I RETTORI: L' UNIVERSITÀ ITALIANA È FUORI DALL' EUROPA ATENEI, LA PROTESTA DEI RETTORI «LA FINANZIARIA STRANGOLA GLI ATENEI» SE SI TAGLIA LA RICERCA SI FA HARAKIRI IL GOVERNO CORRE AI RIPARI: «350 MILIONI ALL' UNIVERSITÀ» E TORINO SI «PENTE» DELLE ASSUNZIONI DI NUOVI DOCENTI LA RIFORMA DEGLI ATENEI E LA SELEZIONE DEI CORSI DI LAUREA SCIENZIATI, IL NOSTRO ONORE È SCOPRIRE ROVERSI-MONACO «L’UNIVERSITÀ RESTA AUTONOMA OLTRE LA POLITICA E I GOVERNI» STANCA: "PIÙ SOLDI PER LA RICERCA, LA SINDROME DEL LAUREATO I GIOVANI SARDI E IL POSTO FISSO SARDEGNA:IL TURISMO MINERARIO TRA BUSINESS E CULTURA HOMO SARDUS SAPIENS =========================================================== I QUATTRO "PILASTRI" DELLA SCIENZA MEDICA SE LA MIOPIA DIVENTA UN BUSINESS RECORD: IL PRANZO DEL CAGLIARITANO DURA 40 MINUTI SCUOLA INTERNAZIONALE AL MICROCITEMICO CAGLIARI, DA OGGI FINO A SABATO IL CONGRESSO DI CHIRURGIA VASCOLARE CAGLIARI: GUERRA ALL’EPATITE C CON I SOLDI AMERICANI L'ARTROSI DEL BENESSERE COLPISCE ANCHE NELL'ISOLA AL BROTZU SI PUÒ EVITARE IL TRAPIANTO DI CUORE CURE PER L'INFARTO ANGIOPLASTICA, SARDEGNA AI PRIMI POSTI DIABETE: UN MALE ANTICO CHE SI STA DIFFONDENDO COME UN’EPIDEMIA UN SUPERVACCINO CONTRO I TUMORI TUMORI, UN MALATO SU CINQUE SCEGLIE «CURE» ALTERNATIVE =========================================================== _______________________________________________________ Corriere Della Sera 24 ott. ’02 I RETTORI: L' UNIVERSITÀ ITALIANA È FUORI DALL' EUROPA Lettera a Berlusconi. «Mancano anche i soldi per pagare gli stipendi, dovremo far leva sulle tasse degli studenti» Entro pochi anni tra il 40 e il 60% dei docenti andrà in pensione e non ci saranno i fondi per sostituirli. E per le casse degli atenei servono oltre 450 milioni Latella Maria, Benedetti Giulio ROMA - «Nel 2003 le Università non avranno dal Fondo di finanziamento ordinario neppure risorse sufficienti per pagare gli stipendi: mancano almeno 57 milioni di euro. E se ci fosse una Maastricht per la formazione superiore e la ricerca, l' Italia n on sarebbe in Europa perché tutti i parametri, dal numero dei docenti e dei ricercatori, all' investimento per studente, a quello per la ricerca, ci pongono molto in basso fra i Paesi europei». Con una lettera trasmessa nei giorni scorsi al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, i settanta rettori delle università italiane dipingono il mesto futuro che attende studenti, famiglie e, in fondo, l' Italia intera giacché, scrivono, «il nostro Paese non ha alternative a una strategia di sviluppo che fondi la sua capacità competitiva sulla ricerca e sull' alta qualificazione della sua forza lavoro». Un futuro in cui, a breve, gli atenei perderanno tra il 40 e il 60 per cento dei docenti, i quali, già oggi anziani, nel giro di qualche anno and ranno in pensione senza che l' università abbia i fondi e il personale adeguato per sostituirli. A meno che si riesca a far partire il «progetto giovani» del ministro Moratti. LA PROTESTA - La lettera, firmata da Piero Tosi, presidente della Crui, la Conferenza dei Rettori delle Università italiane, è la sintesi della linea approvata nell' ultima assemblea e in quattro punti riassume le più pressanti questioni dibattute anche ieri, nell' incontro tra il ministro Letizia Moratti e i rettori. Tra le urgenze, con quali denari pagare i nuovi aumenti che a marzo scatteranno per i docenti universitari: aumenti del 4,31 per cento. Si pescherà dal Fondo Ordinario? «Ma allora non avremo neppure i soldi per comprare un proiettore» protestano i rettori. «Se le condizioni restano queste, io gli aumenti non li pago» avrebbe ammesso, sconfortato, Finazzi Agrò, rettore della romana Tor Vergata. «E' un meccanismo perverso - conferma il professor Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale Superio re di Pisa -. Il ministro Moratti è circondata da uno staff di prim'ordine, sta lavorando con passione, propone interventi efficaci, ma se il governo non modifica la finanziaria, la stessa sopravvivenza delle università è a rischio». Il medesimo concetto è espresso con altrettanta chiarezza nella lettera che Berlusconi dovrebbe avere sul tavolo già da una settimana. Scrivono i rettori: «Occorre modificare la legge Finanziaria 2003, in modo da consentire alle università di sopravvivere. L' emergenza, che il ministro Moratti ha cercato con determinazione di scongiurare è tale, come dimostrano i numeri e i dati, da mettere in pericolo la sopravvivenza del sistema universitario italiano, imponendo misure estreme, come far leva sulla tassazione studentesca». IL FONDO - I rettori chiedono un incremento del Fondo di finanziamento ordinario: almeno 469 milioni di euro perché nel 2003 si possano pagare gli stipendi e garantire i servizi, la ricerca di Ateneo e gli incentivi alla mobilità. La l ettera contiene anche altre tre richieste, volte ad evitare la riduzione del contributo alle università non statali legalmente riconosciute e a far sì che le retribuzioni di professori e ricercatori delle Università siano assimilate a quelle del personale statale, «ai cui miglioramenti retributivi provvede il ministero dell' Economia e Finanze». LA QUALITA' - Per il direttore della Scuola Normale di Pisa, l' Italia non può continuare a sonnecchiare sulle poche oasi di eccellenza, qual è appunto Pisa o come possono considerarsi la Bocconi o il Politecnico di Milano (per citarne alcune). «In Italia il livello della qualità generale è ancora troppo basso. In Francia e in Germania l' università è sì di massa, ma è una massa di qualità». Settis, tornato in Italia nel ' 99, dopo aver diretto il Getty Research Institute for the History of Art di Los Angeles, elenca le prove dell' arretratezza, le stesse sintetizzate nelle tabelle che il Corriere della Sera pubblica in questa pagina: «Punto pr imo: le spese per la ricerca sono al di sotto della media europea. Secondo: il rapporto tra il numero dei docenti e quello degli studenti, ci vede agli ultimi posti. Veniamo dopo la Grecia. Terzo: gli studenti non hanno a disposizione le attrezzature necessarie, frequentano lezioni in aule affollate, spesso fatiscenti». Nell' incontro che hanno avuto ieri col ministro Moratti, molti rettori hanno ammesso che tuttora, nelle città più grandi, certe lezioni si svolgono nei cinema. Letizia Moratti h a ascoltato, ha condiviso ma ha anche ricordato ai rettori che se in questi anni l' università italiana non ha trovato un raccordo con l' industria, molto è dipeso dalle diffidenze degli stessi docenti, chiusi in un mondo totalmente autoreferenziale. Adesso, come usa dire, l' allarme è lanciato, e a quella lettera Silvio Berlusconi dovrà dare, prima o poi, una risposta. Maria Latella E per le casse degli atenei servono oltre 450 milioni La Finanziaria fa saltare gli equilibri «Il ministero dell' Economia deve farsi carico delle retribuzioni» ROMA - Nei prossimi mesi gli atenei, per pagare gli stipendi dei professori, potrebbero essere costretti a ridurre i servizi. E in qualche caso ad aumentare anche le tasse, con una prevedibile penalizzazione per i giovani meno abbienti. Ieri il primo SOS. E' venuto dall' università di Ferrara. Il rettore Francesco Conconi, inaugurando il 612mo anno accademico, ha detto che dovrà ritoccare al ribasso, se non azzerare, «i fondi liberi, penalizzando assegni di ricerca, dottorati, docenti a contratto, ricerca». Ma Ferrara non è un' eccezione. L' emergenza, la più seria degli ultimi decenni, si è profilata quando sono emerse le prime indiscrezioni sulla finanziaria 2003. La sensibile riduzione dei finanziamenti statali ha indotto Piero Tosi, il «magnifico» di Siena appena nominato presidente dell' assemblea dei responsabili delle università, a lanciare un appello al governo in nome della «sopravvivenza» dell' università. I dati sulla percentuale del Pil (il prodotto interno lordo) investita per la formazione universitaria da sempre ci pongono agli ultimi posti tra i Paesi sviluppati. La media in Europa è intorno allo 0,98 per cento. In Italia siamo allo 0,63. I rigori della Finanziaria 20 03 - 179 milioni di euro in meno rispetto all' anno precedente - hanno fatto saltare i precari equilibri esistenti nei diversi atenei. Il peso maggiore, sulle dissestate finanze delle università, è rappresentato dagli incrementi automatici di stipendio per professori e ricercatori, che da alcuni anni gravano sui bilanci degli atenei. E non si tratta di una voce leggera: oltre 140 milioni per il 2002 e altrettanti per il 2003. Poi vanno messi in conto i 179 milioni necessari per colmare il divari o tra la previsione finanziaria del 2003, pari a 6.030 milioni di euro e il «consolidato» del 2002 di 6.209 milioni. Il presidente della conferenza dei rettori, Piero Tosi, ha posto al governo una sorta di ultimatum: se si vogliono evitare misure est reme, come l' aumento delle tasse - negli atenei in cui queste non hanno raggiunto il tetto del 20 per cento dei trasferimenti statali - e la riduzione dei servizi, occorre modificare la Finanziaria, prevedendo un aumento dei fondi per le università di oltre 450 milioni di euro. Oppure il ministero dell' Economia deve farsi carico dei miglioramenti retributivi del personale docente. Il ministro dell' Istruzione e dell' Università, Letizia Moratti, ha riconosciuto le ragioni dei rettori. E li ha rassicurati annunciando che si sta lavorando su emendamenti alla Finanziaria che vanno incontro alle richieste degli atenei. G. B. _______________________________________________________ Corriere Della Sera 24 ott. ’02 ATENEI, LA PROTESTA DEI RETTORI «Nelle Università mancano docenti e ricercatori» E si profila un aumento delle tasse Lettera a Berlusconi: senza risorse a rischio anche gli stipendi, siamo ultimi in Europa «Se ci fosse una Maastricht per l’università, l’Italia non sarebbe in Europa, perché tutti i parametri, dal numero dei docenti e dei ricercatori, all’investimento per studente, a quello per la ricerca, ci pongono molto in basso fra i Paesi europei». I settanta rettori delle Università italiane scrivono a Silvio Berlusconi e in una lettera dai toni durissimi e allarmati chiedono che la Finanziaria 2003 venga modificata in modo da consentire alle Università di sopravvivere. «Nel 2003 non ci saranno fondi neppure per pagare gli stipendi, mancano almeno 57 milioni di euro. Potremmo essere costretti a far leva sulla tassazione studentesca». Alla lettera inviata al presidente del Consiglio, i rettori allegano i dati sull’università italiana, confrontati con quelli europei: siamo agli ultimi posti nel rapporto tra numero di docenti e numero di studenti, veniamo anche dopo Grecia e Irlanda. I rettori: l’università italiana è fuori dall’Europa Lettera a Berlusconi. «Mancano anche i soldi per pagare gli stipendi, dovremo far leva sulle tasse degli studenti» ROMA - «Nel 2003 le Università non avranno dal Fondo di finanziamento ordinario neppure risorse sufficienti per pagare gli stipendi: mancano almeno 57 milioni di euro. E se ci fosse una Maastricht per la formazione superiore e la ricerca, l’Italia non sarebbe in Europa perché tutti i parametri, dal numero dei docenti e dei ricercatori, all’investimento per studente, a quello per la ricerca, ci pongono molto in basso fra i Paesi europei». Con una lettera trasmessa nei giorni scorsi al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, i settanta rettori delle università italiane dipingono il mesto futuro che attende studenti, famiglie e, in fondo, l’Italia intera giacché, scrivono, «il nostro Paese non ha alternative a una strategia di sviluppo che fondi la sua capacità competitiva sulla ricerca e sull’alta qualificazione della sua forza lavoro». Un futuro in cui, a breve, gli atenei perderanno tra il 40 e il 60 per cento dei docenti, i quali, già oggi anziani, nel giro di qualche anno andranno in pensione senza che l’università abbia i fondi e il personale adeguato per sostituirli. A meno che si riesca a far partire il «progetto giovani» del ministro Moratti. LA PROTESTA - La lettera, firmata da Piero Tosi, presidente della Crui, la Conferenza dei rettori delle università italiane, è la sintesi della linea approvata nell’ultima assemblea e in quattro punti riassume le più pressanti questioni dibattute anche ieri, nell’incontro tra il ministro Letizia Moratti e i rettori. Tra le urgenze, con quali denari pagare i nuovi aumenti che a marzo scatteranno per i docenti universitari: aumenti del 4,31 per cento. Si pescherà dal Fondo ordinario? «Ma, allora, non avremo neppure i soldi per comprare un proiettore» protestano i rettori. «Se le condizioni restano queste, io gli aumenti non li pago» avrebbe ammesso, sconfortato, Finazzi Agrò, rettore della romana Tor Vergata. LA FINANZIARIA - «E’ un meccanismo perverso - conferma il professor Salvatore Settis, direttore della Scuola normale superiore di Pisa -. Il ministro Moratti è circondata da uno staff di prim’ordine, sta lavorando con passione, propone interventi efficaci, ma se il governo non modifica la Finanziaria, la stessa sopravvivenza delle università è a rischio». Il medesimo concetto è espresso con altrettanta chiarezza nella lettera che Berlusconi dovrebbe avere sul tavolo già da una settimana. Scrivono i rettori: «Occorre modificare la Legge finanziaria 2003, in modo da consentire alle università di sopravvivere. L’emergenza, che il ministro Moratti ha cercato con determinazione di scongiurare è tale, come dimostrano i numeri e i dati, da mettere in pericolo la sopravvivenza del sistema universitario italiano, imponendo misure estreme, come far leva sulla tassazione studentesca». IL FONDO - I rettori chiedono un incremento del Fondo di finanziamento ordinario: almeno 469 milioni di euro perché nel 2003 si possano pagare gli stipendi e garantire i servizi, la ricerca di ateneo e gli incentivi alla mobilità. La lettera contiene anche altre tre richieste, volte a evitare la riduzione del contributo alle università non statali legalmente riconosciute e a far sì che le retribuzioni di professori e ricercatori delle università siano assimilate a quelle del personale statale, «ai cui miglioramenti retributivi provvede il ministero dell’Economia e Finanze». LA QUALITA’ - Per il direttore della Scuola normale di Pisa, l’Italia non può continuare a sonnecchiare sulle poche oasi di eccellenza, qual è appunto Pisa o come possono considerarsi la Bocconi o il Politecnico di Milano (per citarne alcune). «In Italia, il livello della qualità generale è ancora troppo basso. In Francia e in Germania l’università è sì di massa, ma è una massa di qualità». Settis, tornato in Italia nel ’99, dopo aver diretto il Getty Research Institute for the History of Art di Los Angeles, elenca le prove dell’arretratezza, le stesse sintetizzate nelle tabelle che il Corriere della Sera pubblica in questa pagina: «Punto primo: le spese per la ricerca sono al di sotto della media europea. Secondo: il rapporto tra il numero dei docenti e quello degli studenti, ci vede agli ultimi posti. Veniamo dopo la Grecia. Terzo: gli studenti non hanno a disposizione le attrezzature necessarie, frequentano lezioni in aule affollate, spesso fatiscenti». Nell’incontro che hanno avuto ieri col ministro Moratti, molti rettori hanno ammesso che tuttora, nelle città più grandi, certe lezioni si svolgono nei cinema. Letizia Moratti ha ascoltato, ha condiviso ma ha anche ricordato ai rettori che se in questi anni l’università italiana non ha trovato un raccordo con l’industria, molto è dipeso dalle diffidenze degli stessi docenti, chiusi in un mondo totalmente autoreferenziale. Adesso, come usa dire, l’allarme è lanciato, e a quella lettera Silvio Berlusconi dovrà dare, prima o poi, una risposta. Maria Latella _______________________________________________________ Il Messaggero 25 ott. ’02 «LA FINANZIARIA STRANGOLA GLI ATENEI» Unanime il giudizio dei rettori delle tre università romane: troppi tagli di RAFFAELLA TROILI Stipendi bloccati a Tor Vergata, assunzioni al rallentatore alla Sapienza, qualità dei servizi agli studenti in pericolo ovunque. E i rettori uniti: «Delicata è un eufemismo, la situazione è drammatica». Il prorettore dell’università la Sapienza, Gianni Orlandi, non perde la sua tradizionale calma nel gestire le “patate bollenti" (lì ci sono anche i presidi che minacciano di dimettersi e l’ex Magnifico Giorgio Tecce che è tornato in campo) ma snocciola dati che fanno temere: «I tagli della Finanziaria strangolano gli atenei, noi abbiamo dovuto rivedere un po’ tutto, anche in virtù degli aumenti di stipendio dei docenti del 4,31% che verranno pagati da ottobre: questo adeguamento ci costerà su base annua circa 27 miliardi delle vecchie lire». Soprattutto a farne le spese saranno didattica e ricerca: in una Sapienza già in difficoltà di bilancio, scatta una politica di rigore in un momento in cui i costi sono aumentati. «Procrastinare investimenti su laboratori, simulazioni ed esperimenti vuol dire non investire sul capitale intellettuale e dunque sul futuro». E questo vuol dire sfornare laureati fuori mercato e fuori competizione. «L’università deve essere sempre all’avanguardia. Una battuta d’arresto comporterà gravi difficoltà per reggere il confronto internazionale». E ancora: applicare la riforma dell’ordinamento didattico comporta una maggiore offerta di docenti e locali. «Per non parlare dell’esigenza di una mobilità degli studenti: è sempre più importante l’interazione tra ragazzi e docenti delle varie università europee». Per ora nessun aumento delle tasse è in programma: «Non se ne parla. Piuttosto abbiamo dovuto rallentare le assunzioni, 74 nuovi docenti entreranno il primo novembre, poi si vedrà di scaglionare le altre prese in servizio sulla base delle risorse disponibili a seguito dei pensionamenti e di quello che stabilirà la Finanziaria». Alessandro Finazzi Agrò, rettore dell’università di Tor Vergata, dove 30 nuovi prof prenderanno servizio da novembre, conferma la preoccupazione: «Siamo al livello di sopravvivenza e mi chiedo seriamente come si concilia l’autonomia degli atenei con decisioni prese altrove, come quella degli aumenti stipendiali. Mi costerebbero un milione e 200mila euro l’anno, per concederli dovrei tagliare borse di ricerca e altre attività a favore degli studenti. Per fortuna ho trovato grande comprensione tra i colleghi, nessuno mi ha intimato di adeguare gli stipendi, è un loro diritto e non potrò resistere all’infinito ma per ora ho rimandato la decisione a tempo indeterminato». Finazzi Agrò come anche Orlandi e il rettore di Roma Tre, Guido Fabiani, ha chiesto al ministro Moratti (nello stesso incontro in cui è stata consegnata una lettera indirizzata a Berlusconi), misure alternative come «defiscalizzare le spese per la ricerca, per incentivare i finanziamenti privati e favorire la presenza delle università nei cda delle fondazioni bancarie». «Già l’università italiana è sottodimensionata, ulteriori tagli la metterebbero in ginocchio - interviene Fabiani - con ricadute pesantissime sul Paese. Noi abbiamo un bilancio triennale che ci ha permesso di sistemare una serie di voci (gli aumenti sono a regime da giugno, gli arretrati da questo mese). Ma è indubbio che 4 miliardi ci hanno bruciato risorse per lo sviluppo mentre noi abbiamo assolutamente bisogno di svilupparci. Così faremo flop anche noi, siamo preoccupati perché presto ci mancherà l’ossigeno. Insomma, la situazione è disastrosa, e non siamo in grado di sostenerla ancora per il 2003: avremo una pesante ricaduta sui servizi degli studenti e sulla qualità dei corsi. E quest’anno si annunciano altre 10mila immatricolazioni». Intanto, l’Unione degli universitari invita i rettori ad occupare insieme gli atenei. _______________________________________________________ Corriere Della Sera 25 ott. ’02 IL GOVERNO CORRE AI RIPARI: «350 MILIONI ALL' UNIVERSITÀ» Risposta alla protesta dei rettori: pronti gli emendamenti alla Finanziaria Salvia Lorenzo Il ministro Stanca: «Più soldi per la ricerca, ma anche utilizzare meglio quelli che si hanno» ROMA - L' impegno del governo c' è. I fondi per l' università e la ricerca previsti dalla Finanziaria saranno aumentati. E la protesta dei rettori, con la lettera al presidente Silvio Berlusconi pubblicata ieri dal Corriere della Sera, sembra aver dato una spinta in più. Le cifre sono ancora provvisorie. Ma nelle pieghe del bilancio sarebbero già stati trovati 350 milioni di euro, comunque 100 in meno rispetto a quelli necessari. Dal ministero dell' Università assicurano: faremo di tutto per soddisfare le richieste degli atenei. FINANZIARIA - I ritocchi alla Finanziaria sui fondi per l' Università e la ricerca saranno fatti probabilmente al Senato. Ma già alla Camera An ha presentato un emendamento che stanzia 200 milioni di euro: 60 per gli stipendi dei professori, 140 per i servizi agli studenti e i laboratori di ricerca. «Il nostro partito condivide al 100 per 100 le richieste dei rettori - dice Giuseppe Valditara, responsabile università per An - e faremo l' impossibile per trovare altri fondi ancora». Aggiunge Franco Asciutti (Fi), presidente della commissione Istruzione di Palazzo Madama: «La maggioranza è impegnata a reperire risorse aggiuntive. Nei limiti del possibile arriveremo ai 450 milioni richiesti». Il governo è al lavoro. Lucio Stanca, ministro per l' Innovazione, si concentra sulla ricerca: «Siamo tutti d' accordo che dobbiamo avere più risorse. Ma perché non iniziamo a utilizzare meglio i fondi che abbiamo a disposizione?». OPPOSIZIONE - Il centrosinistra non molla la presa. Anche Piero Fassino, segretario dei Ds, parla di università per spiegare il no della Quercia alla Finanziaria: «Siamo ancora alla politica degli annunci cui non seguono atteggiamenti coerenti». Maria Chiara Acciarini, capogruppo dei Ds in commissione Istruzione del Senato, attacca invece direttamente il ministro: «I nostri atenei e i nostri istituti di ricerca rischiano di chiudere. Letizia Moratti deve pensare a ottenere dal Consiglio dei ministri più risorse per i settori che le competono». «I rettori battono un colpo - afferma Enzo Carra, responsabile Cultura per la Margherita - ora attendiamo che la maggioranza, o part e di essa, forzi il governo a rivedere i conti». L' Unione degli universitari invita i rettori a «occupare insieme le università». E anche i dottorandi appoggiano la protesta. Dice Flaminia Saccà, segretario dell' Adi, la loro associazione: «Mancano gli investimenti promessi dal ministro Moratti, e si è aggiunto anche il blocco delle assunzioni». RIFORMA - Le università avranno un altro anno di tempo per adeguarsi alla riforma Zecchino del 3+2, che prevede una laurea triennale più una laurea specialistica biennale. Convertendo un decreto sulla scuola, l' Aula del Senato ha approvato un emendamento del senatore di An Giuseppe Valditara che proroga i termini per mettersi in regola. Spiega lo stesso Valditara: «E' un primo passo, continueremo a lavorare per modificare una riforma criticata dagli stessi atenei». Il testo passa ora alla Camera. Lorenzo Salvia I NUMERI IN ITALIA ISCRITTI Sono 1.702.344 negli atenei italiani (dati Miur-Urst aggiornati al 31 gennaio 2002) 1° ANNO Le matricole iscritte ai corsi universitari nell' anno accademico 2001-2002 sono state 331.600 FUORI CORSO Gli studenti fuori corso, ripetenti o in attesa di regolarizzare la propria posizione al 31 gennaio erano 648.714 LAUREA Gli studenti che si sono laureati e diplomati nelle università al 31 gennaio 2002 sono stati 173.710 (99.231 donne) LA LETTERA A BERLUSCONI Piero Tosi (foto), presidente della Conferenza dei rettori, ha lanciato l' allarme sullo stato degli atenei. Ecco dei brani della sua lettera Se ci fosse una Maastricht per la formazione superiore e la ricerca, l' Italia non sarebbe in Europa perché tutti i parametri, dal numero dei docenti e dei ricercatori all' investimento per studente a quello per la ricerca, ci pongono molto in basso tra i Paesi europei... Occorre modificare la legge Finanziaria 2003 in modo da consentire alle università di sopravvivere. L' emergenza... è tale... da mettere in pericolo la sopravvivenza del sistema universitario italiano... Ne deriva che le Università nel 2003 non avranno dal Fondo per il finanziamento ordinario neppure risorse sufficienti per pagare gli stipendi... _______________________________________________________ Corriere Della Sera 25 ott. ’02 E TORINO SI «PENTE» DELLE ASSUNZIONI DI NUOVI DOCENTI Porqueddu Mario DAL NOSTRO INVIATO TORINO - Il tono non è lamentoso, né rivendicativo. Però è netto. «La nostra parte l' abbiamo fatta, ora ci aspettiamo un aiuto», dice il rettore del Politecnico di Torino. Un aiuto economico, s' intende. Perché la riduzione dei fo ndi per l' Università fa tremare anche i due atenei torinesi, che rischiano di dover rivedere al ribasso i loro programmi. E il paradosso è che, a sentire i rettori, la loro sola «colpa» è stata di aver creduto nella riforma. Di averci investito energie e anche quattrini, impegnandosi a trainarla e tentando, al tempo stesso, di risolvere problemi atavici. Invecchiamento del corpo docente, sproporzione (presunta o reale, perché tanti ragazzi si iscrivono e poi non si fanno vedere) fra numero di professori e studenti, e rilancio della ricerca. Un trilemma che si scioglie in una mossa: l' immissione in ruolo di altri professori e ricercatori. Un modo per «svecchiare», garantire maggiori servizi, alimentare le attività accademiche. Ma come si f a se i fondi diminuiscono? Le spese corrono: ci sono gli stipendi dei docenti da adeguare di anno in anno, e poi quelli del personale tecnico amministrativo. I programmi avviati e gli impegni presi da onorare. Non solo: «Le università - spiegano al mitico Politecnico, 25 mila studenti iscritti - chiudono il bilancio preventivo al 31 dicembre di ogni anno. Ma le cifre destinate agli incrementi degli stipendi del personale si conoscono in agosto (poi si pagano gli arretrati, ndr): così è impossibile programmare». O almeno è rischioso. Anzi, visto come sta andando, finirà con l' aver avuto ragione chi non si è dato troppo da fare. A Torino, invece, spiegano di averci provato. All' ateneo governato dal segretario della Conferenza dei rettori it aliani, Rinaldo Bertolino, fra il ' 99 e il 2001 hanno inserito circa 200 nuovi docenti. Toccando quota 2.100 e portando il rapporto con gli oltre 57 mila studenti, da 31 a 25 alunni per professore. Al Politecnico, retto dal professor Giovanni Dal Ti n, solo l' anno scorso hanno trasformato in contratti a tempo indeterminato quelli di 37 ricercatori «precari». «Lo abbiamo fatto con le nostre forze - spiega Dal Tin - perché siamo radicati nel tessuto socio-economico piemontese e questo ci garantisce entrate supplementari e possibilità di cofinanziamenti. Ma queste persone non vanno pagate per un anno. Noi ora contiamo su qualche aiuto». Il Politecnico di Torino, tanto per capirci, lavora anche con la Nasa. E grazie ai risultati ottenuti dal comparto telecomunicazioni dell' ateneo la Motorola ha scelto il capoluogo piemontese come sede del suo centro di ricerca europeo. La città in generale tocca punte di eccellenza nell' insegnamento universitario. Infatti gli studenti aumentano: arrivano a decine persino dal Centro e Sud America. Ma anche qui si trovano riscontri all' allarme lanciato dai rettori italiani: anche qui rischiano di mancare i soldi. E allora è facile immaginare, dice Bertolino, «la sofferenza di atenei più giovani o di università più piccole, magari del Mezzogiorno». Preoccupante. Eppure, nessuno ce l' ha con il ministro Moratti. Dal Tin ricorda che, prima dell' approvazione della Finanziaria, lei aveva chiesto al collega Tremonti di farsi carico degli aumenti per i docenti. Bertolino parla di macroeconomia e di congiuntura sfortunatissima: «La crisi del Paese - dice - è coincisa con il momento di massimo sforzo del mondo accademico. Con l' avvio della rincorsa ai livelli europei». Ora tutto questo, che poi è il futuro di centinaia di migliaia di giovani, è in pericolo. «Oggi - chiude Bertolino - abbiamo un orizzonte di sopravvivenza. E di minimo sviluppo». Mario Porqueddu GLI STUDENTI Sono oltre 57 mila gli studenti dell' ateneo torinese governato da Rinaldo Bertolino. A fronte di 2.100 docenti, il rapporto studenti/insegnante è di venticinque a uno 37 RICERCATORI «PRECARI» Sono stati trasformati in contratti a tempo indeterminato al Politecnico di Torino. Il rettore, Giovanni Dal Tin, ha spiegato: «Lo abbiamo fatto con le nostre forze. Ora contiamo su qualche aiuto» _______________________________________________________ Il Messaggero 21 ott. ’02 SE SI TAGLIA LA RICERCA SI FA HARAKIRI di PAOLO GUERRIERI LA CRISI della Fiat ha reso oltremodo evidenti le gravi carenze, pubbliche e private, dell'apparato industriale del nostro paese. Per poterle fronteggiare sono richieste strategie d'intervento e politiche di sviluppo di medio periodo, che siano in grado di porre ricerca e innovazione tecnologica al centro del rilancio competitivo di un moderno sistema-Paese come il nostro. E ci si dovrebbe muovere da subito in questa direzione, con scelte che siano coerenti e conseguenti nel breve periodo, e quindi già a partire dalla legge finanziaria che verrà discussa nelle prossime settimane. Ma, al riguardo, sembra scarseggiare una sufficiente consapevolezza, e tantomeno emerge un'adeguata capacità d'intervento. Eppure, c'è ormai un largo consenso sul fatto che l'economia italiana attraversi una delicata fase di transizione — dopo l'epoca del risanamento finanziario in vista dell'euro — che appare caratterizzata, innanzi tutto, da un preoccupante deterioramento della capacità di competere a livello internazionale. Una fragilità che è esplosa, non a caso, negli anni Novanta allorché si sono manifestati cambiamenti di vasta portata nel funzionamento dell'economia mondiale: nuovi beni e servizi prodotti; rinnovati processi produttivi per realizzarli; un nuovo modo di essere e funzionare delle imprese, sempre più proiettate, nell'ambito di diffusi sistemi a rete (networks), verso nuove grandi aree geo-economiche. Ancora, le imprese di tutti i paesi avanzati hanno cominciato a spostare (sfruttando le nuove tecnologie) sempre più segmenti della produzione verso le aree emergenti a più basso costo, rafforzando le proprie posizioni in segmenti a monte e valle della catena del valore, quali la ricerca- sviluppo dei prodotti e la distribuzione degli stessi, con una conseguente forte crescita dei servizi legati al manifatturiero. Di fronte alle nuove forme della competizione internazionale si può dire — per sintetizzare al massimo — che le nostre imprese e, più in generale, la nostra economia abbiano manifestato una scarsa propensione al cambiamento, per intensità e qualità, con il rischio crescente di essere relegare al margine in campo europeo e globale. Le cause di tutto ciò sono ovviamente molteplici; sono state a lungo dibattute, e, com'è noto, risalgono indietro nel tempo. Ma se volessimo additare due fattori emblematici — anche perché al centro delle ristrutturazioni globali in atto — della perdita di competitività dell'Italia in questi anni, si potrebbe farlo indicando, da un lato, la modesta capacità di ricerca e innovazione tecnologica del Paese, segnata da investimenti in ricerca e sviluppo tra i più bassi dell'area avanzata; dall'altro la fragile proiezione internazionale del nostro sistema economico, scandita in questi anni da mediocri flussi di investimenti all'estero e dall'estero. E' scontato che bisognerebbe intervenire, senza indugio, su andamenti così negativi, anche perché fortemente interrelati, e cercare di arrestarli ed invertirli, per quanto possibile. Ma non si può certo dire che si stia facendo e, per quanto si intuisce, che si farà. Basti ricordare che nella Finanziaria in discussione l'ammontare delle risorse a disposizione dei principali Fondi per la ricerca e l'innovazione tecnologica (inclusa l'Università) verrà drasticamente ridotto, nonostante l'Italia — per questi finanziamenti — sia già il fanalino di coda dell'Europa. Anche le risorse a disposizione degli strumenti di sostegno al commercio estero e all'internazionalizzazione subiranno una sensibile diminuzione, con un secco taglio di finanziamenti agli enti più importanti che operano in quest'area. Si potrebbe certo osservare che le risorse non sono tutto, visto che molto dipende dall'uso (più o meno efficiente) che se ne fa; ed in entrambi i campi molto si può e si deve cambiare. Ma è indubbio che esistano soglie di finanziamento al di sotto delle quali non si possa andare, senza intaccare gravemente le stesse capacità d'intervento pubblico. Ora, considerato che il governo sembra ormai propenso a rivedere in profondità la manovra finanziaria, sotto la spinta delle proteste delle parti sociali, sarebbe davvero importante che potesse riesaminare anche questi tagli "sconsiderati" in tema di ricerca ed internazionalizzazione, due aree sicuramente strategiche per il futuro del nostro paese. Pensare di poter risparmiare riducendo ed eliminando tali spese sarebbe una scelta economicamente sbagliata per un'impresa; appare davvero dissennata per un paese nelle nostre condizioni. * Ordinario di economia internazionale all'Università La Sapienza _______________________________________________________ Famiglia Cristina 25 ott. ’02 LA RIFORMA DEGLI ATENEI E LA SELEZIONE DEI CORSI DI LAUREA I SOMMERSI E I SALVATI Tremila percorsi formativi. Medicina e Legge le lauree più ambite. Ma gli atenei dovranno misurarsi presto con le dure verifiche del ministero. I corsi che non risponderanno ai requisiti richiesti spariranno. Ed è già iniziata la lotta per la sopravvivenza. Il corteo dei professori in toga, i mazzieri, l’aula magna, il discorso del rettore. L’università ricomincia sempre allo stesso modo: dall’inaugurazione dell’anno accademico, di solito il cinque novembre, salvo tradizioni differenti, anch’esse consolidate in un misto di suggestione e anacronismo. Se, da un lato, la rigidità del cerimoniale evoca la fedeltà alla storia e al passato, ormai riservata alle occasioni di rappresentanza, dall’altro, i siti Internet, i programmi di orientamento, l’offerta variegatissima di nuovi corsi ci parlano della quotidiana gara con cui gli atenei cercano di bruciare la concorrenza nella conquista alla matricola, preziosa anche economicamente perché la quantità dei fondi statali erogati alle università cresce anche in proporzione al numero degli iscritti. La corsa di adeguamento alla riforma universitaria, che ha visto gli atenei in competizione tra loro, ha allargato l’offerta didattica a poco meno di tremila opportunità differenti, tanto che da più parti ci si chiede se la presenza di tanti corsi, molto spesso simili nei contenuti e diversi nel nome, non risulti alla fine disorientante per chi sceglie. «Studenti e famiglie», spiega Alessandro Monti, autore del Rapporto sull’istruzione universitaria in Italia, edito da Franco Angeli, «fanno fatica a cogliere le diversità di contenuto e di opportunità professionale dei vari corsi. All’interno della stessa classe di riferimento, le matricole prediligono lauree che hanno nomi più simili a quelli esistenti nel vecchio ordinamento. D’altra parte la riforma, che si propone di abbreviare il percorso degli studi, con un titolo già dopo tre anni, rischia di alimentare illusioni: non tutte le discipline, infatti, hanno le medesime opportunità di formare in tre anni professionalità specifiche, che preludono a un’occupazione immediata. Il sistema che funziona bene per Ingegneria, per esempio, non si attaglia altrettanto bene a Giurisprudenza». Il cronico strabismo tra aspirazioni professionali e reali opportunità di inserimento si continua a cogliere nelle scelte degli studenti. Stando ai dati relativi alle preiscrizioni, finora unico elemento, provvisorio, che consenta di tastare il polso all’anno accademico 2002-2003, in cima ai sogni delle matricole ci sono sempre il camice bianco e la toga forense, anche se il percorso che porta dagli studi al lavoro prevede lunghe anticamere di sottoccupazione. Segue nella hit parade, accanto ad altre "classiche" (come Economia e Ingegneria), Scienze della comunicazione, facoltà giovane e gettonatissima. Esiste persino un’Associazione italiana sviluppo scienze della comunicazione, l’Aiscom, nata per facilitare i contatti tra studenti, università e impresa. «Per ora», spiega Stefano Marzola, portavoce dell’Aiscom, «c’è mercato: aziende ed enti pubblici e privati stanno acquisendo consapevolezza dell’importanza dell’immagine e cercano comunicatori. Gli iscritti però continuano a crescere. In alcune facoltà, dove non c’è numero chiuso, gli studenti sfiorano il migliaio di unità: presto il mercato si saturerà». La chimica dimenticata Sul fronte oppposto, tra curiosità per il nuovo e sogni di carriera consolidati, si corre il rischio di dimenticare settori apertissimi, ma a secco di risorse umane. «È naturale e giusto», spiega Giampiero Sironi, preside della facoltà di Scienze dell’Università Statale di Milano, «che gli studenti si iscrivano numerosi ai corsi di informatica, settore in espansione, ma sarebbe importante che non trascurassero altre discipline che vengono un po’ dimenticate, anche se con qualche segnale di ripresa, a dispetto di opportunità professionali ricchissime: come Scienze chimiche». Se gli studenti, una volta laureati, dovranno vedersela con la legge spesso durissima del mercato, le università stanno ancora facendo i conti con la riforma in corso d’attuazione e dovranno confrontarsi a breve con le verifiche del ministero, che procederà a un ulteriore monitoraggio dei corsi attivati, per assicurarsi che rispondano ai requisiti minimi richiesti in fatto di strutture e docenti. I dati dovranno pervenire entro il prossimo 11 novembre al Comitato di valutazione del sistema universitario che provvederà a elaborarli, per poi pubblicarli sulla banca dati dell’offerta formativa del ministero (www.miur.it). I corsi che finiranno nell’elenco dei non idonei avranno tempo fino alla fine del 2003 per adeguarsi. Se non riusciranno a mettersi in regola nel tempo stabilito, perderanno i finanziamenti statali e dovranno provvedere a sovvenzionarsi autonomamente per non finire sommersi. Elisa Chiari _______________________________________________________ Il Piccolo Di Triestre 26 ott. ’02 ROVERSI-MONACO «L’UNIVERSITÀ RESTA AUTONOMA OLTRE LA POLITICA E I GOVERNI» Laurea honoris causa conferita al giurista Fabio Roversi-Monaco I principi che stanno alla base dell’Università come istituzione, primo fra tutti l’autonomia dal potere politico, elemento fondante della libertà dei docenti e degli studenti. La necessità di preservarne il ruolo nella società: non un «esamificio», o un supermercato della cultura, dunque, ma un grande «laboratorio artigianale», di formazione, dibattito, conoscenza, educazione alla tolleranza. L’indissolubilità tra l’attività didattica e la ricerca, in modo che l’insegnamento sia sempre adeguato all’evolversi dei bisogni e delle esigenze della società. Il concetto di «universitas», che rifugge da ogni frantumazione e, pur preservando identità e peculiarità, guarda all’insieme del sapere. Questi alcuni dei principi racchiusi nella Magna Carta delle Università, la cui stesura, nel 1988, si deve al professor Fabio Roversi-Monaco, già rettore dell’Alma mater universitatis, Bologna, uno dei più grandi atenei d’Europa. Quattordici anni fa il giurista, insieme a colleghi delle più antiche università del Vecchio Continente, elaborò questo strumento primario per realizzare - parole del rettore di Trieste, Lucio Delcaro - «una universalità dei valori e una concezione etica della vita che sta alla base della scienza». E sono proprio le motivazioni ideali di universalità e libertà del sapere condensati nella Magna Carta, oltre ai meriti di giurista, docente, nonché a quelli manageriali legati all’attività di rettore, che stanno alla base del conferimento della laurea honoris causa in Scienze politiche a Roversi-Monaco, avvenuta ieri nel corso di una solenne cerimonia all’aula magna dell’Università, alla quale ha assistito il presidente emerito della Corte costituzionale e dell’Enciclopedia italiana, Francesco Paolo Casavola. Un titolo, quello dell’ateneo triestino, che va ad aggiungersi ai già numerosi ricevuti dallo studioso nelle Università di tutto il mondo, dalla Francia all’Argentina, dalla Spagna, alla Russia, alla Colombia. Il conferimento è stato deliberato all’unanimità nel settembre scorso dalla facoltà di Scienze politiche, di cui è preside Domenico Coccopalmerio. Che ha così inteso sottolineare l’importanza e l’attualità di un testo come la Magna Carta, già sottoscritto da 430 rettori di tutto il mondo, e siglato da altri ventuno proprio quest’anno, in occasione del quattordicesimo anniversario della sua elaborazione. Da esso discende direttamente quell’«Osservatorio per i diritti e i valori dell’Università» creato nel 1999 dalla Conferenza europea dei rettori e dall’Università di Bologna: un organo, che include rappresentanti di Unesco e Onu, al quale possono rivolgersi gli atenei di tutto il mondo quando avvertono una violazione della libertà accademica da parte dei governi o del mondo politico. E questa libertà non è affatto scontata, ha fatto capire il professor Roversi- Monaco nel corso della sua «lectio doctoralis», che ha fatto seguito alla «laudatio» del professor Claudio Bonvecchio. L’antica università di Zagabria, per esempio, legata da storici vincoli a Bologna, ha denunciato all’«Osservatorio» una tendenza del governo centrale a privilegiare un rapporto economico diretto con i singoli dipartimenti e istituti, mettendo a rischio la «soggettività» globale dell’Università. L’«Osservatorio» è intervenuto, ha ascoltato il ministro, che poi ha fatto alcuni «aggiustamenti», smentendo altresì una parte di informazioni distorte. «Un intervento importante - ha riconosciuto Roversi-Monaco - perché l’Università non può essere parcellizzata a scapito della sua unità». Ma la libertà degli atenei è messa a rischio anche altrove, a latitudini diverse: a scapito della minoranza ungherese nell’Università serba di Novi Sad (una caso il cui esame è in corso, su cui l’oratore non si è dilungato), all’Universidad Central de Venezuela, da cui «un professore ha chiesto aiuto in termini formali, contro una tendenza che vorrebbe la nomina dei docenti da parte del governo centrale», in Germania, dove quattro professori lamentano, con ricorso alla Corte costituzionale, la limitazione dell’attività didattica e della ricerca con «formule generiche», non ben definite e quindi oscuramente rischiose. La Magna Carta, dice il rettore Delcaro, ha definito il «ruolo fondamentale dell’Università nel nostro tempo». Un’Università - gli hanno fatto eco le parole di Roversi-Monaco - che guarda alla «sovronazionalità», all’«integrazione delle culture», che deve sapersi adeguare al cambiamenti della società e dell’economia, adattandosi in parte anche all’«effimero». Purché sappia - ha concluso il giurista - che «questo non è un segno di vitalità, ma di perdita di sostanza, di smarrimento di radici...». Arianna Boria _______________________________________________________ La Stampa 26 ott. ’02 SCIENZIATI, IL NOSTRO ONORE È SCOPRIRE DALLA BOMBA ATOMICA AI DILEMMI DELLA GENETICA: UNA CATEGORIA NEL MIRINO DELL´OPINIONE PUBBLICA DOPO il 6 agosto 1945, l'onore degli scienziati si trova sotto tiro. Ogni fisico è considerato corresponsabile dei morti di Hiroshima. Eppure, Fermi e Wigner non avevano mancato all'onore spiegando al presidente Roosevelt il potere delle armi nucleari. Quella di fabbricarle fu una decisione presa dal popolo americano tramite il suo presidente eletto. I nazisti avevano anch'essi voluto la bomba, ma non ci riuscirono. Werner Heisenberg, responsabile del progetto tedesco e illustre teorico della fisica quantistica, ha sostenuto nel 1945 di aver sabotato il proprio lavoro. Di fatto, l'insuccesso di Heisenberg non aveva niente a che fare con il senso dell'onore. Esso derivava da due errori tecnici: prima di tutto, l'uso di moderatori non sufficientemente puri per la prima pila. Poi, una stima non corretta della «massa critica» necessaria per provocare l'esplosione.Anche se inattive, per il momento, le armi nucleari sono all'origine di un'enorme diffidenza nei confronti della ricerca. E a questo bisogna far fronte. Dov'è, di fatto, l'onore degli scienziati? Alcuni filosofi descrivono i ricercatori come uomini intenti a stabilire una verità. Molti di noi non si riconoscono in questo modello. Gli odierni ricercatori non pretendono mai di determinare una verità definitiva. Produciamo soltanto, maldestramente e con molte esitazioni, una descrizione approssimata della natura. Fondatore dell'elettrodinamica quantistica, Richard Feynman (che non ho conosciuto, ma che considero il mio maestro) ha riassunto tutto ciò in una formula divenuta famosa: «Theory is the best guess». La teoria che oggi accettiamo è quella che rende conto del massimo numero di fatti con il minimo numero d'ipotesi. Il vero punto d'onore non consiste nell'essere nel vero, ma di osare, proporre idee nuove, e poi verificarle. Si tratta anche, certamente, di saper riconoscere pubblicamente i propri errori, saper segnalare certe trappole. In questo, l'onore dello scienziato si colloca all'estremo opposto dell'onore di don Diego. Quando si commette un errore, bisogna accettare di perdere la faccia. Ho visto grandi sapienti farlo con eleganza. Ma c'è un altro aspetto della scienza che è stato dimenticato nei nostri discorsi sulla verità. Quello degli inventori. Si tratta di membri a pieno titolo della nostra tribù. Il loro onore consiste nel far fruttificare la scienza con la creazione di oggetti nuovi ed utili. Ho detto in passato che se una delegazione di extraterrestri venisse a ispezionare il nostro pianeta, costaterebbe con soddisfazione (per la fisica del XX secolo) che abbiamo fabbricato transistor e laser. Ma noterebbe anche come due uomini, lavorando accanitamente per vent'anni, hanno prodotto la chiusura lampo. Le grandi scoperte tecniche richiedono altrettanta immaginazione delle scoperte fondamentali. E mancherei all'onore se non dicessi qui, pubblicamente, quanto sia spiacente della recente separazione della nostra Accademia delle scienze dall'Accademia di tecnologia. Che ne direbbe Coulomb, costruttore di fortificazioni prima di interessarsi all'elettrostatica, oppure Langevin, pioniere della meccanica statistica, ma anche inventore del sonar? Dunque: il nostro onore consiste nel costruire una descrizione approssimata, ma semplice, della natura. Ma anche nel non restare passivi; utilizzare questo senso della costruzione per creare oggetti nuovi, che si adattino ai bisogni della nostra società. La prospettiva che ho appena abbozzato non è quella del pubblico: ai nostri giorni, i ricercatori sono considerati responsabili in un senso molto ampio; responsabili delle armi, dell'inquinamento o dei dilemmi biologici del futuro. Tuttavia, nei fatti, gli scienziati hanno scarso peso al momento delle grandi decisioni attinenti, per esempio, alla difesa, all'energia o agli investimenti industriali. E neppure hanno completa libertà d'espressione. Esempio: un illuminato annuncia una dopo l'altra due scoperte straordinarie che si rivelano ben presto prive di fondamento. Ma è sostenuto da un drappello d'intellettuali. Qualche anno più tardi, quando nulla più resta delle sue proposizioni, quello che è reputato il più serio giornale francese dedica più pagine alla sua difesa di quante non abbia consacrate ad una vera scoperta scientifica. Dobbiamo esaminare con lucidità l'origine di questa mentalità. Di certo, creare panico è spesso un'operazione redditizia. Il gruppo di pressione più organizzato in questo senso è nato negli Stati Uniti. Porta l'audace nome di «Politicamente corretto». «Science is the rape of nature»: la scienza è una violazione della natura. Ecco quello che viene proclamato. Ecco quanto viene ripetuto nelle sezioni di lettere ai futuri insegnanti americani. Ecco come viene distrutto il nostro onore. Non meravigliamoci, in simili condizioni, di vedere i liceali disertare le lezioni di scienze. Eppure, se riusciremo a preservare l'ambiente e la qualità della vita, lo potremo fare solo grazie a uno sforzo scientifico raddoppiato. Penso per esempio al vetro. Il pubblico occidentale considera il vetro come una meraviglia ecologica. Ma il vetro viene fabbricato in forni giganteschi, bruciando kerosene nell'aria. Ciò produce vapori nitrosi, fumi rossi altamente tossici. Ebbene, adesso è possibile eliminare l'azoto dall'aria a costi ragionevoli, utilizzando un sistema affidabile e ingegnoso. Grazie a questo, tra pochi anni il vetro sarà veramente un prodotto pulito. E i ricercatori artefici di questa rivoluzione avranno diritto alla nostra riconoscenza. La nostra Accademia delle scienze si allarma dunque a giusta ragione per la cattiva immagine che si ha delle scienze. Coloro che in tempi passati venivano chiamati col bel nome di «sapienti» devono far conoscere il loro modo di pensare, parlare ai giovani insegnanti. E' un lavoro di largo respiro: occorre coniugare onore e pazienza. Abbiamo messo a segno dei punti nella scuola di primo grado grazie all'azione lanciata da Georges Charpak e battezzata «Le mani in pasta». Ma dobbiamo batterci a tutti i livelli perché i formatori dei maestri abbiano essi stessi una visione realistica del mondo moderno, dei suoi bisogni e delle soluzioni di buon senso da cercare. L'onore di un professore di scienze non è solamente quello di far conoscere delle leggi. Deve anche mostrare a cosa queste servono. Per concludere questa arringa voglio citare Primo Levi, chimico sfuggito ai campi di sterminio e scrittore. Egli ha scritto, a giustificazione dei suoi romanzi: «Ero alla ricerca di avvenimenti, capitati a me e agli altri, che volevo trasporre in un libro per vedere se sarei riuscito a comunicare ai profani il sapore, forte e amaro, del nostro mestiere, che non è mai solo un caso particolare, una variante più ardita del mestiere di vivere. Non mi sembrava giusto che la gente sapesse tutto del modo in cui vivono il medico, la prostituta, il marinaio, l'assassino, la contessa, l'antico Romano, il cospiratore e il Polinesiano, ma niente del nostro, di noi che trasformiamo la materia (...). In questo libro, trascuravo deliberatamente la grande chimica, la chimica trionfante degli stabilimenti colossali e delle cifre d'affari vertiginose. Ciò che m'interessava di più erano le storie della chimica solitaria, disarmata e a piedi, a misura d'uomo, quella che, tranne poche eccezioni, era stata la mia, ma anche quella dei fondatori che non lavoravano in équipe, ma da soli, in mezzo all'indifferenza del loro tempo, spesso senza ricompensa, che affrontavano la materia privi di aiuto, col loro cervello e le loro mani, con la ragione e l'immaginazione». Se riusciremo a trasmettere ai giovani lo spirito di Primo Levi, non avremo mancato al nostro onore. Premio Nobel per la fisica 1991 professore al Collège de France copyright «Le Monde» traduzione del Gruppo Logos Pierre-Gilles de Genne _______________________________________________________ Corriere Della Sera 25 ott. ’02 STANCA: "PIÙ SOLDI PER LA RICERCA, ma anche utilizzare meglio quelli che si hanno" ROMA - L’impegno del governo c’è. I fondi per l’università e la ricerca previsti dalla Finanziaria saranno aumentati. E la protesta dei rettori, con la lettera al presidente Silvio Berlusconi pubblicata ieri dal Corriere della Sera , sembra aver dato una spinta in più. Le cifre sono ancora provvisorie. Ma nelle pieghe del bilancio sarebbero già stati trovati 350 milioni di euro, comunque 100 in meno rispetto a quelli necessari. Dal ministero dell’Università assicurano: faremo di tutto per soddisfare le richieste degli atenei. FINANZIARIA - I ritocchi alla Finanziaria sui fondi per l’Università e la ricerca saranno fatti probabilmente al Senato. Ma già alla Camera An ha presentato un emendamento che stanzia 200 milioni di euro: 60 per gli stipendi dei professori, 140 per i servizi agli studenti e i laboratori di ricerca. "Il nostro partito condivide al 100 per 100 le richieste dei rettori - dice Giuseppe Valditara, responsabile università per An - e faremo l’impossibile per trovare altri fondi ancora". Aggiunge Franco Asciutti (Fi), presidente della commissione Istruzione di Palazzo Madama: "La maggioranza è impegnata a reperire risorse aggiuntive. Nei limiti del possibile arriveremo ai 450 milioni richiesti". Il governo è al lavoro. Lucio Stanca, ministro per l’Innovazione, si concentra sulla ricerca: "Siamo tutti d’accordo che dobbiamo avere più risorse. Ma perché non iniziamo a utilizzare meglio i fondi che abbiamo a disposizione?". OPPOSIZIONE - Il centrosinistra non molla la presa. Anche Piero Fassino, segretario dei Ds, parla di università per spiegare il no della Quercia alla Finanziaria: "Siamo ancora alla politica degli annunci cui non seguono atteggiamenti coerenti". Maria Chiara Acciarini, capogruppo dei Ds in commissione Istruzione del Senato, attacca invece direttamente il ministro: "I nostri atenei e i nostri istituti di ricerca rischiano di chiudere. Letizia Moratti deve pensare a ottenere dal Consiglio dei ministri più risorse per i settori che le competono". "I rettori battono un colpo - afferma Enzo Carra, responsabile Cultura per la Margherita - ora attendiamo che la maggioranza, o parte di essa, forzi il governo a rivedere i conti". L’Unione degli universitari invita i rettori a "occupare insieme le università". E anche i dottorandi appoggiano la protesta. Dice Flaminia Saccà, segretario dell’Adi, la loro associazione: "Mancano gli investimenti promessi dal ministro Moratti, e si è aggiunto anche il blocco delle assunzioni". RIFORMA - Le università avranno un altro anno di tempo per adeguarsi alla riforma Zecchino del 3"2, che prevede una laurea triennale più una laurea specialistica biennale. Convertendo un decreto sulla scuola, l’Aula del Senato ha approvato un emendamento del senatore di An Giuseppe Valditara che proroga i termini per mettersi in regola. Spiega lo stesso Valditara: "E’ un primo passo, continueremo a lavorare per modificare una riforma criticata dagli stessi atenei". Il testo passa ora alla Camera. Lorenzo Salvia _______________________________________________________ L’Unione Sarda 25 ott. ’02 LA SINDROME DEL LAUREATO I GIOVANI SARDI E IL POSTO FISSO di Gian Maria Fara Mi è capitato spesso, ritornando in Sardegna, di dover ascoltare le lamentazioni di giovani laureati alla ricerca del mitico "posto". La cultura italiana del "posto" è dura a morire mentre stenta ad affermarsi quella del lavoro. Non riusciamo, insomma, a liberarci dei vecchi pregiudizi che portano a ritenere che il posto è onorevole, il lavoro un po’ meno. Dobbiamo liberarcene per non rimanere appesi a Kant che pensava che un sarto poiché vende un’opera dopo averla prodotta ha diritto di voto, mentre un barbiere no, perché vende il proprio lavoro. Dobbiamo abbandonare una mentalità feudale per cui l’operaio, anche se dipendente, è un signore rispetto al barista che gli porge da bere. Nella società complessa, siamo tutti signori e vassalli nello stesso tempo. Sempre più conterà la capacità di produrre reddito piuttosto che uno status spesso accompagnato da ristrettezze economiche. Negli Stati Uniti ti chiedono, insieme a cosa fai, quanto guadagni. Tocqueville nel suo celebre saggio su "La democrazia in America" descriveva profeticamente un altro tipo di società. Una società in cui tutte le professioni sono considerate onorevoli, perché tutte sono, in fondo, della stessa natura e tutte remunerate. La società democratica, dice Tocqueville, è una società del salariato universale che tende a sopprimere le differenze tra le attività dette nobili e quelle dette non nobili. Così, la distinzione tra il servizio e le professioni libere tenderà a sparire progressivamente, perché tutte le professioni diventeranno allo stesso titolo un job che procura un certo reddito. Scriveva Tocqueville: "I lavoratori americani non si considerano degradati per il loro lavoro, perché attorno a loro tutti lavorano. Negli Stati Uniti, le professioni sono più o meno faticose, più o meno remunerate, ma non sono mai alte o basse. Qualsiasi professione onesta è onorevole". Questa mentalità ormai prevalente nel Nord del nostro Paese stenta invece ad affermarsi nel Mezzogiorno. Al Nord si registrano (e anche questo è un male) tassi sempre più elevati di abbandono scolastico e al Sud cresce la disoccupazione soprattutto intellettuale. Da una parte i giovani che interrompono gli studi per poter entrare da subito nel mercato del lavoro e produrre reddito, dall’altra l’eccesso opposto della laurea a tutti i costi, il rifiuto di abbandonare la tradizionale protezione familiare o di applicarsi a mansioni non adeguate al titolo conseguito. Anche sul piano culturale e nell’approccio al lavoro e alla vita, l’Italia rivela le proprie contraddizioni e un dualismo difficile da superare. _______________________________________________________ La Stampa 23 ott. ’02 SARDEGNA:IL TURISMO MINERARIO TRA BUSINESS E CULTURA PROTEZIONE AMBIENTALE E SVILUPPO SOSTENIBILE IL RICCO PATRIMONIO ARCHEOLOGICO-INDUSTRIALE DI MONTEVECCHIO: VALIDA RISORSA PER LA SARDEGNA E´ possibile coniugare protezione ambientale e sviluppo (sostenibile) di regioni cronicamente soggette a disoccupazione e abusivismi di vario tipo? Si può resistere alle tentazioni ben retribuite dei nuovi cafoni del cemento? A vedere i risultati raggiunti nella provincia di Cagliari sembrerebbe di sì: il parco geominerario di Montevecchio (nei comuni di Guspini e Arbus) finalmente decolla e centinaia di visitatori hanno potuto provare il brivido di una discesa in miniera e la ricerca geologica di un filone di piombo o di zinco in quello che è stato uno dei distretti minerari più produttivi d'Europa. Non solo. Il supporto scientifico di conoscenze accumulato qui in secoli di esplorazioni permette il recupero consapevole di ambienti unici al mondo, come la Grotta di Santa Barbara, interamente tappezzata di delicatissimi cristalli di baritina, una pagina straordinaria del libro che la storia naturale ha scritto in Sardegna. Montevecchio era una vera e propria città costruita per lo sfruttamento di miniere così antiche da essere già conosciuta dai primi nuragici e coltivate da Fenici, Punici e Romani che ricavavano una galena dai ricchissimi tenori in argento (fino a 4000 gr per 100 kg, una percentuale elevatissima). Una specie di far-west italiano - rivalutato proprio negli stessi anni in cui in California partiva la corsa all'oro - dove uomini, peraltro molto simili ai pionieri statunitensi, scavavano a mano anche 80 centimetri al giorno di roccia dura e antichissima ( fino a 500 milioni di anni) per accumulare decine di migliaia di tonnellate all'anno di piombo e zinco. Erano dei veri e propri maghi, quei minatori che trasformavano il minerale informe in pentole, aerei, navi, utensili vari (e purtroppo anche munizioni), quando quello era il mestiere più pericoloso del mondo e arrivare a quarant'anni equivaleva a festeggiare un centenario. Donne e bambini lavoravano nelle laverie a separare il metallo dalla ganga in interminabili turni quotidiani di 18 ore. Famiglie intere legate per sempre alla miniera dove c'erano alberghi, ospedali, scuole, colonie estive: la paga era corrisposta in moneta battuta localmente e che solo lì si poteva spendere, l'ultima catena degli schiavi del minerale prima delle grandi lotte di liberazione fra le più compatte d'Italia. Oggi il patrimonio di archeologia industriale di Montevecchio è in via di valorizzazione definitiva in un progetto che coinvolge la messa in sicurezza delle miniere e del territorio, oltre alla ristrutturazione degli immobili. Questa è la carta che la Sardegna occidentale gioca per il futuro: attirare turisti al di fuori del canonico agosto e non soltanto per il suo bellissimo mare. Inoltre lo sbocco naturale dei piccoli convogli minerari era proprio il selvaggio mare deserto di Piscinas, dove c'era il molo di attracco delle bettoline che arrivavano poi a Carloforte per scaricare il minerale sui battelli più grandi. A Piscinas si innalzano le dune più alte d'Europa: oltre 60 metri di un candore dorato che proteggono l'entroterra e contribuiscono a mantenere l'equilibrio del sistema spiaggia come in nessun altro posto della Sardegna. Al riparo delle dune è frequente l'incontro con il cervo sardo, ungulato di dimensioni ridotte rispetto a quello europeo, retaggio delle faune nane che popolavano le isole mediterranee e oggi protetto in areali verdi e selvaggi come un tempo. Le miniere di Montevecchio hanno permesso di conservare quasi integra la natura di un pezzo d'Italia che non ci fa perdere la memoria del tempo in cui la Sardegna era una specie di foresta galleggiante. Il comune di Arbus ha un patrimonio eccezionale: 50 chilometri di spiagge tra le meglio conservate, dove la speculazione ha sfregiato per ora la costa in un solo punto (Torre dei Corsari). Nuovi appetiti però sono all'opera e già si fanno valutazioni di impatto ambientale su luoghi come Scivu, dove non si dovrebbe neppure pensare di costruire. Semmai ristrutturare parte del patrimonio architettonico dismesso, come gli edifici minerari che si trovano nell'interno, che già esistono, non deturpano e darebbero lavoro a molti. La volontà degli amministratori locali di mantenere intatti quei posti, insieme al recupero del patrimonio costruito già esistente, sono una vera assicurazione per un futuro che non può essere quello di Rimini o Majorca, dove oggi si abbattono gli albergoni costruiti in passato per recuperare la risorsa più preziosa, che è l'ambiente naturale. Intelligenza e vigilanza debbono fare il resto. [TSCOPY](*)CNR, Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria [/TSCOPY] Mario Tozzi (*) _______________________________________________________ L’Unione Sarda 26 ott. ’02 HOMO SARDUS SAPIENS A Mogoro le tracce di cacciatori paleolitici Ci arrivarono, molto probabilmente, su un’imbarcazione di legno, a forma di canoa. Erano, quasi certamente, esperti marinai in grado di attraversare bracci di mare stretti ma non per questo meno pericolosi per via delle forti correnti. La prima spedizione ebbe carattere esplorativo; successivamente, essendo l’isola ricca di cibo e disabitata, divenne la meta preferita di gruppi nomadi in lotta per la sopravvivenza. La Sardegna, come scoprirono ben presto i cacciatori del Paleolitico, era una generosa riserva di caccia, priva di pericoli non essendo abitata da fiere, abbondante di frutti della terra. Più di 13 mila anni fa i coloni preistorici vi si stabilirono e la colonizzarono. Che le cose fossero andate così, gli studiosi lo avevano ipotizzato fino a qualche anno fa. Oggi, in seguito ad una recentissima e importante scoperta, ne hanno trovato le prove. La presenza in Sardegna di esemplari di Homo sapiens è stata confermata infatti dal ritrovamento a Santa Maria is Acquas, una zona compresa tra Mogoro e Sardara, di manufatti litici più antichi di 13 mila anni: pezzi di selce utilizzati dagli uomini preistorici per produrre lame e lamelle seguendo una tecnica - come è stato dedotto dalla particolare forma della pietra - elaborata e usata in altri luoghi lontano dall’isola. I primi abitanti della Sardegna proverrebbero dall’isola d’Elba e dalla Corsica che in quell’epoca erano unite al continente, e dopo una breve navigazione, approdarono nelle coste sarde per stabilirsi nel basso Campidano, a sud del Monte Arci. Non è escluso però, che ulteriori ricerche attestino la presenza di questi gruppi anche in altre parti dell’isola. Secondo Vincenzo Santoni, soprintendente archeologo per le province di Cagliari e Oristano, «la notizia è sensazionale» perché del Paleolitico superiore si sa pochissimo e il rinvenimento dei reperti di selce è un contributo fondamentale, che parte proprio dalla Sardegna, alla conoscenza dell’evoluzione umana sulla terra. Artefici della scoperta, le professoresse Rita Melis (dipartimento di Scienze della Terra, Università di Cagliari) e Margherita Mussi (dipartimento di Scienze dell’Antichità, Università “La Sapienza” di Roma) parlano di «un nuovo inizio» nell’ambito delle ricerche sulla preistoria sarda. Il recupero degli oggetti e la loro datazione sono stati chiariti dalle due docenti ieri in una conferenza- stampa, alla presenza dei sindaci di Mogoro e Sardara (Gianni Pia e Giuseppe Cuccu). Un progetto interdisciplinare, finanziato dalle Università di Cagliari e Montreal, ha permesso di datare con tecniche d’avanguardia (Optically stimulated luminescence), applicate da Michel Lamothe dell’ateneo canadese, gli ammassi sabbiosi depositati sopra i resti archeologici rinvenuti da Rita Melis a Santa Maria is Acquas. Le tecniche di lavorazione della pietra per produrre lame sono tipiche del Paleolitico superiore. Nel lungo periodo di evoluzione della specie umana chiamato “della pietra grezza” (Paleolitico appunto) i vari gruppi umani vivevano di caccia e raccolta di frutti spontanei, attività che richiedevano spostamenti per seguire le migrazioni delle grandi mandrie e per la ricerca di nuovi terreni di raccolta da sfruttare. La traccia più antica di navigazione risale a 30 mila anni fa, quando gruppi di umani attraversarono oltre 80 chilometri di mare aperto per colonizzare l’Australia. Nel Mediterraneo le tracce sono più recenti: la colonizzazione della Sicilia risale a 16 mila anni fa, mentre l’isola di Melos, nel Mediterraneo orientale, fu più volte visitata per lo sfruttamento dellâossidiana. Il rinvenimento di una falange umana nella grotta di Corbeddu a Oliena aveva già fatto ipotizzare la presenza di Homo sapiens oltre 16 mila anni fa, mentre per la Venere di Macomer si è proposta un’età di almeno 12 mila anni. I manufatti ritrovati adesso - senza il ricorso a scavi archeologici, ma attraverso lo studio di scassi agricoli nella zona - stabiliscono con certezza una data. Le indicazioni suggerite dallo studio degli oggetti combinate con quanto già si sapeva fa presumere che i gruppi umani giunti nell’isola fossero piccoli, ma numerosi. I nostri protogenitori attraversarono ripetutamente il braccio di mare che separava la Sardegna dal continente. Non si trattava di Robinson Crusoe preistorici naufragati in un’isola felice, bensì dei colonizzatori di una terra dove, alla fine della glaciazione, esistevano solo tre specie di mammiferi di un certo interesse per gli uomini: un piccolo cervo, un coniglio con le orecchie corte e un carnivoro della taglia di una volpe, fauna quindi non pericolosa ma abbondante. Un vero e proprio Eldorado per i nostri antenati. Franca Rita Porcu =========================================================== _______________________________________________________ Repubblica 23 ott. ’02 I QUATTRO "PILASTRI" DELLA SCIENZA MEDICA Non è facile disegnare una mappa della ricerca scientifica dedicata ai progressi nel campo della salute. Perché oltre che nei centri medici, scoperte e invenzioni determinanti per la salute possono nascere in altri enti come l’Istituto nazionale di fisica nucleare, dove si studiano tecnologie d’avanguardia sia per la diagnosi che per le terapie soprattutto dei tumori, o l’Enea, l’ente per lo studio dell’energia e dell’ambiente, dove esiste una tradizione di ricerche sui rapporti fra salute e inquinamento. I poli di riferimento principali restano comunque quattro. CNR: è la più vasta organizzazione nazionale per la ricerca con una rete di laboratori e istituti (un centinaio) sparsi in tutta Italia. La sua attività è documentata con un dettagliato "Report" pubblicato ogni anno. Vi lavorano oltre 6.500 persone, la maggior parte delle quali impegnate in "scienze di base" (1.769) e "scienze della vita" (1.949). Il finanziamento 2002 è stato di 543 milioni di euro, ma per il 2003 è stato ridotto a 487, contro un fabbisogno minimo stimato 600. Tra i fiori all’occhiello: tecnologie di ausilio per gli handicappati ed "Emma", laboratorio di riferimento europeo per lo studio di topi mutanti. ISS: Istituto superiore di sanità, ha sede a Roma e ha compiti di controllo, oltre che di ricerca. Questa è spesso indotta da emergenze sanitarie nazionali, come è accaduto per l’Aids, "mucca pazza", il caso Di Bella, l’elettrosmog e la sicurezza alimentare. L’organico comprende circa 420 ricercatori (esclusi borsisti e ospiti) e il bilancio annuale è di 190 milioni di euro, di cui quasi un terzo coperto con finanziamenti esterni. IRCCS: Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, 16 ospedali pubblici specializzati su patologie specifiche. Ve ne sono altrettanti a gestione privata ma sostenuti sempre da denaro pubblico. Ci sono Istituti per lo studio dei Tumori, il Burlo Garofano di Trieste e il Gaslini di Genova per la pediatria, il De Bellis di Bari per la gastroeneterologia e il Rizzoli di Bologna per l’ortopedia. Sono finanziati direttamente dal Ministero della Sanità e nel 2001 hanno ricevuto per la ricerca 127 milioni di euro. UNIVERSITÀ: Sono 35 le facoltà di medicina e chirurgia negli atenei pubblici italiani. La principale attività è quella didattica, di formazione e aggiornamento degli operatori sanitari. La ricerca è un’attività parallela, ma non la principale. Ricerca per la salute si svolge anche in altre facoltà, come quelle di scienze biologiche e farmacologia. (r. c.) _______________________________________________________ L’Unione Sarda 24 ott. ’02 SE LA MIOPIA DIVENTA UN BUSINESS Gli oculisti si rivolgono anche al tribunale: «Le Asl rimborsano gli interventi estetici» Esposto alla Corte dei conti: «Indagate sugli sprechi» Liste d’attesa che rimandano all’anno dopo. Diabetici che impazziscono per un esame che prevenga la retinopatia diabetica, prima causa di cecità nel mondo occidentale. Presbiti che non sanno se hanno il glaucoma. Per finire con chi ha un cheratocono e potrebbe vedere solo grazie a lenti a contatto che non si può permettere. Il servizio sanitario zoppica su queste sciocchezze e si mantiene ben saldo per altro tipo di interventi, vedi la correzione della miopia col laser. Qui la cassa pubblica non mostra tentennamenti sborsando fior di denaro per interventi assimilabili più alla chirurgia estetica che alla prevenzione e cura delle malattie. Qualche numero rivelatore arriva dalla regione Lazio: nel 2000 sono stati effettuati 10688 interventi di correzione della miopia con laser (molti sono pazienti sardi) di cui 9584 eseguiti in una sola casa di cura. Di questi 7255 sono stati praticati in regime di ricovero per una pratica di solito ambulatoriale. A interrogarsi sui viaggi della speranza e sulla generosità della mutua, è la Soi, la società scientifica che rappresenta tutti gli oculisti italiani. Con una segnalazione che parte da Sassari, diretta alla Procura e alla Corte dei conti, chiede di accertare se esistano ipotesi di reato per quanto riguarda la disponibilità schizofrenica delle casse sanitarie pubbliche. «Servono regole certe - dice Mario Sotgiu, presidente regionale dell’associazione - Innanzitutto deve essere chiaro chi ha diritto ad operarsi a spese dello Stato e chi no. In questa terra di nessuno dove un poveraccio non ha i soldi per gli occhiali, c’è chi invece decide di toglierseli a spese del servizio sanitario. A noi oculisti non interessa se il servizio pubblico decide di spendere cifre pazzesche per operare tutti di miopia. Ma l’ultimo paziente deve avere le stesse garanzie di chi si infila nello studio del primario». Regole certe, chiedono gli oculisti. Ad esempio sui meccanismi delle liste d’attesa, più lunghe per alcuni, con scorciatoia per altri. E poi l’individuazione degli aventi diritto: quelli, ad esempio, per cui l’operazione col laser è l’unica possibilità di vedere decentemente. «Chiudere gli occhiali nel cassetto è il sogno di tutti - continua Sotgiu - ma il servizio sanitario nazionale non può permettersi il lusso di sognare. Prima deve risolvere problemi più terreni». Dopo due mesi dall’esposto intanto nessuna risposta è arrivata all’associazione, né da parte della magistratura contabile né di quella ordinaria. Mentre un passaparola efficacissimo continua a incoraggiare i viaggi oltretirreno, dove spesso un intervento di un quarto d’ora si ramifica in procedure e interventi sulla cornea che fanno lievitare i costi in maniera spropositata per il Pantalone pubblico: un intervento che dovrebbe essere pagato 62 euro finisce per costarne allo Stato oltre 1000. L’associazione degli oculisti sardi, nell’esposto la dice tutta: segnala il caso di alcuni pazienti che per evitare di essere inseriti in lunghe liste di attesa, bloccate da richieste di accertamenti specialistici, si recano presso gli studi privati di alcuni medici operanti presso la stessa casa di Cura: 150 euro per occhio ed ecco il ricovero con intervento immediato. Altri riferiscono di essere stati operati due volte allo stesso occhio: “per togliere un po’ di miopia alla volta”. Patrizia Canu _______________________________________________________ La Nuova Sardegna 22 ott. ’02 RECORD: IL PRANZO DEL CAGLIARITANO DURA 40 MINUTI Quasi un record di lentezza CAGLIARI. Pranzi in famiglia, spuntini continui, pasti abbondanti e amore per la cucina ben condita: a Cagliari (al terzo posto tra le città italiane dopo Palermo e Napoli) si passano a tavola 40 minuti per i pasti principali. Ma se a essere privilegiata al sud è la cucina saporita, senza badare ai chili di troppo, al nord il pasto si trasforma in una gara di velocità, con i 18 minuti di Milano, e appena si aumenta di pochi grammi, si corre in palestra o ci si lancia in una dieta ferrea. _______________________________________________________ L’Unione Sarda 27 ott. ’02 SCUOLA INTERNAZIONALE AL MICROCITEMICO Andrea Barra contro l’ipotesi-Pesaro Talassemia, scuola internazionale al Microcitemico «La Sardegna e Cagliari con l’ospedale regionale per le Microcitemie devono diventare sede della Scuola internazionale di talassemia, e polo per la prevenzione, la cura, la ricerca, l’assistenza». Lo sostiene Andrea Barra, presidente dell’associazione Thalassemia, che si unisce alla richiesta dei senatori Ignazio Manunza e Mariano Delogu, che in un’interrogazione a risposta scritta inviata al ministro della Salute dicono: «Il Centro di riferimento italiano per la cura e la prevenzione della talassemia deve essere istituito all’ospedale Microcitemico di Cagliari». E non a Pesaro, città che sarebbe stata scelta come sede della Scuola. «Nelle Marche», continua Barra, «non c’è una significativa presenza né di talassemici - sono dieci - né di portatori sani, non c’è cultura, non c’è formazione». E non ci sono neanche «quegli elementi indispensabili per la vita del talassemico, la terapia trasfusionale e la chelazione, cultura di base dei centri di cura». È per questo che l’associazione considera la proposta «di individuare come sede della Scuola internazionale di talassemia l’Ospedale regionale sardo per le Microcitemie, la migliore e la più funzionale». L’Ospedale, sottolinea Barra, «già da tempo è stato riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della Sanità come centro di riferimento mondiale per la talassemia». I medici che lavorano al Microcitemico, continua il presidente dell’associazione, «sono tra le professionalità migliori in circolazione, sia a livello nazionale che internazionale. Professionisti e ricercatori sono stati chiamati dalla Sardegna ad aggiornare i colleghi in Egitto, Arabia, Iran, Cina e Australia». Così i farmaci: «Le più importanti sperimentazioni sono nate proprio all’interno del Microcitemico». Che ha iniziato la sua attività nell’81, «dopo anni di sacrifici e battaglie». Per questo, «chiediamo che il Centro apra a Cagliari, nel rispetto che si deve alle professionalità maturate e cresciute in Sardegna e nel rispetto del doloroso tributo che negli anni l’isola ha pagato alla talassemia». _______________________________________________________ La Nuova Sardegna 25 ott. ’02 CAGLIARI, DA OGGI FINO A SABATO IL CONGRESSO DI CHIRURGIA VASCOLARE CAGLIARI. «Il 42 per cento dei decessi in Italia è dovuto a malattie delle arterie, come ictus, infarto, aneurismi, insufficienza vascolare periferica con conseguenti amputazioni». Il dato è stato reso noto dal direttore del dipartimento di chirurgia cardiovascolare del policlinico universitario di Cagliari Giovanni Brotzu organizzatore del secondo congresso della Società Italiana di Chirurgia Vascolare e Endovascolare (Sicve), in programma a Cagliari da oggi fino a sabato 26 ottobre. «I più colpiti - spiega il professor Brotzu - sono gli uomini (il rapporto è di due a uno) ma anche la percentuale delle donne che si ammalano è in crescita». Va inoltre rilevato che le malattie delle arterie si stanno manifestando sempre più precocemente. Per questo occorre attivare «una prevenzione a largo respiro sul territorio». Le cause principali di queste patologie "figlie della società del benessere" sono l'alimentazione non corretta, la vita sedentaria e il fumo. «Le speranze in questo quadro negativo - prosegue il professor Brotzu - sono legate, oltre che ai farmaci che combattono l'ipercolesterolemia e ripristinano la funzione vascolare, alla chirurgia». Nel convegno di Cagliari verrà illustrato un nuovo approccio di chirurgia endovascolare che riduce il trauma dell'intervento e il periodo di degenza. _______________________________________________________ L’Unione Sarda 25 ott. ’02 CAGLIARI: GUERRA ALL’EPATITE C CON I SOLDI AMERICANI Il caso. I venti ricercatori cagliaritani sono stati assunti con i finanziamenti di una multinazionale farmaceutica L’equipe guidata da Paolo La Colla scopre una nuova molecola Sopra l’armadio dello studio - una scalinata, una grande vetrata, piano rialzato del laboratorio di Microbiologia - c’è una scimmia. Pelliccia di peluche e occhi a bottoncino, un’etichetta sulla pancia, come una provetta nel frigo giù in basso, la scimmia è un regalo degli americani. Ricordo del gruppo di ricerca, trofeo di quegli studi del composto flavivirus sulla scimmia, monito a continuare, perché quella è la strada giusta per combattere l’epatite C. Paolo La Colla lo sa bene: la strada l’ha tracciata lui, i suoi ricercatori lavorano ogni giorno, due turni dalle 7 alle 14 e dalle 14 alle 21. Lì, alla Cittadella universitaria, silicon valley nel deserto di ovili e mobilifici tra Sestu e Monserrato, nel dipartimento di Biologia sperimentale, divisione di Microbiologia, non c’è posto per tutti. Poco importa che l’equipe di Paolo La Colla lavori a una delle scoperte più importanti per la storia della medicina contemporanea. L’Università di Cagliari sta a guardare: tanto, i soldi li mettono gli americani. Cioé i soci della Novirio Pharmaceuticals Limited, società biofarmaceutica che a giorni verrà quotata in borsa, e lavora con l’obiettivo di portare avanti la scoperta, lo sviluppo e la commercializzazione di terapie innovative per le più gravi malattie da virus. Lo sviluppo clinico e le operazioni di marketing della società si svolgono a Cambridge, Massachusetts, e le attività di drug discovery sono condotte tra gli Stati Uniti, Montpellier e Cagliari. Dove, a coordinare la ricerca, c’è proprio il professor Paolo La Colla. Lui in Sardegna, Gilles Gosselin e Bruno Canard in Francia, Frank Seela in Germania, Silvio Spadari a Pavia, e Martin Bryant in America sono gli scienziati che stanno ricercando nuovi antivirali per la terapia delle infezioni da flavivirus: medicine per guarire da epatite C, virus dengue, virus west nile. Cosa significa? Paolo La Colla, abito scuro, cravatta a disegni sottili, i capelli tra il biondo e il grigio, solleva gli occhi dal microscopio. "Flavivirus è una famiglia di virus, a cui appartengono epatite C, virus dengue, virus west nile. L’epatite C la conosciamo tutti: in Europa sono 8 milioni le persone infettate, 170 milioni nel mondo. L’infezione cronica può portare a cirrosi e carcinoma epatico con esito fatale". Virus dengue: "È analogo al virus di ebola. Ma se ebola, che ha una mortalità del 90 per cento, è un virus circoscritto a determinate zone del pianeta, dengue al contrario ha diffusione enorme. Ogni anno 500 mila casi di dengue finiscono in ospedale e il tasso di mortalità nei bambini è del 5 per cento". West nile: "In passato era un virus diffuso solo in aree geografiche intertropicali, ora è causa di nuove infezioni nelle zone temperate d’Europa e del Nord America. Nel ’99 una terribile epidemia ha sconvolto Manhattan, il cuore nobile di New York". È su questa analisi precisa dei virus e delle loro potenzialità che si inserisce "Flavitherapeutics", progetto di ricerca finanziato dalla Commissione Europea con 1.9 milioni di euro e portato avanti proprio dal consorzio costituito da Novirio. Ma se a coordinare il gruppo di ricerca sono i chimici di Montpellier, l’idea nasce a Cagliari. Paolo La Colla ha scoperto le molecole attive su flavoivirus, le ha brevettate, e ha ceduto su licenza il brevetto a Novirio. "La stretta collaborazione avviata nel ’99 con il Cnr e le università di Montpellier e Cagliari, e il finanziamento della Comunità Europea - spiega Martin Bryant, vice presidente esecutivo di Novirio - ci ha consentito di accelerare lo sviluppo di nuovi antivirali per la terapia delle infezioni da virus dell’epatite C e da altri Flavivirus". Che Cagliari ha già testato sulle scimmie, primati più vicino all’uomo. Il risultato? Sorprendente. Il composto ha superato ogni test di tossicità. "Perché il nostro laboratorio è come un atelier di molecole: noi disegnamo molecole su misura e le analizziamo in modelli semplici. Quando identifichiamo una molecola che funziona, non uccide le cellule e arresta il processo del virus, il nostro obiettivo è raggiunto". Sorride, il professore. E dalla vetrata del suo studio guarda giù, nei laboratori, dove studiano i suoi ragazzi. Quanti sono? "In venticinque anni di lavoro l’Università mi ha dato due ricercatori. In tre anni di collaborazione con l’America, la Novirio di ricercatori ne ha assunto dieci". Che diventeranno venti non appena il professore firmerà il nuovo contratto. Quattro anni di lavoro, un milione e mezzo di dollari, dieci ricercatori sardi che potranno continuare a studiare in Sardegna. Senza scappare in America. Francesca Figus __________________________________________________________ Le Scienze 22 ott. ’02 L'ARTROSI DEL BENESSERE COLPISCE ANCHE NELL'ISOLA dati diffusi al congresso di ortopedia a Venezia VENEZIA. Anche in Sardegna è arrivata l'artrosi da benessere. Era la malattia dei nonni, dicono i quattromila esperti della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia (SIOT) riuniti a Venezia per discutere proprio di artrosi, è diventata la malattia dei cinquantenni e dei giovani. Lo conferma l'Istat: 22,2% i malati cronici affetti da artrosi e artrite negli anni 1999-2000; seguono le cefalee e le emicranie ricorrenti per 12,6 persone su cento e l'ipertensione artetriosa con 11,0. In Italia, sempre secondo l'Istat, di artrosi e artrite ne soffrono venti italiani su cento. Più gli uomini in età giovanile; nessuna differenza fra i 45 e i 55 anni; andando avanti, ne soffrono di più le donne. Secondo i quattro presidenti del Congresso, i professori Ettore Campailla di Udine, Ugo De Nicola di Treviso, Francesco Marotti di Trieste e Giorgio Turi di Vicenza, l'artrosi è diventata non solo la figlia degli anni ma anche la figlia del sovrappeso, anticamera dell'obesità, dell'alimentazione troppo ricca di grassi e della sedentarietà. Paradossalmente anche chi fa sport spesso lo fa male, soprattutto i palestrati e quanti giocano a calcetto. C'è un killer in più, il fumo. Ci si è messo anche il tempo. L'artrosi insorge per l'umidità. C'è da attendersi una crescita di casi per colpa dell'estate, quella passata, che di umidità ne ha diffusa a volontà. Al Congresso di Venezia si parla di farmaci innovativi, di nuovi materiali per le protesi biologiche e soprattutto della terapia genica: un paziente che ha avuto un trauma può evitare l'artrosi facendosi togliere cellule, facendole trattare in laboratorio e farcendole innestare di nuovo. Queste cellule non sono altro che pezzetti di cartilagine. Dal Congresso arrivano anche le regole per non ammalarsi di artrosi: Mangiare in modo corretto preferendo latte e formaggi, evitando grassi animali e limitarsi coi salumi. Controllare il peso perché sovrappeso e obesità sono causa di artrosi. Non fumare. Il fumo di tabacco è portatore anche di artrosi. Fare una passeggiata al giorno, non c'è bisogno di correre, basta camminare. Il cane che costringe alla passeggiata è un ottimo antiartrosi. Chi fa sport, si alleni e si faccia guidare. Tanti artrosici nascono durante il jogging ma soprattutto sui campi di calcetto. E i traumi nascono anche in palestra con esercizi inadeguati e faticosi. Gli anabolizzanti fanno il resto. E' dimostrato che anche per l'artrosi c'è una familiarità. I figli di artrosici possono avere l'artrosi. _______________________________________________________ L’Unione Sarda 22 ott. ’02 AL BROTZU SI PUÒ EVITARE IL TRAPIANTO DI CUORE Il cardiologo Piero Sestu: «Grandi prospettive con un nuovo pacemaker» Tecnica rivoluzionaria introdotta al Brotzu e al Civile Una nuova tecnica per combattere la cardiomiopatia dilatativa, sperimentata con successo al Brotzu e al San Giovanni di Dio. È quella dei pacemaker biventricolari, in grado di stimolare contemporaneamente sia il ventricolo destro che quello sinistro del cuore. Il cardiologo Piero Sestu, che opera con la sua équipe al Brotzu, ha già compiuto l’intervento su alcuni pazienti. «Si chiama terapia di desincronizzazione ventricolare», spiega il cardiologo, «e viene praticata utilizzando dei pacemaker particolari, in grado cioè, di incidere sull’atrio e sul ventricolo destro, ma anche su quello sinistro». Gli studi finora effettuati hanno dimostrato un miglioramento clinico e delle capacità funzionali di questi pazienti, grazie al ripristino delle regolari funzioni cardiologiche, «ma bisognerà attendere del tempo per valutare se questa tecnica si traduce in una aspettativa di vita a lungo termine», conclude Sestu, «e anche se costituirà una valida alternativa al trapianto». I pacemaker biventricolari consentono così a molti candidati al trapianto di tornare a una vita quasi normale, evitando il trauma e i rischi dell’operazione. Massimo Carta è uno di questi: «Ho scoperto di soffrire al cuore nel 1993, e per sette anni ho fatto una vita rigidissima: niente fumo, niente stress e un’attenzione quasi maniacale per l’alimentazione. E naturalmente medicine betabloccanti per tenere sotto controllo il ritmo cardiaco». Nonostante tutto, nel corso degli anni le sue condizioni peggiorano: «Ormai ero un paziente col problema trapianto a breve, con la paura che nel frattempo il mio cuore si fermasse per sempre. Mi è stato proposto questo intervento e ho accettato perché ho intravisto uno spiraglio». Un mese fa l’operazione, in anestesia locale. E la rinascita. «Da quando sono stato dimesso», spiega Carta, «mi sono sentito subito meglio. È scomparsa la stanchezza, l’affanno e ho ritrovato tutte le energie. Spero che il trapianto non sia più necessario». Mauro Caproni _______________________________________________________ La Nuova Sardegna 24 ott. ’02 CURE PER L'INFARTO ANGIOPLASTICA, SARDEGNA AI PRIMI POSTI ROMA. La Sardegna è tra le regioni del centro-sud al secondo posto per numero di interventi di angioplastica (quasi mille in un anno) e all'undicesimo posto a livello nazionale. Il dato è emerso durante i lavori del XXIII congresso nazionale della Società italiana di cardiologia invasiva a Verona. Il convegno ha anche messo in luce che l'Italia è tra i primi paesi d'Europa dell'high tech cardiologico: in un solo anno, nel nostro Paese, gli interventi di angioplastica primaria (la riapertura meccanica del vaso ostruito mediante un palloncino che dilata l'arteria e ripristina la circolazione interrotta nei pazienti colpiti da infarto) sono quasi raddoppiati, passando da 4 mila a 7 mila. Grazie a questa tecnica d'intervento la mortalità per infarto miocardico si è ridotta del 50% nei pazienti trattati con angioplastica rispetto a quelli trattati con la sola terapia farmacologica trombolitica. "Il beneficio del trattamento è tanto maggiore quanto più è a rischio il paziente. Inoltre con l'angioplastica si evitano i temibili effetti collaterali della trombolisi come l'ictus cerebrale", ha detto il professor Ciro Indolfi, presidente della Società e ordinario di cardiologia dell'università "Magna Graecia" di Catanzaro. _______________________________________________________ L’Unione Sarda 26 ott. ’02 DIABETE: UN MALE ANTICO CHE SI STA DIFFONDENDO COME UN’EPIDEMIA Il diabete mellito non è una malattia nuova, i sintomi erano già noti alla medicina egizia, ma è Areteo di Cappadocia che nel 200 a.c. mirabilmente descrive una malattia con una grande emissione d’urina e che porta rapidamente a morte. Bisogna arrivare al 166O d.C. perché Willis scopra che nei diabetici l’urina oltre che abbondante e anche dolce (Diabete mellito), ma solo nel 1889 Von Mering e Minkowski individuano nel pancreas la causa del diabete. Il diabete è in realtà una malattia eterogenea annoverando sotto lo stesso nome, in estrema sintesi e semplificazioni, due forme: Il Diabete tipo 1, carente d’insulina necessaria per l’utilizzo dei carboidrati. Insorge spesso in età infantile e richiede per la cura, la somministrazione dell’insulina mancante attraverso più punture quotidiane. In assenza di terapia l’organismo non utilizza i carboidrati con dimagrimento marcato (Diabete magro). Il Diabete tipo 2, insorge in età adulta, aumenta col crescere dell’età e non necessita di solito dell’insulina, presente nell’organismo , ma di farmaci orali, di una dieta appropriata, di regolare attività fisica. Si accompagna molto spesso ad obesità (Diabete grasso). Il Diabete tipo 1 colpisce meno di 50.000 persone in Italia , con 1500 nuovi casi ogni anno. Il Diabete tipo 2 colpisce più di 2.000.000 di persone con 150.000 nuovi casi ogni anno. In Sardegna il Diabete tipo 1 ha una frequenza tra le più elevate al mondo. Per il Diabete tipo 2 si aprono per i prossimi anni scenari inquietanti (epidemia del terzo millennio); l’Organizzazione mondiale della sanità ritiene che il numero dei diabetici nel mondo raddoppierà nei prossimi dieci anni per l’invecchiamento della popolazione e per il cambiamento dello stile di vita con aumento degli obesi. Problema centrale sono le complicanze che da un lato riducono la qualità e l’aspettativa di vita del diabetico e dall’altro aumentano i costi sociali della malattia. Sono soprattutto la cardiopatia ischemica e l’ictus (da due a quattro volte più frequenti nel diabetico) che maggiormente incidono sulla ridotta aspettativa di vita. Le complicanze comportano sofferenze personali e familiari ed elevati costi sociali legati all’assistenza sanitaria, assenze dal lavoro, invalidità, premorienza. Per questo, la prevenzione e la cura del Diabete e delle sue complicanze rappresenta una sfida non più rimandabile e da affrontare con decisione, con mezzi adeguati, programmazione e coordinamento; in questa ottica ritengo necessaria l’attivazione di un registro regionale dei diabetici per una conoscenza analitica delle dimensioni del problema e della sua evoluzione temporale. Un registro permetterebbe: di monitorare nel tempo l’andamento del Diabete (tipo 1 e tipo 2); di registrare le complicanze; di programmare gli interventi; di valutare i risultati. Per ottenere questi obiettivi il Registro dovrebbe essere promosso dalle Istituzioni sanitarie regionali. Gli operatori diabetologici sono sicuramente culturalmente preparati e motivati a raccogliere la sfida del Diabete, ma questa è una battaglia che non si può vincere da soli ma con il coinvolgimento delle Associazioni dei diabetici, della Medicina di base, dei Referenti politici ed amministrativi, dei mezzi di comunicazione. Angelo Corda Presidente regionale A.M.D. Associazione Medici Diabetologici angelocorda@hotmail.com _______________________________________________________ L’Unione Sarda 26 ott. ’02 UN SUPERVACCINO CONTRO I TUMORI Messo a punto da università italiane coordinate dal Cerms di Torino agisce su più forme del male Funziona sui topi e ora verrà sperimentato sull’uomo ROMA Un vaccino tutto italiano capace di prevenire da solo più forme di tumore: è il progetto ambizioso che si va concretizzando e che, dopo i risultati incoraggianti ottenuti sui topi, si prepara alla «prova del fuoco» della sperimentazione sull’uomo. Il «supervaccino» messo a punto da un gruppo di università italiane coordinate dal Centro di ricerca di medicina sperimentale di Torino (CeRms) può, da solo, evitare o bloccare sul nascere la formazione di intere «famiglie» di tumori: le singole malattie sono molto diverse tra loro, ma sono scatenate dallo stesso difetto genetico. Ad esempio, i tumori di testa- collo, pancreas, prostata e seno hanno tutti origine dall’alterazione di un oncogene chiamato Erb-2. Se alterato, questo gene comincia a produrre una proteina che va a legarsi con un recettore presente sulla superficie delle cellule sane: in questo modo si innesca un meccanismo micidiale che spinge la cellula a proliferare in modo incontrollato e determina così la comparsa del tumore. Questo meccanismo sarà il primo bersaglio del vaccino anticancro e la prima fase della sperimentazione sarà condotta su 20 pazienti operati di tumore della testa e del collo. «Il vaccino - ha detto il coordinatore della ricerca, Guido Forni, del CeRms - è studiato per aggredire varie categorie di tumori. Se funzionerà sull’uomo, permetterà di aprire prospettive di cura del tutto nuove». Ad esempio, il vaccino preventivo potrà essere iniettato alle persone a rischio. Un rischio, ha osservato Forni, che oggi è ormai possibile determinare analizzando i fattori genetici, ambientali o legati all’età. Nei sei anni di esperimenti finora condotti dal gruppo di Forni sui topi il vaccino ha dimostrato di riuscire ad evitare il tumore con un successo compreso fra il 50% e il 100%. «Il vaccino - ha detto il ricercatore - è anche in grado di bloccare il tumore quando questo è nella fase iniziale; non riesce invece ad eradicarlo se è ad uno stadio avanzato». _______________________________________________________ Corriere Della Sera 21 ott. ’02 TUMORI, UN MALATO SU CINQUE SCEGLIE «CURE» ALTERNATIVE Aumentata al 31 per cento la sopravvivenza per i casi di cancro e metastasi al seno Con un test genetico possibili rimedi mirati Bazzi Adriana DAL NOSTRO INVIATO NIZZA - Un malato di tumore su cinque ricorre alle medicine alternative, in aggiunta alle cure ufficiali. Per trovare un aiuto psicologico. Per alleviare gli effetti collaterali delle chemioterapie. Per disperazione. «La percentual e tocca ormai il 20 per cento - conferma Francesco Di Costanzo, oncologo all' Ospedale Careggi di Firenze - ed è quasi triplicata rispetto a una decina di anni fa: nel 1993 si aggirava attorno al 7,3 per cento. Sono dati riscontrati in Toscana, ma so no indicativi della situazione italiana. I motivi dell' aumento? Soprattutto la diffusione di Internet che facilita l' accesso a queste cure». Il problema delle medicine alternative è stato per la prima volta affrontato al 27° congresso dell' Esmo (l a Società europea di oncologia medica) che si svolge in questi giorni a Nizza. «Le persone colpite da tumore - ha sottolineato l' inglese Edzard Ernst dell' Università di Exeter, sollecitando una maggiore apertura dei colleghi verso le altre medicine - sono alla ricerca disperata di una cura e sono disposte a provare qualsiasi cosa, rischiando di mettere a repentaglio la propria vita». Molti pazienti, per esempio, ricorrono alla reflessologia o alle tecniche di meditazione per alleviare lo stres s associato al cancro. L' agopuntura, d' altra parte, può ridurre la nausea e il vomito provocati dalla chemioterapia. E si parla degli effetti preventivi sui tumori di aglio, tè verde, fitoestrogeni e ginseng. Rimedi che attendono conferme scientifi che, ma che in molti casi non sono dannosi. «A destare allarme - sottolinea invece Ernst - è il numero crescente di terapie alternative con presunte proprietà curative. Il vischio e la cartilagine di squalo sono soltanto alcuni esempi di sostanze che possono essere pericolose per il paziente. Non solo, ma i rimedi alternativi possono anche interferire negativamente con i farmaci antitumorali». E mentre si sta tentando di valutare l' efficacia della medicina alternativa con i metodi della ricerca scientifica, la terapia ufficiale segna nuovi successi. Oggi la sopravvivenza di una donna con tumore al seno e metastasi può aumentare del 31 per cento, secondo i dati di una ricerca durata 18 anni e condotta a Pisa. «Abbiamo dimostrato - spiega Pi erfranco Conte che ha coordinato lo studio - che un trattamento aggressivo basato sull' aggiunta di tassani alla chemioterapia tradizionale offre alle donne una speranza di sopravvivenza che va al di là delle statistiche attuali». Ma i tumori al seno non sono tutti uguali: un nuovo test genetico permette di costruirne la carta d' identità, suggerendo la possibilità di utilizzare cure mirate. «Il 25-30% di queste neoplasie - spiega Luca Gianni dell' Istituto Tumori di Milano - sono caratterizzate dalla presenza di una proteina, chiamata Her2 e prodotta in eccesso dai geni, che indica una maggiore aggressività della malattia, ma anche la possibilità di trattarla, quando compaiono le metastasi, con anticorpi monoclonali che sono in grado di au mentare la sopravvivenza fino al 50%». Adriana Bazzi abazzi@corriere.it