«VOGLIAMO UN RETTORE MENO ACCENTRATORE» LUNEDÌ IL “REFERENDUM” SU MISTRETTA LE UNIVERSITÀ E LA CULTURA D’IMPRESA LA VERA SCIENZA NON FA PAURA LA LAUREA NON BASTA PIÙ CAGLIARI BEVE L´ACQUA DELLE MINIERE CI SI PUO´ FIDARE? FALLISCE LA TECHSO, VA ALL’ASTA IL 10 PER CENTO DEL CRS4 TORINO CONTRO EINSTEIN UMBERTO ECO E IL BALLO SARDO BASTA TOGHE E INVITI, ALLA STATALE INAUGURAZIONE ONLINE AZIENDA ITALIA, UN ESERCITO DI INSODDISFATTI IMPRESE PIRATA ALL'ARREMBAGGIO DELLA VITA =========================================================== QUANDO IL DOTTORE SBAGLIA BALDASSARRI: «GLI OPERAI? DIVENTINO INFERMIERI» LUNEDÌ PROSSIMO IL POLICLINICO SALE IN BUS POLICLINICO, TOMMASO LONGHI VINCE UNA CAUSA MILIARDARIA IL LAZIO NON PIÙ CENERENTOLA DELLA RICERCA MEDICA RICERCA, A GENOVA UN CENTRO D’ECCELLENZA CARDIOCHIRURGIA, 40 ANNI VISSUTI PERICOLOSAMENTE CAMPANIA:E PER LA DIAGNOSI IL NEO VA "ON LINE" TAC PIÙ RAPIDA E "BELLA" LA DURA BATTAGLIA CONTRO L'INFARTO PREVENZIONE CARDIOVASCOLARE CON DUE BICCHIERI DI VINO ROSSO L’"ARPIONE" SUI GLOBULI BIANCHI CHE AGGANCIA E DISTRUGGE L’HIV IL PIACERE DELL’ARTE? E’ CHIUSO NEL CERVELLO MENOPAUSA, IL PUNTO =========================================================== _______________________________________________________ La Nuova Sardegna 21 ott. ’02 «VOGLIAMO UN RETTORE MENO ACCENTRATORE» I problemi della cittadella universitaria, della ricerca e dell'autonomia delle facoltà Paolo Pani: «Non possiamo ridurre il dibattito sul nuovo responsabile d'ateneo a un pro o contro Mistretta» r.p. LOCALITA'. Quarantamila studenti, un esercito di docenti e di dipendenti e un bagaglio di conoscenze immenso: questo l'identikit dell'università di Cagliari. Come contorno: facolta decentrate, rapporti coi Comuni e soprattutto progetti di ricerca e sviluppo, oggi indispensabili per qualsiasi decollo economico. Una ricchezza, insomma, che va ben oltre i numeri. Da qui la sempre maggiore importanza dei centri di ricerca. Per questo il cambio (o il possibile cambio) del rettore dell'ateno non è un fatto solo interno all'università, ma un qualcosa che interessa tutti: dai cittadini alle amministrazioni locali. Come deve essere governata l'università? Il rettore uscente Pasquale Mistretta vorrebbe ricandidarsi. Per poterlo fare, però, va approvata una modifica allo statuto. Questione, questa, che crea i primi problemi: Paolo Pani, (docente ordinario di patologia generale nella facoltà di Medicina) precisa che vi sono due questioni preliminari: «Innanzi tutto il fatto che il cambio dello statuto non sarebbe plausibile in condizioni di normalità. È evidente che questa modifica è legata a una fatto personale: la volontà del rettore Mistretta di ricandidarsi. E che sia così lo dimostra il fatto che non si parla del merito di questa modifica di statuto, ma solo nei termini di: Mistretta rettore sì, Mistretta rettore no». Potrebbero, però, esserci altri candidati... «Certo, ritengo plausibile che ci sarebbero potuti essere altri candiati: il confrono è un fatto democratico importante. Ma la ricandidatura del rettore Mistretta altera il quadro». In che senso? «Essendo stato rettore dal '91, i suo ripresentarsi pone tutti gli altri 'contro'. Potrebbero esserci dei candidati, anche molto autorevoli, ma questi non si presenteranno perchè non sono 'contro' Mistretta». Quali i meriti di Mistretta? «Molti: onore al merito per la cittadella universitaria di Monserrato, che Mistretta è riuscito ad aprire. Le difficoltà sono nate poi e riguardano la complessità della strututra, che avrebbe richiesto uno staff con fiducia e la collaborazione reciproca tra i diversi quadri. Ma questa fiducia non c'è stata. Oggi abbiamo il rettore Mistretta, da una parte, e tutti gli altri dall'altra. La critica unanime, anche di coloro che lo rivoteranno: è che il rettore Mistretta è un accentratore, sia da parte dei docenti che gli amministrativi». È possibile qualche esempio di comportamento accentratore? «I prorettori, ad esempio, nessuno ha avuto un rapporto facile col rettore Mistretta, tant'è che oggi non c'è un solo prorettore. Giame Marongiu è stato l'ultimo, poi si è dimesso. Ma lo stesso discorso è valido per i direttori amministrativi: dell'ultimo non conosco neppure il nome». Una questione a cui il rettore tiene molto è il policlinico universitario... «Anche in questo caso i direttore generali hanno avuto poca possibilità di movimento. Lo stesso Mistretta ha avocato a sè, per un certo periodo, la direzione generale del policlinico. Ultimamente quel posto è occupato da una docente della facoltà di Medicina a cui, però, viene lasciato ben poco spazio. È lo stesso rettore Mistretta ad aver dichiarato 'la responsabilità intera del policlinico è mia perchè sono io che assicuro stipendi e tutto il resto'. Più accentratore di così? Ma anche per il direttore sanitario il discorso non cambia. Non è un caso, infatti, che il personale medico e paramedico non si rivolga al direttore sanitario ma, direttamente, al rettore Mistretta». Complessivamente, però, all'interno dell'università c'è una pace sociale soddisfacente... «Direi meglio che i rapporti sindacali sono gestiti in modo demogogico, se non in termini di consociativismo clientelare. L'arma del concorso è stata utilizzata ampiamente, sia per premiare che per punire». Volenti o nolenti, però, il rettore Mistretta probabilmente si ricandiderà: «Io do per scontata la sua rielezione». Lei lo voterà? «È ininfluente che io lo voti o meno per la sua rielezione». Ma vi sono anche altri candidati... «Gli altri sono soltanto rumori. Mentre canditure autorevoli, che potrebbero esserci, non ci sono perchè il rettore Mistretta è uber alles: è sopra tutti. Oggi sembra tutto ridotto a un fatto personale: chi protesta non è perchè entra nel merito di una questione ma perchè è 'contro' la persona Mistretta». Quindi? «Voltimo pagina: diamo per acquisita la rielezione del rettore Mistretta e appprofondiamo i problemi, al di là dei localismi e della cagliaritanità di Mistretta. Dobbiamo guadagnare in autorevolezza. Più autonomia e rispetto dei ruoli, sia per i docenti che per i compiti amministrativi. E questo significa che le facoltà devono avere un loro budget e che i vari livelli amministrativi devono avere garantito il loro ruolo». _______________________________________________________ L’Unione Sarda 2 Nov.. ’02 LUNEDÌ IL “REFERENDUM” SU MISTRETTA Il senato accademico discuterà la modifica dello statuto che consentirà al rettore di ricandidarsi Docenti e studenti decideranno se dire sì al terzo mandato Tutto come previsto: Pasquale Mistretta ha presentato al Senato accademico integrato la proposta di modifica dello statuto che gli consentirà di ricandidarsi per la quarta volta alla guida dell’Ateneo. La richiesta è stata inserita al terzo punto dell’ordine del giorno che il “Sai” discuterà lunedì pomeriggio alle 16 nella sede dell’istituto di anatomia patologica. Come si ventilava, la modifica della norma statutaria riguarderà anche le altre cariche elettive, dai presidi delle facoltà ai presidenti dei consigli di classe, dai direttori di dipartimento ai coordinatori di area che, come il rettore, potranno rimanere in carica non più per un massimo di sei anni (due mandati), ma per nove (tre). In realtà Mistretta correrebbe per la quarta volta consecutiva (è stato eletto per la prima volta nel novembre del ’91 e riconfermato due anni fa grazie ad un’altra deroga normativa) ma formalmente risulta la terza perché l’istituzione dello statuto durante il suo primo mandato aveva azzerato l’anzianità preesistente. Di fatto quello di lunedì, se si voterà, sarà un referendum pro o contro Mistretta: se l’emendamento dovesse passare (ed è altamente probabile visto che interessa anche gran parte dei componenti del Senato integrato) significherà che l’attuale rettore sarà verosimilmente confermato alle prossime elezioni. In caso contrario potrebbero spuntare nuove candidature. Il Magnifico è convinto di farcela ma ha fretta. «Voglio chiudere la partita entro un mese e mezzo», aveva detto il l’11 ottobre quando aveva confermato la sua volontà di restare in carica ancora almeno per un altro mandato, spiegando che «prima di fare la programmazione per i prossimi anni voglio sapere con certezza se sarò ancora rettore o no». Non, dunque, se «sarò ricandidabile», ma «se sarò rettore» ritenendo le elezioni quasi una pura formalità. Non è certo che lunedì si voterà (prima ci sono altri due punti importanti all’ordine del giorno), ma è sicuro che Mistretta non parteciperà alla riunione. «Nelle fasi che mi riguardano preferisco non esserci», ha annunciato nei giorni scorsi. La seduta del Sai sarà presieduta da Francesco Sitzia, preside di Giurisprudenza e decano dei docenti. Nelle scorse settimane il rettore era uscito indenne, anzi rafforzato, dalla seduta del consiglio di amministrazione durante la quale era stato votato il nuovo regolamento delle tasse che ne prevedeva l’aumento oltre all’introduzione dei contributi di facoltà. Anche quello è stato un test significativo. F. Ma. _______________________________________________________ Corriere della Sera 29 ott. ’02 LE UNIVERSITÀ E LA CULTURA D’IMPRESA "Esportiamo il modello Lombardia con cinque atenei privati di alta qualità" La risposta che i rettori italiani si aspettano dalla lettera inviata al presidente del Consiglio forse l'hanno già avuta alla loro conferenza, durante l'incontro con il ministro Letizia Moratti. La Lady dell'Università italiana, con voce suadente ma ferma, ha fatto la sua "confessione", che, nell'austera sala della CRUI, suonava un po' denuncia verso il Sistema Paese, ma anche e soprattutto rimprovero al Sistema Universitario. L'Università italiana è percepita - secondo il ministro ma, con tutta onestà, non solo secondo lei, - come un mondo, ancorché di alto livello, sostanzialmente autoreferenziale, impermeabile alla società civile e al sistema imprenditoriale e sociale: utile più a chi lo gestisce, che a chi ne fruisce. Forse non è proprio così fino in fondo, forse non è così in modo uniforme dalle "Alpi alle Piramidi", ma è vero e certo che nell' impresa-Università - oggi per lo più a fortissima partecipazione statale: le "private" sono pochissime (10 su 76) e altrettanto poco onerose per lo Stato - la cultura d'impresa è estranea. Il richiamo alla cultura d'impresa è fondamentale in un settore di primaria importanza, come quello della formazione. La Lombardia e le sue Università in questa direzione sono sicuramente più avanti di altre Università di altre regioni italiane: cinque Università "private" esistenti con successo in essa su un universo nazionale del settore privato di dieci in tutto, è un test significativo di una diversa mentalità e di una diversa sensibilità, ma anche di una diversa percezione da parte del territorio e della società civile lombarda del proprio sistema universitario. Tale massiccio insediamento "non statale" è stato, di sicuro, utile, come sprone e come deterrente, al sistema statale, che in Lombardia è molto più attento agli utenti e allo stesso sistema integrato città-regione, come per converso il sistema istituzionale e produttivo lombardo è più recettivo e sensibile alle sue università, come attestano i buoni e frequenti rapporti con le stesse istituzioni, l'Assolombarda, l'Unione del Commercio e del Turismo, le Fondazioni bancarie, le Camere di Commercio e altro ancora. Un modello positivo allora c'è? Non vorrei esagerare in ottimismo; è certo però che le eccezioni esistono e i modelli di questo tipo si costruiscono nella realtà prima che nell'ingegnosa fantasia istituzionale degli "ingegneri delle istituzioni". E, se il presidente del Consiglio guarda alla realtà a lui più vicina, almeno geograficamente, ha di che rispondere ai rettori italiani. Gianni Puglisi rettore dello Iulm ________________________________________________________ Il Messaggero 2 Nov.’02 LA VERA SCIENZA NON FA PAURA di Maurizio Dapor A quanto pare una certa scuola di pensiero antiscientifico, che ci affligge mettendoci in guardia dai presunti pericoli connessi con lo sviluppo tecnologico, ha colpito ancora. La cosa non ci emozionerebbe più di tanto se a sostenere tesi palesemente oscurantiste SEGUE A PAGINA 46 non fosse un articolo apparso sull'autorevole periodico «The Economist», citato e poi amplificato da alcune riviste di divulgazione scientifica italiane. In estrema sintesi vi si sostiene che la gente dovrebbe iniziare a preoccuparsi per lo sviluppo delle neuroscienze, «vera minaccia per la natura umana». Considerando le potenzialità, ad esempio, delle odierne tecnologie di indagine dell'attività cerebrale, quali la «functional Magnetic Resonance Imaging» (fMRI) e la «Positron Emission Tomography» (PET), grazie alle quali è possibile ottenere informazioni sull'attività di determinate aree del cervello durante l'esecuzione di esperimenti di memorizzazione, molti esponenti di questo pensiero antiscientifico si chiedono cosa accadrebbe se esse dovessero venire utilizzate in modo improprio. Essi si riferiscono all'interessante risultato di un esperimento guidato da Greg Siegle dell'Università di Pittsburgh il quale avrebbe evidenziato che la lettura di una serie di parole tristi - come «morte» o «malattia» - induce, nelle persone che hanno problemi di depressione, l'attivazione dell'amigdala, una parte del cervello coinvolta nel comportamento emotivo, per una durata media di circa 25 secondi. Per le persone non depresse la durata dell'attivazione dell'amigdala nelle medesime condizioni sperimentali sarebbe, in media, pari a soli 10 secondi. Se, in un futuro più o meno prossimo, queste tecniche dovessero venire utilizzate, ad esempio, dalle società di ricerca del personale, i depressi potrebbero forse rischiare, ci si chiede, di essere facilmente individuati e quindi discriminati nell'attribuzione dei posti di lavoro? Il messaggio che si intende trasferire con questo genere di discorsi è inequivocabile: lo studio del cervello mediante l'uso delle tecnologie più innovative sarebbe potenzialmente pericoloso perché se tali tecnologie dovessero finire nelle mani di individui senza scrupoli potrebbero essere utilizzate per subdole discriminazioni e, perché no?, per azioni di controllo sociale. Iniziamo a considerare l'ingenuità dell'idea di fondo: c'è davvero qualcuno che ritiene che, per riferirci al semplice esempio delle società di ricerca del personale, pure in assenza di tecnologie adeguate le selezioni siano oggi effettuate senza discriminazioni nei confronti di coloro che manifestano sintomi di malessere mentale? E non è vero, piuttosto, che proprio la mancanza di tecnologie adeguate per l'individuazione e la cura delle difficoltà psicologiche costituisce la peggiore delle discriminazioni? Soffermiamoci allora sull'utilità che le tecniche di indagine cerebrale potranno (e già oggi possono) avere nella cura di particolari patologie. Gli esempi sono innumerevoli. Uno è quello dei dolori apparenti (o fantasma) che in molti casi accompagnano parte della vita di persone che hanno subito amputazioni di arti. Si tratta di dolori che possono raggiungere livelli di intensità assai elevati. Nei confronti di pazienti che avevano subito un'amputazione e lamentavano di sentire un dolore al braccio che non avevano più, si è pensato di utilizzare la «fMRI». Mediante questa tecnica è stato possibile, conoscendo la regione del cervello corrispondente al braccio amputato, addestrare i pazienti ad eliminare l'associazione con le zone del cervello a essa fisicamente adiacenti. Il risultato è stato una sostanziale riduzione del dolore fantasma in una elevata percentuale di pazienti. Ma ci sono altri esempi. Esistono terribili malattie che, danneggiando le cellule del sistema motorio del cervello, inducono paralisi totali. Le persone colpite da simili paralisi non possono muovere più alcun muscolo anche se le loro capacità cognitive sono rimaste intatte. Nel trattamento di pazienti colpiti da paralisi totale, le cui capacità cognitive siano rimaste intatte, Niels Birbaumer ha utilizzato un sistema che presenta sullo schermo di un computer un insieme di lettere dell'alfabeto. Il paziente, una volta che ha imparato a controllare il potenziale elettrico del suo cervello, è in grado di scegliere una lettera per volta attraverso l'interfaccia cervello-computer e comporre in tal modo un messaggio. Egli cioè viene messo in grado di esprimere i suoi pensieri nonostante la paralisi totale gli impedisca di parlare. Questi esempi ci mostrano quanto le odierne indagini sul cervello possano essere utili per aiutare le persone in difficoltà. Non riteniamo che la ricerca scientifica sia in grado da sola di risolvere tutti i mali da cui è afflitta l'umanità. Ma coltiviamo la speranza di non dover assistere al riaffermarsi di una cultura anti-scientifica alimentata da assurdi timori e nutrita di paure senza fondamento. _______________________________________________________ L’Unione Sarda 31 ott. ’02 LA LAUREA NON BASTA PIÙ Lettera ai giovani sardi È stato istruttivo e divertente leggere le numerose e-mail inviate dal popolo dei lettori della rete a commento del mio articolo di qualche giorno fa sulla “cultura del posto”.C’è di tutto: chi contesta, chi approva, chi saluta il suo (io) professore. C’è persino un sedicente tal Brambilla: probabilmente, almeno a giudicare dai toni, leghista con la Maserati triturbo che, se esistesse davvero, sarebbe la prova vivente della reversibilità della teoria della evoluzione della specie. Quasi tutti quelli che hanno scritto sono laureati e alcuni di questi, evidentemente punti sul vivo, hanno reagito con veemenza, difendendo i diritti e le prerogative del doctor sardus, come se avessi proposto l’apertura della caccia ai fenicotteri negli stagni di Cabras o l’azzoppamento dei cavallini della Giara. Altri hanno interpretato le mie parole con l’adesione incondizionata a un modello darwiniano-liberista - lontano anni luce dalla mia storia personale e dalla mia cultura - secondo il quale è giusto che solo i più forti sopravvivano. Altri ancora mostravano un atteggiamento del tipo: «Fara ha ragione a strigliarci ma, come direbbero a Napoli, s’ha dda campa’». Alcuni, invece, senza troppi giri di parole, avanzavano la richiesta del mio “posto”, nel senso più materiale del termine. E proprio da qui vorrei partire, senza nessun intento pedagogico, perché come cantava De André, da alcuni citato, «la gente da sempre buoni consigli sentendosi come Gesù nel tempio… se non può più dare il cattivo esempio». E poiché non sono tanto vecchio da dover rinunciare ai cattivi esempi, mi limiterò a qualche osservazione in libertà da sociologo emigrato. È vero, forse sono un privilegiato, perché a cinquant’anni dirigo, da venti, uno dei più importanti centri di ricerca sociale ed economica del Paese. Ma vi assicuro che il percorso non è stato dei più facili: il mio istituto non vive di contributi pubblici. Deve il proprio successo all’impegno di tanti bravi ricercatori che difendono con le unghie e con i denti, e a prezzo di non irrilevanti rinunce materiali, la libertà di poter scrivere e dire quello che pensano. Verso la fine degli anni Sessanta, a sedici anni, di fronte alla prospettiva di un infinito struscio in corso Matteotti, sono “scappato” da Tempio per approdare a Roma. Figlio di operai, mi sono mantenuto facendo i lavori più umili. Quei tempi non erano meno duri di quelli di oggi. Dopo aver trovato un “buon” lavoro lo persi per la pretesa di voler affermare alcuni giusti diritti, come quello del riposo settimanale dopo giornate di dodici, quattordici ore di lavoro. Rimasto senza soldi e senza alloggio, ho dormito dentro una cinquecento per due settimane, tirando avanti a tramezzini e cappuccini. E mi fermo qui, perché se continuassi con il racconto della mia “avventura” potreste pensare ad una possibile sindrome da Libro Cuore o da Victor Hugo. In quegli anni, in cui il problema principale era quello di mettere insieme il pranzo con la cena, non mi sono mai chiesto quale lavoro fosse più adatto ad un giovane di belle speranze: primum vivere, deinde… E questa è stata l’esperienza di tanti ragazzi della mia generazione, soprattutto di quelli che volevano emergere e non avevano risorse familiari alle spalle. Certo ora tutto è diverso. La gran parte di voi giovani d’oggi è cresciuta a Nutella e motorini, televisione, computer e telefonini, grazie ai sacrifici fatti a suo tempo dai padri, anche quelli col posto fisso, che magari avevano altri sogni e li hanno dovuti mettere nel cassetto. Siete stati coccolati, accuditi, accompagnati, viziati, protetti dalle insidie della vita, dal mondo brutto e cattivo, da ogni possibile pericolo. I vostri genitori, per troppo amore, vi hanno impedito di crescere. Non vi hanno dato la possibilità di far da soli, di sbagliare, di capire che anche gli insuccessi e i fallimenti aiutano a maturare e oggi, a ragione, pretendete che tutto vi sia dovuto e che il solo possesso di un “pezzo di carta” debba aprirvi tutte le porte. Ogni giorno si presentano da me, in istituto, giovani aspiranti ricercatori. La prima cosa che molti di loro ti chiedono è quanti soldi, quante ore e se si lavora di sabato. Nel sessanta-settanta per cento dei casi, dopo averli messi alla prova, ci accorgiamo che trovano difficoltà a far convivere la grammatica con la sintassi. Un tempo essere laureati significava quasi essere arrivati. Oggi la laurea serve a malapena per partire e, mentre i concorrenti aumentano in termini esponenziali, i posti si riducono in misura inversamente proporzionale. E d’altra parte non fu proprio durante una visita in Sardegna che Carlo V, di fronte ad una folla di questuanti, pronunciò la famosa frase “Todos caballeros”? Ecco, siamo ormai tutti caballeros e servi nello stesso tempo. Servi dei nostri pregiudizi, delle nostre cattive abitudini, della nostra indisponibilità all’attesa e al sacrificio, delle nostre pretese, delle nostre ansie e delle nostre paure. E per noi sardi le cose sono ancora più complicate dalla nostra sardità, da quel sentirci unici, quasi una specie da tutelare e dal non capire che tutte le specie protette finiscono, prima o poi, per andare in estinzione. In tanti anni passati fuori casa, non ho mai incontrato un sardo emigrato che nel suo settore o nel suo piccolo non si fosse fatto valere, mentre dai sardi in Sardegna non sento altro che lamentazioni. Quelli che hanno avuto la fortuna di poter restare a casa, dovrebbero darsi da fare, in tutti i modi possibili, anche per dimostrare che non è vero che «se ne vanno sempre i migliori». Gian Maria Fara _______________________________________________________ L’Unione Sarda 30 ott. ’02 FALLISCE LA TECHSO, VA ALL’ASTA IL 10 PER CENTO DEL CRS4 La società era uno degli azionisti del centro di ricerca cagliaritano presieduto da Rubbia Il Crs4, la società consortile a responsabilità limitata sorta nel novembre 1990, con il fallimento della Techso spa ha perso uno dei soci fondatori. Le ripercussioni della procedura fallimentare riguardano il 10,15% del capitale sociale del Centro di ricerca costituito dal Consorzio Ventuno, dall’Ibm Semea spa, dalla Saras e da St Microelectronics. Il giudice Giovanni Dessy ha dato mandato al curatore Luigi Farris di vendere la quota azionaria della società fallita. Non si tratta di un’asta vera e propria in quanto il curatore, per prassi, ha scritto ai soci fondatori del Crs4 nell’eventualità di un loro interesse ad acquisire le azioni della Techso. La quota di partecipazione, di nominali 324.200,00 euro, è stata fissata per la vendita a un prezzo non inferiore a 738.533,36 euro, salvi i diritti statutariamente previsti per gli attuali soci. Soltanto dopo le risposte degli azionisti, la quota potrà essere messa a disposizione di altri soggetti. Tra le finalità del Crs4 vi sono lo sviluppo di tecniche avanzate di simulazione al computer applicabili alla soluzione di problemi complessi di calcolo scientifico e l’effettuazione di ricerche e innovazioni nel campo delle tecnologie dell’informazione. Il Centro fa parte del Parco scientifico e tecnologico della Sardegna, punto focale di attrazione per studi industriali di alto valore tecnologico ed opera in stretta cooperazione con l’industria, il mondo accademico, i più avanzati laboratori scientifici europei ed americani e le piccole e medie imprese. Con la presidenza onoraria del Nobel Carlo Rubbia, il Crs4 annovera nel vertice del consiglio di amministrazione Nicola Cabibbo (Presidente), Giovanni Caria (Vice Presidente), l’amministratore delegato Giuseppe Usai e il direttore generale Filippo Pinna. ________________________________________________________ La Stampa 30 Ott. ’02 CAGLIARI BEVE L´ACQUA DELLE MINIERE CI SI PUO´ FIDARE? ANCHE in Sardegna è partito il programma delle «grandi opere»: il 19 ottobre l´assetata Cagliari ha ricevuto la prima acqua dall'Iglesiente dove, nelle antiche miniere, le falde sono in risalita da qualche anno e l'acqua addirittura fuoriesce dai cunicoli e va perduta. Il prelievo è di 300 litri al secondo, per un totale di 10 milioni di metri cubi l'anno. E´ lodevole recuperare l'acqua attualmente sprecata, ma da dove viene quell'acqua? Potrebbe essere stata inquinata dalla sua permanenza in miniera? E se per questo si dovesse diminuirne il quantitativo, sarebbe ancora il caso di investire risorse nel progetto? La miniera di Monteponi è stata una delle principali del bacino minerario del Sulcis - Iglesiente, uno fra i più importanti d'Europa, dove il problema che si dovette risolvere fu, inizialmente, proprio quello della presenza di acqua negli scavi. Nella collina di Monteponi la falda acquifera arrivava, originariamente, a 70 metri sul livello del mare e fu abbassata (nel 1870) grazie all'uso di pompe idrauliche provenienti dal Belgio e inserite nel pozzo Sella, costruito appositamente. Ma l'acqua era tantissima (più di 600 litri al secondo) e le pompe non bastavano, per cui si scavò una galleria che drenava direttamente a mare: 6 chilometri di scavi negli scisti impermeabili che proteggevano la falda acquifera lateralmente. In poco tempo l'acqua scese a +8 metri sul livello del mare, ma per inseguire i filoni di piombo e zinco in profondità si impiantarono altre pompe a quote sempre più basse, che abbassarono la falda a -135 metri. Tutte le miniere della regione beneficiarono di questo abbassamento enorme. L'ultimo impianto di pompaggio fu installato a -200 metri nel 1990, poco prima che la miniera venisse chiusa per via della scarsa remuneratività. Subito la falda cominciò a risalire e arrivò a +35 metri (quest'anno) traboccando di conseguenza all'esterno delle gallerie: di qui l´idea di portarla a Cagliari. Nessuno però ha provveduto prima a ripulire le miniere di Monteponi, dove si sono concentrati praticamente tutti gli elementi conosciuti sulla crosta terrestre, inclusi metalli, minerali pesanti, veleni, sostanze tossiche e radioattive e dove sono stati abbandonati i macchinari di scavo e gli olii esausti. E' vero che l'alimentazione attuale proviene soprattutto dalle acque di pioggia e che quindi la qualità chimica migliora col tempo, ma chi può garantire, oggi, la qualità di quell´acqua? Si calcola che un pompaggio attorno ai 40-50 litri al secondo sia il massimo consentito, se non si vuole deprimere localmente la falda fino a far rientrare nel cono di emungimento (l'"imbuto" che si forma attorno al pozzo mentre si pompa l'acqua) anche le sostanze non volute che, per la loro pesantezza, riposano sul fondo. Due o tre soli punti di pompaggio che prelevino 300 litri al secondo non sembrano la soluzione migliore, meglio sarebbe stato prevedere più punti. In ogni caso sarebbe stato indispensabile eseguire collaudi per alcuni mesi, per vedere qual è il limite al di sopra del quale la qualità delle acque peggiora. E' probabile che la quantità di 300 litri al secondo sia troppo elevata e che quindi si debba ridurre la portata, ma in quel caso si giustificano i nove milioni di euro spesi? [TSCOPY](*)CNR, Istituto Geologia Ambientale e Geoingegneria, Roma ________________________________________________________ La Stampa 30 Ott. ’02 TORINO CONTRO EINSTEIN LA RELATIVITA´ GENERALE FU ACCOLTA IN MODO OSTILE E DERISORIO SUI GIORNALI E AL POLITECNICO: RILEGGERE OGGI QUEGLI ARTICOLI PUO´ ESSERE ISTRUTTIVO QUANDO Arthur Eddington comunicò che le sue osservazioni compiute durante l´eclisse totale di Sole del 29 maggio 1919 confermavano la teoria della relatività generale di Albert Einstein, il «New York Times» diede la notizia in prima pagina, e dato che già allora i giornalisti esageravano, il titolo affermava che da quel momento in poi Newton e la sua legge di gravitazione universale diventavano spazzatura, o quasi. Altri giornali furono più prudenti, o avversarono la relatività. E così pure alcuni scienziati. Come andarono le cose a Torino? Devo alla pazienza di Giorgio Sudario, responsabile del Centro di documentazione de «La Stampa», il ritrovamento di tre curiosi articoli sulla teoria di Einstein usciti nelle pagine del nostro giornale due anni dopo il clamoroso annuncio del «New York Times». Il primo è un elzeviro del 1° settembre 1921 intitolato «Trittico Einsteiniano» a firma di Eugenio Giovannetti, penna oggi oscura ma probabilmente all´epoca considerata brillante. Lo spiritoso Giovannetti, confondendo tra l´altro la relatività speciale del 1905 con quella generale del 1916, immagina tre situazioni rese paradossali dalla teoria di Einstein, che ovviamente non aveva capito neppure vagamente ma riassume così: «Uno scienziato tedesco, Einstein, ha matematicamente dimostrata l´inesistenza dello spazio come entità obbiettiva, ha dimostrato cioè come tutti i rapporti spaziali, non avendo alcun valore obbiettivo ma solo un valore soggettivo e convenzionale, sieno invertibili ad libitum. In lingua povera: un paesaggio visto da qualcuno che cammini sulle nubi con il capo all´ingiù e veda la terra come un cielo, non è men vero dello stesso paesaggio visto da qualcuno che cammini sulla terra e veda le nubi sull´alto del cielo. Un salotto in cui il soffitto abbia preso il posto del pavimento e viceversa non è men vero di d´un salotto ordinario. Infine, nella vecchia frase "il treno corre verso la stazione" non c´è più verità fisica di quella che sia nella frase "la stazione corre verso il treno"». Fin qui niente di strano. Anche oggi esistono giornalisti che si ritengono brillanti e tuttavia scrivono prevalentemente sciocchezze. Per essi c´è soltanto da aspettare che diventino dei Giovannetti: giustizia sarà fatta. Più interessanti, storicamente, sono invece gli altri due articoli, scritti da Giovanni Boccardi, allora direttore dell´Osservatorio astronomico di Pino Torinese. Boccardi non era un Giovannetti. Nato nel 1859 a Castelmauro (Campobasso), si era laureato in ingegneria ed era diventato sacerdote per poi insegnare matematica nei collegi dei Lazzaristi a Salonicco, Smirne e in alte città del Medio Oriente; tornato in Italia, era stato astronomo alla Specola Vaticana, all´Osservatorio di Collurania a Teramo e poi, dopo due periodi di ricerca a Parigi e Berlino, all´Osservatorio di Catania, dove compilò un catalogo di 3243 stelle di riferimento; infine, nel 1903, vinse la cattedra di astronomia dell´Università di Torino e divenne direttore dell´Osservatorio, che allora si trovava sulle torri di Palazzo Madama, in piazza Castello: sarà lui a trasferirlo nella sede molto più adeguata della collina. Del 1923 sono le sue dimissioni per motivi di salute, ma continuerà a divulgare l´astronomia in articoli e conferenze fino alla morte, che lo colse a Villetta, vicino a Savona, nel 1936. Bene. Padre Giovanni Boccardi il 28 settembre 1921 interviene sulla teoria di Einstein con un articolo intitolato «In difesa di Newton». Saggiamente «La Stampa» si tiene fuori dalla mischia. In un distico che precede l´articolo, il redattore scrive: «E´ questo un campo nel quale un giornale politico non ha competenza per formulare giudizi. Pertanto pubblichiamo volentieri questo articolo dell´illustre nostro astronomo, il quale spezza una lancia in difesa di quella legge di gravità che dalle nuove teorie dovrebbe uscire o menomata o distrutta.». Boccardi cerca di esporre le basi della relatività e del concetto di tempo come quarta dimensione, per la verità dando l´impressione di non saperne granché. Ma soprattutto mette in discussione le prove sperimentali, e in particolare proprio quella ottenuta da Eddington durante l´eclisse del 1919, sostenendo, non del tutto a torto, che era lecito dubitare della precisione vantata in quelle misure (un decimo di secondo d´arco), e che vari fattori avrebbero potuto falsare i dati. Altrettanto scettico si mostra sull´altra "prova", e cioè il fatto che la relatività generale spiega perfettamente lo spostamento anomalo del perielio di Mercurio, che invece non è giustificato dalla legge di Newton: fenomeno di cui «gli astronomi non si preoccupano, come lo dànno a intendere i troppo zelanti partigiani di Einstein». E conclude: «non posso trattenermi dall´esprimere questo mio sentimento personale, che cioè tra cinquant´anni si parlerà delle ipotesi di Einstein come del tentativo di Clairaut nel 1754; mentre la legge di gravitazione di Newton, "ai trionfi avvezza", rimarrà sovrana incontrastata sul suo trono e continuerà ad essere la base delle teorie fisiche.». (Clairaut aveva trovato una anomalia nel perigeo lunare ma si era trattato di un errore). Nel suo secondo articolo, del 5 ottobre 1921, Boccardi adotta invece un argomento filosofico: la relatività è poco credibile perché non corrisponde al motto «Natura simplex ed fecunda». «I grandi geni scientifici - scrive - erano convinti della semplicità delle leggi naturali; mentre i superuomini di oggi affettano di guardare con compassione l´opera di quelli, vantandosi di essere più profondi perché sanno complicare le cose. Intanto si commette il grave errore di passare dal campo astratto dell´analisi matematica a quello della realtà, presentando i fenomeni naturali, i fatti, come risultati delle formole matematiche!». Per inciso, Einstein non incontrò simpatie neanche al Politecnico di Torino, dove Quirino Majorana, zio del grande Ettore, fu tra i più duri avversari della relatività. Una morale? Due mesi fa Paul Davis su «Nature» ha scritto di una osservazione astronomica di lontanissimi quasar dalla quale risulterebbe che la velocità della luce non è costante: in un remoto passato sarebbe stata più elevata. Subito i giornali hanno scritto che la relatività era da gettare. Calma. Come la relatività non ha liquidato Newton ma lo ha inglobato in una teoria più ampia, così può accadere alla relatività. Da tempo si ipotizza che la velocità della luce e altri parametri fisici fondamentali non siano costanti. Davvero costante è soltanto l´approssimazione dei giornali. Piero Bianucci _______________________________________________________ L’Unione Sarda 29 ott. ’02 UMBERTO ECO E IL BALLO SARDO "Se dovessi definire il mio indipendentismo userei gli aggettivi sereno, cosciente, appassionato, un indipendentismo come scelta". Lo dice di sé Franciscu Sedda: il quale non è un residuo di altre epoche sardiste, non un segreto organizzatore di cellule anti-italiane, ed è lontano mille miglia dall’ardito preparatore di chissà quali congiure più o meno armate. Si tratta semplicemente del giovane studioso sardo che, il 19 aprile scorso, ha ricevuto dalle mani del semiologo Umberto Eco, l’intellettuale italiano più famoso nel mondo, il Premio "Sandra Cavicchioli" per la migliore tesi di laurea in semiotica dell’ultimo biennio, in tutta Italia. E in tutto questo la posizione politica del giovane studioso ha un ruolo non marginale. Ma, per capire, torniamo un po’ indietro. Intanto Franciscu ha scelto di affermare la sua provenienza e la sua identità pubblica chiamandosi (e scrivendosi) Franciscu. Si è diplomato sei anni fa all’Istituto Nautico di Carloforte, dove è nato, dove vivono la mamma carlofortina, insegnante, e il padre, di Nureci, professore di storia dell’arte ed artista egli stesso. Parla un quasi perfetto tabarkino, un po’ meglio della lingua sarda. Tabarkino e sardo, appassionatamente attraversato dalle due culture, il ragazzo salta il mare, per un’altra pesca, quella dello studio dei significati. La semiotica studia sia i grandi fatti che quelli piccolissimi di ogni giorno, spesso collegandoli fra di loro e decifrandoli. In quest’ottica risulta decisiva la formazione tesa fra la scuola romana di semiotica guidata da Isabella Pezzini e la scuola mediologica di Alberto Abruzzese, preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione, entrambe sensibili a questo modo di impostare l’analisi della società. I cinque anni alla"La Sapienza" di Roma sono dunque impegnati negli studi ma con l’occhio e l’orecchio volti ai fatti della Sardegna, di oggi e di ieri, fino alla tesi. "Tradurre la tradizione", è il titolo; "Percorsi della memoria culturale in Sardegna", il sottotitolo, esso stesso di non facile decifrazione, quasi per adepti. In breve: l’autore vi descrive la danza delle nostre feste, il ballo sardo, ne analizza i valori iniziali e le trasformazioni nel tempo che lo hanno portato fino alla trasmissione televisiva "Sardegna canta", e nei mutamenti di "su ballu" legge i valori, le sventure e le avventure della perenne e recente storia sarda, intesa come vicenda di un popolo oppresso che ancora non vuole una liberazione. Tutto qui? Sì, ma anche di più. Perché con questa complessa e documentata elaborazione - gli è costato un biennio di lavoro - questo giovinotto, nello scorso mese di dicembre, ha sbancato i concorsi per il dottorato di ricerca sia alla Sapienza di Roma che all’Università di Siena, prima di arrivare davanti alla commissione dell’Università di Bologna, a ricevere il premio presso la Scuola Superiore di Studi Umanistici. Dai corsi di laurea italiani della materia erano già stati selezionate una decina di tesi. A far pender la bilancia verso il nostro, a parere dei tre commissari, sono stati gli aspetti innovativi del saggio: la sua capacità di rapportare i fenomeni della tradizione con quelli dei media; la ricchezza dei riferimenti semiotici uniti a quelli filosofici e antropologici, l’osservazione non preconcettualmente ostile e stereotipata al ruolo dei media nella società contemporanea. Una bella storia, una delle tante versioni, al maschile stavolta, di Cenerentola: dalla possibilità prossima allo zero di restare in università, all’aperta prospettiva di continuare gli studi presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, e poi… Su ballu è stata l’occasione ed il pertugio dove entrare in un diverso mondo. Il metodo: si cerca un "oggetto culturale" pertinente, importante, denso, sia nella sua pratica che nella sua rappresentazione, qualcosa che sia o sia stato ben presente nell’immaginario collettivo. Cosa meglio, da questo punto di vista, della festa e del suo ballo, su ballu, con i suoi valori, le sue trasformazioni, la sua storia? "Ma il ballo - dice Franciscu commentando il suo lavoro - non è tutta una cultura, è una delle sue espressioni, al più, a volte, il suo simbolo. La posta in gioco è più precisamente l’autocoscienza culturale, il credere e il sapere che dà forma e sorregge quella porzione di umanità che sono i sardi (che non sono semplicemente coloro che sono nati in Sardegna né coloro che sono "etnicamente" sardi), quella parte della Terra che è la Sardegna, in quanto forma e spazio simbolico". Ecco allora che si scopre che in alcuni momenti cruciali della storia della Sardegna - come ad esempio il periodo che porta dall’inizio della Prima alla fine della Seconda Guerra Mondiale - il ballo irrompe nel discorso politico in modo apparentemente incongruo e enigmatico. Eccolo che si lega a uomini e vicende, diviene simbolo ambiguo o mezzo per rendere comprensibile il passato e legittimare il presente. Come si lega il ballo alla "fondazione storica" dell’Autonomia e all’autonomismo odierno? E cosa ci dice dei nostri presunti "padri" che allora lo chiamavano in causa? E perché dopo l’autonomia il ballo scompare per riapparire poi attraverso i gruppi folk e la tv? Perché, come tanti altri "pezzi" della cultura sarda, lo si vive ancora con un misto di attrazione e fastidio, preso fra esaltazione e indifferenza (quando non ripudio schifato ed esplicito)? "Il ballo - continua il commento - diviene mezzo per riportare a galla la memoria e le sue dinamiche più profonde e in questo gioco anch’esso può riguadagnare senso: così, mentre esso perde parte della sua innocenza, i "padri" iniziano ad apparire come coloro che hanno tarpato le ali ai figli, e l’autonomia, divenuta "unionismo", lascia intravedere il suo esser nata sul sacrificio dell’indipendenza, su di una concreta umiliazione individuale e collettiva oggi rimossa, sulla negazione dell’attesa della Repubblica Sarda". "È allora soprattutto l’immagine di sé, il modo in cui è stato storicamente fondato e strutturato il modo di vederci e di sentirci, in particolare attraverso l’agire e il pensiero di Lussu, che appare in tutta la sua portata paradossale, con il suo doppio vincolo doppiamente distruttivo, quello esemplificato dal fatto che la danza può divenire "nazionale" solo quando la nazione viene dichiarata "fallita", quando ai sardi viene chiesto di smetterla con l’"ostinazione" di sentirsi e credersi nazione (Lussu). Non a caso la danza scompare: ma soprattutto scompare la storia, scompare il ricordo e il senso di quegli eventi, scompare la memoria di una cultura e tutte le potenzialità in essa custodite, il tutto per lasciar spazio a un altro modo di dar senso al mondo e alla nostra esistenza in esso". Così la pensa il giovane Franciscu. Entro l’anno la sua tesi sarà un libro. Salvatore Cubeddu _______________________________________________________ Corriere della Sera 1 Nov. ’02 BASTA TOGHE E INVITI, ALLA STATALE INAUGURAZIONE ONLINE Panza Pierluigi La data è la più tradizionale che ci sia: il 5 novembre. Ma il modo di presentarsi è da «Nuova frontiera» dell' università. Martedì 5 novembre, alle 16, il rettore dell' Università Statale, Enrico Decleva, si affaccerà da una finestra del sito http:/ /ateneo.ctu.unimi.it/rettore/main.html per dare il via alla prima inaugurazione online di un anno accademico. Niente Aula Magna, niente toga, niente inviti. Da uno schermo il rettore parlerà «urbi et orbi» a docenti e studenti delle strategie dell' a teneo. Con questa inaugurazione, dunque, la Statale (e non solo essa) entra sempre più nell' era dell' e-learning e della didattica organizzata anche grazie a Internet. Con lezioni riportate nei siti dei singoli docenti e scaricabili dagli studenti, con iscrizioni online agli esami e con una casella di email elettronica per ciascun iscritto. Sull' e- learning, inoltre, la Statale ha organizzato per l' 11 novembre un convegno al quale hanno già dato la loro adesione una cinquantina di università. Per quest' anno accademico, l' Università di via Festa del Perdono ha in programma oltre 100 insegnamenti di didattica online destinati a integrare la didattica classica. Sono stati varati e già funzionano anche laboratori in Rete, come quelli lingui stici, che sono una risorsa per gli studenti che lavorano e non possono frequentare (http://ateneo.ctu.unimi.it/). Inoltre è in fase conclusiva la ristrutturazione del portale web. Il 10 gennaio scorso, infine, nella sede di Crema, la Statale ha inau gurato il centro Arc (Advanced Research Center) facendo ricorso a potenti supercomputer Quadrics, che forniranno soluzioni ai problemi più disparati: da programmi per sonde spaziali capaci di autogovernarsi a programmi per ridurre l' inquinamento del motore dell' auto. Per il rettore Decleva, «gli strumenti informatici sono il mezzo e non il fine» dell' apprendimento, e l' e-learning è da intendersi come «integrativa e non sostitutiva» delle tradizionali lezioni ex cathedra. Ma tra poco anche il busto di Platone si affaccerà dal web per spiegare il «Timeo». Pierluigi Panza ________________________________________________________ Il Sole24Ore 2 Nov. ’02 AZIENDA ITALIA, UN ESERCITO DI INSODDISFATTI MILANO - Poco coinvolti, demotivati, stressati. Quando parlano del loro lavoro, gli italiani si dipingono così: incompresi dai diretti superiori, scarsamente valorizzati dalle aziende. Insomma, un esercito di insoddisfatti si aggira quotidianamente nelle imprese, migliaia di uomini e di donne che ogni giorno si presentano puntualmente al lavoro ma che lasciano altrove il loro cuore, fuori dai cancelli. Qualche giorno fa un'indagine su 30 mila lavoratori dipendenti europei realizzata da Monster, società leader mondiale nel recruiting online e business unit di Tmp Worldwide, aveva messo in luce come gli italiani fossero tra i più cagionevoli di salute in Europa. Ma oggi un'altra inchiesta, firmata dall'International survey research di Londra, lancia un allarme ben più grave: i lavoratori italiani sono i più insoddisfatti del Vecchio continente. Nella classifica internazionale che ha messo a confronto 20 Paesi, l'Italia registra il risultato peggiore, superata perfino dalla Turchia. Lamentarsi, si sa, è uno sport nazionale. Ma al di là dei luoghi comuni, un dato di fatto è che le indagini sul clima aziendale effettuate negli ultimi anni giungono inevitabilmente alle stesse conclusioni. E sul banco degli imputati siedono i direttori del personale, con l'accusa di non essere stati in grado di ribaltare la situazione nonostante i ripetuti campanelli d'allarme. Ma è soltanto colpa loro se la motivazione non è di casa nelle aziende? Elisa Boccaletti, italiana trapiantata da otto anni a Londra e consulente dell'International survey research, li assolve parzialmente: «Credo che lo scarso senso di soddisfazione dei lavoratori italiani scaturisca da due elementi - dice -. Primo: le funzioni risorse umane, che in una situazione di mercato del lavoro bloccato e con scarso turn over non sono incentivate a investire sui dipendenti. Ma il secondo aspetto riguarda direttamente i lavoratori: gli italiani tendono a lamentarsi di più dei loro colleghi degli altri Paesi. Nelle nostre indagini sulla felicità aziendale, l'Italia si colloca sempre agli ultimi posti: una contraddizione in un Paese che vanta una qualità della vita senza confronti». Sarà, ma la percezione che i lavoratori italiani hanno della società che li ha assunti continua a essere in gran parte negativa. L'International survey research ha individuato quattro tipologie di dipendenti, classificati in base al loro impegno in azienda. In cima ci sono gli "sposati", determinati a garantire il successo della loro azienda: sono i lavoratori modello, quelli di cui qualunque buon manager vorrebbe circondarsi. Nel mondo costituiscono il 54% della forza lavoro, in Italia il 52 per cento. Ci sono poi i "conviventi", che hanno un'opinione abbastanza positiva della loro società, ma non hanno intenzione di rimanervi: nel mondo sono il 14%, l'8 per cento in Italia. Nella parte bassa della classifica figurano i "separati", complessivamente il 16%, ma balzano al 25% in Italia. Sono i lavoratori che hanno un'opinione negativa dell'impresa nella quale sono impiegati, se potessero se ne andrebbero, ma non possono. Infine, i "divorziati": considerati le "pecore nere", quelli che non consiglierebbero a nessuno di lavorare per la loro azienda e hanno serie intenzioni di andarsene. Nel mondo sono il 16%, in Italia il 15 per cento. «Quello che colpisce è la forte presenza di "separati" nelle aziende italiane - sottolinea Elisa Boccaletti -, una anomalia nel contesto mondiale». Non è però una novità. Nel 1998 la società di consulenza Summit effettuò un'indagine sul coinvolgimento emotivo dei dipendenti nelle imprese. E i risultati furono allarmanti: 6,2 lavoratori italiani su dieci non erano leali verso la loro azienda, otto su dieci si dichiaravano indifferenti. Ma oggi? «Non abbiamo svolto altre rilevazioni da allora - chiarisce Franco D'Egidio, amministratore delegato di Summit e profondo conoscitore degli asset intangibili aziendali -. Ma la sensazione mi dice che la situazione è, almeno in parte, migliorata. Soprattutto nelle migliori aziende, quelle che hanno deciso di introdurre un approccio culturale vincente e hanno adottato filosofie di leadership e di vision che coinvolgono i dipendenti». Nei giorni scorsi D'Egidio ha riunito a Milano - in un convegno internazionale organizzato insieme al gruppo Il Sole-24 Ore e all'iniziativa europea Prism - centinaia di esperti che per due giorni hanno discusso dell'importanza strategica degli asset intangibili nelle imprese. Il quadro che ne è emerso è evidente: le risorse umane sono una carta vincente in grado di aumentare la competitività e di accrescere il valore futuro delle aziende. «Le persone - spiega D'Egidio - non sono un costo, ma una grande ricchezza. Occorre però che condividano il progetto d'impresa e che trovino corrispondenza con la propria visione. Bisogna far rinascere l'orgoglio di appartenenza». Antonino Borgese, partner di The best place to work Italia, batte il chiodo sull'importanza che le risorse umane rivestono nella creazione di ricchezza per le imprese. Da diversi anni l'istituto redige negli Stati Uniti e in altri Paesi una classifica delle migliori aziende per le quali lavorare, con migliaia di questionari inviati ai dipendenti. L'indagine è sbarcata in Italia lo scorso anno e ha evidenziato come il 50% delle migliori 30 imprese sia di matrice straniera, soprattutto anglosassone o nordeuropea. Un dato insolito che Borgese spiega sulla base di due considerazioni. «Innanzitutto - afferma - è un problema di organizzazione. Gli italiani sono vincenti in creatività e imprenditorialità, ma nelle grandi imprese esistono vistose lacune organizzative che fanno sì che le pratiche di gestione delle risorse umane non siano integrate nelle strategie aziendali. E poi pesa anche la tradizione culturale, l'individualismo, il rapporto complesso con l'autorità. I Paesi di tradizione protestante, in questo, sono molto diversi, riescono a intrecciare un rapporto più diretto con i superiori e accettano di buon grado i rapporti gerarchici strutturati». Lamentarsi della propria condizione, insomma, continuerà forse a essere lo sport nazionale preferito dagli italiani, ma una soluzione per alleviare la situazione probabilmente esiste: rafforzare il peso della funzione risorse umane nelle aziende. «Negli Stati Uniti - si chiede Elisa Boccaletti - i direttori del personale fanno parte dei consigli di amministrazione. Perché non accade la stessa cosa anche in Italia?». Angelo Mincuzzi a.mincuzzi@ilsole24ore.com ________________________________________________________ Il Manifesto 2 Nov. ’02 IMPRESE PIRATA ALL'ARREMBAGGIO DELLA VITA Il copyright, i brevetti e i marchi aziendali sono strumenti indispensabili per garantire la crescita economica, anche se riguardano la biodiversità e il Genoma umano. Lo affermano gli apologeti della globalizzazione. Lo contesta la fisica e ambientalista indiana Vandana Shiva nel volume «Il mondo sotto brevetto» BENEDETTO VECCHI Alcuni anni fa una trasmissione televisiva italiana da prima serata ebbe un particolare successo mettendo sotto i riflettori inventori di marchingegni spesso futili. Ne usciva fuori un quadro di travet frustrati che la sera, in qualche scantinato, si gettavano con passione su circuiti stampati, tubi, bielle e cuscinetti a sfera per mettere a punto prototipi che avrebbero alleviato le fatiche del vivere di noi poveri mortali, incuranti della fatica delle loro compagne e mogli intente nel preparare la cena o a mandare avanti la carretta. Così l'Italia si scoprì essere, oltre che terra di poeti, santi e navigatori, anche nazione di inventori. La trasmissione faceva sua l'aura del solitario artigiano o dello scienziato autodidatta che dedica il proprio tempo libero alla produzione di quel manufatto a cui tutti avevano pensato, ma che tutti avevano ritenuto impossibile da realizzare. Insomma, un'idea romantica della ricerca scientifica e delle sue applicazioni tecnologiche. Senza scomodare nessun classico, per rendersi conto che la realtà è ben diversa basta leggere le pagine che la fisica e militante ambientalista Vandana Shiva ha scritto per denunciare le strategie delle multinazionali farmaceutiche o agro-alimentari (la distinzione tra i due settori è tanto labile da confermare il sospetto che in relatà siano la stessa cosa) nel mettere sotto brevetto la bio-diversità, cioè quei saperi antichi, usanze e costumi dei popoli indigeni che costituiscono la terra di conquista per imprese famose come la Monsanto o meno note come la W.R. Grace. Il volume si intitola Il mondo sotto brevetto (Feltrinelli, pp. 140, € 9) ed ha le caratteristiche del saggio propedeutico a un tema tanto sfuggente, quanto determinante nel comprendere l'attuale capitalismo. Si tratta della proprietà intellettuale e di una delle forme specifiche che assume, i brevetti. Vandana Shiva è nota per il suo impegno a fianco dei contadini indiani. Fisica di formazione ha anche conseguito una specializzazione in economia come recita il suo biglietto da visita, ma forse più importante è stato il suo ruolo all'interno di quella rete costituita da piccoli agricoltori e contadini che, in India, da tempo «resiste» alle strategie delle grosse corporation che hanno cercato, e cercano tutt'ora, di spossessarli della loro autonomia per renderli parte integrante di una rete produttiva da loro controllata ed eterodiretta. Un libro, quindi, che non dice niente di innovativo, né di teoricamente arguto. Più semplicemente, e quindi con indubbia efficacia, esamina un tema, quello della proprietà intellettuale, evidenziando il fatto che la scienza, la tecnologia e la legislazione in difesa della proprietà intellettuale sono fenomeni centrali nello sviluppo capitalistico, contribuendo a determinare le «geometrie dell'imperialismo». O, se si preferisce, i rapporti tra centro e periferia dell'economia mondiale, come ci ricorda la controversia legale tra lo Stato del Sudafrica e alcune multinazionali farmaceutiche dopo che Pretoria aveva deciso di ignorare i brevetti per produrre e vendere a prezzi «popolari» farmaci anti- Aids. Le teste d'uovo della globalizzazione difendono la proprietà intellettuale perché: a) garantisce la crescita economica; b) copyright e brevetti sono indispensabili perché il pagamento delle royalties consente gli investimenti nella ricerca; c) la legislazione a tutela della proprietà intellettuale rende infine possibile il trasferimento di tecnologia dal Nord al Sud del mondo. Tre argomenti supportati dalle stime fatte da alcuni organismi internazionali (dalla World intellectual property organization all'Onu) sulla quota di scambi commerciali (il 50 per cento nel 1994) che riguardano brevetti, marchi di fabbrica, copyright, design industriale, disegni di circuiti stampati, le forme cioè assunte dalla proprietà intellettuale nella legislazione internazionale e nell'attività produttiva. Per quanto riguarda la competizione economica, i brevetti hanno consentito ad alcune imprese di stabilire un monopolio in un dato settore, cedendo in un secondo momento, e dietro il pagamento di roylaties, la possibilità ad altri di sfruttare «l'invenzione». Per quanto riguarda la ricerca scientifica, il grido di allarme lanciato dall'ex-presidente Bil Clinton e da Tony Blair sulla necessità di rendere pubblici i risultati della ricerca scientifica sul Genoma umano pena la paralisi del progetto di ricerca, la dice lunga sul ruolo propulsivo dei diritti delle proprietà intellettuale negli investimenti in «Ricerca e sviluppo». In altri termini, il copyright e i brevetti imbrigliano l'innovazione tecnico-scientifica. Questo, in sintesi, è ciò che sostiene Vandana Shiva ne Il mondo sotto brevetto. Un libro dunque che fa il punto della situazione sul ruolo della proprietà intellettuale nello sviluppo capitalistico, ma che registra anche le novità, i punti di rottura, l'insorgenza politica della messa sotto brevetto della biodiversità. Per Vandana Shiva, il punto di svolta è la decisione della Corte Suprema degli Stati uniti di considerare il vivente alla stessa stregua di un'invezione. Era accaduto che i ricercatori della DuPont avevano trapiantato a un topo alcuni geni umani e di pollo in modo da causare il cancro. Il piccolo roditore è diventato famoso per il nomigliolo di oncotopo, ma quel che è rilevante è che il 12 aprile 1988 la massima istituzione giuridica statunitense abbia deciso che i risultati di quella ricerca fossero di competenza dello Us Patent Office, l'ufficio dei brevetti. La strada per la brevettabilità del vivente era stata dunque aperta. Per la fisica e militante ambientalista indiana, la vicenda dell'oncotopo, assieme alla controversia legale tra la General Electric e il Patent and Trademark Office americano sulla brevettabilità o meno di un batterio, sono da considerare non solo il punto di partenza della brevettabilità del vivente, ma anche della «biopirateria» delle grandi multinazionali nei confronti dei saperi, delle usanze della biodiversità che costituiscono la ricchezza di molti popoli indigeni nel sud del mondo. Ma affinché il mondo venga messo sotto brevetto c'è bisogno di una decisione politica che lo permetta. Decisione politica presa, ricorda Vandana Shiva, nell'Uruguay Round e nel vertice mondiale sullo sviluppo di Rio de Janeiro nel 1992 e ratificata da tutti gli organismi sovranazionali, dal Fondo monetario alla Banca mondiale al Wto. Il grimaldello per forzare le legislazioni nazionali al fine di uniformarle è rappresentato, tanto per cambiare, dai Trips (trade related aspect of intellectual property rights), cioè dagli accordi relativi ai diritti sulla proprietà intellettuale definiti dall'Organizzazione del commercio mondiale. E tuttavia, in un movimento sincopato tra il presente e il passato, l'autrice introduce degli intermezzi per spiegare come opera la brevettabilità del vivente. Per quanto riguarda l'agricoltura accade che le sementi siano brevettate e manipolate geneticamente in maniera tale che risultino sterili i frutti. I contadini sono quindi costretti a ricomprare le sementi dalle stesse multinazionali. Se poi vengono brevettati varietà di riso indiano o alcune piante con proprietà medicinali, siamo di fronte, secondo quanto scrive Vandana Shiva, a veri e propri atti di biopirateria. Ín altri termini, non si spossessano i piccoli agricoltori solo con i brevetti sulle sementi, ma anche appropriandosi del sapere e dell'esperienza tramandate nei secoli. Ed accade che dopo quel «furto» c'è chi propone la «bioprospezione», cioè il pagamento di un risarcimento una tantum sulla rapina perpetuata nei loro confronti. Il linguaggio di Vandana Shiva è a volte apodittico, ma questo nulla toglie al valore delle sue conclusioni politiche. Ad esempio, quando sostiene che la «bioprospezione, di fatto, porta alla 'recinzione' del patrimonio biologico e intellettuale collettivo, perché trasforma la biodiversità e il patrimonio intellettuale delle comunità indigene in merce protetta dai diritti di proprietà intellettuale» non trapela nessun atteggiamento antiscientifico, come spesso le viene addebbitato, ma semmai un invito agli scienziati a tutelare la biodiversità assieme agli «spossessati» (i popoli indigeni). Se una critica si può fare a Il mondo sotto brevetto riguarda il fatto che ciò che accade nel Sud non è molto diverso da ciò che accade nel Nord del mondo. Così è accaduto, senza necessariamente citare la realtà nota della produzione di software, che le università americane stanno mettendo sotto copyright corsi di apprendimento a distanza o che vogliano brevettare innovative procedure finanziarie. Oppure che il Wto inviti gli stati membri dell'organizzazione a privatizzare le istituzioni culturali e ad estendere il regime della proprietà intellettuale a quelle conoscenze che sono state considerate da sempre di pubblico dominio. In altri termini, la proprietà intellettuale è cosa troppo concreta per lasciarla nelle mani dei giuristi. Il copyright, i brevetti, i marchi aziendali sono infatti gli strumenti attraverso i quali sono definite le feroci gerarchie sociali dell'economia mondiale tanto al Nord che nel Sud del pianeta. Ed è quindi giusto che questa materia venga nuovamente presa nelle mani di chi è espropriato del suo sapere, sia che si tratti di un contadino indiano che di un programmatore della Silicon Valley, di uno studente bolognese che di un ricercatore del Massachusetts Institute of Technology a Boston. =========================================================== _______________________________________________________ L’Unione Sarda 31 ott. ’02 QUANDO IL DOTTORE SBAGLIA Si muore più per errore che per incidente Errare è umano, ma dall’errore si impara e si cresce. Ormai lo hanno capito anche i medici i cui errori purtroppo sono alla base di un’alta percentuale di decessi. Una presa di coscienza dura e responsabile che dimostra quanto la categoria sia capace e disposta a mettersi in discussione fuori dalla rigidità e dagli atteggiamenti di un esprit du corp, che troppe volte nel passato è stato alla base di una serie di procedure non proprio corrette. È infatti molto alta, in tutti i paesi del mondo occidentale, la percentuale di errore in medicina e il distretto sanitario di Nuoro non si discosta certo dalla media. I dati fotografano intorno al cinque per cento la percentuale di decessi dovuti all’errore: cifre che danno bene la dimensione del problema, ancora più gravoso se si pensa che per errore medico si muore, in proporzione ,più che per incidenti stradali o domestici. Di questi aspetti si discusso ampiamente ieri nell’aula conferenze “Donata Marchi” di via Gramsci, sede dell’ordine dei medici. Un appuntamento davvero partecipato, organizzato dall’associazione “Cittadinanza attiva” di Nuoro con l’ordine dei medici e il “tribunale dei diritti del malato”. Numerosi e interessanti gli interventi che si sono succeduti fino alla tarda mattinata. «La nostra azienda si sta preparando ad avviare un servizio di valutazione del rischio - ha spiegato il direttore dell’Asl n.3 Antonio Soru - che porterà la struttura ad uno standard di avanguardia». In provincia, ma non solo, i reparti maggiormente a rischio, e cioé dove è maggiore l’incidenza e la presenza di errori clinici sono i reparti di ginecologia, ortopedia, anestesia e rianimazione, oculistica e chirurgia. Durante l’incontro si è guardato a quello che succede a casa nostra, ma si esservato anche quanto di buono si fa in altre zone della Penisola. Per Francesca Rubboli, ricercatrice del centro studi sui rischi e errori in medicina del San Raffaele di Milano, una delle cause principali di errore è la cattiva comunicazione nello stesso ambito ospedaliero che produce gravissime conseguenze. «Troppo spesso quello che arriva è un messaggio sbagliato -spiega la ricercatrice - anche tra medico e infermiere per esempio, e il danno è presto fatto». In Italia infatti i ricorsi pendenti sono 12 mila ogni anno, ma se ciò serve a farci stare meglio in Spagna superano i cinquantamila. In pratica - è stato detto durante la discussione - durante una giornata di ricovero il paziente rischia di andare incontro almeno a quattro errori. Uno scenario, veramente poco incoraggiante, ma già il fatto che se ne parli, finalmente con insistenza, vuol dire che si sta prendendo consapevolezza del problema. In questo modo del grande “contenitore sanità”,si riesce a mettere in risalto meriti e limiti, dove questi ultimi diventano di importanza fondamentale per la salvaguardia della vita umana. «L’errore nella professione medica non è ammissibile- sentenzia l’avvocato Mario Lai. Se esiste vuol dire che c’è un soggetto non formato efficacemente e su questo punto è doveroso intervenire». Non stupisce di certo quindi che quando si tratta di ospedali e medici nascano subito sospetti e diffidenza. Ne ha parlato con lucidità e ironia il direttore del dipartimento Scienze umane all’ospedale Fatebenefratelli di Roma Sandro Spinsanti che ha condito il tutto con citazioni letterarie, recenti e passate sul pianeta sanità e su quel clima di sospetto verso il camice bianco, di cui ancora oggi esistono retaggi, anche se un innegabile progresso c’è stato. La difesa del cittadino deve rimanere comunque alta come ha ampiamente spiegato Stefano Inglese, il segretario nazionale del Tribunale del malato giunto per l’occasione da Roma. Luca Urgu _______________________________________________________ L’Unione Sarda 31 ott. ’02 BALDASSARRI: «GLI OPERAI? DIVENTINO INFERMIERI» Sindacati e associazioni ospedaliere contro il viceministro Baldassarri: «Parole inaccettabili» Esuberi alla Fiat, polemica sulla proposta del governo Roma Gli operai in esubero? Vadano a fare gli infermieri. La “ricetta” per la Fiat del sottosegretario all’economia Mario Baldassarri scatena una polemica e dimostra come per la crisi dell’azienda torinese le soluzioni siano ancora lontane. «Nel settore della sanità - ha osservato Baldassarri - rischiamo di dover importare extracomunitari. Niente da dire contro un buon infermiere rumeno o bulgaro, ma molto meglio riconvertire un lavoratore piemontese o pugliese che vive al Nord da trent’anni ed è già bene integrato. Naturalmente gli esuberi della Fiat non possono essere utilizzati per qualifiche elevate, ma come infermieri di base, con qualifiche medie e basse». Il viceministro dell’Economia ha aggiunto che, in questa prospettiva «bisogna pensare alla riconnversione con corsi seri, una sorta di master, della durata di un anno». «Diverse migliaia di lavoratori - ha sottolineato Baldassarri - possono così avere una nuova prospettiva di lavoro, e questo vale soprattutto per chi è ancora lontano dalla pensione». Le reazioni alla singolare proposta non si sono fatte attendere. «Da tute blu a camici bianchi? Sarebbe meglio che Baldassarri usasse meno la fantasia e si desse invece più da fare nel chiedere a Fiat di fare un piano vero per salvare il settore auto». Cosi il segretario confederale della Cgil, Carla Cantone, commenta la proposta del vice ministro. «Baldassarri deve spiegare - afferma Cantone - come pensa di trasformare, a partire da dicembre, gli operai della Fiat minacciati dalla cassa integrazione in infermieri. Invece di riconvertire l’operaio in infermiere, il Governo ci dica come pensa di riconvertire il settore auto alla produzione. Sarebbe molto più serio». «Una sciocchezza mostruosa»: salta sulla sedia la presidente dei collegi Ipasvi degli infermieri, Annalisa Silvestro, alla notizia delle parole di Baldassarri. «Forse il componente del governo non è a conoscenza - ha detto Silvestro - che per diventare infermieri servono tre anni di università. In Italia, come in tutta l’Unione Europea serve un percorso formativo che è pari a 4600 ore di corsi universitari. Se si parla così vuol dire che non si sa nulla sull’assistenza infermieristica alla persona. Sono slogan che offendono gli infermieri italiani, i lavoratori della Fiat e soprattutto i cittadini italiani». «Sono dispiaciuta e offesa per questa proposta - ha concluso - che ci lascia sconcertati per la superficialità perchè si ritiene che i cittadini con problemi di salute possano essere assistiti da persone che vengono costrette a riciclarsi in un percorso assistenziale che non può essere improvvisato». Baldassarri, dal canto suo, è intervenuto anche sul possibile intervento del governo nel capitale Fiat: «Se dobbiamo usare i soldi dei contribuenti, - ha detto - vorremmo prima vedere nel piatto quelli degli azionisti». Secondo il viceministro «è urgente affrontare la situazione Fiat», ma occorre che l’azienda capovolga l’impostazione del piano industriale. «Siamo di fronte a una seria crisi d’azienda - ha osservato Baldassarri - e non di settore. La situazione delle altre case automobilistiche, infatti, anche se non è fiorente è comunque diversa». Il viceministro dell’Economia ha spiegato che linee su cui il governo intende muoversi sono tre: la richiesta al Lingotto di «un piano industriale di rilancio della competitività di Fiat Auto, nel quale gli azionisti devono concentrare risorse anche perché questo lo rende più credibile», strumenti di politica industriale, ammortizzatori sociali. «Non si può escludere - ha affermato - che, nell’ambito di un piano di riorganizzazione, ci siano alla fine del percorso degli esuberi. Ma questi devono essere l’ultimo capitolo, non il primo». Baldassarri ha detto di non credere nell’utilità di un nuovo provvedimento a favore della rottamazione perché «serve solo a dare un impulso effimero ai consumi». _______________________________________________________ L’Unione Sarda 31 ott. ’02 LUNEDÌ PROSSIMO IL POLICLINICO SALE IN BUS In tre quarti d’ora collegherà il centro cittadino con l’insediamento di Monserrato Ecco i bus per la Cittadella universitaria Lunedì mattina entra in funzione la nuova linea 29 del Ctm Da lunedì prossimo il Policlinico e la Cittadella dell’Università, a Monserrato, saranno un po’ più vicini a Cagliari. Proprio tra quattro giorni sarà inaugurata la nuova linea di autobus del Ctm, la numero 29, che collegherà la città al grande insediamento universitario. Almeno nella fase iniziale, la linea non sarà in funzione la domenica. Negli altri sei giorni della settimana, nel periodo invernale, saranno in movimento tre autobus della lunghezza di 12 metri, che effettueranno 30 corse dal lunedì al venerdì e 20 il sabato. Dopo il primo periodo sperimentale, il Consorzio trasporti e mobilità farà tutti i correttivi che dovessero rendersi necessari. Il tempo di percorrenza dell’intera linea sarà di circa tre quarti d’ora, contro i circa 70 minuti che impiega la numero 8, l’unica che attualmente raggiunge il Policlinico e la Cittadella universitaria. Mentre la “8” parte dall’ospedale “San Giovanni di Dio” e percorre poi la via Is Maglias, prima di dirigersi verso l’insediamento dell’Ateneo a Monserrato, la “29” servirà soprattutto la zona di via Dante e di piazza Giovanni XXIII e utilizzerà le corsie preferenziali già a disposizione della linea 1. Il percorso di andata: il capolinea sarà in viale La Playa: i mezzi attraverseranno poi via Sant’Agostino, piazza Matteotti, via Roma, via XX Settembre, via Sonnino, via Paoli, via Dante, piazza Giovanni XXIII, via XXVIII Febbraio, via dei Donoratico, viale Ciusa, via dei Carroz, la 131 bis (Circonvallazione Pirri), la 554, la provinciale 8 (strada per Sestu), la Cittadella universitaria e farà capolinea al Policlinico. Il percorso di ritorno: dal Policlinico i mezzi attraverseranno la Cittadella, la provinciale 8, la 554, la 131 bis, via dei Valenzani, via dei Donoratico, via XXVIII Febbraio, piazza Giovanni XXIII, via Boiardo, via Pascoli, via Petrarca, via San Benedetto, via Dante, viale Cimitero, viale Bonaria, via Roma, piazza Matteotti, via Sassari, viale La Playa e vico primo La Playa, dove è stato fissato il capolinea. Il direttore Ezio Castagna: «Un servizio che mancava» «Per raggiungere la Cittadella e il Policlinico si impiegheranno venti minuti in meno». Così Ezio Castagna, direttore generale del Ctm, spiega perché è nata la nuova linea 29. Gli autobus procederanno a una velocità media piuttosto sostenuta: «Non solo utilizzeranno le corsie preferenziali della linea 1, ma dopo la zona di piazza Giovanni XXIII sono previste poche fermate», commenta il direttore. Allo studio c’è anche una modifica del percorso: «Sfruttando la nuova viabilità per via Vesalio, vorremmo far transitare i mezzi anche dalle parti della Cittadella finanziaria», conferma Castagna. Il Ctm ha chiesto alla Regione l’autorizzazione a modificare anche i tracciati delle linee 10 e 11: quest’ultima dovrebbe servire meglio il quartiere di Genneruxi. _______________________________________________________ Corriere della Sera 29 ott. ’02 POLICLINICO, TOMMASO LONGHI VINCE UNA CAUSA MILIARDARIA Il giudice del lavoro condanna l' università «La Sapienza», colpevole di aver licenziato nel 1995 il direttore generale dell' Umberto I, Tommaso Longhi. A pagare il risarcimento danni, però, sarebbe l' azienda Policlinico che ha liquidato il manager, tornato ad essere direttore generale dal marzo 2001, con una somma di 1 miliardo e 850 mila lire. A denunciare la vicenda è lo Snur-Cgil che chiede in una lettera chiarimenti al rettore della Sapienza, Giuseppe D' Ascenzo. Secondo il sindacato, a fi rmare l' atto di liquidazione nei confronti di Longhi sarebbero stati dei dirigenti dell' azienda stessa alla quale, però, «la legge vieta di pagare i debiti della cessata Azienda Policlinico, dichiarata fallita nel 1999». L' allora governo D' Alema aveva affidato per legge i vecchi conti dell' Umberto I a una gestione liquidatoria. Lo Snur-Cgil vuole sapere se «il pagamento sia stato autorizzato dal rettore, in quanto datore di lavoro di Longhi, o sia stata un' autonoma iniziativa di quest' ult imo». Sulla vicenda interviene Luigi Frati, preside della facoltà di Medicina: «Ho sentito parlare di un miliardo e 700 milioni... il rettore D' Ascenzo mi ha detto di essere sorpreso, ma che approfondirà questa storia al più presto. Mi sembra, però, strano che Longhi possa avere commesso un errore così marchiano». _______________________________________________________ Corriere della Sera 31 ott. ’02 IL LAZIO NON PIÙ CENERENTOLA DELLA RICERCA MEDICA Già al lavoro i primi 15 studiosi, ma l' obiettivo è di ospitarne 150 provenienti da prestigiose università. Sperimentazione sulla cellule staminali Di Frischia Francesco Le cellule staminali, la terapia genica e l' oncologia. Sono questi alcuni dei settori di ricerca che verranno approfonditi nella capitale dal Parco scientifico biomedico del San Raffaele - Fondazione Monte Tabor. I primi duemila metri quadrati di laboratori all' avanguardia sono stati inaugurati ieri sulla Pontina nella zona di Castel Romano, a 20 chilometri dalla capitale, dal presidente Berlusconi, dal sindaco Veltroni e dal gotha della scienza (a partire dal Nobel Carlo Rubbia) e dell' impre nditoria romana. Il legame tra medicina, ricerca e investimenti è tanto forte che il progetto, voluto da don Luigi Verzè, presidente del San Raffaele, è stato sposato dalla Camera di Commercio e dalla Banca di Roma (ora Capitalia) di Cesare Geronzi, nell' ambito del Polo tecnologico capitolino, diviso tra la Tiburtina e la Pontina. Questi enti hanno partecipato al finanziamento, che supera i sei milioni di euro, con quote azionarie paritarie (33 per cento), insieme all' ospedale milanese. Così è nata una joint venture pubblico-privato che, a pieno regime, ha l' obiettivo di fare lavorare 150 studiosi, provenienti dalle università e dai più rinomati centri di ricerca nazionali per combattere i tumori e le malattie neurologiche, l' Alzheimer, il Parkinson, la sclerosi multipla e le demenze usando le cellule staminali, la biologia cellulare, l' ingegneria tissutale, l' oncologia genetica e la chirurgia sperimentale. I primi 15 ricercatori hanno cominciato già da qualche giorno a analizzar e campioni e usare microscopi elettronici, coordinati da Giulio Cossu e Carlo Caruso, direttore scientifico e amministratore delegato del Parco scientifico. All' orizzonte c' è uno stretto legame tra ricerca di base e quella clinica, che grazie ad accordi con industrie e università, mira a coinvolgere nelle ricerche 132 reparti ospedalieri italiani. Inoltre nel Parco si svilupperanno nuovi materiali, senza dimenticare l' attività di didattica. Per Andrea Mondello, presidente della Camera di Commercio di Roma, il livello della ricerca nell' Urbe «è altissimo, pari ad un quinto del valore nazionale, ma per raffinare questo nostro enorme giacimento dobbiamo saper ascoltare le ragioni più alte del nostro impegno civico». A gennaio entrerà in funzione una moderna apparecchiatura, la Pet che nel Lazio non è ancora in nessun ospedale, ma che consente l' accurata localizzazione dei tumori». Felice per il centro ricerche, Don Verzè non nasconde la sua collera, bollando come un «sadico esproprio » la vendita del San Raffaele, l' ospedale all' Eur che nel ' 99 è passato dalla Fondazione Monte Tabor alla Tosinvest della famiglia Angelucci per 270 miliardi di lire, per essere poi definitivamente acquistato nel 2000 dal ministero della Salute e dalla Regione per 320. Il San Raffaele ci ha rimesso 50 miliardi. Don Verzè non è riuscito a avere un ospedale a Roma: gli è «rimasto» solo il Parco scientifico. Francesco Di Frischia _______________________________________________________ Repubblica 31 ott. ’02 RICERCA, A GENOVA UN CENTRO D’ECCELLENZA GENOVA Un centro di ricerca, di quelli "d’eccellenza", in grado di sviluppare studi nei campi più diversi: dalla biologia cellulare e molecolare alla genetica, dalla farmacologia alla biochimica, dalla immunologia alla endocrinologia ed alla neurologia. Con l’obiettivo di fondo di realizzare risultati che abbiano concrete ricadute sulla clinica, puntando, ad esempio, all’identificazione di nuovi meccanismi molecolari coinvolti in numerose patologie, nonché alla costruzione di strumenti biotecnologici per la prevenzione, diagnosi e terapia di molte malattie: leucemie mieloidi, rigetto iperacuto di trapianti, neoplasie e malattie autoimmuni. È stato inaugurato, nei giorni scorsi, al Dipartimento di Medicina Interna e Specialità Mediche dell’Università di Genova, il Cebr Centro di eccellenza per la ricerca biomedica primo centro di eccellenza scientifico in Liguria, uno degli 11 in Italia recentemente ammessi ad uno specifico finanziamento del ministero per l’Università e la Ricerca. All’inaugurazione era presente il Nobel Renato Dulbecco. Il Cebr, costituito per lo studio dei meccanismi molecolari di comunicazione tra cellule, è diretto dal professor Lorenzo Moretta. I responsabili delle 10 unità operative del Cebr sono i professori Antonio De Flora, Franco Indiveri, Edon Melloni, Martino Bolognesi, Franco Minuto, Gianluigi Mancardi, Roberto Ravazzolo, Maurizio Raiteri. _______________________________________________________ Repubblica 2 Nov. ’02 CARDIOCHIRURGIA, 40 ANNI VISSUTI PERICOLOSAMENTE Invidie e faide tra medici, morti sospette e inchieste giudiziarie: la storia di un reparto tormentato Cuori, bisturi e veleni OTTAVIA GIUSTETTI Negli anni Sessanta sembrava destinato a un futuro di grande successo il centro di cardiochirurgia delle Molinette, fondato da Achille Mario Dogliotti e poi affidato al genero Francesco Morino. Ma non dovettero trascorrere molti anni dalla sua nascita perché scoppiasse il primo scandalo: il caso dei morti «resuscitati» al centro cardiochirurgico «Blalock». Da allora è stato un continuo di morti sospette e faide tra medici. Fino a oggi, al nuovo presunto caso tangenti. Un nome che ricorre spesso in molti degli scandali scoppiati nella clinica cardiochirurgica è quello di Giuseppe Poletti, già assistente ai tempi del Blalock e ora professore associato. Scandalo al Blalock dei morti resuscitati. Era la fine del 1977 quando un cronista di Stampa sera, Cosimo Mancini, raccoglieva la voce di un medico interno alla clinica chirurgica che sosteneva che nella divisione si moriva troppo. Mancini chiese i dati precisi al San Giovanni: gli risposero che, al contrario, la mortalità era scesa dal 17 per cento del 1972 al 12,5 per cento del 1976. Il giornalista presentò un esposto alla magistratura e il pm Livio Pepino, dopo aver scoperto che sei persone decedute risultavano vive, arrestò il medico Antonio Calafiore (che uscì poi dall'inchiesta per prescrizione). Il 5 dicembre 1977, in seguito al primo articolo in cui Mancini denunciava lo scandalo, i medici della clinica scrissero una lettera aperta: «Il cronista autore dell'articolo scandalistico, ispirato da "un addetto ai lavori", si è involontariamente prestato a chi ha posto in atto ben precise manovre ricattatorie effettuate a titolo personale e carrieristico, delle quali gran parte di noi siamo a conoscenza». Al giudice istruttore Palaja, sia Morino che altri clinici indicheranno Poletti come l'«addetto ai lavori» in questione, deluso di non aver ottenuto la promozione di aiuto, chiesta personalmente a Morino qualche mese prima. Il caso di Maggiorino Reita. Il 27 febbraio 1991 Poletti opera Maggiorino Reita, affetto da dissecazione aortica del terzo tipo, che dopo qualche giorno muore. Il direttore del dipartimento cardiochirurgico, Mario Morea, dà il via a un'azione giudiziaria contro Poletti il quale a sua volta querela per diffamazione il suo superiore, ma entrambi i procedimenti si concludono con l'archiviazione. La disputa tra Morea e Poletti. Nel dicembre 1991 Mario Morea comunica ai vertici dell'ospedale, dell'università e all'ufficio legale dell'ospedale la sua intenzione di destituire Poletti dall'incarico di aiuto reperibile perché, scrive, «durante il suo turno, quando chiamato a prendere decisioni terapeutiche urgenti, per risolverle, richiede sempre il mio intervento». Poletti replica chiedendo di non operare più se non nei casi in cui è espressamente richiesto dai pazienti il suo intervento; Morea chiede l'intervento del rettore e alla fine l'aiuto cardiochirurgo è obbligato a riprendere regolare servizio. Le microbolle. Poletti, durante un intervento, si occupa di tutta la fase preparatoria collegando le cavità cardiache all'apparecchio di ossigenazione extra corporea. Morea racconta: «Quando sono arrivato in sala operatoria per iniziare l'intervento il professor Eros Leotta, che fino a quel momento aveva aiutato Poletti, mi ha avvertito della presenza, nella linea arteriosa a me non visibile, in quanto coperta da un telino, di alcune bolle d'aria che ho eliminato immediatamente. Dopo l'intervento il decorso è stato regolare». Ma Leotta accusa il professore Poletti di aver «deliberatamente lasciato nel circuito le microbolle e di non averle eliminate nemmeno sotto suo esplicito invito. Anzi, di averle nascoste a Morea che, conduceva l'intervento, coprendo con un telo la linea arteriosa». Anche questa volta il pm Gabetta chiede l'archiviazione del caso in mancanza di riscontri sufficienti sulla colpevolezza di Poletti. Febbraio '94, ancora un'esclusione. Morea comunica alle Molinette di aver escluso Poletti dalla lista operatoria in seguito alla vicenda delle bollicine. Gennaio '95, interviene il Senato Accademico. La commissione d'inchiesta accademica conclude: «Le denunce, il clima sospetto, i contrasti che vedono Poletti contrapposto al direttore Morea e agli aiuti Di Summa, Casabona e Villani, rendono estremamente pesante l'ambiente di lavoro con possibili ripercussioni negative rispetto all'attività medica e assistenziale». Poletti appende nei corridoi del dipartimento documenti relativi alla richiesta di rinvio a giudizio di Morea, da lui denunciato per diffamazione. Luglio '95, la sospensione disciplinare. Il rettore dell'Università sospende per un mese Poletti dall'ufficio e dallo stipendio. Il chirurgo si difende: «Alla luce dei fatti emerge che fino al 1990 ho lavorato con apprezzamenti positivi da parte del direttore; dopo aver ottenuto la possibilità di operare autonomamente in locali propri è stata avviata nei miei confronti una persecuzione culminata nella mia esclusione da qualsiasi incarico». Il caso di Francesco Papa. Nel novembre '97 si conclude il processo per la morte di un ragazzo per un presunto ritardo operatorio: condannati in primo grado a un anno, Poletti e Morea ottengono in appello il primo l'assoluzione, il secondo la prescrizione. Mario Morea va in pensione. Nello stesso mese Morea si ritira. La supervisione del dipartimento di cardiochirurgia viene affidata dal Senato accademico a Michele Di Summa. Poletti denuncia il rettore e il preside della facoltà, ma perde la causa e rimane associato e vice di Di Summa. _______________________________________________________ Repubblica 31 ott. ’02 CAMPANIA:E PER LA DIAGNOSI IL NEO VA "ON LINE" Campania, 30 ospedali in rete prevengono meglio i tumori della pelle DI CLAUDIA CAPUTI Napoli Ci sono circa trenta ospedali in Campania in collegamento online per il controllo, la diagnosi e la cura di casi dermatologici: dalla psoriasi, all’acne, dalle dermatiti ai melanomi. E’ un’iniziativa sperimentale del dipartimento di Clinica Dermatologica dell’Università Federico II di Napoli che sta però diventando uno dei più validi strumenti di condivisione di informazioni cliniche a distanza e scambio di archivi per il teleconsulto, utile soprattutto per le strutture sanitarie prive di specialità come l’oncologia medica, l’anatomia patologica, la chirurgia plastica. Il progetto, denominato JHospital (dove J sta per Java, il sistema che consente trasferire i dati su rete digitale), evita il trasferimento di pazienti, le liste di attesa, perdite di tempo per ottenere risposte certe in merito a casi difficili o rari. Tutti i centri collegati possono quindi accedere in tempo reale a una casistica più ricca, effettuare aggiornamenti e consultazioni online tra i diversi dipartimenti qualora il caso in esame coinvolga più specialità. L’esperienza è stata presentata a Napoli nei giorni scorsi durante le giornate dedicate alla dermatologia nell’ambito della Biennale del Mare. «Il successo della fase sperimentale ci spinge a cercare collegamenti anche nel Mediterraneo», spiega Gabriella Fabbrocini, coordinatrice del progetto del Gruppo operativo melanoma della Clinica dermatologica dell’università Federico II di Napoli. «Significativa è l’adesione e i collegamenti che saranno avviati con l’Egitto e la Tunisia». Mettendo a disposizione gli archivi dei casi trattati, sarà possibile uno scambio di esperienze mediche, un confronto su diagnosi e terapie e organizzare teleformazione e aggiornamento. Il Gruppo, che riunisce i dipartimenti di clinica dermatologica, chirurgia plastica, anatomia patologica e oncologia medica, fino ad oggi ha archiviato 295 casi tra melanomi, basaliomi ed epiteliomi spinocellulari con tutti i dati relativi. «Col JHospital si evita la dispersione dei casi, si favorisce la diagnosi precoce della malattia e la cura quando vi sia una scarsa conoscenza diretta per scarsità di casistiche», dice Pietro Santoianni, direttore della clinica dermatologica. «Mancando una legislazione in materia è necessario stabilire regole precise affinché i pazienti possano essere assistiti nel modo migliore». «Se è vero che il sistema presenta notevoli vantaggi in termini di maggiore precisione scientifica ed evita la mobilità del paziente anziano o disabile», precisa Santoianni, «è altrettanto vero che mancando il rapporto diretto con il medico si rischia una valutazione superficiale. La teledermatologia è un progetto sperimentale e determinante rimane la professionalità degli operatori». _______________________________________________________ Repubblica 31 ott. ’02 TAC PIÙ RAPIDA E "BELLA" Immagini come una foto dell’interno del corpo Ma il primo problema da risolvere è il rinnovo del parco macchine radiologico, vecchio ed obsoleto DI JOHANN ROSSI Dall’invenzione dei raggi X alla Tac il passo è stato relativamente breve e la tecnologia diagnostica sembra correre sempre più veloce verso un rassicurante progresso. Oggi la Tac ha fatto un nuovo, straordinario passo avanti ed ha assunto la caratteristica cosiddetta "multistrato", per fornire immagini estremamente precise anche di organi poco esplorabili come ad esempio il cuore. Un nuovo programma, chiamato Insideview3D è disponibile anche in Italia, introdotto da Giovanni Ussia, specialista in chirurgia generale e toracica e ricercatore all’Università di Bologna che ne ha spiegato le peculiarità: "Insideview3D" è un programma clinico diagnostico di prevenzione molto sofisticato che presenta diversi vantaggi, e fornisce immagini tridimensionali di grande realismo e comprensione in tempi brevissimi. Le immagini elaborate non migliorano le capacità diagnostiche, spiegano i radiologi, ma sono sicuramente di grande effetto per i pazienti. Il nuovo software ha comunque dalla sua parte una maggiore velocità di esecuzione dell’esame che limita i disagi per i pazienti che talora possono soffrire la sensazione di mancanza d’aria: una zona come il torace può essere esaminata in 20 secondi, l’esame completo del corpo in modalità "total body" si completa in meno di 5 minuti. Ma il vero fattore strategico è la capacità del programma di elaborare i dati forniti dal radiologo alla luce di una accurata valutazione clinica dei fattori di rischio del soggetto in modo di aiutare efficacemente il medico a scoprire le malattie in fase precoce e insospettata o addirittura a prevenirle. Confermata l’efficacia del sistema nella valutazione del rischio di infarto, nella diagnosi precoce dei tumori e anche nel diagnosticare malattie della schiena o valutare la densità delle ossa come fattore di rischio per l’osteoporosi. Utile il "colonscreen" che altro non è che una colonscopia virtuale e viene eseguito senza introdurre alcun strumento nell’intestino e può riconoscere neoformazioni del colon anche di 6 8 mm. Elevato è anche il grado di attendibilità del risultato, che si aggira tra 80 per cento e il 94 per cento. Margine di errore estremamente ridotto dato che nessuna tecnica diagnostica è attendibile al 100 per cento. Ancora più utile, per la salute dei cittadini, sarebbe l’aggiornamento del parco macchine della diagnostica per immagini nel suo complesso. Tac, Nmr, mammografi, ecografi sono, secondo un recente censimento del ministero della Salute, vecchi ed obsoleti in 7 casi su 10. _______________________________________________________ La Nuova Sardegna 31 ott. ’02 LA DURA BATTAGLIA CONTRO L'INFARTO In aumento le malattie cardiovascolari, come difendersi CARDIOLOGI «L'epidemia dei nostri tempi» f.s. SASSARI. L'Organizzazione mondiale della sanità ha definito le malattie cardiovascolari la nuova «epidemia del terzo millennio», lanciando un allarme e un pressante invito alla prevenzione. Sabato scorso, nell'hotel Catalunya di Alghero, si è svolto il convegno «Prevenire la malattia coronarica: la sfida», al quale hanno partecipato oltre 100 persone tra cardiologi, internisti e medici di medicina generale. La manifestazione è stata organizzata da Giuseppe Realdi, direttore della clinica medica dell'università di Sassari, e da Antonello Ganadu, responsabile della cardiologia dell'università e presidente della sezione regionale della Società Italiana di Cardiologia. Nella sua relazione dedicata all'epidemiologia, il professor Antonello Ganadu ha riportato le allarmate previsioni dell'Oms in base alle quali le malattie cardiovascolari sono destinate a crescere rapidamente, sino a diventare entro il 2020 la prima causa mondiale di invalidità e di morte. Nei paesi industrializzati le malattie cardiovascolari sono già da tempo al primo posto, con il 46 per cento di tutti i decessi, e sono responsabili di 12 milioni di morti. Nel continente europeo i paesi più colpiti sono quelli dell'est e del nord, mentre i tassi di malattia coronarica più bassi si osservano nei paesi mediterranei, tra i quali l'Italia. Nonostante questi dati generali, nel belpaese le malattie cardiovascolari causano il 43,5 per cento dei decessi. Ogni anno vengono effettuati circa 130mila ricoveri per infarto del miocardio, la malattia cardiaca più frequente e grave, insieme allo scompenso cardiaco, all'ictus e all'angina pectoris. Il problema maggiore arriva dai paesi in via di sviluppo, nonostante la mortalità cardiovascolare sia inferiore rispetto ai paesi industrializzati, il suo tasso di crescita è impressionante - dal 16 per cento al 24 per cento nell'arco di un solo decennio - e il numero dei decessi è arrivato a circa 40 milioni all'anno. Malgrado le terapie per le malattie cardiovascolari divengano sempre più sofisticate ed efficaci, la mortalità è ancora elevata. Le cure sono costose e incidono in modo consistente sui bilanci dei sistemi sanitari. Per ridurre i pesanti costi umani, sociali ed economici di queste malattie è inevitabile potenziare le misure preventive. Questo convegno si inserisce nella serie di iniziative sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari che la Società Italiana di Cardiologia ha promosso in campo nazionale e che la Cardiologia della clinica medica di Sassari ha realizzato in città. Tra le iniziative vanno ricordate la «Giornata mondiale del cuore», il concorso «Amico del cuore» e la «Cardiologia tra i banchi di scuola». _______________________________________________________ Corriere della Sera 29 ott. ’02 PREVENZIONE CARDIOVASCOLARE CON DUE BICCHIERI DI VINO ROSSO Di Frischia Francesco Il vino rosso batte quello bianco nella prevenzione cardiovascolare: due bicchieri di nettare rosso al giorno riducono del 20 per cento il rischio di infarto. Sono i risultati di uno studio, condotto su 20 soggetti sani dai ricercatori guidati da Francesco Violi, primario di Medicina Interna del Policlinico Umberto I - Università «La Sapienza». La novità è legata al fatto che l' equipe di Violi ha scoperto, per la prima volta, il meccanismo attraverso il quale alcune sostanze contenute nell' uva (chiamate «polifenoli» o «flavonoidi»), attraverso un' azione sinergica, riescono a rimuovere il colesterolo (grasso) nelle arterie e riuscire così prevenire del 20 % l' infarto, l' ictus cerebrale e le altre malattie cardiovascolari. Quindi il vino rosso ha un' azione più che doppia, rispetto al bianco, nel contribuire a prevenire le malattie cardiovascolari. Nello studio sono state anche individuate, tra i polifenoli, le sostanze responsabili di questo fenomeno. «Abbiamo preso in esame due gr uppi di dieci soggetti sani ciascuno - spiega Violi - Al primo gruppo sono stati somministrati per 15 giorni due bicchieri di vino rosso al giorno, durante i pasti principali. Al secondo la stessa quantità di vino bianco». Confrontando le analisi prima e dopo la ricerca, gli studiosi hanno trovato nel sangue di chi aveva bevuto vino rosso una quantità di «polifenoli» superiore, a seconda dei casi, del 50-100 % rispetto a quella riscontrata nel sangue di chi aveva bevuto il bianco. «Bere una quantità di vino superiore ai 2 bicchieri al giorno - conclude Violi - è inutile e dannoso, perchè non si aumentano le sostanze antiossidanti nel sangue». F. D. F. _______________________________________________________ Repubblica 31 ott. ’02 L’"ARPIONE" SUI GLOBULI BIANCHI CHE AGGANCIA E DISTRUGGE L’HIV La proteina individuata alla "Federico II" di Napoli DI GIUSEPPE DEL BELLO Napoli Un’altra tappa nella lotta contro l’Aids. Il professor Gianni Marone, direttore di Immunologia Clinica nell’università Federico II ha identificato insieme ai collaboratori Amato de Paulis, Nella Prevete, Isabella Fiorentino, Massimo Triggiani e Arturo Genevose un nuovo recettore per il virus dell’Hiv. Si chiama FPRL1 (Formil Peptide Receptor Like 1): scoperto sulla superficie dei basofili e dei mastociti umani, viene a contatto con la molecola gp41 del virus senza la mediazione di CD4 e dei corecettori per le chemochine. «Il nuovo recettore», sottolinea Marone, «viene agganciato come un arpione dalla GP41 del virus». La scoperta, riportata sull’ultimo numero di Journal of Immunology, l’organo dell’Accademia americana di immunologia, servirà per bloccare questa nuova via di infezione da parte del virus. Finora si riteneva che l’HIV potesse aggredire solo linfociti e macrofagi. «Infatti quando si parlava di interazione tra cellule immunitarie e virus dell’Aids», chiarisce l’immunologo, «ci si riferiva sempre ad un processo mediato da una glicoproteina, la GP120 (presente nel virus, ndr) con recettori presenti sui linfociti e macrofagi identificati con la molecola CD4. Soltanto dopo questo primo incontro, entra in funzione la GP41 che consente la penetrazione del virus dell’Aids nella cellula». I riflessi positivi della scoperta riguardano anche altro. Per esempio che il recettore individuato da Marone è stato definito promiscuo perché agisce non solo in presenza di batteri, ma anche di virus, e questo potrebbe tradursi nella possibilità di trovare altre armi farmacologiche. Come pure è fondamentale che il team di ricerca abbia individuato due siti della molecola GP41 che, interagendo con il nuovo recettore, riescono a bloccare con peptidi sintetici l’attivazione delle cellule interessate. ________________________________________________________ Il Messaggero 1 Nov. ’02 IL PIACERE DELL’ARTE? E’ CHIUSO NEL CERVELLO Scienza/Si moltiplicano in Italia e in America gli studi di neuroestetica di FABRIZIO MICHETTI ERA il 13 settembre del 1848 quando Phineas Gage, operaio delle ferrovie del Vermont, commise un errore che avrebbe lasciato traccia nella conoscenza del cervello. Il bastone di ferro con cui aveva pigiato la polvere esplosiva in un foro della roccia destinata a saltare produsse accidentalmente una scintilla. Questa accese la polvere e il bastone divenne un proiettile, che attraversò la testa di Gage andando poi a terra a distanza di metri. Nonostante la gravità dell'incidente, Phineas Gage si riprese completamente. Ma non era più lo stesso Phineas, gentile e efficiente nel lavoro, che ricordavano gli amici. Era diventato irrequieto, volubile, violento. «L'equilibrio tra le sue facoltà intellettive e le sue tendenze bestiali sembrava distrutto», scriveva il suo medico curante. Oggi il suo cranio è esposto nel museo Warren della Harvard Medical School, insieme con il bastone che lo ha attraversato, a ricordo di quell'involontario esperimento in vivo che chiaramente collegava una regione del cervello ad un comportamento umano. Oggi metodiche anche di uso clinico, come la tomografia ad emissione di positroni (Pet), sono in grado di fornire immagini del cervello che momento per momento evidenziano le regioni cerebrali in attività, svelando le loro funzioni. L'una dopo l'altra, le attività quotidiane della nostra vita, le nostre emozioni, vengono tradotte nel linguaggio delle nostre cellule nervose, magari suscitando qualche disagio. Dopo l'amore romantico e le esperienze mistiche, è ormai la volta dell'estetica. Recentemente, a chiusura del convegno “Il cervello umano", organizzato a Roma dalla Fondazione Santa Lucia, Semir Zeki, neurobiologo all'University College di Londra, ha tenuto una relazione dal titolo “Astrazione e formazione dei concetti nell'arte e nel cervello", presentando i fondamenti di quella che ha chiamato “neuroestetica". Allo studio di questa disciplina è stato dedicato un Istituto di Neuroestetica, incardinato nell'Università londinese e già promotore di un convegno sul tema: “Il piacere dell'arte come viene percepito dal cervello", svolto qualche mese fa a Berkeley, in California. La base di partenza è in fondo ovvia: è indubitabile che un'opera d'arte sia concepita ed apprezzata grazie ad operazioni svolte nel cervello dell'uomo. Di qui, si argomenta che l'arte necessariamente è soggetta alle leggi che regolano le attività cerebrali, e che il modo per svelare come un'opera d'arte suscita esperienze estetiche consiste essenzialmente nella conoscenza di queste leggi e delle strutture nervose coinvolte. Zeki, che è uno studioso noto per le sue ricerche sulle regioni cerebrali deputate alla visione, parte dalle arti visive. Piet Mondrian ha impostato i suoi quadri sull'uso della linea retta, e con lui altri pittori come Kazimir Malevitch o Barnett Newman. Zeki correla l'impatto estetico delle loro opere alla presenza in alcune regioni cerebrali visive di cellule che rispondono selettivamente alle immagini di linee rette, i mattoni elementari nella percezione delle forme. Analogamente, esemplifica ancora Zeki, l'arte dei fauvisti, che usavano colorare gli oggetti in maniera diversa da quel che vediamo nel mondo reale, potrebbe essere messa in relazione con aree cerebrali, recentemente identificate, dove viene riconosciuta l'appropriatezza dei colori rispetto agli oggetti. Inconsapevolmente, i grandi artisti esprimerebbero nelle loro opere le leggi del cervello, e fra queste la capacità di produrre concetti astratti. Ed è di questi giorni il convegno “Le neuroscienze e la musica", organizzato dalla Fondazione Mariani a Venezia, dove neurobiologi e musicisti cercano un ponte tra i processi cerebrali e quelli propri del concepimento musicale. Su temi così inafferrabili, è ancora difficile distinguere ipotesi di lavoro da certezze dimostrate. Ma il confine che da sempre separa le arti dalle scienze potrebbe rischiare di sgretolarsi dentro il nostro cervello. ________________________________________________________ La Stampa 30 Ott. ’02 MEDICINA GINECOLOGIA DELLA TERZA ETA´ MENOPAUSA, IL PUNTO OCCORRE ANCHE IMPEDIRE CHE INSORGANO TUMORI, CARDIOPATIE E OSTEOPOROSI A che punto siamo con le terapie ormonali sostitutive (Tos) per la menopausa? Le Tos sono impiegate da più di quarant´anni. Sin dall'inizio esse hanno avuto due obiettivi. L'uno, prevalente e più ampiamente accettato, è quello di limitare le conseguenze soggettive della carenza estrogenica (vampate, perdita del senso di benessere) quando queste siano spiccate (20% delle donne). Il secondo, ripetutamente proposto soprattutto negli Usa, è più ambizioso: ritardare l'invecchiamento, contrastando quei processi che possono essere accelerati dalla carenza di estrogeni, tra cui, in particolare, la riduzione del tessuto osseo. Questo secondo obiettivo, che potremmo definire "di prevenzione", è stato riproposto con particolare enfasi nella prima metà degli Anni 90, quando le istituzioni dei cardiologi USA, basandosi su numerosi dati scientifici, avevano indicato nella TOS la prima linea per la prevenzione dell'infarto. Protrarre la Tos anche in età avanzata ha causato alcuni problemi. Per evitare flussi similmestruali, i medici statunitensi dapprima hanno impiegato i soli estrogeni anche nelle donne non isterectomizzate, causando l'aumento del tumore della mucosa endouterina rilevato nella seconda metà degli anni settanta; solo in un secondo tempo hanno puntato sull'aggiunta continuativa del progestinico. Inoltre, l'obiettivo di mantenere tassi estrogenici simili a quelli giovanili ha portato a dosaggi probabilmente eccessivi per donne d'età avanzata. Ciò si è verificato nei grandi studi pubblicati di recente, in cui la Tos veniva effettuata in donne dai 50 agli 80 anni. L'esito di tali studi - mentre ha confermato una riduzione delle fratture su base osteoporotica ed anche del tumore del colon - ha ridimensionato le aspettative dei cardiologi Usa. Infatti, l'incidenza non solo del tumore del seno ma anche della patologia vascolare ha presentato un aumento, sia pur molto piccolo in numeri assoluti. È possibile che dosi relativamente alte di estrogeni per via orale rendano instabile l'equilibrio della coagulazione e della pressione arteriosa tramite alcune delle azioni mediate dal fegato. Tuttavia, altre tra queste azioni potrebbero attenuare il rischio di tumore mammario che, probabilmente per questo, è risultato molto piccolo e rilevabile solo dopo 10-12 anni d'impiego degli estrogeni orali da soli (senza l'aggiunta del progestinico androgenico utilizzato negli Usa). Gli estrogeni non orali (cerotti etc.) non agendo sul fegato potrebbero teoricamente essere di maggior vantaggio per l'apparato vascolare ma di svantaggio per il seno. Una "quadratura" potrebbe venire dalla conferma dei risultati preliminari del gruppo di Veronesi, che suggeriscono il massimo dei benefici e il minimo dei rischi quando si aggiungano al "cerotto" basse dosi di tamoxifene, un farmaco che contrasta i tumori del seno. Sulla Tos "preventiva" di lunga durata vi sono quindi incertezze e anche piccole apprensioni. Queste, in attesa di ulteriori dati, sono tali da sconsigliare il trattamento quando non vi siano specifiche motivazioni, ma non tali da negarlo a soggetti che presentino ben precise indicazioni. Esse sono: una menopausa precoce (per la quale una Tos di lunga durata comporta indubbi benefici senza determinare rischi superiori a quelli delle coetanee ancora mestruate), una netta osteopenia diagnosticata in età immediatamente postmenopausale, e, soprattutto, la presenza di forti disturbi (vampate etc.) non gestibili con mezzi più semplici (come i fitoterapici). Infatti, una Tos per alcuni anni dopo la menopausa - quando siano assenti controindicazioni e con una scelta ponderata dei farmaci, delle dosi e degli schemi terapeutici - può essere fatta con serenità in quanto non comporta significativi rischi, nemmeno di tipo tumorale. D'altro canto non sono da attendersi grandi benefici d'ordine generale, se non (spesso) una sensazione di maggior benessere. [TSCOPY](*)Presidente Società Italiana Ginecologia della Terza Età Carlo Campagnoli (*)