SCIENZA E POLITICA: LA RICERCA NELLE GRINFIE DEL POTERE LETTORI STRANIERI, SUPERMULTA UE ALL’ITALIA ORNAGHI «LA MIA UNIVERSITÀ, AVAMPOSTO DEI CATTOLICI» IL FASCINO APPANNATO DELLA RICERCA APERTE LE PRESCRIZIONI ALLA FACOLTÀ DI ARCHITETTURA SASSARI ANCHE NEL 2003 LO STATO NON FARÀ ASSUNZIONI IL NON PROFIT FA BENE ALL'ECONOMIA IL POETTO SI COLORA DI NERO =========================================================== AL DECOLLO LA RIFORMA DEI MEDICI VARATA LA RIFORMA SUI MEDICI: REVERSIBILE LA SCELTA DELL’ESCLUSIVITÀ RIMBORSATI SOLO I FARMACI CON IL PREZZO PIÙ BASSO INDAGINE DEL CENSIS SUL RAPPORTO CON I MEDICINALI. AIDS SEMPRE PIÙ MALATTIA DELLA COPPIA NORMALE OCCHIO ALLA TROMBOSI SENTINELLA HIV, SIAMO SOLO ALL'INIZIO? UN GENE DEL RITARDO MENTALE UNA NUOVA TERAPIA CONTRO L'AIDS L´OBESITÀ, LA NUOVA MALATTIA ITALIANA =========================================================== ______________________________________________________________________________ Il Messaggero 01 lug. ’02 SCIENZA E POLITICA: LA RICERCA NELLE GRINFIE DEL POTERE E’ una “relazione pericolosa” da sempre. Ma fino a che punto un fisico o un biologo possono sottrarsi ai condizionamenti dei governi? A Spoleto ne discutono studiosi di tutto il mondo. Con preoccupazione. E anche ottimismo La ricerca nelle grinfie del potere di PIETRO M. TRIVELLI Spoleto OCCHIO al "triangolo di ferro". E’ una formula geometrica per spiegare come scienza e politica, anziché integrarsi per il bene dell’umanità, siano sempre in guerra tra loro. In un angolo ci sono i politici, timorosi di scelte che dispiacciano agli elettori, e perciò ben contenti di scaricarne la responsabilità sugli scienziati. Questi si collocano nel secondo angolo, soddisfatti di ottenere risorse per le loro ricerche, con qualche rinuncia "ideologica". E nel terzo angolo? Qui sono appollaiati gruppi di pressione di ogni specie e latitudine: dalle multinazionali dell’alta tecnologica ai "persuasori occulti" a caccia di dati che scatenino campagne mediatiche pro o contro scoperte e rimedi del progresso, per giustificare scelte commerciali più che sociali. La lezioncina del "triangolo" viene da un giovanotto allevato a pane e scienza: Roger Pielke, brillante ricercatore dell’università del Colorado. Cita la ricorrente diatriba sul surriscaldamento del pianeta ("effetto serra" e via dicendo), basata su ricerche che divergono a seconda di chi le fa. Come nel caso della Commissione che in America prevede per il 2100 un aumento della temperatura terrestre sensibilmente variabile, da 1,4 a 5,8 gradi. «La scienza - dice Pielke - diventa terreno di scontro del potere politico, e ne fa propri il ricorso alla propaganda e la voglia di vincere a ogni costo, ingenerando una confusione tipica della pratica politica». Forte della definizione del chimico Henry Bauer, secondo cui la scienza è come «un mosaico di convinzioni di tante piccole comunità scientifiche», il giovane Pielke queste cose le ha appena scritte sull’autorevole Nature, e le ha ribadite all’apertura della XIV edizione di Spoletoscienza: che al Festival dei due Mondi diventa "festival nel festival" - mondo della scienza e mondo dell’arte - come dice Pino Donghi, segretario generale della Fondazione Sigma Tau che ne è promotrice. Quest’anno, infatti, l’appuntamento si triplica in tre tornate, per discutere di "governo della scienza", di "differenza" e di "identità" (con intermezzi di dibattiti e presentazione di libri: Einstein e il ciabattino, di Pietro Greco; Faccia a Faccia, di Luigi Vaccari). Quasi tutti giovanissimi i relatori di Spoletoscienza 2002, e forse per questo meno catastrofici dei loro maestri. Accanto a Roger Pielke (secondo cui uragani e inondazioni fanno più danni di "mucca pazza"), si è esibito il danese Bjorn Lomborg, trentasettenne, docente di statistica, autore dell’Ambientalista scettico, dove sostiene che è fuorviante la "litania" sul deterioramento della Terra, sul crollo dell’ecosistema globale, sull’estinzione di 40.000 specie viventi, come si ripete piangendo sulla "pessima salute" del pianeta, malato soprattutto di "autodistruzione". Stavamo meglio prima? Nel 1920 si calcolava che le fonti energetiche fossili (specie il petrolio) si sarebbero esaurite in dieci anni, e invece le scorte aumentano di pari passo con i consumi, grazie a migliori tecniche di sfruttamento delle risorse. C’è sempre più cibo, anche nei paesi in via di sviluppo, dove la percentuale di chi soffre la fame è scesa al 18 per cento, dal 45 del 1949, e si ridurrà al 6 per cento nel 2030. Un rapporto delle Nazioni Unite dimostra che in questi stessi paesi la produzione agricola è cresciuta del 52 per cento. Da cinquant’anni la povertà nel mondo è diminuita più che negli ultimi cinque secoli. Quanto all’ambiente, non sarebbe vero che le piogge acide distruggono le foreste, mentre aria e acqua diventano sempre meno inquinate. Un inno alle "magnifiche sorti e progressive"? No, Lomborg non ci crede, da bravo "ambientalista scettico". Però avverte: «Dobbiamo abbandonare la mitica "litania" dei pessimisti e concentrarci sui fatti, perché c’è ancora molto da fare». L’invito alla ragionevolezza di un vigile ottimismo si confronta con la "dimensione emotiva", come un altro ricercatore, l’americano Henry Miller dell’università di Stanford, chiama certe reazioni della gente. «Troppo spesso - spiega Miller - paure e rischi, pur inevitabili, si rifanno ad aneddoti, senza approfondimento. Mentre valutare i pericoli è una questione di probabilità e non di precisione delle prove scientifiche concrete, che comportano sempre un margine d’incertezza». "Mucca pazza", ad esempio, ricorrente incubo del nostro tempo, ha una storia ultrasecolare. Lo ha ricordato Paul Anand, direttore di ricerca in Economia all’Open University di Londra. Risale al 1886 il primo caso riscontrato su un certo quantitativo di latte: data di nascita di un "fenomeno" che all’economia inglese è già costato quattro miliardi di sterline. Paure e rischi diventano più pressanti quando si tratta di manipolazioni genetiche che dividono lo stesso mondo della ricerca. Anche in questo caso funziona il "triangolo di ferro", i cui lati si moltiplicano in figure geometriche più complesse, a giudicare dagli interessi in campo e dalla delicatezza di esperimenti che toccano i nervi dell’etica. E’ il caso delle cellule staminali, che contengono informazioni genetiche per dare origine ad altre cellule dell’organismo adulto, come ha ripetuto a Spoletoscienza il direttore dell’Istituto di ricerca del San Raffaele di Milano, Angelo Vescovi (ben distinguendone i diversi tipi), utili come «armi preziose per guarire patologie degenerative finora incurabili». «Se mi chiedessero se sono o no d’accordo sull’uso di embrioni umani per la sperimentazione scientifica, senza specificare quali embrioni e per quale sperimentazione, mi rifiuterei di rispondere a questa domanda priva di senso. Essere a favore della sperimentazione, non significa acconsentire a qualsiasi tipo di utilizzazione», afferma Gilberto Corbellini, cattedra di Storia della medicina e Bioetica alla Sapienza di Roma, il quale osserva come in questo caso siano fuorvianti tanti sondaggi, con risultati contrastanti. «I sondaggi d’opinione sulle biotecnologie - spiega Corbellini - stanno influenzando pesantemente il governo politico della scienza». Ed eccoci ancora al "triangolo di ferro". Negli Stati Uniti il presidente Bush ha rivisto le proprie convinzioni, proprio a proposito delle cellule staminali (annunciando di finanziarne la ricerca, nel discorso del 9 agosto 2001), dopo che gli ultimi sondaggi davano al 60 per cento la popolazione favorevole alla sperimentazione genetica. Ma certi "triangoli" li avevano già studiati i classici della scienza, come Bacone che parlando ancora in latino sentenziava: «Scientia et potentia humana in idem coincidunt». Ieri come oggi: scienza e potere coincidono alla perfezione, anche da opposte barricate. ______________________________________________________________________________ Il Messaggero 01 lug. ’02 LETTORI STRANIERI, SUPERMULTA UE ALL’ITALIA di ORAZIO PETROSILLO ROMA - Per lo Stato italiano, un’incredibile brutta figura. Si è già meritato quattro sentenze di condanna dalla Corte Europea di Giustizia. E si prepara a pagare una multa che ammonta già ad una cinquantina di milioni di euro (poco meno di un centinaio di miliardi di lire) ed aumenta di 20.000 euro al giorno: un importo di gran lunga superiore all’occorrente per mettersi in regola. E tutto questo per violazione dei diritti di "appena" alcune centinaia di lettori di lingua straniera (docenti stranieri che insegnano la propria madre lingua) nelle Università italiane. Una storia grottesca e disonorevole per il nostro paese. Eppure, si tratta soltanto di riconoscere a questi docenti stranieri, passati ad un contratto a tempo indeterminato, gli anni di servizio e i diritti acquisiti dal giorno dell’assunzione. Sono già quattro le sentenze della Corte Europea di Giustizia (la più recente risale al 26 giugno 2001) che hanno condannato la Repubblica Italiana per il mancato riconoscimento dei diritti acquisiti in forza dell’anzianità pregressa dei lettori di madre lingua nelle Università italiane. La Corte ha sentenziato che lo Stato Italiano ha violato l’obbligo della parità di trattamento previsto nell’ambito dell’Unione Europea. Quest’obbligo vieta non soltanto discriminazioni palesi, basate sulla cittadinanza, ma anche qualsiasi forma dissimulata di discriminazione. In particolare, la Corte, richiamandosi alla normativa italiana, ha specificato che «se i lavoratori beneficiano, in forza della legge n. 230/62, della ricostruzione della loro carriera per quanto riguarda aumenti salariali, anzianità e versamento, da parte del datore del lavoro, dei contribuiti previdenziali fin dalla data della loro prima assunzione, gli ex lettori di lingua straniera, divenuti oggi "collaboratori linguistici", devono altresì beneficiare di una ricostruzione analoga con effetti a decorrere dalla data dello loro assunzione». La Corte Europea ha rilevato che le Università italiane indicate hanno determinato, in merito, il crearsi di situazioni discriminatorie. La sentenza dichiara che «la Repubblica Italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 48 del Trattato». Anche il Parlamento Europeo ha votato diverse risoluzioni a favore delle rivendicazioni di questi docenti di lingua: l’ultima è del 27 ottobre del 2000 ed è stata votata quasi all’unanimità anche dagli europarlamentari italiani. Nel gennaio scorso la Commissione Europea ha notificato al Governo italiano di aver avviato un procedimento (art.228) contro l’Italia per il rifiuto di adeguarsi al verdetto della Corte Europea di Giustizia del giugno 2001, giudicando discriminatorio l’operato di sei Università italiane nei confronti dei lettori di madre lingua rispetto ai diritti riconosciuti agli altri docenti negli stessi Atenei. Le Università oggetto della sentenza sono quelle di Basilicata, di Milano, di Palermo, di Pisa, di Roma "La Sapienza" e l’Istituto Orientale di Napoli. Il Governo italiano rischia di dover pagare una multa pesantisssima che sarà stabilita dalla Corte di Giustizia in una cifra non minore di 20.000 euro al giorno, decorrendo dalla data del primo accertamento dell’avvenuta infrazione, ossia della messa in mora da parte della Commissione, risalente al dicembre 1996. Dinanzi a questa pesante eredità, il Ministro Letizia Moratti ha deciso di risolvere la questione al più presto. Pochi giorni fa "La Sapienza" ha risposto alla richiesta ministeriale con un modestissimo aumento retributivo ai lettori quale presunto pagamento di tutti i diritti acquisiti. Anche il Presidente della Commissione Cultura della Camera, Ferdinando Adornato si è impegnato nello stesso senso. Secondo questi docenti, l’annosa questione può risolversi solo in sede legislativa con il riconoscimento dei contratti ai lettori di madre lingua straniera assunti prima o durante l’anno accademico 1992-93, automaticamente trasformati in contratto a tempo indeterminato fin dalla prima assunzione, mantenendo i diritti acquisiti. Ciò esige logicamente una ricostruzione della loro carriera docente, parificata almeno a quella dei ricercatori confermati a tempo pieno. ______________________________________________________________________________ Corriere della Sera 06 lug. ’02 ORNAGHI «LA MIA UNIVERSITÀ, AVAMPOSTO DEI CATTOLICI» Lorenzo Ornaghi eletto ieri rettore dell’ateneo di largo Gemelli. «Europa e ricerca al primo posto» «Le università si stanno trasformando geneticamente. Svolgono un ruolo sociale determinante all'interno della nostra società del sapere. E dallo sviluppo di questa società del sapere dipende la collocazione e lo sviluppo del nostro Paese». Lorenzo Ornaghi, docente di «Scienza politica», è stato nominato ieri dal consiglio di amministrazione dell’Università Cattolica, su proposta dell’Istituto Toniolo, settimo rettore dell’ateneo. Subentrerà dal primo novembre a Sergio Zaninelli. Ornaghi pensa a un’università come territorio costitutivo per una ricerca che vuole risolvere i problemi dell’uomo in una dimensione antropologica e sociale, nella quale la visione cattolica si configuri come una specifica risposta. Che senso ha una università cattolica oggi? «Per noi vuole dire aderire ai principi fondativi e sapere che siamo l’unica università a scala nazionale. Ma vuole dire, soprattutto, confermare d’essere l’avamposto della cultura cattolica italiana, una fucina dove si osserva e s’interpretano i problemi d’oggi. E l’università costituirà uno dei fondamentali cantieri del progetto culturale della Conferenza episcopale italiana». Quali i principali problemi? «Ad esempio il rapporto fede-ricerca; basti pensare all’importanza che questo assume nella bioetica e nella politica». Lei ha parlato di «avamposto», ma la sua elezione è parsa dettata dalla volontà dei vescovi di opporsi ai «riformatori»... «La tradizione è indispensabile, ma io non sono certo l’opposto del progressismo. L’accademia opera con senso generale di libertà e non con etichette o categorie contingenti come centrodestra o centrosinistra». L’applicazione della Riforma universitaria sta frantumando l’offerta formativa. Ci saranno inversioni di rotta? «Come il ministro Moratti, ritengo che si sia andati verso una eccessiva proliferazione dei corsi per accondiscendere a gusti del momento o a tendenze di mercato. Vanno bene la concorrenza tra università e anche il marketing; ma un vero ateneo deve guardare al medio periodo e all’eccellenza della ricerca. Ricerca e didattica non vanno disgiunte, perché in università si deve insegnare primariamente un metodo; altrimenti si rischia di fare una didattica dogmatica». Quanto alla ricerca... «La ricerca deve sempre avere una funzione sociale. E’ facile comprendere questa funzione nelle applicazioni mediche o ingegneristiche; meno negli studi sociali, ma ci dev’essere anche qui». Quale rapporto devono avere le università con la città? «Devono captare desideri e trasmettere ciò che producono. E il rischio della localizzazione dev’essere bilanciato dall’universalità della ricerca». Lei è coordinatore del Dottorato in «Rappresentazioni e comportamenti politici»: come giudica quelli dei nostri amministratori? «L’aspetto più positivo degli ultimi tempi è il tentativo di uscire dai vecchi schemi di far politica e l’apertura verso nuovi soggetti». Lei è anche presidente dell’Agenzia del volontariato. Milano è la capitale del non profit? «Sì, e può portare l’Italia a un confronto vincente con l’Europa su questo settore». Infine, lei dirige il Centro di ricerca «Arti e Mestieri». Qual è il rapporto tra formazione e lavoro? «E’ un rapporto fragile e, per anni, i due mondi si sono guardati con diffidenza. Bisogna potenziare e ripensare stage e cooperazioni, ma l’università deve avere un progetto di medio periodo e non basato sulla contingenza». Il 15 luglio lei presenterà un progetto di «Costituzione europea»: che ruolo può giocare Milano per far diventare competitivo nella Comunità il nostro Paese? «Rispetto ad anni passati, Comune e Regione già si confrontano in una chiave europea. E’ una partita che Milano sta giocando e in alcuni settori, come quello dei programmi di sviluppo politico e costituzionale, anche vincendo rispetto ai progetti di università straniere». Pierluigi Panza ______________________________________________________________________________ Galileo 06 lug. ’02 IL FASCINO APPANNATO DELLA RICERCA di Alberto Silvani Alberto Silvani è dirigente di ricerca presso l'Istituto di Studi socio- economici sull'innovazione e le politiche della ricerca del Cnr, Roma Se bastassero i generalizzati richiami circa la rilevanza dell'innovazione nel determinare le condizioni di successo di una economia e di una società nello sviluppo e nella competizione internazionale ci sarebbe da stupirsi come mai molte realtà, anche nella "ricca" Europa, preferiscano impiegare diversamente le proprie risorse. Impietosamente un agile volumetto (European Commission 2001a), prodotto lo scorso anno dalla Commissione Europea nel quadro dell'analisi delle politiche per la ricerca e l'innovazione, e volto a rappresentare il posizionamento europeo nei confronti dei naturali competitori (Stati Uniti e Giappone), fotografa non solo lo stato di salute dell'Unione, ma sgrana il plotone dei paesi membri tra chi guida, chi sta nel gruppo e chi insegue. Intendiamoci, la lettura dei dati non aggiunge nulla di rivoluzionario alle percezioni diffuse e già segnalate in altre circostanze. Se pero' tale lettura viene integrata con altre analisi comparative - ad es. lo Scoreboard, promosso sempre dalla Commissione Europea (European Commission 2001b) o il corrispondente ed analogo lavoro dell'Ocse (OECD 2001) - il panorama si presenta più articolato. In termini quantitativi il deficit dell'investimento in ricerca riscontrato a livello europeo è prevalentemente concentrato nel settore delle imprese. Anche i paesi membri più competitivi esprimono una propensione alla ricerca industriale (con i fondi delle stesse imprese) inferiore a quella di Giappone e Stati Uniti. Per non parlare dei paesi del bacino mediterraneo fortemente dipendenti dall'intervento pubblico (anche in sostegno delle imprese stesse). Le tendenze che si manifestano in forma generalizzata a livello di dimensione europea per quanto riguarda la definizione di politiche in favore dell'innovazione e della ricerca, possono cosi' essere sintetizzate: - diminuisce (pur con qualche eccezione) il sostegno diretto alle grandi imprese (nella forma dei contributi e sussidi) mentre cresce l'intervento mirato (e di natura addizionale), comunque caratterizzato da una quota di co-finanziamento da parte delle imprese partecipanti. Tra l'altro, ciò favorisce il consolidarsi di una ricerca a carattere fondamentale sviluppata in ambito industriale o da esso fortemente influenzata; - il comportamento delle politiche pubbliche si diversifica nei confronti delle piccole e medie industrie, sia in ragione delle diverse regole comunitarie, sia perché grande enfasi è ovunque posta al sostegno alla nascita di nuove imprese tecnologiche (la carenza nel processo di valorizzazione economica delle potenzialità scientifiche è un elemento che caratterizza - in negativo - l'Europa nel confronto internazionale); - il miglioramento delle relazioni tra ricerca ed impresa, e tra scienza e società, costituisce un imperativo diffuso; per raggiungere tale obiettivo si segnalano interventi in favore delle condizioni di contesto, meccanismi premiali verso i soggetti coinvolti, iniziative pilota volte a generare effetti imitativi, mutamenti di missioni delle istituzioni pubbliche di ricerca per favorirne un maggior coinvolgimento; - la dimensione sub-nazionale (regionale e locale) non si limita ad essere il punto di partenza della domanda (ed il punto di arrivo dell'offerta) di prodotti scientifici e tecnologici ma tende ad assumere una valenza autonoma, a stabilire direttamente reti di relazioni ed iniziative strategiche nel campo della scienza e della tecnologia: questo sia in regioni in ritardo di sviluppo attraverso il contributo dei Fondi Strutturali, sia nelle aree più avanzate secondo la logica dei "motori dello sviluppo"; - il capitale umano e, più in generale gli intangible assets, rappresentano il vero valore aggiunto che differenzia i diversi paesi e sui quali le politiche di sviluppo devono saper agire nel lungo termine, a causa della natura cumulativa e strutturale delle differenze; ma le stesse politiche devono anche saper cogliere in tempo reale le tendenze per indirizzare comportamenti e modificare fenomeni di non facile immediata percezione. Attorno a quest'ultimo punto, da tempo, si è aperta una riflessione di ordine metodologico ma con rilevanti aspetti contenutistici. Le risorse umane direttamente impiegate in ricerca e sviluppo, infatti, costituiscono un "di cui", tutto sommato limitato (nella dimensione, ma anche spesse volte nel tempo) non solo della forza lavoro complessiva ma anche dell'insieme di coloro che acquisiscono una competenza di base per poter potenzialmente esercitare attività tecniche e scientifiche. Inoltre, in un mondo caratterizzato da frontiere aperte e da barriere mobili nei mercati del lavoro questa "forza lavoro" è sottoposta a molti possibili sbocchi: di conseguenza, va sicuramente associato al momento formativo l'offerta di positive opportunità lavorative, pena il continuo drenaggio di risorse costose (e sottoposte a lunga gestazione) verso mercati più competitivi e stimolanti. Senza dimenticare che, per qualificare questo "capitale", pur non potendo prescindere da interventi strutturanti sul canale dell'alta formazione (università ed istituzioni scientifiche), vanno sostenute modalità di investimento sulla professionalizzazione on the job, nonché garantire opportunità di ingresso, di motivazione, di aggiornamento, ma anche di uscita dallo specifico mondo del lavoro della ricerca. Gli interventi relativi al capitale umano per la ricerca presentano perciò notevoli specificità, nonché devono manifestare una capacità evolutiva nel tempo, per sapersi adattare al mutare delle esigenze e delle caratteristiche del lavoro scientifico. Per tornare alla misurazione quantitativa illustrata dagli indicatori richiamati nel paragrafo precedente, i parametri utilizzati per l'analisi comparata (percentuale di ricercatori rispetto alla forza lavoro, ostacoli alle carriere scientifiche, mobilità e brain drain, percorsi evolutivi ed opportunità di valorizzazione delle competenze), registrano una realtà europea "debole", ulteriormente penalizzata dalla fragilità delle iniziative in atto per invertire la tendenza. E' inutile ricordare che in questo scenario l'Italia manifesta una grave difficoltà (numero dei ricercatori stagnante e ad invecchiamento crescente, direzionalità dei flussi verso l'estero, scarsa attrattività dei percorsi formativi nelle scienze naturali ed esatte ma anche scarsa ricettività per nuove posizioni lavorative nel mondo della ricerca. Senza dimenticare la tradizionale struttura duale della carriera tra ricerca e management, che tende a privilegiare quest'ultima funzione, e che dal mondo dell'impresa sembra oggi estendersi anche alle istituzioni pubbliche (anche se meno all'università), finendo con il penalizzare un investimento di lungo periodo nei soli termini scientifici. Sembra dunque ribaltarsi (o per lo meno modificarsi) una percezione diffusa che ha assegnato al mondo della ricerca (e, allo stesso tempo, alle sue idealizzazioni e ai concreti privilegi) un fascino particolare. Un fascino esercitato dal poter progettare e realizzare compiutamente il contenuto e le modalità del proprio lavoro, unitamente all'arricchimento (diretto ed indiretto) delle proprie competenze e conoscenze, che - se accompagnato da quello che in linguaggio marxiano poteva essere chiamata la proprietà o almeno il dominio dei mezzi di produzione - ha da sempre rappresentato la molla determinante nell'attrarre verso il mondo della ricerca una domanda assolutamente superiore all'offerta di disponibilità di posizioni lavorative. Se nel passato l'asimmetria tra domanda ed offerta aveva finito per alimentare ulteriormente tale fascino, generando "liste d'attesa", ma anche comportamenti deviati e finalizzati all'ottimizzazione di quei parametri ritenuti necessari per l'inserimento, il rischio che sembra profilarsi oggi riguarda un'ulteriore distorsione nei meccanismi di selezione. Infatti, mentre le scelte (esplicite ed implicite) di inserimento non hanno favorito la coerenza nel dare seguito, in favore dei migliori, alle aspettative che erano state riposte nei confronti del mondo scientifico in quanto portatore di specifici valori, oggi il problema sembra includere la natura stessa, e le caratteristiche, dell'universo di riferimento entro il quale poter effettuare tali scelte. Il bacino costituito dai giovani che si avvicinano alla ricerca risulta cioè condizionato da fattori (minor attrattività delle opportunità scientifiche, caduta dei valori fondanti, crisi del contributo degli scienziati alla società vissuto come corpo separato e sostanzialmente autoregolato, emersione delle contraddizioni collegate allo sviluppo scientifico, forte impronta tecnologica all'ambiente economico e sociale non accompagnata, pero', da una diffusione della cultura corrispondente) che, unitamente al persistere di una limitatezza nelle opportunità retributive nei confronti dei valori del mercato esterno, stanno portando ad una rarefazione delle candidature e, di conseguenza, ad un peggioramento delle possibilità di poter selezionare i migliori ed i più vocati. Il mondo della scienza, infatti, si caratterizza per una costante apertura (interscambio di informazioni, mobilità di idee e persone), ma anche per una condivisione di regole non sempre formalizzate o formalizzabili (i valori etici, ad esempio) oltre che per il rigore scientifico (nel metodo, attraverso la riproducibilità del lavoro sperimentale e nel merito, attraverso il continuo confronto ottenuto per mezzo della diffusione e divulgazione dei risultati raggiunti). Il rispetto di queste condizioni è perciò volto, attraverso la loro integrazione, al raggiungimento di una migliore performance nell'impiego delle risorse per mezzo di una selezione naturale (di idee ma anche di persone) essenzialmente basata sul rispetto reciproco e sull'espressione di pareri attraverso meccanismi basati sulla cooptazione ed il giudizio dei pari. Non che tali modalità non presentino problemi. Ad esempio, tra le varie critiche manifestate nei confronti delle procedure organizzative della ricerca una si è rivelata particolarmente puntuale: è quella relativa al rischio conservativo che tale modello manifesta nei confronti del nuovo. Critica rilevante se riferita alle trasformazioni che i mutamenti nel mondo del lavoro hanno introdotto negli ultimi anni. Una politica per la scienza Da questo punto di vista la comunità scientifica sembra sempre più divaricarsi in un sistema a due velocità. Da una parte quell'area guidata da una logica di "grande investimento", sia esso un'importante apparecchiatura scientifica, un esperimento di rilevante dimensione o una complessa macchina organizzativa. Basti pensare, rispettivamente, al mega telescopio, al lancio di un satellite o al Progetto Genoma. La contaminazione di questa componente del mondo scientifico, nei più diversi aspetti, con gli interessi economici ed industriali risulta evidente dalle dimensioni economiche in gioco nella realizzazione ma anche, molto spesso, nell'utilizzo dei risultati e nello spillover delle attività. Il concetto di large scale facilities, limitatamente all'impiego del personale tecnico e di ricerca, è andato crescendo di importanza (anche nei suoi aspetti figurati) al crescere della dimensione dell'oggetto della condivisione scientifica tra i diversi partecipanti. Ma se in questo caso si può parlare dell'evoluzione di un fenomeno già in corso (basti pensare all'organizzazione strutturata della ricerca per come si è manifestata nel primo ma soprattutto nel secondo dopoguerra del secolo scorso), è sull'altra dimensione del fenomeno, la componente soft della ricerca, che si registrano i maggiori cambiamenti nei termini di organizzazione del lavoro. Per una corretta interpretazione del problema va anche qui introdotta una distinzione tra quelle aree che rimangono più tradizionalmente collegate alla propria origine e quelle invece maggiormente contaminate sia nei termini di effettiva interdipendenza ed interdisciplinarietà, sia in quanto "ri"- strutturate su parametri direttamente influenzati dalle ICT (tecnologie dell'informazione e della comunicazione). Si pensi in proposito ad aree come la bioinformatica, assenti anche concettualmente poche decine di anni fa, aree in cui il sistema delle competenze necessario al progredire può essere considerato il risultato della sovrapposizione tra un livello verticale di competenza specifica, spesse volte con caratteristiche di originalità e, contemporaneamente, il ricorso a forme di acquisizione e sperimentazione di conoscenze, esercitate a tutto campo, favorite dalle opportunità della società dell'informazione e delle tecnologie che in essa vivono. Se ci limitiamo a considerare gli effetti che ne derivano sull'organizzazione del lavoro scientifico, escludendo quindi gli aspetti connessi alle modalità di "produzione" scientifica nonché alcune componenti rilevanti relative "all'accesso" ai (e al "possesso" dei) saperi in forma cumulativa, emerge la tendenza, comune a tutta la dimensione soft del mondo della ricerca, verso una maggior disponibilità nel godere di gradi di libertà impensabili sino a pochi anni fa. Lo stesso paradigma delle reti, sempre più virtualmente realizzate attraverso la costituzione di "collegi invisibili" che costituiscono al tempo stesso l'opportunità di una massa critica necessaria per affrontare problemi complessi con organizzazioni complesse pur tuttavia elastiche, flessibili ed articolate nel tempo nei termini delle risorse, delle competenze e delle figure necessarie, ma anche il naturale autoreferaggio interno sul procedere del lavoro comune, si misura oggi con la potenziale disarticolazione generata dalle modalità organizzative del lavoro scientifico. Sempre di più la "tradizionale" formula di un gruppo di lavoro (nato e cresciuto attorno ad un "laboratorio" per le scienze esatte o ad una "scuola" per l'area delle scienze sociali ed umane) si deve confrontare con il percorso differenziato dei suoi componenti. In linea di principio permane il concetto di massa critica minima necessaria per essere considerato "nodo della rete", ma la dimensione di questa massa è destinata a mutare nel tempo e ad essere riparametrata sulla base di quanto richiesto da una partecipazione a progetti di dimensione, spessore, momento e durata molto variabili. Queste considerazioni, di carattere generale, producono una rilevantissima conseguenza sul versante istituzionale del mondo scientifico. In Italia, in particolare, la componente accademica (la più rilevante per dimensione e copertura territoriale e disciplinare) ha sempre sofferto in termini organizzativi di una incapacità cronica a raggiungere masse critiche coerenti e credibili non solo sul versante della grande strumentazione ma anche su quello della ricerca indirizzata ad un obiettivo. Per supplire a questa carenza si è fatto ricorso alla nascita di nuove istituzioni (un esempio tra tutti, l'Istituto Nazionale Fisica Nucleare) o ci si è appoggiati al "ruolo ordinatore" (ed alle relative risorse) di un soggetto esterno, come nel caso della Chimica industriale dei polimeri con la Montecatini al Politecnico di Milano. Pero', con la lodevole eccezione dei fisici delle alte energie, il panorama della ricerca italiana segnala come ci si sia progressivamente concentrati nel tempo in quelle aree tematiche e disciplinari dove minore era l'incidenza della dotazione infrastrutturale e della strutturazione ed organizzazione del lavoro in house. Una forma di adattamento darwiniano alle condizioni ambientali per favorire la sopravvivenza della specie. E l'Università ha registrato questa tendenza, limitandosi in molti casi ad una presenza testimoniale nella ricerca, solo recentemente invertita, per una parte del sistema, con la partecipazione a bandi europei e alle nuove modalità del co-finanziamento (ex.40%). Con le regole del gioco in cambiamento, sembrano aprirsi nuovi spazi e nuove opportunità: ad esempio, la linea di confine tra quanto è oggi possibile realizzare facendo ricorso a risorse "dirette" limitate ma, viceversa, potendo usufruire di esternalità di sistema molto rilevanti (qualificazione media dei giovani, alfabetizzazione informatica diffusa, infrastrutture di buona qualità, mobilità ed interscambi nella formazione e nell'educazione, flessibilità e motivazione nell'investire su nuove idee e sui giovani) offre opzioni anche a soggetti finora esclusi (per tipologia e/o posizione geografica) e può rivoluzionarne il ranking, esattamente come alcuni interventi hanno saputo determinare nel commercio mondiale in epoca di globalizzazione. Anche perché, per le motivazioni sopra addotte, si sono abbassate le barriere d'ingresso di giovani formati in contesti avanzati, ma anche semplicemente ad essi relazionati pur restando nei propri paesi di origine, accelerandone la potenziale competitività ed il loro diretto contributo all'evoluzione della scienza. Estendendo la riflessione ad un contesto anche extra-italiano sono quindi prevedibili ulteriori mutamenti di ruoli tra le istituzioni - e dentro le organizzazioni - che avranno inevitabili conseguenze sulle strutture funzionali delle stesse, proprio in ragione di quei fenomeni di cambiamento che l'innovazione tecnologica introduce nel mondo del lavoro più in generale. Ciò pone ai soggetti decisori delle politiche un'ulteriore dilemma: lasciare che i fenomeni si sviluppino spontaneamente (atteggiamento neo-liberista), oppure intervenire. Ma, in questo caso, come, ma, soprattutto, per quale obiettivo? In sintesi, la tesi che si vuole qui affermare è che più di prima per essere competitivi nel mondo della ricerca bisogna saper affiancare ad un investimento sui migliori ("i purosangue") un allargamento della base della piramide ("moltiplicare gli allevamenti e le scuderie") ma anche creare quelle condizioni di contesto, nei termini di facilities, commodities e perspectives, ("gli ippodromi e le strade di accesso, ma anche la piacevolezza dei siti e la vivibilità delle condizioni in generale, oltre a promuovere l'impiego generalizzato dei cavalli") senza le quali lo sforzo rischia di essere vano. Insomma una politica per la ricerca piuttosto che una politica della ricerca. Quanto questo disegno possa essere letto nei presupposti e nelle scelte del nascente sesto Programma Quadro della ricerca europea è materia di dibattito: si vuole solo aggiungere che, diversamente, l'auspicio del Consiglio di Lisbona del marzo 2000 (l'Europa come la comunità più competitiva nel confronto mondiale nel giro di dieci anni anche attraverso un investimento pari al 3 per cento del PIL medio dei paesi membri), oltre a rappresentare pura fantascienza nei termini numerici (almeno per noi italiani come l'ultima legge finanziaria ci insegna) finirà per essere perseguito come obiettivo economico piuttosto che per le sue potenzialità di sviluppo. Con gli esiti sulla produttività nell'impiego delle risorse che vengono testimoniati da altre scelte, quali quelle della politica agricola o in molti casi dei Fondi Strutturali. Ma per tornare al tema del lavoro di ricerca si vuole segnalare un'esperienza che merita un approfondimento in quanto pensata e sviluppata in un contesto nazionale particolare e limitato, la provincia di Trento, pur tuttavia ricca di conseguenze potenzialmente ampie e replicabili. Questa Provincia, in ragione della sua autonomia statutaria, delle scelte lungimiranti delle amministrazioni che si sono succedute negli ultimi quaranta anni, ma anche - certamente - delle risorse derivanti dai trasferimenti statali e di una certa perifericità che ne ha favorito la sperimentazione, ha via via investito in cultura e scienza. Prima con l'Istituto Universitario (poi statalizzato in Università degli studi), poi con gli enti funzionali di ricerca, sia creandone di nuovi, sia ripensando quelli esistenti. Istituzioni quali Istituzioni quali il Centro per la ricerca scientifica e tecnologica dell'Istituto trentino di cultura (nel campo dell'informatica applicata) o il Centro Sperimentale dell'Istituto Agrario (nel campo delle biotecnologie "verdi") sono ben note anche al di là dei confini provinciali. La lista potrebbe continuare con il Centro di Ecologia Alpina, il Museo, l'Agenzia per lo sviluppo, il recente insediamento di una sezione del Centro ricerche della Fiat ma anche con tutte le attività svolte su convenzione con le maggiori istituzioni scientifiche nazionali, tutti elementi che hanno creato un terreno favorevole per quelle condizioni di contesto segnalate come indispensabili nella prima parte di queste note. Siamo cioè in presenza di una realtà che ha saputo investire sul territorio, sugli ippodromi, sulle scuderie e sui purosangue; una realtà che ha tratto grande giovamento da un investimento consistente e cumulato nella conoscenza, a partire dai principi di qualità utilizzati per consolidare la presenza universitaria. In questo quadro giunge opportuna, e già sancita da protocolli e strumenti normativi, l'idea di un partenariato forte con la cultura germanica, attraverso il varo dell'Ateneo Italo-tedesco e del Consorzio di ricerca Italo-germanico. Ma per rendere il lieto fine meno prevedibile, e per riprecipitarci nelle contraddizioni italiane, va rilevato come tale crescita manifesti oggi il suo tallone d'Achille proprio nelle condizioni di organizzazione e trattamento del personale addetto alla ricerca. Intendiamoci, nella realtà trentina si sovrappongono problematiche locali (per esempio, una certa rigidità organizzativa e la conseguente segmentazione) ma anche caratteristiche generali (gli accessi, le carriere, la mobilità, l'attrattività del modello universitario) non sempre risolvibili con strumenti locali. Nel pieno della scorsa estate (luglio 2001) una delle periodiche conferenze dedicate alla ricerca e all'innovazione (un'altra - positiva - anomalia nello sterile panorama italiano) è stata interamente impegnata sul tema del lavoro di ricerca e gli atti sono stati pubblicati in un agile volumetto (P.A.T. 2001a). Sei mesi dopo si è reso disponibile il fascicolo prodotto dall'Osservatorio della Ricerca (P.A.T. 2001b), contenente dati e commenti sulla consistenza del sistema e sulle sue problematiche evolutive. Tutti materiali che possono essere richiesti al Servizio Università e ricerca scientifica della stessa Provincia. Cosa ci raccontano questi documenti ai fini del tema di questa nota? In primo luogo segnalano che i problemi ci sono e non possono essere sottaciuti: la scelta di procedere a finanziamenti di natura aggiuntiva, assegnati a progetti svolti da ricercatori non dipendenti dalle amministrazioni, ha fatto crescere una leva di giovani formati alla ricerca, ma anche, attraverso la ricerca, pronti per un inserimento più qualificato nel mondo del lavoro, secondo un modello teorizzato in altri contesti ma scarsamente poi praticato. Tutto questo, pero', a fronte di una debole domanda se misurata sul solo territorio provinciale. Per impedire che questi giovani si presentino come una massa d'urto per rivendicare una richiesta di stabilizzazione nel "sistema istituzionale" della ricerca non serve rendere quest'ultimo meno attrattivo. Anzi se mai, per restare alla metafora dei cavalli, vanno estese scuderie ed allevamenti con l'idea di utilizzare i quadrupedi non solo negli ippodromi ma nella vita di tutti i giorni. Magari favorendone l'impiego in altri contesti sulla base di scambi. Tra l'altro una delle attività parallele a questo disegno consiste nella cosiddetta "Università a colori" ovvero nelle relazioni bilaterali stabilite con paesi del terzo mondo, volte a favorire l'interscambio scientifico e la collaborazione formativa a livelli qualificati. Un secondo tema emerso riguarda, anche per questa "isola felice", la "crisi di vocazioni" del mondo della ricerca. Attrattività della ricerca e crisi di vocazioni coesistono essendo fenomeni, in una certa misura, complementari: da una parte rischiano di restare "nell'anticamera della ricerca" non i migliori ma solo quelli che se lo possono permettere. Dall'altra le nuove modalità tecnologiche alimentano l'idea che possano esistere altre opportunità che non siano solo quelle dell'istituzione di ricerca per vedere premiata la propria propensione al lavoro scientifico. Infine dalla conferenza è emersa una forte domanda di apertura del sistema locale verso una maggiore integrazione, per quanto riguarda gli aspetti normativi, con i contesti con cui si vuole collaborare sia a livello nazionale che europeo. Questo tema è particolarmente interessante nella prospettiva dei mutamenti in corso. In altri termini, se il processo di sviluppo della ricerca prevede allo stesso tempo una maggior personalizzazione del trattamento degli individui (varranno sempre di più in quanto singoli e non per l'appartenenza ad un ruolo o a una posizione), accanto ad una loro interscambiabilità in una rete di dimensione almeno europea (dovranno poter essere "associati" ad attività a termine, aggiungendo alle coordinate permanenti di appartenenza delle attribuzioni incentivanti temporanee) in grado di promuovere mobilità ma anche di offrire garanzie di cumulatività individualizzata nel tempo, perché non sperimentare questa opportunità nel quadro della cooperazione italo germanica, come tassello verso uno spazio europeo della ricerca? BIBLIOGRAFIA European Commission, Key Figures 2001, (ISBN 92-894-1183-X) 2001a. European Commission, European Innovation Scoreboard 2001, Innovation/SMEs Programme, 2001b. OECD, OECD Science Technology and Industry Scoreboard, 2001. P.A.T. (Provincia Autonoma di Trento), 5^ conferenza dei rappresentanti delle istituzioni scientifiche, della ricerca e dell'innovazione della Provincia, Atti del Convegno 24 luglio, 2001°. P.A.T. (Provincia Autonoma di Trento), Osservatorio della ricerca: La Ricerca Scientifica in Trentino, Rapporto annuale 2001, 2001b. Silvani A., Sirilli G., "Science, Technology and Innovation Policy in Italy" in P.Laredo, P.Mustar (eds.), Research and Innovation Policies in the New Global Economy, Edward Elgar, 2001. ______________________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 04 lug. ’02 APERTE LE PRESCRIZIONI ALLA FACOLTÀ DI ARCHITETTURA SASSARI Dall'anno accademico 2002-3 è istituita la Facoltà di Architettura con sede ad Alghero. I corsi attivati sono Architettura e Pianificazione Territoriale Urbanistica e Ambientale, entrambi triennali (laurea di 1º livello) e confluibili in una laurea quinquennale (specialistica) in Architettura. Il numero di posti messi a concorso per ogni corso è di 60 più 6 posti riservati a extracomunitari. L'ammissione è regolata da una prova che si svolgerà il 4 settembre 2002 alle ore 10. La prova è uguale per entrambi i corsi di laurea. E' possibile effettuare la preiscrizione fino al giorno 19 agosto, tramite presentazione di un'apposita domanda e un versamento di 20 euro. La modulistica è reperibile presso la segreteria studenti dell'Università di Sassari, al Palazzo Zirulia, piazza Università ed è scaricabile dal sito della Facoltà di Architettura www.uniss.it/facolta/architettura e da quello del Centro Orientamento Studenti www.uniss.it/orienta. ______________________________________________________________________________ Il Messaggero 05 lug. ’02 ANCHE NEL 2003 LO STATO NON FARÀ ASSUNZIONI ROMA — Anche nel 2003 le amministrazioni pubbliche non potranno assumere. Il blocco già ordinato nell’ultima Finanziaria verrà rinnovato per il secondo anno. Lo ha anticipato ieri il ministro delle Attività produttive Antonio Marzano. Che poi ha precisato: «Questa volta un blocco vero». La precisazione è doverosa, perché il blocco delle assunzioni è un provvedimento preso già molte volte, senza mai ottenere risultati di rilievo. Il meccanismo delle deroghe ha sempre permesso di aggirare il divieto. Qualche anno fa il Tesoro, ancora sotto il ministero Ciampi, decise di passare al sistema “degli ingressi programmati": si può assumere, ma i neoassunti devono essere un po’ meno di quanti vanno in pensione. Qualche piccolo risultato si è raggiunto: nell’ultimo quadriennio il personale pubblico ha continuato a crescere (si veda il grafico in alto), ma un po’ meno che negli anni precedenti. In realtà — spiegano alla Ragioneria dello Stato — gli organici si sono ridotti in alcuni comparti (nei ministeri, negli enti pubblici, negli enti locali) ma non nella sanità, nelle forze di polizia e soprattutto nella scuola, dove più che altro è cresciuto il numero dei supplenti. Per il 2002 il governo ha ripristinato il blocco delle assunzioni. Ma questa volta, secondo la Ragioneria, il vincolo sta avendo effetto. Secondo stime in corso di verifica, quest’anno il numero di dipendenti diminuirà forse per la prima volta nella storia della Repubblica. Molto dipenderà dalla severità con cui la Pubblica istruzione applicherà le norme su supplenze e organici previste in Finanziaria. Pie. P. ______________________________________________________________________________ Il Sole24Ore 05 lug. ’02 IL NON PROFIT FA BENE ALL'ECONOMIA MILANO - Cultura, sport, relazioni sindacali, ma anche istruzione, solidarietà internazionale e ovviamente assistenza sociale, sanità e attenzione all'ambiente. Il non profit è fatto di tante attività e di milioni di persone che ogni giorno si impegnano con particolare attenzione ai valori etici e alla trasparenza del loro lavoro, ma che non possono permettersi di perdere di vista l'economicità dell'organizzazione, ovvero la capacità di raggiungere gli obiettivi (efficacia) attraverso l'uso corretto delle risorse (efficienza): il sistema si basa infatti, in gran parte, sul reinvestimento degli utili e non sulla mancanza di utili. Un settore in crescita. Il Terzo settore - secondo i dati elaborati dall'Istat sulla base dell'ultimo censimento del 1999 - conta oggi entrate (e uscite praticamente corrispondenti) per qualcosa come 35,7 miliardi di euro. È arrivato a comprendere più di 220mila istituzioni (create in larga maggioranza negli ultimi venti anni), e dà lavoro a più di 750mila persone (alle quali vanno aggiunti circa 3,2 milioni di volontari). Forse la definizione per negazione, appunto con il termine non profit, ha contribuito negli anni a creare qualche fraintendimento: ancora oggi, nel sentire comune, il Terzo settore viene spesso assimilato solo al volontariato, alla filantropia, alle buone opere individuali o comunitarie, senza considerare che queste categorie (pur rispettabilissime e apprezzabili, ci mancherebbe altro) non possono più bastare a descrivere una realtà in evoluzione, un mondo in crescita nel quale operano associazioni di diversa dimensione e rilevanza, cooperative sociali, istituti universitari di prestigio, e istituzioni come le fondazioni (prime fra tutte quelle bancarie) che da decenni e con notevoli mezzi sono attive sul territorio. Il rapporto Istat. Il quadro del non profit realizzato dall'Istat giunge a fare chiarezza nella descrizione del settore: il volume presentato ieri a Milano dall'istituto statistico in un convegno organizzato in collaborazione con la Camera di Commercio di Milano e Unioncamere Lombardia, entra per la prima volta nel dettaglio delle caratteristiche strutturali degli enti non profit, censisce le risorse umane e quelle finanziarie impiegate, analizza in modo approfondito i profili economici del settore. Il Sud non tiene il passo. La scelta del capoluogo lombardo per l'illustrazione dei risultati era in qualche modo dovuta visto che Milano è sede dell'Autorità per il non profit presieduta da Lorenzo Ornaghi, ma ha voluto probabilmente premiare anche una regione nella quale il 20% della popolazione attiva presta in qualche forma la sua opera nel settore. E la Lombardia con più di 31mila istituzioni senza fini di lucro (il 14,1% del totale nazionale) guida anche la classifica delle regioni, seguita da Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Toscana. Mentre dispiace registrare anche in questo campo un notevole distacco delle aree meridionali che nel complesso hanno circa 61mila istituzioni, il 27,7% del totale nazionale, con una media di 29,4 istituzioni ogni 10mila abitanti, contro il dato italiano di 38,4 e quelli di Centro e Nord rispettivamente di 42,3 e 44. Diverso anche il percorso di sviluppo delle organizzazioni non profit che in generale in Italia seguono il modello di "servizio sociale" (in modo analogo a quanto succede in Austria, Francia, Germania e Spagna), mentre al Nord, e in particolare in Lombardia, sembrano rientrare più nel modello "sanitario" di Giappone, Stati Uniti e Olanda. Milano non profit. "La nostra - ha ricordato Carlo Sangalli, presidente della Camera di Commercio - non è solo la città degli affari, ma è anche una città solidale in cui operano migliaia di organizzazioni private senza fini di lucro, che svolgono un ruolo economico sempre più significativo. E il pluralismo delle istituzioni economiche e sociali - ha aggiunto - rappresenta la nostra forza, una componente basilare della nostra identità". Il presidente di Unioncamere, Vico Valassi, ha inoltre sottolineato come "la sperimentazione di nuove forme di cooperazione tra pubblico e privato e la trasformazione di importanti istituzioni come il Teatro alla Scala e la Triennale hanno fatto crescere il non profit". Restano da sciogliere alcuni nodi per fare ordine nel Terzo settore: quelli normativi riguardano le fondazioni, la definizione "in positivo" dell'impresa sociale e della sua fiscalità. Quelli interni sono invece relativi alla governance, alla trasparenza gestionale degli enti stessi del non profit. Ma il settore continua a crescere e ora ne è stata anche scattata la fotografia. Luca Veronese ______________________________________________________________________________ Famiglia Cristiana 03 lug. ’02 IL POETTO SI COLORA DI NERO SUL LITORALE DI CAGLIARI Polemiche dopo l’intervento di "sversamento" di sabbia grigio-topo. C’era una volta il Poetto, la bianchissima spiaggia dei cagliaritani chiusa fra la Sella del Diavolo, lo stagno di Molentargius, dove i fenicotteri nidificano a due passi dalle abitazioni e dalle auto, e le storiche Saline. Questa spiaggia non c’è più, sommersa sotto una valanga artificiale di centinaia di migliaia di metri cubi di sabbia grigio-topo. Arrivando a Cagliari in aereo lo spettacolo è desolante: quella che era la più invidiata spiaggia urbana in Europa è ora una distesa grigiastra, frutto del "ripascimento" effettuato nei mesi di marzo e aprile da una draga che ha "sversato" sull’arenile 370.000 metri cubi di sabbia prelevata da una secca a una profondità di 50 metri. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una spiaggia double-face dove qualche cagliaritano spiritoso ha disegnato un enorme numero 26, quanti sono gli scudetti della Juventus, squadra bianconera proprio come la spiaggia di Cagliari. Tutto nasce da un progetto finanziato dal ministero dell’Ambiente e dalla Provincia di Cagliari. Nella spiaggia mancano addirittura due milioni di metri cubi di sabbia. La Giunta di Centrosinistra, presieduta dal giornalista Nicola Scano, stipula con l’Associazione di imprese Mantovani, che si è aggiudicata la gara d’appalto con un ribasso del 40 per cento, un contratto che prevede «un ripascimento graduale onde evitare che un intervento indiscriminato e massiccio possa causare gravi danni alla spiaggia sommersa e alla prateria di posidonia oceanica». La nuova Giunta di Centrodestra, guidata da Sandro Balletto, anche e soprattutto per non perdere i finanziamenti, sceglie la strada dell’intervento diretto: sì alla sabbia di mare (e non a quella di cava) che la draga Antigoon rovescia sul Poetto al ritmo di 25.000 metri cubi al giorno. La draga deve pescare in un rettangolo piuttosto delimitato, davanti alle coste di Capitana, ma già dopo una settimana la Mantovani invia una lettera alla Provincia nella quale scrive che «nell’area di prelievo la sabbia idonea al ripascimento sta esaurendosi e che quindi si vede costretta ad estendere le zone di prelievo…». Dalla Provincia nessuna risposta: i lavori proseguono fino al 22 aprile, le carte nautiche indicano chiaramente gli sconfinamenti dal quadrilatero precisato nel contratto. La Procura della Repubblica di Cagliari apre un’inchiesta, i Carabinieri del Noe (Nucleo operativo ecologico) prelevano campioni di sabbia, vengono effettuate accurate riprese dall’elicottero. Tutto questo mentre le analisi di Cnr e Università affermano che la sabbia resterà nera per sempre, mentre l’assessore provinciale Renzo Zirone dichiara che «entro quattro mesi (luglio per chi legge, ndr.) i primi centimetri di superficie saranno schiariti mentre per il risultato finale bisognerà attendere un anno e mezzo e qualche mareggiata». Arriva a Cagliari anche il senatore Sauro Turroni, vice presidente della Commissione ambiente del Senato che parla senza mezzi termini di «disastro ambientale» e si fa promotore della richiesta di una Commissione governativa. I soli contenti di questa operazione sono i gestori degli stabilimenti balneari che possono contare, in alcuni punti, anche su 80 metri di spiaggia in più. Ma le caratteristiche, che facevano del Poetto una spiaggia unica, erano la sabbia e il suo lento declinare verso l’acqua alta. Il presidente della Provincia Balletto assicura: «Ci sarà sempre acqua alle caviglie che degrada piano piano e fra qualche mese sarà di nuovo il Poetto anche per quanto riguarda il colore della sabbia». Intanto, resta una dominante grigio-topo e, soprattutto, un pericolosissimo "gradino" che dal bagnasciuga, fatti due passi, porta a un metro e venti d’acqua. Per la disperazione di mamme e bagnini. Tuona anche il sindaco di Cagliari, l’azzurro Emilio Floris: «Fra sei mesi, se la sabbia non sarà bianca, prenderemo i provvedimenti che si renderanno necessari». Cagliari, alla faccia dello slogan elettorale del primo cittadino, "capitale del Mediterraneo", è città che può garantire appena sei ore di erogazione di acqua al giorno (ma lo stesso Floris ha annunciato altre restrizioni), non ha più aree per l’edilizia economica e popolare con cinquemila famiglie a rischio sfratto e ora piange per la perdita della sua spiaggia. L’assessore Zirone, regista dell’operazione Poetto, annuncia che la Provincia si occuperà delle altre spiagge del litorale cagliaritano, da Giorgino a Porto Pino. Una promessa o una minaccia? =========================================================== ______________________________________________________________________________ Il Sole24Ore 06 lug. ’02 AL DECOLLO LA RIFORMA DEI MEDICI Ieri il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge che ora passa al vaglio della Stato-Regioni Il rapporto di lavoro sarà unico e a tempo pieno - In alcuni casi potrà essere concesso anche il part-time Paolo Del Bufalo Roberto Turno ART000ROMA - Rapporto di lavoro unico e a tempo pieno, con o senza esclusiva e con piena reversibilità della scelta. Porte spalancate alla libera professione. In pensione più tardi. Benefici fiscali in arrivo. Potere ai Collegi di direzione contro i diktat dei direttori generali-manager. La riforma dei medici Girolamo Sirchia ha conquistato ieri il sospiratissimo via libera del Consiglio dei ministri. A questo punto, prima di sbarcare in Parlamento, passerà al vaglio della Stato-Regioni. Come dire che il suo vero iter parlamentare avrà inizio con ogni probabilità solo dopo l'estate. Un cammino non facile, quello percorso in questi mesi dal Ddl faticosamente elaborato dal ministro della Salute. Anche perché, oltre alle ripetute resistenze e alla limature imposte di volta in volta dalla maggioranza, c'erano da superare altri veti. Quelli posti dal ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, sulla tenuta finanziaria del provvedimento. Rischi che la relazione tecnica di accompagnamento, ora, fa "cadere": la riforma sarà a «costo zero». Anche se in agguato potrebbero esserci altre sorprese: le modifiche del Ddl-Sirchia rendono del tutto simili i rapporti di lavoro dei camici bianchi a quelli dei 500mila tra infermieri e tecnici del Ssn. Che, a questo punto, potrebbero battere cassa per ottenere anche loro l'indennità di esclusiva. Rapporto di lavoro. Sarà unico e a tempo pieno per tutti i medici del Ssn. E potrà essere esclusivo (con la relativa indennità) o non esclusivo (senza indennità), ma con piena possibilità di reversibilità a domanda (le modalità le deciderà il contratto). Per tutti sarà possibile la direzione di strutture semplici e complesse. I risparmi per i passaggi dall'intra all'extramoenia (con la perdita dell'indennità) dovranno finanziare i programmi aziendali per la riduzione delle liste d'attesa. Che dunque, è la speranza, non dovrebbero costare un euro in più. Intramoenia. La libera professione intramoenia sarà possibile solo per chi ha scelto il rapporto esclusivo. Potrà essere svolta individualmente o in équipe e, comunque, con modalità che garantiscano all'azienda il recupero delle spese sostenute. Ma i medici potranno esercitarla solo dopo aver assicurato prestazioni e ore-lavoro sufficienti a coprire quelle previste per la riduzione delle liste d'attesa. I medici in esclusiva avranno però un'altra grande chance: oltre all'intramoenia, potranno svolgere consulenze e altre «attività occasionali». Extramoenia. Per i medici non esclusivisti sarà possibile la libera professione extramoenia. Potranno svolgere tutte le attività libero-professionali che non configurino un rapporto di lavoro dipendente e non siano in «oggettivo» conflitto di interessi con l'attività istituzionale svolta per l'azienda sanitaria da cui dipendono. Sulle tariffe - che non potranno neppure in parte essere a carico del Ssn - deciderà l'Ordine. Fisco. Giro di boa anche dal punto di vista fiscale: l'intramoenia resterà assimilata ai redditi da lavoro dipendente, ma solo fiscalmente e non per gli aspetti previdenziali. Chi invece esercita l'extramoenia potrà riaprire la partita Iva, che tutti i medici erano stati costretti a "chiudere" dopo la riforma ter del Ssn (Dlgs 229/1999). Part-time. Deciderà l'azienda a quanti medici autorizzarlo, mentre le ore possibili le stabilirà il contratto. I medici potranno usufruire del part-time per particolari esigenze di famiglia o di salute e, una volta autorizzato, non potranno dirigere strutture, né esercitare la libera professione. E non avranno più diritto all'indennità di esclusiva. Collegio di direzione. Fortemente voluto dai medici come contrappeso ai manager, dovrà esprimersi sugli atti del direttore generale che riguardano la dirigenza sanitaria. Il parere sarà obbligatorio e se il manager non lo rispetterà senza dare motivazioni precise, potrà anche essere rimosso. Tempo definito. I medici a tempo definito potranno conservare il loro rapporto di lavoro a esaurimento, ma potranno anche optare per il tempo pieno o per l'esclusività. Previdenza. Fino alla legge di riordino complessivo del sistema previdenziale, i dirigenti di struttura complessa (ex primari) potranno restare in servizio, se confermato annualmente, oltre i 67 anni di età. Il tetto massimo è stabilito ai 70 anni. Che però potrà arrivare a 72 anni per le attività di formazione e di didattica, ma non più anche per l'assistenza. Universitari e altri dirigenti. Le regole del Ddl si applicano anche ai medici universitari che svolgono attività assistenziali nelle aziende ospedaliero-universitarie e nelle strutture sanitarie pubbliche o private accreditate. E valgono anche per tutto il personale della dirigenza sanitaria non medica (anche universitaria) che aveva comunque optato per l'esclusiva. Ieri, tra l'altro, il ministro ha dato il via al decreto che ricostituisce la Commissione nazionale per la formazione continua. ______________________________________________________________________________ Il Messaggero 06 lug. ’02 VARATA LA RIFORMA SUI MEDICI: REVERSIBILE LA SCELTA DELL’ESCLUSIVITÀ , in pensione a 70 anni Sirchia: tagli ai farmaci più cari Sì al decreto sulla sanità: niente ticket, revisione del prontuario entro settembre di ROSSELLA CRAVERO ROMA — E’ stato approvato ieri sera dal Consiglio dei ministri il decreto sulla razionalizzazione della spesa dei farmaci e la riforma per la professione dei medici. Niente ticket, come era stato promesso, ma viene rivoluzionato il prontuario. «Non ci sono ticket per non gravare sui cittadini, ma abbiamo scelto di agire per revisionare il prontuario dei medicinali rimborsabili», sono state le dichiarazioni del ministro Sirchia. Il nuovo elenco dei medicinali dovrà essere preparato dalla Cuf entro il 30 settembre di quest’anno, dovrà seguire il criterio del costo-beneficio per i prodotti farmaceutici che verranno concessi gratuitamente dal servizio sanitario nazionale. Oltre alla revisione del prontuario basandosi su questo nuovo principio che va a sostituire quello precedentemente applicato delle categorie omogenee, il provvedimento prevede novità anche per il rimborso dei farmaci per i quali esiste un generico: quelli che hanno lo stesso principio attivo, la stessa forma farmaceutica e via di somministrazione, possono essere ammessi al rimborso indipendentemente che siano generi o di marca. Il prezzo però deve essere più basso del corrispondente prodotto. Da questa ultima norma però vengono salvati i farmaci coperti da brevetto «sul principio attivo». Con la revisione del prontuario dei farmaci da parte della Commissione unica del farmaco «si taglieranno i picchi dei prezzi dei medicinali più alti», ha commentato il ministro Sirchia. La Cuf si muoverà secondo precise indicazioni: non scegliendo il costo dei farmaci al prezzo più basso ma «secondo un prezzo medio ponderato al 70-80%, per togliere così i picchi più elevati. In questa maniera le aziende tenderanno a diminuire i prezzi dei loro prodotti e non farli uscire dal prontuario della rimborsabilità». «Le aziende farmaceutiche - ha concluso Sirchia - hanno guadagnato molto e non possono continuare con questi privilegi». Il dissenso degli industriali del farmaco si è fatto sentire. «I nostri azionisti - spiega il presidente di Farmindustria Gian Pietro Leoni - ci stanno guardando con apprensione: è il quarto intervento in meno di un anno e questi sono interventi che cambiano il sistema. La riclassificazione secondo il criterio del costo-beneficio è appunto stravolgente: da un quadro di riferimento stabile - aggiunge Leoni - siamo passati ad un quadro da temporale. Queste misure stanno penalizzando il settore e potenziano l'incertezza e la preoccupazione. Credo che gli interventi in atto - prosegue l'esponente di Farmindustria - possano provocare l'esclusione del paese dalle decisioni di investimento prossime future e questi effetti non si vedranno tra 15 giorni ma fra un anno. Le multinazionali - conclude - sono come le portaerei, non cambiano rotta in 5 minuti». E ieri è stata anche la volta dei medici. Per loro è la riforma della riforma, anche se adesso si dovrà attendere il parere della Conferenza Stato Regioni. Superata quella che era stata definita la "rivoluzione Bindi" che aveva introdotto l’esclusività di rapporto e la irrevocabilità della scelta: ora i camici bianchi potranno tornare ad esercitare liberamente fuori dall’ospedale la propria attività privata, «a patto che non ci siano conflitti di interessi». Ad essere penalizzati saranno solo coloro che sciegleranno il part-time, cioé l’extramoenia, per loro infatti è prevista l’eliminazione dell’indennità che era stata assegnata per l’esclusività di rapporto. ma anche chi preferirà questo rapporto avrà la possibilità di accedere a inciarichi dirigenziali. Il via libera del ministro dell’Economia ha sbloccato quello che è rimasto un nodo per più di un mese. C’erano infatti dubbi economici sulla copertura della remunerazione per l’abbattimento delle liste d’attesa. Novità anche per il limite di età per l’esercizio della professione che viene elevato a 70 anni, mentre i dirigenti di struttura complessa potranno restare in servizio fino a 72 anni. ______________________________________________________________________________ Il Sole24Ore 06 lug. ’02 RIMBORSATI SOLO I FARMACI CON IL PREZZO PIÙ BASSO ROMA - Revisione del Prontuario sulla base del criterio costo/efficacia e modifica del calcolo del prezzo di rimborso Ssn. Il Governo ha deciso di dare scacco alla spesa farmaceutica per la quarta volta in meno di un anno. Non senza tira e molla fino all'ultimo istante, ieri il Consiglio dei ministri ha, infatti, approvato la nuova manovra per contenere la spesa farmaceutica, che avrà effetti solo dagli ultimi mesi del 2002. E che, in prospettiva, potrebbe portare a una contrazione della spesa per 1,8 miliardi di euro, con un taglio del 15,6% rispetto a volumi e prezzi attuali. Il decreto per la parte sanitaria concede anche fiato ai bilanci regionali, abolendo la norma che limitava al primo semestre dell'anno la possibilità di concedere anticipazioni di tesoreria: le Regioni - che non hanno ancora deciso la suddivisione della torta per il 2002 - rischiavano già a luglio di restare a secco. Ma è il capitolo farmaci quello che farà più discutere. In sostanza, si ritorna al 1994. Entro il 30 settembre la Cuf dovrà riscrivere il Prontuario terapeutico, sulla base del criterio costo/efficacia dei farmaci e abrogando la rimborsabilità per categorie terapeutiche omogenee introdotta nel 1998, in modo che ogni anno siano rispettati i «livelli di spesa programmata nei documenti vigenti di finanza pubblica». In sostanza, a parità di prezzo ed efficacia terapeutica, il Ssn rimborserà solo il farmaco a prezzo più basso. Le medicine uguali o abbasseranno i listini o non saranno più rimborsate, ma a totale carico dei cittadini. «Si taglieranno i picchi dei prezzi» e si arriverà a «un prezzo medio ponderato al 70-80%», ha anticipato il ministro della Salute, Girolamo Sirchia, ribadendo la certezza che le industrie modereranno i listini pur di non perdere la rimborsabilità dei propri prodotti. «Le aziende hanno guadagnato molto e non possono continuare con questi privilegi», ha ribadito Sirchia. Partita delicatissima, viste le abitudini degli assistiti ma anche quelle dei medici. E difficile anche sul versante del rapporto con le industrie farmaceutiche, che non a caso hanno annunciato una sfida a tutto campo. Partita rimasta, ieri, informalmente aperta fino all'ultimo. Soprattutto per le resistenze opposte dal ministero delle Attività produttive, che avrebbe preferito varare un Prontuario rivisto e corretto, ma con un delisting potenziato (conservando le categorie terapeutiche omogenee e senza costo/efficacia) rispetto a quelli già attuati in alcune Regioni, dopo la legge taglia-spesa (405/2001), che ha applicato il patto di stabilità dell'agosto scorso. Ma non c'è stato niente da fare: sia per i pareri contrari di Economia e Salute, sia per il rifiuto delle Regioni. Altra novità riguarda, poi, il prezzo di rimborso Ssn. Con una modifica proprio alla legge taglia-spesa (comma 1 dell'articolo 7) si stabilisce che i farmaci contenenti un principio attivo non più coperto da brevetto saranno rimborsati dal Ssn in base al valore del prodotto più economico disponibile sul mercato regionale. Nella norma non è stata inserita, come da alcuni auspicato, l'esclusione della copertura brevettuale su eccipienti e indicazioni. Né sarebbe stato contemplato nel testo finale il potere per il Cipe di abbassare in via automatica i prezzi dei prodotti che superano la media europea dei listini. E ora tocca al Parlamento. Dove il decreto dovrebbe arrivare ancora una volta «blindato». E con un ostacolo in più: dovrà essere convertito in legge in meno di un mese. Roberto Turno ______________________________________________________________________________ Il Messaggero 03 lug. ’02 INDAGINE DEL CENSIS SUL RAPPORTO CON I MEDICINALI. Il 74% vorrebbe la gratuità per omeopatia e fiori di Bach Farmaci, 1 su 2 non ascolta il medico Gli italiani non seguono le prescrizioni. E i malati criticano il federalismo ROMA - Italiani e farmaci: una convivenza non sempre facile. Finiti i tempi del rispetto totale delle indicazioni dei medici, mentre le cure alternative piacciono sempre di più anche se non tutti sono convinti dell’efficacia. È quanto emerge dall'indagine Censis per conto del Forum della ricerca biomedica, svolta nelle prime settimane di giugno su un campione rappresentativo della popolazione italiana. Per il 29,6%, infatti, le medicine sono ciò che serve veramente per guarire da una malattia ponendole solo al secondo posto, dopo i medici che rivestono il ruolo più importante per la salute degli italiani (42,7%). I farmaci sono molto più importanti degli ospedali, determinanti solo per il 4,8% o della semplice evoluzione della malattia per il 22,9%. E chi sta male boccia il federalismo sanitario e le misure messe in atto dalle regioni per frenare la spesa in farmaci. Infatti, secondo la maggioranza degli italiani, il federalismo sanitario non ha avuto alcuna influenza (59,3%) o ha peggiorato (26,4%) l'assistenza farmaceutica, mentre solo il 14,3% ritiene che l'abbia migliorata. Da sottolineare che sono soprattutto le persone con uno stato di salute valutato come insufficiente (37,7%) e i residenti nel nord-ovest (32,3%) e nel nord-est (32,2%) che, più degli altri, sottolineano l'impatto negativo che l'attribuzione a livello regionale delle responsabilità in sanità ha avuto sull'assistenza farmaceutica. Sulla funzione del ticket, le opinioni dei cittadini sono nettamente differenziate poichè il 50,6% lo considera solo uno strumento che riduce la spesa pubblica senza alcun impatto razionalizzatore sui consumi, mentre il 49,4% ritiene che vada ad incidere sul consumo di farmaci inutili. Anche se non convinti della loro sicurezza, il 74,4% degli intervistati dal Censis sostengono che i prodotti omeopatici e i fiori di Bach devono diventare farmaci rimborsabili, anche se il 64% ritiene che al momento non siano controllati a sufficienza. Il contraddittorio atteggiamento emerge da un sondaggio su come vedono e cosa vogliono gli italiani dal farmaco. Relativamente al primo aspetto, prevale un'idea di farmaco come strumento tecnico ed affidabile, da cui ci si aspetta una sempre maggiore efficacia e specificità. Solo il 3,6% dichiara di fare uso in modo esclusivo di medicinali alternativi. Per il 33,5% degli intervistati i farmaci non convenzionali sono prodotti naturali che non possono fare male, per il 27,1% sono prodotti utili solo per affrontare piccoli disturbi, un quarto circa ritiene che essi facciano parte di concezioni diverse della medicina, mentre un giudizio espressamente negativo («sono generalmente inutili e qualche volta dannosi») viene espresso dal 13,7%. ______________________________________________________________________________ La Stampa 03 lug. ’02 AIDS SEMPRE PIÙ MALATTIA DELLA COPPIA NORMALE La via eterosessuale è la prima fonte di trasmissione del virus (34 per cento) ROMA Uomo sui 40 anni, istruzione superiore, eterosessuale. Donna intorno ai 35 anni, sposata. L'Hiv è la malattia della coppia normale. L´identikit emerge dai dati dello studio Icona. L´inchiesta ha «monitorato» 5014 persone sieropositive contattate in 67 centri su tutto il territorio nazionale. Insomma l'Aids è ormani una malattia che riguarda tutti, indipendentemente dalle preferenze sessuali e dall'età, tanto che la «via eterosessuale» è la prima fonte di trasmissione con il 34,3% seguita dal 32,5% di diffusione tra i tossicodipendenti e il 17,8 tra gli omosessuali. Ma il dato più preoccupante è il costante calo d´attenzione alla malattia. Secondo i dati dell´Istituto superiore di Sanità, in Italia potrebbero essere più di cinquantamila le persone sieropositive che non sanno di essere ammalate. E a giungere tardi al test e alle cure sono sempre più malati. L'anno scorso oltre il 60% dei 3500 nuovi casi registrati dall'Iss è arrivato dai medici con Aids conclamata. L´inchiesta rivela, poi, che nel nostro Paese 4 donne su 10 che hanno contratto l'Aids lo hanno fatto «consapevolmente», cioè sapevano che il partner era affetto da Hiv, ma hanno avuto rapporti sessuali non protetti: il 36% con il marito, il fidanzato o il compagno, sieropositivo dichiarato; il 3,1% addirittura con un partner occasionale, che prima del rapporto non aveva nascosto la sua condizione. Per gli uomini, secondo il rapporto presentato dagli infettivologi Mauro Moroni e Giuseppe Ippolito all'Istituto Spallanzani di Roma, la situazione migliora, ma rimane preoccupante a dimostrazione di come si sia «abbassata pericolosamente la soglia di attenzione»: il 13,6% ha deciso di condividere la sieropositività con la donna della loro vita, mentre il 3% l´ha fatto con una donna sieropositiva in un rapporto occasionale. Ogni giorno nel nostro Paese si infettano 10-15 persone (4500 l'anno) che vanno ad alimentare un bacino di 110.000 persone infette con l'Hiv. Ecco, secondo i ricercatori, il nuovo volto dell'infezione e della malattia a vent'anni dal primo caso di Aids: cala la percezione del pericolo. Da un quadro della malattia apocalittico si sta passando ad una fase nella quale le persone hanno una diminuita percezione della gravità dell'infezione. Probabilmente, secondo gli esperti, i progressi fatti dalla ricerca e la disponibilità di nuovi farmaci hanno fatto abbassare la guardia. Diminuisce poi il numero delle persone che chiedono il test anti Hiv. Il 60% degli ultimi 500 casi di Aids notificati all'Istituto superiore di sanità ha scoperto di aver contratto il virus quando la malattia era già conclamata; non ha dunque avvertito di fare il test e tanto meno ha etichettato come a rischio i suoi comportamenti. «Tra coloro che hanno fatto il test che ha dato esito di positività al virus - spiega l´epidemiologo Enrico Girardi - 1/3 ritarda l'inizio delle cure, compromettendo la possibilità di frenare la malattia». «L'osservazione dei risultati dello studio - conferma Antonella D'Arminio Manforte, professore associato di Malattie Infettive dell' Università di Milano - dimostra come nel corso degli anni la storia della malattia si sia radicalmente modificata. Se nei primi Ottanta, il 93% di chi si scopriva sieropositivo era tossicodipendente o aveva alle spalle una storia di droga, oggi il gruppo più consistente, il 34,3%, è rappresentato dalle persone infettatesi per via eterosessuale». A dimostrazione che sempre di più l'HIV è una malattia della «coppia normale», portata tra le mura domestiche dall'uomo, il 39,3% delle donne acquisisce il virus dal partner abituale, di cui non era a conoscenza dello stato sierologico. r. cri. ______________________________________________________________________________ La Stampa 03 lug. ’02 OCCHIO ALLA TROMBOSI SENTINELLA SPESSO L´AFFEZIONE AL SANGUE E´ IL SEGNALE DI UN TUMORE INSORGENTE LA RISPOSTA AI FARMACI DIPENDE ANCHE DA FATTORI GENETICI DEL PAZIENTE E´ ormai certo: tra le due terribili "t", la trombosi e i tumori, esiste una stretta correlazione. Lo afferma Maria Benedetta Donati, presidente della Società italiana per lo studio dell´emostasi e della trombosi, che ha ricevuto il premio "L´Oreal - Unesco Special Honor for Women in Science" riservato a una ricercatrice italiana di particolare valore. «Le cellule tumorali - spiega - risultano più ricche di sostanze procoagulanti e questo crea le condizioni di una trombosi». Inoltre «nel momento della disseminazione di un tumore, se le cellule trovano un sangue meno fluido e più coagulabile, più facilmente si formano le metastasi». Coordinatore della Ricerca cardiovascolare del neonato Centro di ricerca e formazione ad alta tecnologia nelle scienze biomediche, con cui l´Università Cattolica dal prossimo autunno scende al sud, a Campobasso in Molise, Maria Donati pensa che la correlazione trombosi-tumore, su cui iniziò gli studi in laboratorio una ventina di anni fa, apra interessanti prospettive. Per esempio, utilizzando degli anticoagulanti si può migliorare la sopravvivenza di pazienti con tumore. «Naturalmente - precisa - non sto dicendo di curare così il cancro ma solo che si possono migliorare le condizioni di vita di chi ne è affetto e prolungarne la sopravvivenza». Ma la correlazione tumore-trombosi funziona anche in senso inverso. E´ il caso della cosiddetta «trombosi sentinella». Da studi recenti emerge che coloro i quali sono colpiti da una trombosi venosa senza giustificazione apparente (non è, per esempio, postchirurgica oppure causata da lunghi periodi di immobilità) in capo a sei mesi o un anno dall´evento spesso risultano colpiti da un cancro. La deduzione più immediata è allora che, appena suonano simili campanelli d´allarme, se sul soggetto colpito viene compiuta una ricerca approfondita si può giungere a una diagnosi precoce di tumore. Quindi un evento infausto come una trombosi potrebbe rivelarsi come un "salvavita". A una prevenzione del genere si oppongono attualmente motivazioni legate ai costi. Ma sono in corso ricerche per rendere economicamente sostenibile uno screening così approfondito di chiunque sia colpito da una "trombosi sentinella". Viste le sue correlazioni, non va comunque dimenticata la prevenzione della trombosi stessa. E anche in questo senso ci sono novità. Accanto ai fattori di rischio già noti - colesterolo alto, obesità, vita sedentaria, fumo - va aggiunta la componente genetica. «Mentre negli scorsi anni si classificavano i pazienti in maniera molto generale - osserva Maria Donati - e si parlava di prevenzione utilizzando per tutti farmaci anticoagulanti, per abbassare il colesterolo e la pressione, oggi si capisce sempre di più che i farmaci non sono uguali per tutti. Si capisce cioè che la risposta varia secondo l´assetto genetico dei pazienti. Per questo la farmacogenetica è la nostra sfida. Si tenta di identificare una serie di cosiddetti geni candidati. Io che mi occupo del cardiovascolare cerco dei geni che codifichino proteine importanti per la coagulazione, per il tono vascolare, per la pressione. Si cerca insomma, attualmente, di valutare dei pacchetti che vanno dai 15 ai 50 geni per mettere a punto una carta del rischio più vicina alla realtà. Ma siamo all´inizio e c´è ancora molta strada da fare». C´è e ci sarà sempre tanto da fare nella ricerca scientifica mentre sono sempre magre le risorse che l´Italia mette a disposizione costringendo troppi ricercatori a emigrare. Una buona notizia è quella dell´iniziativa "L´Oreal-Unesco per le Donne e la Scienza in Italia" presentata in occasione della premiazione di Maria Donati: un concorso per l´assegnazione di cinque borse di studio "per favorire il proseguimento e il completamento della formazione di giovani promettenti ricercatrici". Borse di studio della durata di 10 mesi, da utilizzare per ricerche presso istituti italiani. La giuria, presieduta da Umberto Veronesi, sarà composta da Maria Benedetta Donati stessa insieme con Cristina Emanuel, Marcella Motta, Gian Tommaso Scarascia Mugnozza. Il bando del concorso verrà pubblicato il 15 ottobre (sul sito: www.loreal.it) e le domande dovranno arrivare entro il 1° gennaio 2003. Luciano Simonelli ______________________________________________________________________________ Le Scienze 05 lug. ’02 HIV, SIAMO SOLO ALL'INIZIO? Tra il 2000 e il 2020, nei 45 Paesi più colpiti dovrebbero morire circa 68 milioni di persone Secondo un rapporto dell'UNAIDS, l'epidemia di AIDS che sta infuriando nel mondo, soprattutto in Africa, è solo all'inizio, anche se il numero delle persone infette appare già impressionante. Tra il 2000 e il 2020, nei 45 Paesi più colpiti dovrebbero morire circa 68 milioni di persone, contro i circa 13 milioni di decessi degli ultimi 20 anni. Le teorie secondo cui l'epidemia potrebbe rallentare nei Paesi più colpiti sono state confutate e al momento solo il 4 per cento dei sieropositivi nel terzo mondo ha accesso a cure antiretrovirali. "Anche se iniziassero immediatamente programmi di prevenzione e cura eccezionalmente efficaci - dice il rapporto - la scala della crisi è tale che la perdita in termini di vite umane e i costi socio-economiche rimarrebbero significativi per generazioni". Alcuni ricercatori hanno suggerito che l'epidemia potrebbe iniziare ad attenuarsi nei paesi più devastati, man mano che decresce il numero delle persone a rischio, ma gli ultimi dati non confermano questa idea. Per esempio, in Zimbabwe, dove un quarto degli adulti era sieropositivo nel 1997, alla fine del 2001 si è arrivati addirittura a un terzo. Gli autori stimano che circa 55 milioni di africani moriranno prematuramente per l'AIDS entro il 2020. In Botswana, il Paese con il più alto tasso di sieropositivi del mondo, circa il 39 per cento degli adulti è infetto. Ma il rapporto avverte che l'Asia potrebbe rischiare un'epidemia esplosiva simile a quella che sta devastando l'Africa. “I governi asiatici non si sono ancora resi conto del potenziale impatto e delle conseguenze dell'apidemia," dice Anthony Lisle, capo del gruppo dell'UNAIDS che si occupa del Sud-est asiatico e del Pacifico. Circa un milione di persone sono state infettate solo nel 2001. "L'andamento è simile a quello dell’esordio dell'epidemia in Africa," dice Sandro Galvani, sempre dell'UNAIDS. "Un milione di infezioni significa 3000 al giorno, o 125 all'ora. Questi sono numeri impressionanti." In Cina, le infezioni riscontrate sono aumentate del 70 per cento solo nei primi sei mesi del 2001. Quasi tutti i primi casi furono il risultato dell'utilizzo di siringhe infette per la droga o di trasfusioni, ma ora l'epidemia si sta trasmettendo per contatto eterosessuale. ______________________________________________________________________________ Le Scienze 02 lug. ’02 UN GENE DEL RITARDO MENTALE La scoperta potrebbe portare allo sviluppo di nuove terapie Seri ritardi mentali e disabilità possono essere causati dalla mutazione di un singolo gene. Lo hanno scoperto alcuni ricercatori della Clemson University nella Carolina del Sud e del Greewood Genetic Center. L'articolo sull'importante risultato è pubblicato sull'ultimo numero della rivista "Scienze" a firma di Anand K. Srivastava e colleghi. Il gene in questione si trova sul cromosoma X ed era già noto come gene per il recettore dell'angiotensina 2 (AGTR2) e la sua funzione non è ancora stata compresa. Si sa però che il gene AGTR1 svolge un ruolo importante per lo sviluppo dei vasi sanguigni e la regolazione della pressione del sangue ed è probabile che l'AGTR2 abbia funzioni simili relative al solo cervello. "L'identificazione della mutazione di un singolo gene che può essere causa di alcuni casi di ritardo mentale è molto incoraggiante" afferma Duane Alexander, direttore del National Institute of Child Health and Human Development. "Questa scoperta non soltanto potrebbe portare allo sviluppo di nuove terapie, ma potrebbe anche aiutare a capire meglio i processi implicati nel normale sviluppo del cervello." A far sospettare il legame è stato un singolo paziente, ma i ricercatori hanno poi studiato altri 590 pazienti maschi (le donne avendo due cromosomi X non risentono della mutazione su uno solo dei due) identificando otto portatori della stessa mutazione. "Anche se la mutazione dell'AGTR2 sembra essere presente solo nell'1,5 per cento dei pazienti maschi affetti da ritardo mentale, si tratta di una percentuale significativa" sottolinea il collaboratore di Duane Alexander, James Hanson. ______________________________________________________________________________ Le Scienze 02 lug. ’02 UNA NUOVA TERAPIA CONTRO L'AIDS Il nuovo farmaco è basato su una combinazione di due inibitori della proteasi Per la prima volta una combinazione di inibitori della proteasi ha dimostrato di funzionare meglio di altre in pazienti che non avevano ricevuto altre cure in precedenza. La nuova terapia, messa a punto da un gruppo di ricercatori del General Hospital dell'Università di Toronto diretto da Sharon Walmsley, è stata descritta sul'ultimo numero del "New England Journal of Medicine". "La nuova miscela di farmaci inibisce con maggiore efficacia il virus ed è di più facile assunzione per i pazienti" spiega la Walmsley. "Inoltre abbiamo scoperto che non induce resistenza, uno dei problemi più gravi della terapia anti HIV." L'HIV è un retrovirus che attacca il sistema immunitario e ha bisogno dell'enzima proteasi per maturare e replicarsi. Gli inibitori della proteasi rappresentano in effetti una classe di farmaci che si è dimostrata capace di rallentare l'infezione virale. Essi vengono di solito usati in combinazione con altri farmaci, chiamati inibitori della transcriptasi inversa, che agiscono su uno stadio precedente della replicazione. In un test in doppio cieco, i ricercatori hanno sperimentato la nuova combinazione su 653 pazienti adulti che non avevano ricevuto in passato cure antri-retrovirali. La nuova combinazione di due inibitori della proteasi chiamati lopinavir e ritonavir - in attesa dell'approvazione definitiva della FDA statunitense - è stata confrontata con l'inibitore più comunemente usato in Canada, il nelfinavir. Dopo trattamenti durati 24 e 48 settimane, il 60-70 per cento dei pazienti ha dimostrato di avere un tasso virale nel sangue inferiore a 50 per millilitro, un risultato a cui aspirano tutte le terapie. ______________________________________________________________________________ La Stampa 02 lug. ’02 L´OBESITÀ, LA NUOVA MALATTIA ITALIANA QUATTRO MILIONI DI CASI, SOLTANTO IL 18 PER CENTO SI METTE A DIETA Il ministro Sirchia: «Bisogna modificare gli stili di vita» MILANO Gli italiani obesi trascurano la loro malattia. Anzi, perlopiù ignorano di esserne malati, e continuano in totale incoscienza a vivere (male) senza prendere provvedimenti, quando invece basterebbe un modesto calo di peso per ridurre i rischi di mortalità conseguenti a questa patologia. E´ una delle conclusioni del quarto Rapporto sull´obesità in Italia, realizzato dall´Istituto Auxologico italiano e presentato ieri a Milano. Fotografia - sconfortante - dei 4 milioni di italiani malati di obesità: solo il 18 per cento si mette a dieta, e solo l´8 per cento usa farmaci per curarsi. Gli altri tirano a campare: talvolta devono ridurre l´attività lavorativa, o abbandonarla del tutto. Spesso finiscono in ospedale (con altissimi costi sociali ed economici), perché il 27,2 per cento degli obesi oltre i 18 anni soffre anche (e in misura sei volte maggiore rispetto alle persone di peso normale) di cardiopatia, diabete o ipertensione (il 14,8 per cento associa all´obesità almeno due di queste patologie, il 2 per cento tutte). Questa situazione viene definita «sindrome X», o «sindrome plurimetabolica». E´ il presupposto fondamentale della possibilità di andare incontro a malattie cardiovascolari (e di morirne, come si sa). E´ una malattia sociale, in rapidissimo aumento, che preoccupa moltissimo la comunità scientifica internazionale. Ieri Michele Carruba, direttore del laboratorio di ricerche dell´Auxologico, spiegava che la patologia cresce ormai «non solo nei Paesi sviluppati, ma anche in quelli in via di sviluppo. L´Organizzazione mondiale della Sanità parla infatti di `´globesity´´. E´ una malattia che ha radici nella cultura, ed è questa che va modificata. L´obesità viene invece spesso affrontata come problema estetico, invece che come fattore di serio rischio». «Bisogna modificare gli stili di vita», ha detto il ministro della Salute Girolamo Sirchia alla presentazione del Rapporto. «Quindi non tanto ricorrere alla pastiglia, ma contribuire alla propria salute cambiando gli stili di vita dannosi. Come per il fumo: molti sperano di guarire dalla bronchite cronica con una pastiglia, anziché smettere di fumare. Così per l´altro male del secolo: l´eccesso alimentare in termini di qualità e di quantità». Per il ministro non bisogna abbandonare - come invece facciamo - «la nostra dieta mediterranea, che ha dato risultati di prolungare la vita. Ci avviamo verso stili e gusti diversi, sacrificando le cucine regionali e le nostre tradizioni, e i vantaggi di una dieta sana». Ci vuole allora «un´informazione che dica `´guardate che la dieta mediterranea a quantità ragionevoli è la strada giusta, perché ha già dimostrato di essere valida´´». Il ministro pensa ad una campagna informativa antiobesità e antifumo, in cui accanto al logo del ministero della Salute compaiano anche sponsorizzazioni di aziende private, anche non interessate direttamente ai temi. Così si potrebbero reperire i finanziamenti necessari, da aggiungere ai fondi pubblici. E a proposito dei costi della patologia, Carruba ha spiegato che «l´obesità, il sovrappeso e le malattie conseguenti costano alla comunità 2,8 miliardi di euro ogni anno, di cui ben 14,6 in ricoveri ospedalieri». E pensare che basterebbe una dieta: un modesto calo di peso, nell´ordine del 5-10 per cento del peso iniziale, è sufficiente a ridurre del 30 per cento la mortalità per diabete e a migliorare l´ipertensione, l´anormalità dell´assetto lipidico e il controllo glicemico. Ma chi sono gli obesi? Il 9 per cento della popolazione adulta, cioè 4 milioni di italiani, con una leggera prevalenza degli uomini. Invece il sovrappeso è un problema più significativo per gli uomini, in particolare per la fascia d´età 45-74 anni (nelle donne il problema tende ad emergere dopo i 55 anni. Inoltre, obesità e sovrappeso sono più elevati nell´Italia meridionale e insulare (rispettivamente 37,9 e 34,5 per cento per il sovrappeso, 11,3 e 9,6 per l´obesità). Al Nord e al centro va invece molto meglio: una media del 31 per cento per il sovrappeso e dell´8 per cento per l´obesità. Brunella Giovara