IL PROBLEMA DELLA NOSTRA SCUOLA? NON SI INSEGNA PIÙ A STUDIARE SANITA’: IL VERO RISPARMIO E' NELLA RICERCA CNR: UNA BANCA DATI DI 9000 VOCI CON TUTTE LE RICERCHE ITALIANE L'UNIVERSITÀ È MALATA E LA RIFORMA L'UCCIDE MEDICINA:PRIMO SÌ IN REGIONE PER 89 BORSE SCUOLE DI SPECIALIZZAZIONE CORRUZIONE, L'ITALIA SEMPRE TRA I PEGGIORI MARTEDÌ IL PRINCIPE RICEVERÀ LA LAUREA AD HONOREM E VEDRÀ I BIMBI DEL BROTZU ==================================================== POLICLINICO: CGIL E CISL ACCUSANO LA CISAL DI FAVORIRE I MEDICI TROPPI RICOVERI, CONTI IN ROSSO NEGLI OSPEDALI. LA SANITÀ SU INTERNET PUÒ AIUTARE IL CITTADINO USA, ADDIO ALL'OSPEDALE DEI POVERI ALTA CHIRURGIA DEL CUORE ALL’OSPEDALE BROTZU NUORO: IL CHIRURGO GUIDATO DAL COMPUTER SASSARI: CARDIOCHIRURGIA, IL REPARTO DELLA DISCORDIA RIAPRE DA MARTEDÌ ASL 7, MENO 52 MILIARDI: PAGANO I CITTADINI? ALES: ATTESE RECORD PER LE VISITE SPECIALISTICHE SIRCHIA: «LA DROGA È DEI DEBOLI E NON PUÒ ESSERE LIBERALIZZATA» ARTROSI, NON È SOLO LA MALATTIA DELLA NONNA CENTOCINQUANTAMILA SARDI IMPOTENTI CURARE IL DIABETE DI TIPO 1 NEI TOPI I GRAVI DISTURBI DELL’UMORE VERSO UN’ALTRA ARMA CONTRO LA DEPRESSIONE ==================================================== I «FORZATI» DELLA POSTA ELETTRONICA DIPENDENZA DAL WEB PRIMO TEST SCIENTIFICO ==================================================== ____________________________________________________________ Corriere Della Sera 25 giu. ’01 IL PROBLEMA DELLA NOSTRA SCUOLA? NON SI INSEGNA PIÙ A STUDIARE Alberoni Francesco Pubblico & Privato Il problema della nostra scuola? Non si insegna più a studiare di FRANCESCO ALBERONI Le scuole media e media superiore danno sempre meno una formazione di base. E' prevalsa una pedagogia che, seguendo l' accadimento e l' attualità, ha frantumato il sapere e il pensiero, ha rinunciato ad insegnare lo studio e il ragionamento sistematico. Spesso non vi si impara in modo rigoroso nemmeno la matematica, l' italiano e la storia. La maggior parte dei diplomati arriva all' università con scarsa cultura e senza metodo. Con la riforma, prenderà una laurea di tre anni, orientata professionalmente. Una laurea facile, perché l' impegno di studio non deve superare le 1400 ore annue. Finirà a 23 anni. Ma, senza una preparazione di base , come potrà fare studi veramente approfonditi nella laurea specialistica? E, in seguito, dedicarsi alla ricerca? Molte cose, e non solo il pianoforte, si imparano male dopo i vent' anni. Bisogna anticipare certi studi già alla scuola elementare, poi alla media e alla media superiore, quando la capacità di apprendimento è massima. A quattro-cinque anni le lingue. A otto-dieci l' uso del computer. A dodici- tredici l' algebra. E poi le altre materie fondamentali, la fisica, la chimica, la biologia , la statistica, la storia dell' arte, la filosofia. Basta insegnarle bene, con tecniche adeguate, partendo dal concreto, dall' esperienza, per arrivare all' astrazione. E lo stesso vale per le materie professionali. E' sbagliato rinviare tutto lo studio professionalizzante all' università. Riformiamo gli istituti tecnici, i licei artistici, linguistici, turistici, le grandi scuole professionali che già abbiamo. Io sogno una scuola tipo college diurno in cui tutti gli studenti entrano al mattino ed escono la sera e vi studiano le materie di base; poi, chi vuole quelle professionali, altri quelle teoriche, e vi si fa musica, arte, sport. Ma veniamo a possibili pericoli delle lauree brevi. Molte sono troppo specializzate. Ne hanno inventate a decine, in fretta e furia, con i nomi più strani. Ma in pochi anni cambiano le mode, cambia la domanda di lavoro. Questi laureati superspecializzati troveranno occupazione nel loro campo? E, senza preparazione di base, come potranno riconvertirsi? Anche nel campo della new economy e della comunicazione, oggi richiestissime, corriamo il rischio di non dare loro lo spessore culturale necessario per affrontare professioni difficili e delicate. Poi è facile scivolare in lavori poco qualifica ti, precari, mal pagati. Producendo decine di migliaia di laureati, non rischiamo di creare sottoccupati come è già successo per l' insegnamento? Ho davanti a me due artigiani che stanno posando un pavimento di marmo con intarsi. Sono dei grandi professionisti, con un' intelligenza, una sensibilità artistica, un buonsenso, una maestria stupefacente. E che tecnologia c' è dietro loro! Vanno a lavorare in tutto il mondo, ricercati, ben pagati. Sono gli eredi dei maestri artigiani del Rinasci mento. Questa è una vera professione! Ma non hanno allievi, non hanno successori. Le piccole imprese non hanno i capitali per le tecnologie necessarie. Tecnologie e insegnanti mancano anche negli istituti tecnici e professionali, nelle accademie, mancano nelle lauree brevi dove i professori sono tutti intellettuali che hanno superato i concorsi universitari. Corriamo verso la comunicazione, lo spettacolo, l' astratto, il virtuale. Ma non dimentichiamo qualcosa per strada? alberoni@corriere.it _____________________________________________________________ Corriere Della Sera 26 giu. ’01 SANITA’: IL VERO RISPARMIO E' NELLA RICERCA Remuzzi Giuseppe I conti della Sanità italiana «non tornano». Il presidente della giunta regionale chiede al governo più soldi per la Lombardia lo stesso giorno in cui il nuovo ministro cerca nuove forme di contribuzione per far fronte ad una spesa farmaceutica ormai fuori controllo. Cosa succede? Intanto diciamo subito che in sanità non è possibile che tutti abbiano tutto quello che la medicina mette a disposizione: bisogna fare delle scelte. Come? Non è u n problema solo italiano, se ne discute in tutti i Paesi occidentali. Da una parte la popolazione invecchia ed ha più bisogno di cure, dall' altra la medicina sa offrire sempre di più: farmaci sempre più nuovi, tecnologia sempre più sofisticata, procedure che fino a qualche anno fa non si potevano neppure immaginare. Ma tutto questo costa e così anche nei Paesi più ricchi si arriva inevitabilmente a un punto in cui è necessario porre dei limiti. Ma con che criteri si stabiliscono questi l imiti? * direttore dipartimento trapianti Ospedali Riuniti di Bergamo L' INTERVENTO Maggiori fondi alla ricerca ricetta del vero risparmio Il presidente della Regione suggerisce come primo passo quello di coinvolgere i privati, per esempio nella realizzazione di nuove strutture, dando loro in cambio la gestione dei servizi: giustissimo. E' ora che gli ospedali si concentrino sulla cura degli ammalati e lascino ad altri (che lo fanno di professione) le attività alberghiere (dalle pulizie al catering). Questo non vale solo per la Lombardia, dovrebbe valere per il Paese. Il presidente pensa che si dovrebbe puntare di più sui medici di base: sono loro che possono orientare il cittadino alle prestazioni davvero necessarie e all' impiego dei farmaci. E' certamente una strada da percorrere, ma come si fa in pratica? Intanto bisognerebbe che i medici (tenendo come punto di riferimento gli obiettivi generali del Servizio Sanitario Nazionale) avessero le idee chiare su cosa serve davvero per curare le malattie e su cosa invece non serve. Perché un conto sono le cose disponibili sul mercato, un conto è stabilire quanto di tutto ciò offre davvero benefici aggiuntivi rispetto a quanto si faceva prima. Questo si realizza aumentando le occasioni di formazione dei medici ed elaborando con loro linee guida che aiutino a distinguere ciò che è veramente utile per gli ammalati da ciò che è discutibile o non serve affatto (non dimentichiamo che un lavoro pubblicato su British Medical Journ al di pochi anni fa ha dimostrato che per quasi il 40% degli atti medici, nell' area della medicina interna, non ci sono prove di efficacia). Linee guida che diventeranno poi gli strumenti pratici con cui confrontarsi per limitare le spese. Ancora il presidente della Regione Lombardia suggerisce ai manager di Asl ed ospedali di ridurre di un terzo la spesa sanitaria eliminando gli sprechi. Sì, ma con quali criteri? Bisognerebbe che Asl e ospedali stabilissero le loro priorità e limitassero gli interventi medici a quelli da cui ci si può aspettare che i benefici per gli ammalati superino gli eventuali danni (è quello che la letteratura medica chiama «appropriatezza delle prestazioni»). Questo in un primo tempo va stabilito indipendentemente da considerazioni di tipo economico e in verità per certe malattie potrà anche portare ad un aumento della spesa, che è assolutamente giustificato quando dall' altra parte il beneficio atteso è abbastanza grande: è il caso delle leucemie acute dei bambini. Il passo successivo è quello di utilizzare a parità di efficacia il rimedio che costa di meno, ma questo lo si può stabilire solo attraverso la ricerca, che va aumentata anche negli ospedali. Sì perché ricerca e qualità delle prestazioni vanno insieme ed hanno quasi sempre come ricaduta anche una riduzione dei costi. Un buon esempio è rappresentato dai farmaci antitumorali: ce ne sono tantissimi, sempre più nuovi e sempre più costosi, ma solo in pochi casi l' impiego di queste nuove molecole offre dei vantaggi misurabili. In quali casi? Lo si può stabilire attraverso studi che comparino farmaci tradizionali (che costano poco) con i farmaci nuovi che costano molto, qualche volta moltissimo. Naturalmente queste regole dovrebbero valere allo stesso modo per pubblico e privato. La sanità pubblica potrà certamente integrarsi con quella privata e incentivare l' imprenditorialità in sanità può anche avere dei risvolti positivi, purché non vada a scapito dei grandi ospedali pubblici, di fatto quelli che in Italia si occupano quasi da soli delle attività mediche fortemente antieconomiche: i traumi della strada, le grandi patologie d' organo o le gravi infezioni, per esempio. Giuseppe Remuzzi ____________________________________________________ La Stampa 27 giu. ’01 CNR: UNA BANCA DATI DI 9000 VOCI CON TUTTE LE RICERCHE ITALIANE IL Consiglio Nazionale delle Ricerche ha istituito una banca dati con oltre 9000 schede che illustrano i risultati più rilevanti della ricerca e permettono di mettersi in contatto con gli specialisti di ogni disciplina. Uno strumento ideato per favorire i rapporti con le piccole e medie imprese e per incrementare attività di spin off e conseguente creazione d'impresa. Si spazia dall'ingegneria alla neurobiologia, dalla genetica alla meteorologia, dalla medicina all'agronomia. Una sorta di «Pagine Gialle» on-line della scienza, che l'Istituto di Studi sulla Ricerca e Documentazione Scientifica del Cnr - nell'ambito di una azione coordinata da Luciano Caglioti - ha messo a disposizione di tutta la comunità attraverso il sito: http://bdtt.ipzs.it/bdtt/bdtt Nell'ambito della banca-dati è operativa una sezione dedicata ai risultati utili alla creazione di nuove imprese hi-tech. Questi risultati vengono valutati da esperti unitamente ad operatori di venture capital, con i quali sono in atto accordi di collaborazione allo scopo di intraprendere, con gli autori, attività di spin off e conseguente creazione di impresa. ____________________________________________________ Il Gioranale 24 giu. ’01 L'UNIVERSITÀ È MALATA E LA RIFORMA L'UCCIDE Stefano Zecchi Ordinario alla Facoltà di Lettere e Filosofia Università di Milano Tra le tante eredità dell'Ulivo, sul tavolo del ministro dell'Istruzione, Letizia Moratti, c'è anche la riforma dell'università. Dovrebbe essere introdotta gua nel prossimo anno accademico. Ho usato il condizionale soltanto perché, come si sa, la speranza è sempre l'ultima a morire. Se quella riforma entrerà in vigore, sarà la medicina che ammazzerà la nostra università malata. Contro il progetto riformatore voluto da Berlinguer si è formato uno schieramento, politicamente trasversale, di docenti universitari, interessati alla vita di una fondamentale istituzione dello Stato e non alla difesa di interessi politici di parte. La nostra università è malata e ha bisogno certamente di una riforma, ma non di quella che minacciosamente incombe. Incominciamo con qualche numero. I laureati in Italia sono soltanto il 25% rispetto al numero totale degli iscritti: dunque, un'università assolutamente improduttiva. Inoltre, il laureato italiano entra nel mercato del lavoro nettamente in ritardo rispetto ai colleghi europei (diciamo intorno ai 26 anni invece che verso i 22) proprio a causa della cattiva organizzazione degli studi. Chi insegna all'università fa costantemente un'esperienza drammatica: non è lui, professore,a compiere la selezione, ma sono gli studenti stessi ad autoselezionarsi. In che senso? Ormai i docenti bocciano sempre più raramente; ciò che ostacola i giovani nel proseguimento degli studi sono le inefficienze, le tortuosità, il senso di inutilità, la precarietà delle strutture, la vaghezza del percorso didattico. Queste cause li demotivano, spesso li umiliano e li deprimono. Il risultato è l'abbandono. Coloro, invece, che si laureano, hanno il non invidiabile primato europeo della disoccupazione: il 30% dei disoccupati in Italia è costituito da laureati. La riforma vorrebbe rendere efficiente il sistema universitario aumentando il numero dei laureati, abbreviando la durata degli studi, migliorando la qualità della formazione. Si è quindi deciso che, salvo casi particolari come Medicina, la laurea si possa ottenere solo dopo tre anni (contrazione dei tempi a cui si dovrebbe aggiungere la riduzione di un anno della scuola secondaria) riducendo i carichi di studio, abolendo di fatto il voto nell'esame ed eliminando la tradizionale dissertazione di laurea. Tutto questo prendendo come modello il sistema universitario americano, che potrebbe andare benissimo se fosse davvero copiato bene, se cioè le università fossero private, se fosse il consiglio di amministrazione a scegliersi i docenti e a pagarli in relazione alle proprie capacità, a decidere il percorso degli studi da compiere, se fosse abolito il valore legale del titolo di studio. In Italia, come negli altri Paesi europei, questa liberalizzazione delle accademie e della ricerca scientifica non si realizzerà mai per un'infinità di motivi legati alla nostra tradizione culturale e civile. Così la riforma berlingueriana scopiazza malamente il sistema statunitense con effetti grotteschi. Qualche esempio. In America per laurearsi lo studente deve conseguire una determinata somma di crediti formativi. Ogni corso dà diritto a un certo numero di crediti: i corsi più importanti, tenuti dai più noti docenti (e più pagati) danno ovviamente un alto numero di crediti. La logica del sistema universitario americano è elementare: più alta è la qualità degli studi, più quegli studi sono ambiti e pagati. Lo studente paga infatti, oltre alla tassa generale di iscrizione all'università, anche quella dell'iscrizione al corso, che è tanto più alta quanto più importante è il docente. Il principio è quello della competitività: le università più prestigiose sono le più care e sono anche quelle che danno le migliori opportunità di spesa della laurea sul mercato del lavoro. La nostra riforma si appropria del guscio del sistema americano, non potendo prendersi la sostanza. I crediti nelle nostre università saranno come i buoni-punto che ci danno al supermercato. Ecco cosa accadrà in una facoltà umanistica. Lo studente per laurearsi deve raggiungere, supponiamo, 135 crediti. Si iscrive ogni anno, per tre anni, a cinque corsi che gli danno nove crediti l'uno (generalmente il massimo dei crediti ottenibili per corso). Ogni credito corrisponde a 25 ore di attività. Non essendo obbligatoria la frequenza, non essendoci nelle facoltà umanistiche i laboratori di ricerca, le 25 ore di un credito corrispondono a 100 pagine di un libro da studiare. Ogni esame non può perciò superare le 900 pagine. Il che significa che io non potrò mai più far studiare ai miei studenti l'estetica di Hegel per il semplice motivo che il libro è di 1200 pagine. Naturalmente potrei dilungarmi nei perversi dettagli della riforma, di cui ho dato solo qualche spunto. Dovrebbe però essere chiaro lo spirito: se la montagna da scalare è troppo alta ed impervia e lascia sul suo cammino troppe vittime, ecco che viene mandato un bulldozer (la riforma) per spianarla, così lo studente arriverà in cima facilmente. Per far cosa, non si sa. Già, infatti, il rifondatore, prevedendo l'assoluta dequalificazione della laurea triennale, ne ha prevista una più specialistica, che si consegue dopo cinque anni di studio. La prima laurea non servirà a nulla: quella specialistica si otterrà dopo un corso più lungo di quello attualmente in vigore. Ma non si doveva immettere sul mercato del lavoro laureati più giovani? Non si doveva arginare l'abbandono già altissimo dopo gli attuali quattro anni di studio? Si pensa che dopo cinque anni l'abbandono sia minore? Sono solo alcune delle contraddizioni della riforma, che pagheranno i giovani e le loro famiglie. Una buona riforma dovrebbe riconsegnare alle università un ruolo formativo e professionalizzante per una fascia di giovani tra i 18 e i 22 anni, dovrebbe essere una struttura accogliente e seria per l'educazione permanente dei ragazzi, ma anche per far emergere, selezionare e premiare le eccellenze. L'attuale riforma sul tavolo del ministro ci farà arretrare rispetto ai livelli dell'istruzione accademica europea e continuerà a mortificare giovani energie che andrebbero rispettate e valorizzate. Se si provasse a sospenderne l'attuazione per cercare di migliorarla? ____________________________________________ L’Unione Sarda 28 giu. ’01 MEDICINA, PRIMO SÌ IN REGIONE, PER 89 BORSE SCUOLE DI SPECIALIZZAZIONE Due miliardi saranno erogati dalla Regione per 89 borse di studio (57 all’Università di Cagliari e 32 a quella di Sassari) destinate alla frequenza delle scuole di specializzazione di Medicina. La commissione Sanità ha dato a maggioranza (ha votato contro il centrosinistra) parere favorevole. Ma per la commissione «rilevato che l’intervento regionale (deciso con una legge del 1991 per integrare l’intervento statale, ritenuto spesso insufficiente) rientra negli ambiti della programmazione», ravvisa «l’opportunità di un confronto con le Università sarde per meglio definire le finalità del provvedimento». Risulta, si legge nel parere della commissione, «che le borse di studio assegnate sono talvolta insufficienti a coprire il fabbisogno di specialisti (in particolare per anestesia, radioterapia, allergologia, neurochirurgia, medicina fisica e riabilitazione) e talvolta non vengono neppure assegnate per mancanza della relativa scuola o di partecipanti idonei: cardiochirurgia, chirurgia maxillo facciale, audiologia e foniatria, oftalmologia». Per la commissione «tale situazione evidenzia una discrepanza fra i bisogni del territorio e i relativi interventi». Da qui l’invito «a far sì che l’intervento regionale (pur tenendo conto della completa autonomia delle Università e senza voler minimamente intervenire nell’utilizzo delle assegnazioni del ministero) assecondi gli indirizzi sanitari anche per evitare la “fuga” di malati verso altre regioni con una perdita secca stimata attorno ai 60 miliardi». ____________________________________________________ Repubblica 28 giu. ’01 CORRUZIONE, L'ITALIA SEMPRE TRA I PEGGIORI Rapporto Trasparency: siamo al ventinovesimo posto LUCA FAZZO MILANO - Nella classifica internazionale della corruzione, l'Italia resta tra i paesi peggiori. Un balzo nella direzione giusta non basta. La strada da fare è ancora tanta: secondo il rapporto 2001 di Transparency International, la severa organizzazione con base a Berlino, il nostro paese passa dal 39esimo posto - sulle 91 nazioni censite - al 29esimo. Se - come sostiene Transparency - «tra il vivere in una società trasparente e in una corrotta c'è la stessa differenza che tra una scampagnata con gli amici in una giornata di sole ed essere prigioniero dei banditi in una grotta buia» si potrebbe dire che vivere in Italia è come andarsene a spasso sotto la pioggia, ma con il sereno che ogni tanto fa capolino tra le nuvole. Il rapporto di Transparency viene realizzato ogni anno sulla base non di dati «empirici» (come la quantità di scandali scoperti o di amministratori arrestati) ma della «percezione della corruzione» rilevata in ciascun paese da una serie di ricerche in tre segmenti della popolazione: analisti di rischio, operatori economici e società civile. Dall'analisi incrociata dei dati e dalla media ponderata delle diverse «percezioni», si scopre che nel corso dell'ultimo anno il clima in Italia è cambiato in modo vistoso. Il «voto» finale attribuitoci l'anno scorso era stato un 4,6 ovvero una bocciatura senza mezzi termini; quest'anno il voto è un 5 e mezzo che porta l'Italia a un passo dalla sufficienza. Questa performance ci permette di scavalcare in classifica alcuni paesi del Terzo Mondo che nel 2000 erano stati giudicati più «trasparenti» del nostro come il Costa Rica, la Malesia e il Marocco. Secondo la filiale italiana di Transparency, a convincere gli italiani di vivere in un paese più pulito che in passato hanno contribuito una serie di fattori: dalla ratifica proposta in Parlamento della convenzione Ocse sulla legalità, ai «patti per l'Integrità» recepiti dai sindaci di città come Milano, Genova, Varese e Bergamo, ai master e seminari condotti da alcune tra le università più importanti del paese. Ma dai dati forniti dall'organizzazione si evince anche un dato meno confortante: tra i paesi sviluppati, l'Italia è quello dove le opinioni dei cittadini sull'onestà del paese sono più discordi. Nei nove campioni utilizzati per valutare il nostro paese, vi sono oscillazioni di giudizio vistose, che vano dal pessimismo più radicato ad un cauto ottimismo. Il voto finale di 5 e mezzo è frutto della media tra questi giudizi. Nell'annuario 2001 di Transparency - che è un'organizzazione non profit fondata nel 1993 - sul podio dei paesi più onesti salgono gli stessi tre paesi del 2000: al primo posto la Finlandia, al secondo la Danimarca, al terzo la Nuova Zelanda. Nelle nazioni più importanti del mondo, quelle che fanno parte del G8, la palma della trasparenza va al Canada, mentre peggio dell'Italia è messa solo la Russia che è confinata al 79esimo posto, alla pari con Ecuador e Pakistan. ____________________________________________ L’Unione Sarda 30 giu. ’01 MARTEDÌ IL PRINCIPE RICEVERÀ LA LAUREA AD HONOREM E VEDRÀ I BIMBI DEL BROTZU Ecco il programma ufficiale diramato dalla Prefettura per la visita di lunedì e martedì del principe Alberto di Monaco. Alle 10 l’aereo privato proveniente da Nizza arriverà all’aeroporto militare di Elmas. Alberto Grimaldi verrà accolto dal sottosegretario alla Difesa Salvatore Cicu, dal presidente della Regione Mario Floris, dal prefetto Efisio Orrù e dal comandante dell’aeroporto. Ricevimento con gli onori militari dei carabinieri: verranno eseguiti gli inni nazionali di Monaco e d’Italia. Alle 10. 30 il principe arriverà in Comune, dove ad attenderlo ci sarà il sindaco Emilio Floris, la Giunta e il Consiglio comunale. La visita proseguirà a Villa Devoto: Alberto di Monaco incontrerà il presidente e gli assessori regionali. Subito dopo è in programma una conferenza stampa. Alle 12.45 il principe ereditario si trasferirà in Consiglio regionale e saluterà il presidente Efisio Serrenti, la Giunta e i presidenti dei gruppi consiliari. Alle 13.30, pranzo a Marina piccola offerto da Mario Floris. Nel primo pomeriggio, alle 15, è fissata la visita alla sede del consolato del principato di Monaco. Alle 16.30: il figlio di Ranieri parteciperà all’inaugurazione della mostra “Da Renoir a Picasso, un secolo d’arte dal Petit palais di Ginevra”. Alle 17.30 nuovo incontro con le autorità: il principe visiterà il palazzo Regio (dove peraltro alloggerà la notte) e incontrerà il sottosegretario alla Difesa Cicu e il prefetto Orrù. Alle 18, appuntamento a pochi passi di distanza, all’Arcivescovado, dove è in programma l’incontro con l’arcivescovo Ottorino Alberti. Alle 18.30 nella palestra militare dei carabinieri è prevista un’esibizione di alcuni corpi scelti dell’Arma. La cena è fissata per le 20 al palazzo Regio: ricevimento organizzato dal prefetto, al quale parteciperanno le autorità cittadine. Subito dopo Alberto si ritirerà nelle sue stanze. Martedì, nuova giornata fitta di appuntamenti: alle 9.15 il principe ereditario di Monaco sarà al Brotzu, per visitare i bambini ricoverati, ai quali consegnerà alcuni giocattoli, in collaborazione con l’Amade, l’Associazione mondiale degli amici dell’infanzia, che ha sede a Monaco. Alle 10.30, nuovo importante appuntamento per Alberto Grimaldi, che all’Università (rettorato di via Università) riceverà la laurea honoris causa in Biologia marina. L’agenda prevede poi, alle 12, un incontro (al palazzo Regio) con i dirigenti e i collaboratori della Croce rossa operanti in Sardegna. Seguirà (alle 12.30) l’incontro con i dirigenti regionali del Coni. Alle 13.30 il principe pranzerà al Convento di San Giuseppe col sindaco Emilio Floris. È l’ultimo appuntamento prima della partenza, fissata - sempre all’aeroporto di Elmas - per le 16 alla di Nizza. ==================================================== ____________________________________________________ La Nuova Sardegna 26 giu. ’01 POLICLINICO: CGIL E CISL ACCUSANO LA CISAL DI FAVORIRE I MEDICI Al Policlinico ora è guerra fra le sigle sindacali per la divisione degli utili Cagliari. Sul problema della distribuzione degli utili di gestione al Policlinico dell'Università, Cgil e Cisl replicano duramente alle accuse della Cisal, che in una nota diffusa nei giorni scorsi aveva contestato i criteri scelti dalla direzione della struttura insieme ai due sindacati confederali: "I fatti parlano da soli - è scritto in una nota formata dalle segreterie di categoria - con un clamoroso voltafaccia la Cisal ha brutalmente sconfessato la propria delegazione ufficiale che nella riunione del 13 giugno aveva pienamente approvato insieme alle altre organizzazioni sindacali, alla Rsu e ai rappresentanti dell'azienda Policlinico i criteri per la ripartizione degli utili di esercizio degli anni 1997-2000. L'accordo siglato - scrivono Cgil e Cisl - è coerente con il precedente protocollo d'intesa sottoscritto con il Rettore, con il quale erano state determinate le somme da destinare all'incentivazione del personale, da ripartirsi successivamente introducendo un principio di perequazione. Un'esigenza molto sentita tra il personale del Policlinico - scrivono i due sindacati - di trovare un correttivo alle forti sperequazioni retributive dovute ad un superato e ingiusto sistema di equiparazione del personale universitario a quello ospedaliero". Secondo Cgil e Cisl questo sistema "determina una forte discriminazione nei confronti soprattutto del personale infermieristico, ma anche di parte del personale tecnico e amministrativo. Con l'accordo del 13 giugno si è introdotto appunto un criterio che favorisce, solo nella ripartizione degli utili di esercizio, queste categorie di personale. Ed è questo criterio che viene ferocemente contestato dalla Cisal a una settimana dall'accordo". Per Cgil e Cisl "le ambiguità di anni sono venute a galla, il vero azionista di riferimento della Cisal dell'Università è la componente più corporativa e vorace del personale medico, mentre le altre categorie, sulle quali la Cisal ha demagogicamente costruito le sue fortune in questi ultimi anni, facendosene a parole il paladino, alla prova dei fatti vengono abbandonate al loro destino". _____________________________________________________________ Corriere Della Sera 26 giu. ’01 TROPPI RICOVERI, CONTI IN ROSSO NEGLI OSPEDALI. A Brescia sono oltre 60.000 all' anno. Solo Milano e Varese sotto la media Cifre fuori controllo anche a Bergamo, Mantova, Cremona e Sondrio. Appello della Regione: vanno ridotte Troppi ricoveri, conti in rosso negli ospedali A Brescia sono oltre 60.000 all' anno. Solo Milano e Varese sotto la media MILANO - Troppi i ricoveri in Lombardia. Ed è la provincia di Brescia a vantarne il maggior numero. Secondo i dati della Regione, nel ' 99 gli Spedali hanno effettuato oltre 60 mila prestazioni con degenza superiore alle 24 ore. Quasi 170 al giorno, con una media di 220 ogni mille abitanti. Nonostante le indicazioni dell' assessorato regionale alla Sanità di ridurre il loro numero, oggi il tasso di ospedalizzazione è arrivato solo a 211. Ancora troppo alto rispetto alla media lombarda di 164 e quella di 160 suggerita d al ministero. «Stiamo lavorando per abbassarlo ulteriormente - spiega Raffaele Spiazzi, responsabile della programmazione e della pianificazione strategica degli Spedali -, l' obiettivo è arrivare a 90 mila all' anno, compresi i ricoveri brevi». Le difficoltà, però, sono grandi: malattie croniche e pazienti anziani allungano le degenze e non facilitano le dimissioni. La soluzione sarebbe organizzarsi per l' assistenza a casa, ma per questo i tempi non saranno brevi. A settembre, invece, partirà l' astanteria, una struttura adiacente al pronto soccorso che presterà servizi più veloci e a basso costo. Non è migliore la situazione nelle altre province lombarde: da Bergamo a Mantova fino a Cremona. Fanno eccezione Varese, Milano e hinterland. A Milano città si verifica il minor numero di ricoveri: 149 ogni mille abitanti. Mottola ____________________________________________________ Repubblica 30 giu. ’01 LA SANITÀ SU INTERNET PUÒ AIUTARE IL CITTADINO Prenotazioni on line, nuova era degli ospedali Decine di nosocomi sono presenti sulla Rete e offrono servizi utili ai malati FRANCESCA TARISSI Se il caldo dell'estate per molti di noi è sinonimo e preludio di riposo, svago e vacanze, per altri, invece, non è che il segnale dell'inizio del periodo più difficile e faticoso dell'anno. Quando, infatti, non si è più giovanissimi o si sta davvero male e la colonnina di mercurio supera i 30 gradi, la stagione tanto attesa si trasforma in un vero incubo, reso insopportabile dall'afa che acutizza i sintomi e la sofferenza di chi è costretto a restare in città a causa di una salute precaria. Poter allora usufruire di piccole comodità direttamente da casa senza doversi immergere nella calura degli asfalti roventi può significare molto. Nella fattispecie, diventa un vantaggio non indifferente saltare la lunga trafila della coda allo sportello ospedaliero e prenotare un consulto medico, una visita specialistica o un'analisi di laboratorio direttamente via telefono o email. I pazienti del Policlinico Agostino Gemelli di Roma, ad esempio, possono accedere ai servizi della struttura sanitaria chiamando i numeri dei vari reparti o utilizzando il computer. Basta, infatti, collegarsi all'indirizzo Web http://ntweb.rm.unicatt.it/gemelli /poli.htm, selezionare la voce Carta dei Servizi, cliccare su Prenotafacile, fornire le informazioni richieste e riservare in tal modo un controllo, un esame o una terapia. La praticità del mezzo telematico, inoltre, consente di non giungere inadeguati all'appuntamento col medico ma di essere previamente informati sulla preparazione fisica necessaria per la visita, sulla documentazione richiesta, sui costi e persino sul percorso da fare per arrivare all'ambulatorio senza penare in inutili giri. Ovviamente il Policlinico romano non è l'unica struttura sanitaria ad aver avviato un processo di modernizzazione del genere, anche il Centro Sarcomi di Milano (www.see.it/infomed/sarcomi/ index.html), l'Istituto Ortopedico Gaetano Pini (www.gpini.it/ index.html) e il Dipartimento Oncologico dell'Usl di Ravenna (www.oncologia.ausl.ra.it/ita/index.htm) si sono organizzati in tal senso: si riempie un moduletto on line e si viene contattati telefonicamente o per posta elettronica per avere conferma dell'appuntamento. E mentre al San Giovanni Addolorata di Roma (www.hsangiovanni.roma.it), all'Asl di Cividale del Friuli (http://space.tin.it/salute/cseglm) e all'unità oncologica del S. Eugenio (www.geocities.com/HotSprings/Spa/3929/) al momento si può solo prenotare telefonicamente, l'Azienda Ospedaliera Santa Croce e Carle di Cuneo (www.scroce.sanitacn.it) permette addirittura la scelta on line tra 12 ambulatori, rigorosamente elencati nel sito con le varie specialità disponibili. Così, ad esempio, se si vuole fissare una visita ginecologica, si è subito avvisati che l'ambulatorio di Ginecologia è situato presso il S.Croce, che l'attesa media per l'appuntamento è di un giorno e che il ticket può essere pagato all'interno dell'ospedale stesso. Le strutture sanitarie che cercano di venire incontro ai bisogni dei cittadini non si esauriscono certamente nell'ambito degli esempi fatti, quindi, se avete necessità d'informarvi su un ospedale o un tipo di cure in particolare, non disperate ma provate a cercarli su Internet attraverso Ospedale.net (www.ospedale.net) o, meglio ancora, Ospedalionline.com (www.ospedalionline.com). ____________________________________________________ Repubblica 27 giu. ’01 USA, ADDIO ALL'OSPEDALE DEI POVERI dal nostro inviato VITTORIO ZUCCONI WASHINGTON - Datemi i vostri miserabili, i vostri oppressi, le vostre masse accalcate, è scritto ai piedi della Statua della Libertà, ma da ieri una riga andrebbe aggiunta: tenetevi i vostri malati poveri perché nell'Ospedale America non ci sono più letti per loro. Ha chiuso anche a Washington, nella capitale, il General Hospital, l'ultimo Lazzaretto per gli ultimi lebbrosi della medicina privatizzata, per coloro che non possono permettersi l'assicurazione medica. Erano accolti soltanto qui, senza l'elettrocardiogramma alla carta di credito né la Tac al libretto degli assegni. Costava troppo, era male organizzato, le stanze erano divenute ospizi ed è tutto vero, tutto dimostrato nei conti della città. Tutto è dimostrato nei conti della città. Ma non è stato facile spiegarlo all'ultimo paziente sloggiato ieri mattina, a Ronald Ospey, messo per strada a 65 anni con il suo bel diabete e una gamba già amputata. Monumento esemplare al romanzo dickensiano della sanità in America, a quella medicina che non vediamo mai dietro i telefilm rassicuranti e gli annunci di scoperte prodigiose, il General Hosptal era realmente l'ultima frontiera per i "miserabili" della Capitale, non per terapie miracolo, ma per le piccole battaglie quotidiane della salute, il parto, il trauma, la ferita da taglio, la visita pediatrica, la manutenzione della vita umana. Nelle giornate delle grandi immigrazioni di afroamericani da Sud verso la capitale, nel dopoguerra, duemila pazienti si erano affastellati nelle sue corsie e generazioni di laureati in medicina e chirurghi destinati alle cattedre universitarie e agli studi in Park Avenue avevano fatto qui il loro tirocinio di guerra. Nella War Zone come la chiamavano, dove le battaglie erano combattute spesso alla maniera di "Mash". «Mancava sempre qualcosa - ricordava ieri Ronald David, un cattedratico di Harvard venuto qui a finire la sua carriera - un ago, una siringa, un anestetico, ma non mancava mai lo spirito. Qui si tornava a fare i medici e i chirurghi, non più i mercanti di medicina». Ma nel tempo della grande sbornia privatista dopo la sbornia statalista, non potevano che vincere i mercanti e i contabili, sopra i missionari in camice bianco come questo professore, che ha deciso, non per caso, di farsi prete cattolico a 60 anni, ora che l'ospedale ha chiuso. Alla fine dei suoi giorni, il Lazzaretto alla frontiera della città ospitava appena 120 malati, quasi sempre abbandonati a se stessi, perché non tutti i medici hanno il dovere di essere santi e da quando il comune di Washington aveva smesso di pagare i conti, era un miracolo se nella E.R., l'Emergency Room, cioè il pronto soccorso, a fare i turni di guardia, c'era un studente di medicina. Costava 180 miliardi di lire l'anno, quasi un miliardo e mezzo per paziente, la somma che ora il sindaco Williams verserà a un consorzio di assicuratori privati che hanno giurato di assistere tutti i malati senza polizza che si presenteranno negli altri ospedali privati della città. Ci credono in pochi, che le assicurazioni accetteranno di garantire qualcosa più di un puntura di morfina, appunto come al fronte. E non ci credono soprattutto coloro che, al fondo della scala sociale, sapevano che almeno in ogni città, in ogni contea, ci doveva essere un ospedale obbligato ad accoglierli, per quanto scalcagnato e male attrezzato come il DC General. «Anche se non ce ne servivamo - raccontava Shelly Powers, che nelle sue sale parto ha messo al mondo sei figli - ci addormentavamo sapendo che era lì, giusto in caso di necessità». Non ci possono credere, perché dalla nascita degli Stati Uniti, loro si sentono ripetere che presto anche la nazione più ricca del mondo che progetta scudi spaziali da 80 mila miliardi l'anno e produce film che ormai costano regolarmente il doppio di questo ospedale, avrà un servizio sanitario per tutti. Mille volte è sembrato che il traguardo fosse vicino, con i rooseveltiani negli anni ‘30, con Johnson nell'ora della Grande Società e poi con i Clinton, Billy e la Hillary, che arrivarono a Washington brandendo il loro "contratto" con l'elettorato, la mutua per tutti, che la signora portò trionfalmente, rilegato in pelle blu scura, in Parlamento nel 1993 e là ancora giace, morto e sepolto. C'erano 36 milioni di americani, all'inizio del 1992, senza alcuna forma di copertura sanitaria. Ce ne sono 44 milioni oggi, un milione in più all'anno. Nel "buon cuore" del nuovo Presidente Bush, l'uomo che aveva promesso compassione, non ci può essere posto per un sistema sanitario nazionale che lui, il suo partito, e i suoi elettori considerano l'ultima incarnazione del bolscevismo, come quello che i vicini del Nord, gli "stalinisti" canadesi, hanno adottato da anni. Persino un mitissimo progetto di legge per la "Carta dei Diritti dei Pazienti" che sta faticosamente arrampicandosi in Senato spinto dal democratico Ted Kennedy e dal repubblicano John McCain, per dare ai malati qualche ricorso legale contro la tirannide delle assicurazioni che giocano a Dio concedendo cure in base ai premi versati, fa orrore alla Destra. Giorgio II Bush ha già promesso di fermarlo con il suo veto presidenziale, semmai diventasse legge. Bush preferisce fare appello alla carità delle organizzazioni religiose, che già fanno moltissimo, e invocare il totem del mercato, che troverà il giusto equilibrio anche sulla piazza della salute dove si genera una spesa annuale di un trilione di dollari, oltre due milioni di miliardi di lire, in America, e dunque dovrebbe attirare i mercanti. Ma quello che decenni di storia hanno dimostrato, e che la caduta dell'ultimo lazzaretto di Washington simboleggia, è che il mercato, nell'economia della salute, non funziona affatto. Che non ci sono profitti legittimi da fare nella cura di quei 44 milioni di lebbrosi senza polizza. E non c'è neppure alcun profitto politico, perché i poveri non votano, non fanno base. Fanno soltanto, e neppure sempre, pena. Da oggi, comincia dunque per i malati del ghetto la corsa dell'ambulanza tra i pronto soccorso degli Ospedali, che in altre nazioni si attribuisce alla cattiva sanità statale. Chi vincerà, vivrà. I poveri non votano e neppure votano i morti, tranne che a Chicago o in Florida dove si fanno spesso eccezioni, e l'America che vota preferisce che il sistema resti così, nella cultura Far West del «peggio per te» che gli spot e le lobby delle grandi compagnie di assicurazione coltivano. Guai ai vinti, e guai a quei venti malati di Aids che sono stati espulsi dal Washington DC General Hospital, insieme con i bambini e il diabetico. Mentre a New York l'Onu celebrava compiaciuto e tronfio il giorno della lotta contro l'Aids in Africa. ____________________________________________ L’Unione Sarda 27 giu. ’01 ALTA CHIRURGIA DEL CUORE ALL’OSPEDALE BROTZU Da ieri a giovedì sono in programma una serie di interventi al cuore su bambini e adulti. Operazioni speciali per le quali, di norma, i pazienti sardi sono costretti a emigrare all’estero. Stavolta, invece, saranno operati a Cagliari, grazie a un’iniziativa della Cardiochirurgia e della Chirurgia pediatrica del Dipartimento cuore del Brotzu. Per tre giorni, Sylvain Chauvaud, esponente di punta della grande scuola di Cardiochirurgia dell’Hopital Broussais, di Parigi, (collaboratore del caposcuola Carpentier) terrà sedute operatorie insieme agli specialisti dell’ospedale cittadino. Chauvaud, che attualmente lavora all’Hopital Européen Georges Pompidou (Parigi) è uno dei maggiori esperto di riparazione di valvole cardiache. Ed è proprio in questo campo che Chauvaud interverrà, unitamente ad Alessandro Ricchi, responsabile della divisione di Cardiochirurgia di Cagliari, per correggere malformazioni considerate gravi ed abbastanza rare. Sono cinque (tra adulti e bambini) i pazienti candidati all’operazione, tutti affetti da malformazioni congenite piuttosto severe delle valvole mitraliche e tricuspide, attualmente seguiti da Roberto Tumbarello, responsabile del reparto di Cardiologia pediatrica. Proprio a causa della gravità di queste patologie i pazienti che ne erano colpiti venivano sinora trasferiti nei pochi centri al mondo in grado intervenire con buone probabilità di successo. In questi giorni, invece, vengono affrontati in uno dei più moderni ospedali dell’isola. Il che comporta un indubbio risparmio economico per la Regione . Ma non è certo questo l’aspetto più rilevante. L’interscambio di esperienze professionali tra chirurghi come Chauvaud e i medici cagliaritani costituisce la premessa per un arricchimento culturale per il mondo della cardiologia isolana. Eventi come quello appena descritto non sono destinati a restare episodici. Già in passato il Brotzu aveva curato gli scambi a livello professionale tra i propri medici ed elementi di spicco di alcune discipline, in particolare quelle cardiologiche. Oggi questo genere di esperienze prosegue nell’ambito di un disegno ben preciso che punta sul rilancio di tutte le attività chirurgiche, ma con una particolare attenzione per quelle attinenti alla cardiologia. In questo quadro non si può prescindere dalla valorizzazione delle professionalità interne, da realizzare attraverso stages di perfezionamento fuori dall’isola ma anche favorendo l’arrivo di specialisti dal continente e dall’estero. La promozione di queste attività prelude all’istituzione, nell’ambito della cardiochirurgia di una nuova specializzazione nel campo pediatrico. Obiettivo raggiungibile solo quando la Regione approverà i nuovi DRG (rimborsi per singole prestazioni) e sarà quindi possibile completare gli organici. Nel frattempo, il Brotzu si prepara, sotto il profilo tecnico professionale, a svolgere anche questa nuova attività, per venire incontro a una domanda di assistenza che oggi la Regione riesce a soddisfare solo a prezzo di notevoli esborsi finanziari e pesanti disagi per i pazienti, costretti a cercare oltremare ciò che non riescono a trovare nella propria isola. L. S. ____________________________________________ L’Unione Sarda 26 giu. ’01 NUORO: IL CHIRURGO GUIDATO DAL COMPUTER Sanità. Ieri la dimostrazione del sistema di navigazione Orthopilot, operata al ginocchio una donna di 75 anni Primo intervento in Sardegna nel reparto cittadino di Ortopedia È l’altra faccia di un ospedale in perenne lotta con gli spazi che mancano, la pesante eredità di decenni di mancata programmazione, le inevitabili carenze. In quest’ospedale che, inutile negarlo, fino a pochi anni fa godeva di non splendida fama, si affermano belle realtà talvolta ignorate. Sotto i riflettori restano le file interminabili, l’affollamento, la mancanza totale di alcuni servizi. Un esempio? Un qualsiasi problema agli occhi impone un’immediata trasferta ad Ozieri. Ma l’altra faccia esiste e ieri mattina ha conquistato la sua prima fila con un piccolo evento: il primo intervento in Sardegna eseguito con l’Orthopilot, un sistema operativo di navigazione computerizzata usato correntemente nei centri europei più qualificati di chirurgia protesica. Un intervento per ora solo dimostrativo: lo strumento costa quasi un miliardo e la Asl non ha ancora deciso se acquistarlo. La prima paziente operata in Sardegna con questo metodo è una donna di 75 anni alla quale ieri mattina l’equipe diretta dal primario Giuseppe Mela ha impiantato una protesi nel ginocchio. La novità è che la mano del chirurgo è stata guidata dal navigatore elettronico, un software che la indirizza nel momento delle osteotomie femorali e tibiali permettendo così il posizionamento ottimale delle protesi essenziali per la funzionalità dell’articolazione. Un metodo teoricamente infallibile. «L’obiettivo cui tende la medicina è ovviamente la ripetibilità dell’intervento», spiega Giuseppe Mela: «Il robot serve a ridurre a zero la possibilità di errore e a portare al cento per cento i buoni risultati clinici e funzionali». Che ovviamente dipendono da molti altri fattori: dall’età del paziente alle altre patologie, dalle condizioni generali allo stile di vita. Questo tipo di valutazione finora viene fatta con uno strumento di tipo meccanico e ovviamente la possibilità di errore è più alta. Il direttore generale Efisio Scarteddu ha spiegato che lo strumento potrà essere acquistato in un prossimo futuro. «Ortopedia è un reparto di eccellenza e faremo tutti gli investimenti possibili per migliorarne le performance». Che sono già eccellenti, dice la fredda realtà dei numeri, con parametri nettamente superiori alla media nazionale. Negli ultimi nove anni in Ortopedia sono stati effettuati 600 interventi di artroprotesi dell’anca e 400 del ginocchio. È stato così molto limitato il ricorso all’emigrazione sanitaria. Con indubbi benefici anche per i conti pubblici. Ma i problemi restano, soprattutto sul fronte degli spazi e delle strutture. Il reparto ha solo venti posti letto e finiscono così per trovar posto solo i casi più urgenti. Uno dei primi passi sarà il potenziamento della chirurgia ortopedica dell’ospedale di Tempio che permetterà di decongestionare Olbia. Il problema fondamentale dell’ospedale è lo stesso che affligge tutta la città, l’enorme afflusso estivo che fa diventare tutte le strutture sottodimensionate. Secondo stime attendibili nel territorio che fa riferimento all’ospedale di Olbia in estate gravitano sette milioni di persone. «Noi stiamo facendo di tutto per assicurare un servizio efficiente, - spiega ancora Efisio Scarteddu - anzitutto con l’assegnazione delle guardie mediche turistiche che sta avvenendo in questi giorni. L’obiettivo è far arrivare in ospedale solo i pazienti che ne hanno veramente bisogno. E poi ci saranno assunzioni a tempo determinato». Resta il problema degli spazi. Quando arriverà la risonanza magnetica sarà allestita nel poliambulatorio di via Canova perchè in corsia non c’è posto. In attesa del nuovo ospedale. Caterina De Roberto ____________________________________________ L’Unione Sarda 29 giu. ’01 SASSARI: CARDIOCHIRURGIA, IL REPARTO DELLA DISCORDIA RIAPRE DA MARTEDÌ Riprenderà martedì prossimo l’attività del servizio di Cardiochirurgia della Asl n.1, interrotta il 9 maggio scorso. La decisione è stata presa dal direttore del Servizio, il professor Guglielmo Barboso, in seguito agli impegni assunti dall’assessore regionale alla sanità Giorgio Oppi. A Sassari, per l’inaugurazione delle nuove sale sterili dell’Unità trapianti renali del “SS. Annunziata”, Oppi aveva dichiarato: «Fra brevissimo potenzieremo la Cardiochirurgia del Brotzu di Cagliari e istituiremo il servizio di Sassari, che potrà garantire alcune centinaia di interventi l’anno». Successivamente, l’assessore aveva avuto un incontro privato con il cardiochirurgo che aveva deciso di interrompere l’attività in segno di protesta contro la carenza di locali e organici destinati a Cardiochirurgia. Dopo il clamoroso gesto del professore, Oppi aveva sottolineato le difficoltà che l’assessorato ha dovuto superare per aprire la strada al riconoscimento ufficiale del Servizio di Cardiochirurgia istituito un anno fa con una semplice delibera firmata dal direttore generale della Asl. Barboso ne aveva preso atto, ribadendo però l’esigenza dell’assunzione di un impegno preciso per poter riprendere l’attività operatoria. Martedì scorso questo impegno è stato rafforzato dalla discussione in giunta regionale del piano di ristrutturazione dei posti letto nelle Asl dell’Isola, preliminare all’istituzione del Servizio di Cardiochirurgia. Ieri Barboso ha avuto un incontro con i dirigenti della Asl e con il preside della Facoltà di Medicina, Giulio Rosati, che lo hanno incoraggiato a riprendere l’attività. Al ”SS. Annunziata” sono stati effettuati finora 117 interventi di cardiochirurgia. (gbp) ____________________________________________ L’Unione Sarda 28 giu. ’01 ASL 7, MENO 52 MILIARDI: PAGANO I CITTADINI? Investimenti al minimo e nuovi servizi ridotti all’essenziale nei programmi mentre i sindaci chiedono le cifre Quasi metà del bilancio (136 mila milioni) per pagare gli stipendi Adesso i sindaci si chiedono: chi pagherà? La cura per la sanità pubblica malata di conti in rosso arriverà ancora una volta dalla mano benevola dello Stato? Oppure saranno i cittadini a mettere mano al portafogli? La presentazione del bilancio di previsione dell’Azienda sanitaria locale 7 del Sulcis, con 52 miliardi di disavanzo, ha suscitato qualche perplessità. Ma neppure la perizia contabile degli amministratori é servita a fare quadrare i conti. La previsione si chiude con un deficit che è della stessa entità di quello della precedente gestione. Ne hanno dovuto prendere atto, ieri, i sindaci del Distretti di Iglesias al pari di come avevano dovuto fare due giorni fa i loro colleghi di Carbonia. Significa che la macchina sanitaria viaggia ormai su un budget di spese fisse che non può essere ridotto senza tagliare i servizi o i posti letto. Una delle cifre fisse più consistenti alla voce “uscite” è quella del personale: 136 miliardi per pagare poco meno di duemila camici bianchi. Poi ci sono le spese generali, le attrezzature, i servizi in appalto, il materiale di consuno. Tutte uscite obbligate che fanno schizzare le spese oltre il tetto dei 290 miliardi. Una cifra importante. Ancora più imponente di quella delle risorse che Stato e Regione trasferiscono nelle casse della Asl, appena sopra i 240 miliardi. In questa situazione diventa difficile parlare di investimenti o di politiche di potenziamento dei servizi sanitari. Ecco che allora nei prossimi tre anni non verranno spesi che una cinquantina di miliardi per rinnovare gli ospedali e le attrezzature la metà dei quali concentrati nel 2002. I presidi di Iglesias faranno la parte del leone. Nelle previsioni per il prossimo anno la ristrutturazione del Cto destinato a diventare un polo chirurgico con il 118, la rianimazione e la dialisi assorbirà 12 miliardi e 700 milioni. Altri 4 miliardi e 410 milioni verranno investiti per trasformare il Santa Barbara e adattarlo ad ospitare i reparti di lungodegenza, i poliambulatori e i servizi riabilitativi. Al “Sirai” andranno invece 6 miliardi e 700 milioni. Investimenti a parte, però, alcuni dei sindaci del Sulcis hanno sollevato qualche eccezione e chiesto ai dirigenti della Asl di conoscere le cifre disaggregate del bilancio. «Vogliamo vedere, ad esempio, come le risorse della Asl vanno distribuite nel territorio e tra le strutture centrali e quelle periferiche per capire quale sia la reale volontà di decentrare i servizi», ha spiegato il sindaco di Giba Gianfranco Porcina. Ma le amministrazioni del Sulcis hanno chiesto anche di conoscere i dati della spesa divisa tra i due distretti dell’Azienda, Carbonia e Iglesias. «È importante sapere se le risorse vengono ripartire tenendo conto della concentrazione della popolazione», ha puntualizzato l’assessore ai servizi sociali del Comune Pierfranco Gaviano. Chiarimenti che i sindaci si aspettano di riceve in occasione della prossima riunione con i manager della Asl fissata per il 9 luglio. In ogni caso non sembra che, con un disavanzo di 52 miliardi, ci siano molti margini per manovre diversive. Il bilancio è povero e lo testimonia anche l’elenco, abbastanza modesto, dei servizi aggiuntivi che l’Asl 7 intende offrire ai suoi 170 mila assistiti: un reparto per malati terminali e cure palliative, il servizio di oncologia medico-chirurgica, la medicina nucleare, i servizi di riabilitazione, quello di diabetologia. Quindi la radiologia territoriale nel poliambulatorio di Giba, l’odontostomatologia e l’urologia. Per il 2002, salvo miracoli, è tutto e non si sa ancora chi pagherà il conto. Sandro Mantega ____________________________________________ L’Unione Sarda 27 giu. ’01 ALES: ATTESE RECORD PER LE VISITE SPECIALISTICHE Monta la protesta degli amministratori locali contro l’azienda sanitaria accusata di voler smantellare i servizi Ales, 60 giorni per una radiografia e 80 per una visita cardiologica ALES Radiografia di un servizio sanitario che sembra davvero intenzionato ad abbandonare il territorio dell’Alta Marmilla. Basti pensare che nel poliambulatorio di Ales sono ben sessanta i giorni d’attesa proprio per una visita in radiologia, servizio privo anche di uno specialista. È passato solo qualche giorno dalla dura presa di posizione della giunta della Comunità montana Alta Marmilla sui problemi relativi all’Asl di Ales: ora a parlare sono i dati raccolti agli sportelli di prenotazione del poliambulatorio. Il presidente Paoletto Serra ha invitato tutti i sindaci dei comuni dell’ex comprensorio ad approvare lo stesso ordine del giorno deliberato dall’esecutivo della Comunità montana: pericolo costante di smantellamento per i servizi sanitari nel territorio, disagio degli utenti, costretti a trasferirsi, per molte visite specialistiche ad Oristano. E ancora denuncia delle gravi responsabilità dell’Asl numero cinque di Oristano e dell’assessorato regionale alla Sanità sui servizi dimezzati nel poliambulatorio di Ales, richiesta di un confronto serrato con i vertici dell’azienda e invito alla mobilitazione dei primi cittadini e delle popolazioni del territorio. Troppo radicale parlare di smantellamento? Dai dati sui tempi di attesa per le visite ad Ales non si direbbe proprio. Trenta giorni per il servizio di angiologia, nel quale lo specialista è presente solo due volte la settimana. Altrettanti per dermatologia e non vengono effettuate “diatermo-coagulazioni”, un metodo per il trattamento di determinate lesioni cutanee, in quanto l’apparecchio non risponde alle norme Cee. Quaranta giorni per una visita oculistica, con prenotazioni chiuse in quanto a giugno scade la convenzione con il medico. Sessanta giorni per neurologia, altrettanti per radiologia. Ottantuno giorni per un controllo cardiologico, prenotazioni chiuse, e non vengono effettuati gli esami “Holter”. Il top dell’attesa per i pazienti che devono sottoporsi a un’ecografia o a una visita odontoiatrica. Non ci sono inoltre specialisti negli ambulatori di ortopedia, radiologia e senologia. Nei giorni scorsi, Eugenio Strianese, direttore dell’ Asl di Oristano, ha scritto al presidente della Comunità montana Paoletto Serra per richiedere l’elenco dettagliato dei servizi sanitari offerti dal Poliambulatorio, che la stessa Asl avrebbe smantellato. «Mi sembra che questi dati parlino chiaro», commenta Serra, «la nostra lotta continua, perché non siamo disposti, in nessun modo, a permettere che il nostro territorio, già penalizzato per l’assenza di altri servizi di base, subisca un nuovo taglio nel settore sanitario». Intanto, ieri pomeriggio, il consiglio comunale di Ales si è riunito per discutere dell’emergenza sanità nel poliambulatorio. Antonio Pintori ____________________________________________________ Il Messaggero 27 giu. ’01 SIRCHIA: «LA DROGA È DEI DEBOLI E NON PUÒ ESSERE LIBERALIZZATA» Il ministro della Sanità: «Chi fa ricorso a stupefacenti è un debole, lo Stato non deve incoraggiarlo» di ROSSELLA CRAVERO ROMA - Lo aveva annunciato. Sarebbe stato un ministro della Sanità contro le "dipendenze" e ha mantenuto la parola. Lo aveva detto riguardo al fumo. La "bomba" è scoppiata prima, nella giornata mondiale contro la droga. Girolamo Sirchia non ha usato mezzi termini: «Non sono favorevole alla liberalizzazione della droga». Durante il convegno "Scacco al sistema" organizzato dal comune di Milano il neoministro della Sanità ha specificato: «Non faccio distinzioni tra droghe leggere e droghe pesanti, e dico no alla liberalizzazione perché aumentare l’offerta significa aumentare la domanda. Non solo, ammettere la liberalizzazione sarebbe come dire ai nostri ragazzi che in fondo la droga non è una cosa così pericolosa, tanto che la si può vendere». Di fronte all’inevitabile raffronto con il suo predecessore Veronesi, che aveva scaldato gli animi per essersi espresso contro il proibizionismo, Sirchia ha precisato: «Quello che dico non è in disaccordo con le opinioni del mio predecessore. Veronesi ha detto solo che l’ipotesi di una forma di liberalizzazione andava studiata. ma ci sono già dei dati e per me sono negativi: nei paesi dove si è liberalizzato il fenomeno si è accresciuto». L’ematologo ha definito un uomo debole colui che ha bisogno di ricorrere a droga fumo o alcol per competere con gli altri. E lo stesso ministro della Sanità ha illustrato quella che secondo lui deve essere la strategia contro «le dipendenze»: promuovere un’azione congiunta col ministero dell’Università e con quello della Comunicazioni per redigere «un messaggio di buona salute» che dovrebbe essere raccolto da un’agenzia che lo distribuisca nel Paese intero. Tiziana Maiolo, nuovo assessore ai servizi sociali del Comune di Milano e già parlamentare di Forza Italia, invece sostiene che va fatta la dovuta differenza tra legalizzazione e liberalizzazione. Plausi da An. «Bene Sirchia. Anche e soprattutto su questi temi il governo della Cdl deve marcare una differenza chiara e netta rispetto ai governi di centrosinistra, che puntando tutto sulla sola politica della riduzione del danno, hanno accettato il "fatto" della tossicodipendenza cronicizzando la situazione, invece di cercare di rimuoverla». Ha affermato il senatore Michele Bonatesta, coordinatore nazionale dei comitati contro la droga di An. Duro l’attacco di Pannella: le dichiarazioni di Sirchia «sembrano appartenere più al tradizionale ciarpame politico-culturale di stampo clerico-autoritario, antiscientifico e ideologico, che ad altro. Se questo, la dipendenza, "è il male", possiamo e dobbiamo attenderci dal ministro talebanico la proibizione assoluta della produzione, del commercio, dell'uso di alcool, e non solo di tabacco; di psicofarmaci, di terapie del dolore per non moribondi». Critiche anche dai Verdi: «Una posizione ideologica, tipica di un fondamentalismo incapace di affrontare la realtà». È quanto dichiara il Verde Paolo Cento. «Non siamo assolutamente d'accordo con la linea del ministro Sirchia, contrario a qualsiasi ipotesi di legalizzazione delle droghe. Le politiche di riduzione del danno, applicate da numerosi paesi europei, hanno avuto risultati positivi in termini di prevenzione e recupero» è invece la risposta Titti De Simone, parlamentare di Rifondazione Comunista in risposta alla posizione del ministro della Sanità. «Il proibizionismo invocato da Sirchia - aggiunge la deputata - porta alla criminalizzazione dei consumatori e lascia fiorente il mercato della droga nelle mani della criminalità organizzata che gestisce i traffici internazionali». E non potevano mancare le dichiarazioni di chi, la lotta alla droga, la vive quotidianamente: «Dovremmo finirla di discutere di liberalizzazione sì, liberalizzazione no. Questo è un falso problema — ha detto don Mario Picchi, fondatore del Centro italiano di solidarietà, Ceis — il problema non è la liberalizzazione ma cosa facciamo per evitare che i ragazzi provino il disagio che provano». ____________________________________________ L’Unione Sarda 27 giu. ’01 ARTROSI, NON È SOLO LA MALATTIA DELLA NONNA Corso di educazione sanitaria per insegnare alla gente come convivere con una patologia molto diffusa In Italia i sardi sono quelli che soffrono di più per i reumatismi Si fa presto a dire reumatismo, nella realtà questa patologia assume più di cento forme diverse, che colpiscono il 12 per cento della popolazione mondiale (oltre 10 milioni di persone in Italia). Chi non ha sentito il tormentone: «Ho la cervicale», accompagnato da una smorfia di sofferenza. Con riferimento, implicito, all’artrosi, la più diffusa tra le malattie reumatiche, la principale causa d’ invalidità, una vera iattura per le articolazioni. Perché quando si innesta quello che i medici chiamano “un processo degenerativo della cartilagine”, con contorno di osteofiti (piccole escrescenze ossee) sono dolori. E non in senso metaforico. È il momento di correre ai ripari, cioè al medico, per imparare a convivere con la malattia. Sia ben chiaro, l’artrosi è cronica, non guarisce, ma ci si può andare d’accordo, rallentandone la progressione e soprattutto eliminando quei maledetti dolori. Che il problema sia di grande attualità se n’è avuta dimostrazione venerdì scorso, a Cagliari, durante un Corso di educazione sanitaria sull’artrosi organizzato al Caesar’s hotel. In una sala gremita, (molta gente in piedi) hanno parlato di artrosi Rosalia Uras, reumatologa universitaria al Policlinico di Monserrato e l’ortopedico Claudio Chelo. Ne è venuta fuori una vera e propria carta d’identità di questa malattia dagli alti costi sociali (in Italia, 17.500 miliardi all’anno) diffusa, democraticamente, in tutte le categorie di individui, senza grosse differenze tra le regioni. Fa eccezione la Sardegna, che registra un record del 34,3 per cento. Un tempo l’immagine dell’artrosi era legata alla vecchiaia, oggi, grazie ai più moderni metodi diagnostici, si è accertato che inizia a comparire dopo i 40 anni, anche se la fascia più tartassata è quella dei sessantenni e, passati i 75, ce l’hanno tutti. Colpisce prima i maschi che le donne, anche perché alcune forme sono causate dall’usura delle articolazioni provocata da mestieri pesanti. Nell’altra metà del cielo arriva più tardi ma con maggiore frequenza. Per tutti, i punti di crisi sono la colonna, ginocchia, polsi, gomiti, anca, caviglia e spalla. Riguardo alle cause, come ha spiegato la dottoressa Uras, «si formula una serie di ipotesi, riguardanti fattori genetici, endocrini, vascolari, un iperuso delle articolazioni, e l’obesità, anche se non è chiaro se sia il sovraccarico o un’alterazione del metabolismo a causare l’usura della cartilagine. Attualmente, l’attenzione di molti ricercatori si sta soffermando proprio sul metabolismo della cartilagine». In attesa di novità dalla scienza, è possibile fare prevenzione? «È necessario stare attenti alle manifestazioni cliniche (cioè al dolore) ma anche all’eventuale presenza di iperglicemia e alle alterazioni del metabolismo lipidico - ha ammonito la dottoressa Uras - badando bene a non prendere farmaci prima di avere una diagnosi precisa. Perché eliminando il sintomo, si vanifica la migliore forma di prevenzione: la diagnosi precoce». Dopo la diagnosi, la terapia. Il caposaldo sono i Fans (farmaci antinfiammatori non steroidei), che funzionano bloccando delle molecole, le prostaglandine, responsabili del processo d’infiammazione. Le prostaglandine svolgono però altre importanti funzioni in organi come bronchi, utero e apparato gastro enterico. Proprio per non bloccare queste attività, sono nati gli antinfiammatori selettivi, che “colpiscono”solo le prostaglandine responsabili dell’infiammazione. Ci sono poi altri farmaci in grado di bloccare il progredire delle lesioni da artrosi, come la glucosamina fosfato, la cui efficacia - hanno precisato Uras e Chelo - è dimostrata da uno studio effettuato su migliaia di pazienti per un periodo di tempo prolungato. «Quando la situazione non è più recuperabile con la terapia si interviene col bisturi - ha spiegato il dottor Chelo - inserendo delle protesi: la più comune è quella dell’anca, ma si usano anche per le articolazioni delle mani, dei piedi e delle spalle. Dopo il bisturi, la riabilitazione, per restituire funzionalità all’articolazione sostituita». Alla fisioterapia si ricorre anche (prescindendo dall’intervento chirurgico) per eliminare il dolore causato dall’alterazione dell’articolazione e da contratture muscolari anomale. Perché il nostro corpo, per evitare il dolore, assume le posizioni più strane. Lucio Salis ____________________________________________ L’Unione Sarda 30 giu. ’01 CENTOCINQUANTAMILA SARDI IMPOTENTI di Carlo Alberto Melis Un’agghiacciante verità scuote le pudiche coscienze maschili e smaschera la vanagloria. Una spietata statistica certifica un clamoroso e insospettabile (almeno ufficialmente) fallimento: ogni notte centocinquantamila letti rimangono gelidi. Secondo il professor Andrea Ledda (il cognome non può dissimulare le origini), andrologo dell’istituto di Scienze Biomediche di Chieti, tanti sono gli ultraquarantenni sardi impotenti. In Italia sono un milione e mezzo: il 52 per cento della popolazione maschile tra i 40 e i 70 anni soffre del disturbo più inconfessabile. E infatti solo uno su dieci, secondo le statistiche, ne parla al proprio medico. Scagli la prima pietra chi non ha mai toppato. Secondo il cinico Ledda, siamo un popolo di latin lover ridotto sul lastrico. La debacle dei maschi sardi (...) Una solida reputazione spazzata via, costretta a un’inesorabile parabola discendente. Siamo stressati, ipertesi, depressi: varcata la soglia degli anta, meno di uno su due ce la fa. Per gli altri ci sarebbe un solo rimedio. La pastiglia? Mai! Negare, negare sempre. Eppure gli andrologi raccontano di pazienti che si sentono tranquilli solo se ce l’hanno in tasca, anche se non non la usano. Ricordate quel ciclista trovato dalla Finanza al Giro dItalia con le medicine nel borsello? Anche lui non le usava, le teneva lì chiuse, solo per sentirsi più protetto in caso di defaillance. La nuova copertina di Linus è piccola e azzurra e, secondo le notizie che arrivano dalla Francia, presto sarà più veloce, efficace e sopportabile anche da chi ha problemi di cuore. Arriverà in Italia fra qualche settimana, più o meno intorno al 14 luglio, data fatidica: il paese di Casanova si prepari alla presa della pastiglia. La resa è vicina. Come Austin Powers, l’improbabile agente segreto-play boy, metà degli italiani sopra i quaranta hanno perso il loro mai-più-moscio e, ciò che è più grave, tutto il mondo lo sa. Il Dottor Male indossa un camice da urologo e ha la soluzione in tasca. C’è poi un aspetto ancor più preoccupante e se si vuole più provinciale della faccenda. Quasi una persona su tre nega il problema, due su cinque hanno vergogna di affrontare il discorso con la compagna, verso la quale uno su due nutre perfino un senso di colpa. Pieni zeppi di tabù come siamo, ci vergognamo perfino di ammetterlo a noi stessi. Paura di una figuraccia con gli amici del bar? Ma se poi uno su due ha le stesse difficoltà? Abbiamo paura di essere derisi (42%), considerati malati (32%), offendere la nostra partner (29%). Soprattutto al Sud - sempre secondo le statistiche - questo genere di argomenti è ancora considerato un terreno minato. Diminuiscono gli uomini che si rivolgono al medico, cresce il silenzio, lo sconcerto. Ma il problema è di ordine culturale. Che colpa ne abbiamo noi se, sin da bambini, la scuola ci nasconde i capitoli delle scienze dedicati alla sessuologia?, se la televisione preferisce perfino la violenza gratuita e sanguinolenta ad una scena erotica?, se mamma e papà non raccontano più neppure la storia dell’ape e del fiore? La Chiesa, poi: «Il prete mi diceva che dentro i pantaloni non ci dovevo guardare», recitava in uno dei suoi monologhi il comico Paolo Rossi «ma io un giorno ho preso coraggio e gli ho detto: padre, io non so cosa sia ma, le giuro, là dentro qualcosa si muove». Almeno fosse. ____________________________________________________ Le Scienze 27 giu. ’01 CURARE IL DIABETE DI TIPO 1 NEI TOPI La stimolazione della produzione di TNF-alfa e il trapianto di cellule pancreatiche sane permette di riportare il livello sanguigno di glucosio entro livelli normali È stato sufficiente un trattamento di 40 giorni per curare il diabete di tipo 1 in un gruppo di topi, grazie a una terapia sperimentale che consente di riabituare il sistema immunitario degli animali a non attaccare le cellule che producono l’insulina. Quest’ultima è un ormone facilita il trasporto di glucosio nelle cellule adipose e muscolari consentendone l’utilizzo come combustibile. Nei pazienti affetti da diabete di tipo 1, o insulinodipendente, una risposta autoimmune neutralizza le cellule che producono l’insulina, le cellule beta dell’isola del Langerhans, situata nel pancreas. In tal modo il livello di glucosio nel sangue raggiunge valori molto elevati, causando numerosi disturbi e malattie, evitabili soltanto introducendo l’insulina nell’organismo tramite iniezioni. Il primo passo della cura consiste nello stimolare la produzione del fattore di necrosi tumorale alfa (TNF-alfa) detta anche cachectina, che distrugge le cellule immunitarie pericolose. In seguito vengono iniettate cellule prelevate da un donatore sano che “rieducano” il sistema immunitario a non distruggere le cellule insulari. “Dopo la cura – ha spiegato Denise Faustman, coautore dell’articolo apparso sull’ultimo numero della rivista “Journal of Clinical Investigation” - il 75 per cento dei topi ha mantenuto buone condizioni di salute per più di 100 giorni senza alcun trattamento ulteriore. Ciò che stupisce favorevolmente è la ricrescita delle cellule che producono insulina nei topi malati, e il conseguente ripristino dei normali livelli di glucosio nel sangue ____________________________________________________ La Stampa 27 giu. ’01 I GRAVI DISTURBI DELL’UMORE Depressione psichica o economica? RECENTI STUDI HANNO ACCERTATO CHE QUESTA SINDROME SEMPRE PIU’ COMUNE SPESSO E’ ABBINATA ALLA POVERTA’ Stefano Cagliano I depressi aumentano un po' dovunque nel mondo. E non perché il cervello delle persone funzioni in modo progressivamente diverso, magari per l'incremento di un messaggero chimico e la riduzione di un altro. Il problema è ben diverso, almeno a sentire le conclusioni di due indagini recenti che spostano il fuoco dell'attenzione dalle molecole al reddito, dal cervello delle persone alla loro esistenza. Durante la prima guerra mondiale solo l'1 per cento delle donne soffriva di depressione grave, percentuale che sale al 12-15 per cento per quelle nate a metà degli Anni 70. Cifra che per le altre forme di depressione, quella meno serie, è sensibilmente maggiore. In un'intervista a «Adbusters», curiosa rivista Usa che si accredita come «Journal of Mental Environment», il responsabile dell'America Psychological Association Martin Seligman ha sostenuto che negli Stati Uniti c’è una vera e propria epidemia di depressione. Il fatto è suffragato anche da quanto si spende per la malattia, dato che - sempre negli Usa - mentre la spesa sanitaria complessiva è aumentata meno del previsto, così da ridisegnare verso il basso i premi assicurativi, mentre la spesa farmaceutica è aumentata del 600 per cento nel decennio scorso. Fatti del genere, comunque, non avvengono solo all'ombra di Stars&stripes. Il problema non è solo statunitense. Christopher Murray, a capo dell'Unità di Epidemiologia dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, ha dichiarato che nel 2020 la depressione sarà la seconda malattia invalidante più importante, dopo quelle di cuore. Da un rapporto pubblicato nel 1999 sulla rivista del medici statunitensi «Journal of American American Association», rapporto intitolato The «Changing Rate of Major Depression, Cross-Cultural Comparison», dopo un'indagine su cinque aree del mondo, lontane per geografia e cultura, è emerso che la depressione è un problema comune per i Paesi industrializzati. Perché un'epidemia del genere? Almeno secondo «Adbusters» le risposte sono innumerevoli: vivere soli, competitività eccessiva, vita ipercommercializzata, teledipendenza, arricchimento improvviso. Ma c'è dell'altro. «Si sa che la povertà aumenta la diffusione di parecchie malattie. Niente di sorprendente che si accompagni alla sensazione di assenza di benessere nelle persone non ospedalizzate». Sarebbe una considerazione banale se non si trattasse di quanto emerso da un'indagine statunitense curata dal Center of Disease Control di Atlanta, noto anche con la sigla CDC, l'ente statunitense che tiene sotto osservazione continua l'andamento delle malattie. E non è l'unica dolorosa conferma. Molto di quanto sappiamo sull'andamento delle malattie si basa su informazioni attendibili, per esempio su quelle connesse alle dimissioni ospedaliere o alla prevalenza delle malattie. Ma non ci sono sempre dati del genere, perché, ad esempio, è più affidabile la diagnosi d'infarto che quella di disturbo di personalità. E le difficoltà crescono via via che lungo l'asse salute-malattia ci si sposta dalla seconda verso la prima. È più facile mettere d'accordo un gruppo di psichiatri sui criteri di riconoscimento della depressione che sui confini della felicità coniugale o di cosa veglia dire per la persona "star bene". Anche perché non sono di nessun aiuto l'anatomia patologica o il laboratorio. Ecco perché nella loro indagine su che cosa voglia dire "star bene" o, meglio, su cosa identifichi la sensazione personale di benessere, al CDC si è ricorsi all'intervista telefonica condotta su un campione rappresentativo di adulti. La domanda rivolta è stata quanto spesso nel mese precedente la persona aveva avuto esperienza di problemi di salute fisica (malattie o traumi) e mentale (stress, depressione, ansia). Ne è risultato che, primo, nel mese precedente si erano avuti in media 5,3 giorni di salute non buona (da 0,3 a 12,7 giorni); secondo, che erano più sfortunate le persone residenti in città che le altre con casa in campagna; terzo, che la percezione di non salute era connessa con variabili come povertà, disoccupazione, gravidanza o abbandono di scuole superiori in adolescenti. Infine, non sorprendente, le zone con la percezione più bassa di benessere erano quelle col tasso più alto di mortalità. Che le condizioni sociali ed economiche agiscano sulla distribuzione delle malattie e, soprattutto, sulla possibilità di ricevere una cura adeguata è un fatto noto da tempo. Che condizionassero anche l'andamento e la curabilità della depressione non era emerso altrettanto chiaramente. O, perlomeno, sul fatto non si era indagato. Forse perché si tende a dare per scontato che la preoccupazione del pane ne ridimensioni altre e disegni un ordine di priorità e di disagi diverso dall'usuale. Ma non è così. ____________________________________________________ La Stampa 27 giu. ’01 VERSO UN’ALTRA ARMA CONTRO LA DEPRESSIONE DUE RICERCATORI ITALIANI EMIGRATI NEGLI STATI UNITI HANNO SCOPERTO UNA PRECISA CONNESSIONE TRA IL NEUROTRASMETTITORE «P» E IL SISTEMA DELLA SEROTONINA: SI SPIANA LA VIA A NUOVI FARMACI Marta Paterlini UN altro passo nella cura della depressione. La storia comincia nel 1998, quando l'industria farmaceutica anglo-americana Merck pubblicò i risultati sperimentali di un nuovo composto, un antagonista del recettore della sostanza P chiamato in codice MK-869, pensato inizialmente come antidolorifico. La sostanza P è un neurotrasmettitore peptidico identificato per la prima volta 70 anni fa da von Euler. La sua funzione sembra collegata alla mediazione di stimoli nocivi e stressanti, come dolore, vomito, infiammazione cutanea, articolare e intestinale. Il lavoro della Merck diventò un caso poiché, diversamente alle aspettative, la molecola in questione dimostrò proprietà antidepressive invece che antidolorifiche, di efficacia simile a quella di altri antidepressivi di uso comune. I farmaci antidepressivi classici agiscono incrementando la concentrazione nel cervello delle "monoamine" (serotonina e noradrenalina) implicate nella modulazione di strutture cerebrali che sono responsabili del controllo del tono dell'umore e delle risposte d'ansia. Il risultato finale è quindi un potenziamento degli effetti delle monoamine a livello cerebrale che, agendo con meccanismi ancora non chiari, riequilibrano nel tempo le funzioni neuronali alterate dalla malattia. I ricercatori della Merck, tuttavia, non chiarirono quale fosse il meccanismo attraverso cui l'MK- 869 esplica la sua azione terapeutica, premessa fondamentale alla creazione razionale di altri farmaci di questo tipo. Lo studio, apparentemente, non andò oltre. A due anni di distanza da quegli esperimenti, la sfida è stata raccolta da due giovani psichiatri ricercatori italiani, Luca Santarelli e Gabriella Gobbi, che lavorano rispettivamente alla Columbia University (New York) e alla McGill University (Montreal). Il loro lavoro, recentemente pubblicato sulla rivista americana «PNAS», mostra le prime evidenze, genetiche e farmacologiche, di un collegamento tra la funzione della sostanza P e sistema serotoninergico. I topi nei quali il recettore della sostanza P, anche chiamato recettore NK1, è stato geneticamente inattivato, mostrano una riduzione di alcuni comportamenti correlati con l'ansia. Farmacologicamente, la somministrazione di un antagonista del recettore della sostanza P ha un effetto protettivo nei confronti di ansia e stress. «Abbiamo anche visto - dice Luca Santarelli - che NK1 è localizzato in una zona del cervello che esercita una profonda influenza sul sistema limbico, quell'insieme di strutture cerebrali dove hanno sede la regolazione del tono dell'umore, dell'ansia e dell’apprendimento. Il blocco della funzione della sostanza P produce uno specifico potenziamento della funzione della serotonina nel sistema limbico». Questo significa che gli antagonisti del recettore della sostanza P possano modificare la funzione della serotonina in maniera più specifica laddove essa regola umore e ansia, senza interferire nella sua funzione globale: l'effetto sarebbe più efficace e senza gli effetti collaterali massivi degli antidepressivi tradizionali. Si dice che Merck e Pfizer siano entrambe vicine alla pubblicazione di dati clinici che confermano su pazienti l'efficacia degli antagonisti della sostanza P come antidepressivi a distanza di quasi tre anni dalle prime osservazioni. E' probabile che un ulteriore incentivo allo sviluppo di nuovi farmaci per la cura di ansia e depressione da parte delle multinazionali farmaceutiche derivi almeno in parte da ragioni non esclusivamente scientifiche. Infatti non va dimenticato che alcuni brevetti di farmaci assai diffusi sono già scaduti e tra breve ne scadranno altri. Questo significa che le case farmaceutiche perderanno l'esclusiva della loro commercializzazione e i conseguenti profitti. ========================================================= _____________________________________________________________ Corriere Della Sera 27 giu. ’01 I «FORZATI» DELLA POSTA ELETTRONICA Ai dipendenti Usa servono 49 minuti al giorno per leggerla, ai manager oltre 2 ore Caretto Ennio Le aziende corrono ai ripari contro le e-mail inutili. Il caso di Intel e Ibm I «forzati» della posta elettronica Ai dipendenti Usa servono 49 minuti al giorno per leggerla, ai manager oltre 2 ore DAL NOSTRO CORRISPONDENTE WASHINGTON - Una volta era il telefono, o meglio l' uso che ne facevano i dipendenti in ufficio, a preoccupare il datore di lavoro americano. Adesso è la posta elettronica, l' email. Non soltanto i dipendenti se ne servono per faccende private. I vari uffici si bombardano anche d' informazioni, richieste, memorandum, dossier di numerose pagine. Soffrono, per così dire, della sindrome dell' email, considerano il telefono antiquato. Sono ostaggi volontari dell' hi-tech. Risultato: la posta elettronica lavorativa negli Stati Uniti raggiunge ormai una mole tale che il dipendente impiega in media 49 minuti al giorno per evaderla, il dirigente un paio d' ore. E' il 30-35% di più di un anno fa. E le prospettive del 2002 sono inquietanti: l' anno prossimo, il dipendente rischierà di perdere un' ora e mezza a leggere l' email, il dirigente quattro ore. Lo hanno accertato due sondaggi, uno della Gartner, l' altro della Dave Ferris, due noti studi di ricerca. Per le aziende è un campanello d' allarme. «Si rendono conto - h a osservato Dave Ferris - che vanno verso la paralisi; scoprono che il nuovo medium non favorisce sempre l' efficienza. Solo una parte della posta elettronica è essenziale, l' altra è una perdita di tempo». Come ovviare? Secondo Ferris, i rimedi sono semplici. Il primo è ridurre il traffico: «L' email va usata solo quando sia assolutamente necessario». Il secondo è razionalizzarlo: «Non tutti i messaggi esigono una risposta». Il terzo è non dimenticare il telefono o il servizio postale. Tra le aziende che corrono ai ripari c' è la Intel, la regina dei chips, i micoprocessori del computer. Molti dei suoi 88 mila dipendenti dedicano alla posta elettronica 2 ore, 2 ore e mezzo al giorno. «E' troppo, il lavoro ne patisce - ha spiegato il portavoce Chuck Mulloy - D' ora innanzi la distribuzione sarà selettiva; ogni messaggio porterà un titolo esplicativo, in modo che chi non è interessato non perda tempo a guardarlo; e diminuiranno i grafici e le illustrazioni». Un' altra azienda che riesamina l' email è l' Ibm, il colosso dei computer. L' Ibm privilegia l' istant messaging, i messaggi istantanei. «Sono più rapidi - sottolinea Johnny Barnes, il direttore dell' informazione - e di solito non vengono conservati». Un' altra ancora è la Computer associates, che tiene corsi per i dipendenti «sul giusto impiego della posta elettronica» e che mette i dossier in un sito centrale dove chi ne ha bisogno li consulta. «L' e-mail deve essere produttiva, non distruttiva», ha ammonito Tarkan Maner, il manager della compagnia. Ennio Caretto Le parole delle lettere in rete E-MAIL Viene dall' inglese mail (posta) con il prefisso «e» che sta per elettronico. Con questo termine si intende un messaggio inviato da un computer a un altro (o anche a più computer) attraverso Internet. E' una comunicazione quasi istantanea, anche se spesso si verificano ritardi per l' intasamento dei nodi di trasmissione ATTACHMENT Consiste nell' allegare a un messaggio e-mail un altro messaggio, spesso un testo molto lungo oppure un' immagine, che il destinatario può «aprire» (cioè vedere) in un momento successivo rispetto a quello in cui legge il messaggio principale. Serve per far risparmiare tempo al destinatario ADDRESS E' l' indirizzo di posta elettronica, di solito costituito da un nome e/o una sigla, il simbolo @ (chiocciola) e il nome del fornitore di servizi Internet che mette a disposizione la casella di posta elettronica SPAM E' l' invio di un messaggio, di solito pubblicitario, a molti destinatari contemporaneamente. Ci sono pc programmati per raccogliere in rete indirizzi e-mail cui poi inviare messaggi spam ____________________________________________________ Repubblica 30 giu. ’01 DIPENDENZA DAL WEB PRIMO TEST SCIENTIFICO Realizzato in Italia. I più a rischio sono soprattutto le donne ALMENO sette italiani su dieci si collegano ad Internet per circa 12 ore la settimana (nemmeno due ore al giorno) e lo fanno soprattutto per accedere al Web e alla posta elettronica. Più numerosi delle donne gli uomini in cerca di sesso; sono invece i giovani sotto i 20 anni a subire più facilmente la "magia" della rete e a rischiare la dipendenza. E' questo l' identikit degli italiani sulla rete emerso dalla sperimentazione del primo test al mondo scientificamente realizzato per scoprire la dipendenza da internet. Il test, chiamato Uadi (Uso, Abuso e Dipendenza da Internet), è nato in Italia, nell'università di Roma La Sapienza, ed è stato messo a punto dalla psicologa Carla Maria Del Miglio e dallo psichiatra Tonino Cantelmi, docente di cyber psicologia della scuola di specializzazione in psichiatria. Organizzato in 80 unità, ognuna con cinque possibili risposte, il test è stato sperimentato su oltre 240 persone fra 13 e 57 anni reclutate in Internet cafè o Internet center di Roma, Salerno, Milano, Siena e Bari. E' emerso così che, fra gli intervistati, sette su dieci si collegano per circa 12 ore a settimana, soprattutto per esplorare la rete e accedere alla posta elettronica. World Wide Web ed email sono infatti di gran lunga i servizi più utilizzati. Seguono con distacco le chat e all'ultimo posto ci sono i giochi di ruolo on line. Esplorare il web è il primo motivo per cui ci si collega, seguito immediatamente da ragioni di lavoro e voglia di coltivare relazioni interpersonali. Anche in Italia, osservano gli psicologi, Internet sta raggiungendo livelli inaspettati come mezzo per conoscere persone al di fuori dalla rete e incontrarle nella vita reale. Molti giovani, hanno aggiunto, hanno riferito di aver avuto amicizie, storie d' amore o avventure nate da contatti on line. Più frequente nei maschi (almeno il doppio dei casi rispetto alle donne) la ricerca su Internet di materiale sessuale o di contatti per incontri sessuali sia nella rete che nella realtà. Per le donne invece la rete significa soprattutto ricerca di amicizia e relazioni umane. E' per questo che in genere attendono la posta elettronica con un'ansia maggiore rispetto agli uomini. Ma a subire la "magia" della rete sono soprattutto i giovani con meno di 20 anni e chi si accosta a internet da poco tempo: sono queste le persone più a rischio di dipendenza e che più facilmente usano la rete per andare in cerca di nuove emozioni.