Questa rassegna in http://pacs.unica.it/rassegna Indicizzata in http://pacs.unica.it/htdig/search.html Mailing list: medicina@pacs.unica.it CAGLIARI: LA CARICA DEI SEICENTO ASPIRANTI MEDICI BOOM DI PRE-ISCRIZIONI PER BENI CULTURALI E SCIENZE AMBIENTALI UNIVERSITÀ DI CAGLIARI. CORSI DI STUDIO A NUMERO CHIUSO ECO: SE NASCE UNA SCUOLA PRIVATA PER LAICI "UNIVERSITÀ, LA RIFORMA SI PUÒ MIGLIORARE MA HA ROTTO L' IMMOBILISMO" GIOVANI, BRAVI E SENZA FONDI ECCO I RICERCATORI CON LA VALIGIA SIRCHIA: "PER FERMARE L'ESODO CREIAMO I CLUB DEGLI SCIENZIATI" ========================================================= MISTRETTA: "ALL'UNIVERSITÀ SERVONO SOLTANTO 510 POSTI LETTO" IL SAN GIOVANNI DI DIO RIFIUTA IL MATRIMONIO CON L'UNIVERSITÀ LA SANITÀ PROIBITA AI POVERI D'AMERICA L'AVIS: IL BROTZU PAGA POCO E IN RITARDO SCOPERTO IL SEGRETO DELLA LUNGA VITA: È UN GENE MIX DI ELETTRONICA E CELLULE NASCE IL CERVELLO ARTIFICIALE PET + TAC: RIVOLUZIONE NELLA MEDICINA NUCLEARE CALCOLI RENALI: I MALEFICI DELLA SOIA LE CELLULE DELLA RESPIRAZIONE ========================================================= ADDIO SILICIO, L' IBM PREPARA IL CHIP AL CARBONIO ========================================================= ___________________________________________________ L'Unione Sarda 18 Ago 01 CAGLIARI: LA CARICA DEI SEICENTO ASPIRANTI MEDICI È cominciato il conto alla rovescia per la selezione in programma il 5 e il 6 settembre Le immatricolazioni sono a numero chiuso: 170 i posti disponibili Sono circa seicento gli studenti cagliaritani che bussano alla porta della Facoltà di Medicina dove, come è noto, a causa del numero chiuso non potranno essere accolte più di 170 nuove immatricolazioni. Il conto alla rovescia è iniziato anche per i giovani che aspirano a diventare medici-dentisti e che dovranno darsi da fare per conquistare uno dei 16 posti disponibili. Fissate le date per la selezione: il 5 e il 6 settembre alla Cittadella universitaria di Monserrato. La selezione avverrà con quiz e questionari uguali su tutto il territorio nazionale. Un modo per mettere tutti i candidati sullo stesso livello anche se, come lo scorso anno, non mancheranno le polemiche all'interno del corpo accademico. C'è ancora chi sostiene che l'autonomia delle Università, con particolare riferimento alla Sardegna, avrebbe dovuto avere una maggiore considerazione da parte del Comitato ministeriale che ha stabilito le norme del concorso. Ma tant'è: il numero chiuso viene ritenuto valido per non creare troppe illusioni nei giovani che aspirano a diventare medici a causa delle difficoltà che si incontrano nel mondo del lavoro. Uno di questi è proprio il professor Angelo Balestrieri, preside della facoltà, che già in passato non ha mancato di esprimere un giudizio diametralmente opposto: "L'Università sarda si troverebbe allo stesso livello di quelle delle altre regioni italiane. E, inoltre, bisogna pensare a garantire e dare sbocchi professionali a tutti questi giovani". "Sarà una selezione durissima - afferma Biagio Copez, rappresentante degli studenti - poiché si può capire la tensione e la preoccupazione di tutti questi giovani che hanno vissuto per molti anni sognando un futuro in camice bianco. E non sempre gli ammessi sono i migliori o quelli più preparati: la fortuna gioca un ruolo non secondario e non è giusto che l'avvenire di un ragazzo sia affidato al caso". Come accennato, i posti disponibili sono soltanto 170. Ciò significa che per tutti quelli che non saranno ammessi dovranno concludere la carriera scolastica in un'altra facoltà. Da considerare che nel numero ci saranno anche tanti giovani che si presenteranno al test per la seconda volta. Il 5 settembre, quindi, se non ci saranno incidenti di percorso come lo scorso anno (prova rinviata per l'apertura anticipata delle buste con i quiz) la Cittadella universitaria di Monserrato vivrà il suo giorno più lungo. G. P. ___________________________________________________ L'Unione Sarda 24 Ago 01 BOOM DI PRE-ISCRIZIONI PER BENI CULTURALI E SCIENZE AMBIENTALI Cresce l'Ateneo, 400 studenti in fila Mini guida alla scelta dei corsi di laurea, code in segreteria Lunghe code davanti alla segreteria dell'università in via Carmine. Archiviato Ferragosto, per i neodiplomati è già ora di pensare al futuro. E nessuno perde tempo. In pochi giorni agli uffici del Consorzio Uno sono state presentate oltre duecento domande di ammissione. E, dati alla mano, l'università in città è una realtà in continua crescita: dai trenta iscritti del primo anno si è arrivati a circa quattrocento studenti. Le preferenze vanno soprattutto verso il corso di laurea in Economia e gestione dei servizi turistici, ma non mancano le domande per Viticoltura ed enologia, per Biotecnologie industriali, Tecnologie alimentari, Restauro e conservazione dei beni culturali e Scienze ambientali delle acque interne e lagunari. Questi ultimi due corsi sono la novità dell'anno accademico 2001-2002. Attivati dall'università di Sassari, i nuovi indirizzi stanno riscontrando i favori di molti ragazzi sebbene ci siano ancora dei punti oscuri. Moduli e chiarimenti, comunque, si possono avere presso l'Antiquarium arborense. Questo un breve vademecum per orientarsi nel mondo universitario sorto in città. ECONOMIA E GESTIONE DEI SERVIZI TURISTICI. Il corso vuole formare dirigenti e professionisti che operano nelle imprese turistiche e prevede stages in Enti pubblici o aziende private. La durata è triennale e gli esami, a seconda del piano di studi, sono 16 o 17. Gli studenti sono 50 e la selezione si terrà alla facoltà di Economia a Cagliari il 7 settembre alle 9. BIOTECNOLOGIE INDUSTRIALI. Questa laurea vuole formare gli specialisti nella gestione delle industrie di prima trasformazione, e valorizzare i sottoprodotti e controllarne la qualità. Lo sbocco occupazionale è offerto dall'industria delle fermentazioni e dei bioprocessi. Il corso dura tre anni per un totale di 18 esami. I posti sono 30 e le prove si svolgeranno il 18 settembre alle 9 al Chiostro. TECNOLOGIE ALIMENTARI. Al termine dei tre anni i neodottori saranno esperti delle tecniche di produzione delle materie prime, di ingegneria alimentare, di tecnologie microbiologiche e biotecnologiche delle trasformazioni e dell'economia agroalimentare. Gli esami sono 23, i posti disponibili 25 e i test si terranno il 13 settembre alle 10 al chiostro del Carmine. VITICOLTURA ED ENOLOGIA. Questo corso assicura le conoscenze necessarie per operare nel settore vitivinicolo: tecniche agronomiche e colturali, ingegneria alimentare e tecniche enologiche. Sbocchi professionali anche nella pubblica amministrazione e negli istituti di ricerca. La durata è triennale, gli esami sono 23 e gli studenti 15. Le prove si svolgeranno il 13 settembre alle 15 nei locali di via Carmine. RESTAURO E CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI. Questi studi uniscono l'aspetto umanistico a quello scientifico. Il corso triennale sarà legato alla realtà territoriale dei musei archeologici e demoetnoantropologici sardi. I posti disponibili sono 30 e la selezione si svolgerà il 24 settembre alle 9, presumibilmente in via Carmine. SCIENZE AMBIENTALI DELLE ACQUE INTERNE E LAGUNARI. Il corso triennale si propone di formare esperti nella progettazione e gestione ambientale delle acque interne e del loro sfruttamento produttivo, in particolare la pesca. Possibilità di impiego nel settore pubblico e privato. Sono disponibili 20 posti e le prove sono previste il 14 settembre alle 10; la sede dovrebbe essere quella di via Carmine. Le domande di ammissione devono essere presentate entro le 12 del 31 agosto. Valeria Pinna ___________________________________________________ L'Unione Sarda 28 Ago 01 UNIVERSITÀ DI CAGLIARI. CORSI DI STUDIO A NUMERO CHIUSO Con decreto del Rettore dell'Università di Cagliari, professor Pasquale Mistretta, è stato fissato il calendario delle prove dei corsi di studio ad accesso programmato (numero chiuso) in Sardegna ed a livello nazionale. I corsi di studio ad accesso programmato in Sardegna sono sei e le prove d'esame per l'accesso si svolgeranno dal 7 al 18 settembre secondo il seguente calendario. Economia e Gestione dei servizi turistici: 50 posti a Oristano. La prova è in programma il 7 settembre alle 9 nella facoltà di Economia in viale Sant'Ignazio 74 a Cagliari. Biotecnologie industriali: 30 posti ad Oristano, di cui 5 posti per studenti provenienti da altri corsi di studio e tre per studenti stranieri. La prova è fissata per il 18 Settembre, alle 10, al Chiostro del Carmine in via Carmine 1 ad Oristano. Informatica: 80 posti a Cagliari, di cui 10 riservati: cinque al primo anno per studenti provenienti da altri corsi di studio; quattro al secondo anno per studenti di altri corsi di studio o in possesso della laurea o di diploma universitario; uno al terzo anno per studente proveniente da altri corsi di studio o in possesso della laurea o di diploma universitario; 20 posti a Iglesias di cui due per studenti provenienti da altri corsi di studio. Trenta posti a Ilbono e 30 a Sorgono di cui due per ciascuna cittadina riservati a studenti provenienti da altri corsi di studio. La prova è fissata per il 18 settembre alle 16 alla Cittadella universitaria di Monserrato a Cagliari. Servizio Sociale: 30 posti a Cagliari e 20 posti a Nuoro. La prova è fissata per il 18 Settembre alla Cittadella universitaria di Monserrato. Scienze Sociali per lo Sviluppo: 60 posti a Cagliari. La prova è fissata per il 17 Settembre alla Facoltà di Scienze Politiche in viale Sant'Ignazio 74 a Cagliari. Scienze Motorie: 100 posti a Cagliari. La prova è fissata per il 10 Settembre alle 11 alla Cittadella Universitaria di Monserrato. La selezione verrà preceduta da una prova di orientamento facoltativa non selettiva. I corsi di studio ad accesso programmato a livello nazionale sono nove. Per i primi 8 le prove si svolgeranno tutte, secondo le date previste, alla Cittadella Universitaria di Monserrato con inizio alle 10. Ecco il calendario. Medicina e Chirurgia:170 posti, prova il 5 Settembre. Odontoiatria e Protesi dentaria, 16 posti, (6 Settembre). Diploma per Fisioterapista, 10 posti, (11 Settembre). Diploma per Igienista Dentale, 10 posti, (11 Settembre). Diploma per Infermiere, 30 posti, (11 Settembre). Diploma per Ortottista-Assistente in Oftalmologia, 3 posti, (11 Settembre). Diploma per ostetrica/o, 10 posti, (11 Settembre). Diploma per Tecnico Sanitario di Radiologia Medica, 20 posti, (11 Settembre). Scienze della Formazione, 200 posti più 5 per studenti non comunitari residenti all'estero, (14 Settembre alle 10 alla Facoltà di Scienze della Formazione, in Viale Is Mirrionis, 1). Per ulteriori informazioni occorre rivolgersi alla segreteria studenti dell'Università o in Rettorato. ___________________________________________________ Repubblica 31/08/01 ECO:SE NASCE UNA SCUOLA PRIVATA PER LAICI LA POLEMICA di UMBERTO ECO UNA volta Pitigrilli aveva scritto che leggeva tutte le mattine l'articolo di fondo del suo direttore per sapere che cosa doveva pensare. È un principio che (con buona pace di Ezio Mauro) non condivido, almeno non sempre. Ma è certo che talora, per sapere che cosa si deve pensare, si scrive un articolo noi stessi. È un modo di raccogliere le idee. Ecco perché vorrei dire alcune cose sulle varie polemiche circa la scuola privata, e indipendentemente dai particolari tecnico- parlamentari del caso italiano. Chiediamo a qualcuno se in un paese democratico sia lecito a chiunque stabilire un insegnamento privato, e a ogni famiglia scegliere per i figli l'insegnamento che ritengono più adeguato. La risposta deve essere certamente sì, altrimenti in che democrazia siamo? Chiediamo ora se qualcuno, che ha speso un capitale per comperarsi una Ferrari ha il diritto di andare a duecento all'ora in autostrada. È triste per chi ha fatto questo investimento, e per Luca Cordero di Montezemolo, ma la risposta è no. E se io ho impiegato tutti i miei risparmi per comprarmi una casetta proprio in riva al mare, ho diritto che nessuno venga a mettersi sulla spiaggia davanti a me per far baccano e gettare cartaccia e lattine di Coca Cola? La risposta è no, devo lasciare un passaggio libero perché c'è una striscia di spiaggia che è di tutti (al massimo posso chiamare la polizia e denunciare chi la sporca). Il fatto è che in democrazia chiunque ha diritto a esercitare le proprie libertà purché questo esercizio non rechi danno alle libertà degli altri. Rirengo persino che una persona abbia il diritto di suicidarsi, ma il permesso vale sino a che la percentuale dei suicidi si mantiene su percentuali trascurabili. Se ci fosse una epidemia di suicidi, lo stato dovrebbe intervenire a limitare una pratica che, alla fine, arrecherebbe danno all'intera società. Che cosa c'entra questo con la scuola privata? Prendiamo l'esempio di un paese come gli Stati Uniti dove lo stato si preoccupa solo di garantire ai suoi cittadini ogni libertà possibile, compresa quella di portare armi (anche se qualcuno laggiù incomincia a chiedersi se questa libertà non sia lesiva della libertà altrui). Laggiù potete decidere se andare alla scuola pubblica o alla scuola privata. Una famiglia di miei amici, laici ed ebrei, ha mandato la figlia in un liceo tenuto da suore cattoliche, certamente costoso, perché davano la garanzia di insegnare persino chi fosse Giulio Cesare, mentre nelle scuole pubbliche si risaliva al massimo a Gorge Washington. Naturalmente, facendo una buona scuola, quella ragazza è poi entrata a Harvard, mentre quelli della scuola pubblica no, perché l'insegnamento doveva essere tenuto al livello di ragazzi portoricani che parlavano a fatica l'inglese. La situazione statunitense è pertanto questa: chi ha soldi può avere per i propri figli una buona educazione, chi non li ha li condanna al semianalfabetismo. Mi chiedo persino se il basso livello della scuola pubblica non finisca di incidere anche su quello della scuola privata, visto che persone di buona famiglia come Bush (si veda il sito di Internet sui "Bushisms") commettono tali errori di grammatica, geografia e logica che al confronto Bossi ha una statura da premio Nobel. Quindi lo stato americano è incapace di provvedere ai suoi cittadini pari opportunità. Se le università, parte pubbliche e parte private, sono in genere eccellenti è perché la bontà di una università viene poi controllata dal mercato, e anche molte università pubbliche fanno il possibile per mantenere un buon livello. Ma per l'università la cosa vale anche in Italia, specie dopo l'autonomia concessa agli atenei. Lo stato si preoccupa solo di riconoscere ad alcune università private la laurea che conferiscono e di stabilire commissioni nazionali per il conferimento delle cattedre. Poi, se esci dalla Bocconi sei a posto, se esci da una università privata di reputazione minore, o sarà il mercato a verificare, o i vari concorsi per la magistratura, il titolo di procuratore, l'abilitazione all'insegnamento e così via. Ma con la scuola materna, elementare e media non c'è controllo del mercato o di pubblici concorsi. Uno fa delle scuole depresse e non lo saprà mai (altrimenti non sarebbe culturalmente depresso), l'altro fa delle scuole eccellenti e diventa classe dirigente. È questa democrazia piena? Soluzione: lo Stato riconosce il diritto dei privati di impartire l'insegnamento elementare e medio e dà un buono uguale a tutti i cittadini, e i cattolici manderanno i figli dagli scolopi, i laici arrabbiati alla scuola comunale. In democrazia i genitori hanno diritto di decidere sull'educazione dei figli. Ma occorre che la scuola privata, magari eccellentissima, non stabilisca tasse aggiuntive rispetto al buono, altrimenti è ovvio che, per attrarre genitori abbienti e colti, frapponga qualche forma di ostacolo in modo che non le arrivino figli di immigrati, benché naturalizzati italiani, e figli di disoccupati che in famiglia non hanno imparato un italiano decente. È possibile imporre a una scuola privata di accettare anche un bambino nero, sporco e culturalmente in ritardo? Se la scuola privata dovesse adattarsi al livello di questi alunni regolarmente pagati dallo stato, come farebbe a restare scuola d'élite? Ma anche se si raggiungesse questa situazione di eguaglianza democratica, sappiamo benissimo che ci sono scuole private (citerei il Leone XIII di Milano, o i gesuiti presso i quali ha studiato, senza subire evidentemente troppe pressioni ideologiche, Piero Fassino) che cercano a ogni costo di mantenere un livello di eccellenza, e scuole private di qualsiasi tendenza che sono specializzate nei diplomi facili. Ai miei tempi lo stato esercitava su queste scuole un controllo molto fiscale, e mi ricordo le traversie dei privatisti a un esame di stato. Ma allora, se questo controllo deve esserci, esami come quello di maturità debbono diventare ben più severi di oggi, almeno quanto lo erano ai miei tempi, con una commissione esterna (tranne un solo docente interno), e programma di tre anni al completo - e sogni angosciosi che ci hanno accompagnato per tutta la vita. Altrimenti potrebbe accadere di avere generazioni di ignoranti, alcuni provenienti dalle scuole statali ormai riservate a sottoproletari, e alcuni provenienti da scuole private truffaldine per ragazzi ricchi e svogliati. Non finisce qui. Ammettiamo che tutti questi inconvenienti possano essere risolti da una legge che salvaguardi anche i diritti dei non abbienti, e che un piccolo senegalese italianizzato possa frequentare con buono statale anche la più esclusiva tra le scuole private. Si deve tenere presente che, se stabilendo una scuola privata, si è finanziati da buoni statali, allora ciascuno ha diritto di farlo. Gli scolopi, certamente, e i gesuiti, ma anche i valdesi, o una associazione di laici che costituisca i Licei Siccardi (o Cavour, o Peano, o Ardigò) in cui si educhino i ragazzi a un sano razionalismo, si mettano sullo stesso piano tutte le religioni, si legga un poco di Corano, un poco di Bibbia e un poco di testi buddisti, e si rilegga la storia d'Italia in spirito laico. O che Rifondazione stabilisca delle scuole Feuerbach, ispirate a una critica dei pregiudizi religiosi, o che la Massoneria metta insieme dei Licei Hiram, dove si educano i ragazzi ai principi spirituali e morali di quella associazione. Tanto lo stato paga, e l'impresa (magari con qualche sponsorizzazione) potrebbe essere in attivo. Ancora, perché proibire (siamo in democrazia) al reverendo Moon e a monsignor Milingo di fare il proprio liceo, così come esistono le scuole steineriane? E perché proibire una media musulmana, o ai seguaci di varie sette sudamericane di lanciare i Licei Oxalà, dove si trasmettano i principi del sincretismo afro-brasiliano? Chi potrebbe protestare? Il Vaticano, chiedendo al governo a ristabilire la sovrana autorità dello Stato? Ma allora saremmo da capo a quindici. E, anche ammesso che si potesse attuare un controllo statale di accettabilità, potremmo escludere dalle scuole accettate una che trasmetta ai propri allievi un totale scetticismo nei confronti delle religioni, e un'altra che diffonda sani principi fondamentalisti coranici, purché basati su una interpretazione filologicamente esatta dei testi sacri? Certo che no. Dopo di che avremmo un paese di cittadini, divisi per gruppi etnici e ideologici, ciascuno con la propria formazione, incommensurabile con le altre. Ma questo non sarebbe una soluzione di sano multiculturalismo in una società multiculturale del futuro. Una società multiculturale deve educare i propri cittadini a conoscere, riconoscere e accettare le differenze, non a ignorarle. Qualcuno ha fatto l'esempio di paesi stranieri in cui la libertà dell'educazione regnerebbe sovrana. Non so, penso soltanto alla Francia. Se volete diventare, in quel paese, un gran commis d'état, dovete passare per l'Ena, o per l'École Normale Supérieure di rue d'Ulm, e se volete arrivare all'École Normale dovete essere passato per i grandi licei statali, che si chiamano Descartes, Henry IV, Fénelon. In questi licei lo stato si preoccupa di educare i propri cittadini a quello che essi chiamano la République, ovvero un insieme di conoscenze e valori che debbono rendere uguale, almeno in teoria, una ragazzo nato ad Algeri e uno nato in Normandia. Forse l'ideologia de La République è troppo rigida, ma non può essere corretta col proprio opposto, cattolici coi cattolici, protestanti coi protestanti, musulmani coi musulmani, atei con gli atei e Testimoni di Geova coi Testimoni di Geova. Ammetto che, a lasciar le cose come vuole oggi la costituzione, non si eliminerebbe una certa dose d'ingiustizia: i ricchi continuerebbero a mandare i figli dove vogliono, magari all'estero (i più stupidi tra i ricchi li manderebbero a una highschool americana), e i poveri rimarrebbero affidati alla scuola di tutti. Ma democrazia è anche accettare una dose sopportabile di ingiustizia per evitare ingiustizie maggiori. Ecco alcuni problemi che nascono dall'affermazione, in sé ovvia e indolore, che i genitori dovrebbero poter mandare i loro figli alla scuola che preferiscono. Se non si affrontano tutti questi problemi, il dibattito rischia di ridursi a una faida tra cattolici integristi e laici mangiapreti, il che sarebbe male. ___________________________________________________ Corriere della Sera 30/08/01 "UNIVERSITÀ, LA RIFORMA SI PUÒ MIGLIORARE MA HA ROTTO L' IMMOBILISMO" "La partita ora si gioca sul significato che si vorrà attribuire al principio di autonomia degli atenei" Porcelli Michele Intervento del direttore di Assolombarda "Università, la riforma si può migliorare ma ha rotto l' immobilismo" L' avvio della riforma universitaria rappresenta una fase importante del processo di modernizzazione del nostro Paese ed è il banco di prov a della capacità di rinnovamento degli atenei italiani. Se essi sapranno esercitare al meglio i poteri autonomi di cui sono portatori, e che la riforma valorizza, quest' ultima potrà dare i frutti sperati: un reale riposizionamento competitivo della nostra università nel panorama internazionale, un recupero del deficit organizzativo rispetto ai modelli universitari più avanzati e un incremento del suo contributo alla qualificazione della ricerca nazionale e alla crescita della società civile. Co n la riforma potranno inoltre svilupparsi proficuamente rapporti più stretti tra università e contesto economico e produttivo, a partire da quelli già in essere che riguardano la formazione di eccellenza, a quelli relativi alla formazione permanente, ai programmi per il trasferimento di tecnologie e innovazione, all' orientamento dei giovani al lavoro e alle professioni, alla circolazione di know-how organizzativo-gestionale, alla riproducibilità di metodologie e best practice legate al controll o di qualità di processo e di prodotto. Questa riforma è migliorabile e lascia aperte questioni rilevanti, come il valore legale del titolo o lo stato giuridico dei docenti. Ma ha il grande merito di smuovere l' università da decenni di sostanziale i mmobilismo, obbligandola a ragionare in termini di competitività di Paese e di qualità di processo e di prodotto. La partita si gioca, ora, sul significato che si vorrà attribuire al principio dell' autonomia degli atenei. L' esperienza del diploma u niversitario ha già dimostrato l' efficacia, in termini di qualità e occupabilità delle figure formate, di una formazione accademica più breve e per questo la formula della laurea triennale va nella giusta direzione. I curricula triennali potranno fa r fronte a gran parte dei fabbisogni di professionalità qualificata espressi da vari settori dell' economia, se saranno progettati facendo tesoro delle esperienze di collaborazione tra accademia e imprese degli ultimi anni, e il modello "3+2" potrà c ontribuire ad accrescere il numero e la qualità dei laureati e a ridurre la forbice (così anomala nel nostro rispetto ad altri paesi) tra durata legale e durata reale degli studi. Tutto ciò non mette al riparo dal rischio di un ipotetico conte nimento della preparazione media dei laureati, come ha giustamente rilevato il Rettore della Bocconi Carlo Secchi su queste colonne. A fronte di questo rischio, è compito primario dell' università conciliare i due obiettivi: far emergere, selezionare e premiare le eccellenze, e incrementare la formazione e la professionalizzazione della fascia dei giovani dai 18 ai 22 anni. Troppi di loro, infatti, oggi non riescono a completare un percorso universitario concepito sul modello di un' università d ' élite, costruito cioè quando la società ancora non richiedeva una così ampia diffusione della qualificazione professionale. Per il sistema produttivo, ogni abbandono, è una potenziale risorsa d' eccellenza mancata; per la collettività, una dispersi one di risorse e un impoverimento culturale e professionale. Michele Porcelli Direttore Generale Assolombarda ___________________________________________________ Repubblica 29 Ago '01 GIOVANI, BRAVI E SENZA FONDI ECCO I RICERCATORI CON LA VALIGIA In un libro le storie dei cervelli in fuga Ieri le accuse all'Italia di Annibale Puca, scopritore del cromosoma della longevità Roma. "L'Italia non aiuta la ricerca, così ho scelto l'America": è appena di ieri la dichiarazione di Annibale Puca, coordinatore del gruppo di ricerca che ha scoperto il "cromosoma della longevità", che vorrebbe continuare in Italia le sue ricerche sui centenari, ma i fondi per effettuarle li ha trovati solo negli Stati Untiti, e così si è andato ad aggiungere all'interminabile elenco dei ricercatori italiani che lavorano all'estero. A volte, si tratta di persone letteralmente costrette ad andarsene, come è accaduto ad Antonio Iavarone e Anna Lasorella, che un intreccio di nepotismo e umiliazioni, finito nelle aule di tribunale oltre che sulle prime pagine dei giornali, ha obbligato a lasciare il laboratorio del Gemelli di Roma per completare negli Stati Uniti, con successo, le ricerche su un tumore pediatrico. Più spesso, però, la fuga dei cervelli è la conseguenza di un rifiuto più sottile, dovuto alla mancanza di strutture adeguate, a stipendi da fame e alla burocrazia ottusa. E all'impossibilità dell'Italia di competere con nazioni che investono in ricerca percentuali del PIL due o tre volte superiori. L'ADI, l'associazione che riunisce i dottorandi e i dottori di ricerca italiani, ha raccolto venti storie di ricercatori che si sono trasferiti all'estero in un libro significativamente intitolato "Cervelli in fuga". Storie come quella di Stefano Giovanardi, giovane astronomo riminese che si sta specializzando negli Stati Uniti, dove la Columbia University gli ha offerto una borsa di studio di 80 milioni di lire all'anno. Oltre il doppio di quello che avrebbe ottenuto da noi, e in più un affitto parzialmente pagato per un appartamento a Manhattan. Una vicenda simile a quelle raccontate da Lucia Ballerini, ingegnere, che è finita ad Uppsala ad occuparsi di tecnologie alimentari, o da Alessandra Frabetti, matematica, che dopo una disastrosa esperienza di postdottorato in Italia ora lavora a Lione e ha deciso di smettere del tutto di cercare lavoro in Italia. E non sono solo i più giovani ad andarsene. Antonio Simeone, genetista napoletano in odore di Nobel, dopo aver effettuato in Italia scoperte fondamentali sui geni che regolano lo sviluppo embrionale, sta trasferendo gran parte delle sue attività di ricerca in Inghilterra. All'istituto del CNR per cui lavora non è neanche dirigente. Pietro Anversa, invece, fa ricerche sulla rigenerazione dei tessuti cardiaci: è riuscito a trasformare cellule staminali del midollo osseo in cellule del cuore, ma lo ha fatto al New York Medical College, perché è stato lì, e non in Italia, che gli hanno dato la possibilità di svolgere i suoi studi. Le dimensioni del fenomeno della fuga dei cervelli dall'Italia non sono note, non esistono dati precisi. L'ADI riferisce che i paesi verso cui si dirige più spesso la fuga dei cervelli sono Stati Uniti, Inghilterra e Germania e che a trasferirsi sembra siano soprattutto ingegneri, fisici, biologi e medici. Si sa, però, che nel corso degli anni '90 l'età media dei docenti universitari è passata da 4150 anni a 5160, un invecchiamento di dieci anni buoni che mette bene in evidenza il mancato inserimento di giovani. E mentre la circolazione internazionale dei ricercatori è giusta e necessaria, l'Italia esporta (anzi, regala) i propri cervelli, ma non ne compra nessuno: gli stranieri non chiedono di venire a far ricerca da noi e gli italiani che se ne sono andati non riescono a tornare. Pochi mesi fa, il CNR ha annunciato stanziamenti per oltre 200 miliardi che dovrebbero servire proprio a richiamare dall'estero personalità sia italiane che straniere. Ma non è solo una questione di soldi. Anzi, sulle cause reali della fuga dei cervelli, e più in generale della crisi della ricerca italiana, si registra una curiosa convergenza di opinioni. Sia Lucio Bianco, presidente del CNR, che Roberto Defez, portavoce degli scienziati firmatari dell'appello per la libertà di ricerca, si dicono convinti che il problema sia anche di gestione. Secondo Bianco, "serve una struttura organizzativa in grado di competere con l'estero, che offra laboratori all'avanguardia e certezza nelle disponibilità finanziarie". Defez, dal canto suo, afferma che servono meccanismi affidabili e trasparenti di distribuzione dei fondi. Ed entrambi ritengono che le frontiere debbano finalmente aprirsi in tutti e due i sensi. "Se in Italia" dice Defez "sbarcassero decine di gruppi di ricerca dall'estero (italiani o no), che immettessero linfa nuova, modi nuovi e diversi di affrontare la ricerca, si romperebbero certi equilibri e sarebbe un grandissimo vantaggio per tutti". Nella nuova tornata di concorsi per direttore d'istituto promossi dal CNR, i dati non definitivi parlano di una quota del 20/25% di domande provenienti dall'estero. Forse è un primo segno che la bilancia italiana dell'import-export di cervelli può lentamente tornare in attivo. Claudia Di Giorgio ___________________________________________________ Repubblica 29 Ago '01 SIRCHIA: "PER FERMARE L'ESODO CREIAMO I CLUB DEGLI SCIENZIATI" Parla il ministro della Salute: dare anche la possibilità di costituire società quotate in Borsa Roma. L'Italia ha metà dei ricercatori della Francia, un terzo della Germania, spende per la ricerca quanto un paese in sviluppo, imbriglia la carriera dello scienziato con lacci e laccetti. Per questo i giovani se ne vanno, vedi lo scopritore del gene della longevità; per questo i nostri Nobel Levi Montalcini, Dulbecco, Rubbia hanno fatto negli Stati Uniti la carriera che gli ha procurato l'alloro. I governi della Repubblica, non importa di quale colore, si sono finora distinti per il disinteresse riservato alla scienza. In campagna elettorale l'attuale maggioranza è stata prodiga di promesse alla comunità studiosa. Manterrà gli impegni? Ecco il parere del ministro della Salute. Professor Girolamo Sirchia, capita spesso che scoperte rilevanti per la salute vengano compiute da ricercatori italiani "in esilio". Che cosa ha in mente per calmierare l'emorragia di cervelli? "C'è un gran numero di ricercatori italiani che lavorano all'estero. Soltanto a Bethesda, negli Istituti nazionali della salute, sono un centinaio. E' importante richiamarli. Considererei un successo farne tornare anche solo una frazione". Se hanno scelto di espatriare è per delle buone ragioni. "Le ragioni sono tante, ma alcune prevalgono. Per esempio la modestia, quanto a mezzi materiali e cosmopolitismo, del nostro ambiente scientifico, che non offre certo le strutture e la potenzialità degli Stati Uniti. Questo a prescindere dal valore dei singoli ricercatori italiani. Un'altra causa di emigrazione forzata sono le condizioni economiche: oltreoceano ci sono salari e possibilità di carriera che noi ignoriamo". Che fare, dunque ? "Da un lato occorre favorire le aggregazioni, le concentrazioni di ricercatori e di ricerca per raggiungere la massa critica che permette il decollo. Dall'altro bisogna rendere più flessibili i rapporti tra ricercatori e istituzioni, dando per esempio a scienziati e istituti scientifici la facoltà di creare o partecipare a società quotate in Borsa. Attualmente gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Ircs) non possono farlo, gli ospedali men che meno. Basta parlare di royalties e cadi subito nel conflitto di interessi. Tutto questo va semplificato". A proposito di flessibilità, è oggi possibile il passaggio senza subire handicap dall'università al Cnr o agli Ircs, dal settore privato al pubblico e viceversa? "Il sistema italiano è a compartimenti stagni, se sei un dipendente pubblico l'incompatibilità con altri incarichi è totale; se sei ospedaliero, la professione privata ti è preclusa, in una rigidità di schemi certamente da superare. Nel Piano Tremonti c'è un accenno in questo senso, ma il grosso del lavoro tocca alla ministra Moratti che ha giurisdizione sul Cnr e la ricerca universitaria. A me spetta la riforma degli Ircs". Parlava di aggregazioni tra scienziati. Può fare un esempio? "A Milano abbiamo messo in piedi una iniziativa sulle cellule staminali, il Progetto "Stem", che vede riuniti il Neurologico "Besta", l'università di Pisa e altri, per un totale di una ventina di ricercatori. Venti persone che, se proponessero progetti di ricerca e chiedessero finanziamenti singolarmente, offrirebbero un esempio di polverizzazione come i tanti a cui ci abituò il Cnr con i finanziamenti a pioggia: pochi soldi a tutti per non scontentare nessuno, ma senza controllo della qualità dei risultati. L'aggregazione è l'esatto contrario: concentrare energie e risorse, abbattere steccati, per produrre ricerca di alto livello, anche in vista di un ritorno economico. Non si può infatti pretendere dagli scienziati quello spirito missionario che il rapporto di lavoro di diritto pubblico comporta. Occorre riformare. Ci riusciremo? Non so. Però ci proviamo". Giovanni Maria Pace ========================================================= ___________________________________________________ La Nuova Sardegna 2 Ago '01 MISTRETTA: "ALL'UNIVERSITÀ SERVONO SOLTANTO 510 POSTI LETTO" Sul San Giovanni di Dio non faccio barricate" Il rettore Pasquale Mistretta chiede il rispetto dei patti Giuseppe Centore CAGLIARI. "Il problema del San Giovanni di Dio? È un falso problema. All'università quell'ospedale non è indispensabile. Lo dico senza offesa per tutto il personale che ci lavora, ma la legge è chiara. Noi faremo nascere il Policlinico con i posti letto che ci spettano, e che già esistono. Il resto sono polemiche agostane". Il rettore Pasquale Mistretta è chiaro: l'intesa con la Regione è solida, e non sarà messa in discussione. "Lo dico una volta per tutte: l'unità di intenti con l'assessore non è da ricercare, c'è già. Lavoriamo bene insieme e andremo avanti uniti". In questa intervista il rettore spiega quale è la posizione dell'Ateneo sul futuro del San Giovanni, e disegna uno scenario diverso da quello ipotizzato in questi giorni. - Allora, "acquisirete" il San Giovanni di Dio? "In termini così netti dico no, ma prima devo fare una premessa. La scelta della Regione, e nostra, di ipotizzare la nascita di un presidio ospedale-università, non nasce per caso, ma si basa sulla riforma del sistema sanitario nazionale. Abbiamo scelto un modello che si adatta alla situazione attuale, e non la stravolge, e come università, dobbiamo garantire ai nostri docenti lo svolgimento di tutte le attività non vicariabili, cioè non delegabili ad altri medici". - Adesso, sotto questo punto di vista, quale è la fotografia della facoltà di medicina? "Abbiamo una capacità di autonomia immediata nella medicina interna e nella diagnostica, mentre siamo, per così dire, carenti nel settore chirurgico, dove abbiamo ottimi professori ma ci manca il personale medico e socio-sanitario di supporto. Il policlinico che nascerà non potrà che avere le cliniche mediche e chirurgiche oggi "sparse" al San Giovanni, al Santissima Trinità, relativamente ai reparti di chirurgia pediatrica e urologia, e al Binaghi. È evidente che questi reparti devono avere un supporto ospedaliero per le attività non vicariabili". - Parliamo di numeri, professore? "La legge dice che i posti letto del policlinico devono essere tre per ogni studente immatricolato. Siccome noi a medicina abbiamo il numero chiuso e ogni anno accogliamo 170 studenti, è scontato che i posti letto del nuovo policlinico devono essere 510. È evidente che il numero non è tassativo, può essere arrotondato, se si scopre che alcuni reparti hanno pochi posti per risultare produttivi, ma non è che possiamo arrivare a numeri molto più elevati". - Ma se i posti saranno 510, tra nuovo policlinico a Monserrato e clinica Aresu il cerchio è chiuso, senza toccare il San Giovanni. "Guardi, che se quello che c'è scritto nella bozza di nuovo piano della rete ospedaliera fosse realizzato, il nuovo policlinico avrebbe quasi 1000 posti letto. Non sarà così. Per quanto ci riguarda, il San Giovanni, se volesse rimanere azienda ospedaliera potrà farlo senza alcun problema da parte nostra. Con Monserrato a regime e la clinica Aresu non mi serve altro; la Regione, però, per legge, non per fare un piacere a Mistretta, deve dare l'integrazione ai miei posti letto con la disponibilità della quota ospedaliera". - Che può arrivare proprio dal San Giovanni, anche se il feeling con l'Università sembra oggi tormentato. "Può arrivare da ogni presidio ospedaliero. Sono sicuro che se facessimo un bando pubblico per chiamare personale sanitario, ci sarebbe la fila, e non solo dal San Giovanni ma da tutti gli ospedali della città e anche dalle altre zone dell'isola". - Quindi lei non farà le barricate per avere il San Giovanni? "Non faccio barricate per principio. Se la Regione vuole aumentare, concordando con noi la quota di posti letto da destinare all'azienda mista con l'Università, può farlo, ma dopo aver distinto quanto per legge ci è dovuto, e cioè la nicchia dei 510 posti letto, dal resto, sia strutturalmente che dal punto di vista finanziario. A me mancano, ma li sto preparando, 200, al massimo 250 posti letto per metterci tutte le chirurgie. Se la Regione ci carica di pazienti in più per le attività non vicariabili, questa quota sarà a carico suo. Noi ci paghiamo la didattica, la ricerca, la farmaceutica per la sperimentazione; il resto non è di nostra competenza. Spetta alla Regione fare una proposta, che giustifichi numeri più alti di quelli previsti per legge. L'università non è controparte di nessuno, tantomeno dei medici del San Giovanni". La Asl ha un esubero di posti letto non risolvibile subito Chi affossa il vecchio ospedale? CAGLIARI. L'intervista al Rettore Pasquale Mistretta fa chiarezza su alcuni punti sin qui controversi, ma apre uno scenario interessante: la decisione della Regione di inserire nell'azienda mista con l'università, il San Giovanni, non risponde a una esigenza dell'Università. Il punto è tutto qui. L'Università chiede e pretende solo i 510 posti letto previsti per legge con tutte le attività di supporto a essi collegati. Se si sfora, è il ragionamento di Mistretta, che paghi la Regione. E qui si apre uno scenario particolare. La Asl di Cagliari ha centinaia di posti letto in più, la maggior parte dovrebbe essere riconvertita, ma il surplus rimane. Come abbatterlo? Trasferendo tutti i posti letto del San Giovanni all'azienda mista? Per la Asl sarebbe un bel colpo, con un risparmio annuo vicino ai 60 miliardi, ma per le casse regionali il vantaggio sarebbe solo nominale, perché quei soldi, dalla Asl passerebbero all'università, ma a pagare sarebbe sempre mamma Regione. E allora, perché tutto questo agitarsi intorno al San Giovanni? Forse perché è il presidio più debole, soprattutto con l'addio dell'università e quindi il più sacrificabile? ___________________________________________________ La Nuova Sardegna 1 Ago '01 IL SAN GIOVANNI DI DIO RIFIUTA IL MATRIMONIO CON L'UNIVERSITÀ I sindacati uniti rifiutano il matrimonio con l'Università Cagliari. Il giorno dopo l'assemblea dei medici è tempo di documenti, inviti e appelli. Il comitato intersindacale dei dipendenti del servizio sanitario nazionale della Regione, e cioè Cgil, Cisl e Uil, Anao, Anpo, Aaroi, Cimo, Sinafo e Snabi (queste ultime tutte sigle di categoria), esprimono preoccupazione sul documento che riordina il sistema ospedaliero, denunciando che nessuna organizzazione è stata mai ascoltato in proposito dagli organi politici regionali, presidenza o assessorato alla sanità. Un incontro urgente chiesto a Floris, a Oppi e anche al medico di An Noemi Sanna, presidente della commissione sanità del consiglio. Tra gli argomenti "caldi" c'è quello del San Giovanni di Dio. È opinione comune che la partita si sia già chiusa, e che la Regione abbia già deciso di consegnare il San Giovanni, con i suoi posti letto all'Università. I lavoratori potranno protestare, mobilitarsi, assumere anche posizioni radicali, difficilmente la giunta regionale, (e su questo i numeri nell'aula del consiglio si trovano senza problemi...) rinuncerà al suo progetto. Un progetto che potrebbe utilizzare la nascita dell'azienda mista per muovere una serie di reparti da una parte all'altra della città. È il caso dei reparti di Ortopedia del Marino e di Medicina del San Giovanni, che potrebbero scambiarsi sedi agevolando probabilmente anche i pazienti, oggi costretti a un pendolarismo tra reparti e ospedali non sempre opportuno. La scelta di portare il San Giovanni in dote al matrimonio con l'Università, per far nascere una nuova azienda mista, si colloca su uno sfondo che potrebbe comportare sconvolgimenti ben più grossi nel sistema sanitario regionale. Una delle linee di politica sanitaria che si sta perseguendo è quella di scorporare gli ospedali, soprattutto quelli della due principali aziende sarde, Cagliari e Sassari, dalla gestione delle Asl. Gli ospedali di Cagliari avrebbero vita propria con bilanci e vertici autonomi. La Asl, a questo punto l'altra Asl, quella depotenziata dai presidii avrebbe in carico i servizi sul territorio e i controlli, le verifiche degli standard di tutta la sanità, pubblica e convenzionata. In quest'ottica, che il San Giovanni passi al Policlinico o rimanga all'interno della Asl, autonomo e no, per la Regione è indifferente. Quei posti letto non si perderanno, saranno solo ricollocati in ambito universitario, e saranno comunque accerditati al servizio sanitario regionale con la convenzione tra università e Regione. Se il sistema sanitario sardo non risparmierà, non così sarà per la Asl, che perderà personale e posti letto. Il risparmio, secondo alcuni calcoli, potrebbe aggirarsi sui 60 miliardi l'anno, a cui sono da aggiungere i mancati investimenti. Una cifra considerevole che a regime consentirà risparmi anche più elevati per la Asl. A fronte di questi scenari risultano quasi di retroguardia le indicazioni dei sindacati, che chiedono la pari dignità tra le componenti ospedaliera e universitaria anche nella nuova struttura. Richiesta, giusta, come quella di salvaguardare funzioni e ruoli sin qui maturati, ma che cozza contro un dato di fatto: il San Giovanni di Dio è stato promesso all'Università: quelli che un tempo si chiamavano "baroni" hanno una forza contrattuale, un potere reale superiore agli ospedalieri dell'ex civile. g.cen. ___________________________________________________ Repubblica 26/08/01 LA SANITÀ PROIBITA AI POVERI D'AMERICA IL CASO dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI SAN FRANCISCO - Bobby e Irene Dickens, pensionati statali, a 65 anni hanno deciso di lasciare la città di Vallejo nella Baia di San Francisco ("troppo cara per chi vive di una pensione pubblica") e a marzo si sono trasferiti in campagna, a Redding. La settimana scorsa li ha raggiunti un annuncio incredibile. L' assicurazione privata che gestisce la loro assistenza sanitaria non li copre più. "Costa troppo - dichiara Roger Greaves, presidente di Health Net - garantire i servizi sanitari a persone anziane che abitano fuori dai grandi centri urbani; è antieconomico, non conviene". Nella California - che è lo Stato più ricco degli Usa e da sola sarebbe la sesta potenza mondiale - 40.000 dipendenti e pensionati pubblici hanno ricevuto in questi giorni il benservito dall'assicurazione sanitaria. In un paese dove gran parte del sistema sanitario è privato, è un colpo duro per il tenore di vita di queste famiglie. Per alcuni può essere l'anticamera della povertà. I coniugi Dickens ora hanno una sola alternativa. Pagarsi una polizza sanitaria individuale, sempre privata naturalmente, che costa molto più della tariffa collettiva ottenuta tramite il fondo pensione degli statali. Il minimo che hanno trovato sul mercato: una polizza da 264 dollari al mese più 175 dollari per avere diritto al rimborso dei medicinali. Totale: 960.000 lire mensili. "Pensavamo di goderci gli anni della pensione facendo qualche viaggio - dice Irene Dickens - ora quei sogni possiamo scordarceli". Per il direttore del personale della contea di Humboldt (una delle quattordici aree rurali abbandonate dalle assicurazioni sanitarie), Rick Hage, "questa è un'emergenza nazionale, una crisi peggiore di quella elettrica". Località californiane dai nomi suggestivi, che evocano una vita bucolica tra colline laghi e foreste - Mariposa, Mendocino, Napa, Madera, El Dorado - sono il teatro di un dramma sociale. Molti anziani si ritiravano a vivere in quelle zone per sfuggire agli alti costi degli affitti e dei servizi che affliggono San Francisco e la Silicon Valley. Ma il sistema sanitario Usa ha una contabilità implacabile. Le assicurazioni si convenzionano con ospedali e cooperative di medici a cui pagano un compenso forfettario per ogni paziente. Nel braccio di ferro tra questi due grandi business privati - da una parte le compagnie assicurative che vogliono risparmiare sulle prestazioni, dall'altra l'industria della salute i cui costi salgono a ritmi esponenziali - le assicurazioni riescono a fare profitti solo sui grandi numeri. Più ampia è la loro clientela, più guadagnano sulla popolazione giovane e sana. L'alto numero degli assistiti consente di strappare "sconti" da ospedali e medici. Ma l'equazione del profitto non sta in piedi nelle zone a bassa densità di abitanti. "Non avrei mai immaginato di rimanere senza assistenza sanitaria solo per essermi trasferita qui" dice Lorrene Henningsen, 69 anni, che un mese fa ha lasciato la capitale californiana di Sacramento per andare a vivere a Redding. Oltre ai 40.000 pensionati statali del California Public Employees Retirement System, altri 15.000 clienti delle assicurazioni Blue Shield e Blue Cross sono stati abbandonati al loro destino. Secondo le autorità locali delle contee, l'80% delle zone rurali in California è ormai privo di coperture collettive per la salute. Questi californiani traditi dal sistema sanitario vanno ad aggiungersi ai circa 900.000 americani che ogni anno vengono abbandonati dalle assicurazioni collettive: tra di essi, anziani e invalidi. Per non parlare dei clienti che rimangono senza prestazioni quando le loro compagnie assicurative falliscono: dal 1999 ad oggi, 29 società del settore hanno fatto bancarotta. Ancora più numeroso è l'esercito di coloro che la copertura assicurativa per le cure mediche non l'hanno mai avuta: sono quasi 40 milioni, il 15% di tutta la popolazione degli Stati Uniti. E' un esercito di nongarantiti, cittadini per i quali una malattia o un incidente può voler dire il crollo da una vita normale alla miseria improvvisa. È un popolo composto per lo più di lavoratori autonomi o dipendenti di piccole imprese che non possono o non vogliono pagare la loro quota per acquistare costose polizze sanitarie. La copertura assicurativa, anche comprata tramite associazioni collettive e quindi alle tariffe "scontate" a cui hanno accesso le imprese, ha costi elevati: il minimo è 200 dollari al mese per un lavoratore (il datore di lavoro dovrebbe farsi carico di pagarne fino a 170), più 230 dollari per la moglie e 105 per ogni figlio. Le quote dei familiari sono interamente a carico del dipendente. Una famiglia di quattro persone non se la cava con meno di un milione e mezzo di lire per un'assicurazione che rimborsa il minimo indispensabile: niente dentisti né oculisti. La superpotenza americana, con i suoi ospedali d'avanguardia che attirano medici e pazienti da tutto il mondo, non riesce a risolvere il dramma della sanità: la qualità delle cure migliora di anno in anno ma i costi salgono altrettanto, fuori dalla portata di una quota della sua popolazione lavorativa. Non dei poveri, paradossalmente. Infatti chi si trova sotto la soglia ufficiale della povertà ha diritto al programma di assistenza pubblico Medicaid, gratuito anche se ridotto alle cure essenziali. Ma la riforma del Welfare varata sotto la presidenza Clinton ha avuto effetti imprevisti. Il piano "Welfaretowork", per emancipare i poveri dall'assistenza e avviarli al lavoro, è stato un grande successo. L'indice di povertà è sceso, tre milioni di famiglie sono uscite dalle liste dell'assistenza perché uno dei loro membri ha trovato un lavoro. Ma le regole stabilite da Clinton hanno anche effetti perversi. Una ragazza madre con figli a carico, se sposa un operaio pagato al minimo legale di otto dollari l'ora, uscendo dalla soglia della povertà perde 8.000 dollari annui di prestazioni gratuite, fra cui l'assistenza sanitaria Medicaid. George Bush in campagna elettorale aveva promesso di estendere la copertura sanitaria a una parte di quei 40 milioni di americani che non ce l'hanno. Tra i suoi impegni: 28 miliardi di dollari per garantire le cure ai bambini di famiglie a basso reddito; 300 miliardi di dollari in dieci anni per rimborsi di medicinali agli anziani. Due giorni fa il ministro della Sanità Tommy Thompson ha annunciato un dietrofront su tutti quei progetti. "L'economia non va - ha dichiarato Thompson - e non ci sono molti soldi a disposizione. Sarebbe bello poter aiutare chi non ha assicurazione sanitaria, ma ora dubito che sia possibile". Eppure fino ad aprile il bilancio pubblico americano traboccava di ricchezza. La Casa Bianca aveva annunciato un attivo record nei conti federali: 122 miliardi di dollari di surplus (oltre 250.000 miliardi di lire). In quattro mesi quel tesoro si è volatilizzato: non ne resta nulla. Colpa della crisi economica che ha ridotto le entrate fiscali di Washington. Ma anche del maxipiano di sgravi fiscali, a maggior beneficio dei contribuenti più ricchi, che George Bush ha voluto comunque varare. Ora i mezzi per la riforma sanitaria non ci sono più. L'unica voce di spesa che il presidente non vuole sacrificare sull'altare della cattiva congiuntura economica è l'aumento del 5,7% nel bilancio del Pentagono, 18,4 miliardi di dollari di spesa militare aggiuntiva. "Questa è una priorità - ha ribadito ieri Bush - e ho l'intenzione che lo rimanga". ___________________________________________________ L'Unione Sarda 30 Ago 01 L'AVIS: IL BROTZU PAGA POCO E IN RITARDO Talassemici. L'associazione pronta a sospendere la convenzione sulla raccolta del sangue Vargiu scrive al ministro Sirchia: a rischio la salute di 500 malati L'azienda ospedaliera Brotzu paga poco e in ritardo il sangue raccolto dall'Avis, perciò se le cose non cambieranno entro il 15 settembre la convenzione stipulata tre anni fa tra i due enti non ha più valore. Così scrive Mirando Basciu, presidente dell'associazione dei volontari del sangue di Cagliari al dottor Franco Meloni, direttore generale del Brotzu: un ultimatum che ha subito messo in allarme l'associazione dei talassemici già in difficoltà per il calo estivo delle donazioni. Tanto che ieri il segretario provinciale Giorgio Vargiu ha scritto al ministro della Salute Gerolamo Sirchia mettendolo al corrente dei rischi che corrono circa 500 malati. Se non è emergenza poco ci manca poiché, come è noto, proprio due giorni fa dal Centro trasfusionale del Brotzu è partita la segnalazione sulla impossibilità di effettuare trasfusioni per 160 ragazzi ricoverati al Microcitemico a causa della mancanza di sangue di gruppo 0+ e O -, A+ e A- per un totale di circa 500 unità di sangue. "La S.V. essendo uno specialista del settore - scrive Vargiu - sa bene che per i talassemici la terapia fondata su trasfusioni periodica di emazie concentrate rappresenta l'esclusivo presidio terapeutico non esistendo al riguardo alternativa farmacologica alcuna come altrettanto bene sa che le citate emazie costituiscono, per i pazienti, l'equivalente di un vero e proprio farmaco salva- vita". Così conclude Vargiu nella sua lettera al Ministro: "Si prega la S. V. di voler intervenire con la sollecitudine richiesta dal caso affinché le unità di sangue mancanti vengano, anche alla luce dei provvedimenti esistenti sulla compensazione del sangue, immediatamente messe a disposizione del Centro trasfusionale dell'ospedale "Brotzu" onde poter trasfondere tempestivamente i numerosi talassemici in lista d'attesa". Ma se questo è il problema più urgente da risolvere, ne resta forse uno ancora più angosciante. Come si intuisce dalla lettera inviata al direttore generale del Brotzu, l'Avis non ha più alcuna intenzione di effettuare la raccolta del sangue alle condizioni fissate nella convenzione di tre anni fa. Attualmente una sacca viene pagata 97.250 lire ma le spese sono di 120 mila lire a flacone. "Pertanto - scrive l'Avis a Meloni - se entro il 15 settembre il problema non sarà risolto, questa Associazione interromperà in via definitiva la raccolta diretta del sangue umano". ___________________________________________________ La Stampa 28 Ago '01 SCOPERTO IL SEGRETO DELLA LUNGA VITA Ricerca americana individua nel cromosoma 4 i geni della longevità Un italiano a capo del team: siamo pronti a sviluppare un farmaco che garantisca un lungo invecchiamento, senza gli acciacchi dell'età Piero Bianucci Il segreto di una lunga vita è custodito nel cromosoma 4 e probabilmente sta scritto in un piccolo numero di geni, forse una decina o ancora meno, anziché in un migliaio come prima si riteneva. Tra qualche mese i geni della longevità saranno identificati con più precisione e si potrà sviluppare un farmaco per stimolare l'azione di questi geni anche in persone nelle quali appaiono "spenti". La scoperta viene annunciata oggi sulla rivista americana "Proceedings of the National Academy of Sciences" ed è opera di una équipe che lavora a Boston (Usa) diretta dall'italiano Annibale Puca insieme con Thomas Perls e Louis Kunkel. Come si è arrivati a questo eccezionale risultato scientifico? "Semplice, - spiega Puca - abbiamo rovesciato il punto di vista: in genere si cerca il gene di una data malattia, noi invece abbiamo cercato, per così dire, i geni della buona salute". Perché ci sono centenari e centenari. Alcuni hanno molti acciacchi: demenza, diabete, malanni cardiovascolari, tumori. Altri godono di ottima salute e sono destinati a morire senza contrarre malattie: come una candela che si spegne per esaurimento della cera. I ricercatori di Boston (appartenenti al Beth Israel Deaconess Medical Center al Children's Hospital) hanno studiato 307 centenari sani appartenenti a 137 famiglie (due sono siciliane), trovando che tutti hanno in comune alcune similarità in un tratto del cromosoma 4. E' lì che ora si concentreranno le ricerche. Puca (che nel '98 ha lasciato l'Italia per l'Università di Harvard mantenendo però contatti con Telethon), Kunkel e Perls hanno obiettivi concreti: insieme hanno fondato la Centagenetix, un'azienda biotecnologica che, se troverà adeguati finanziamenti, svilupperà il farmaco della longevità. Non si vuole però vendere illusioni. "Non stiamo cercando di scoprire la mitica Fontana dell'Eterna Giovinezza - dice Puca -. Al massimo possiamo scoprire la Fontana del Buon Invecchiamento. Stimiamo al 95% la sicurezza con cui abbiamo individuato la regione genetica della lunga vita.". Finora geni legati alla longevità erano stati individuati solo in un verme e in un moscerino. Per l'uomo, tutto è partito da una osservazione compiuta da Perls: i fratelli e le sorelle dei centenari hanno una probabilità quadruplicata di superare i 90 anni. Esiste dunque una base genetica della longevità, che però è influenzata dagli stili di vita e dall'influsso dell'ambiente. L'équipe ha selezionato il suo campione di centenari sani estraendoli da famiglie con almeno una coppia di fratelli anziani, considerando tali gli uomini con almeno 91 anni e le donne con almeno 95 (il sesso femminile è infatti di per sé più longevo: c'è un centenario ogni quattro centenarie). Utilizzando il metodo del "linkage" su vari Dna e 400 marcatori (o microsatelliti), distanziati tra loro lungo l'intero genoma umano, è stata individuata la regione in comune tra i vegliardi del campione. Questa comprende da 100 a 500 geni, ma i ricercatori sono già convinti che siano da 4 a 6 i geni che veramente contano. Ricordando che il genoma umano contiene circa 39 mila geni, è stato come trovare il proverbiale ago nel pagliaio. Le ricerche sui grandi vecchi sono di moda. Nel nostro paese è attivo il Gruppo di studio sui Centenari, coordinato da Claudio Franceschi e Luca Deiana. L'uomo certificato come il più vecchio del mondo è un sardo, Antonio Todde, che il 22 gennaio ha compiuto 112 anni. Il primato femminile è invece detenuto dalla franese Jeanne Calment, morta qualche tempo fa a 122 anni. Il fenomeno dell'invecchiamento è comunque generalizzato. In un secolo l'aspettativa di vita in Italia è passata da 45 anni a 75 per gli uomini e 81 per le donne. Attualmente sembra che l'aspettativa di vita degli italiani si allunghi di quasi due anni ogni decennio: una tendenza che probabilmente non potrà durare a lungo ma che ci dice come la qualità della vita sia importante almeno quanto la base genetica. Anzi: si stima che nella longevità il peso della genetica sia il 30%, mentre il 50% sta nello stile di vita. ___________________________________________________ Repubblica 28 Ago '01 MIX DI ELETTRONICA E CELLULE NASCE IL CERVELLO ARTIFICIALE Riuscito l'esperimento di un gruppo di scienziati del Max Planck di Monaco. Usati neuroni di una lumaca e chip di silicio CLAUDIA DI GIORGIO roma - E' "nata" la prima rete neurale fatta di circuiti nervosi viventi e componenti elettroniche: un ibrido tra vita e non vita che si è dimostrato pienamente funzionante, all'interno del quale i segnali elettrici passano senza problemi dal silicio alle cellule, proprio come accade in un cervello esclusivamente biologico. L'annuncio sembra tratto dalla trama dell'ultimo film di Steven Spielberg, "Artificial Intelligence", ma invece è l'ultimo successo delle più avanzate ricerche di bioelettronica, realizzato al dipartimento di neurofisica del Max Planck Institute di Monaco e presentato sul numero di oggi della prestigiosa rivista americana "Proceeding of the National Academy of Science". Un gruppo di scienziati, guidati da Gunter Zeck e Peter Fromherz, si è servito dei neuroni di una lumaca per costruire un dispositivo che rappresenta, come scrivono con orgoglio i suoi creatori, un passaggio fondamentale dell'ingegneria neuroelettronica, una delle linee di indagine scientifica ispirate al sogno dell'intelligenza artificiale. Gli autori dello studio sperano che il loro dispositivo, ulteriormente sviluppato, un giorno possa essere la base di protesi artificiali di alcune parti del corpo come occhi o orecchie. Ma per adesso, il mix di cellule ed elettronica realizzato dagli scienziati tedeschi serve soprattutto a dimostrare che è possibile costruire sistemi neuroelettronici e che il loro metodo è quello giusto per riuscirci. Gli scienziati hanno usato i neuroni delle lumache, prescelti perché grandi e maneggevoli e perché la semplicità del sistema nervoso degli invertebrati fa sì che ne bastino pochi per ottenere una funzione biologica. Ne hanno isolato qualcuno, inchiodandolo letteralmente su un chip di silicio con degli speciali e microscopici paletti, ed hanno aspettato che le cellule nervose crescessero, connettendosi spontaneamente tra loro fino a diventare una rete neurale. Poi hanno creato un'interfaccia elettronica tra i neuroni e il chip ed infine hanno applicato un voltaggio al processore, inviando un segnale elettrico. Ed il segnale è passato (con naturalezza, verrebbe quasi da dire) dal silicio ai neuroni e da un neurone all'altro, per poi tornare sul chip, dimostrando che il circuito ibrido di materiali organici vivi e componenti elettronici mai nati funzionava alla perfezione. L'obiettivo della ricerca, tuttavia, non ha nulla di fantascientifico e gli scienziati non sembrano avere l'intenzione di regalare al mondo un nuovo Terminator. Le ricerche sui cosiddetti "computer biologici", il cui primo successo risale a tre anni fa, quando in Inghilterra è stato realizzato un rozzo calcolatore basato su neuroni di sanguisuga, è quello di ottenere macchine capaci di trovare le risposte giuste anche in possesso di informazioni parziali, a differenza dei normali computer a cui servono dati completi e assolutamente non equivoci. Macchine, insomma, che sfruttano materiali biologici per tentare di imitare l'ineguagliata abilità di un cervello naturale di colmare le lacune e interpretare le ambiguità. ___________________________________________________ Repubblica 30/08/01 PET + TAC: RIVOLUZIONE NELLA MEDICINA NUCLEARE Un Discovery a caccia di tumori La nuova macchina è in grado di combinare Pet e Tac: immagini degli organi più precise e definite GIOVANNI MARIA PACE Napoli - Il mostro è lì, con la sua bocca tonda, pronto a ingoiare pazienti (che restituirà, in un certo senso, più sani). Ha un nome spaziale e insieme automobilistico: "Discovery LS", costa oltre cinque miliardi e i radiologi spasimano per averlo. E' l'ultimo grido nel campo delle immagini ibride, il ramo più trendy della Medicina Nucleare, che ha concluso ieri il convegno annuale europeo alla Mostra d'Oltremare. "Discovery" realizza un sogno dei radiologi, avere immagini che mostrino a un tempo forma e metabolismo, dimensioni e attività, poniamo, di un tumore: l'abbinamento anatomicofunzionale è la marcia in più che può cambiare la diagnostica, e in definitiva la medicina, più di quanto abbia fatto l'imaging elettronico negli ultimi trent'anni. Non solo. Se guardiamo avanti, la nuova famiglia di apparecchi lascia intravvedere un'epoca in cui le persone sane che hanno paura del cancro potranno passare attraverso qualcosa di simile a un metal detector da aeroporto e sapere se nel loro corpo si annidano cellule cancerose: una diagnosi in assenza di sintomi, del tutto irraggiungibile con altri metodi, che assicura la salvezza. Diventerà realtà? "Un esame di massa di questo tipo", dice Gustav von Shulthess, il medico e fisico svizzero che ha usato per primo "Discovery", "solleva grossi problemi economici e bioetici, ma è tecnicamente possibile". Tornando al presente, quello della medicina nucleare, così chiamata perché usa traccianti radioattivi (innocui), è ricco di potenzialità. "Peccato che non vengano sfruttate a pieno", commenta Marco Salvatore, ordinario di diagnostica per immagini all'università "Federico II". "Un esempio? La gammacamera, strumento salvavita dal costo contenuto, è un oggetto sconosciuto nel pronto soccorso della maggior parte degli ospedali". All'ospedale universitario di Zurigo hanno eseguito in questi anni ben diecimila Pet. "Conosciamo bene", dice von Shulthess, "la sensibilità della tomografia a emissione di positroni nell'individuare quel minimo cambiamento nel metabolismo delle cellule che segnala la presenza del tumore, prima ancora che compaiano cambiamenti fisici. La Pet non è però in grado di fornire i riferimenti anatomici che consentono di localizzare con precisione la lesione, una capacità che invece possiede la tomografia computerizzata. Da qui l'idea di combinare Pet e Tac in una unica macchina per ottenere immagini morfologiche e insieme funzionali". L'idea è un po' quella che hanno avuto i meteorologi per le previsioni del tempo: le immagini degli ammassi di nuvole in movimento inviate dal satellite non avrebbero significato se sotto non trasparisse l'immagine geografica del territorio. Le immagini combinate hanno forte rilevanza clinica. Se in un malato di tumore al polmone la Pet segnala un nodulo in prossimità del costato, è necessario sapere esattamente se la neoformazione è nel polmone o nell'osso, perché in questo caso si tratterebbe di una metastasi, condizione che sconsiglia il trattamento chirurgico e suggerisce la radioterapia o altro. L'ubicazione precisa, ovvero il riconoscimento del nodulo come parte dello stesso tumore o come sua diramazione, è fornita dalla Tac. Proprio in virtù della sua importanza diagnostica e terapeutica, la sovrapposizione di Pet e Tac viene fatta "artigianalmente" dai radiologi da almeno quindici anni. Il margine di errore è però alto, anche perché il paziente, migrando da una macchina all'altra, difficilmente riassume l'esatta posizione precedente, in una procedura in cui i millimetri contano. Con la macchina combinata non è invece il paziente a muoversi ma è il tavolo sul quale giace a scorrere dentro lo scanner. "Questo non elimina al cento per cento le sbavature, ma nei 450 casi che abbiamo trattato a Zurigo", conclude von Shulthess, "i risultati sono stati ottimi". ___________________________________________________ Le Scienze 31/08/01 CALCOLI RENALI: I MALEFICI DELLA SOIA Per chi ha già sofferto di calcoli renali i cibi a base di soia rappresentano un potenziale rischio La soia e tutti i cibi da essa derivati, che rappresentano il fondamento della dieta di molti salutisti, non sono poi così salutari come si crede. Una ricerca recente ha infatti dimostrato che la soia promuove lo sviluppo di dolorosissimi calcoli renali. I risultati di questo studio verranno pubblicati in settembre sul "Journal of Agricultural and Food Chemistry". Un gruppo di ricercatori della Washington State University di Spokane ha analizzato una dozzina di varietà diverse di soia alla ricerca di ossalato, un composto che si lega con il calcio nei reni per dare luogo alla formazione di calcoli. In tutte è stata trovata una quantità di ossalato anche 50 volte superiore a quella raccomandata ai pazienti soggetti allo sviluppo di calcoli. Questo significa che per chi ha già avuto calcoli renali tutti i cibi a base di soia rappresentano potenzialmente un pericolo. Ovviamente, l'ossalato è stato trovato anche in molti cibi a base di soia, come il tofu. In realtà, anche altri alimenti consumati normalmente, come gli spinaci, contengono elevate quantità di questo composto, ma essi non vengono consumati in quantità così elevate, perché non sono ritenuti particolarmente salutari. La soia è una sorgente naturale di proteine che viene utilizzata per la preparazione di numerosissimi cibi, dagli hamburger fino ai gelati. A essa sono state riconosciute molte proprietà medicinali, come quella di ridurre il livello di colesterolo e limitare la decalcificazione delle ossa. L'ossalato però non può essere metabolizzato nel corpo e viene espulso attraverso l'urina. ___________________________________________________ Le Scienze 28/08/01 LE CELLULE DELLA RESPIRAZIONE È un piccolo gruppo di neuroni ben localizzati a inviare i comandi Un gruppo dell'Università della California a Los Angeles ha identificato un piccolo insieme di cellule cerebrali che sembrano alla base della respirazione nei mammiferi. La scoperta, descritta in un articolo pubblicato su "Nature", potrebbe portare a nuovi sistemi per curare o prevenire gravi disturbi come l'apnea durante il sonno. In uno studio precedente, sempre gli stessi ricercatori avevano indicato una regione specifica del tessuto cerebrale, nota come il complesso preBotzinger, come centro di comando della respirazione. Ora però si è visto che in realtà solo un piccolo gruppo di neuroni all'interno di questa regione invia i comandi che provocano la respirazione. Per verificare la loro scoperta, i ricercatori hanno provato a uccidere in modo selettivo questi neuroni nel cervello di alcuni topi. I risultati non si sono fatti attendere, perché in questi topi la respirazione regolare ha ceduto il posto a uno schema altamente irregolare di atti respiratori. Inoltre, il cervello dei topi ha anche smesso di controllare la quantità di ossigeno e anidride carbonica del sangue. ========================================================= ___________________________________________________ Corriere della Sera 28/08/01 ADDIO SILICIO, L' IBM PREPARA IL CHIP AL CARBONIO Caretto Ennio Addio silicio, l' Ibm prepara il chip al carbonio DAL NOSTRO CORRISPONDENTE WASHINGTON - Incomincia l' era del dopo silicio: l' Ibm, "Big blue", il gigante americano dei computer, ha creato un circuito elettronico sulla base di un' unica molecola di carbonio, centomila volte più sottile di un capello umano. Il filo di carbonio, detto "nanotube" o cavo nano, svolge funzioni molto rudimentali, e occorrerà un altro anno o due di ricerche prima che diventi una piastrina e sostituisca quella attuale di silicio. Ma il direttore del laboratorio che lo ha creato, Phaedon Avouris, è convinto che sia il migliore dei conduttori possibili per i prossimi decenni. "E' il candidato numero uno dell' elettronica molecolare", ha dichiarato al "New York Times ", che ieri ha dato la notizia della scoperta. In America, la caccia a un' alternativa al silicio è in corso da parecchi anni: la Intel, la regina dei conduttori, sperimenta a esempio con il rame. Ma il carbonio sembra la sostanza più promettente: il "New York Times" ha sottolineato che "potrebbe consentire di moltiplicare di diecimila volte il numero dei transistor raccolti nello stesso spazio". L' effetto sarebbe cruciale: in futuro i computer sarebbero sempre più piccoli per operazioni sempre più complesse a velocità sempre superiori. Il dottor Charles Lieber, docente di chimica all' università di Harvard ed esperto di nanotecnologia, ritiene che l' elettronica sia a una svolta decisiva: "Il passaggio all' età post silicio potrebbe esser e più rapido di quanto crediamo". Wall Street sta seguendo la competizione con estremo interesse: chi inaugurerà l' epoca del dopo silicio realizzerà enormi profitti, gli altri avvertiranno dure scosse. E. C.