico ma anche da quello giuridico-istituzionale giacché una regola fondamentale del nostro ordinamento universitario stabilisce che lo studente ha il diritto di concludere il proprio percorso nell'ordinamento scelto all'atto dell'iscrizione. Nel momento in cui l'università si accinge a modificare i propri ordinamenti didattici all'interno di una riforma non nazionale ma europea e di un cammino legislativo e regolamentare che ha richiesto più di tre anni appare, a mio avviso, almeno singolare una proposta di modifica della medesima riforma compiuta attraverso piccoli espedienti destinati a ingannare gli studenti che si sono iscritti o che si iscriveranno nel prossimo anno al nuovo ordinamento. Forse Panebianco non sa che ben venticinque università nell'anno accademico 1999-2000 avevano iniziato la sperimentazione usando una clausola prevista dal regolamento sull'autonomia degli atenei e che dunque in quelle università ci sono migliaia di studenti che questo anno stanno frequentando il secondo anno del nuovo ordinamento e molti, passando dal vecchio, sono addirittura in procinto di conseguire la laurea triennale: è concepibile dire a questi studenti che l'università ha scherzato e che tutto torna come prima? Certo la riforma, occorre dirlo, va completata nella legislatura che si sta aprendo. Ci vuole quello stato giuridico dei docenti che il ministro Zecchino presentò alle Camere e che fu sonoramente bocciato anche per una serie di errori fatti dal ministro che ascoltò troppo le burocrazie ministeriali e alcuni vecchi giuristi che non conoscevano l'università. È ormai indilazionabile un provvedimento per la creazione di una terza fascia di docenti che accolga tutti quei ricercatori che insegnano da anni e che anche sul piano scientifico hanno i titoli necessari. (Nota SNUR CGIL: È molto positivo il drastico cambiamento di opinione del collega Tranfaglia, rispetto alle posizioni assunte un anno e mezzo fa a proposito della legge sulla terza fascia. Il che dimostra che tutti i convincimenti, anche i più radicati, sono suscettibili di revisione) Ma soprattutto è importante che il governo, se ha a cuore le sorti dell'Università, intervenga in modo adeguato sul finanziamento della riforma e sul potenziamento della ricerca universitaria: le riforme non si attuano senza risorse e la ricerca deve essere organizzata e potenziata. Questi sono due obiettivi complementari che vorremmo vedere nelle piattaforme di azione del governo come dell'opposizione. In questo senso non sono ottimista come Guido Martinotti che su Repubblica ha detto che ormai solo pochi estremisti sono contrari alla riforma all'interno delle università; in realtà esse non si realizzano gli obiettivi a cui ho accennato temo che le resistenze al cambiamenti possano crescere, piuttosto che diminuire, tra i professori come tra gli studenti dei nostri atenei. ____________________________________________________ Repubblica 14 giu. ’01 L'UNIVERSITÀ SOTTO ESAME ECCO DOVE SI STUDIA MEGLIO Da sabato su Repubblica la nuova classifica ROMA - Lo scorso anno, quando uscì la prima edizione della "Grande Guida all'Università", il mondo accademico fu scosso da un terremoto. Qualcuno, anche se con strumenti scientifici d'indagine, si era permesso di mettere il naso in un ambiente che per molti è ancora una torre d'avorio. E, apriti cielo, il duo CensisRepubblica aveva avuto l'ardire di mettere nero su bianco le classifiche dei 58 atenei statali. A un anno di distanza la scossa tellurica è stata metabolizzata e tra gli oltre 50.000 docenti universitari sono in pochi quelli che affermano pubblicamente di essere contrari alla valutazione delle facoltà. Ora la nuova edizione della Guida, dopo un imponente lavoro di raccolta ed elaborazione dei dati, è pronta per essere pubblicata. Lo farà "Repubblica" per cinque sabati successivi a partire dal prossimo, il 16 giugno. Cinque inserti di otto pagine ciascuno che racconteranno le università e le facoltà italiane cercando di rendere più facile la scelta degli studenti. Molte le novità. Intanto la ricerca comprenderà, oltre ai 58 atenei statali, anche le 12 università private. Il Censis le ha valutate soppesando didattica, produttività, ricerca, rapporti internazionali. Un importante capitolo del dossier è poi dedicato agli studenti, sia quelli che si apprestano a diventare matricole che coloro che hanno già intrapreso il non facile cammino verso la laurea. Quali sono i desideri di questi ultimi? In primo luogo chiedono che la facoltà abbia rapporti con atenei stranieri, corsi meno affollati, più seminari, esami scaglionati, docenti che siano puntuali alle lezioni e dimostrino maggiore disponibilità. Non vogliono la luna. Pretendono quello che normalmente accade nelle università francesi o tedesche. Sarà così anche per chi farà la maturità tra pochi giorni e poi s'iscriverà all'anno accademico 20012002? La domanda riguarda centinaia di migliaia di giovani: quasi la metà dei 440 mila maturandi si sono già detti sicuri di voler continuare gli studi. A settembre scatta la riforma dell'Università. Gli obiettivi: aumentare drasticamente il numero degli studenti che terminano i corsi; ridurne la durata per consentire un più veloce ingresso nel mondo del lavoro; favorire la ricerca, avvicinare l'Italia al modello europeo. E con l'autonomia degli atenei, che ora possono autogestire la didattica e la ricerca, non poteva non scattare anche il principio della competitività. Così finanziamenti pubblici e privati per la ricerca, i fondi statali per il funzionamento degli atenei, il reclutamento dei professori, dipenderanno sempre di più dai risultati che le università sapranno raggiungere. Quelle che laureano il maggior numero di studenti e che primeggiano nella ricerca potranno disporre di più fondi. Quelle mediocri rischieranno di essere ridimensionate. A guidare questa storica trasformazione saranno gli oltre 450 presidi di facoltà che organizzano oltre duemila corsi di laurea e di diploma. Ormai convinti che d'ora in avanti gli atenei italiani saranno valutati e giudicati: non solo dal governo che deve scegliere come destinare i fondi, ma anche da studenti, famiglie, e imprese. ____________________________________________________ Repubblica 14 giu. ’01 SCUOLA, L'ITALIA INVESTE POCO PER GLI ATENEI. I dati in un rapporto Ocse Nonostante i passi avanti compiuti, l'Italia continua a spendere per la scuola meno degli altri Paesi dell'Ocse. Secondo un rapporto pubblicato a Parigi, che si riferisce agli anni 1996-1998, con il 5% del reddito nazionale investito nelle istituzioni scolastiche, l'Italia rimane al di sotto della media dei Paesi industrializzati (5,7%). Anche la percentuale nel bilancio pubblico della spesa per l'istruzione, che è del 10%, è inferiore alla media degli altri Paesi membri dell'organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica che è del 12,9%. L'Italia però, si sottolinea nello studio, ha fatto molti progressi perché ha portato questa percentuale dall'8,7% del 1995 al 10% del 1998. Grazie agli investimenti nel settore pubblico (+11%) e quelli nel privato, l'Italia è passata dal 4,6% del Pil al 5%, salendo dal penultimo posto nella classifica del 1995 al quattordicesimo nel 1998. In Italia si spende molto per le scuole elementari e le medio-superiori, mentre a livello universitario la spesa è nettamente inferiore alla media. Nonostante l'alto livello della spesa nei primi due cicli, gli stipendi degli insegnanti sono inferiori alla media soprattutto a causa della percentuale insegnanti/studenti che è tra le più alte della media Ocse. Il rapporto sottolinea anche come l'età media degli insegnanti in Italia sia molto alta, nella scuola secondaria circa il 40 per cento degli insegnanti ha 50 e più anni. Dati non brillanti anche sul fronte dell'accesso all'istruzione: secondo lo studio, l'Italia è solo davanti a Grecia, Repubblica Ceca, Messico e Turchia per quanto riguarda le aspettative di scolarità di un bambino di 5 anni. ____________________________________________________ Il Sole24Ore 16 giu. ’01 LAUREATI, LA SINDROME DI PETER PAN di Rosanna Santonocito Si laureano sempre più tardi: in media, in Italia si diventa dottori a 28 anni con una permanenza di sette anni nelle aule universitarie e con una tendenza generalizzata al fuori corso. A finire nei tempi stabiliti riesce solo il 9% degli studenti e il 24,5% addirittura "sfora" fino al quinto anno extra. Oltre a questo ritratto tutto sommato prevedibile, il profilo del laureato del Duemila, presentato ieri da Almalaurea all’Università di Parma, fornisce anche qualche dato inatteso e materiale di riflessione organizzativa per il mondo accademico. La ricerca scandaglia vita, esperienze e ambizioni di 46mila neo-dottori di 19 tra i maggiori atenei italiani, pari a un terzo del totale di coloro che hanno finito gli studi l’anno scorso. Tanti anni passati sui libri, per esempio, non tolgono la voglia di studiare: il 63% dei laureati vorrebbe continuare in qualche modo a formarsi. Il 5,6% è pronto ad affrontare un dottorato di ricerca: strada impegnativa che allontana le probabilità di entrata veloce sul mercato del lavoro, come ha notato l’economista Renata Livraghi, docente a Parma. A vederla in negativo, invece, l’ansia di formazione è l’effetto della «sindrome di Peter Pan» così diffusa tra i giovani nostrani. Ne è convinto il neo- presidente dell’Istat Luigi Biggeri, che ha contemporamente sottolineato anche l’aumento dei profili ad alto contenuto di specializzazione, tendenza che va di pari passo con la terziarizzazione in atto nel mercato del lavoro. Tanto è vero che Federico Barilli, direttore di Assinform, ha anticipato a Parma una nuova iniziativa di catalogazione di 42 profili emergenti nel settore hi-tech disponibile tra un mese sul sito dell’associazione delle imprese informatiche. Bisogna poi immaginare il laureato come una creatura a tre teste: il 13% dei neodottori ha lavorato stabilmente durante gli anni di studio, il 37%, per contro, ha concluso i propri studi privo di una qualsiasi esperienza lavorativa anche occasionale (nel 1998 erano il 42%). Il resto ha alternato studio e lavoro. «Questo significa — commenta il direttore di Almalaurea, Andrea Cammelli — che l’università costituisce il punto di riferimento di una utenza variegata, con interessi e motivazioni diverse, con progetti di vita e di studio finalizzati secondo parametri, possibilità e strategie anche nettamente differenziate». Le tre tipologie vanno esaminate distinguendole a seconda del corso di studio prescelto, del genere, del tempo impiegato per portare a termine gli studi «per essere in grado — continua Cammelli — di proporre percorsi formativi differenziati e innovativi». Non si tratta di fare classifiche tra laureati "buoni" e "cattivi": secondo il sociologo Antonio Chiesi le aziende tendono infatti a inserire preferibilmente chi ha già fatto epserienze di lavoro. Curriculum universitari bilanciati che tengano conto degli utenti e non delle esigenze dell’"accademia" è la soluzione proposta dal rettore di Parma Gino Ferretti. La banca dati Almalaurea, come ha spiegato Fabio Roversi Monaco presidente del consorzio che le dà vita, è un archivio in progress che racchiude 172mila nominativi (ogni profilo declinato in una trentina di informazioni). È consultabile a pagamento dalle aziende in cerca di personale e disponibile gratuitamente su Internet (il sito è www.almalaurea.it) per chiunque voglia invece ricavare un quadro generale di riferimento del sistema universitario o cerchi notizie sui singoli atenei aderenti al progetto. Gli altri dati presenti nella radiografia del capitale umano rappresentato dai laureati 2000 vedono le donne superare la quota del 56% fra i neodottori, con i maschi fermi a dodici lunghezze di distanza. Tra gli ingegneri, però, le ragazze restano ancora il 16% anche se risultano in aumento. Tre quarti dei laureati (73,5%) vengono da famiglie in cui il titolo di studio universitario entra per la prima volta. Solo 9 neodottori su cento hanno entrambi i genitori laureati ma si supera il 20% fra i medici. Il 55% dei neolaureati dice di aver frequentato regolarmente tutte (o quasi) le lezioni. In una scala di valori fra zero e cento, l’esperienza universitaria appena conclusa viene valutata moderatamente sufficiente dal complesso dei giovani: il voto assegnato è 66. Gli stage sono entrati nel bagaglio formativo di 15 laureati su cento, e qui siamo in leggero aumento rispetto al 1999. Resta stabile, invece, il dato — poco tranquillizzante in tempi di globalizzazione — dell’83% dei laureati privi di qualsiasi esperienza di studio all’estero. ____________________________________________________ L’Unione Sarda 15 giu. ’01 IL “LION D’ORO” ALLO SCIENZIATO GIAN LUIGI GESSA Il leone d’oro, ogni due anni, va ad arricchire il palmares di chi, con la sua opera e il suo impegno nel mondo culturale, scientifico e politico, ha onorato la città di Cagliari nel mondo. Con questa motivazione il leone d’oro è andato ieri mattina a Gian Luigi Gessa, scienziato di fama mondiale, direttore del dipartimento di Neuroscienze dell’Università. Il premio, organizzato dal Lions Club, ha riunito nella sala consiliare di Palazzo Regio (nella foto di Luca Tronci) politici e autorità religiose. E per Gessa è stato l’ultimo - in ordine di tempo - dei riconoscimenti delle sue ricerche. L’altro, importissimo, quello che lo scorso febbraio il ministero dell’Università ha attribuito al farmacologo e al suo staff, inserendo il progetto di studio di “Neurobiologia della dipendenza” (coordinato dal professor Gianluigi Gessa, del quale fanno parte i professori Gaetano Di Chiara, Giovanni Biggio, Maria Del Zompo, Walter Fratta, Antonio Argiolas e Micaela Morelli) tra i 23 centri di eccellenza riconosciuti a lievello nazionale. Ieri mattina, nella sala di Palazzo Regio, Gian Luigi Gessa ha ricevuto il premio dalle mani del presidente della Giunta regionale Mario Floris, che ha ricordato i punti più salienti della ricerca e degli studi dello scienziato. Dal 1964, anno della docenza in Farmacologia, alla commissione “Ecstasy e derivati anfetaminici” del Ministero della Sanità, che si è riunita quest’anno. E ancora le 850 pubblicazioni, le cinque onorificenze, la fondazione della rivista “Medicina delle tossicodipendenze”. Linee di ricerca del lavoro di Gessa sono la neurobiologia dei disturbi dell’umore, della dipendenza da alcool e sostanze di abuso, del comportamento sessuale maschile. ____________________________________________________ L’Unione Sarda 13 giu. ’01 CAGLIARI: DIECI ASSEGNI DI STUDIO PER FINANZIARE ATTIVITÀ DI RICERCA L’Università ha bandito una selezione per dieci assegni di studio di ricerca. All’albo del Rettorato, in via Università 40, è affisso il bando con tutti i termini della selezione, riservata a giovani che abbiano maturato un’esperienza di ricerca in altri atenei, sia in Italia che all’estero. L’attività di ricerca, che verrà finanziata con il conferimento dei dieci assegni di studio, dovrà essere portata avanti nelle strutture dell’Università di Cagliari. Le domande per la selezione (progetto, titoli e colloquio) dovranno essere presentate entro il 28 giugno. Copia del bando è a disposizione in Rettorato (Settore concorsi e assunzioni, tel. 070/6752349). ____________________________________________________ L’Unione Sarda 15 giu. ’01 SASSARI: IN FACOLTÀ 140 TUTOR Erano partiti in sordina, anche con scarso successo in verità, forse a causa dell’interlocutore, un professore della stessa università che finiva per mettere in soggezione la matricola. Poi qualcuno ha avuto una folgorazione, decidendo di affidare l’incarico di tutor (praticamente un angelo custode delle matricole) ai compagni di università in dirittura d’arrivo. È stato un successone, che ha convinto l’ateneo sassarese a riproporre questa nuova figura per il prossimo anno accademico. Partendo, rispetto al passato, per tempo: saranno 140 i tutor che accompagneranno i debuttanti attraverso le prime difficoltà. Insegneranno loro a orientarsi nei vari corsi di laurea con consigli pratici sui testi da preparare, favorendo un inserimento altrimenti molto più difficoltoso. Dopo la prima sperimentazione, partita dalla facoltà di scienze politiche, quest’anno, l’idea del tutore si è estesa ad altri dieci corsi di laurea. Le domande per la selezione dovranno essere presentate entro e non oltre il 10 luglio. Potranno partecipare gli studenti iscritti all’ultimo anno di corso e che non abbiano superato il secondo fuori corso. L’attività sarà seguita passo passo dal responsabile di iniziativa e infine sottoposta a una valutazione da parte del comitato tecnico scientifico di ogni facoltà. Il ruolo richiede impegno e passione necessari per arrivare al traguardo finale: l’inserimento senza« problemi del nuovo studente, per dire addio alla decimazione delle iscrizioni già a partire dal secondo anno. Per il tutore è previsto un riconoscimento economico di un milione e 400 mila lire. ==================================================== ____________________________________________________ Il Corriere della Sera 11 giu. ’01 SIRCHIA: «MEDICI, NON IMPIEGATI: ELIMINERÒ LA RIFORMA BINDI» Sirchia: riparare i guasti di una visione da Soviet. La pillola del giorno dopo? Si può discutere Vecchi Gian Guido «Medici, non impiegati: eliminerò la riforma Bindi» Sirchia: riparare i guasti di una visione da Soviet. La pillola del giorno dopo? Si può discutere MILANO - Qualche mese fa il Policlinico avrebbe voluto mandarlo in pensione, ora se lo ritroverà min istro della Sanità. «La vita riserva sempre delle sorprese», sorride Girolamo Sirchia nella sua casa in corso di Porta Romana, giusto dietro l' università e l' Ospedale Maggiore («casa e bottega») dove si è affermato come il padre italiano dell' immu nologia dei trapianti. Sessantasette anni, una foto con Karol Wojtyla sul tavolo del salotto e due libri guida: «Dirigere e governate» di Osborne e Gaebler, guru dell' amministrazione Clinton («Democratici? Ma in America è diverso...») e i Discorsi s opra la prima deca di Tito Livio di Niccolò Machiavelli: la forza e il senso delle leggi e dello Stato. Professor Sirchia, a proposito di leggi: e la riforma Bindi? «Non sono animato da spirito di vendetta, ma bisogna ripararne i guasti di una vision e da Soviet. Perché i medici sono professionisti e, invece, la riforma li ha ridotti a impiegati dello Stato. Infelici, mortificati da vincoli vessatori e iniqui che li costringono ad avere un rapporto esclusivo con l' ospedale. Tutta la faccenda del l' intramoenia obbligatoria, per dire, mette i pazienti in situazioni infami: "Se vieni qui come assistito non pagante aspetti tre mesi, sennò ti opero domani". No, tutto questo va eliminato. Il medico deve tornare a essere un professionista l ibero di decidere». Veronesi ha detto: non potevo augurarmi miglior successore... «L' ho avvertito: non pensare d' aver finito di lavorare! In qualche forma, gli chiederò di collaborare al lavoro del ministero». Cosa cambierà? «Mah, è stato un ottimo ministro. Nel rispetto del programma e, fermo restando che la guida ultima è del presidente Berlusconi, direi ci sono cose che proseguirò nella linea di Veronesi, apprezzabili e intelligenti. Altre, invece, non le ho condivise, e lo sa: lui ha una v isione estremamente laica della vita, io più cattolica. Naturale che su alcuni temi, tipo l' eutanasia, non ci sia sintonia». Proviamo: anche lei manifesterebbe con i Nobel a difesa della ricerca sugli organismi geneticamente modificati? «Certo. L' o scurantismo è sempre perdente. E la ricerca è un campo strategico della nazione, specie in campo medico. Non ha limiti. Semmai lo hanno le applicazioni». E la ricerca sugli embrioni umani? «Ecco, qui è diverso. Sono fra coloro che non hanno condiviso la linea di Veronesi e del suo gruppo. Del resto, la scienza ci ha sopravanzati, visto che è possibile ottenere la stessa cosa con cellule staminali adulte: le cellule embrionali non sono insostituibili. Esistono princìpi che l' uomo non può e non d eve violare e, uno di questi, è il rispetto della vita: nessuno al mondo ha il diritto di toglierla a chicchessia. Questione di etica umana, non di religione». Che ne dice della pillola del giorno dopo? «Diciamo che da ministro dello Stato, e non del la Chiesa, non sarei alieno dal considerarla. Mentre su alcune questioni sono irremovibile, tipo embrioni o eutanasia, su queste cose si può discutere. Comunque, evitiamo sempre le guerre di religione: sugli embrioni l' Italia si è spaccata, ed è per icoloso». Come assessore ai Servizi sociali di Milano, lei lanciò i contributi alle mamme indigenti che rinunciavano ad abortire. È vero che il governo rivedrà la 194? «Io sono contro l' aborto, ma bisogna distinguere la posizione personale da quella di governo. Direi che la 194 va piuttosto applicata. Bisogna ricondurla alla sua funzione originaria: far sì che una donna, ferma restando la sua libertà di scelta, non fosse costretta ad abortire per il disagio sociale ed economico. Non c' è solo l ' aborto, nella legge. C' è il sostegno alla donna per evitare che l' aborto sia una scelta obbligata». È giusto insistere sulla necessità del preservativo contro l' Aids? «Sì. Capisco la posizione della Chiesa, ma come scienziato e uomo di governo h o il dovere di dire che la profilassi è giusta». Altro fronte aperto da Veronesi: la liberalizzazione delle droghe leggere? «Neanche a parlarne, per carità, è dimostrato che aumenta il consumo. Piuttosto, c' è bisogno di una forte comunicazione istit uzionale per la prevenzione i danni da eccesso alimentare, fumo, alcool e droga. Come Comune di Milano, abbiamo creato un centro di comunicazione sulla droga che potrebbe essere esteso a tutta Italia». E la devolution? «Per prima cosa andrebbe fatta quella dei contratti di lavoro. Riservare una grossa fetta alla contrattazione aziendale, ospedale per ospedale. Perché questo significa metterli in condizione di acquisire i cervelli migliori, competere davvero per la qualità e l' eccellenza. Ora no n riusciamo più a creare le grandi scuole di medicina». La prima cosa che farà da ministro? «Affrontare il buco di spesa e cercare di colmarlo senza traumi, senza uccidere la qualità né i servizi. Mica è possibile buttare via il sistema sanitario naz ionale, non se ne parla neanche, altrimenti regredisce tutto il Paese. Si tratta di correggerlo, eliminare sprechi e doppioni: a Milano, per dire, ci sono quattro centri di trapianto del fegato, ma si può?». Gian Guido Vecchi «Bisogna mantener e un rapporto ragionevole tra il numero degli studenti e il numero dei posti/università effettivamente disponibile LA SANITA' GLI OBIETTIVI 1 Deve essere conservata l' obbligatorietà del Servizio sanitario nazionale? «Il Servizio sanitario nazionale è un patrimonio da conservare ma da migliorare. Deve cambiare il ruolo dello Stato: non uno Stato-padrone che tutto sceglie, ma uno Stato-servizio che fissa e controlla le regole» 2 La riforma sanitaria voluta da Rosy Bindi deve andare avanti? «La riforma Bindi è già fallita: deve in ogni caso essere corretta per quella parte di accanito e ingiusto statalismo» 3 Condividete l' abolizione dei ticket sanitari? «L' abolizione ha creato un deficit grave. I ticket erano iniqui perché colpivano tutti indiscriminatamente, ma bisogna comunque inserire degli elementi di responsabilizzazione che garantiscano l' accesso ai farmaci e alle cure chiedendo compartecipazioni a seconda del reddito» 4 Qual è il giudizio della Casa delle libertà sulla legge sui trapianti? «Questa legge è il miglior equilibrio nel rispetto delle diverse sensibilità e condizioni: deve essere resa operativa al più presto ma, per diventare efficace, deve essere supportata da un' adeguata informazione ai cittadini» ____________________________________________________ Il Corriere della Sera 11 giu. ’01 BINDI CONTRO SIRCHIA: VUOLE SMANTELLARE LA SANITÀ PUBBLICA Bindi contro Sirchia: vuole smantellare la sanità pubblica «Sono sconcertata dalla disinvoltura del neoministro che anticipa i suoi programmi prima ancora di giurare e prima che esista il presupposto per diventare ministro», reagisce Rosy Bindi di fr onte alle dichiarazioni del professor Girolamo Sirchia che ha definito la sua Riforma da Soviet, ha strizzato l' occhio alla devolution contrattuale in sanità e alla via lombarda alla privatizzazione. «Si va verso lo smantellamento dell' Ssn», si dic e certa l' onorevole Bindi che si ripromette, dopo un anno di silenzio, di fare opposizione nella Commissione affari sociali della Camera: «La mia riforma aveva ed ha l' obiettivo di investire al massimo sulla professionalità dei medici, non è metodo per ridurli ad impiegati - ribatte - ma il contrario: si è voluto fare dell' ospedale il luogo dove possano esprimersi al meglio senza andare altrove. E questo concetto l' hanno capito e condiviso oltre l' 80 per cento dei medici scegliendo il rappo rto esclusivo con l' ospedale». E ancora: «Non c' è imprenditore privato che non preveda l' esclusività. Non vedo per quale motivo l' Ssn dovrebbe comportarsi diversamente». Negli intenti di Sirchia, la Bindi vede una contraddizione: «Chi afferma di voler salvare il sistema pubblico e poi introduce il modello lombardo di privatizzazione che prevede due velocità: la sanità per chi può pagare e chi no. Tipico del centrodestra». E sulla devolution per i contratti della sanità, che verrebbero presi in carico dalle Regioni: «In parte non serve perché già oggi le aziende hanno l' autonomia di scegliere i dirigenti medici. La presenza di una sede nazionale è a tutela dei professionisti». ____________________________________________________ Il Corriere della Sera 10 giu. ’01 SIRCHIA: «SUBITO I PRIVATI NEL POLICLINICO» Il professor Sirchia: va bene la Fondazione ma ci vogliono progetti e uomini giusti Cremonese Antonella «Subito i privati nel Policlinico» Il professor Sirchia: va bene la Fondazione ma ci vogliono progetti e uomini giusti Nel 1998 aveva dichiarato che il Policlinico era «gestito come un commissariato di polizia». E si era detto assolutamente d' accord o con la soluzione lanciata dal sindaco Gabriele Albertini: Fondazione. Ora che la Fondazione è arrivata, il professor Girolamo Sirchia guarda con interesse al futuro di quello che in altri tempi era considerato come «il miglior ospedale d' Europa» e che potrebbe tornare ad esserlo entro pochi anni. Dice: «Siamo finalmente usciti da una situazione di stallo che ho denunciato per anni e anni. Non si può gestire un ospedale come il Policlinico, che è anche un importantissimo Istituto di ricerca, c on i mille vincoli della burocrazia.» D' accordo con la Fondazione, dunque. Ma con qualche "distinguo". Perché forse, a giudizio di Sirchia, che al Policlinico ci lavora da quarant' anni (vi è entrato ancora studente di Medicina), la burocrazia non è stata definitivamente allontanata dal futuro: «La Fondazione alla quale pensavo, e per la quale avevo già individuato uno statuto e un progetto preciso, era più agile. Perché questa è una Fondazione di diritto pubblico, e quella era di diritto priva to. Come Fondazione di diritto pubblico, avrà più vincoli, e quindi anche più ostacoli sulla strada del "fare". Invece una Fondazione di diritto privato sarebbe stata senz' altro più agile, con la possibilità di semplificare molto le procedure (penso per esempio a tutto il capitolo dell' affidamento dei lavori di costruzione per un complesso tanto importante, che muterà la faccia a una grande zona del pieno centro cittadino) e inoltre avrebbe dato più spazio alla società civile. Sirchia i nvita a rileggere i libri dello storico del Policlinico, Giorgio Rumi. «Nel Settecento, la Ca' Granda (questo era allora il nome dell' ospedale) era veramente il cuore pulsante della città e della società civile. Non era gestito da qualcun altro "per conto" della città, ma era tutt' uno con essa, apparteneva ai milanesi. Se ne interessava e la sosteneva concretamente la classe dirigente dell' epoca, che ci ha tramandato i nomi e i volti di chi ha fatto grande un' istituzione che veniva vissuta c ome vitale per Milano. Poi il tempo ha macinato le cose e si è perso questo senso di appartenenza. La Fondazione di diritto privato avrebbe probabilmente aperto maggiori spazi alla società civile.» Ora, secondo Sirchia, «molto dipenderà dagli uomini che saranno chiamati a portare a buon fine questo progetto. Se saranno capaci, gli ostacoli saranno superati e il progetto decollerà. Se invece la scelta degli uomini fosse sbagliata, temo assai che ci ritroveremmo a piangere sul Policlinico.» Il Pol iclinico come pozzo senza fondo che assorbe risorse senza mai uscire dalla crisi è stato negli anni la crocifissione di tutti i responsabili che si sono susseguiti alla guida dell' ospedale. Con un' idea che è ritornata periodicamente come l' unica s oluzione percorribile: rifarlo nuovo. Sirchia, che è stato vicecommissario con Marco Vitale e che ha messo mano a una buona parte delle impalcature tecniche e giuridiche ora confluite nel progetto definitivo, non nasconde di temere soprattutto «il te mpo che macina». Che sfarina i grandi progetti e lascia andare avanti la routine: «Adesso, tanto per dirne una, si sta registrando un' involuzione. Si stanno facendo morire di morte lenta i dipartimenti, e si stanno ripristinando i vecchi primariati. E' il ritorno dei Baroni.» E allora, occorre far presto per battere il riflusso. Un "presto" non facilissimo. Esemplifica Sirchia: «La Fondazione vede la fusione del Policlinico e degli Istituti Clinici di Perfezionamento. Però il primo dipende dal Ministero della Sanità, il secondo dalla Regione.» Ultimo punto ma non come importanza, la partecipazione dei privati. Sirchia lancia una provocazione-preoccupazione: «Ma arriveranno davvero, questi privati? Come assessore comunale alle politiche soc iali, ho avuto una brutta esperienza: ho lanciato un project financing per una Residenza sanitaria assistita, e si è presentato un solo imprenditore» Antonella Cremonese acremonese@corriere.it Testo non disponibile «Fondazione Policlinico: ci vuole un tavolo di con fronto al quale partecipi anche il sindaco Albertini» ha detto Antonio Panzeri, segretario della Camera del lavoro. «Ci devono spiegare il destino dei posti di lavoro» Testo non disponibile «Milano guarda all' Europa, e il Nuovo Policlinico costituito in Fondazione ci darà cure di livello europeo». Parole di Carlo Borsani, assessore regionale alla Sanità e ideatore del progetto di ricostruzione. Testo non disponibile «Un ospedale dove la ricerca arriva direttamente al letto del paziente». Parole di Umberto Veronesi, che vede nella Fondazione la via per dare a Milano un "ospedale del futuro" in linea col progetto Piano ___________________________________________________ Il Sole24Ore 11 giu. ’01 PRONTO SOCCORSO CON «FILTRO» DEI PAZIENTI All’approvazione della conferenza Stato-Regioni i criteri che le amministrazioni locali devono seguire per le strutture di emergenza Paese che vai, servizi di pronto soccorso che trovi. Eppure, tanta difformità di approccio e di mezzi non dovrebbe esserci in Italia, visto che già dal 1996, nel nostro Paese esistono le «Linee-guida sul sistema di emergenza sanitaria», emanate in applicazione del Dpr del 27 marzo 1992 relativo all’atto di indirizzo e coordinamento alle Regioni per la determinazione dei livelli di assistenza sanitaria di emergenza. Per dare finalmente applicazione concreta a quella normativa, la Conferenza Stato-Regioni sta per approvare un documento mirato di cui forniamo alcune anticipazioni. I criteri e gli indirizzi generali forniti dal ministero della Sanità alle Regioni e alle Province autonome puntano soprattutto su quattro aspetti: triage intraospedaliero (valutazione: si veda oltre) per gli utenti che accedono direttamente al pronto soccorso: formazione, aggiornamento e addestramento permanente del personale operante nel sistema dell’emergenza sanitaria; realizzazione di unità spinali e centri traumi nelle mielo- cerebrolesioni (si veda l’articolo qui sotto); chirurgia della mano. Triage. È la punta di diamante del riassetto dei servizi di emergenza. Dal francese «trier» (scegliere, selezionare) questo strumento organizzativo, “disegnato” già dall’atto d’intesa Stato-Regioni del 1996 prevede la valutazione e la selezione immediata degli utenti che si rivolgono al pronto soccorso da parte di infermieri appositamente formati. La "chiave" sta nell’assegnazione di un «codice di gravità» tradotto in colori: rosso, per i pazienti con funzioni vitali compromesse che necessitano di interventi immediati; giallo, per chi ha bisogno di accedere con urgenza alle sale visita; verde, per gli utenti affetti da forme morbose lievi; bianco, per chi non versa in condizioni critiche (e anche per si rivolge impropriamente al pronto soccorso). Il triage si è affacciato in varie strutture sanitarie del Paese, con maggiore o minore fortuna. Ma comunque con poca incisività, se le nuove linee guida si pongono come obiettivo quello di «affrontare specificamente la funzione di triage a livello ospedaliero e in particolare nelle strutture complesse di pronto soccorso». Come dire che la «valutazione e selezione immediata usata per assegnare il grado di priorità per il trattamento quando si è in presenza di molti pazienti» deve diventare la regola, e non l’eccezione, nei reparti di emergenza e urgenza. Soprattutto, il triage va applicato secondo criteri il più possibile omogenei in tutte le strutture del Ssn. In primo luogo, correlandolo al numero di accessi: è obbligatorio nei presidi con oltre 25mila richieste, così come in quelli che si trovano ad affrontare flussi particolarmente elevati in occasioni particolari (turismo stagionale, fiere, manifestazioni). In secondo luogo, va definita la formazione degli infermieri professionali incaricati di «trier». In terzo luogo, occorre applicare con rigore i «codici colore», anche nella fase extraospedaliera, quando diverse figure (anche soccorritori, volontari e medici rianimatori) si trovano a fronteggiare situazioni di emergenza sul territorio. Formazione del personale. Le linee guida in via di approvazione si propongono soprattutto di creare un sistema di formazione e di aggiornamento permanente che faciliti la creazione di un linguaggio comune tra tutti gli operatori che a diverso titolo sono coinvolti nella gestione del sistema dell’emergenza: medici dipendenti del Ssn e convenzionati, infermieri, soccorritori, volontari, personale amministrativo. Il tutto, ovviamente, nel rispetto delle specifiche competenze. Il documento traccia percorsi di aggiornamento ad hoc per ciascuna figura professionale. Chirurgia della mano. Scarsi e maldistribuiti i centri specialistici attivi in Italia: secondo la fotografia presentata nelle nuove linee guida (che risale al 1998) le strutture complesse di II livello previste dall’intesa Stato-Regioni del 1996 (per le prestazioni legate al trattamento di lesioni gravi) sono appena 21, di cui ben 15 al Centro-Nord. Di qui la necessità di potenziarle e di istituirne di nuove «al fine di garantire una copertura omogenea sul territorio». Obiettivo: creare una rete integrata per gestire le emergenze, coordinando il livello clinico con quello organizzativo. Chiara Bannella Manuela Perrone ____________________________________________________ L’Unione Sarda 16 giu. ’01 BROTZU: LISTA D’ATTESA DI 4 ANNI IN CARDIOCHIRURGIA La lunga lista d’attesa in cardiochirurgia: buone novità dopo la denuncia de “L’Unione Sarda” «Mi hanno chiamato dopo quattro anni» Francesco aspetta un intervento al cuore per un problema all’aorta Francesco ha diciannove anni. Una lunga vita davanti e una brutta storia da raccontare. Nato in un paese della provincia di Oristano, quello di Francesco è uno dei 715 nomi in lista d’attesa per un intervento al cuore all’ospedale Brotzu. Qualcosa si muove, dopo la denuncia dell’Unione Sarda. «Mi hanno chiamato dall’ospedale: aspettavo da quattro anni. Pensavo si fossero dimenticati di me». «Coartazione aortica», racconta Francesco con la serenità di chi ha imparato a convivere con il suo male e a parlare il linguaggio dei dottori. «E pensare che doveva essere solo un soffio al cuore». «Giocavo al calcio. Ero il libero della squadra del mio paese, campionato provinciale esordienti. Mica un libero come gli altri», aggiunge con il sorriso di quei giorni di bambino e con un pizzico di orgoglio. «Ho fatto sei partite con la rappresentativa. Ho giocato anche con i ragazzi della mia età che indossavano la maglietta rossoblù, la maglietta del Cagliari». «Tutto è iniziato il giorno della visita medica. Il campionato non era ancora iniziato. I dirigenti ci avevano chiesto il certificato, quello per l’idoneità sportiva. Siamo andati un po’ tutti a farlo, io e i miei compagni. Loro sono stati più fortunati. Un soffio al cuore, hai soltanto un soffio al cuore, mi aveva detto il cardiologo. Io non mi ero preoccupato. A dodici anni hai tanti pensieri per la testa, figurarsi il pensiero della salute. Comunque, nonostante parlassero di un soffio al cuore, di lì a poco mi ricoverarono in ospedale. Oristano, Madonna del Rimedio. Paura? Paura no, magari un po’ di preoccupazione. E poi dovevo andare a scuola. E i miei compagni di squadra si allenavano. Senza di me. Sapevo, comunque, che presto li avrei raggiunti. Anche perché i medici continuavano a ripetermi che la settimana prossima tornerai in campo. Sono passati, da quel giorno, sette anni». «In campo non sono mai tornato. I miei compagni li ho sempre visti giocare, da fuori, almeno quando il magone non mi ha tenuto lontano dal campo. Una cosa è essere lì in mezzo, un’altra e guardare, da fuori, con un cuore che non ti consente nemmeno di scendere in fretta le scale. Ho preso la licenza media, poi mi sono fermato anche con gli studi. Lavoro? E come faccio. Sono a casa, a carico della mia famiglia. Devo stare attento agli sforzi. Devo stare attento a non arrabbiarmi. A casa, aspettando una telefonata. Sette anni fa ne ho visto di ospedali. Oristano, Cagliari, Sassari. Mi portavano anche in ambulanza». «Una telefonata, dal Brotzu, reparto di Cardiologia pediatrica, era arrivata, se non ricordo male, quattro anni fa. Sembrava arrivato il momento dell’intervento. Ci hanno chiesto anche di donare il sangue. Erano andati in sei, i miei parenti, a Cagliari, per dare il sangue. Chissà per chi l’hanno utilizzato». «Il telefono, a casa mia, è squillato oggi (ieri, ndr). Francesco, ti aspettiamo in ospedale. Al Brotzu ho portato anche le lastre che mi avevano fatto quattro anni fa, quando sembrava che mi dovessero operare. Strano: oggi mi hanno detto che, per il mio problema, quelle lastre non servono a nulla. Eppure le avevano fatte loro. Forse il momento è arrivato davvero. Ho sentito che la cardiochirurgia, negli ultimi anni, ha fatto molto progressi, ho sentito che il mio intervento potrebbe essere fatto con una tecnica nuova. Non è importante, per me, capire come. È importante che si faccia». «Sono stanco di stare a casa, di non fare sforzi, di non arrabbiarmi. Molti dei miei vecchi compagni di squadra giocano ancora a pallone. Anche loro sono stanchi. Di aspettarmi. Fate presto, per favore». Emanuele Dessì ____________________________________________________ L’Unione Sarda 15 giu. ’01 BROTZU: MARTELLI DENUNCIA 715 IN LISTA D’ATTESA IN CARDIOCHIRURGIA: Valentino Martelli denuncia un incredibile caso di cattiva sanità nel reparto gioiello dell’ospedale I malati aspettano anche due anni per un intervento al cuore Una questione di cuore e di vita: al Brotzu 715 persone affollano la lista d’attesa della Cardiochirurgia. C’è chi sogna un cuore nuovo, chi un by pas, chi ancora una valvola cardiaca. Sono un esercito i malati ansiosi di entrare in sala operatoria che tempestano di telefonate la segreteria del reparto, ma il più delle volte non ottengono neppure risposta. La parola d’ordine è aspettare, uno o anche due anni, anche se spesso la chiamata arriva fuori tempo massimo, perché il paziente si è fatto operare altrove. O perché, nell’attesa, muore. Succede nella Cardiochirurgia, il gioiello del Brotzu, quello dei trapianti e di tante altre operazioni di alto livello . Decadenza improvvisa? Neanche per idea, è solo una volgare questione di soldi. La parola chiave è DRG (Diagnosis related group - Raggruppamenti omogenei di diagnosi ) espressione inglese che indica quanto la Regione paga per ogni intervento. Insomma, una specie di rimborso spese: tanto per il by pas, tanto per una valvola ecc. Il guaio è che le tariffe previste per la Cardiochirurgia del Brotzu sono incredibilmente basse. Così il reparto può permettersi solo un organico risicato e l’attività va, ovviamente, a rilento. Sempre di alto livello, ma a ritmo blando. Con drammatiche conseguenze sulla pelle dei pazienti. Particolare grottesco: chi non può o non vuole attendere la chiamata, si fa operare in altri centri della penisola, cui la Regione paga, pronta cassa, tariffe anche doppie rispetto a quelle riconosciute al Brotzu. Quando ha scoperto il disastro, il cardiochirurgo Valentino Martelli quasi non voleva crederci. Il “suo” reparto, costato lacrime e sangue, ridotto in quelle condizioni. Intollerabile, anche perché l’ex onorevole sta per assumere l’incarico di capo del Dipartimento cuore. «È semplicemente vergognoso pensare di tenere un reparto in queste condizioni - sbotta Martelli - : alla nostra Cardiochirurgia la Regione riconosce un rimborso che è circa la metà di quello che è costretta a pagare ai centri di Milano, Pavia ecc. In questo modo perdiamo oltre sei miliardi e l’attività ne risente: oggi facciamo 550 interventi all’anno, mentre dovrebbero essere 900. Ma se continuiamo di questo passo, si ridurranno a 300». Regione generosa con gli ospedali della penisola e sparagnina con i sardi. I conti sono presto fatti. Martelli spiega che - mediamente - per un intervento al Brotzu paga 12 milioni, contro i 24-30 riconosciuti alle altre cliniche. Questo succede perché nella penisola sono stati fissati DRG più elevati. «A noi la Regione sarda ha detto - aggiunge Martelli - che con quelle tariffe andrebbe fuori bilancio. Allora bisogna rassegnarsi al fatto che in Sardegna non si può operare la gente al cuore, ma non è tollerabile avere liste d’attesa di 700 persone». Anche perché non tutti i malati sono in condizione di aspettare. Proprio passando al vaglio la lista del Brutzu, Martelli ha scoperto che tra i primi 44 nomi c’erano tre pazienti che si erano fatti operare in continente e tre morti. «Ora procederò a una revisione definitiva, ma alla fine ci resteranno almeno 600 persone da assistere». I DRG sono stati introdotti nella sanità in occasione della riforma del ’92 ed applicati per la prima volta nel ’94. «Poi sono stati aumentati nel ’97 - precisa Martelli -. Ma non in Sardegna, dove sono stati addirittura ridotti del 20 per cento. Così oggi sono inferiori del 50 per cento rispetto a quelli nazionali». Ma come mai nell’isola l’importo è stato addirittura diminuito? «Perché si aveva paura che le case di cura private ci guadagnassero troppo» è la risposta del cardiochirurgo. «Con questa motivazione si obbligano gli ospedali a lavorare in continua perdita, con la speranza che successivamente la Regione intervenga per ripianare il passivo. Mi chiedo: è mai possibile amministrare in questo modo il budget di un reparto?». Ma il problema è stato posto per tempo all’assessorato alla Sanità? «Ne abbiamo parlato otto mesi fa - ricorda Martelli - e mi era stato garantito un provvedimento rapido. Capisco la lentezza della burocrazia, ma qui si stratta di scrivere, nero su bianco, che in Sardegna si applicano i DRG nazionali. Quelli che paghiamo quando i malati vanno a farsi operare nella penisola. (Con in più le spese di viaggio, soggiorno e per eventuali accompagnatori)». Che il problema esista e sia grave lo conferma anche il direttore generale del Brutzu, Franco Meloni: «Abbiamo previsto un ampliamento della pianta organica, perché col personale in servizio non riusciamo a smaltire la lista d’attesa. Ma per poterlo pagare abbiamo bisogno di un adeguamento dei DRG. Non solo quelli della Cardiochirurgia (particolarmente bassi) ma anche per tutti gli altri reparti. Abbiamo avuto promesse, speriamo si realizzino al più presto». Perché chi ha il cuore in disordine non può attendere. Lucio Salis ____________________________________________________ L’Unione Sarda 16 giu. ’01 BROTZU: 700 IN ATTESA DI UN INTERVENTO DI CARDIOCHIRURGIA AL Ibba (presidente dei medici) denuncia le carenze d’organico Franco Meloni, il manager: «Abbiamo fiducia nell’assessore alla Sanità» Mille medici a spasso. O, comunque, utilizzati poco e male. Si giustificano anche (o soprattutto?) così i 700 e passa nomi in attesa di un intervento di cardiochirurgia al Brotzu, centro di riferimento regionale per gli interventi al cuore. La denuncia è di Raimondo Ibba, presidente dell’Ordine dei medici della provincia di Cagliari. «Ovunque ci sia una carenza di servizi e di assistenza, questa», sostiene Ibba, «dipende dall’inadeguatezza degli organici disponibili: circa il 50 per cento dei posti per medici previsti nelle piante organiche sono scoperti. Ma le carenze», riprende il presidente dell’Ordine, «sono dovute anche alla mancata previsione di questi bisogni e alla mancata conseguente programmazione di formare il personale ultraspecialistico che necessita». All’ospedale di San Michele, consapevoli dei lusinghieri risultati ottenuti nei trapianti ma anche dei ritardi per problemi economici e di organico, ostentano fiducia. «Ho parlato con l’assessore alla Sanità Giorgio Oppi: credo di poter dire che le difficoltà sono avviate a soluzione»: così Franco Meloni, direttore generale dell’Azienda ospedaliera Brotzu. Gli ospedali non hanno più una dotazione finanziaria, ma ricevono un rimborso sul “fatturato”. A livello nazionale c’è un tariffario, ma non tutte le Regioni pagano allo stesso modo. In Sardegna, in particolare, i rimborsi legati ai cosiddetti “Drg” sono i più bassi d’Italia. Un esempio: per il “Drg 106”, che riguarda il rimborso del by-pass aorto-coronarico, il tariffario nazionale di riferimento indica un rimborso di 25 milioni. La Regione Sardegna rimborsa al Brotzu 12 milioni e mezzo. Ma se il paziente, invece, sceglie di farsi operare al Niguarda di Milano e agli Ospedali Riuniti di Bergamo, la spesa, per l’assessorato regionale alla Sanità della Sardegna, sfiora i 25 milioni, tariffa stabilita dalla Regione Lombardia. Ugo Storelli, coordinatore del Centro trapianti del Brotzu, spiega che la lista d’attesa è regolata dalla gravità del problema. «Quando è necessario il trapianto», sottolinea Franco Meloni, «interveniamo in un periodo massimo di un anno, con una media di dieci, dodici trapianti all’anno. Credo che nessuno, in Italia, possa vantare altrettanto». E. D. ____________________________________________________ L’Unione Sarda 10 giu. ’01 SASSARI: SUI TRAPIANTI ABBIAMO PROFESSIONALITÀ E ATTREZZATURE D’AVANGUARDIA Dopo la polemica a Cagliari alleanza fra Università e Asl per il decollo di un centro specializzato La divisione di Nefrologia dell’Ospedale civile di Sassari si arricchisce di due nuove sale sterili. A quelle inaugurate nel 1995, anno in cui l’Asl n.1 ottenne dal Ministero l’autorizzazione ad effettuare i trapianti, se ne aggiungeranno presto due nuove realizzate grazie ad un lascito. Complessivamente la disponibilità di posti letto dell’Unità trapianti passerà da 4 a 7. Le nuove sale verranno intitolate al professor Dario Alfani, aiuto del professor Raffaello Cortesini, pioniere dei trapianti renali in Italia. Era stato proprio il professor Alfani, scomparso qualche anno fa, a seguire passo per passo la nascita del centro di Sassari e a sovrintendere ai primi interventi eseguiti dall’équipe dei chirurghi dell’Ospedale civile. Dall’inizio dell’attività ad oggi sono stati effettuati oltre 130 trapianti renali. Ora la disponibilità delle nuove sale, che verranno inaugurate ufficialmente venerdì prossimo, consentirà di incrementare il numero degli interventi. Quello dell’Ospedale civile è il secondo centro trapianti autorizzato della città. Il primo, per i trapianti di cornea, è attivo dal 1989 presso la Clinica oculistica dell’Università diretta dal professor Franco Carta. Alcuni anni fa l’Asl n.1 ha inoltrato al ministero della Sanità la richiesta di autorizzazione ad effettuare anche i trapianti di fegato. Nel frattempo l’amministrazione aveva avviato l’appalto per la realizzazione delle nuove sale operatorie, indispensabili per ottenere il nullaosta dal ministero. Poi per lungo tempo sul centro trapianti per il fegato era calato il silenzio. Della sua istituzione si è riparlato di recente per iniziativa del professor Giuseppe Dettori, direttore dell’Istituto di Clinica chirurgica generale dell’Università sassarese, e non per parlare di un progetto autonomo dell’ateneo. Dettori ha sostenuto che la strada da seguire è quella della costituzione di un dipartimento misto, Ospedale-Università, per la gestione di un centro trapianti per il fegato. Per il professor Dettori non ci sono dubbi: «Sassari ha le strutture e le professionalità per avanzare la propria candidatura». Lui lo ha fatto, senza timori di suscitare polemiche, anche a Cagliari, nel corso di un recente convegno sui trapianti. E ha ribadito le proprie convinzioni nel discorso di apertura del congresso nazionale di chirurgia dell’apparato digerente che si è svolto di recente ad Alghero. Un discorso rafforzato dagli interventi del rettore dell’ateneo sassarese, Sandro Maida, e del preside della facoltà di Medicina, Giulio Rosati. E mentre sulla richiesta di istituzione di un centro per trapianti di fegato Università e Asl n.1 di Sassari hanno costituito un fronte compatto che intende far sentire tutto il proprio peso in Regione, la vicenda del servizio di Cardiochirurgia sembra non interessare nessuno. Istituito lo scorso anno dall’Azienda sanitaria e diretto da un cardiochirurgo universitario, il professor Guglielmo Barboso, non si sa ancora se avrà un futuro. Nel febbraio scorso l’Azienda sanitaria ha chiesto formalmente alla Regione il riconoscimento del servizio di Cardiochirurgia, un atto indispensabile per dotare la struttura di un’adeguata pianta organica garantendogli un futuro. Fino ad oggi però dall’assessorato alla Sanità non è arrivata ancora risposta. Gibi Puggioni ____________________________________________________ L’Unione Sarda 13 giu. ’01 POLICLINICO: CONVEGNO SULLA MAGNETO - ENCEFALOGRAFIA Quando Meg esplora il cervello Uno strumento di diagnosi più efficace della Risonanza Si chiama Meg ed è un efficientissima macchina che studia l’attività elettrica del cervello. In Olanda, da diversi anni, soddisfa le curiosità scientifiche di medici, fisici e matematici, A Roma, unica in Italia, è stata recentemente acquistata dal Fatebenefratelli. A Cagliari è un progetto inseguito con determinazione da Francesco Marrosu, direttore del servizio di neurologia del Policlinico universitario di Monserrato. Meg è l’acronimo di magneto-encefalografia: un’apparecchiatura, tra le più avanzate al mondo, che permette di diagnosticare le malattie del cervello con una precisione di molto superiore all’elettroencefalografia. Alla Meg e ai vantaggi che alla pratica clinica procurerebbe l’uso quotidiano della macchina è dedicato il seminario “La magneto-encefalografia nelle scienze neurologiche”, organizzato dal Rotary International distretto 2080 per venerdì (ore 16), nell’aula magna della Cittadella universitaria di Monserrato. Ospite d’onore il professor Bob Van Dijk del dipartimento di Fisica medica libera Università di Amsterdam, padroni di casa i docenti Francesco Marrosu e Giovanni Erriu, Fisica medica Università di Cagliari. Il servizio di Neurologia del Policlinico cagliaritano, in attesa di acquistare la macchina, ha avviato una collaborazione con l’università olandese, dove Monica Puligheddu, allieva del professor Marrosu, ha frequentato i corsi di Van Dijk grazie alla borsa di studio offerta dalla Rotary Foundation. Un’occasione che ha posto le premesse per un fecondo scambio di idee tra le due strutture scientifiche. Nella capitale olandese si ricorre alla magneto-encefalografia, fino a non molto tempo fa utilizzata esclusivamente nella ricerca scientifica, nella diagnosi clinica. Con la Meg si riesce ad osservare quel 70 per cento di cervello che rimane nascosto ad un esame elettroencefalografico. Come spiega il professor Marrosu: «Se contiamo in numero di dieci le informazioni che provengono dall’attività elettrica del cervello, l’elettroencefalografia, o anche Eg, ne legge tre, la Meg, al contrario, ne legge sette». Una differenza notevole amplificata dal fatto che la Meg contiene al suo interno anche la Eg. I vantaggi, nella diagnosi di malattie cerebrali come l’epilessia, sono enormi. Inoltre essa risulta utilissima anche per il chirurgo in quanto permette di circoscrivere in maniera molto precisa la zona cerebrale su cui intervenire. La macchina, che costa cinque miliardi (all’incirca il prezzo di una risonanza magnetica di nuova generazione) potrebbe soddisfare le esigenze non solo della popolazione sarda, ma delle aree rivierasche del Mediterraneo. E una scommessa, secondo il professor Marrosu, da giocare per rilanciare le sorti dell’Ateneo cittadino. Franca Rita Porcu ____________________________________________________ L’Unione Sarda 13 giu. ’01 POLICLINICO: BROTZU: SOTTO CHIAVE SALE OPERATORIE GIOIELLO «Pagati per non far nulla» Non si sblocca l’intesa tra l’Università e la Regione Non mette piede in una sala operatoria pubblica dal settembre 1999. Non che Nanni Brotzu, vulcanico professore universitario di Chirurgia vascolare, soffra di astinenza. «Il fatto è che io prendo lo stipendio per non fare nulla. Ho lasciato il Brotzu nel dicembre del ’99, con la promessa, fatta dal rettore Pasquale Mistretta, che nell’aprile del 2000 sarebbero state aperte le sale operatorie. È tutto fermo: trecento milioni di ferri chirurgici si stanno arrugginendo». Policlinico universitario di Monserrato: la medicina a cinque stelle abita a qui. Ma dietro la facciata da ospedale americano (“bussola” d’ingresso, giardino interno, banchi accettazione più eleganti di uno sportello bancario, poltrone in pelle blu in sala mortuaria) c’è il vuoto. Andando dritti al cuore dell’ospedale, si scoprono sei sale (dalle pareti rosa, verde e senape) dove solo il lettino operatorio è costato un centinaio di milioni. Efficienza, sicurezza e buon gusto vanno d’accordo. Tutto perfetto, peccato manchi l’uomo. Monitor di controllo per i gas anestetici che vengono persi, autoclave di emergenza per sterilizzare un ferro che dovesse cadere, pre- anestesia “a muro”, quadro di riduzione di pressione di linea gas medicali. Impossibile trovare una cosa fuori norma. Ci sono anche le pompe che spingono verso l’alto i gas delle sale operatorie. Un gioiello di tecnologia unico in Sardegna. C’è persino la possibilità di trasmettere in tempo reale un intervento in una sala di lezione. Già, perché il Policninico, non va dimenticato, è soprattutto una struttura che deve garantire l’insegnamento agli studenti. E, perché questo avvenga, servono i pazienti. «E sia chiara una cosa», ci tiene a sottolineare Roberto Montisci, professore associato di Chirurgia vascolare: «In un ospedale votato alla didattica, come questo, il paziente viene visto persino con maggiore attenzione. Qui l’assistenza è ad altissimo livello». Il problema (o la vergogna) è che non si può operare. Nanni Brotzu ci ha provato qualche giorno fa, segnalando la richiesta di due pazienti con aneurisma dell’aorta addominale e con neoplasia polmonare. Ecco la risposta scritta di Andrea Corrias, direttore sanitario: «Al momento il Policlinico di Monserrato non è autorizzato dalla Regione Sardegna all’effettuazione di interventi chirurgici. E, comunque, le patologie di cui trattasi richiedono, oltreché assistenza anestesiologica, anche di assistenza post-chirurgica, eventualmente intensiva, di cui il presidio di Monserrato non è attualmente fornito». Non che manchino gli spazi: i posti letto in Rianimazione sono 24 (già pronti), ne basterebbero la metà. C’è anche il Pronto soccorso chirurgico, accanto all’ingresso dell’ambulanza: non funziona. E così, qualche settimana fa, un paziente che ha avuto la rottura spontanea della milza è finito al “Santissima Trinità” (a 8 chilometri), una donna in crisi cardiaca è stata ricoverata d’urgenza al “Brotzu”. Si sono salvati, per fortuna. Costato un centinaio di miliardi soltanto per le strutture, il Policlinico ospita oggi cinque padiglioni. Solo due funzionano, con attività di day hospital (112 posti letto) rigorosamente non chirurgica. Altri 144 posti letto (tra degenze, semintensivi e rianimazione) sono già pronti: pareti dai colori riposanti, un bagno ogni due letti, presa telefono e tv color in camera e, nel corridoio, una zona di controllo che sembra il bancone di un bar di lusso. Tutto vuoto. E si spende un patrimonio in manutenzioni. Fuori si lavora per un nuovo mega-parcheggio (tre miliardi), dentro restano in naftalina le sale operatorie. Tutto è legato a un protocollo d’intesa Università-Regione. La bozza è pronta. Da tempo. «Chi frena? L’Università», dice il professor Brotzu, «è l’unico organismo pubblico che si autogestisce. Per questo ci odiano un po’. Ma la responsabilità dei ritardi è di natura politica: se fossi rettore, piazzerei una tenda dietro la porta dell’assessorato di Giorgio Oppi. Se non firmi, gli direi, non mi muovo. Al Policlinico di Monserrato», riprende Nanni Brotzu, «ci sono tante vittime: gli studenti, i pazienti, l’amministrazione del Policlinico. E anche noi». Emanuele Dessì ____________________________________________________ L’Unione Sarda 14 giu. ’01 I FALCHI DEL POLICLINICO Una famiglia di falchi come “mascotte” Scorgere in città un falco pellegrino non è cosa rara, soprattutto attorno a Molentargius. Ma che i rapaci scelgano un ospedale addirittura per farci il nido diventa un episodio quanto meno curioso. E se per il personale del nuovo Policlinico di Monserrato la presenza dei rapaci è diventata ormai familiare, non altrettanto si può dire per i pazienti e i visitatori che, incuriositi, si affacciano alla finestra del primo piano che dà proprio sul “nido”. I falchi, si sa, non sono uccelli abituati a dare confidenza all’uomo (come mostra il piccolo fotografato da Antonio Nioi), però si sono ormai abituati a conviverci. E, non a caso, come racconta Patrizio Dessalvi, dipendente dell’Università che lavora al Policlinico di Monserrato, «una coppia di falchi viene qui ormai da tre anni. E, ogni volta, nascono cinque falchetti». Un piccolo miracolo della natura: le uova vengono deposte in primavera in una fessura tra un pilastro e la copertura in plexiglas di un corridoio dell’ospedale. Il lieto evento si è ripetuto anche quest’anno, con la schiusa e i piccoli falchi che aspettano il cibo. Più crescono e più aumenta la dimensione delle prede: l’altro giorno mamma-falco ha portato per i suoi piccoli addirittura una biscia. Nati qualche settimana fa, i falchetti si affacciano abitualmente dal loro nido. E proprio la curiosità, l’altro giorno, ha spinto un rapace ad affacciarsi troppo, cadendo nel vuoto. I falchetti non sanno ancora volare, ma l’apertura delle ali ha comunque garantito un atterraggio morbido in mezzo alle stoppie sottostanti. Il Policlinico è un ospedale (anche se non funziona, tra l’altro, il pronto soccorso) ma, trattandosi di voltatili, Patrizio Dessalvi si è rivolto al Wwf, per far sì che il falchetto potesse riprendere la strada di casa. Non manca molto al primo volo. In attesa che, tra un anno, il miracolo possa ripetersi. ____________________________________________________ L’Unione Sarda 14 giu. ’01 ALGHERO: PACCHETTI VACANZA PER I DIALIZZATI, TUTTO ESAURITO I pazienti potranno sottoporsi al trattamento nel reparto dell’Ospedale civile Boom del turismo sanitario Alghero Agosto è già al completo mentre un certo numero di posti è ancora disponibile per i mesi di luglio e settembre. Non si tratta dell’andamento delle prenotazioni nelle strutture alberghiere della Riviera del corallo, ma di un importante servizio sanitario che da qualche anno l’ospedale Civile garantisce nel territorio: la dialisi ai pazienti con insufficienza renale in villeggiatura ad Alghero o nei dintorni. Con sedici posti il reparto diretto dalla dottoressa Domenica Casu è menzionato nelle riviste specializzate, dove sono inserite anche le vacanze-dialisi negli Stati Uniti, in Trentino Alto Adige e perfino in crociera. «Il paziente non deve far altro che prenotare il periodo di trattamento - spiega il primario - inviando via fax la propria cartella clinica. Sarà la capo sala a verificare la disponibilità dei posti ed eventualmente a confermare la terapia». Sul tavolo dell’ufficio del dirigente c’è già una montagna di prenotazioni. Solitamente sono gli stessi pazienti a telefonare, altre volte si invece si affidano alle agenzie di viaggi: «L’Azienda autonoma di soggiorno mi aveva proposto di inserire il nostro servizio sanitario nei “pacchetti” vacanza - rivela la dottoressa Casu - una prassi che nel continente come nel resto d’Europa è abbastanza in uso. Ma fino allo scorso anno il mio reparto disponeva solo di 12 posti rene e non me la sono sentita di fare troppa pubblicità». L’estate passata l’équipe del centro dialisi, 15 infermieri specializzati, 6 medici e 2 tecnici, pur di garantire il servizio ai turisti nefropatici lavorava dalle sette di sera a mezzanotte. «È vero - conferma il primario del reparto - facevamo il terzo turno. Anche se non tutti i pazienti accettavano di buon grado di sottoporsi a terapia in un orario così scomodo. Oggi fortunatamente le cose sono migliorate». Rimane sempre il problema del personale insufficiente. «Dei 15 infermieri che operano nel centro, due sono impegnati con l’ambulatorio - continua la dottoressa Domenica Casu - ma nessuno si lamenta perché c’è da dire che nei mesi invernali si lavora a ritmi decisamente più lenti». I pazienti abituali sono circa 45. È nella stagione calda che l’attività del centro si intensifica. La situazione dovrebbe risolversi con l’informatizzazione del servizio di nefrologia e dialisi che si concretizzerà con l’avvio del secondo lotto di lavori di ristrutturazione dell’ospedale Civile. L’assessorato regionale alla Sanità ha stanziato 300 milioni per il monitoraggio di tutti i posti rene: «Ci sarà un isola di lavoro centrale - racconta il primario - dove affluiranno i dati», un macchinario utilissimo grazie al quale il medico, con un sola occhiata, potrà avere sotto controllo tutti i suoi pazienti in terapia. Da quest’anno, inoltre, il reparto ha attivato un altro importante servizio ambulatoriale, la densitometria o moc, un esame utile per la diagnosi precoce dell’osteoporosi. Insomma, dopo le polemiche di questi ultimi anni sulla “malasanità” algherese, penalizzata dalla chiusura delle due sale operatorie, dallo smantellamento di Urologia e dalle gravi carenze di personale di Cardiologia, il reparto Dialisi appare come un’oasi di efficienza in un mare di difficoltà strutturali che da sempre attanaglia il presidio della Pietraia. Carenze che dovrebbero essere risolte con la seconda tranche di interventi finanziati dalla Asl n.1. Caterina Fiori ____________________________________________________ L’Unione Sarda 11 giu. ’01 QUATTROMILA VITTIME DELL’ICTUS NELL’ISOLA: AUMENTANO I RISCHI Un aiuto da “Alice” Parola d’ordine, prevenire. Molti cagliaritani hanno accolto ieri l’invito dell’Associazione per la lotta all’ictus cerebrale (“Alice”) che ha offerto un controllo gratuito in occasione della Seconda giornata nazionale di prevenzione dell’ictus. Una malattia, questa, che in Sardegna colpisce ogni anno circa 4000 persone, molte delle quali non sopravvivono più di un anno: l’ictus, infatti, è la terza causa di decesso dopo le malattie cardiache e i tumori. « Molti - spiega Maria Bonaria Alcioni, presidente della sezione sarda di “Alice” - rimangono gravemente invalidi e purtroppo nell’Isola non ci sono strutture di riabilitazione. L’ictus causa danni psichiatrici che non possono essere curati dalle famiglie, costrette a rivolgersi altrove con spese enormi ». Assistere un malato costa, infatti, fino a 20 milioni nella fase acuta e fino a 200 milioni negli anni successivi. Sono molte le ragioni, dunque, per correre in anticipo ai ripari. « La causa più frequente dell’ictus - spiega il neurologo Maurizio Melis - è l’ipertensione. Per prevenirlo occorre tenere sotto controllo i soggetti a rischio ma tutti, sin da giovani, dovrebbero seguire alcune regole basilari nell’alimentazione e nello stile di vita ». Al bando alcool e sostanze stupefacenti (soprattutto la cocaina), lo stesso dicasi per il fumo, che alla lunga occlude le arterie. Aumenta il rischio anche la pillola anticoncezionale, mentre l’esposizione prolungata al sole non aiuta chi ha una cattiva circolazione cerebrale. Nell’alimentazione, infine, i medici consigliano di non abusare con il sale. «Quanto alle strutture - conclude Melis - tra poco il “Brotzu” avrà un Centro per il trattamento delle fasi acute della malattia mentre per la riabilitazione si dovrà attendere la fine dell’anno quando sarà costruito un apposito centro ». Un risultato ottenuto grazie alle battaglie dell’associazione “Alice” che, tra l’altro, fornisce un servizio telefonico (070/216740) a chiunque abbia bisogno dal lunedì al venerdì (dalle 15 alle 17). L’associazione può essere contattata all’indirizzo e-mail: alicesardegna@tiscalinet.it. Alessandro Zorco ____________________________________________________ Il Corriere della Sera 11 giu. ’01 TROPPI OBESI, ARRIVA LA PILLOLA ANTIFAME Ora è in commercio anche in Italia: funziona con la dieta. Il 20% dei bambini sono grassi De Bac Margherita Allarme obesità, arriva la pillola antifame Ora è in commercio anche in Italia: funziona con la dieta. Il 20% dei bambini sono troppo grassi ROMA - Bambini che vestono grosse taglie. In Italia sono il 20 per cento nella fascia sotto i 14 anni, il dop pio rispetto agli adulti. Sono loro gli obesi del futuro. E se il fenomeno non verrà in qualche modo contenuto l' Italia si avvicinerà sempre più agli Stati Uniti, per numero di cittadini patologicamente grassi. Pensa a campagne di informazione nelle scuole elementari e medie Michele Carruba, presidente dell' associazione nazionale degli specialisti in scienze alimentari: «Occorre insegnare ai giovani gli alimenti giusti. Conoscono merendine e hamburger ma non frutta e verdura, di cui nessuno fa pubblicità. Dobbiamo correre ai ripari e fare prevenzione se non vogliamo vedere trasformarsi gli italiani in un popolo over size». ALLARME - L' allarme, confermato dagli ultimi dati Istat, riecheggia a pochi giorni dall' arrivo in Italia dell' ulti mo farmaco anti obesità, nome della molecola sibutramina, in commercio da due settimane, già disponibile in America da un paio d' anni. Il primo antifame che, intervenendo sul sistema nervoso centrale, favorisce l' insorgere del senso di sazietà. In pratica assumendo le pasticche bastano ridotte quantità per sentirsi in pace con se stessi e col cibo. Non è una pillola magica, ma uno strumento per aiutare gli obesi a mantenere la dieta nell' ambito di una strategia terapeutica che non può prescin dere da esercizio fisico o supporto psicologico. IL FARMACO - «La sibutramina è la capostipite di una nuova famiglia di medicinali antifame - dice Carruba -. Il vantaggio consiste nel fatto che può essere utilizzata per anni, come è necessario nel ca so di malattie croniche. Lo scopo non è il dimagrimento, ma la modificazione dello stile di vita. La pillola fa aumentare l' adesione del paziente al programma stabilito dal medico». Il farmaco ad azione anoressizzante va dunque usato sempre e comunq ue in associazione a regimi alimentari ipocalorici e solo nei casi di vera obesità, quindi quando è presente un indice di massa corporea superiore a 30. L' indice si calcola dividendo il proprio peso in chilogrammi per il quadrato dell' altezza espre ssa in metri. Si ottiene un numero. Tra 18,5 e 25 si rientra nella categoria dei normopeso, tra 25 e 30 sovrappeso, oltre i 30 è il valore dell' obesità. «Chi ha quattro, 5 chili di troppo si scordi questo medicinale e soprattutto eviti il ricorso al fai da te», insiste Carruba. CAUTELE - Non è lontano nel tempo il ritiro dal commercio in Italia di sette farmaci anoressizzanti molto prescritti e ritenuti pericolosi: fentermina, mazindolo, norpseudoefedrina, fenbutrazato, fendimetrazina, anfepram one e propilexedrina. Molecole simili all' amfetamina che agivano anch' esse sul sistema nervoso centrale, bloccando il senso di fame a livello dell' ipotalamo, ma con seri effetti collaterali specie su cuore e vasi. I rischi erano superiori ai benef ici. La nuova pillola, introdotta in Italia dopo essere stata utilizzata su 3 milioni e mezzo di pazienti al mondo, non ha invece causato problemi perché ha diversi meccanismi di azione. Si mantiene però cauto il professor Giovanni Spera, internista endocrinologo dell' università La Sapienza: «Certo la sibutramina è uno strumento in più per curare l' obesità. Restano le perplessità sulla strategia di fondo. Condizionare chimicamente la fame può non essere un vantaggio». I CENTRI - La disponibili tà di farmaci efficaci contro l' obesità si inserisce in Italia in un contesto difficile. Uno dei problemi più seri per questi pazienti è l' insufficienza di centri specialistici. Ci sono lunghe attese per il ricovero e chi non può aspettare si rivol ge al privato, magari all' estero (vedi la vicina Svizzera) alla ricerca della felicità legata alla perdita di trenta chili e più. Un sogno che può costare anche 15 milioni al mese. Margherita De Bac mdebac@corriere.it ____________________________________________________ Le Scienze 14 giu. ’01 ISOLATO IL GENE CASANOVA Il risultato potrebbe permettere il controllo dello sviluppo di endoderma e portare a una cura per il diabete di tipo 1 Il gene che stimola le cellule staminali embrionali a generare precursori di molti organi interni è stato isolato dai ricercatori dell’Università della California a San Francisco (UCSF). Il risultato suggerisce un nuovo potente metodo per produrre numerose cellule specializzate in grado di rimpiazzare tessuti dalla funzionalità compromessa. La ricerca è stata basata sullo studio del Brachidanio Rerio un pesce utilizzato come efficace modello dello sviluppo embrionale umano. In particolare il gene casanova - così battezzato perché gli animali mutanti che non lo possiedono hanno un cuore diviso in due - ha lo stesso ruolo che nell’uomo. Esso stimola la produzione di endoderma, da cui derivano gli epiteli di rivestimento del canale alimentare e delle vie respiratorie, oltre a tessuti presenti in pancreas, fegato, timo e tiroide. "Sfruttando questo gene – ha spiegato Didier Stainier, docente di biochimica e biofisica dell’UCSF e autore dell’articolo apparso sulla rivista “Genes and Development” - possiamo controllare la differenziazione delle cellule staminali dall’interno invece che stimolarla dall’esterno mediante i fattori di crescita”. Il risultato dello studio è importante soprattutto per la cura del diabete. Attualmente viene sperimentata una tecnica per il ripristino della capacità di produrre insulina in molti soggetti con diabete di tipo 1 mediante l’iniezione di cellule beta, la cui disponibilità però è molto limitata. Tale problema sarebbe superato producendo nuovo endoderma da cui hanno origine le stesse cellule. ____________________________________________________ Le Scienze 12 giu. ’01 INQUINAMENTO ATMOSFERICO E ATTACCHI DI CUORE Sotto accusa principalmente il particolato fine, ma vi sono sospetti anche su altre sostanze L’esposizione a breve termine a livelli elevati d’inquinamento atmosferico può costituire un evento scatenante dell’infarto in pazienti a rischio. Questo il risultato di una ricerca condotta presso il Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista “Circulation”, organo ufficiale dell’American Heart Association. Lo studio epidemiologico - il primo di questo tipo - è stato condotto interrogando mediante un questionario un gruppo di 722 persone, poco dopo il loro ricovero all’ospedale di Boston per un attacco di cuore. Le risposte sono state incrociate con un base di dati sulle concentrazioni, relative a numerosi siti dell’area metropolitana, di inquinanti atmosferici quali nerofumo, ozono, monossido di carbonio, diossido di zolfo, diossido di azoto e particolato fine (con meno di 2,5 micron in massa), nonché misurazioni dell’umidità relativa e della temperatura. L’analisi dei dati ha mostrato che I pazienti avevano una probabilità di subire un attacco di cuore più alta di circa il 50 per cento in seguito all’esposizione ad alti livelli di polveri fini per un periodo di due ore. I ricercatori hanno anche osservato un incremento del rischio di attacco anche dopo 24 ore, mentre esiste un’associazione positiva con alte concentrazioni di altri inquinanti, sebbene in questo caso i dati non siano statisticamente significativi. “Il risultato - ha spiegato Murray Mittleman, del Beth Israel Deaconess - suggerisce che le persone che hanno una malattia cardiaca o un elevato rischio di infarto farebbero bene ad evitare di stare all’aperto per periodi di tempo molto lunghi quando la qualità dell’aria è scarsa, per esempio nelle giornate estive calde e con foschia: il rischio in questi casi è molto più consistente”.