CAGLIARI: UN ATENEO SENZA CITTÀ LA SCUOLA EUROPEA NON È UN MIRAGGIO MILANO: TRENTA SOCI PER IL «COLLEGE» UNIVERSITARIO CASSAZIONE: AMMESSO IL CONTROLLO DEL TELEFONO AZIENDALE «GLI STATALI? AUMENTANO E COSTANO DI PIÙ» BUSH: ADDIO CLASSI MISTE, LE SCUOLE SARANNO SOLO UNISEX ========================================================= TUTTO IL BUONO DEI NOSTRI OSPEDALI LA RIVOLTA DEI CAMICI BIANCHI: SEI MESI SENZA RIMBORSI TICKET, LA REGIONE FA DIETROFRONT TICKET «GIUSTO CORREGGERE L'ERRORE» TREMONTI: SULLE INVALIDITÀ CIVILI VERIFICHE A TAPPETO LA CASSAZIONE ANORESSICI: RICONOSCIUTA L'INVALIDITÀ MAIDA: ENTRO L'ANNO PNEUMOCOCCO, VACCINI GRATIS SOTTO I 5 ANNI SASSARI:GUERRA TRA I CAMICI BIANCHI DIVISI DAL SUPEROSPEDALE ITALIA ULTIMA IN EUROPA SULLE TERAPIE ANTI DOLORE MICROCITEMICO: GRAVIDANZE CON MENO RISCHI MALATTIE REUMATICHE: DIECIMILA SARDI SOFFRONO DI ARTRITE CAGLIARI: QUANDO L’ALGA DIVENTERÀ ANTIBIOTICO GENETICA ED EPILESSIA DEPRESSIONE INFANTILE. SI FA LUCE COME INTERPRETARE IL GENOMA UMANO? QUOZIENTE DI INTELLIGENZA HOMO STUPIDUS BERE IL TÈ PRESERVA DALL'INFARTO ========================================================= ______________________________________________________ L’Unione Sarda 09 mag. 02 CAGLIARI: UN ATENEO SENZA CITTÀ Leggere la storia d’una città attraverso le vicende della sua università è un esercizio utile e necessario per meglio analizzarne il divenire e comprenderne successi ed insuccessi. Proprio perché la città è, per definizione, il luogo ove meglio s’insediano i laboratori dei servizi d’eccellenza, maturano le capacità scientifiche e si formano degli interessanti giacimenti di materia grigia, secondo la definizione di Louis Armand. Cagliari è stata una città che dalla sua fondazione, e per decine e decine di secoli ha vissuto in uno stato coloniale. Con ciò intendendo che è stata lungamente la porta d’ingresso ed il luogo di dominio per le forze e per gli interessi invasori e conquistatori dell’isola. Vicende capitate con i fenici, e ripetutesi poi con i cartaginesi, i romani, i vandali, i pisani, gli spagnoli, gli austriaci ed infine con i piemontesi. Un passato ben differente da quello di altre città della penisola, ove il progresso rimarrà legato alla loro conquistata indipendenza e dove sarebbe fiorita quella che gli storici chiamano la grande civiltà dei liberi comuni. Che si configurò come la capacità di dare vita ad istituzioni e servizi necessari per l’elevazione civile dei suoi cittadini e che, contestualmente, diviene il motore per lo sviluppo dei territori circostanti. Proprio quella superiore civiltà comunale darà vita all’istituzione universitaria, come completamento ed arricchimento di quelle libere istituzioni cittadine. Quando nasce a Bologna l’Alma mater studiorum non è ancora terminato il primo secolo del secondo millennio (1088), e la costituzione avviene per iniziativa di una corporazione di maestri e di scolari, con un ordinamento che segue gli stessi indirizzi comunali, con un Rettore eletto liberamente da un’assemblea costituita a somiglianza del parlamento comunale a cui viene attribuita piena libertà di scegliere maestri e temi di studio. Al contrario, l’università di Cagliari verrà istituita solo sei secoli dopo, nel 1620, solo per volontà del sovrano e del pontefice, regolata dagli ordinamenti e dai piani di studio di quelle spagnole di Lérida e Salamanca e legata alla Compagnia dei gesuiti per l’insegnamento (lo stesso arcivescovo di Cagliari ne sarebbe dovuto essere il rettore). In realtà la differenza è troppo sostanziale per non ammetterla, anche perché l’Ateneo cagliaritano era stato istituito per impedire ai giovani sardi di recarsi per studio a Pisa o a Bologna. Nel timore che assimilassero una deviante cultura italica e laica entrando in contatto con idee eretiche e riformiste. Non per caso contestualmente venne stabilita la nullità nel Regnum Sardiniae dei titoli conseguiti in quelle scuole. Se Cagliari era stata un città fondata da un potere coloniale, anche la sua università avrà quindi la stessa matrice. E questo nonostante ci sia anche chi ha inteso dare importanza alle ripetute petizioni (durate quasi un secolo) inviate dagli Stamenti locali al re spagnolo per ottenere la grazia d’una scuola universitaria. Rispetto a quanto verificatosi nelle terre continentali non sarà differenza da poco, tanto da segnare profondamente, nella stessa scelta dei docenti e degli indirizzi di studio, lo stato di assoggettamento della conoscenza e della scienza al potere ed agli interessi della Catholica Mayestà del re di Spagna. Non diversamente capiterà con il cambio dei dominatori, giacché la stessa rifondazione attuata dal potere sabaudo nel 1764 (l’Ateneo fin dal 1682 era praticamente ”in sonno” e le sue aule trasformate in depositi di grano), non andrà oltre al cambiamento della bussola d’orientamento (non più Lérida ma Torino, in un tentativo di despagnolizzazione degli studi) e dell’ordine religioso incaricato dell’insegnamento (domenicani ed agostiniani al posto dei gesuiti, ritenuti poco ligi al nuovo potere). Viene quasi da affermare che la università di Cagliari sia stata lungamente strumento di colonizzazione più che mezzo di emancipazione professionale della sua gente. La controprova la si può trovare nelle stesse tipologie di studi privilegiati dall’Ateneo, sempre così distanti da quelli che erano le competenze professionali indispensabili per soddisfare le necessità della società isolana. Questa prima riflessione serve a meglio inquadrare e comprendere i difficili rapporti che, per diversi secoli, intercorreranno tra le due istituzioni, quasi che Municipio e Università fossero ”separati in casa”. Non una scuola, quindi, al servizio dello sviluppo della comunità urbana e neppure una città interessata ad assicurare adeguato prestigio al suo ateneo. C’è poi un altro aspetto che, ripercorrendo la storia della istituzione universitaria nei primi secoli di vita a Cagliari, occorre sottolineare. Ed è quello riguardante i suoi persistenti eccessi di localismo. Un autentico virus nocivo che ne condizionò per lungo tempo lo sviluppo e il progredire. Sono molti i segnali storici che ci consegnano l’immagine di un Ateneo rimasto incardinato ad un gretto provincialismo culturale, in contrasto a quella denominazione - Universitas studiorum - che l’avrebbe dovuto indirizzare verso dottrine e valori universali. La stessa querelle sull’anagrafe dei docenti animata da un esasperato localismo didattico, che ricorrerà più volte in questa parte della storia universitaria sarda, appare ben differente da quegli indirizzi di universalità dell’insegnamento presente allora nelle libere università comunali, sempre interessate a contendersi i più illustri maestri del tempo. Non è quindi da sottovalutare la meraviglia espressa da uno studioso, in anni non molto lontani, sul fatto che dal XVII secolo in avanti i sardi non avessero dato un apprezzabile contributo al progresso della scienza. Mantenendosi assenti o lontani dai problemi scientifici più importanti e lasciando cadere nel vuoto significative esperienze, ad esempio, come quelle di Pacinotti sull’elettricità. E non preoccupandosi che le grandi scoperte di Galileo e di Newton avessero dischiuso nuovi vasti orizzonti al sapere scientifico ed agli stessi indirizzi didattici. La colpa veniva attribuita all’inadeguatezza dell’insegnamento e dell’attività di ricerca nella scuola universitaria sarda. Scarsità di fondi e ragion di Stato consigliavano di lasciare da parte i nuovi orizzonti della scienza. Tant’è che materie sperimentali come fisica e chimica venivano studiate solo sui libri. In verità, altrettanta responsabilità andrebbe attribuita alla cultura allora dominante a Cagliari e nell’isola, rimasta condizionata dagli eccessi di ”spagnolismo” delle Èlite locali, convinte che gli studi nelle aule universitarie non si addicessero al nobile e che l’ignoranza non fosse un vizio ma una virtù degli aristocratici. La stessa Università, almeno fino alla proclamazione dell’Unità d’Italia, sarebbe stata ben lontana da quella patente d’eccellenza che dovrebbero avere gli studi superiori. Soprattutto a causa della puerilità e povertà degli insegnamenti e dei troppi maneggi nell’assegnazione delle cattedre a favore di docenti insipienti ed ignoranti. Si sosteneva che gli insegnamenti fossero rimasti indietro di quasi cinquant’anni, ”che sono poi quasi due secoli nei rapidi avanzamenti odierni delle scienze”. Non erano poi poche le critiche rivolte ai docenti che obbligavano gli studenti a frequentare le loro lezioni private e ad acquistare i loro libri «dove trovi conservati errori già da mezzo secolo smentiti dalla scienza». Con la fine del Regnum Sardiniae nel 1847, anche l’organizzazione universitaria verrà uniformata a quelle esistenti negli Stati di Terraferma, perdendo così sia il carattere confessionale che l’aveva contraddistinta fin dalla fondazione e sia ancora quella parvenza di autonomia che le derivava dalla sua diversità, sostituita da un sempre più attento controllo dello Stato sabaudo. Rimaneva invece inalterato il modesto livello degli studi e, soprattutto, continuava ad essere oggetto di critica la scarsa preparazione di docenti «che in trenta e quaranta anni di insegnamento non han saputo porre insieme neppure un catechismo di scuola». Per intenderci, dopo i due primi secoli di vita (1626-1860) l’Universitas studiorum calaritana non poteva vantare grandi meriti accademici e neppure un ampio apporto di iscritti ( appena un centinaio ed il diritto d’iscrizione costava 1.537 lire). Come s’è visto, non aveva neppure alle spalle un glorioso passato, tanto da essere inserita, alla formazione dello Stato unitario, in quel gruppo di Atenei ”minori” (definiti tempietti di una vacua cultura accademica) che dovevano la loro esistenza ”ad intrecci con interessi di municipi, di regioni e di individui più che ad effettive esigenze didattiche o di frequentazione. Già nel precedente Regno di Sardegna era stata classificata al penultimo posto). Sarà questa la motivazione per cui nel 1862 la ”riforma” del ministro Carlo Matteucci inserirà Cagliari fra le Università ”secondarie” del Regno, suscitando le focose ire dei maggiorenti cittadini che parleranno di atto vandalico e di un sopruso contro quella città-capitale che dopotutto aveva dato i natali al nuovo Stato nazionale. Paolo Fadda ______________________________________________________ Il Sole24Ore 09 mag. 02 LA SCUOLA EUROPEA NON È UN MIRAGGIO di Andrea Casalegno La scuola italiana è di livello europeo? Purtroppo no. Non è certo una rivelazione: ma "Scuola italiana, scuola europea?", primo Quaderno dell'Associazione Treelle (Long Life Learning: apprendimento lungo tutto l'arco della vita), presentato ieri a Roma (si veda l'articolo a fianco), ha il merito di ribadirlo con dati inoppugnabili e aggiornati, e soprattutto di dimostrare con altrettanta chiarezza che la via per costruire una scuola di livello europeo è aperta, anche se non è facile imboccarla. Il Governo Berlusconi, forte di una solida maggioranza in Parlamento e di un chiaro mandato elettorale, si trova anzi di fronte un'occasione irripetibile per imboccare la via della riforme. Percorrerla è nell'interesse del Paese. La stessa presentazione del Quaderno, alla quale hanno partecipato fianco a fianco il ministro dell'Istruzione, Letizia Moratti, e i suoi predecessori del Centro-sinistra, Giancarlo Lombardi, Luigi Berlinguer e Tullio De Mauro, dimostra che su questi temi un atteggiamento "bipartisan" è possibile. La scuola italiana non è di livello europeo né per i risultati, né per i costi né, infine, per la struttura dell'insegnamento: un'espressione di sintesi che raccoglie elementi complessi, dai cicli ai programmi, dalla formazione e selezione del personale all'entità e struttura degli stipendi, dalla composizione generazionale alla mancanza di criteri obiettivi di valutazione dell'attività svolta. Ma sarebbe un errore esaminare questi elementi separatamente: risultati, costi, strutture e politiche del personale sono elementi di un unico quadro di arretratezza (e potremmo aggiungere quella tecnologica: la più facile, però, da superare con investimenti mirati). I diversi fattori d'immobilismo si rafforzano reciprocamente, generando effetti perversi che non si sommano, si moltiplicano. I risultati raggiunti sono insufficienti per quantità e qualità. I diplomati italiani, cioè coloro che hanno ottenuto il titolo finale dell'istruzione secondaria superiore, sono troppo pochi: il 42% della fascia d'età interessata (25-64 anni), contro il 59% della media Ue. E non sono abbastanza preparati: nell'ultima indagine comparativa internazionale Pisa (Programm for International Student Assessment) gli italiani si classificano al 20° posto, su 32 Paesi, per competenze linguistiche, al 24° in scienze e addirittura al 26° in matematica. Per ottenere questi risultati l'Italia spende non meno ma più degli altri Paesi: il costo medio di un allievo (fino a 15 anni) è 60.800 dollari l'anno, contro i 43.500 della media Ocse. Un costo abnorme che si spiega facilmente. Gli insegnanti, pur pagati meno della media, sono troppi: hanno in media 11 allievi a testa, contro i 16 della media Ue. Gli insegnanti italiani, inoltre, sono stati assunti in gran parte senza concorso e senza prestare un adeguato tirocinio, non rispondono a criteri obiettivi di valutazione del loro operato, non sono incentivati a lavorare meglio da un'adeguata progressione di stipendio e di carriera. Last but not least, sono troppo vecchi: gli ultracinquantenni sono il 45%, contro il 30% della media Ue. Quest'ultimo dato, in sé preoccupante, può tuttavia capovolgersi in un bene. Nei prossimi anni, infatti, molti docenti andranno in pensione. È questa gobba pensionistica l'opportunità che il Governo deve cogliere: approfittandone, potrebbe ridurre in modo consistente il numero degli insegnanti, senza licenziare nessuno, e investire le risorse così risparmiate - e altre risorse da reperire ex novo - nel miglioramento del sistema educativo. Treelle, nel suo Quaderno, suggerisce anche come investire. I punti cruciali sono cinque: selezione e formazione dei docenti; nuova struttura incentivante dello stipendio, unita alla costruzione di un sistema di valutazione serio e condiviso (i due provvedimenti vanno attuati insieme); rinnovamento tecnologico e didattica innovativa; semplificazione dei programmi: invece di insegnare "tutto" in modo superficiale bisogna puntare sulle competenze fondamentali; attenzione mirata a ogni singolo allievo: non solo a quelli in difficoltà, ma anche ai più dotati. Non si tratta, come si vede, di riforme facili o a costo zero. Ma chi le porterà a termine acquisirà grandi meriti davanti al Paese. ______________________________________________________ Il Sole24Ore 08 mag. 02 MILANO: TRENTA SOCI PER IL «COLLEGE» UNIVERSITARIO MILANO - Anche Milano avrà un college universitario. Non un pensionato, ma un vero campus di 23mila metri quadrati, aperto a studenti di tutta Italia, destinato a integrare la formazione universitaria con corsi interni, seminari e tutor, e a diventare un polo di attrazione per i migliori studenti, dottorandi e ricercatori (anche stranieri). Per dare vita a questa iniziativa, che dovrebbe partire nel gennaio prossimo, è stata costituita una Fondazione, senza scopo di lucro, cui hanno aderito il Comune di Milano e le università cittadine (Politecnico, Bocconi, Cattolica, Statale), Assolombarda e una ventina di aziende private (tra cui Bracco, Falck, Pirelli e Edison), oltre all'Aspen Institute Italia, uno dei promotori dell'iniziativa. I soci fondatori si sono impegnati a versare un contributo di poco più di 258mila euro, a valere per i primi cinque anni di attività del Collegio. La sede è già stata individuata: un edificio in Via San Vigilio (vicino alla stazione Famagosta della metropolitana) messo a disposizione da Cariplo e Comune. Si tratta di una struttura progettata negli anni 70 da Marco Zanuso e oggi utilizzata dalla Fondazione Dell'Amore per attività di formazione. In un primo tempo potrà ospitare un centinaio di studenti e docenti residenti, ma a regime si arriverà a 4-500 posti. «Questa iniziativa ha dimostrato una capacità senza precedenti di mettere insieme università diverse e il mondo economico pubblico e privato» ha sottolineato ieri il presidente della Fondazione Collegio delle università milanesi, Giancarlo Lombardi. E ha aggiunto: «La nostra è una proposta di élite, ma di élite intellettuale, non economica». L'accesso a questa struttura sarà infatti riservato ai migliori studenti iscritti a tutte le facoltà delle università milanesi, oltre a dottorandi e ricercatori. Nella fase di avvio saranno ammessi solo studenti degli ultimi anni, ma in seguito si aprirà anche alle matricole. La retta sarà compresa tra 10 e 13mila euro all'anno, «ma ci saranno borse di studio messe a disposizione dalla Fondazione» ha spiegato il sindaco di Milano, Gabriele Albertini, per il quale il Collegio è un'idea che darà slancio alla città. «Non possiamo assistere senza fare niente all'emigrazione intellettuale» ha detto. Louis Quagliata, una laurea ad Harvard e al Mit di Boston e una vita professionale trascorsa per lo più negli Usa, sarà il direttore del Collegio. «L'obiettivo - dice - è quello di creare a Milano un polo di attrazione intellettuale per gli studenti e dare al college un carattere internazionale». C.J. ______________________________________________________ Il Sole24Ore 08 mag. 02 CASSAZIONE: AMMESSO IL CONTROLLO DEL TELEFONO AZIENDALE Per la Cassazione non si applica sempre lo Statuto dei lavoratori Franco Toffoletto Importante sentenza della Corte di Cassazione (Cass. 3 aprile 2002, n. 4746) che legittima il controllo da parte del datore di lavoro dell'uso del telefono aziendale da parte dei dipendenti. La fattispecie esaminata dalla Corte riguarda il caso di una dipendente licenziata per vari motivi tra i quali anche l'uso privato del telefono aziendale. La lavoratrice era stata reintegrata nel posto di lavoro sulla base dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per decisione del giudice di primo grado confermata in sede di appello. Relativamente a tale motivo, il giudice d'appello aveva ritenuto che le contestazioni della società circa l'uso del telefono aziendale fossero illegittime «in quanto fondate su dati acquisiti mediante apparecchiature elettroniche di controllo installate in difetto dei presupposti richiesti dall'articolo 4 della legge n. 300 del 1970». Questa norma vieta l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori (quali ad esempio le telecamere) e prevede altresì che per gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, possono sì essere installati ma soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali. Nel caso in cui queste non siano presenti «provvede l'Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l'uso di tali impianti». Leggendo la norma, sin dalla sua origine si pensò che essa si riferisse soltanto ad apparecchiature che avessero come finalità, seppure non esclusiva, il controllo dei lavoratori ma che non fossero da ricomprendere altri apparecchi, utili o addirittura indispensabili per lo svolgimento della prestazione lavorativa. Tra questi strumenti vi era allora il telefono: oggi il computer. Contro tale interpretazione di buon senso si era invece posta la giurisprudenza di merito degli anni '70 e '80, che ritenne che anche i centralini telefonici dovessero essere ricompresi nella norma, e che quindi essi non potessero essere installati senza il consenso delle rappresentanze sindacali aziendali. Pertanto e alla luce del rinnovato interesse da parte degli operatori del diritto per l'interpretazione dell'articolo 4, la sentenza in esame appare particolarmente interessante. La Corte infatti afferma che: «Ai fini dell'operatività del divieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza dell'attività dei lavoratori previsto dall'articolo 4 della legge n. 300 citata, è necessario che il controllo riguardi (direttamente o indirettamente) l'attività lavorativa, mentre devono ritenersi certamente fuori dell'ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (cd. controlli difensivi), quali, ad esempio, i sistemi di controllo dell'accesso ad aree riservate, o, appunto, gli apparecchi di rilevazione di telefonate ingiustificate». Nella specie, pertanto, considerato il tipo di lavoro cui era addetto il dipendente, il Tribunale avrebbe dovuto valutare il comportamento del datore di lavoro come inteso a controllare la condotta illecita del dipendente e non l'attività lavorativa svolta dal medesimo. Inoltre, nel prosieguo della sentenza i giudici di legittimità, cassando la sentenza di merito, affermano che gli inadempimenti del lavoratore, ovvero l'uso improprio del telefono, potessero costituire un valido elemento per giustificare il licenziamento: «Il Tribunale, inoltre, ritenendo illegittime le contestazioni relative all'uso privato del telefono aziendale, ha omesso di considerare anche quelle poste a base dell'intimato licenziamento, omettendo pertanto di valutarne la portata, anche in relazione al fatto che esse intervenivano dopo altre contestazioni di contenuto analogo». Quindi in buona sostanza quello che la sentenza in esame afferma è che il controllo sull'utilizzazione del telefono aziendale non rientra nella fattispecie descritta dall'articolo 4 e che eventuali inadempimenti possono costituire una valida motivazione per sostenere l'applicazione di una sanzione disciplinare. ______________________________________________________ Il Messaggero 11 mag. 02 I CONTI 1997-2000 «GLI STATALI? AUMENTANO E COSTANO DI PIÙ» L’analisi della Corte dei Conti: i dipendenti crescono dell’1%, gli stipendi dell’8,7% ROMA. - I dipendenti pubblici sono cresciuti di oltre l'1% tra il 1997 e il 2000, attestandosi a quota 3,6 milioni di unità. Un aumento «in sè non rilevante», commenta la Corte dei Conti, ma che «contraddice le attese di riduzione del personale, determinata nel 2,5%». Particolarmente rilevante l'incremento registrato dal comparto della scuola, che da solo ha contribuito per 132 mila unità, «costituite anche dal personale ausiliario, tecnico e amministrativo proveniente dagli enti locali». E a salire è anche il costo del personale, che a fine 2000 ammontava a 227 mila miliardi di lire, con un balzo dell'8,7% rispetto al 1999. Ma ecco l'analisi per comparto contenuta nella «Relazione sul costo del lavoro pubblico per l'anno 2000»: Ministeri: Nei tre anni in questione il personale è diminuito. L'andamento tuttavia, sottolinea la Corte, «è ascrivibile essenzialmente all'evoluzione degli addetti ai lavori socialmente utili le cui unità, dopo la spiccata crescita registrata nel periodo 1997-1999, flettono di circa il 90% nel 2000». Scuola: La contrattazione collettiva per il quadriennio 1998-2001 prevede incrementi retributivi per il personale docente «di gran lunga superiori a quelli del restante personale statale e pubblico». Alla fine del 2000, risultava «estremamente elevato» il rapporto fra personale di ruolo e quello a tempo determinato. Università: La consistenza e le spese per il personale nel quadrienno 1997-2000 evidenziano una crescita più che proporzionale rispetto al resto del pubblico impiego. Alla fine del 2000 gli organici, definiti «saturi» dalla Corte, avevano un indice di copertura tra i più alti di quelli rilevati nella pubblica amminsitrazione. Enti di ricerca: La contrattazione collettiva del settore, rileva la Corte, è caratterizzata da rilevanti ritardi. I contratti applicati sono ancora quelli conclusi per il periodo 1994-1997. Di qui la più contenuta crescita delle retribuzioni nel biennio 1999-2000. È però «prevedibile» un sensibile incremento del costo del personale da quest'anno. Regioni a autonomie locali: Il numero di dipendenti delle Regioni ordinarie si è attestato a 51 mila unità, con una modesta riduzione. Il costo del personale è invece aumentato di oltre il 10%. Per quanto riguarda le autonomie locali, va invece rilevata la forte riduzione di personale a tempo indeterminato di comuni e province dopo il trasferimento del personale ausiliario, tecnico e amministrativo nel settore della scuola. Sanità: «Il costo del personale rappresenta la voce di maggior peso nella composizione della spesa sanitaria corrente». Negli anni 1995-1997, si è passati da 39.589 miliardi a 47.298 miliardi. Poi una flessione di 2.067 miliardi nel 1998, seguita da un nuovo incremento nel 1999. Forze di polizia: Alla fine del 2000, il personale era composto da 316.146 unità, in aumento del 2,3% rispetto al 1999. Il costo totale era pari a 22.896, con un incremento del 7%. Forze armate: Alla fine del 2000 il personale complessivo era pari a 247.070 unità, con un calo del 7,2% rispetto all'anno prima. La spesa per il trattamento economico era però pari a circa 10 mila miliardi, in crescita del 10,5%. ______________________________________________________ Il Messaggero 10 mag. 02 BUSH: ADDIO CLASSI MISTE, LE SCUOLE SARANNO SOLO UNISEX di ANNA GUAITA NNew York EGLI anni della Frontiera, quando i pionieri si spingevano a Ovest, conquistando territori ostili e sempre più lontani, i bambini americani cominciarono ad andare a scuola in classi miste: era più economico e pratico costruire una sola scuola, una sola aula, e avere un solo insegnante. Della necessità col tempo si fece virtù: nel secondo Ottocento nacque il movimento per il voto alla donna, poi il movimento per la sua eguaglianza nella società e nel lavoro, e le scuole miste sembrarono il luogo ideale perché quell’eguaglianza venisse imparata e assorbita fin dalla più tenera età sia da parte delle femminucce che dei maschietti. Ma oggi, negli Usa, qualcuno si chiede se le classi miste siano ancora un bene. E il presidente promette di stanziare finanziamenti generosi per chi volesse sperimentare un nuovo avanzatissimo, ardito progetto: classi maschili e classi femminili separate. Il ministro dell’Istruzione Rod Paige, ha ieri fatto sapere ai provveditorati scolastici statali e regionali che hanno sessanta giorni di tempo per presentare progetti di scuole non-miste: «Vogliamo assicurare al nostro sistema scolastico la massima flessibilità possibile» ha commentato Paige. E immediatamente si è levato un coro di voci, divise fra le proteste e l’approvazione. Le proteste vengono dai difensori dei diritti civili, preoccupati che si sancisca una insidiosa forma di discriminazione sessuale che non potrà che danneggiare le bambine: «Perché non vi sforzate di migliorare la qualità della pubblica istruzione piuttosto che cercare trucchetti che distraggano la nostra attenzione dai problemi più gravi?» protesta la signora Nancy Zirkin, della Associazione Americana Docenti Universitarie. Le voci di sostegno vengono soprattutto dall’ala conservatrice, convinta che nelle classi separate ci sarebbero meno problemi di disciplina, si verificherebbe meno promiscuità sessuale e si proteggerebbero i giovani dalle gravidanze premature e dall’aids. Tuttavia, fra i fautori delle scuole separate ci sono anche molte convinte voci femministe, e questo perché alcuni esperimenti pilota, in cui scolare e scolari sono stati separati, hanno dimostrato che a riuscire meglio sono proprio le bambine: imparano con più facilità le materie scientifiche, si sentono meno timide, e entrano meno in competizione fra di loro. «Nelle scuole non miste si realizza un senso di amicizia, di cameratismo e solidarietà che aiuta le ragazzine a diventare più sicure di sé» spiega Ann Rubenstein, fondatrice di una scuola per sole bambine ad Harlem. Vanto della signora Rubenstein, è che tutte le studentesse della sua scuola arrivano al diploma superiore e tutte vengono ammesse all’università: un record che neanche le più esclusive e costose scuole private d’America oggi riescono a raggiungere. ========================================================= ______________________________________________________ Panorama 05 mag. 02 TUTTO IL BUONO DEI NOSTRI OSPEDALI Clown in corsia, lezioni in videoconferenza, pronto soccorso a bordo di scooter: un concorso premia le migliori iniziative varate dalla sanità pubblica. Che, a volte, funziona bene. Di DONATELLA MARINO 3/5/2002 Se non fosse per le tute rosse e il cappellino con una vistosa scritta azzurra e un cuore sullo sfondo, verrebbero scambiati per comuni centauri. Ma quei motociclisti in sella a scooteroni gialli sono medici e infermieri. Che da qualche tempo si aggirano in 12 comuni dell'hinterland napoletano, da Afragola a Casoria, a Frattamaggiore, a bordo di moto-mediche dotate di defibrillatori. Obiettivo? Prestare soccorso per strada in meno di cinque minuti: tanto basta per salvare una vita dopo un arresto cardiocircolatorio. Se ne registrano 60 mila casi l'anno, di cui 450 nella popolosa zona della Asl Napoli 3, con una mortalità del 25 per cento. Per alzare la soglia almeno al 50 per cento, la asl ha avviato da un mese il servizio di soccorso veloce. Coadiuvato da 28 postazioni fisse, a breve in funzione, e sistemate in zone strategiche di ciascun comune: le più affollate, come piazze o ipermercati. Questo e altri 220 progetti per migliorare la qualità nel sistema sanitario pubblico italiano sono il motivo per cui, una volta tanto, si parla di buona sanità. Iniziative presentate al Forum della Pubblica amministrazione 2002, la mostra convegno in programma alla Fiera di Roma dal 6 al 10 maggio (riquadro a pagina 74). Vi partecipano anche le associazioni di difesa del cittadino, come il Tribunale dei diritti del malato, che annuncia la pubblicazione, nel 2003, di una guida che darà le stellette, come le guide dei ristoranti, ad asl e ospedali più attenti alla best practice, la qualità in corsia. Che, sfatando un pregiudizio, non è solo del Nord. Fra i 31 progetti finalisti in gara al Forum ce n'è un secondo già messo in atto dalla direzione sanitaria della Asl Napoli 3. Si chiama Airone, è dedicato ai bambini a rischio dei comuni dell'hinterland, tutti in rete via computer. C'è un programma di prevenzione che fin dalla nascita garantisce a quanti provengono dalle famiglie più disagiate un aiuto permanente: per problemi di salute e assistenza sociale. «Da luglio a dicembre 2001 sono nati 526 bambini e ne abbiamo individuati 118 a rischio» spiega Attilio Bianchi, direttore sanitario della asl. «Le loro famiglie non saprebbero a chi rivolgersi, se non al pronto soccorso. Ora sono seguite costantemente». È finalista anche l'iniziativa dell'Azienda ospedaliera Meyer, a Firenze. Da sempre specializzata in cure pediatriche, ha affiancato alla tradizionale terapia del sorriso, eseguita da clown professionisti stile Patch Adams, una più rivoluzionaria attività: portare la cultura in ospedale, come sostegno al percorso di guarigione. Nutrito il programma di mostre già in corso, seguito da un cartellone teatrale con spettacoli che presto, grazie all'accordo con l'Ente teatrale italiano e l'antico Teatro della Pergola di Firenze, arriveranno direttamente nei reparti. Più originale la parte musicale: non semplici concerti, ma una quarantina di musicisti che, da settembre, suoneranno nei luoghi più impensabili: dalla sala operatoria alla mensa, persino in rianimazione, variando lo stile a seconda dei reparti. Oltre al progetto, finanziato con donazioni per oltre 1 milione di euro, l'ospedale ha avviato programmi radiofonici dai nomi evocativi, come La presa della pastiglia. Realizzati in prima persona dai bambini ricoverati, dai più piccoli ai già grandicelli, in collaborazione con radio Toscana Network. A disposizione c'è poi una ludoteca e un sito (www.meyer.it) che ne mette in mostra disegni e poesie. Nella nuova sede in costruzione in un parco a nord della città, ci sarà persino una serra all'accettazione e comfort da albergo. Ad Ancona, al Gaspare Salesi, centralissimo ospedale con vista mare, sono riusciti a rendere divertenti le lezioni scolastiche: in corsia. Il direttore generale, Andrea Giamperoli, ha chiamato un gruppo di maestre ad alternarsi nei vari reparti. La vera attrazione sono le tecnologiche lezioni in videoconferenza con una scuola media cittadina. E per tutti corsi d'inglese e di computer. All'Istituto nazionale tumori di Milano, invece, la psicoterapeuta Luciana Murru ha coordinato brevi workshop fra infermieri e pazienti del reparto senologia. Progetto: individuare i punti critici nella comunicazione con il malato. Un esperimento da poco esportato fra gli infermieri di Monza. Si spera di estenderlo anche ai medici. L'aspetto psicologico, in oncologia, è fondamentale e un buon dialogo aiuta anche a superare la «fatigue», quel senso di spossatezza che secondo recenti studi colpisce tre malati di tumore su quattro. Punta alla qualità anche l'Ospedale di Monselice, in provincia di Padova. Hanno fissato standard di qualità nel reparto maternità: serviranno a stilare una carta dei servizi alla gravidanza. Non è in gara ma ha uno stand al Forum il nuovissimo ospedale romano Sant'Andrea, aperto solo da un anno, troppo tardi per partecipare. Per l'anno prossimo annuncia di entrare in competizione con un progetto artistico fondato sullo studio dei colori a scopo terapeutico. Intanto hanno già indetto un concorso fra giovani pittori mediterranei i cui quadri sono già esposti nella hall dell'ospedale. ______________________________________________________ L’Unione Sarda 11 mag. 02 LA RIVOLTA DEI CAMICI BIANCHI: SEI MESI SENZA RIMBORSI I medici di famiglia senza stipendio, per gli “accreditati” niente rimborsi da novembre «Se la Regione non paga presto si bloccherà l’assistenza» Sei mesi senza rimborsi. I medici accreditati con il Servizio sanitario nazionale sono in rivolta. Ma anche i medici di famiglia (insieme ai colleghi delle guardie mediche, ai pediatri di base, agli specialisti ambulatoriali) sono in trincea: non hanno ricevuto l’ultimo stipendio. Gli ex convenzionati hanno dato l’ultimatum all’assessore regionale alla Sanità e al direttore generale della Asl 8. Tempo qualche giorno e ricorreranno alle vie legali per gli arretrati: non ricevono i rimborsi dal primo novembre 2001. Eppure, per contratto, la Asl dovrebbe pagare entro 30 giorni dalla presentazione della fattura. Il problema, solo nel cagliaritano, riguarda un centinaio di professionisti: 35 per la branca “visita” (come odontoiatri, ginecologi, ortopedici, otorino, oculisti, cardiologi) e gli altri per la “strumentale” (laboratori di analisi e di radiologia). A capo della protesta c’è il sindacato Sapmi. «Con il direttore generale Efisio Aste c’è dialogo ma, senza soldi, può fare poco. Il problema», evidenzia il segretario regionale Giuseppe Lo Nardo, «è a monte: la Regione. Da parte dell’assessore Giorgio Oppi, nonostante lettere e telegrammi, non abbiamo mai avuto risposta alle richieste di incontro». Per ogni prestazione esenticket, i medici accreditati ricevono, o almeno dovrebbero, 17 euro e 4 centesimi, l’equivalente delle vecchie 33 mila lire. «Le tariffe più basse d’Italia», fa notare Lo Nardo. Ogni regione, spiega, aveva la facoltà di abbassare del 20 per cento l’indicazione del tariffario nazionale, 40 mila lire. «La Sardegna ha scelto un ribasso del 17,5 per cento. Al limite del consentito». Di più: era prevista la revisione tariffaria dal primo gennaio 2001. È tutto fermo. La protesta dei medici accreditati rischia di avere conseguenze pesanti per i pazienti. «Noi, di fatto, eroghiamo prestazioni per il Servizio sanitario», evidenzia il segretario del Sapmi. «Siamo equiparati al medico di una struttura pubblica, con il vantaggio, per l’utenza, di poter contare su un servizio più snello. È sufficiente pensare alle liste d’attesa in poliambulatori e ospedali. Ci stanno portando all’esasperazione. A parte l’azione legale per le competenze arretrate, rischiamo di passare all’indiretta, cioè faremo pagare 17 euro e 4 centesimi anche ai pazienti con l’esenzione». Fornitori e banche, aggiunge Giuseppe Lo Nardo, non aspettano. «Abbiamo mutui, affitto e soprattutto personale da pagare: proprio i dipendenti sono i primi a rischiare il posto. La Regione deve porsi il problema. Adesso». Un migliaio, invece, i medici di famiglia della Asl 8 che non hanno ricevuto lo stipendio di aprile. L’azienda sanitaria non vede soldi dalla Regione e, di conseguenza, non paga. Ma il problema più grave è che non si intravedono prospettive confortanti. Fabio Barbarossa, addetto stampa della segreteria regionale della Fimmg, evidenzia come siano a rischio anche i versamenti Irpef e Irap di aprile «entro i termini di legge, con conseguenti responsabilità penali e contabili». Barbarossa parla apertamente di «danni per tutti i settori sanitari aziendali». La prima vittima, manco a dirlo, sarà il paziente. Emanuele Dessì ______________________________________________________ L’Unione Sarda 10 mag. 02 TICKET, LA REGIONE FA DIETROFRONT Troppe proteste, l’assessore alla Sanità Giorgio Oppi modifica la decisione presa il 23 aprile Tra pochi giorni farmaci gratis per le fasce sociali “deboli” Sui ticket la Regione fa dietro front: tra qualche giorno alcune categorie di farmaci «non essenziali» che dal primo maggio erano «parzialmente a carico del cittadino» saranno gratuiti per le fasce sociali più deboli, altri avranno un prezzo fisso di tre euro, altri saranno gratuiti per tutti. Sommerso dalle proteste, l’assessore alla sanità Giorgio Oppi ieri ha predisposto una delibera (sarà approvata martedì dalla Giunta) che modifica in via sperimentale la decisione del 23 aprile dai dirigenti del suo assessorato nel rispetto di una norma nazionale applicata in tutta Italia che imponeva alle regioni di riportare la spesa farmaceutica entro il 13 per cento di quella sanitaria. La determinazione dell’assessorato stabiliva, per circa 600 farmaci considerati «non essenziali» (farmaci ormonali e per la menopausa, antiprostatici, antibiotici di nuova generazione, antiasmatici, prodotti contro le malattie respiratorie), un contributo dei cittadini che variava dal 20 al 50 per cento. La novità interessa un sardo su quattro e riguarda il 50 per cento delle ricette emesse dai medici. A non dover più pagare i prodotti non essenziali saranno otto categorie: pensionati sociali, titolari di pensione minima, invalidi di guerra, invalidi civili, grandi invalidi per servizio o per lavoro, vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, titolari di esenzione per patologie, soggetti danneggiati da vaccinazioni, trasfusioni. Non solo. I farmaci antibiotici, quelli per il sistema respiratorio e gli antiasmatici saranno riportati in categoria “A” e saranno, dunque, totalmente gratuiti per tutti. Infine i prodotti contro l’ipertrofia prostatica, considerata l’incidenza epidemiologica della malattia, avranno un costo di tre euro per confezione, ma saranno gratuiti per le categorie esenti. La rivoluzione, dunque, è durata poco più di una settimana. «Abbiamo tenuto conto delle reazioni e delle lamentele dei cittadini», spiega Oppi, «ma anche dell’incidenza sociale di alcune patologie in Sardegna». Insomma, i farmaci che in alcune regioni erano considerati non essenziali, sono considerati fondamentali nell’Isola. Stabilite le necessità, l’assessorato è corso ai ripari, supplendo con una decisione politica ad una amministrativa. «Ma devono essere chiare due cose», aggiunge Oppi: «la Regione era stata costretta ad introdurre il contributo perché una norma del ministero della sanità imponeva a tutte le regioni di intervenire per ridurre la spesa farmaceutica, la seconda che la Sardegna, contrariamente ad altre regioni, aveva ridotto al minimo la pressione sui cittadini». Su questo Oppi non ha torto: mentre la Sardegna aveva stabilito un contributo del 20 per cento sui farmaci della categoria B1 (antibiotici) e del 50 su quelli della categoria B2 (antiasmatici, antiallergici, ipertrofia prostatica), l’Abruzzo aveva fissato un ticket da uno a tre euro su tutti i farmaci, l’Emilia Romagna un contributo del 66 per cento, la Lombardia ha portato in fascia “C” (a totale carico del paziente) tutti i farmaci sui quali prima si pagava solo una percentuale. Rimane il problema della riduzione del “buco” farmaceutico che nell’Isola raggiunge il 17% della spesa sanitaria. I sardi, nel 2001 hanno acquistato farmaci per 327 milioni di euro contro i 242 del 2000. E nel primo trimestre del 2002 hanno speso 14 milioni di euro rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. L’obiettivo, quando è stato introdotto il ticket, era di risparmiare 50 milioni. «Con questa modifica», spiega Oppi, «risparmieremo la metà». E l’imposizione ministeriale? «Certo, il problema è solo rinviato», ammette l’assessore, «perché dovremmo trovare altri modi per risparmiare. Intanto continueremo a invitare i medici a stare attenti alle prescrizioni per consentire un uso più appropriato del farmaco». Fabio Manca ______________________________________________________ La Nuova Sardegna 11 mag. 02 TICKET «GIUSTO CORREGGERE L'ERRORE» CAGLIARI. «La decisione dell'assessore alla Sanità di apportare sostanziali modifiche al provvedimento che introduceva ticket sui farmaci è un atto di saggezza e di sensibilità democratica». Lo ha dichiarato Massimo Dadea, responsabile Sanità dei Ds, il quale ha aggiunto che si trattava di un atto «iniquo e vessatorio» mentre è necessario ora pensare alla razionalizzazione della spesa e a predisporre il piano sanitario regionale. Le stesse opinioni sono state espresse da Ivana Dettori (Ds) e Oriana Putzolu (Cisl), che nei giorni scorsi avevano contestato la reintroduzione del ticket sui farmaci. «Ora - ha spiegato la Dettori - valuteremo con attenzione la decisione che sara adottata martedì dalla giunta». Irap. Una presa di posizione di Luigi Cogodi (Prc) ha provocato la sospensione della legge sull'Irap che maggioranza e opposizione avevano approvato in commissione. La riduzione di un punto (dal 4,25 al 3,25%) per le imprese avrebbe provocato un buco di circa 120 miliardi di lire nel bilancio della Regione. Farmaci, retromarcia sui ticket Eliminati per i malati cronici e le fasce più deboli di Simona Damiani CAGLIARI. Il ticket sui farmaci sarà eliminato per le fasce più deboli e per i malati cronici e sarà tolto da alcuni medicinali. Lo ha annunciato ieri («dopo le molte perplessità registrate») l'assessore alla Sanità, Giorgio Oppi. La decisione sarà presa martedì dalla giunta regionale. Le proteste dell'opposizione, del sindacato dei medici di famiglia e soprattutto di numerosi cittadini contro la reintroduzione dei ticket, che erano stati aboliti dal governo di Centrosinistra, hanno convinto il governo sardo di Centrodestra a fare un rapido anche se parziale dietrofront. Nella tabella qui a fianco riportiamo le categorie di cittadini che non dovranno pagare neanche un centesimo di euro per avere i 604 farmaci compresi nell'elenco diramato dall'assessorato alla Sanità il 23 aprile scorso: l'elenco divideva i farmaci in due classi, la B1 (ticket del 50 per cento del prezzo) e la B2 (20 per cento). Oltre che le categorie di cittadini delle fasce più deboli e dei malati cronici, la delibera della giunta escluderà, come ha comunicato ieri Oppi, gli antibiotici, i farmaci per il sistema respiratorio nonchè i medicinali anti- asmatici, che saranno riportati in categoria A e, dunque, a totale carico del Servizio sanitario. Invece, i farmaci contro l'ipertrofia prostatica, considerata l'incidenza epidemiologica della malattia, avranno un costo di tre euro per confezione, salva la totale gratuità per le categorie esenti. «Si tratta di decisioni - ha detto Oppi in un'improvvisata conferenza stampa durante la seduta del consiglio regionale - che vengono incontro alle fasce più deboli. Va comunque ricordato che altre Regioni, adottando le disposizioni importati dalla legge nazionali, hanno assunto decisioni ben più severe e che, in ogni caso, la legge prevede che la spesa farmaceutica non possa andare oltre il tetto del 13 per cento della spesa sanitaria totale». In caso contrario «la legge prevede l'aumento dell'Irpef e l'adozione di altre forme di tassazione». L'assessore ha detto che la spesa farmaceutica in Sardegna è ora di circa il 17 per cento e che negli ultimi mesi si è avuta una tendenza al rialzo. L'operazione ticket puntava a incassare (e quindi risparmiare) qualcosa come 65 milioni di euro, mentre le esenzioni che la giunta deciderà martedì avranno un costo, per la Regione, di circa 10 mila euro. ______________________________________________________ L’Unione Sarda 10 mag. 02 I MEDICI: ORA È URGENTE L’AGENZIA DELLA SANITÀ Quello dell’assessore è un provvedimento di buon senso. Ma per uscire dall’improvvisazione bisogna programmare la politica e la spesa sanitaria, e questo può essere fatto solo istituendo rapidamente l’Agenzia regionale per la sanità». Pierpaolo Vargiu, presidente della Federazione regionale dell’ordine dei medici, torna sulla proposta di legge di cui, come consigliere regionale dei Riformatori sardi, è primo firmatario. E che staziona da mesi nella commissione sanità del Consiglio in attesa di essere esaminata. «Perché», dice Vargiu, «i cittadini, quando si prendono decisioni talvolta impopolari come questa, hanno il diritto di conoscerne i motivi. E noi, attraverso l’agenzia, dobbiamo spiegarglielo». L’agenzia avrà il compito di fornire informazioni sui bisogni di salute dei sardi, di monitorare la spesa sanitaria, di controllare le Asl e suggerire sistemi di armonizzazione delle prestazioni. Fornirebbe, insomma, dati utili a programmare la spesa in modo ottimale, ed a farla coincidere con i bisogni dei sardi. Per Vargiu «se ci fosse stata l’Agenzia, la Regione avrebbe saputo da subito - ad esempio - che alcuni medicinali ritenuti non essenziali dalla Commissione unica del farmaco, in Sardegna lo sono. E non sarebbe stato necessario fare retromarcia a otto giorni dall’applicazione dei ticket». Del resto sull’accelerazione dell’iter della legge sull’Agenzia è d’accordo anche Oppi che ritiene la proposta prioritaria rispetto ad altre. «I medici», conclude Vargiu, «su questo lo sosterranno con forza». Giorgio Congiu, a nome di Federmarma, loda «la sensibilità dimostrata dall’assessore», perché, nonostante l’obbligo di intervenire, «era necessario tener conto dell’incidenza della spesa sui cittadini meno abbienti». Congiu sa bene che la Regione sarda ha applicato «misure più basse delle altre regioni» ma ritiene che «il ministero debba rivedere il tetto del 13 per cento perché non tiene conto degli aumenti dei farmaci e delle innovazioni nel settore». Farmacisti e medici sono d’accordo su un punto: «L’industria farmaceutica deve modificare le confezioni dei farmaci per favorire il risparmio». Per capire: «I farmaci per l’ipertensione, che spesso devono essere assunti tutti i giorni per tutta la vita, hanno confezioni con poche compresse, mentre un antibiotico da usare estemporaneamente ne ha molte». Su questo punto Congiu è fortemente critico: «Il ministero non può scaricare questi costi evitabili sulle regioni, deve intervenire sull’industria. Inoltre, su questi temi, deve essere la conferenza Stato-regioni a decidere». F. Ma. ______________________________________________________ La Nuova Sardegna 10 mag. 02 LA CASSAZIONE ANORESSICI: RICONOSCIUTA L'INVALIDITÀ ROMA. La Cassazione dà il via libera al riconoscimento della pensione di invalidità per le persone colpite da anoressia e invita il ministero dell'Interno a non attenersi rigidamente ai parametri tabellari di invalidità quando si trova a valutare la situazione di persone colpite dalla "sindrome della magrezza". La Suprema Corte ha respinto un ricorso del ministero dell'Interno contro la decisione del tribunale di Catanzaro, che aveva dichiarato il diritto di una donna anoressica a ricevere la pensione di invalidità in quanto Alba F. non poteva alimentarsi, per la sua avversione verso il cibo, se non facendo ricorso alle continue cure dei familiari. La donna è alta 149 centimetri, pesa 37 chilogrammi e ha 53 anni. I giudici di Catanzaro le avevano accordato questo beneficio - su sua richiesta - accertando che non era solo il deficit intellettivo ad acquisire importanza al fine di determinare la percentuale di invalidità del suo stato patologico, perchè bisognava tenere presente che i suoi disturbi del comportamento e soprattutto il rifiuto ad alimentarsi perduravano da diversi anni e determinavano "una complessa condizione che ne inficia la possibilità di recupero". In pratica, Alba non era in grado di "svolgere un proficuo lavoro". Contro questa decisione, invano, il Viminale ha protestato in Cassazione sostenendo che la patologia anoressica comporta solo una inabilità parziale. Ma la Suprema Corte non è stata dello stesso parere. ______________________________________________________ La Nuova Sardegna 11 mag. 02 MAIDA: ENTRO L'ANNO PNEUMOCOCCO, VACCINI GRATIS SOTTO I 5 ANNI ROMA. Potrebbero essere rivisti entro l'anno i criteri per la vaccinazione contro le malattie da pneumococco (come meningiti, sepsi e polmonite, ma anche otiti e sinusiti), attualmente raccomandata solo per i bambini a rischio. Lo ha detto, al congresso mondiale sullo pneumococco concluso in Alaska, ad Anchorage, l'esperto di igiene Alessandro Maida, presidente della sezione Prevenzione del Consiglio superiore di sanità e rettore dell'università di Sassari. Entro l'anno è previsto a Roma un incontro di ricercatori, operatori sanitari e istituzioni nazionali e regionali nel quale si potrebbe discutere la revisione della norma varata con una circolare del novembre 2001 dal ministero della Salute, che suggerisce la concessione gratuita del vaccino solo ai bambini a rischio. Il vaccino, secondo Maida, potrebbe invece essere raccomandato, e quindi somministrato gratuitamente, a tutti i bambini al di sotto dei cinque anni. «D'altra parte - dice l'esperto di igiene Gaetano Maria Fara, dell'università di Roma La Sapienza - è ciò che sta già avvenendo, sulla base della loro autonomia in tema di vaccinazioni non obbligatorie, in alcune Regioni italiane». La diffusione delle malattie da pneumococco in Italia, secondo gli esperti, è probabilmente maggiore rispetto ai casi segnalati. ______________________________________________________ Il Sole24Ore 07 mag. 02 TREMONTI: SULLE INVALIDITÀ CIVILI VERIFICHE A TAPPETO Direttiva sull'azione del ministero dell'Economia ROMA - Per il ministero dell'Economia arriva la cura Tremonti. Da una parte maggiore efficienza nell'attività, con lo smaltimento, entro il 2002, di 20mila pratiche arretrate sulle pensioni e la trattazione di 20mila ricorsi amministrativi sull'invalidità civile. Dall'altra l'attuazione di misure di risparmio: dalle novità di maggior peso, come nuove procedure per l'acquisto centralizzato di prodotti sanitari, alla realizzazione di 40mila accertamenti sanitari nei confronti di titolari di invalidità civile. E poi risparmi per la spesa postale dell'invio delle pensioni di guerra. Le indicazioni sono state fornite agli stessi uffici dal ministro Giulio Tremonti nella direttiva per l'azione amministrativa e la gestione. Ecco alcune delle indicazioni operative fornite agli uffici. Smaltimento arretrati pensioni. È previsto per quest'anno lo smaltimento di 20mila pratiche arretrate relative alle pensioni privilegiate ordinarie. L'operazione, che dovrà essere conclusa alla fine di dicembre, dovrà essere realizzata contemporaneamente alla «lavorazione ordinaria» di altre 10mila pratiche. Lo «smaltimento» dovrà riguardare anche 20mila ricorsi amministrativi in tema di invalidità civile che sono già stati istruiti e che dovranno essere lavorati insieme alle pratiche di ricorso del 2002. Farmaci via Internet. Sarà ulteriormente estesa la procedura per l'acquisto online dei beni da parte della pubblica amministrazione: entro dicembre dovrà riguardare il 50% della spesa comune di tutti i ministeri (che ammonta, complessivamente, a 7 miliardi di euro). Per gli enti locali, invece, l'estensione degli acquisti in rete dovrà raggiungere il 20% della spesa (che pesa per 3 miliardi di euro). Particolari novità sono previste per la spesa sanitaria: l'acquisto di beni e servizi potrà essere fatto attraverso l'attivazione di convenzioni locali e nazionali; saranno anche creati dei centri logistici, distribuiti sul territorio, per la distribuzione di farmaci; e il meccanismo di risparmio dovrà riguardare almeno il 40% della spesa del settore, pari a 4,3 miliardi di euro. Invalidi. Parte un massiccio piano di controlli sanitari nei confronti dei possessori di pensioni di invalidità civile. Tutte le verifiche dovranno essere effettuate entro il 2002 e l'obiettivo è quello di accertare l'esistenza dell'invalidità. Da questo ci si attende, come risultato, un impatto positivo sulla spesa pensionistica. Risparmi postali. Tremonti chiede agli uffici di migliorare l'efficienza del pagamento delle pensioni di guerra e di quelle privilegiate. Per questo prevede la revisione e l'informatizzazione della procedura. Tra gli obiettivi concreti c'è anche quello di risparmiare sulle spesa postali circa 3,5 milioni di euro, un valore pari al 30% dell'attuale costo, pari a 11,6 milioni. ______________________________________________________ L’Unione Sarda 05 mag. 02 SASSARI:GUERRA TRA I CAMICI BIANCHI DIVISI DAL SUPEROSPEDALE Sanità. I medici dell’università replicano ai colleghi «Che ci piaccia o no, l’azienda ospedaliero-universitaria vedrà la luce. Bisogna piuttosto cogliere l’occasione per iniziare a discutere subito del futuro della sanità nel Sassarese». È un invito al dialogo quello che arriva da Gigliola Serra, presidente dell’Associazione dei medici ospedalieri operanti in ambito universitario. La nascita del superospedale che riunirà sotto un’unica direzione il Santissima annunziata, il Policlinico e le cliniche universitarie, non ha generato negli operatori di quest’ultima struttura, gli stessi timori che ha provocato nei dipendenti della Asl. E in un documento diffuso ieri mattina, i medici dell’Ateneo hanno spiegato le ragioni del loro sì, ma anche sollevato una preoccupazione: che si arrivi alla costituzione della nuova azienda, senza che venga compiuta la fase sperimentale prevista dalla normativa. «Non è in discussione la creazione o meno del nuovo ente - spiega Gigliola Serra - perché per legge deve essere istituito. Il grave ritardo nella sua creazione e l’incertezza che ne deriva, non possono che danneggiare l’assistenza erogata e favorire il malumore fra i dipendenti». Ma gli ospedalieri universitari hanno anche sfiorato un punto dolente su cui i colleghi del Santissima annunziata continuano a battere: chi governerà concretamente il nuovo superospedale da 1.300 posti letto. «Il timore di una prevaricazione reciproca, dell’università e della Asl, nel ricoprire i ruoli dirigenziali rappresenta un ostacolo alla nascita dell’azienda è un ostacolo - conclude Gigliola Serra - che deve essere superato dalle due istituzioni e dai dipendenti con spirito collaborativo». Pi. Ma. ______________________________________________________ Il Sole24Ore 11 mag. 02 ITALIA ULTIMA IN EUROPA SULLE TERAPIE ANTI DOLORE nonostante 206,58 milioni € erogati alle Regioni Ancora poche cure anti-dolore Barbara Gobbi L'appuntamento è per il 26 maggio, prima «Giornata nazionale del sollievo». L'occasione cioè, per promuovere e testimoniare in tutta Italia, con iniziative di sensibilizzazione e solidarietà, la cultura del sollievo dalla sofferenza fisica e morale di tutti i pazienti affetti da malattie inguaribili. Un evento soprattutto simbolico, ma tanto più necessario in un Paese che, come ricorda il Piano sanitario nazionale, è ancora fanalino di coda in Europa nell'utilizzazione dei farmaci oppiacei e nella diffusione degli hospice, i Centri per le cure palliative sul territorio nazionale. E se negli ultimi anni molto è stato fatto, soprattutto con l'adozione, nel 1999 del «Programma nazionale per la realizzazione di strutture per le cure palliative» e con lo stanziamento complessivo dei circa 206,58 milioni di euro erogati alle Regioni in due tranche, molti progetti restano ancora sulla carta. Come dire che la struttura portante c'è, ma in troppi casi si deve ancora partire. I progetti per la realizzazione degli hospice - strutture residenziali che dovrebbero costituire uno degli pilastri della rete delle cure palliative, insieme con l'assistenza domiciliare e ambulatoriale - e che ogni Regione è tenuta a inviare al ministero della Salute per aggiudicarsi i finanziamenti, sono in quasi tutte le 21 realtà italiane a buon punto. Eppure - a leggere le direttive ad hoc approvate dai singoli Governi regionali - risulta che i 155 hospice, per complessivi 1.667 posti letto, che hanno ricevuto i fondi sono ancora in fase di ideazione o in cantiere. Una "rivoluzione a metà", se solo si considera che dalla progettazione alla realizzazione delle strutture, ammesso che i lavori partano subito, trascorrono in media 300 giorni. Hospice ancora in troppi casi ben lungi dall'essere operativi, insomma, mentre sono circa 300mila le persone che ogni anno, nel nostro Paese, necessitano di terapie per combattere il dolore cronico o per alleviare le sofferenza causate dalla fase terminale di un tumore. Certo, i casi di eccellenza non mancano, spesso affidati alle singole iniziative di Regioni che, come l'Emilia Romagna, hanno giocato d'anticipo, approvando ante litteram il programma regionale sulle cure palliative e avviando l'assistenza domiciliare ai malati oncologici. O come il Veneto, che ha messo in campo, a Padova, anche un hospice per bambini. O ancora, il Lazio, che già nel 1998 aveva attivato in via sperimentale 130 posti letto in cinque centri residenziali, a Roma e a Viterbo. Per non parlare della Lombardia, che - oltre ad aver approvato la scorsa settimana una mozione ad hoc sull'uso medico della cannabis (vedi articolo in pagina) - a una rete "antidolore" già fortemente strutturata affianca l'attenzione cruciale sulla formazione: proprio nei giorni scorsi la Regione ha concluso corsi per medici e infermieri. Già, la formazione. Se anche gli hospice fossero tutti pronti, chiavi in mano, resterebbe aperto il tema spinoso della preparazione adeguata dei coordinatori e degli operatori chiamati a lavorarvi. Fermo al palo l'avvio del corso pilota nazionale di alta formazione in medicina palliativa, su cui in sede di Conferenza Stato-Regioni i Governi locali hanno sollevato obiezioni in merito ai requisiti per l'accesso degli operatori, oggi il panorama è affidato al "fai-da-te" dei corsi organizzati dalle associazioni di volontariato o dalle Regioni più attente. Iniziative più o meno strutturate, ma che necessariamente scontano l'assenza di indicatori nazionali. «Un fai-da-te - commenta infatti Giorgio Trizzino, già membro della revocata commissione ministeriale sulle cure palliative - che rischia di creare percorsi disomogenei. Del resto, fino a oggi l'unica iniziativa a carattere nazionale si è risolta, nel 2001, in un corso dell'Istituto superiore di Sanità destinato a pochi formatori in cure palliative. Quanto al corso pilota nazionale, superata l'impasse che ne lo ha bloccato, il via libera dovrebbe arrivare in una delle prossime conferenze Stato-Regioni». Intanto, ancora lontana l'ipotesi di una specializzazione universitaria in cure palliative, l'alternativa su cui i ministeri della Salute e dell'Università stanno lavorando è la via più breve di master, rispettivamente di primo e di secondo livello, per infermieri e medici. Formazione in alto mare, non meno della realizzazione degli hospice, dunque. Ed ecco il terzo neo: l'individuazione di indicatori di qualità dei percorsi assistenziali, necessaria per far partire col piede giusto strutture e reti di assistenza. Ma su questi, promette Trizzino, siamo in dirittura d'arrivo. «E' ormai pronto sul tavolo del ministro della Salute - spiega - un decreto che propone un modello molto esaustivo su indicatori di qualità differenziati per la rete di assistenza in generale, per l'assistenza domiciliare, per strutture hospice. Prima dell'estate ci aspettiamo la firma del ministro». La speranza è che non resti, di nuovo, tutto sulla carta. ______________________________________________________ L’Unione Sarda 08 mag. 02 MICROCITEMICO: GRAVIDANZE CON MENO RISCHI Pubblicati sulla rivista “Lancet” i risultati di uno studio effettuato all’ospedale Un metodo senza rischi per scoprire la sindrome di Down È il terrore delle mamme in attesa di un bimbo: si chiama Sindrome di Down (o Trisomia 21), malattia genetica causata dalla presenza di un cromosoma in più nelle cellule di un individuo. Esistono già metodi sperimentati per individuarla nei feti, ma d’ora in poi la diagnosi sarà più facile (e meno pericolosa) grazie allo studio eseguito da un’équipe di ricercatori cagliaritani, pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Lancet. Si tratta del team diretto da Giovanni Monni, responsabile del Servizio di ginecologia, diagnosi prenatale e preimpianto dell’ospedale Microcitemico della Asl 8 di Cagliari. Il nuovo test si esegue con un’ecografia del piccolo osso nasale del nascituro nel periodo compreso tra l’11ª e la 14ª settimana di gravidanza. L’assenza di quest’ossicino significa, nel 70 per cento dei casi, che si è in presenza della Sindrome di Down. L’esame viene associato a un altro, ormai collaudato, chiamato Translucenza nucale, basato sulla misurazione di un liquido che si accumula alla base della nuca del feto malato. «La Translucenza nucale - spiega Monni - consente di individuare l’80 per cento dei feti con Sindrome di Down. Associando anche la valutazione dell’osso nasale, si arriva a una percentuale del 90 per cento». Elevatissima. Ma per diagnosticare con certezza assoluta la malattia si deve ricorrere all’amniocentesi o alla villocentesi, esami che comportano (nell’uno per cento dei casi) il rischio di aborto. Proprio per evitare pericoli del genere (provocati dall’inserimento di un ago nell’utero in gravidanza) la ricerca batte la strada degli esami incruenti. «I primi risultati sull’associazione tra l’assenza dell’osso nasale e sindrome di Down - precisa Monni - sono stati pubblicati alla fine del novembre 2001 dal gruppo di Kypros Nicolaides, di Londra, in uno studio condotto su 701 feti di donne ad alto rischio Down. Ora sono stati confermati dalla recentissima ricerca eseguita presso l’ospedale Microcitemico di Cagliari, su una popolazione di 880 donne gravide non selezionate, pubblicata nell’aprile scorso dalla rivista Lancet. «L’utilità di questa nuova tecnica - conclude Monni - consiste nella possibilità di associare lo studio dell’osso nasale al test della Translucenza nucale con un significativo aumento dell’accuratezza della diagnosi». L’indagine compiuta dall’équipe del Microcitemico (Giovanni Monni, Maria Angelica Zoppi, Rosa Maria Ibba) consente di fare un passo avanti nel campo della prevenzione di una malattia accertata in un caso ogni 700 nascite. I tutto attraverso esami non pericolosi (una semplice ecografia) che escludono, salvo nelle eventualità più gravi, l’angoscioso ricorso ad Amniocentesi e Villocentesi. Perché le nuove tecniche possano dare risultati attendibili è però necessario che siano applicate in istituti accreditati. Tra questi figura l’ospedale Microcitemico di Cagliari, primo in Italia (nel 1966) per la misura della Translucenza nucale. Credenziali confermate da un’ampia casistica, seconda a livello internazionale solo a quella di Londra: sinora nell’ospedale dalla Asl 8 sono stati eseguiti 18 mila esami. Ogni anno la misurazione della Translucenza nucale viene eseguita in più di 5000 feti, cioé in oltre un terzo dei neonati sardi (nell’isola nascono infatti circa 13 mila bambini). Di recente nell’ospedale di via Jenner è stato eseguito uno screening basato sulla diagnosi della Sindrome di Down con la Translucenza nucale, grazie al sostegno dell’assessorato regionale alla Sanità, della Asl 8 e della Fondazione Banco di Sardegna. Oggetto della ricerca, una popolazione omogenea di 12.495 donne gravide. I risultati hanno confermato la mancanza di sostanziali differenze etniche nella misura della Translucenza rispetto al centro di Londra. E sono stati pubblicati nella rivista ufficiale dell’Isuog (International Society of Ultrasound in Obstetrics and Gynecology). Aldilà dell’indubbio valore scientifico, i risultati delle ricerche al Microcitemico rappresentano un fatto positivo per tanti genitori sardi che nell’ospedale cagliaritano trovano tecniche di diagnosi avanzate. Proprio quelle che consentono di portare avanti le gravidanze all’insegna della più assoluta serenità. Lucio Salis ______________________________________________________ L’Unione Sarda 05 mag. 02 MALATTIE REUMATICHE: DIECIMILA SARDI SOFFRONO DI ARTRITE Sono diecimila in Sardegna le persone affette da artrite reumatoide, una grave malattia cronica che coinvolge l’organismo, con lesioni alle articolazioni, soprattutto mani, ginocchia e piedi. Una terapia biologica innovativa apre oggi nuove speranze ai malati. Pare infatti che i nuovi farmaci siano in grado di rallentare la progressione della malattia e migliorare la qualità di vita del paziente. Per verificare l’efficacia e la tollerabilità di questi farmaci il Ministero della salute ha promosso uno Studio osservazionale, che prevede la somministrazione gratuita del farmaco ai casi più gravi. Nell’Isola ci sono tre centri “Antares” abilitati alla terapia, due a Cagliari e uno a Sassari. Ma dei duecento pazienti sardi ritenuti gravi, solo dieci stanno seguendo il trattamento. «Il problema è che queste terapie (dette anti-Tnf-a) sono costose, ventimila euro per un anno di cure per un solo malato», spiega Ivan Picciau, presidente dell’Asmar l’Associazione sarda malati reumatici, «e non ci sono i fondi per garantire la terapia a tutti i pazienti che ne hanno diritto». Ieri durante il convegno “Nuovi orizzonti nella cura e assistenza delle malattie reumatiche”, si è cercato di trovare una risposta al problema. Oltre ai medici e ai malati, erano presenti anche le massime autorità provinciali e comunali, che si sono impegnate a trovare i fondi. La strada proposta dal presidente della Provincia Balletto è quella del decentramento e della federalizzazione per gestire al meglio le risorse nel settore della sanità. Raimondo Ibba, consigliere regionale e presidente dell’ordine dei medici di Cagliari ha affermato che «il primo passo da compiere è quello di spendere razionalmente i soldi a disposizione della Regione, per evitare sprechi inutili di denaro pubblico » e ha poi aggiunto che le malattie reumatiche non devono essere considerate - come accade - malattie di serie B, e per ogni singolo paziente si deve trovare la cura più appropriata. In ogni caso la cosa più importante per la cura della malattia, si è ripetuto durante il convegno, rimane la diagnosi precoce, oggi possibile grazie agli strumenti in possesso dei medici, e la prevenzione delle malattie soprattutto attraverso una maggiore informazione. Perché l’artrite non sia più, per diecimila sardi, quel male incurabile che oggi li affligge come un incubo. Alice Guerrini ______________________________________________________ L’Unione Sarda 08 mag. 02 CAGLIARI: QUANDO L’ALGA DIVENTERÀ ANTIBIOTICO Presentati ieri al Lazzaretto i risultati delle ricerche del consorzio Biotecne Le nuove frontiere? Medicina, cosmesi e fitodepurazione Può un’alga diventare un antibiotico? E antitumorale, proteina, integratore alimentare per animali, crema di bellezza? L’idea è geniale: estrarre da alghe e piante acquatiche prodotti preziosissimi da reindustrializzare o immettere direttamente sul mercato. Il costo della materia è zero: le alghe o si coltivano in laboratorio, o si trovano in natura, nelle lagune e nelle paludi, e in Sardegna ce ne sono a migliaia. Biotecnologia, si chiama questa scienza. Che trova applicazione nella biomedicina, nella microbiologia, nella biologia molecolare. E nell’ingegneria genetica, nella bioinformatica, nell’ingegneria impiantistica ed energetica, nella gestione d’impresa. Quel prefisso bio, racchiude tutto un mondo di studi e ricerche «che offrono nuove vie, validissime, per affrontare problemi fondamentali del nostro tempo». A spiegarlo è Carlo Muntoni, fisico, presidente di Biotecne, consorzio per le ricerche e lo sviluppo delle biotecnologie, nato nell’89 con tre indirizzi funzionali: un’area di ricerca scientifica, un’area gestionale, e un’area di ingegnerizzazione dei risultati e della realizzazione industriale. Il frutto di questi lavori, portati avanti con la collaborazione dell’Università, sono stati presentati ieri mattina al Lazzaretto durante una giornata di studi incentrata proprio sull’ottenimento di biomasse e farmaci da alghe e piante acquatiche. Prendiamo gli omega tre, acidi grassi essenziali, acidi anticolesterolo, indispensabili nell’alimentazione: vengono estratti soprattutto dal pesce, «ma riuscire a estrarli anche dall’alghe sarebbe un grande traguardo per la scienza», continua Muntoni. Prendiamo gli antibiotici: la Regione ha finanziato la ricerca con trecento milioni, e oggi Biotecne, con gli studi guidati da Raffaello Pompei, direttore dell’area scientifica del consorzio, inizia a raccogliere i primi risultati dopo due anni di lavoro. «Siamo alla prima fase di studio, in laboratorio», spiega Pompei, «il passo successivo sarà il test sugli animali e poi sull’uomo». Perché si arrivi al prodotto finito servono dieci, dodici anni. Ma il tempo impiegato sarà ampiamente ripagato dalle possibilità che verranno a spalancarsi: basti pensare che un impianto di produzione come quello a cui lavorano i ricercatori Biotecne è in grado di produrre da solo 360 litri di alghe. Il sindaco Emilio Floris, che ieri ha partecipato alla tavola rotonda, ne è certo: «C’è grande necessità di attivare progetti concreti per trattenere in Sardegna le nostre intelligenze e utilizzare i risultati delle loro ricerche sul piano industriale». Perché se antibiotici e antitumorali sono ancora studio da laboratorio, la fitodepurazione delle acque reflue urbane e industriali e l’utilizzo di alghe per l’eliminazione di inquinanti metallici dagli scarichi sono realtà. Presentati al Lazzaretto da Giuseppe Rivoira dell’Università di Sassari e Laura Durante, biologa al dipartimento di Sanità pubblica guidato da Antonio Contu, aprono nuove prospettive, reali, concrete, tecniche alternative agli impianti industriali, ugualmente funzionali, con un costo ridotto. «E l’impresa che guarda a nuove risorse», sottolinea Andrea Sechi, presidente dell’Api Sarda, «non può non indirizzare le sue forze verso la biotecnologia». Per una migliore qualità della vita. In greco, bios. Francesca Figus ______________________________________________________ Le Scienze 08 mag. 02 GENETICA ED EPILESSIA Studiate le mutazioni di 14 membri di una famiglia franco-canadese Un gene che causa l'epilessia mioclonica giovanile che, come dice il nome stesso, inizia a presentare sintomi fin dall'adolescenza è stato identificato da alcuni ricercatori della McGill University di Toronto. La scoperta è stata annunciata sulle pagine della rivista «Nature Genetics». I ricercatori hanno identificato il gene, chiamato GABRA, studiando i 14 membri di una famiglia franco-canadese, e trovando mutazioni identiche del gene in ben otto persone affette dalla malattia. I sei membri restanti, sani, non presentano mutazioni. Secondo Guy Rouleau, le mutazioni di questo gene svolgono un ruolo fondamentale nel determinare se un individuo è rischio di sviluppare la malattia. In effetti, il gene è noto per il suo ruolo nella trasmissione dei segnali cerebrali. Il problema, in questi casi, è quello di capire se i risultati possono essere applicati al resto della popolazione, o se la mutazione è tipica solo di una famiglia in particolare. ______________________________________________________ L’Unione Sarda 07 mag. 02 DEPRESSIONE INFANTILE. SI FA LUCE su una malattia per troppo tempo considerata quasi tabù Quel piccolo male oscuro In ogni classe c’è un bambino che accusa disturbi psichici Carlo sembrava un bambino come gli altri. Tendeva solo a isolarsi, non gli piaceva giocare, non si appassionava allo sport e neppure alla Tv. Stava bene solo in casa. “È un po’ chiuso” dicevano i genitori. Enrico invece era la classica “peste”. Sempre in moto, irritabile, picchiava i compagni, a scuola disturbava le lezioni. Così, poco per volta, è rimasto isolato. Il coach del minibasket lo teneva in panchina, nessuno lo invitava alle feste di compleanno. «È molto vivace» lo giustificavano in casa. Non è facile riconoscere di avere un figlio diverso dagli altri. Per questo il papà e la mamma di Carlo ed Enrico si sono rivolti a uno psichiatra infantile. E hanno scoperto che i loro piccoli soffrivano di depressione, malattia che colpisce i bambini come gli adulti. E fortunatamente, come gli adulti, anche i mini pazienti possono guarire dal “male oscuro”. È una malattia subdola la depressione infantile. Non facile da individuare, perché si può confondere con situazioni non patologiche. Come la demoralizzazione per l’incapacità di fare qualcosa, o il dolore provocato dalla perdita di una persona cara. Allora, come riconoscerla senza commettere errori? «La vera depressione può presentarsi in due forme - spiega Alessandro Zuddas, neuropsichiatra infantile all’Università di Cagliari- : una, più lieve, è la cosiddetta distimìa, il bambino, come capita agli adulti, si sente inadeguato rispetto agli altri. Più grave è invece se il bimbo si chiude in se stesso, mostra disinteresse per tutto, piange spesso, oppure diventa irritabile sino a giungere a forme di eccitamento maniacale. Sono forme molto diffuse, si ritiene che ci sia almeno un caso in ogni classe». Per il medico, formulare la diagnosi non è certo difficile, ma i genitori come fanno a rendersi conto che il loro bambino è malato? Quali segnali devono cogliere senza rischiare l’errore? «È importante - spiega Zuddas - che si rendano conto quando i loro figli sono emarginati, non possono fare le stesse cose, non possono avere le stesse esperienze dei loro coetanei. È un primo campanello d’allarme che deve indurli a una sorta di esame di coscienza, per capire cosa la famiglia o la scuola fa mancare ai piccoli. Questo non significa che debbano azzardare diagnosi. Devono solo comportarsi come “primi esperti” dei loro figli, poi rivolgersi al medico senza paura di sbagliare. È meglio togliersi ogni dubbio che rischiare di avere un bambino depresso». Non è agevole per papà e mamme accettare il fatto che i loro figli hanno bisogno delle cure dello psichiatra. Anche di fronte all’evidenza, c’è la tendenza a minimizzare, giustificare, non vedere. Eppure i disturbi mentali nell’infanzia sono più diffusi di quanto si creda. I dati internazionali dicono che dal 10 al 20 per cento dei bambini avrebbero genericamente bisogno dell’aiuto dello psichiatra; il 10 per cento soffre di disturbi diagnosticabili ma solo una percentuale oscillante tra il 3 e il 5 per cento viene visitata. «Questo significa - precisa Zuddas - che molti bambini bisognosi di aiuto non vengono seguiti». Ma quanti, tra i piccoli pazienti, possono essere definiti depressi? La media indica un 2,5 per cento con disturbi di tipo depressivo, di cui almeno lo 0,5 in forma severa. «Questo significa - spiega Zuddas - che il bambino vive in una situazione grave, perde fasi fondamentali della sua vita e corre grossi rischi. Perché anche i bambini (anche se i casi sono pochi) si suicidano». Nel mondo piccolo la depressione è diffusa più tra i maschietti che tra le femminucce. Almeno nella cosiddetta “età scolare”, mentre nella fase dell’adolescenza, dopo i 14 anni, le patologie psichiatriche colpiscono di più le ragazzine. All’origine del male oscuro, ci sono cause biologiche, legate al patrimonio genetico, ma anche esperienze di vita, emozioni. In pratica, la malattia diventa il frutto di una sorta di mediazione tra il cervello del piccolo e le sollecitazioni che riceve dall’esterno. I soli traumi però non spiegano la nascita della depressione, altrimenti tutti i bimbi che hanno vissuto eventi drammatici sarebbero depressi. «Proprio quelli che sono riusciti a superali e a vivere bene - dice Zuddas - rappresentano un importante campo di studio, perché solo se si capisce quali sono i fattori di rischio e quelli di resistenza si possono aiutare gli altri bambini». Obiettivo della ricerca della psichiatria mondiale è capire quando il paziente è predisposto, anche se non è detto che si ammalerà. L’importante è però avvertire i genitori sulle sue reali esigente, ad esempio, rispetto ai fratellini. Il traguardo finale, ovviamente, è la diagnosi precoce, «ma siamo ancora molto lontani», avverte Zuddas. Riguardo alle cure, invece, la neuropsichiatria infantile sta compiendo enormi progressi. L’arma vincente è rappresentata da un mix di psicoterapia, più (se necessario) farmaci. «Sino a qualche tempo fa - spiega Zuddas - le medicine efficaci negli adulti non avevano lo stesso successo nei bambini, con in più effetti collaterali piuttosto importanti. Negli ultimi anni, studi finanziati dal ministero della Sanità degli Stati uniti (le industrie non ritengono significativo questo “mercato”) hanno individuato prodotti come Prozac, Zolost e altri che nei bambini fronteggiano bene i disturbi d’ansia e benissimo quelli depressivi. Il primo approccio resta comunque quello psicoterapeutico». Anche i bambini dagli strizzacervelli? Sì, se questo serve a limitare il rischio che diventino adulti depressi o ansiosi Ma è solo una precauzione, perché - avverte Zuddas - «oggi non abbiamo certezza di poter ipotecare il loro futuro». Lucio Salis ______________________________________________________ Le Scienze 08 mag. 02 COME INTERPRETARE IL GENOMA UMANO? Per le applicazioni terapeutiche occorre molta prudenza, come ha dimostrato il caso del gene dell'obesità Riuscire a ottenere la sequenza dell'intero genoma umano è stata un'impresa eccezionale, ma la vera difficoltà è ora quella di interpretare questa massa di dati ed estrarre le informazioni che possono servire a curare molte malattie. In un articolo pubblicato sulla rivista "Science", Steven Benner, dell'Università della Florida, ha affermato che una possibile strada è quella di connettere la storia dei geni e delle proteine con le registrazioni fossili della storia umana e preumana. "Il passato è la chiave per il presente," dice Benner. "Capendo come le proteine si sono evolute con la storia del pianeta, possiamo capire meglio come funzionano oggi." Le proteine controllano le funzioni della vita e per capire come esse si siano evolute, i genetisti molecolari estraggono informazioni a proposito dei loro antenati cercando somiglianze nelle sequenze geniche, che codificano le informazioni per la sintesi proteica. Le somiglianze vengono poi utilizzate per ricostruire la sequenza degli aminoacidi delle proteine antiche e per sintetizzarle in laboratorio. Il passo successivo è quello di datare gli eventi che hanno prodotto le proteine e i geni a esse associati. Con questi dati in mano, i ricercatori possono poi cercare gli eventi che hanno creato i geni nelle registrazioni fossili. Come esempio di come questo approccio possa aiutare la ricerca di terapie, Benner cita il caso del gene per la leptina, il cosiddetto gene dell'obesità. Alcuni ricercatori della Rockfeller University scoprirono il gene nei topi nel 1994 e, quando lo eliminarono, gli animali divennero obesi, facendo credere che un simile meccanismo funzionasse anche per gli esseri umani. In realtà, si riuscì a concludere che la leptina svolge un ruolo nell'obesità solo in alcune persone. Secondo Benner, esaminando la storia della famiglia dei geni della leptina si può concludere che essa subì una rapida evoluzione tra 40 e 50 milioni di anni fa, dopo la divergenza fra i roditori e i primati. Questo suggerisce che anche la sua funzione nel corpo cambiò rapidamente, mentre i primati si spostavano verso la cima della catena alimentare. ______________________________________________________ L’Espresso 05 mag. 02 QUOZIENTE DI INTELLIGENZA HOMO STUPIDUS Tv, computer, benessere, vita frenetica: sono alcune delle cause che bloccano lo sviluppo dell'intelligenza. Lo dimostra uno studio. Che spiega come cambia il nostro modo di ragionare di Giovanni Sabato Homo sapiens sta diventando stupido? Computer, televisione e videogame stanno affossando quella sapienza di cui la specie umana va così fiera da averne fatto il proprio nome? L'allarme giunge dalla Danimarca: il quoziente di intelligenza dei giovani danesi, il cosiddetto QI, negli ultimi anni ha dato inizio a un imprevisto trend verso il basso. Per ora è soltanto un accenno osservato in un solo, piccolo paese del Nord Europa. Ma se il fatto troverà riscontro, si tratterà di una decisa inversione di tendenza, perché negli ultimi decenni i quozienti intellettivi delle popolazioni dei paesi industrializzati avevano fatto registrare una crescita ininterrotta. È il cosiddetto effetto Flynn, dal nome del docente di scienze politiche dell'Università neozelandese di Otago, James Flynn, che per primo lo ha scoperto e raccontato. Nel 1987 Flynn pubblicò uno studio che dimostrava come in 14 diversi paesi industrializzati, dall'Europa al Nord America, dall'Oceania al Giappone, i test che misuravano le capacità di ragionamento dei giovani mostravano tutti una tendenza alla crescita nel tempo; a partire dai primi dati, raccolti negli anni Cinquanta, si arrivava anche a 25 punti sui 100 che costituiscono la media della popolazione. In molti casi si trattava di test proposti alle reclute militari, rappresentativi quindi dell'intera popolazione. La crescita è stata tumultuosa, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta; poi ha iniziato a segnare il passo, finché è arrivata la doccia fredda: in Danimarca, dove dal 1957 tutte le reclute svolgono lo stesso test, dal 1999 i risultati hanno imboccato decisi la strada del peggioramento. Lo stesso Flynn ha tenuto a sdrammatizzare sul significato di tutto ciò, sottolineando che «le misure dei quozienti di intelligenza sono un'approssimazione molto parziale delle capacità intellettive: nella vita reale non ci sono segni che dicano che, negli ultimi decenni, l'umanità abbia conosciuto un'epoca di eccezionale ricchezza intellettuale, una sorta di nuovo Rinascimento. Anche se i dati danesi dovessero quindi davvero essere la spia di un cambio di rotta generale e duraturo, non vedo motivi di preoccupazione». Del resto, anche volendo, è difficile immaginare che cosa si potrebbe fare per contrastare l'eventuale declino, dato che nessuno ha ben chiaro a cosa sia stata dovuta finora la crescita: sono stati chiamati in causa i miglioramenti delle condizioni di vita, e in particolare della nutrizione, come anche la scolarizzazione, ma nessuno ha potuto fornire un'interpretazione convincente. Per spiegare la recente inversione di tendenza si è parlato (a livello di ipotesi) di un calo delle motivazioni legato al benessere. Nessuna teoria, però, convince fino in fondo: le carestie in alcuni paesi europei durante l'ultima guerra, per esempio, non hanno scalfito i progressi di chi allora era bambino, e i tipi di test più legati alle prestazioni scolastiche sono proprio quelli in cui si sono avuti i progressi meno brillanti. Le variazioni infatti, nel bene e nel male, non sono state le stesse per tutti i tipi di abilità misurate. L'aumento ha riguardato soprattutto le capacità visivo-spaziali, in pratica quei test in cui bisogna scegliere la figura geometrica che meglio completa una serie, mentre le capacità verbali e numeriche hanno avuto tutt'al più crescite minori.«Quello che cambia non è tanto l'intelligenza in sé, ma l'impiego che si fa della mente a seconda delle circostanze», spiega Alberto Oliverio, psicobiologo dell'Università La Sapienza di Roma: «L'intelligenza intesa in senso generico è una pura astrazione: include infatti una gamma di capacità distinte che si sviluppano in modo diverso. Quelle motorie e visive sono cresciute perché al giorno d'oggi sono le più stimolate. Dai videogame, certo, ma più in generale da tutto il modo di essere della società, dai ritmi dettati dalla televisione e dal computer. Del resto, anche senza fare inchieste specifiche, basta ascoltare un qualunque insegnante: i ragazzi sono molto più abili dei loro genitori nei compiti che richiedono rapidità, più pronti a reagire in tempi brevi, perché abituati a stimoli veloci e numerosi; e, nello stesso tempo, sono meno attenti, perché meno disposti a restare concentrati a lungo su una stessa cosa. Oppure, basta prendere un film degli anni Cinquanta: un ragazzo lo trova insopportabilmente lungo e lento e, se non è un cinefilo appassionato, difficilmente lo accetta». Insomma, quello che sta cambiando è probabilmente il modo di pensare come riflesso dei mutamenti del vivere. «Le capacità linguistiche tendono a diminuire, perché cala la pratica nella popolazione, almeno in media» osserva Oliverio: «Comunque, non è il caso di turbarsi troppo Certo, fa impressione vedere fenomeni del genere, ma è come per l'abitudine, ormai invalsa tra i giovanissimi, di schiacciare i tasti del telefonino con il pollice: chi è da sempre abituato a fare i numeri con l'indice resta colpito, ma è un adattamento normale. All'inizio del Novecento molti erano choccati dal cinema, una novità che ha provocato la ribellione di movimenti intellettuali, timorosi dei danni che avrebbe causato alle facoltà mentali». E, in tempi ben più antichi, Platone esprimeva nel Fedro tutte le sue perplessità di fronte a un'innovazione tecnologica che, a suo dire, avrebbe portato senza scampo a una catastrofica atrofia della più preziosa facoltà umana, quella della memoria: la scrittura. ______________________________________________________ La Nuova Sardegna 07 mag. 02 BERE IL TÈ PRESERVA DALL'INFARTO WASHINGTON. Tè del miracolo: un forte consumo di tè - rivela una nuova indagine scientifica - dminuirebbe clamorosamente i rischi di morte per infarto. Secondo i risultati dello studio, realizzato alla Harvard medical school su 1.900 pazienti che erano stati colpiti da infarto, i malati abituati a bere circa 19 tazzè di tè a settimana (poco meno di tre al giorno) hanno evidenziato il 44% in meno di rischi di morte nei tre anni successivi all'attacco cardiaco di chi non consumava tè. I bevitori 'moderati' di tè (meno di 14 tazze a settimana) hanno mostrato un tasso di mortalità, nello stesso periodo successivo ad un infarto, inferiore del 28% rispetto alla media. A riconoscere la significatività dei dati è stato lo stesso autore dello studio Kenneth Mukuami: "La magnitudo dell'associazione tra consumo di tè ed abbassamento della mortalità tra i bevitori soggetti ad infarto è risultata molto più forte di quanto ci saremmo mai aspettati". I ricercatori - che hanno pubblicato il rapporto sulla rivista scientifica 'Circulation' - ritengono che tra le sostanze protettive della funzionalità cardiaca contenute nel tè sia chiave il ruolo svolto dai 'flavonoidi': antiossidanti naturali presenti in molte piante ed in alta concentrazione nel tè, secondo quanto hanno appurato i ricercatori americani, con benefici effetti contro l'infarto.