USA BATTE UE SUI «POLI D’ECCELLENZA» VITA DA STUDENTI-NOMADI NELLE UNIVERSITÀ USA ITALIAN ACADEMICS FACE UNEASY SUMMER. POCHI SOLDI ALL'UNIVERSITÀ ALTRO CHE MODELLO AMERICANO. DOTTORANDI ALLO SBANDO PREPENSIONAMENTI IN ATENEO - SPAZIO AI GIOVANI PERCHÉ NON FALLISCA LA RIFORMA UNIVERSITARIA SUGLI INSEGNANTI IL CICLONE MORATTI INVENTIAMOCI IN FRETTA I MAESTRI DI LINGUA (INGLESE) LA SAPIENZA RITOCCA LE TASSE: ========================================================= LA CORTE DEI CONTI BOCCIA I CONTRATTI DI MEDICI E INFERMIERI OCSE: IN ITALIA MEDICI IN ECCESSO E BLOCCO DELLE RISORSE NASCE NEL SULCIS L’OSPEDALE IN AFFITTO BROTZU: POTENZIATO L’ORGANICO DI CARDIOLOGIA LOMBARDIA: LA SANITÀ IN ROSSO? CI SONO TROPPI RICOVERI» LOMBARDIA:TROPPE CARDIOCHIRURGIE, 3 «RICETTE» IN DISCUSSIONE MILANO: «IL POLICLINICO? PUNTARE TUTTO SULLA RICERCA» CREATI EMBRIONI UMANI DESTINATI ALLA RICERCA EMBRIONI CREATI SENZA USARE IL SEME MASCHILE FUNGHI E TUBERCOLOSI UN TEST PER IL TUMORE AI POLMONI ORMONI, STRESS E MEMORIA ========================================================= _______________________________________________________ Il sole24Ore 10 lug. ’01 USA BATTE UE SUI «POLI D’ECCELLENZA» di Alain Touraine È nelle università che si costruisce il futuro dell’Europa. Parlare in generale delle forze e delle debolezze europee è anche troppo facile, soprattutto se si paragona l’Unione europea agli Usa. Ma individuare quella che riteniamo la debolezza più grave è assai più complicato. Molti pensano, anzi, che una tale debolezza non esista, dato il nesso che unisce tutti i fattori alla base della crescita economica. Ragionamento giusto: ma che può condannarci all’impotenza di chi si avvita all’interno di un circolo vizioso. Soprattutto è necessario prendere le distanze dai ragionamenti "in negativo", sul genere di quelli che hanno fatto il giro del mondo nel periodo del Washington consensus e delle sue ripercussioni sulla Banca Mondiale e sul Fondo monetario internazionale. Ragionamenti del tipo: "bisogna ridimensionare il peso dello Stato", o "rimediare all’inefficienza dei servizi pubblici", o "ridurre la disoccupazione". Sul piano del metodo, oggi la maggior parte degli economisti ritiene necessario dare la priorità alla ricerca dei fattori "positivi" dello sviluppo. Tale scelta implica fiducia nelle proprie azioni: sentimento del tutto assente nell’Europa degli anni 90, più sulla difensiva che all’offensiva. Esiste un fattore "positivo" più importante degli altri, almeno dal punto di vista strategico, perché più degli altri accelera o migliora lo sviluppo? Questo interrogativo trova spesso risposte di natura economica. E tuttavia la riflessione degli scienziati sociali va in un’altra direzione. Formulo dunque la mia ipotesi, prima ancora di dimostrarla: in Europa il principale fattore di modernizzazione sociale e di competitività è da un lato la qualità intrinseca dell’istruzione superiore — e in particolare di quelle che possiamo definire "università d’eccellenza" — dall’altro la sua capacità di adattarsi alle esigenze produttive. È la superiorità degli Usa in questo campo a spiegare, più di ogni altro fattore, il loro vantaggio competitivo sull’Europa, che deve quindi affrettarsi a proporre una soluzione che cancelli il distacco. Viviamo in una "società della conoscenza", e questa non è un’espressione vaga: significa che la produzione e l’applicazione delle conoscenze tecniche e scientifiche investono sempre più spesso il ruolo di primum movens. La strategia d’impresa si basa sempre più sulla padronanza delle nuove tecnologie, dell’analisi di mercato e del sistema decisionale. Tali conoscenze non si diffondono da sole. Una delle debolezze del Continente europeo sta proprio nel considerare la tecnologia una semplice applicazione delle scienze fondamentali: un’idea che da tempo non corrisponde più alla realtà. Una delle conseguenze più preoccupanti dello sviluppo di questa società della conoscenza è che il peso dei fattori sociali sulle decisioni economiche si è notevolmente ridotto: lo si vede in modo spettacolare quando un’impresa mondiale decide di chiudere un impianto di produzione, senza preoccuparsi delle conseguenze che tale decisione potrà avere sull’occupazione locale. Il ruolo dei poli d’eccellenza nell’istruzione superiore è ancor più determinante, poiché è lì che si forma la classe dirigente. Alcuni Paesi non dispongono di "poli d’eccellenza": questi ultimi sono troppo deboli, e quindi gli studenti e i ricercatori migliori vanno a formarsi negli Stati Uniti. In Francia l’istruzione superiore si basa su una sorta di "doppio sistema", che isola dal rimanente degli atenei un certo numero di istituti di ricerca e di formazione d’alto livello. Tuttavia questi poli d’eccellenza sono o troppo elitari, oppure eccessivamente orientati verso la scienza pura. La Germania ha un sistema poco differenziato. Il Giappone ha privilegiato le "università imperiali!, in particolare quella di Tokyo. Solo la Gran Bretagna — con Cambridge, Oxford e alcune grandi università regionali — può contare su un sistema d’eccellenza paragonabile a quello Usa: con il quale, del resto, è ampiamente integrato. Le università d’eccellenza Usa formano la maggior parte delle élite mondiali: le quali, a loro volta, garantiscono il 50% della produzione di Silicon Valley. Nei grandi dipartimenti tecnologici di Berkeley, ad esempio, gli americani di origine anglosassone o europea sono ormai una piccola minoranza. Molte di queste università hanno un legame intrinseco con l’innovazione tecnica, come — in forme molto diverse — il Mit o Stanford. Ma, prima di tutto, questi atenei producono conoscenze autogestite, facendosi carico in prima persona dei professori, degli studenti, dell’ambiente che li circonda. Le università europee nascondendosi dietro il paravento della "democrazia accademica" troppo spesso ricordano delle navi senza timoniere, che dipendono dall’esterno per tutte le grandi scelte. Fatte queste constatazioni, è necessario proporre una soluzione. Individuarla non è poi così difficile: una rete di atenei d’eccellenza può essere realizzata soltanto a livello europeo, e alla condizione che tali università siano veramente in grado di gestire in proprio risorse, orientamenti e flussi di personale. In ogni Paese è possibile misurare la distanza che separa tale obiettivo dalla situazione attuale. Una simile trasformazione, tuttavia, sarà possibile solo quando gli europei si saranno resi pienamente conto che la gestione della conoscenza è la condizione principale della competitività, e che attraverso di essa passano le opportunità economiche del Continente. _______________________________________________________ Corriere della Sera 10 lug. ’01 VITA DA STUDENTI-NOMADI NELLE UNIVERSITÀ USA Salom Paolo Il mondo delle Business School americane. Raccontato attraverso le lettere degli studenti italiani impegnati Oltreoceano nella difficile sfida di un Mba (Master in Business Administration) e dagli ex alunni del corso postlaurea più ambito dagli aspiranti dirigenti. La nuova rubrica di Corriere.it - «Nova, lettere dalle Business School» - è una finestra aperta sulle molteplici possibilità ed esperienze create e favorite dal dinamico universo universitario degli Stati Uniti. L' iniziativa, inaugurata sul Corriere.it da un' intervista al premio Nobel Franco Modigliani, è curata in collaborazione con Nova, l' Associazione degli Mba italiani. «Contribuire alla guerra per il talento e aggregare e raccontare una classe dirigente "in fieri" - sono le parole di Massimo Acquaviva e Marco Biscione, due tra i fondatori dell' associazione - da qui nasce l' idea, proposta da Nova e accolta dal Corriere della Sera, di raccontare quello che si discute nelle università americane cercando al tempo stesso di spiegare cosa rende questi luoghi degli eccezionali centri di studio e formazione». Una spiegazione sul perché le università americane siano luoghi di formazio ne tanto ambiti la fornisce lo stesso Modigliani. Che, dopo aver messo a paragone il sistema educativo italiano, legato all' esame orale («una delle cose più assurde e arbitrarie che uno si possa inventare»), passa a descrivere il più fecondo ambient e americano, legato alla verifica «scritta e dunque oggettiva, identica per tutti» e all' uguaglianza nei «rapporti tra i diversi livelli. La senior faculty vede le giovani leve come futuri colleghi, non come portaborse. Un senso di uguaglianza anche per chi non ha ancora avuto il tempo di arrivare ai ranghi più elevati è uno degli aspetti più rilevanti dell' accademia americana». Che dunque attira «cervelli». «Sono 70-80 ogni anno - spiega Riccardo Acquaviva, portavoce di Nova - gli studenti ch e vanno in Usa per un Mba. La maggior parte di loro non torna più in Italia. La nostra associazione, oltre a dare informazioni su come iscriversi a un Master, vuole anche diventare un centro di pressione su Governo e Parlamento. Perché l' Italia non può lasciarsi sfuggire i suoi figli migliori». _______________________________________________________ Financial TIME 9 lug. ’01 ITALIAN ACADEMICS FACE UNEASY SUMMER. Chancellors and deans are urging the country's new government not to block reforms writes Paul Betts Before May's general election victory of the centre-right coalition led by Silvio Berlusconi, the media tycoon turned politician, confusion reigned over the controversial reform of Italy's university system. The confusion has now not only increased but also provoked a state of acute neurosis in the world of Italian higher education. The reform, which was approved by the last parliament, is due to come into effect this autumn in the new academic year. All Italian universities have already adapted their structures and curriculums to comply with the reform as well as enlisting students for new undergraduate and postgraduate courses - not without serious misgivings. "The implications of the reform are still unclear for the university system and so are the implications for students and their entry into the job market," admits Carlo Secchi, the chancellor of Bocconi, the Milan university that is Italy's answer to both the London School of Economics and Insead at Fontainebleau, Paris. But with Mr Berlusconìs return to government and his coalition's strong misgivings over the new reform, the heads of Italy's universities have united in urging the new centre-right administration not to rock the boat at this delicate stage. In a joint statement they recently asked Letizia Moratti, the new education minister and a former head of the RAI state broadcasting network, known in Italy as "the iron lady", not to block the reform. "Should this happen, someone would have to explain to us how to face the inevitable chaos this would cause," they said. Prof Secchi believes it is now too late to change course. He suggests that some fine-tuning and improvements to the reform would be welcome, especially if such measures gave universities "greater flexibility and autonomy". But, he stresses, "the engine cannot be stopped now". The new government has yet to detail its schools and university policies. And while most academics, student and parent associations expect a significant upheaval of the last centre-left government's still incompleted school reform, they generally concur that Mrs Moratti will have to tread carefully with the new university system. The university reform has been modelled on the broader reform of European higher education. It is part of a process to harmonise university courses in the European Union, foreseen first by the so-called Sorbonne declaration of May 1998 and reinforced by the Bologna declaration of June 1999. Under these declarations, EU education ministers agreed to adopt by 2010 mutually compatible systems of higher education based on two main study cycles. These cycles must also be organised according to a system of exchangeable educational credits to provide mobility and co-operation in evaluating quality and creating an open market in education similar, to some extent, to the single market in goods and services. "University reform in Italy is considered essentially a European reform," says Prof Secchi. "But each country is adopting the new European principles in its own way." In Italy, the reform is attempting to bring graduates more quickly to the job market in a country where students have traditionally begun work later than in other European countries. Under the old system, students took four-year undergraduate courses. But on average they took more than six years to graduate. This long undergraduate cycle meant that few graduates went on to take long, postgraduate masters degrees. Under the new system, students can graduate after three years. They can then opt either to take a one-year masters degree or to continue their degree course for an additional two years. At a time of growing competition between universities in Italy and in Europe - in Italy the competition is particularly fierce because of the fall in the country's birth rate - the reform has provided Italian universities with the opportunity to launch a range of one-year masters courses. Bocconi, which introduced educational credits in the current academic year to adapt to the new European-wide system, has responded by increasing from four to 11 its offer of masters courses. It is also gradually introducing a greater number of courses in English as part of its efforts to internationalise itself and attract foreign students. Among the new masters courses Bocconi is offering are a master in public management, a master of international health care management and policy and other courses based on the university's traditional academic focus on economics, public administration, business and, increasingly, law. This coming academic year it will also offer a course in fashion management to capitalise on Milan's claim to have unseated Paris as the world's fashion capital. Bocconi now also offers a masters in sport management, although Elio Borgonovi, the dean of SDA Bocconi, the university's management school, says the course is not the direct fruit of the new reform. The new course, backed by Fifa, the international football association, grew out of Bocconìs contacts with the Swiss university of Neuchatel and De Montfort University in Leicester. The MA, which Fifa says is designed to help produce "a new generation of managers in tune with the modern world of sport", is a joint effort between the three universities, with Bocconi teaching the management part of the course, De Montfort the humanities section and Neuchatel the legal aspects. But Bocconi officials insist they are taking a gradual approach to the implementation of the reform. "Our strategy is pragmatic. We have decided to launch a number of new programmes to see how the market reacts and many of these new masters courses are the consolidation of initiatives that date back many years," explains Prof Borgonovi. As for the undergraduate degrees, Prof Secchi says that Bocconi decided not to adopt the approach of some universities of targeting the new three-year undergraduate degree course as a direct entry into the job market. "Instead we see the first three years as part of an integrated circuit for a five-year degree course. It is a more cultural approach, not so focused in the first three years to specific jobs," he explains. The university, like the industrial sector, is still unconvinced that the new system will speed up the process of students entering the job market. Professional orders are still a serious problem in Italy, restricting access to jobs in several traditional professions. "If you want a professional job in Italy you must follow a certain established course," says Prof Secchi. In turn, this prevents many students taking one of the new one-year masters courses. "University reform should also be complemented by a reform of the access to leading professions," he adds. But the biggest worry remains the uncertainty over the future direction of higher education. "The risks of now going back on the existing reform cannot be quantified," the chancellors and deans of Italian higher education institutes chanted in chorus last month. _______________________________________________________ Il Resto del Carlino 9 lug. ’01 POCHI SOLDI ALL'UNIVERSITÀ Gli esponenti della Casa delle Libertà sono certi di aver trovato un buco nei conti dello Stato. Amato e Visco hanno minimizzato la portata dello scostamento e assicurato che tutto è a posto. Eppure i rettori delle università non la pensano così. Tramite la loro conferenza nazionale rivendicano crediti del Tesoro per circa 4 mila miliardi, che non derivano da formali impegni di spesa assunti da parte del Ministero e che quindi non risultano contabilizzati in bilancio. La richiesta della Università deriva da sostanziali previsioni di legge che il dicastero di Viale XX settembre negli ultimi cinque anni non ha rispettato. La legge 537/93 nell'attribuire l'autonomia alle Università garantiva infatti oltre al finanziamento ordinario "disponibilità finanziarie per la completa applicazione dei contratti in itinere a copertura degli incrementi retributivi del personale docente e non docente". Ebbene queste risorse il Tesoro non le ha mai accordate negli ultimi 5 anni al Ministero della Ricerca scientifica che ovviamente non le ha potute ripartire tra le Università italiane. Cosicché gli incrementi retributivi di tutto il personale sono stati pagati con le disponibilità di bilancio delle singole università che hanno usato l'avanzo di amministrazione (quando lo avevano) oppure sono andate in rosso facendo debiti con il sistema creditizio. Insomma le Università si sono indebitate per oltre quattromila miliardi che non compaiono nella situazione formale di indebitamento rappresentata dal Tesoro. Il Rettore di Siena, prof. Tosi, una delle anime più vivaci della conferenza dei Rettori ha presentato al Ministero un formale atto di diffida e messa in mora rivendicando per la sua Università un credito di 48 miliardi. Oltre alle Regioni per la Sanità il saldo lo chiedono anche le Università per sanare la loro contabilità. L'indebitamento pubblico fatto a Roma o in provincia sempre debito è. _______________________________________________________ La Stampa 9 lug. ’01 ALTRO CHE MODELLO AMERICANO. DOTTORANDI ALLO SBANDO Ermanno Bencivenga La riforma dei cicli è stata archiviata; si tratta adesso, dice il ministro, di ripensare il problema insieme a docenti, famiglie e forze politiche e sociali. Nel frattempo prosegue la riforma universitaria, ed è bene discuterne un aspetto rimasto in ombra nella gran confusione sul 3+2 (laurea breve/laurea specialistica): i dottorati di ricerca. Visto quanto questa riforma è influenzata da modelli americani, facciamolo alla luce di quel che accade oltreoceano - per evitare che dei modelli si prenda solo il peggio. Negli Usa ogni professore tiene un corso all'anno ai dottorandi (fra i 4 o 5 di sua competenza). Si tratta di corsi trimestrali o semestrali, che durano da 30 a 45 ore; in qualsiasi momento, alle specifiche esigenze di un dottorando si rivolgono normalmente dai 5 ai 10 corsi. I dottorandi sono pagati, talvolta con borse di studio, più spesso con Teaching Assistantships che richiedono loro di tenere esercitazioni e correggere esami, addestrandosi così all'insegnamento che per molti costituirà la futura occupazione e fonte di reddito. È certo un sistema afflitto da seri problemi, primo fra tutti l'utilizzo crescente dei dottorandi per la conduzione diretta dei corsi; ma qui sono più interessato a usarlo come metro di paragone per i programmi italiani. Nell'università italiana ogni professore è tenuto a un solo corso annuale (se è semestrale, le stesse ore sono concentrate in un semestre), rivolto non a dottorandi ma a studenti non ancora laureati. Quindi i programmi di dottorato non hanno nessuna struttura didattica indipendente: vengono lasciati alla buona volontà dei singoli docenti. I risultati sono disuguali: in alcune facoltà esistono curriculum di un certo valore, ma perlopiù i ragazzi (per modo di dire: l'età media a cui si completa un dottorato è intorno ai 30 anni) sono allo sbando, invitati ad assistere alle conferenze dei luminari di passaggio o a estemporanee lezioni di ripiego, e infine impegnati nella produzione autodidatta di una nuova tesi. Non c'è da stupirsi se molti, avendo appurato che la loro presenza non è richiesta, vivono altrove e compaiono solo quando è strettamente necessario, dando così un senso nuovo (virtuale?) alla nozione di "centro di ricerca". Sono spesso costretti a farlo quelli che non hanno una borsa (agli altri vanno 1.650.000 mensili) e che, per l'utilizzo di così brillanti strutture universitarie, pagano due milioni e mezzo l'anno di tasca propria - un'"opportunità" aperta nel 1998 con l'intento di risolvere (all'italiana) il nostro endemico deficit di dottori: 4 mila l'anno contro gli oltre 10 mila di Francia e Germania. Questi dottori "stranieri", peraltro, includono numerosi italiani, messi in fuga dalle nostre carenze. È difficile toccare privilegi che sono ormai considerati "diritti acquisiti". Non invidio il ministro che dovrà dire ai professori universitari italiani, abituati a concentrare le loro 60 ore di lezione annuali in tre mesi e poi magari non farsi più vedere, che un serio programma di dottorato richiederebbe l'assunzione da parte loro di un carico d'insegnamento almeno doppio, assimilabile a quello dei colleghi di Berkeley o Yale. Ma forse tanta sofferenza non sarebbe necessaria; forse sarebbe sufficiente fare corsi di dottorato a rotazione, variando l'offerta didattica di quei docenti che ora guadagnano uno stipendio insegnando a dieci studenti l'anno. _______________________________________________________ Repubblica 9 lug. ’01 PREPENSIONAMENTI IN ATENEO - SPAZIO AI GIOVANI Pupillo: "Obiettivo, dare spazio ai giovani prof" Il vice di Calzolari spiega il progetto del rettore: "Ma i docenti emeriti continueranno ad insegnare nella nostra Università" Prepensionamenti in ateneo In pensione prima, ma senza abbandonare la ricerca e l'insegnamento. Per liberare risorse e aprire le porte dell'Alma Mater ai giovani. E' la proposta avanzata nell'ultimo consiglio d'amministrazione dal rettore. Il progetto, al quale stanno lavorando gli uffici amministrativi, approderà mercoledì in Giunta. Si tratta di incentivi al pensionamento anticipato dei professori che sono vicini al fuori ruolo. Per non perdere le eccellenze, ai docenti "anziani" verrebbe data comunque la possibilità, attraverso contratti, di continuare ad avere un rapporto con l'Università. Una formula, annunciata agli organi accademici da Pier Ugo Calzolari, ancora tutta da mettere a punto, ma che permetterebbe di creare nuovi posti. Basti pensare che un cattedratico al culmine della sua carriera "costa" quanto tre, quattro ricercatori all'inizio della professione accademica. "Il problema dell'apertura verso i giovani esiste ed è sentito - commenta il prorettore alle sedi decentrate Paolo Pupillo -. Non si può pretendere che tutti siano precari per dieci, dodici anni. Il rettore ha fatto bene a porsi l'interrogativo e per questo sta lavorando ad un progetto di pensionamenti anticipati. L'iniziativa prevede l'eliminazione del fuori ruolo e contratti per l'attività didattica. Un modo per liberare risorse". L'allarme sul progressivo invecchiamento dell'Ateneo è stato sollevato dal professor Ivano Dionigi, direttore del Dipartimento di Filologia classica e medievale. "Questa Università ha le rughe, il problema è drammatico, occorre un grande piano di reclutamento dei giovani" ha detto il latinista in una riunione di italianisti e classicisti con il rettore. "Un ragionamento che vale anche per la facoltà scientifiche - conferma Pupillo - la carriera universitaria è estremamente lunga e difficile, è dura per un giovane trovare occasioni per ottenere una cattedra". "Altro problema ben noto è che i concorsi sono circoscritti, in Italia c'è poca mobilità tra i docenti, di fatto si privilegia chi ha fatto la routine all'interno di una posizione". Quest'anno per l'Università in Romagna sono stati stanziati due miliardi per 40 posti di ricercatore. "Saranno pronti a settembre, dopo l'assestamento di bilancio" dice Pupillo. Nelle facoltà umanistiche il problema è più che sentito. Il latinista Alfonso Traina, in cattedra dal '49, ora in pensione, ricorda i tanti "bravi ragazzi, che avrebbero potuto fare carriera, persi per strada". "Con pena ho dovuto scoraggiare tanti giovani, non c'è futuro oggi per loro" dice. "E' una situazione gravissima, i recenti sistemi concorsuali sono assurdi, non agevolano il ricambio. Tanti sono entrati negli anni '60 e '70 e l'Università si è intasata, ora c'è il contraccolpo. Anche questa benedetta autonomia è stata un boomerang, bisogna fare i conti con le risorse finanziarie". Traina guarda con preoccupazione alla mancanza di giovani: "L'invecchiamento dell'Università è progressivo, da noi come in altri atenei. La mia disciplina poi è presa di mira, il latino ha dominato negli anni '50, successivamente c'è stato un accanimento ideologico. Sono arrivato a Bologna nel '72 e ho ottenuto in tanti anni solo due posti da ricercatore". Ilaria Venturi _______________________________________________________ Repubblica 11 lug. ’01 PERCHÉ NON FALLISCA LA RIFORMA UNIVERSITARIA Quale futuro per l'università italiana? Per quanto la Riforma degli ordinamenti universitari sia il risultato di un lungo lavoro dovuto all'apporto di tutte le corporazioni accademiche, soltanto ora che le Università devono applicarla si è aperto un dibattito sull'opportunità di sospenderla o di apportare alcune modifiche in itinere. Questa Riforma inciderà sul futuro della formazione culturale e professionale e, dunque, sulle capacità stesse di sviluppo del nostro Paese. Nonostante tale consapevolezza, in molti Atenei sono stati sottovalutati gli aspetti sostanziali nel processo applicativo: sembra che si sia detto molto sul "come fare" e poco sul "che cosa fare". Eppure era evidente l'esigenza di dar vita a una puntuale revisione dei percorsi didattici, in direzione, soprattutto, di una maggiore apertura al mercato del lavoro. Diverse sedi hanno fornito soltanto una risposta di tipo formale e burocratico. Trasformare i quattro anni di studio nella formula "tre più due", rispondendo soltanto alle "strategie di crescita" di alcuni settori disciplinari, piuttosto che ad una reale domanda sociale. Non si sostiene, quindi, di tornare indietro, ma di adottare provvedimenti urgenti volti a valorizzare gli indubbi punti di forza e a ridimensionare quelli deboli senza attendere cinque anni per accorgersi di aver fallito. I danni possono ancora essere evitati, ma gli effetti negativi che emergeranno da una siffatta applicazione difficilmente potranno essere riparati. Si è di fronte a dinamiche innovative che richiedono una condivisione reale degli aspetti programmatici e una forte disponibilità all'evoluzione. La Riforma non può essere considerata un processo compiuto, anzi deve essere migliorata in modo da garantire la flessibilità dei profili curriculari e schemi più articolati dell'offerta didattica e da adeguare il sistema formativi agli standard europei. Francesco Citarella Ordinario di organizzazione e pianificazione del territorio Università di Palermo _______________________________________________________ Il sole24Ore 13 lug. ’01 SUGLI INSEGNANTI IL CICLONE MORATTI Marco Ludovico (NOSTRO SERVIZIO) ROMA - Nuovo stato giuridico per i docenti, comprensivo di un codice deontologico, e un sistema articolato di carriera, per compiti e funzioni, che valorizzi le professionalità migliori. Ma anche maggiori investimenti nel settore dell’istruzione: a condizione, però, che la spesa sia riqualificata (basta, insomma, con gli interventi a pioggia). E una spinta accentuata verso il federalismo scolastico. Sono queste, in cinque cartelle, le proposte del ministro della Pubblica istruzione, Letizia Moratti: e sono già sul tavolo del Tesoro e della presidenza del Consiglio, che stanno mettendo a punto in queste ore la stesura finale del Documento di programmazione economica e finanziaria. Non è detto che tutto il paragrafo elaborato da Letizia Moratti entri nel documento finale: sintesi e tagli alle proposte dei singoli ministri sono nella prassi di tutti i Dpef. Il testo del ministro Moratti, tuttavia, ha valore anche in senso assoluto, come nuovo quadro programmatico della futura politica scolastica. E le novità previste sono davvero clamorose. L’intervento sull’attuale profilo dell’insegnante è forte: Viale Trastevere vuole definire un nuovo stato giuridico della professione docente: decisione che metterà sicuramente in agitazione i sindacati. In ogni caso, l’idea è immettere robusti criteri di professionalità in una professione che da decenni tende ad appiattirsi sulla routine. Ancora più innovativa è l’idea di introdurre un codice deontologico della professione docente: un’ipotesi che circola da tempo nel dibattito sull’attività degli insegnanti, ma che finora non si è mai concretizzata. Si tratta di una proposta ancora da definire nel dettaglio. Ma intanto il principio è stato posto: e, naturalmente, farà discutere. Al progetto del codice deontologico non sarà estraneo neppure il recente problema sollevato dalla Corte dei conti: la magistratura contabile aveva denunciato nei giorni scorsi i troppi casi di docenti condannati con sentenza penale definitiva — anche per gravi reati a sfondo sessuale — che sono rimasti "regolarmente" al loro posto. Un altro punto che metterà il batticuore ai sindacati riguarda l’intenzione di creare una nuova articolazione della carriera dei docenti. L’idea del Governo è "diversificare", definire competenze specifiche, valorizzare professionalità diverse. Passare, insomma, dal "tutto a tutti" (anche se è poco), perché "tutti sono uguali", a un riconoscimento di funzioni, impegni, risultati particolari. In questo quadro si inserisce anche la decisione di creare una commissione che prepari il progetto di un nuovo Sistema nazionale di valutazione (si veda l’articolo pubblicato qui sopra). Letizia Moratti giudica infatti con severità l’attuale stato dell’istruzione italiana, nel quale ha riscontrato un livello qualitativo non sempre soddisfacente, infrastrutture carenti e un debole raccordo tra formazione e occupazione. Dal punto di vista economico, il ministro si propone di aumentare gli investimenti per la scuola, con un piano pluriennale. L’obiettivo è allineare alla media europea la percentuale del nostro Pil investita in istruzione e formazione. Ma il vero problema è un altro: riqualificare la spesa del settore, cioè passare da un impiego delle risorse quasi integralmente destinato al funzionamento del sistema a un investimento rivolto invece allo sviluppo e alla crescita. Un principio sancito nel Dpef potrà, per esempio, essere quello di migliorare gli attuali tassi di istruzione e di ridurre le sacche ancora diffuse di analfabetismo e scarsa scolarizzazione. L’altra questione cara al programma elettorale dell’attuale maggioranza, e ora nell’agenda dell’Esecutivo, è il federalismo scolastico. L’uso delle parole, in questo caso, è a rischio: si parla di federalismo, devolution, decentramento, ma il principio va riempito di contenuti. Un fatto è certo: Letizia Moratti intende spostare dal centro al territorio la gestione dell’istruzione. E neppure su questo fronte si faranno attendere le polemiche. Ieri intanto il Consiglio nazionale della Pubblica istruzione ha approvato all’unanimità un documento che chiede il ripristino della sperimentazione nella scuola dell’infanzia: sperimentazione bloccata nei giorni scorsi dopo il ritiro, deciso dalla Moratti, di tutti i decreti legati al riordino dei cicli scolastici. La posizione del Cnpi è stata resa nota dal segretario della Federazione formazione e ricerca della Cgil, Andrea Ranieri: «Quello del Consiglio nazionale — ha detto Ranieri — è un segnale di cui, ci auguriamo, il ministro vorrà tenere conto non solo ripristinando la sperimentazione nella scuola materna». Ma il parere del Cnpi ha mero valore consultivo. Del resto il predecessore di Letizia Moratti, Tullio De Mauro, non volle tener conto di un altro parere, del pari negativo, che il Cnpi espresse sul regolamento di attuazione dei nuovi curricoli della scuola di base. _______________________________________________________ Corriere della Sera 10 lug. ’01 INVENTIAMOCI IN FRETTA I MAESTRI DI LINGUA (INGLESE) Alberoni Francesco Pubblico & Privato Inventiamoci in fretta i maestri di lingua (inglese) di FRANCESCO ALBERONI In questa epoca la lingua universale è l' inglese. Chiunque voglia lavorare fuori dal suo Paese, usare Internet, operare nella new economy, chiunque voglia fare carriera, deve conoscere l' inglese. L' inglese, infine, è la lingua usata nell' Unione europea, di cui facciamo parte. E gli italiani, salvo una piccola minoranza, non la conoscono. Nei prossimi anni, se non vogliamo fare un torto gravissimo ai nostri figli, dovremo provvedere alla alfabetizzazione in inglese di tutta la popolazione studentesca, dalla scuola materna all' università. E credo che il nuovo governo condivida questa meta. Ma vi è un terribile ostacolo: non abbiamo insegnanti. L e facoltà di Lingua e letteratura non hanno preparato docenti che parlano e scrivono alla perfezione né questa né altre lingue. Hanno dato sempre più importanza alla letteratura, alla filologia, alla glottologia, alla filosofia del linguaggio che all' insegnamento pratico della lingua. Invece ciò che serve ai nostri ragazzi sono insegnanti che, anche senza conoscere la letteratura e la linguistica strutturale, sappiano l' inglese e comunichino loro in inglese; che nella materna giochino, raccontino favole, poi, negli anni successivi conversino, leggano brani di storia, articoli divulgativi scientifici, magari i libri di Harry Potter, guardino e discutano insieme film per ragazzi. Non c' è bisogno che insegnino la grammatica, la impareranno in seguito. All' inizio si può fare a meno perfino dei laboratori linguistici. Li inseriremo a poco a poco, non appena ci sarà il denaro necessario . Ma dove trovare tanti insegnanti? Non possiamo farli arrivare a decine di migliaia dall' Inghilterra . Dobbiamo prepararli rapidamente noi. Però il vecchio insegnamento di lingue è inutile e dannoso. C' è una sola strada da seguire: affidare il compito alle scuole per Interpreti e traduttori che, con uno speciale metodo, in tre anni di studio insegnano a parlare e tradurre in modo eccellente. Oppure ai corsi di laurea di Interpretariato e traduzione (chiamati Mediazione linguistica) che usano gli stessi strumenti didattici e che oggi, con la riforma universitaria, durano anch' essi solo tre anni. Io perciò faccio un appello a tutte le università perché attivino il più in fretta possibile questi corsi di laurea. E invito tutti i comuni e tutti gli enti ad aprire delle scuole per Interpreti e traduttori concentrate sull' inglese. E a fare il più in fretta possibile perché, nella migliore delle ipotesi, i diplomati o laureati usciranno solo fra quattro anni! Ma poi bisogna che costoro possano lavorare nelle scuole. Infatti, in base alle ultime disposizioni, per insegnare lingue nelle scuole bisogna seguire questo curriculum di studio: laurea di tre anni, più laurea specialistica di due, più un anno di studio in un apposito istituto. Totale sei anni di studio, che facilmente diventano sette. Questo andrà bene per gli studiosi di letteratura, per gli insegnanti di letteratura nelle scuole superiori. Ma noi abbiamo bisogno di tecnici, di docenti che insegnino praticamente le lingue dall' asilo all' università, e in gran numero. Ora mi rivolgo al ministro della Pubblica Istruzione perché inventi una soluzione per mettere al lavoro subito chi ha terminato la scuola Interpreti o il corso di laurea in Interpretariato. E se costoro non possono essere equiparati agli altri, si inventi una nuova figura di docente, con un altro nome: tecnico linguistico, o maestro di lingue. Non è il nome che conta, ma ciò che deve fare. www.corriere.it/alberoni _______________________________________________________ Il Messaggero 11 lug. ’01 LA SAPIENZA RITOCCA LE TASSE: Tariffe più basse per tutte le categorie contributive la “fascia protetta” resterà fuori dagli aumenti Gli studenti meno abbienti della Sapienza hanno vinto la loro battaglia: per loro, il prossimo anno accademico, non ci sarà nessun aumento delle tasse universitarie. Mentre per tutti quelli che appartengono alle altre fasce contributive, incrementi ci saranno, ma non così alti come si era stabilito nel bilancio dell’Università approvato prima di Natale. E’ quanto emerso ieri durante tre ore di riunione del Consiglio di Amministrazione dell’ateneo. Gli iscritti alla prima fascia (fino a 33 milioni di reddito annuo), non saranno più accorpati alla seconda fascia e saranno gli unici a non subire aumenti. Ma non si è trattato di un ritiro vero e proprio del provvedimento da parte del rettore Giuseppe D’Ascenzo: gli altri aumenti infatti non saranno del 70 per cento, ma si faranno sentire lo stesso dalla seconda fascia di reddito in su: la prima rata universitaria sarà gravata del 33% per gli studenti che nel 2000 hanno denunciato un reddito compreso tra 36 e 66 milioni, del 36% per quelli di terza fascia, con reddito tra i 67 e 91 milioni, del 39% per quelli di quarta fascia e del 41% per quelli di quinta fascia, con un reddito superiore a 122 milioni di lire all’anno. L’università ha però stabilito che per ora si va avanti con i suddetti aumenti, fermo restando che, se arriveranno altri fondi, è possibile trovare un ridimensionamento sulla seconda rata, da pagare entro il 31 marzo del 2002. «Abbiamo deciso di stanziare 18 miliardi - ha detto il rettore Giuseppe D’Ascenzo - e questo è stato il primo passo per ridurre le tasse. Se poi riusciremo a trovare altri fondi, abbasseremo anche la seconda rata». I rappresentanti degli studenti hanno votato contro il provvedimento «perché la nostra richiesta era quella di annullare completamente gli auementi», ha detto Massimo Romeo di Azione universitaria. Anche i collettivi, che animarono la protesta studentesca della primavera scorsa non ci stanno. «I fondi vanno trovati altrove - ha spiegato Danilo Corradi, rappresentante nel cda - con tagli su altre voci di bilancio: dipartimenti, pubblicità gettoni di indennità, noi abbiamo già dato con i tagli alla voce “servizi agli studenti" per un totale di 6 miliardi. La questione è aperta fino a dicembre, fino a quando cioè non vedremo ridotta la seconda rata». ========================================================= _______________________________________________________ L’Unione Sarda 11 lug. ’01 LA CORTE DEI CONTI BOCCIA I CONTRATTI DI MEDICI E INFERMIERI La Corte dei Conti non ha registrato i contratti dei dipendenti della sanità e degli enti locali perché, a suo giudizio, non ci sarebbe la copertura finanziaria per la contrattazione di secondo livello. La notizia è stata confermata dal segretario generale del sindacato della Funzione Pubblica Cgil (Fp), Laimer Armuzzi, che chiede al governo di autorizzare ugualmente l’agenzia per la contrattazione (Aran) a firmare le intese che interessano complessivamente un milione e 200 mila lavoratori. «In caso contrario», annuncia Armuzzi «il governo si assumerà la responsabilità di una reazione pesante del sindacato». Il sindacalista si riferisce alla grande manifestazione che si è svolta a fine marzo a Roma sostegno del contratto della sanità alla quale presero parte centomila lavoratori. Quanto ai rilievi dei giudici contabili, Armuzzi afferma che «nelle regioni non facciamo i ladri di polli». I magistrati hanno anche sollevato obiezioni sulla copertura finanziaria per i passaggi di livello del personale sanitario (300 mila gli interessati), tra cui infermieri. _______________________________________________________ Il sole24Ore 09 lug. ’01 OCSE: IN ITALIA MEDICI IN ECCESSO E BLOCCO DELLE RISORSE Nell’ultimo rapporto Ocse viene esaminata la situazione della Sanità nei 29 Paesi membri: all’Italia spettano ben due record negativi L’Italia della Sanità conquista due primati non proprio confortanti: troppi medici e una spesa pubblica in picchiata che la mette in coda ai partner europei e al di sotto della media dei 29 Paesi dell’Ocse. A forza di tirare la cinghia dei fondi, il nostro Servizio pubblico è diventato il più avaro d’Europa: nel 1970 la fetta di risorse pubbliche contava addirittura venti punti percentuali in più nella torta della spesa sanitaria. Da allora gli italiani hanno messo sempre più mano al portafogli per mantenere praticamente allo stesso livello la spesa complessiva, ferma da dieci anni intorno all’8% del Pil. Rubinetti sempre più chiusi, dunque, che certo non aiutano a trovare un’adeguata collocazione alla pletora di camici bianchi che popola il nostro Paese, in un rapporto con la popolazione quasi doppio rispetto agli altri Paesi Ocse. A rendere noti questi due record non proprio invidiabili è il recentissimo Rapporto 2001 dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) che, come ogni anno, ha messo in fila i numeri — datati tra il 1998 e il 2000 — della Sanità dei ventinove Paesi membri. Una mappa aggiornata e dettagliata (vedi anche il n. 26/2001 del settimanale «Il Sole 24 Ore Sanità») che fotografa nel dettaglio l’andamento dell’offerta di salute. Cinghia sempre più stretta. I conti del nostro Servizio sanitario nazionale non tornano mai, tanto che i disavanzi di Asl e ospedali continuano a crescere a vista d’occhio: 7mila miliardi per il 2000 e altri 9mila per il 2001, secondo le stime delle Regioni. Che per il 2002 sono pronte a chiedere un fondo record: 150mila miliardi (contro i 124mila del 2000 e i 131mila del 2001). Buchi o sottostime? Da Parigi, l’Ocse sembra dare ragione a quelle "sirene" italiane che da anni denunciano una spesa pubblica sottostimata. Infatti, se è vero che siamo praticamente in linea con gli altri sistemi sanitari per la spesa totale — l’8,2% del Pil contro il 7,9% della media Ocse — ben diversa è invece la situazione sul fronte di quella pubblica. In questo campo, il confronto con i Paesi europei che hanno un sistema sanitario simile al nostro ci vede sempre più indietro. Se in percentuale al Pil lo scarto è meno evidente, il distacco diventa decisamente più chiaro mettendo in fila i dati relativi alla quota pubblica sulla spesa totale. Quella italiana vale, infatti, il 67,3%: una cifra ben al di sotto, ad esempio, di quella francese o tedesca. La prima vanta ben dieci punti in più della nostra (78,1% a fronte di una spesa totale sul Pil del 9,4%), mentre in Germania i fondi del Governo pesano sulla spesa totale per il 75,8% (ben il 10,3% del prodotto interno lordo tedesco). Senza considerare quanto fanno altri Paesi — come Lussemburgo, Repubblica Ceca, Islanda, ma anche Danimarca e Gran Bretagna — la cui spesa pubblica supera abbondantemente l’80% di quella totale. Ben al di sotto della media Ocse (il 72,7%) si collocano, invece, i Paesi che non vantano una tradizione di stampo universalistico nell’assistenza pubblica: il caso più eclatante è quello degli Stati Uniti, dove il Governo mette a disposizione meno della metà delle enormi risorse che, ogni anno, costituiscono il budget della Sanità targata Usa (si tratta del 44,5% di una spesa totale che vale ben il 12,9% del prodotto interno lordo americano). Il boom dei camici bianchi. L’Italia si conferma, ancora una volta, la patria dei medici. Il nostro è, infatti, un record assoluto — abbiamo un esercito che conta 5,9 dottori ogni mille abitanti — al quale non si avvicina nessuno dei ventinove Paesi dell’Ocse (al secondo posto c’è la Grecia, che ne ha due in meno per mille abitanti). Altro risultato italiano — in questo caso una vera e propria emergenza nazionale — è quello relativo agli infermieri, che sono addirittura meno dei medici: sono soltanto 4,6 ogni mille abitanti (contro una media di sette dell’Ocse). Siamo invece in linea con buona parte degli altri Paesi per quanto riguarda il numero dei medici di famiglia (0,9 per mille abitanti) e dei dentisti (0,6 per mille abitanti). _______________________________________________________ L’Unione Sarda 13 lug. ’01 NASCE NEL SULCIS L’OSPEDALE IN AFFITTO Sanità. Un appalto da venti miliardi divisi in cinque anni in cambio di un settore affidato “chiavi in mano” Nasce nel Sulcis l’ospedale in affitto I reparti di dialisi saranno attrezzati e gestiti da una multinazionale Nel futuro della Asl c’è l’ospedale in affitto. Interi reparti da affidare a società esterne che si occuperanno di arredarli, dotarli di impianti e attrezzature, fornire le apparecchiature mediche, perfino i letti per i malati. Le stesse società ne cureranno il funzionamento occupandosi della manutenzione e anche dell’aggiornamento tecnologico delle apparecchiature diagnostiche o terapeutiche e fornendo i materiali di consumo e perfino i farmaci. L’azienda pubblica metterà di suo medici e infermieri e, poi, pagherà il conto. Il sistema è quello del “service”. Emilio Simeone, direttore generale dell’Azienda sanitaria di Carbonia lo ha mutuato dall’industria, settore dal quale proviene. Ha deciso di applicarlo al Servizio dialisi. Se dovesse funzionare altri settori sono pronti alla conversione. Il direttore generale non nasconde di contare molto su questo esperimento. Guida un’azienda con 150 mila assistiti, 2000 dipendenti, 4 ospedali e un deficit consolidato di oltre 50 miliardi. Ai suoi collaboratori ha imposto una priorità: ridurre il disavanzo. Come? «Migliorando l’efficienza e la qualità dei servizi». Perché i soldi che mancano ai conti, la Asl li spende per pagare le prestazioni ad altre strutture pubbliche (20 miliardi) e a centri, cliniche, laboratori e gabinetti privati (altri 25 miliardi). Insomma i malati fuggono dal Sulcis perché non trovano servizi adeguati o soddisfacenti. E la Asl 7 paga. Occorreva inventarsi una nuova strategia: è nata così l’idea del “service”. C’erano da ammodernare i tre reparti di dialisi degli ospedali di Carbonia e Iglesias e del poliambulatorio di Carloforte. Si tratta di piccole fabbriche a ciclo continuo che funzionano al ritmo di 25 mila dialisi all’anno. Da esse dipende la sopravvivenza di 150 persone. «Vanno sostituiti i reni artificiali così come andrebbero rifatte di sana pianta tutte le attrezzature tecnologiche, ci vorrebbero almeno un paio di miliardi», spiega Emilio Simeone. Invece lui rinnoverà i reparti da cima a fondo senza spendere una lira. Il segreto è una gara internazionale con la quale la Asl affiderà ad una società privata (il settore è in mano a grosse multinazionali) la gestione del servizio. Chi si aggiudicherà l’asta dovrà smontare e ricostruire i reparti del Sirai e del Santa Barbare oltre che di Carloforte dotandoli degli arredi, delle attrezzature e delle apparecchiature sanitarie (compresi i reni artificiali) all’avanguardia. Non basta, per tutta la durata dell’appalto (che sarà di 5 anni), la stessa società dovrà occuparsi di garantire il funzionamento, la manutenzione, l’adeguamento tecnologico e la fornitura dei medicinali e del materiale di consumo. «La Asl dovrà pensare ai medici e agli infermieri e nient’altro», spiega Simeone. Il costo dell’operazione? 20 miliardi per 5 anni. Un’esagerazione? «Corrisponde alla cifra che spendiamo attualmente - costo del personale a parte - per fare funzionare il servizio», assicura il direttore generale. I vantaggi? «Un’assistenza migliore e un’accoglienza più confortevole per i malati e un risparmio per la Asl che potrà liberare risorse da investire in altri settori». L’operazione “service” è già partita. Nei giorni scorsi è stata pubblicata la gara internazionale. «A ottobre si chiude l’appalto, a giugno del 2002 apriranno i nuovi reparti e ci sarà anche il centro di dialisi di Buggerru», promette Emilio Simeone. Il quale non nasconde la possibilità che la nuova filosofia di gestione della Asl «possa essere estesa a impianti e attrezzature di alto costo e alto consumo per i quali la tecnologia è in forte sviluppo». Perché il “service”, secondo il manager della Asl «consente di mantenere uno standard tecnologico all’avanguardia e in concorrenza con le strutture private». È un modo per quella «riorganizzazione dei servizi» sulla quale punta il direttore generale. Per questo ha trasformato 25 impiegati in infermieri e sta mettendo a punto un programma che prevede «l’utilizzo ottimale delle strutture attraverso la creazione di due poli ospedalieri a Carbonia e Iglesias e di una rete di poliambulatori nel territorio». Per ridurre il deficit Emilio Simeone è convinto che non sia necessario tagliare quanto rafforzare «potenziando ciò che abbiamo per penetrare nel territorio». Insomma la sanità con i conti in pareggio non è altro che un’azienda che riesce a vendere i suoi servizi riconquistando i propri “clienti”. Sandro Mantega _______________________________________________________ L’Unione Sarda 11 lug. ’01 BROTZU: POTENZIATO L’ORGANICO DI CARDIOLOGIA C’è qualche spiraglio di luce per i malati di cuore costretti a varcare il Tirreno a causa delle lunghe liste d’attesa nel reparto di cardiochirurgia del Brotzu. Sollecitato dal Tribunale per i diritti del malato, l’assessore regionale alla sanità Giorgio Oppi ha comunicato di aver provveduto al raddoppio dell’organico e ad adeguare il Drg agli standard nazionali in modo da limitare i ricoveri extra-regione e a ridurli ai casi indispensabili. Notizie confortanti anche per la radioterapia, altro settore in grave difficoltà in tutta la Sardegna. Oppi ha comunicato di aver stanziato cospicui finanziamenti per l’adeguamento delle strutture sia a Cagliari che a Sassari. Ora i Tribunale per i diritti del malato chiederà un incontro con i responsabili della Asl 8, del Brotzu e del Policlinico universitario per sensibilizzarli su queste tematiche. _______________________________________________________ Corriere della Sera 11 lug. ’01 LOMBARDIA: LA SANITÀ IN ROSSO? CI SONO TROPPI RICOVERI» L' assessore regionale Carlo Borsani «La Sanità in rosso? Ci sono troppi ricoveri» La spesa sanitaria della Lombardia è fuori controllo. Lo sottolinea Carlo Borsani, assessore regionale alla Sanità, che si difende: «Il sistema lombardo non ha colpe; la riforma in vigore dal 1° gennaio ' 98, che ha scorporato gli ospedali dalle Asl, ha ampliato le possibilità di scelta dei cittadini, equiparando le strutture pubbliche a quelle private. Eppure, i ricoveri nelle prime restano numerosi, quasi alla soglia del limite suggerito dal ministero della Sanità». I costi sempre più alti? «Non dipende dalla Regione, basti pensare che il 68 per cento della spesa copre le paghe dei dipendenti, quando la media europea è del 55-58 per cento». La soluzione? « Cambiare i vecchi ospedali, trasformandoli in case di ricovero o di riabilitazione, con attività meno costose, tagliando e recuperando il personale che non serve più alle strutture ospedaliere». Nessun commento da parte dell' assessore sulla spesa farmaceutica, che per il 2001 produrrà la metà del deficit della sanità, 700 miliardi: «Si sapeva già che avremmo sforato il budget previsto e che i soldi stanziati dal governo non sarebbero bastati». _______________________________________________________ Corriere della Sera 14 lug. ’01 LOMBARDIA:TROPPE CARDIOCHIRURGIE, 3 «RICETTE» IN DISCUSSIONE Biglioli: tagliamo i centri inefficienti. Viganò: ai privati rimborsi più bassi. Montaguti: serve un ente di controllo MILANO - Sovrabbondanza di centri col rischio di affondare con troppa facilità il bisturi nel cuore e di far di tutto per attrarre malati da altre regioni. La grande offerta di strutture cardiochirurgiche in Lombardia, 20 per nove milioni di abitanti quando ne basterebbe la metà (una per milione, stando agli standard internazionali), è pericolosa. Lo ha documentato una nostra inchiesta pubblicata nel giugno scorso. In quell’occasione i chirurghi del settore hanno proposto dei correttivi, molto diversi l’uno dall’altro, peraltro. LE «RICETTE» DEI MEDICI - Secondo Mario Viganò, direttore del centro di cardiochirurgia dell’Università di Pavia presso il Policlinico San Matteo, la concorrenza fra pubblico e privato non è ad armi pari: il secondo è meno gravato dalla burocrazia e più snello a livello organizzativo. Nel giro di poco tempo si assisterà a uno «sgretolamento» delle strutture pubbliche, una specie di morte lenta. L’unico correttivo efficace in tempi brevi, secondo il chirurgo, è abbassare per le strutture private la quota che lo Stato rimborsa per gli interventi, il Drg (diagnosis related group), fino a dimezzarla rispetto alle strutture pubbliche. Un’evidente penalizzazione del privato, ma che riducendo i suoi margini di privilegio, rimette la concorrenza sul giusto binario. Altra la strada individuata da Paolo Biglioli, primario di cardiochirurgia della Fondazione Monzino di Milano: la Regione, come è responsabile dell’accreditamento delle strutture, così deve farsi carico, qualora la ritenga necessaria, della revoca per quelle che non raggiungono un volume di attività tale da garantire la qualità delle prestazioni. Soluzione «originale» per l’Italia, poco propensa a tanto rigore, ma già attuata con successo - ricorda Biglioli - in altri Paesi, come la Svezia o l’Inghilterra. UNA STRADA CRITICABILE - Chi ha ragione, quale di queste strade è percorribile? «Questo eccesso di cardiochirurgie è preoccupante - risponde Nerina Dirindin, docente di economia sanitaria dell’Università di Torino - e, vista da un osservatore fuori dalla Lombardia, appare rischiosa perché stimola la mobilità dalle altre regioni. Per lavorare ad un ritmo accettabile, le strutture lombarde "aggrediscono" il mercato, attirando un numero crescente di persone soprattutto dalle aree più critiche, in particolare dal Sud. Senza dubbio urge un correttivo. Ma la strada proposta dal professor Viganò non mi sembra percorribile: a parità di attività, il trattamento economico deve essere uguale fra pubblico e privato, nè si possono creare posizioni di privilegio a favore dell’uno o dell’altro. Così come non è proponibile remunerare allo stesso modo strutture che trattano malati con patologie di diversa gravità. La strategia di Viganò sarebbe, comunque, debole perché l’aumento dell’offerta privata è in Lombardia una scelta di politica sanitaria, non un evento casuale». Analogo il parere di un altro esperto di economia sanitaria, Ubaldo Montaguti, direttore generale dell’azienda ospedaliera di Ferrara: «Dimezzare il Drg al privato può anche essere praticabile, ma è una scelta sbagliata perché niente dimostra che possa eliminare il problema di partenza che è l’eccesso di offerta. Si rischia, invece, di esasperare la competizione fra le strutture, non certo a vantaggio dei malati». Alcune regioni, però si stanno muovendo verso tariffe diversificate, altre le hanno già attuale, ad esempio la Toscana. Spiega Aldo Ancona, responsabile per la pianificazione e le risorse del dipartimento Sanità della Regione Toscana: «Il meccanismo con cui viene applicata un diversa quota di rimborso al pubblico e al privato scaturisce dal fatto che gli ospedali sotto questo profilo sono suddivisi in quattro classi. Le prime due comprendono le strutture che hanno anche il pronto soccorso e sono, perciò, in maggioranza pubbliche, la terza e la quarta quelle senza un dipartimento di emergenza, per lo più private. Alle prime classi viene attribuito un punteggio più alto di rimborso: circa un 7 per cento in più. Si tratta di una scelta possibile, basta volerla attuare». UN’ALTRA SOLUZIONE - E la strada prospettata dal professor Biglioli? «E’ senz’altro la più corretta - dice ancora Montaguti - perché va nella direzione giusta, che è quella di riportare in equilibrio la domanda e l’offerta. Per metterla in atto bisogna creare, però, un sistema di verifica dei centri esistenti, che non prenda in considerazione soltanto i numeri, il volume di lavoro, cioè, ma che sia anche in grado di giudicare l’appropriatezza delle cure e i criteri con cui vengono scelti i malati. Non basta un organismo di controllo regionale; per arrivare a un’analisi dettagliata è necessario che gli ospedali interessati dal problema si consorzino per creare un organismo che faccia indagini a campione sull’attività dei centri. Una sorta di autoverifica, istituita e riconosciuta dalla Regione. Sulla scorta di quanto ne emerge, quest’ultima può decidere, o meno, di revocare l’autorizzazione ad alcuni ospedali». «La riforma Bindi del ’99 - aggiunge la professoressa Dirindin - prevede criteri rigorosi per l’accreditamento delle strutture: devono essere valutate l’attività e la qualità delle cure erogate, come deve essere definito il fabbisogno di assistenza sanitaria di quel bacino d’utenza». «L’ipotesi di una revoca esiste - dichiara Stefano Del Missier, responsabile dell’ufficio gestione fondo sanitario della Regione Lombardia -. Stiamo già indagando sull’appropriatezza delle cure all’interno delle cardiochirurgie in Lombardia». _______________________________________________________ Corriere della Sera 9 lug. ’01 MILANO: «IL POLICLINICO? PUNTARE TUTTO SULLA RICERCA» Oggi Sirchia illustra il piano di rilancio dell' ospedale. «Una Fondazione gestita da privati con il controllo pubblico» Fiano Fulvio Il ministro presenta il nuovo commissario Giuseppe Di Benedetto e il direttore scientifico Ferruccio Bonino «Il Policlinico? Puntare tutto sulla ricerca» Oggi Sirchia illustra il piano di rilancio dell' ospedale. «Una Fondazione gestita da pri vati con il controllo pubblico» È un giorno importante, oggi, per il Policlinico. È il giorno della presentazione dei nuovi vertici della struttura, del direttore scientifico, Ferruccio Bonino, e del commissario straordinario Giuseppe Di Benedetto. Ma è anche il giorno in cui, alle 10.30, nella sala del consiglio dell' Ospedale Maggiore, presenti Formigoni e forse Albertini, il ministro della Sanità, Girolamo Sirchia, illustrerà il piano di rilancio degli Irccs, gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico. Una riforma in due mosse: Fondazioni private che riuniscano i migliori ricercatori scientifici. «Per ora si tratta di idee ancora allo studio - anticipa Sirchia - che vedremo come sviluppare. Il concetto è: rendere gli Irccs meno statici e trasformarli in poli di attrazione per i migliori scienziati italiani». Il ministro scende più nei dettagli: «Sono convinto che l' aggregazione dia i frutti migliori, anche nella ricerca scientifica. Penso a una struttura dove far confluire le migliori menti del pubblico e del privato e delle Università. Tenerle assieme, favorire il confronto tra loro su temi specifici, impostare un lavoro comune. I risultati sarebbero eccellenti». Il passo successivo è l' interscambio con l' estero: «Il lavoro di un ricercatore non può essere al chiuso del suo laboratorio. I pool di medici che ho in mente, dovranno aprirsi al confronto anche con i colleghi stranieri, sia visitando le più importanti strutture all' estero, sia ospitando ricerca tori di altri paesi». Il piano di riforma dell' ex assessore del Comune di Milano contempla anche lo sblocco dei finanziamenti, che una struttura come il Policlinico, ospitando la crema degli studiosi, si presterebbe meglio a ricevere: «Finora i fondi vengono erogati a pioggia, suddivisi su troppe realtà diverse e per questo spesso dispersi o comunque insufficienti in molti casi. Un gruppo di ricercatori sarebbe invece in grado di attirare fondi maggiori e da più parti». Sirchia, appena insediato al dicastero della Sanità, ha espresso la sua preferenza per un direttore-manager, anziché per uno scienziato «puro» alla guida del Policlinico. L' esternazione ha portato alle polemiche dimissioni di Luciano Gattinoni. «La scelta di Bonino e Di Benedetto va in questa direzione. Hanno le caratteristiche adatte a gestire il rilancio e il cambiamento del Policlinico nella nuova veste giuridica di Fondazioni». È questo l' altro punto sul quale punta il ministro, la fine dello stato «ibrido» degli Irccs, a metà tra finanziamenti regionali e statali: «Saranno Fondazioni a gestione privata e autonoma, con l' occhio del pubblico però sempre vigile. Non è un accantonamento del ruolo dello Stato, solo un superamento dei suoi vincoli. Pubblico e pr ivato possono coesistere, ma il decentramento amministrativo, la devoluzione, è una realtà già accettata ovunque». Di questo e altro Sirchia parlerà con Formigoni: «La spesa medica della Lombardia è in rosso? Non è compito mio intervenire, ma solo as secondare la volontà delle Regioni, con il dovuto controllo». F.Fia. La scheda POLICLINICO L' ospedale risale al 1456. Numerose le ristrutturazioni negli anni. Entro 5-7 anni dovrebbe essere ultimato il Nuovo Policlinico. Costo totale 560 miliardi PO STI LETTO La struttura attuale conta 800 posti letto. Al termine dei lavori la disponibilità sarà ampliata fino a 1.400 CURE Nel 2000 l' ospedale ha contato 27mila ricoveri, fornito 70mila prestazioni ambulatoriali e 80mila interventi di pronto socco rso PERSONALE Nei 37 dipartimenti lavorano in totale 2500 persone. I primari sono 29, 550 i medici, 1.300 gli infermieri Arretrati _______________________________________________________ Corriere della Sera 12 lug. ’01 CREATI EMBRIONI UMANI DESTINATI ALLA RICERCA E' polemica negli Usa Caretto Ennio I vescovi: è una strada pericolosa Creati embrioni umani destinati alla ricerca E' polemica negli Usa DAL NOSTRO CORRISPONDENTE WASHINGTON - Per la prima volta, una clinica della fertilità ha prodotto embrioni umani all' espresso scopo di usarne le cellule staminali per esperimenti scientifici. Anziché ricorrere a embrioni destinati originariamente alla riproduzione, ma poi scartati perché non più necessari, e conservati in stato di congelamento, la clinica ha trapiantato lo sperma di alcuni donatori nelle uova di alcune donatrici per ottenere embrioni «ad hoc». La clinica è l' Istituto Jones di medicina riproduttiva di Norlfolk in Virginia, non lontano da Washington. L' annuncio ha provocato enorme scalpore in tutta l' America. La creazione di embrioni per distruggerli con la sottrazione delle loro cellule staminali viola le direttive del Consiglio nazionale di bioetica e dell' Istituto nazionale della sanità. Si scontra inoltre con il progetto del presidente Bush di vietare il finanziamento pubblico dei loro esperimenti. Non solo le chiese, ma anche gruppi di scienziati hanno criticato la clinica. L' iniziativa dell' Istituto Jones, tuttavia, non infrange la legge: a differenza che in Inghilterra, in America il Parlamento non si è ancora pronunciato sulla questione, come non si è ancora pronunciato in Italia e nella stragrande maggioranza degli altri Paesi europei. Si profila uno scontro tra gli oppositori dell' aborto, che considerano gli embrioni l' inizio della vita e no n vogliono perciò che vengano distrutti, e i sostenitori delle cellule staminali, che le giudicano lo strumento più efficace per sconfiggere gravi malattie, dal diabete all' Alzheimer, e per risuscitare i tessuti. William Gibbons, il medico che ha di retto la produzione degli embrioni alla clinica, ha dichiarato che essa rappresenta un passo avanti etico e scientifico. Susan Lanzerdof, la sua collaboratrice, ha aggiunto che la decisione è stata presa con il consenso dei legali, dei religiosi e de i consulenti dell' Istituto: «Siamo giunti alla conclusione che è nostro dovere fornire alla umanità il quadro più preciso possibile del suo sviluppo», ha detto. Ma la Conferenza nazionale dei vescovi cattolici ha ammonito che «si tratta di una strad a pericolosa». Ennio Caretto LA SCHEDA L' ANNUNCIO I medici dell' Istituto Jones di Norfolk hanno annunciato di aver prodotto embrioni umani all' espresso scopo di usarne le cellule staminali per esperimenti scientifici IL DIBATTITO Hanno protestato sia religiosi che scienziati, secondo i quali l' iniziativa viola le direttive del Consiglio nazionale di bioetica _______________________________________________________ Corriere della Sera 11 lug. ’01 EMBRIONI CREATI SENZA USARE IL SEME MASCHILE Australia: l' esperimento nei topi, se funziona anche due donne potranno concepire un figlio. Il genetista Dallapiccola: «Vi sono molti rischi, conosciamo troppo poco i geni per sapere cosa accadrà» Porciani Franca L' ovulo fecondato da metà cromosomi di una cellula normale. Gli esperti: «Sappiamo ancora troppo poco per capire come hanno fatto» Embrioni creati senza usare il seme maschile Australia: l' esperimento nei topi, se funziona anche due donne potranno concepire un figlio MILANO - Neanche le tecniche più azzardate di fecondazione assistita hanno mai tentato una cosa simile, ma ora un' équipe della Monash University di Melbourne sembra essere riuscita a far concepire un figlio senza usare spermatozoi. I ricercatori australiani, diretti dalla dottoressa Orly Lacham-Kaplan, hanno ottenuto embrioni di topo a partire da ovuli (fin qui niente di strano) e da cellule provenienti da qualsiasi parte del corpo (e qui sta l' evento straordinario). Aprendo scenari inquietanti, come quello di permettere a due donne di poter concepire usando l' ovulo di una e parte di una cellula qualsiasi dell' altra. LA NOVITA' - Queste ultime, dette somatiche, infatti, hanno un patrimonio ereditario di 46 cromosomi, il doppio di quelle deputate alla riproduzione della specie, ovuli e spermatozoi, che ne hanno solo 23 perché dalla loro fusione nel concepimento deriva il corredo genetico del futuro individuo, metà del padre, metà della madre. Il singolare esperimento, del quale ha dato notizia ieri la Bbc, ha per ora dato luogo soltanto ad embrioni in vitro, ma il passo successivo sarà trasferire queste vite potenziali nell' utero di «madri surrogate» nella speranza che si verifichi la gravidanza e che nasca no topi vitali e sani. Il fatto più interessante è come i ricercatori siano riusciti a dividere i cromosomi di un cellula normale senza recarle danno. La Kaplan ha spiegato alla Bbc di aver riprodotto, con mezzi chimici, in una cellula qualsiasi del corpo il processo che avviene normalmente nella cellula uovo femminile quando questa espelle metà dei suoi cromosomi (meiosi) e si prepara, con il patrimonio ereditario dimezzato, all' incontro con lo spermatozoo. «In realtà le cose non sono chiare anche perché niente è stato ancora pubblicato di questa ricerca, nè presentato in congressi scientifici - commenta Bruno Dallapiccola, Presidente della società italiana di genetica umana -. Che a Melbourne abbiano fatto una cosa del genere è abbastanza strabiliante perché in natura il passaggio di una cellula somatica da un patrimonio cromosomico completo (diploide) ad uno dimezzato (aploide) è un evento eccezionale. Si verifica soltanto, e raramente, in tumori ad alto grado di malignità». «Le in formazioni su questo esperimento sono ancora grossolane - aggiunge Eleonora Porcu, Responsabile del centro di fecondazione assistita dell' Università di Bologna - ma l' ipotesi più probabile è che gli australiani abbiano ottenuto la fecondazione iniettando nell' ovulo soltanto il nucleo della cellula somatica dimezzata, visto che questa è molto più grande dello spermatozoo. Pare difficile, comunque. Sta di fatto che la Monash University è un centro di ricerca di alto livello». IL FUTURO - Se l' esperimento andrà avanti e la gravidanza darà luogo ad un prole normale, si apre, comunque, uno scenario inquietante per le possibile applicazioni sull' uomo. Questa tecnica, infatti, potrebbe permettere anche a due lesbiche di avere un figlio, a partire da ovuli e da cellule del corpo di una delle due donne. A patto, però, che non vogliano un maschio, cosa impossibile vista l' assenza del patrimonio ereditario maschile. Ma a parte gli interrogativi etici che inevitabilmente si pongono, c' è anche il pericolo che questo processo, così lontano dalla fecondazione naturale, possa dar luogo a malformazioni. I RISCHI - «Un concepimento normale non è solo frutto del numero dei cromosomi - aggiunge Dallapiccola -: il modo con cui i due patrimoni ereditari si fondono e si embricano è molto più complesso e coinvolge geni dei quali sappiamo pochissimo. Credo che la clonazione debba insegnarci una maggiore cautela: dopo i primi entusiasmi, gli stessi scienziati che ne sono stati protagonisti ora fanno sapere che queste nascite sono state gravate da morti precoci, sterilità e mostruosità». Franca Porciani _______________________________________________________ Le Scienze 11 lug. ’01 ORMONI, STRESS E MEMORIA Topi trattati con il CHR si sono trovati in difficoltà nei labirinti e di fronte al riconoscimento di oggetti Sia nei topi che negli umani, lo stress nelle prime fasi della vita può compromettere la memoria una volta raggiunta la maturità. Ora un gruppo di ricercatori dell'Università della California a Irvine ha identificato la sostanza che sembra essere responsabile di questo effetto. Iniettando in giovani topi un ormone che viene prodotto come risposta allo stress, gli animali soffrono poi di deficit di memoria. I risultati di questo studio sono stati pubblicati il 10 luglio sui "Proceedings of the National Academy of Sciences". I topi adulti che sopravvivono a una giovinezza piena di stress hanno di solito meno neuroni nell'ippocampo, una regione del cervello necessaria per la formazione dei ricordi. Gli scienziati non hanno però mai saputo che cosa di fatto distrugga questi neuroni. Gli ormoni associati allo stress chiamati glucocorticoidi sono una possibilità ovvia, a parte il fatto che essi normalmente non interagiscono con l'ippocampo. Proprio per questo la nuova ricerca ha studiato invece l'ormone associato al rilascio della corticotropina (CHR). Per verificare gli effetti di questo ormone sulla memoria, i ricercatori hanno iniettato il CHR in topi di 10 giorni, mantenendo allo stesso tempo costante il livello dei glucocorticoidi. La memoria degli animali è stata poi messa alla prova al raggiungimento dei 3 mesi di età. È risultato che i topi trattati con il CHR si sono trovati in difficoltà nei labirinti e di fronte al riconoscimento di oggetti, mentre i topi sani superavano brillantemente gli stessi test. La perdita di memoria è risultata ancora più grave tra i 6 e i 10 mesi di età. Quando poi il cervello degli animali è stato analizzato si è visto che mancavano alcuni neuroni nell'ippocampo. Mantenere bassi i livelli di questo ormone potrebbe quindi diventare una possibile cura per i casi di stress cronico infantile. _______________________________________________________ Le Scienze 13 lug. ’01 FUNGHI E TUBERCOLOSI I farmaci anti-tubercolosi tradizionali stanno perdendo efficacia via via che i batteri acquisiscono resistenza I farmaci usati per combattere alcune micosi, infezioni da funghi, potrebbero rivelarsi utili anche conto la tubercolosi. A questa conclusione sono giunti alcuni scienziati dell'Università del Galles ad Aberystwyth, che hanno trovato un'interessante somiglianza genetica tra il batterio della tubercolosi e alcuni funghi. La tubercolosi uccide ancora oggi due milioni di persone all'anno nel mondo, e questo numero sta crescendo rapidamente nelle regioni dove l'AIDS è diventata una malattia epidemica. Al momento sono disponibili diversi farmaci contro la tubercolosi, ma stanno perdendo la loro efficacia man mano che i batteri sviluppano una resistenza contro di essi. Proprio per questo gli scienziati sono alla ricerca di nuovi sistemi di cura e il nuovo lavoro potrebbe suggerirne uno. La chiave della nuova ricerca è stato un progetto internazionale per completare la sequenza del genoma del batterio della tubercolosi. Quando gli scienziati hanno analizzato questo genoma, si sono accorti che esso contiene un gene presente in una specie di funghi che infetta gli esseri umani. Poiché sono già disponibili farmaci che combattono i funghi proprio bloccando questo gene, i ricercatori hanno provato a darli immediatamente ad alcuni batteri che sono stretti parenti di quelli della TBC. I risultati sono stati molto promettenti, tanto che gli esperimenti sulla TBC stessa sono già in corso. Se la medicina dovesse funzionare, sarebbe un metodo completamente nuovo per attaccare questo pericoloso batterio. _______________________________________________________ Corriere della Sera 11 lug. ’01 UN TEST PER IL TUMORE AI POLMONI Basta un prelievo del sangue: la tecnica si basa sull' esame del Dna Gergolet Mara L' Istituto dei tumori di Milano annuncia anche un nuovo potente farmaco anticancro Un test per il tumore ai polmoni Basta un prelievo del sangue: la tecnica si basa sull' esame del Dna MILANO - Un esame del sangue per una diagnosi precoce del tumore ai polmoni. E una molecola «truccata» chimicamente, una sorta di «pallottola» più potente di quelle finora in uso, che blocca la riproduzione delle cellule tumorali. Sono due scoperte nella lotta contro il cancro, compiute all' Istituto dei tumori d i Milano da due diversi team di ricercatori. Entrambe stanno per diventare nuovi strumenti per contrastare la malattia. IL TEST - La prima tecnica, semplice da eseguire perché il paziente deve solo sottoporsi a un prelievo del sangue, si basa su un t est del Dna. L' esame misura il livello di Dna circolante nel plasma: nei soggetti malati di cancro ai polmoni questa quantità aumenta di 10 volte rispetto ai soggetti sani. Il test permette inoltre di individuare un certo numero di anomalie presenti nel DNA dei malati di tumore polmonare. «Molte di queste alterazioni - ha spiegato Gabriella Sozzi del dipartimento di oncologia sperimentale, una delle autrici della ricerca - si riscontrano già nelle lesioni preinvasive e nella mucosa bronchiale sana del tratto respiratorio». La malattia può quindi essere identificata a uno stadio precoce. La prova (i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista americana Cancer Research) è stata effettuata su un gruppo di 84 pazienti con cancro polmonar e confrontati con un gruppo di 43 individui sani. Gli stessi ricercatori, però, sono suggeriscono cautela. Nel 10 per cento degli individui sani si è visto che i valori di Dna circolante superiori alla soglia critica. In autunno, il test sarà per la prima volta sperimentato su 1.000 fumatori che sono la categoria più a rischio di questo tipo di tumore, particolarmente pericoloso: ogni anno in Italia vengono colpite 35mila persone, e la sopravvivenza oltre i 5 anni dalla comparsa della malattia è solo del 10 per cento. IL FARMACO - La seconda scoperta ha individuato un principio attivo antitumorale quattro volte più potente di quelli attualmente in uso. Semplificando, la sostanza si attacca alle cellule malate e inibisce un enzima (la topois omerasi 1), che permette alla cellula di dividersi. In questo modo, la cellula tumorale non può più replicarsi, e la diffusione della malattia viene arrestata. La sostanza ha per nome solo una sigla: «ST1481», ma non è nuova. Fa parte della famiglia delle camptotecine, sostanze derivate da una pianta originaria dalla Cina. E le proprietà del farmaco si conoscono fin dagli anni Sessanta. «Ma il procedimento per rendere il farmaco solubile in acqua - ha detto la ricercatrice Graziella Pratesi - faceva sì che nell' uomo il composto si degradasse subito, senza fare in tempo ad agire pienamente». Oggi la molecola è stata realizzata per sintesi chimica, in laboratorio, e lavorando su di essa si è riusciti a renderla più stabile: il brevetto, riconosciuto anche dagli Stati Uniti, è di proprietà dell' Istituto dei tumori di Milano, dell' università e dell' azienda farmaceutica Sigma Tau. «Abbiamo semplicemente abbandonato l' idea di iniettare il farmaco - ha riferito Pratesi - accettando la vi a di somministrazione orale prima rifiutata dagli oncologi per non responsabilizzare troppo il paziente». I risultati sul topo «sono stati eccellenti - ha detto la ricercatrice - e ora ci attendiamo grandi cose anche sull' uomo». La prima fase clinic a è stata già sperimentata in Svizzera e partirà a giorni a Milano. La molecola può essere usata nel trattamento del cancro al polmone e alla mammella e in alcuni tipi di tumore cerebrale. Ma. G.