ARRIVANO I SOLDI E RIENTRA LA PROTESTA DEI RETTORI TOSI: UNIVERSITÀ, I FONDI DELLO STATO E LE SPESE SANTAMBROGIO: IL FUTURO DELL´UNIVERSITÀ ITALIANA ALLA LUCE DELLA RIFORMA UNIVERSITA': MANCA LA CONCORRENZA L´UNIVERSITÀ DEGLI STAGNI: IL COLLASSO DIDATTICO SE CHIUDESSIMO LE UNIVERSITÀ? ITALIA SOTTO LA MEDIA UE NEI FONDI PER LA RICERCA SIRCHIA: «I NUOVI BARONI BLOCCANO LA RICERCA NEGLI ATENEI» RETTORI CONTRO SIRCHIA: FACCIA I NOMI DEI BARONI SIRCHIA «L’UNIVERSITÀ CAMBI STRADA» PESCHIE: I BARONI CI SONO ANCHE IN AMERICA VENUTA:L’UNIVERSITÀ HA BISOGNO DI UN PROGETTO SIRCHIA E LA POLEMICA SUL NEPOTISMO SIRCHIA: DIALOGO CON I MEDICI, MA BASTA PRIVILEGI =========================================================== SENZA I 20 MILIONI DELLA REGIONE IL POLICLINICO RISCHIA LA CHIUSURA RISCHIA LA CHIUSURA IL POLICLINICO UNIVERSITARIO ALLARME POLICLINICO:RISCHIO CHIUSURA, I TIMORI DELLA COMMISSIONE SANITA BROTZU: L’UNIVERSITÀ È DA POTENZIARE NON DA COMBATTERE COSA SUCCEDE NEGLI OSPEDALI CGIL: BISOGNA POTENZIARE I PICCOLI OSPEDALI NON BROTZU E ASL 8 TALASSEMIA: PER IL CENTRO SIRCHIA BOCCIA LE MARCHE IL PRESIDENTE ADMS «AI DIABETICI SARDI CURE VECCHIE» I QUARANTENNI OBESI VIVONO SETTE ANNI DI MENO L' ADATTAMENTO DEL CORPO AL FREDDO DIPENDE DAL NOSTRO DNA DA CELLULE STAMINALI A RENI LA VITA SI ALLUNGA: 3 MESI IN PIÙ OGNI ANNO UN FARMACO ANTI ICTUS DAI PIPISTRELLI VAMPIRI =========================================================== ____________________________________________________________________ La Stampa 9 gen. ’03 ARRIVANO I SOLDI E RIENTRA LA PROTESTA DEI RETTORI IN 77 UNIVERSITA´ SIGLATA LA TREGUA CON IL GOVERNO: «SIAMO SODDISFATTI». TREMONTI HA RECUPERATO 200 MILIONI DI EURO ROMA I rettori delle 77 università italiane - che si erano dimessi nei primi giorni di dicembre per protestare contro i tagli che la Finanziaria introduceva nei bilanci dei loro Atenei - ieri hanno siglato la pace con il governo e sono tornati ad esercitare pienamente il loro incarico. Il ministro dell´Economia Tremonti, infatti, era riuscito a recuperare una cifra di circa 200 milioni di euro che era stata in un primo tempo sottratta alle università e che i rettori ritenevano invece indispensabile per far fronte al «funzionamento ordinario». Quei soldi, pur in cifra non ingente, spiegò allora il presidente della Conferenza dei rettori, Piero Tosi, erano indispensabili per assicurare il normale svolgimento della vita universitaria nelle sue incombenze più semplici (bollette telefoniche, spese di pulizia e simili), e poiché la «polpa» era stata sottratta via via negli ultimi anni, ora gli atenei erano all´«osso» e anche un «taglietto» da 200 milioni non sarebbe stato ulteriormente sopportabile. Da qui l´inedita decisione di dimettersi in massa, fin tanto che la somma non fosse stata ripristinata. Ci fu allora un forte pressing del ministro Moratti all´interno del Consiglio dei ministri, per riuscire a soddisfare l´istanza dei rettori. Quando, il 23 dicembre, la finanziaria passò con la cifra in questione regolarmente prevista, si capì che la protesta dei rettori sarebbe rientrata. Solo ieri però l´assemblea della Crui (la conferenza dei rettori delle università italiane) ha ratificato la ritrovata pace, sia pur mantenendo delle riserve sul finanziamento generale dell´università. «L'assemblea - dice infatti una nota della Crui - ha preso atto dell´attenzione che governo e parlamento hanno rivolto all'Università e alla Ricerca», anche se, precisano i Rettori, il «segnale positivo relativo al Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) «non risolve la situazione di grave emergenza finanziaria delle Università, causata in larga misura dal trasferimento automatico sui bilanci degli incrementi stipendiali del personale». La Crui segnala inoltre con «rammarico» la «diminuzione di 100 milioni di euro per l'edilizia nel 2003 e l'introduzione di norme lesive dell'autonomia universitaria». Il clima tra governo e università si è comunque molto rasserenato, tant´è che i rettori «hanno preso atto con soddisfazione» del fatto che il governo, «accogliendo un ordine del giorno presentato in Senato, si è formalmente impegnato a rivedere il vigente meccanismo e apprezzano positivamente l'impegno del ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca, Letizia Moratti, a richiedere l'istituzione presso la Presidenza del Consiglio di un tavolo per la definitiva soluzione del problema, al quale parteciperà la Crui». «La Conferenza dei Rettori - dice ancora la nota - nel confermare la propria disponibilità a collaborare con il governo per raggiungere tale obiettivo, seguirà con estrema attenzione l'evoluzione del processo di revisione, affinché possa concludersi nei prossimi mesi con effetto a decorrenza immediata e, comunque, prima che siano definiti nuovi aumenti stipendiali che le Università non sarebbero altrimenti in grado di sostenere». «La tregua raggiunta tra noi e il governo - ha commentato il rettore della terza Università di Roma, Guido Fabiani - potrà essere una occasione, per aprire un serio confronto sull'Università nel suo insieme. Siamo consapevoli, infatti, che le questioni in atto sono anche altre, come il ruolo dell'Università nella società italiana, il fenomeno della fuga dei cervelli, la questione della ricerca e la revisione dei meccanismi concorsuali». ____________________________________________________________________ Corriere della Sera 29 Dic. 2002 UNIVERSITÀ, I FONDI DELLO STATO E LE SPESE Nell' ultimo triennio 600 milioni di euro utilizzati per gli aumenti contrattuali di stipendio Tosi Piero E' il 10 dicembre quando i rettori italiani si dimettono per protestare contro i tagli previsti della Finanziaria ai fondi destinati agli atenei. Una contestazione senza precedenti, che ha fatto aprire un dibattito, sulle colonne del Corriere della Sera con interventi di Francesco Giavazzi, docente alla Bocconi, del presidente del Senato Marcello Pera e oggi di Piero Tosi, presidente della Conferenza dei rettori. Nella Finanziaria era stato indicato uno stanziamento per il 2003 di 6.030 milioni di euro per le università, contro i 6.209 dell' anno scorso. Il ministro Moratti ha garantito il 17 dicembre che i fondi saranno gli stessi del 2002. La segnalazione in forma vistosa che i rettori hanno fatto dell' emergenza finanziaria degli atenei, oltre ad aver ottenuto una prima risposta dal Parlamento e dal Governo, ha finalmente consentito l' apertura di un dibattito sull' università. Tutti ora concordano sul fatto che bisogna investire risorse nella ricerca e nelle università, pretendendo però da queste comportamenti ineccepibili sul piano etico ed economico. Sono d' accordo. Con qualche premessa, però. La prima premessa è che, se si vuole discutere davvero di università, bisogna smettere di dipingerla come un luogo nel quale si promuoverebbero le proprie «capre» o si praticherebbero «incesti». Dispiace leggere frasi del genere, innanzitutto perché non sono vere e anche perché le università italiane sono tuttora considerate nel mondo importanti centri di cultura: lo testimoniano le molte attestazioni di solidarietà dei rettori europei. La seconda premessa è che c'è assoluto bisogno di dare agli atenei italiani stabilità normativa. Non possono infatti continuare ad essere una sorta di «cantiere aperto» come è ormai da molti anni. Detto questo, è opportuno riportare il filo conduttore del dibattito sui problemi che travagliano le università e sugli impegni che queste devono assumere. Partiamo dallo stato giuridico del personale docente ricordando che i ricercatori lo ri vendicano dal lontano 1982. Se finalmente fosse definito e varato, i docenti avrebbero la certezza dei loro diritti e dei loro doveri; sarebbero chiariti i rapporti tra docenti e ateneo. Le università sarebbero messe in grado di assegnare incentivi e premi o di comminare provvedimenti, oggi sospesi puntualmente dai vari Tar. Un altro elemento di «scandalo» sollevato contro le università sono i concorsi. Da tempo i rettori hanno chiesto di modificare le attuali norme che hanno certamente comportato troppe promozioni, ma bisogna tenere conto che i concorsi erano stati bloccati per nove anni, contro la legge. Le nuove norme potranno consentire di investire sui giovani, finalizzando in maniera prioritaria risorse al loro arruolamento, così da assicurare un ricambio ai moltissimi docenti che nei prossimi anni andranno in pensione. Per affrontare poi il grande problema degli abbandoni dei giovani durante gli studi universitari, oltre ad assicurare loro, una volta iscritti, un tutoraggio sul modello inglese, occorre attuare negli ultimi due anni della scuola superiore un efficace orientamento formativo, che porti il giovane a evitare scelte non coerenti con la formazione avuta e con le caratteristiche individuali. Una volta che i giovani hanno scelto il proprio percorso di studi, bisogna inoltre permettere loro di muoversi in modo da poter usufruire del sistema dei crediti acquisiti in un ateneo, trasportandoli in un altro. Ma è chiaro che per attuare questo, che è una delle vere novità della riforma della didattica, è necessaria un' adeguata politica per il diritto allo studio. Nei giorni della più intensa protesta, i rettori si sono sentiti rivolgere questa domanda: se avete bisogno di soldi, perché, invece di chiederli al Governo, non aumentate le tasse pagate dagli studenti? I rettori italiani avranno tanti difetti, ma possono assicurare che, se la soluzione dei problemi fosse così semplice, ci avrebbero già pensato da soli. E non da ora. Si potrebbe sostenere - come h a fatto Francesco Giavazzi - la tesi delle tasse tarate sul reddito delle famiglie. Una cosa del genere si potrebbe fare, anzi, sarebbe assolutamente auspicabile: ma non in un Paese in cui si dichiara in Parlamento che «in Italia non pagare le tasse è legittima difesa». Le università hanno compreso, nella maggioranza delle loro componenti, che al primo posto deve essere messa l' etica dei comportamenti e la severa censura di quelli non corretti. Il metodo della valutazione, che si è mosso sulla base del progetto sperimentale «CampusOne», si sta progressivamente allargando a tutti i corsi di studio e alla ricerca. L' università è la sede della ricerca di base, ma la ricerca di base, quando è di qualità, è in grado di dare risultati applicabili solo apparentemente inattesi. Ciò non toglie il grande lavoro che molti atenei stanno facendo nel tentativo di impostare il rapporto con l' industria superando la ormai inaccettabile autoreferenzialità, in parallelo con la dimostrazione di fiducia che l' industria è chiamata a dare all' università. Ricerca e formazione sono un binomio istituzionale inscindibile in tutti gli atenei. Credo fermamente che con la valutazione e con il successivo accreditamento - cioè il riconoscimento ufficiale della qualità da parte di terzi - si avranno comportamenti guidati dalla opportunità di essere competitivi, esaltando le peculiarità di ciascun ateneo, in uno spirito di collaborazione interuniversitario. Voglio infine sfatare una favola. I bilanci degli atenei hanno ormai una parte considerevole delle entrate che non deriva dal Fondo di finanziamento ordinario che copre quasi solamente le spese fisse, quelle cioè dovute al personale. E si sa che il trattamento del personale delle università è regolato come quello delle amministrazioni pubbliche e non può non essere completamente a carico dello Stato. Ma qui sta una vera grande anomalia: negli ultimi tre anni gli atenei hanno speso oltre 600 milioni di euro per gli aumenti stipendiali decisi dallo Stato e dal Contratto nazionale di lavoro. L' università italiana eroga un servizio pubblico: lo Stato deve investire e controllare. I primi a rivendicare questi investimenti e a incoraggiare il controllo sono proprio i rettori. Credo che, se questo avverrà, l' ottimismo espresso, sia pure tra molte critiche, dal presidente del Senato Pera sulle pagine del Corriere sia da condividere. * Presidente della CRUI (Conferenza dei rettori delle università italiane) ____________________________________________________________________ La Stampa 8 gen. ’03 SANTAMBROGIO: IL FUTURO DELL´UNIVERSITÀ ITALIANA ALLA LUCE DELLA RIFORMA FACCIA A FACCIA TRA DUE DOCENTI SULLA CRISI E IL FUTURO DELL´UNIVERSITÀ ITALIANA ALLA LUCE DELLA RIFORMA NON è catastrofismo dire che l'università italiana, come molte altre cose e istituzioni del nostro paese, se mai è stata competitiva ora non lo è più. Lo dicono anche i rettori. I quali però non dicono che ai vecchi difetti a cui nessuno è finora riuscito a porre rimedio, se ne stanno aggiungendo di nuovi. Uno, evidentissimo e grave, è questo. Le facoltà sono tenute dalla cosiddetta "riforma" a istituire corsi di laurea specialistici della durata di due anni, al termine dei corsi introduttivi triennali. Ma nelle facoltà umanistiche è molto difficile fare una cosa del genere. Infatti se tali corsi devono essere davvero specialistici e non si vogliono semplicemente chiamare cose vecchie con nomi nuovi, allora bisognerà che le facoltà scelgano alcuni ambiti disciplinari su cui concentrare sforzi e risorse. Non è pensabile infatti che si specializzino in tutte le direzioni, soprattutto se non sono tra le poche facoltà gigantesche degli atenei maggiori. Ma il modo in cui oggi vengono prese le decisioni dalle facoltà - cioè mediante delibere dei consigli a cui partecipano tutti i docenti della facoltà - rende praticamente impossibile fare una scelta: è semplicemente impensabile che un consiglio di facoltà decida, ad esempio, di penalizzare filosofia per sviluppare storia moderna o di concentrare le proprie scarse risorse su storia dell'arte e negarle a psicologia. E' facile quindi prevedere che la specializzazione non ci sarà e l'università italiana resterà al palo. E sarà una tragedia per tutti. Sarebbe riprovevole tuttavia e oltretutto sleale nei confronti dei nostri stessi studenti attaccarsi (come si dice a Milano) alla canna del gas: lamentarsi e non fare niente. In un articolo sulla Rivista dei Libri (gennaio 2003) ho cercato di avanzare una proposta innovativa. Si creino - ho suggerito - a fianco delle facoltà tradizionali, istituzioni nuove, non appesantite da un corpo docente vecchio e ormai non riformabile, apertamente meritocratiche e aperte al confronto internazionale. Raffaele Simone su La Stampa del 5 gennaio, così commenta il mio articolo: "Che cosa paventa Santambrogio? Come può temere, ad esempio, che le lauree specialistiche nasceranno sofferenti, quando è tutto il sistema universitario che soffre? Bisognerebbe piuttosto guardare ai mali storici profondi del nostro sistema universitario, su cui molti versano lacrime di coccodrillo ma nessuno ha la forza di intervenire. L'appello finale a imprecisate "istituzioni nuove", orientate al merito, mi pare toccante ma non mi convince". Subito dopo il calcio, lo sport preferito dagli italiani è quello di "guardare ai mali storici profondi" dell'Italia - sarà abbastanza storico e profondo il blocco industriali-agrari del 1920-22 o dovremo risalire alla mancata riforma protestante? - e contemporaneamente dichiararsi scettici di qualunque proposta senza mai entrare nel merito né proporne altre. Cercherò comunque di precisare meglio la mia proposta e di convincere Simone. Osserva lui stesso che l'università soffre di una "gravissima crisi di governance", perché tutte le cariche sono elettive ed è quindi impossibile prendere decisioni radicali o anche solo impopolari. Bene. Suggerisco che le "nuove istituzioni" - centri di eccellenza, scuole di ricerca legate ai dottorati, collegi in cui gli studenti risiedano e facciano ricerca o comunque le si vogliano concepire (ogni ateneo sceglierà quello che preferisce: l'autonomia servirà pure a qualcosa!) - non siano rette da un consiglio di docenti, qualunque sia il criterio con cui questi sarebbero prescelti. Infatti, in un consiglio che prende decisioni a maggioranza è impossibile individuare le responsabilità e quindi riconoscere meriti e demeriti individuali. Siano invece retti da un unico delegato, direttamente nominato dal rettore dell'ateneo per un certo numero di anni, che gli consenta di avanzare un progetto preciso, di seguirne la realizzazione e di legare il proprio nome ai risultati ottenuti. Solo a queste condizioni i responsabili di un'istituzione possono essere personalmente motivati. Senza buone motivazioni non si combina niente di buono. In altro momento e in altra sede sarà bene poi cominciare a discutere seriamente su quello che si intende per "democrazia". Marco Santambrogio ____________________________________________________________________ La Stampa 8 gen. ’03 UNIVERSITA': MANCA LA CONCORRENZA NON amo il calcio e non mi preoccupo troppo dei "mali storici profondi dell'Italia" (anche se sono convinto che a volte servirebbe). Nei momenti di afflizione non è alla canna del gas che guardo con desiderio. Ma - lo ammetto - mi domando spesso come mai il sistema universitario italiano, malgrado le intelligenze di cui dispone e talune buone leggi che lo hanno riordinato, continui ad essere una macchina sterile. Nel mio intervento del 5 gennaio scorso ho accennato ai motivi strutturali di questo ritardo. Erano, certo, "mali storici profondi", di quelli che a qualcuno sembra inutile rivangare. Il guaio è che, occupandomi di affari universitari da più decenni, mi sono convinto che è poco sensato riverniciare il palazzo quando le strutture sono piene di crepe. Quindi credo anche che, se vogliamo seriamente parlare di università, è proprio ai "mali profondi" che bisogna guardare, il che non significa per forza ridursi alla canna del gas. Comunque, stavolta voglio immaginare (anche se mi richiede un po' di sforzo) che l'università sia in buona salute e che si tratti di inventare qualche soluzione nuova per farne un luogo di vita intellettuale ricca e fruttuosa. A questa condizione la proposta di Santambrogio, di creare degli hauts lieux della ricerca e della formazione, mi piace e mi piacciono anche altre delle cose che suggerisce. Mi permetto allora di intrecciare alle sue considerazioni alcune proposte ulteriori. Intanto, il dottorato. Compie vent'anni proprio nel 2003 (nessuno se n'è ricordato, e un'inchiesta di un giornale come La stampa sarebbe utilissima), ma non si può dire che sia ancora maggiorenne. È un adolescente indolente e piuttosto incerto sul suo futuro. Non sto a spiegare perché. E invece sarebbe una risorsa essenziale! Che fare per portarlo all'età adulta? Anzitutto, non riconoscerlo a tutte le università (come accade oggi), ma solo a quelle che dimostrino di essere davvero in grado di crearlo, tenerlo vivo con attività didattiche serie, avanzate e internazionali, e accogliervi esclusivamente i professori e i laureati più bravi. Avremmo quindi, sì, le università-con- dottorato e quelle senza. Queste ultime potrebbero concentrarsi sulla formazione di base, senza pretendere di far cose che in effetti non possono fare. Non è affatto detto, a questa condizione, che il dottorato andrebbe soltanto alle "grandi" università. Potrebbe addirittura accadere l'opposto. Le università potrebbero poi essere indotte a differenziare le tematiche di studio e di ricerca che propongono, evitando il penoso effetto fotocopia di cui soffriamo da sempre. Avremmo allora corsi di archeologia nelle sedi prossime a giacimenti importanti, corsi di biologia marina nei luoghi in cui la pesca e l'allevamento ittico fossero centrali, e così via. Sembra facile! Ma non lo è. Al momento tutti vogliono e propongono tutto, e la concorrenza tra le università è solo una simpatica fola. Si potrebbero poi creare delle scuole normali (analoghe a quelle francesi: a volte copiare è indispensabile!), con il contributo di più atenei, in modo da aggregarvi le risorse e i progetti più interessanti. Vi sarebbero attratti (magari per periodi determinati) i migliori professori d'Italia (e anche stranieri) e i giovani più coraggiosi e intraprendenti. Ho invece poca fiducia nei "centri di eccellenza" inventati da qualche anno, che sono nati gracili, sin dall'infelice intitolazione. Sono entità immateriali, che nessuno ha ben capito e che servono al più per aggiungere un nastrino sul gonfalone di questo o quell'ateneo. Non riesco neanche a morire di passione per l'attuale scansione di triennio e biennio (e per la connessa cervellotica struttura dei master), a cui non sono il solo a pronosticare un futuro tormentato. Immaginiamo quindi (sforzandoci un po') che queste cose si possano attuare. Ma temo che al momento di tradurle in fatti sarà inevitabile tornare a discutere dei "mali profondi" che avevamo tenuto nell'ombra (governance, concorsi e selezione del personale, controllo della qualità, ecc.), con in più una ruvida aggravante che è sotto gli occhi di tutti: all'attuale maggioranza, un'università pubblica di qualità non sembra proprio stare a cuore. Raffaele Simone ____________________________________________________________________ La Stampa 9 gen. ’03 L´UNIVERSITÀ DEGLI STAGNI: IL COLLASSO DIDATTICO I PECCATI CAPITALI DI UN´ISTITUZIONE ORMAI AL COLLASSO DIDATTICO IN un lungo articolo sull'università, uscito sul numero di gennaio 2003 della Rivista dei libri, Marco Santambrogio argomenta due o tre cose che vale la pena di discutere. Le illustro in estrema sintesi. 1. Le piccole e medie università sono destinate a svuotarsi. La causa di ciò, a quanto capisco, sta nel meccanismo dei concorsi per i professori. Non sto a spiegare questo meccanismo (che ai più riuscirebbe incomprensibile). Dico solo (concordando del tutto con Santambrogio) che esso finisce per favorire i candidati locali di un ateneo rispetto a quelli che provengono da altre sedi, anche se il candidato locale non è affatto il più bravo. Quindi, il professore bravo, respinto da un'università piccola o media, tenderà ad andarsene in una grande, che ha maggiori disponibilità di risorse. 2. Con queste migrazioni e con la scarsa propensione dei professori a rinnovarsi, la didattica rimarrà sprovvista delle forze migliori. Ciò danneggerà soprattutto la cosiddetta «laurea specialistica», il titolo di studio creato dalla riforma in vigore dall'anno scorso, alla quale non si potranno dedicare risorse di qualità. 3. L'università italiana, all'alba della riforma, è quindi destinata a «un futuro di mediocrità». Un modo per uscirne starebbe nel creare scuole di alto livello, a fianco (mi pare di capire) del sistema universitario o al di sopra di esso: si tratterebbe di «istituzioni nuove, non appesantite da un corpo docente vecchio e ormai non riformabile, apertamente meritocratiche e aperte al confronto internazionale». Questo, più o meno, il tenore dell'articolo. Santambrogio sembra collocare nel futuro la crisi a cui allude, quasi che questa fosse creata da eventi recenti come il nuovo sistema dei concorsi e la riforma Berlinguer-Zecchino. Credo che questa ipotesi sia imprecisa. L'università italiana è infatti da sempre in una stagnazione didattica e scientifica. Solo qualche ipocrita finge di credere che quest'affermazione sia lesa maestà. Il nuovo quadro normativo non crea né favorisce questa crisi: si limita a non contrastarla. I motivi di questo stato sono complessi e remoti nel tempo. L'università italiana soffre di una gravissima crisi di governance. Tutte le cariche sono elettive, quindi è impossibile prendere decisioni radicali o anche solo impopolari. Non si è mai visto un professore licenziato per assenteismo o un dipartimento chiuso per inefficienza. Eppure ce ne sarebbero. Ma chi ne avrebbe il coraggio? L'attività universitaria patisce di una annosa commistione con le professioni lucrose. Siamo uno dei pochi paesi al mondo in cui avvocati, notai, architetti o medici possano fare anche il professore universitario, magari a mille chilometri di distanza da casa propria. In parole povere, l'università è un lavoro a cui è possibile dedicare solo le briciole del proprio tempo: maiora premunt. L'autonomia economica e finanziaria è insufficiente e quindi il ministero influenza pesantemente la vita degli atenei. Del resto, il loro funzionamento è sostenuto dalle tasse degli studenti per una quota irrisoria (non più del 10%). Le relazioni interne alla corporazione universitaria sono intrinsecamente consociative (e in molti casi corruttive) data la soffocante frequenza di occasioni elettorali in cui è indispensabile il sostegno dei colleghi più svariati. Mancano selezione e controllo di qualità, sia per i professori che per gli studenti. Salvo che per il terzo punto, questa lista sembrerebbe descrivere un'università liberista, con minimi controlli dall'alto e tutta tesa al risultato migliore. Questo è ahimè il contrario del vero! L'università italiana ha infatti un rating catastrofico quanto al rapporto tra laureati e immatricolati (si laureano più o meno 3 studenti su 10!) ed è troppo basso il numero degli iscritti rispetto a quello dei giovani diplomati. Non parliamo poi della qualità globale del professorato. A dispetto degli alti meriti di alcuni singoli e gruppi, la media dei professori è costituita da gente vecchiotta, svogliata e sprovvista di curriculum appropriato. Stando così le cose, che cosa paventa Santambrogio? Come può temere, ad esempio, che le lauree specialistiche nasceranno sofferenti, quando è tutto il sistema universitario che soffre? Bisognerebbe piuttosto guardare ai mali storici profondi del nostro sistema universitario, su cui molti versano lacrime di coccodrillo ma nessuno ha la forza di intervenire. L´appello finale a imprecisate «istituzioni nuove», orientate al merito, mi pare toccante ma non mi convince. simone@uniroma3.it ordinario Università Roma Tre autore dell´Università dei tre tradimenti (Laterza 2000, ed. aggiornata) Raffaele Simone ____________________________________________________________________ Le Scienze gen. ’03 SE CHIUDESSIMO LE UNIVERSITÀ? Enrico Bellone Se ne accorgerebbero davvero in pochi. Basterebbe non dirlo alla televisione, che è seguita fedelmente dalla maggioranza della popolazione. E poi, in fondo, che cosa esce dai nostri atenei? Produciamo infatti, in un anno, circa 3500 dottori di ricerca, contro i 22.800 della Germania e i 10.100 della Francia. Per diventare davvero europei, dovremmo costruire in poco tempo qualche milione di laureati e tecnici. Eppure, se per miracolo ci riuscissimo, non avremmo le strutture pubbliche e private capaci di assorbirli. In vari documenti europei siamo ormai giudicati, sotto questo profilo, una zavorra. E allora eliminiamola, questa zavorra. Eviteremmo uno spreco di danaro pubblico. Ed eviteremmo, anche, di far brutte figure. Mi riferisco, tanto per fare qualche esempio, al fatto che, in un assordante silenzio dei canali di comunicazione, il Presidente del Consiglio nazionale delle ricerche ha dovuto prendere carta e penna per scrivere al collega Enric Banda che, per mancanza di fondi, il CNR potrebbe essere obbligato "a rinunciare dal 2004 alla sua partecipazione alla European Science Foundation". La lieta ipotesi appare in un comunicato stampa del CNR dove si legge, anche, che "ci è stata donata un'apparecchiatura del valore di 15 milioni di euro" per la ricerca sulle nanotecnologie, ma che "probabilmente dovremo rinunciare alla donazione perché non riusciamo a reperire i 400.000 euro necessari a trasporto e installazione". Poco prima di Natale ci sarà un voto sulla Legge finanziaria, e il numero di gennaio di £Le Scienze£ sarà già in tipografia. Leggo tuttavia che si discute su un taglio di 1.137 milioni di euro per il settore pubblico di scuola, Università e ricerca, anche se ci saranno 90 milioni di euro per le scuole private. Non so come andrà a finire. Ma so che lo stato patologico dell'Università non nasce solo dalla finanziaria, e non si è incancrenito solo negli ultimi mesi. Pochi sembrano ricordare che nel 1998 il centro-sinistra e il centro-destra votarono uniti per eliminare ciò che ancora restava di meritocratico nei concorsi universitari: si preferà premiare il localismo e l'anzianità. Il rapporto annuale del CENSIS sostiene che l'Italia del 2002 "ha le pile scariche"? Certo. Si dovrebbe tuttavia negare, alle nostre classi dirigenti, il diritto di sorprendersi. ____________________________________________________________________ Il Resto del Carlino 8 gen. ’03 ITALIA SOTTO LA MEDIA UE NEI FONDI PER LA RICERCA BRUXELLES — I fondi pubblici destinati alla ricerca crescono troppo lentamente e nel lungo periodo l'Ue continua a perdere terreno nei confronti degli Stati Uniti. E' quanto emerge da uno studio curato da Eurostat che raccoglie i dati più recenti - relativi al 2001 - sulle risorse assegnate dagli Stati membri alla ricerca e allo sviluppo. Lo studio indica che nel 2001 i Quindici hanno messo a disposizione del settore della ricerca 67,5 miliardi di euro, equivalenti in media allo 0,77 del Pil. Lo stesso indicatore sale invece invece allo 0,82% negli Usa, nonostante la brusca frenata registrata dall'economia statunitense.L'esame dei dati per Paese mette in evidenza un gruppo di testa composto dalla Finlandia (1% del Pil dedicato alla ricerca), seguita da Francia (0,99%), Svezia (0,88%) e Germania (0,82%). Chiudono la fila la Grecia (0,30%) e l'Irlanda (0,33%). L'Italia, con lo 0,69% del Pil dedicato alla ricerca e allo sviluppo si pone appena sotto la media europea, alla pari con Gran Bretagna e Spagna.Secondo Eurostat "nel corso degli ultimi 10 anni le risorse pubbliche di bilancio assegnate alla ricerca hanno fatto registrare un incremento piuttosto modesto, con un tasso di crescita medio annuo dello 0,47%". A titolo di confronto basti pensare che il tasso di crescita medio annuo per lo stesso periodo registrato negli Usa ha raggiunto l'1,47%. A pesare negativamente sulla prestazione complessiva dell'Ue sono stati soprattutto i Paesi più grandi come Germania, Francia, Italia e Gran Bretagna che "non hanno registrato nessuna evoluzione positiva, ed in alcuni casi hanno fatto segnare delle lievi perdite". Buone invece le prestazioni di Spagna e Portogallo. Uno spiraglio positivo sembra comunque aprirsi sul fronte della crescita degli investimenti pubblici nel campo della ricerca in Europa: tra il 2000 ed il 2001 il tasso di crescita medio ha toccato il 3,8%, e secondo gli esperti di Eurostat "grandi Paesi come la Francia, la Germania e la Gran Bretagna ritrovano tassi di crescita nettamente positivi". L'incremento riguarda anche l'Italia, che può vantare un livello di crescita del 7,4%, tra i più alti dell'Ue. Le risorse assegnate dai governi dell'Ue nel 2001 sono andate soprattutto a finanziare la ricerca universitaria (31,8%), la difesa (15,5%) e la produzione e le tecnologie industriali (9, 7%). In Italia le università hanno assorbito il 43,7% dei fondi pubblici per la ricerca. Al secondo posto viene la produzione industriale (14,8%) seguita dalla ricerca pura (8,8%) e dall'esplorazione dello spazio (7,3%).Nel corso degli ultimi dieci anni in generale nell'Ue si è assistito ad un diverso orientamento della distribuzione dei fondi pubblici, che si fanno più consistenti nel campo delle tecnologie industriali. ____________________________________________________________________ Corriere della Sera 4 gen. ’03 SIRCHIA: «I NUOVI BARONI BLOCCANO LA RICERCA NEGLI ATENEI» Sirchia accusa: «Gerontocrazia e nepotismo scacciano i giovani, in cattedra vanno solo figli e cognati» «Il chirurgo che ha lasciato Palermo per gli Usa è un' altra storia: aveva vantaggi e costi insostenibili» De Bac Margherita ROMA - Emigrano perché «schiacciati dalla mentalità neobaronale delle nostre università» e anche per la cosiddetta mancanza di «massa critica», cioè l' impossibilità di confrontarsi in un unico centro con colleghi di altre discipline. Il ministro del la Salute, Girolamo Sirchia, non minimizza affatto il problema tutto italiano della fuga di cervelli. E ne attribuisce la responsabilità maggiori alle culle istituzionali della ricerca. Gli atenei, accusati di «bloccare i giovani in nome della gerontocrazia, della burocrazia e del nepotismo. In cattedra vanno tuttora i figli e i cognati. I meriti individuali non contano». Il ministro insiste: «Il nepotismo è una brutta malattia. Le università devono avere il coraggio di affrontare con atteggiamento critico il loro futuro. Invece non fanno che chiedere soldi senza contribuire al rinnovamento rimettendosi in discussione. Devono svecchiarsi». Per dare un impulso alla ricerca e offrire opportunità di rimpatrio ai giovani («ma non esageri amo, la maggioranza resta»), Sirchia sta lavorando per creare una rete di centri di eccellenza, la cui ossatura è costituita dagli Ircss (istituti di ricerca a carattere di ricovero e cura). LA POLEMICA - Si dichiara costretto a lasciare l' Italia perché «qui non posso lavorare, nella sanità prevale ancora la cultura del privilegio personale», il chirurgo Ignazio Marino. Lo scorso settembre il direttore dell' Ismett, l' Istituto mediterraneo per i trapianti, sede a Palermo, data di nascita ' 96, frutto della gestione mista tra gli ospedali Civico e Cervello e l' università di Pittsburgh, ha annunciato di essersi dimesso per motivi di natura personale e professionale. Al suo posto gli americani hanno con rapidità nominato John Fung, indicato come erede di Thomas Starzl, colosso dei trapianti di fegato a Pittsburgh. In partenza per la Jefferson University di Filadelfia, dove dirigerà la divisione trapianti, l' ex dell' Ismett ha lasciato una lettera di addio pregna di risentimento, denunciando le difficoltà di lavorare bene in Italia. E annoverandosi nel gruppo dei cervelli in fuga. Un testamento che non convince molti colleghi. «Marino non ha niente a che vedere con questo fenomeno - lo contraddice Sirchia -. Le ragioni della sua fuga sono ben diverse. Era entrato in collisione con i vertici americani dell' Ismett che non condividevano le sue iniziative. Oltretutto i costi gestionali della struttura, coperti dalla Regione Sicilia, erano diventati insostenibili. Nel doppio ruolo di direttore e amministratore delegato, lui godeva di vantaggi economici notevolissimi. Credo che abbia pagato i pessimi rapporti con la sanità siciliana. Voleva fare il solista». STORIA DIVERSA - Oltre a Ciampi, esternano dispiacere la Cgil medici e il capogruppo dei Ds nella Commissione antimafia, Lumia, che preannuncia un' interrogazione parlamentare. Raffaello Cortesini, invece, vero re dei trapianti in Italia, oggi alla Columbia University («ma con il Paese mantengo un legame stretto, anche come direttore del Consorzio»), racconta una storia diversa su Marino: «E' stato costretto a dimettersi dall' Università di Pittsburgh, per scarsa produttività. I suoi 120 trapianti sono costati 120 milioni di euro. Con gli stessi soldi qualsiasi altro centro avrebbe fatto faville. Se c' è un settore che da noi funziona ottimamente è proprio questo. Siamo al quinto posto in Europa». Carlo Marcelletti, cardiochirurgia pediatrica del Civico, in perfetta sintonia con la Sicilia ma non con l' ex vicino di ospedale, giudica la polemica immotivata: «Ha avuto a disposizione mezzi eccezionali, di cui nessun altro ha mai goduto. Non ci stracceremo le vesti». Irritato e perplesso, Mauro Salizzoni, responsabile dei trapianti di fegato alle Molinette di Torino, difende il nostro sistema. E l' Ismett risponde gelido: «La nostra attività clinica e chirurgica non si è mai fermata, né rischia di bloccarsi. Da settembre, 8 i trapianti effettuati». Margherita De Bac mdebac@corriere.it ____________________________________________________________________ Corriere della Sera 5 Gen. 2003 RETTORI CONTRO SIRCHIA: FACCIA I NOMI DEI BARONI Replica alle accuse di nepotismo e gerontocrazia. De Maio: il problema esiste, ma non è generalizzato Tosi: il ministro è sicuro di essere esente da critiche? Il senatore Modica: bisogna introdurre criteri di valutazione diversi Benedetti Giulio ROMA - «Nepotismo? Sirchia dica a chi si riferisce». E poi: «E' sicuro di essere esente da critiche nella conduzione della Sanità?». Botta e risposta tra il ministro della Salute e il presidente della Conferenza dei rettori (Crui), Piero Tosi. «Giovani bloccati in nome della gerontocrazia, della burocrazia e del nepotismo. In cattedra vanno tuttora figli e cognati. I meriti individuali non contano»: Girolamo Sirchia non ha usato mezzi termini per attribuire agli atenei le maggiori responsabilità della «fuga dei cervelli». Il ministro ha denunciato le difficoltà quasi insormontabili che incontrerebbero i giovani ricercatori prendendo lo spunto dalla lettera di addio del chirurgo Ignazio Marino, dimessosi dalla direzione dell' Ismett, l' Istituto mediterraneo per i trapianti con sede a Palermo. La risposta delle università non si è fatta attendere. Ed è venuta ancora una volta dai rettori. «Mi stupisce che il ministro della Salute chiami in causa l' università per un fatto che riguarda i l Servizio sanitario nazionale - ha dichiarato il rappresentante degli 80 "magnifici" italiani, Piero Tosi -. Mi stupisce di più che la chiami in causa con accuse a raffica, senza sentire il dovere di fare precisi riferimenti. Stiamo lavorando ad un piano per i giovani». «Mi domando poi se il ministro della Salute è proprio sicuro di essere al riparo da critiche nel sistema di cui ha la responsabilità - ha detto ancora il presidente della Crui -. E' diventato facile accusare senza dati l' università e considerarla come una spesa. Bisognerebbe che il ministro della Salute risolvesse i gravi problemi di stato giuridico che sono almeno parzialmente all' origine della decisione di lasciare l' Italia del cosiddetto "padre dei trapianti"». Nel mondo accademico le parole di Sirchia hanno trovato consenso ma anche molti distinguo. Nessuno ha negato l' esistenza dei fenomeni denunciati dal ministro. Semmai è la diffusione del malcostume che viene contestata. Secondo il linguista Raffaele Simone , docente alla Terza Università di Roma e autore di saggi sui mali del mondo accademico, il ministro ha ragione: «Quanto alla gerontocrazia è sufficiente scorrere le statistiche del ministro da cui risulta un età media di 57 anni. Per il nepotismo, p oi, basti pensare che vi sono alcune grandi dinastie che si trascinano dall' Ottocento. E questo accade perché in Italia manca il controllo di qualità: essere figlio o nipote in molti casi è un titolo sufficiente». «Non amo le generalizzazioni - ha c ommentato Adriano De Maio, ex rettore del Politecnico di Milano e attuale rettore della Luiss di Roma -. La situazione prospettata da Sirchia in alcune casi è vera, ma ci sono tanti atenei e facoltà che adottano modelli differenti. Il ministro della Salute ha sollevato uno dei grandi problemi dell' università, ma affermare che accade dappertutto è esagerato». Prende le distanze dalle eccessive generalizzazioni anche l' ex presidente della Crui, Luciano Modica, ora senatore Ds. Che, a proposito d i nepotismo, propone: «Sarebbe opportuno trovare un sistema di valutazione che ci metta in condizione di dire che un ateneo è migliore di un altro perché ha i docenti migliori. Utilizziamo parametri internazionali per valutare la qualità della ricerca dei professori. Oggi la carriera di un professore ordinario è automatica. Invece non dovrebbe fermarsi mai. Se le valutazioni non sono buone non si aumenta lo stipendio e nei casi peggiori si cessa l' attività». Giulio Benedetti LA FUGA DEI CERVELL I LA POLEMICA Il chirurgo Ignazio Marino lascia l' Italia per gli Usa: «Non posso lavorare in questa cultura del privilegio personale» IL DIBATTITO La decisione del chirurgo riaccende la discussione sul tema dei «cervelli in fuga», nel cui gruppo Marino si annovera LE ACCUSE Il ministro della Salute Sirchia accusa: gli atenei sono in mano ai baroni, nepotismo e gerontocrazia bloccano la ricerca LE REAZIONI Dure le reazioni da parte dei rettori: accuse prive di riferimenti precisi, stiamo lavorando a un piano per i giovani ____________________________________________________________________ La Stampa 4 gen. ’03 PESCHIE: I BARONI CI SONO ANCHE IN AMERICA PARLA UN COLLEGA DELL'UNIVERSITÀ DI PHILADELPHIA: I BARONI CI SONO ANCHE DA NOI «Se ne vanno perché la ricerca ha pochi fondi» Il professor Peschle: gli Stati Uniti sanno che bisogna spendere per lo sviluppo ROMA TORNA alla ribalta lo spauracchio che fa sembrare l´Italia sprofondata nel buio del sapere: la «fuga dei cervelli». Con il suo rifiuto il professor Ignazio Marino lancia il sasso nello stagno, prende l´aereo e se ne va da Palermo. Qualcuno ha sostenuto che in realtà il «re dei trapianti», l´erede di Starzl, voleva «fare l´americano in Sicilia». Una critica azzeccata? «In parte, sì», secondo il professor Cesare Peschle, direttore del Laboratorio di Ematologia e Oncologia dell´Istituto Superiore di Sanità e coordinatore di un laboratorio di ricerca sulle cellule staminali alla Thomas Jefferson University di Philadelphia, la stessa in cui lavora Marino. Non si può fare l´americano in Sicilia, come dice il professor Marcelletti? «Beh, gli americani stessi dicono "se sei a Roma, comportati da romano"...». Battute a parte, che cosa manca al nostro paese? Chi meglio di lei lo può sapere, visto che lavora in due realtà così differenti? «Il divario tra Stati Uniti e Italia nasce dal modo di considerare la scienza: è una filosofia di vita del tutto diversa. In America c´è sempre stata una enorme spinta verso l´innovazione tecnico scientifica, mentre in Italia si è spesso pensato che i fondi per la ricerca fossero gettati al vento. Negli Stati Uniti si è compreso che solo un impegno per l´avanzamento nel campo della scienza e della tecnica avrebbe prodotto, come è avvenuto, un ritorno sul piano economico». Mentre i nostri governi non lo hanno ancora capito? «Non posso, francamente, dire nulla contro il nostro ministro della Salute. Sirchia ha davvero fatto tutto quanto ha potuto su questo piano, ma...» Ancora non basta. «No. Il fatto è che tutta la struttura scientifica italiana è un po´ arcaica. Così come lo è la nostra università. Si fa ricerca con strutture e persone legate a una mentalità vecchia». Eppure i cervelli non mancano. «Tutt´altro. E devo dire che, negli ultimi tempi, sono emersi alcuni centri di eccellenza, capaci di dimostrare che la realtà italiana sta rapidamente evolvendo». Facciamo qualche esempio? «E´ sempre antipatico fare nomi, però nessuno può negare che strutture quali il San Raffaele e l´Istituto Europeo di Oncologia a Milano o l´Istituto di Ricerca e Cura sul cancro di Torino facciano ricerca ad alti livelli». Sono istituti che nascono da fondi privati e pubblici. «Esatto. Per questo dico che la situazione sta evolvendo. Anche l´Istituto Superiore di Sanità sta andando verso questa direzione, l´unica che consenta di evitare una burocrazia che immobilizza laddove si deve essere dinamici. Purtroppo, però, in Italia restano delle sacche di realtà legate agli anni Sessanta - Settanta difficili da eliminare». Vuole alludere ai baroni dei quali si lamenta il professor Marino? «Vede, i baroni della medicina ci sono anche in America. Ma sono quei pochi Nobel che cercano di far valere il proprio prestigio per ottenere fondi che vadano a beneficio della collettività. Di ben altro spessore rispetto ai baroni nostrani». Marino non è un ricercatore, ma un ottimo chirurgo. Un tecnico. Entra in ballo anche l´assistenza sanitaria che, nel nostro paese, è gratuita per tutti. Non altrettanto in America... «E´ vero, su 250 milioni di americani, il 20 per cento non ha un´assicurazione e se si ammala gravemente incontra grosse difficoltà per potersi curare. Questo è l´aspetto negativo della sanità americana, l´esasperazione della privatizzazione. Ma nessuno ha mai detto che in America ogni cosa sia perfetta: non è tutto oro quel che luce». ____________________________________________________________________ Il Messaggero 7 gen. ’03 SIRCHIA «L’UNIVERSITÀ CAMBI STRADA» La fuga dei cervelli Il ministro della Salute replica ai rettori: «Gli stipendi vanno liberalizzati» Sirchia rilancia: cieco chi non vede appiattimento e nepotismo Roma. «Uno che non vuole vedersi allo specchio è cieco o in malafede. Voglio bene all’Università, ma far finta di non vederne i difetti sarebbe sciocco e controproducente». Girolamo Sirchia, ministro della Salute, usa parole dure per rispondere al presidente della Conferenza dei rettori, Piero Tosi. Le accuse del ministro non sono rivolte alla persona, ma al sistema universitario. Malato, a suo dire, di nepotismo. «Potremmo fare decine di nomi - ha continuato Sirchia - centinaia, ma non è questo il senso del mio discorso». Il chirurgo Marino ha lasciato il Centro trapianti di Palermo sbattendo la porta, dicendo che così «non si può lavorare» e che «la burocrazia non può soffocare tutto». Il caso ha fatto esplodere la polemica nel mondo scientifico. E ora è il momento delle accuse, anche pesanti. Ministri, professori universitari, scienziati, si scambiano aspre battute. Gli scienziati hanno espresso indignazione per lo stato della ricerca, senza soldi, senza prospettive immediate, costretta ad accontentarsi dei pochi spiccioli del Pil, poco più dell’1%. Quanto a Marino tutti hanno gridato allo scandalo, perché l’Italia permette a persone del suo calibro di andarsene. I ricercatori rimasti, quelli che lavorano nei nostri laboratori, si sono sentiti frustrati: «Non siamo di "serie B", i "bravi" non sono solo quelli che vanno all’estero». Giusto, ma il problema della ricerca ha molte facce e la fuga dei cervelli è comunque un fatto grave. Nel clima di tensione i toni si sono inaspriti. Il ministro Girolamo Sirchia in un certo senso ha dato ragione a Marino, sostenendo che nelle Università il fenomeno del «nepotismo», causa di tante "fughe", non è mai morto. Ha risposto il capo dei rettori, Piero Tosi, che ha detto: «Sirchia faccia i nomi, è un suo dovere come ministro della Repubblica. Non si possono fare accuse generiche e indiscriminate». Il responsabile della Salute ha replicato: «Riconosco i difetti del servizio sanitario nazionale, ma riconosco anche quelli dell’Università, che, con una propria catarsi, deve liberarsi dei suoi vizi». Secondo Sirchia la competizione è la molla che dovrebbe rilanciare il mondo accademico. Partendo dalla libearalizzazione degli stipendi dei professori: «Non è pensabile che siano uguali per tutti, per una persona di alto profilo e una di basso profilo. Da noi c’è stato un livellamento verso il basso che ha ucciso dei settori come la sanità, l’università e i ministeri. Occorre liberarsi di questa impostazione che protegge i peggiori». «Non è che non veda i difetti dell'Università, anzi - ha replicato il rettore Tosi -. Ma non si possono generalizzare le accuse e non si può non vedere quello che le università stanno facendo. Stanno inserendo nelle proprie comunità la cultura della valutazione, che porta automaticamente alla competizione» E’ intervenuto Guido Possa, viceministro dell’Istruzione e dell’Università, che rassicura: «Abbiamo un'abbondanza di talenti, eppoi i grandi cervelli, anche quando migrano, non vanno perduti, ma mantengono solidi legami con l'Italia». Quanto al nepotismo c’è chi lo attribuisce anche al sistema americano, ma con profonde differenze. «Non solo in Italia esiste il fenomeno - sostiene Cesare Peschle, direttore del laboratorio di ematologia e oncologia dell’Istituto superiore di Sanità - I baroni della medicina ci sono anche in America, ma sono quei pochi Nobel che cercano di far valere il proprio prestigio per ottenere fondi che vadano a beneficio della collettività. Di ben altro spessore, dunque, rispetto ai baroni nostrani». Anna Maria Sersale ____________________________________________________________________ Il Messaggero 7 gen. ’03 VENUTA:L’UNIVERSITÀ HA BISOGNO DI UN PROGETTO Caro direttore, le ripetute dichiarazioni del ministro Sirchia, sul ruolo del nepotismo nell'Università quale causa dei mali della ricerca italiana e della sua mancanza di rinnovamento, richiedono una risposta al fine di assicurare che l'analisi dei problemi nel settore più delicato per lo sviluppo economico e sociale italiano non sia offuscata da commenti deformanti o utilizzabili in maniera strumentale. Le dichiarazioni del ministro sono anche occasione di partecipazione al dibattito sull'Università che recentemente ha occupato le pagine dei maggiori quotidiani del paese e nel quale contributi provenienti da una particolare area geografica, Milano, hanno avuto sulla stampa un ruolo di riferimento sempre maggiore. Tale ruolo nasce dalla qualità di chi interviene e dall'autorevolezza di quanti ricoprono importanti ruoli istituzionali nazionali e non certo dall'intenzione di sostituire una visione ambrosiana a quell'articolata realtà che dovunque caratterizza un sistema culturale, quale quello universitario. Sarebbe facile ricordare al ministro Sirchia che nella Sanità, alla quale lo Stato destina risorse finanziarie pari a dieci volte quelle assegnate all'Università, il reclutamento è frequentemente controllato da fattori non aventi alcuna relazione con la salute dei cittadini (vedasi, ad esempio, l'effetto che il controllo dei partiti sul reclutamento del personale, una sorta di nepotismo politico, ha avuto sull'efficienza e sull'efficacia in tante aree del servizio sanitario). Una tale risposta sarebbe, però, poco utile al fine di un miglioramento della qualità e di un aumento della quantità della ricerca italiana che certamente il ministro Sirchia, persona di grande storia scientifica e culturale, vuole ottenere. L'accusa di nepotismo sistematicamente attuato, laddove provata, costituirebbe una grave lesione nella capacità innovativa del sistema scientifico universitario, ma fortunatamente per il Paese, per i suoi giovani e per l'Università tale accusa è ingiusta e ingiustificata. Anche se presente in qualche settore, in questi stessi settori il nepotismo su basi genealogiche è di dimensioni quantitative assolutamente limitate e insignificanti. In Italia abbiamo circa 45.000 tra professori e ricercatori. Chi si basasse su casi singoli o su singole esperienze personali, sia pure totalmente criticabili, sarebbe ingiusto nei confronti dei numerosissimi giovani che hanno guadagnato l'accesso ai ruoli universitari con una carriera basata su una formazione competitiva in Italia e all'estero. È, invece, pienamente condivisibile la critica alle facoltà e agli atenei di preferire lo sviluppo di quanti già presenti al proprio interno, di privilegiare, per esempio, il passaggio di un professore associato ad ordinario invece di assumere un giovane ricercatore o di favorire una vera mobilità tra gli atenei, che contribuisca a mantenere attiva l'osmosi culturale tra sedi ed esperienze diverse. Tale comportamento non appare giustificato dall'attuale condizione di ristrettezze finanziarie. L'affermazione che il costo della promozione dell'associato è inferiore a quello per l'assunzione ex-novo di un ricercatore è strumentale e opportunistica, ignora il contributo culturale innovativo legato all'ingresso di giovani figure e risponde spesso al bisogno della pax accademica. Ancor meno possono essere portati a giustificazione il rispetto, o meglio i varchi, della norma attuale sui concorsi di professore ordinario e associato con la previsione di due idonei. Tale norma ha certamente prodotto una forte pressione per un reclutamento ex-post: le facoltà e gli atenei si trovano con l'avere al proprio interno ricercatori o associati che hanno ricevuto da un concorso nazionale la qualifica superiore di professori associati o ordinari senza che, molto spesso, le stesse facoltà abbiano programmato in precedenza il bisogno di tali ruoli. Il risultato è che le facoltà, con un'accondiscendenza colpevole, permettono ancora una volta la promozione del personale interno. La Crui ha assunto posizioni molto chiare e da qualche tempo su questi problemi. Ha chiesto che sia eliminato il secondo idoneo nei concorsi. Un provvedimento semplice, immediatamente efficace e nella direzione della correzione degli effetti deformanti dei meccanismi attuali di reclutamento. La Crui ha dedicato particolare attenzione al problema più critico per il presente e soprattutto per il futuro dell'Università e del Paese: il reclutamento di giovani ricercatori. Questo problema è prioritario rispetto ad ogni altro, anche rispetto alla cosiddetta fuga dei cervelli. In un sistema pienamente aperto al reclutamento giovanile (come ora non è quello universitario italiano) la migrazione culturale sarà sempre presente: saranno sempre soprattutto i giovani ad assicurare, attraverso i viaggi della conoscenza per la propria crescita, la pienezza della comunicazione, non solo tecnica e professionale, tra sistemi diversi. Fra questi giovani ci sarà sempre chi troverà una sua collocazione in un Paese diverso da quello di nascita per i più svariati motivi, oltre a quelli personali anche quelli conflittuali con l'ambiente di lavoro di provenienza. Al di là di tale aspetto rimane comunque l'emergenza di assicurare l'accesso ai giovani, con la loro carica di entusiasmo e di innovazione, nel sistema universitario. Di questa emergenza la Crui si è fatto carico e ha chiesto ripetutamente che fosse lanciato un progetto giovani ricercatori da finanziare con l'anticipazione di risorse che nei prossimi anni saranno liberate dal pensionamento del personale ora in ruolo e che raggiungerà livelli tra il 40 e il 60 % dell'attuale organico. L'Università, presente su tutto il territorio nazionale, costituisce senza dubbio la maggiore risorsa nazionale per l'alta formazione e la ricerca ed è interesse strategico del paese assicurarne il miglior funzionamento. L'Università e gli universitari hanno il dovere, la volontà e le competenze per cambiare in coerenza con un nuovo ruolo nel Paese. Se è necessaria, come è necessaria, un'Università più integrata con le esigenze e con il futuro sociale ed economico dello Stato, è urgente sapere qual è il progetto del Paese sull'Università. Tale progetto richiede una sua formulazione esplicita e non derivata da atti apparentemente estranei ad un progetto specifico per l'Università o affidate a dichiarazioni di singoli rappresentanti istituzionali e non. Tale progetto deve essere sviluppato con il contributo di tutti gli interessati ma con la prioritaria responsabilità del governo e del parlamento, che non può essere ulteriormente rinviata. Salvatore Venuta * * Rettore dell’Università «Magna Graecia» di Catanzaro ____________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 2 gen. ’03 SIRCHIA E LA POLEMICA SUL NEPOTISMO "Sciocco non vedere i difetti dell'università Necessaria più competizione tra gli atenei" Roma. «E' una polemica fuori luogo: uno che non vuole vedersi allo specchio o è cieco o in malafede. Io voglio bene all'università, ma far finta di non vederne i difetti sarebbe sciocco e controproducente». Così il ministro della salute Girolamo Sirchia risponde al presidente della Conferenza dei Rettori, Piero Tosi, che lo ha invitato a fare i nomi su eventuali casi di nepotismo e gerontocrazia negli atenei italiani. E indica alcuni suggerimenti per innescare elementi di competizione fra atenei che possano migliorarne la qualità. "Se uno oggi vuole bene all' università - premette il ministro - invece di difendere i vizi deve promuovere le virtù». Secondo Sirchia non è una scoperta che «il nepotismo nell'università ci sia. Potremmo fare decine, centinaia di nomi - aggiunge -, ma è l' università che, con una propria catarsi, deve liberarsi dei suoi vizi; però non è con una legge che si migliora. L'autonomia è sacrosanta e non deve servire a replicare le cattedre ma a migliorare la ricerca, l'insegnamento. Mi occupo dell'università perchè la facoltà di medicina è parte integrante del servizio sanitario e le ripercussioni di un cattivo costume, o se si vuole di un mancato rigore, alla fine si riversano sui pazienti, sui giovani medici, sull'insegnamento e sulla ricerca». Secondo Sirchia l'università ha un'occasione storica: c'è un nuovo esame di Stato per i medici che entrerà in vigore dal prossimo anno e che si basa su scelte multiple e nel quale si deve superare il 60% delle domande per essere ammessi alla libera professione e all'iscrizione all'albo. «Così potrà accadere - afferma Sirchia - che in un certo ateneo venga promosso il 70% dei laureati in medicina, mentre in un altro il 30%; e se a questo dato si unisce anche un peso economico, prevedendo per esempio che l'università più brava prenda di più (i cervelli migliori, la migliore tecnologia), allora si innescherà una competizione che è fondamentale per lo sviluppo. Perchè finchè non c'è competizione - sottolinea Sirchia - non c'e qualità. E le università americane sono cresciute in grande misura proprio per questo motivo». «In Italia - sottolinea il ministro - c'è stato un livellamento verso il basso che ha ammazzato il Paese in diversi settori come la sanità, l'università e i ministeri. Occorre liberarsi da questa impostazione che protegge i peggiori, non certo i migliori». ____________________________________________________________________ La Stampa 6 gen. ’03 SIRCHIA: DIALOGO CON I MEDICI, MA BASTA PRIVILEGI TAVOLO TECNICO AL MINISTERO SUL RAPPORTO DI LAVORO: NUOVO ESAME DI STATO DAL 2004 «Ho intenzione di capire cosa vogliono i medici e cosa serve ai malati». Archiviato lo sciopero di dicembre, inizio d´anno all´insegna delle trattative e dei tavoli tecnici al dicastero della Salute. Nei prossimi giorni per il governo e i rappresentanti dei "camici bianchi" ricomincia la partita della revisione del rapporto di lavoro nel Servizio sanitario nazionale. E alla vigilia del negoziato tiene banco il "j´accuse" del ministro Girolamo Sirchia: «I sindacati sono influenzati dai partiti e danno voce solo ad alcuni medici». Al contrario, secondo il responsabile della Sanità, occorre ampliare l´orizzonte del colloquio: «Oltre ai sindacalisti, consulterò le società scientifiche e l´Ordine professionale». Nel settore, inoltre, «ci sono ancora gravissime distorsioni», la peggiore delle quali riguarda la libera professione intramoenia. «A fronte di lunghissime liste di attesa - accusa Sirchia - il sistema attuale premia coloro che pagano». E ciò «in virtù di un impianto solidaristico solo a chiacchiere», che nella realtà privilegia chi ha raccomandazioni o soldi. «La libera professione intramoenia - sostiene il ministro nel suo "manifesto" per la riforma - ha dato pessimi risultati, anche in termini economici. Occorre ripensare la libera professione dentro e fuori l´ospedale senza pregiudizi e crociate, nell´interesse dei malati. I medici, spesso demotivati, devono ritrovare il piacere di lavorare: quando il medico è contento, il paziente è servito bene». Oggi i sindacati dei "camici bianchi", secondo il ministro della Salute, sono troppo sindacalizzati, ma «al paziente interessa il medico contento e preparato: il resto non conta». Per quanto riguarda il contratto degli ospedalieri, quindi, porte aperte alle grandi società scientifiche. «Per i medici di famiglia - precisa Sirchia - la rappresentatività dei sindacati è molto diminuita. Occorre, quindi, sentire il polso degli ordini provinciali dei medici». In vista di una riforma che rischia di ridimensionare il loro ruolo, le sigle del comparto sanità sono più che mai sul piede di guerra. «Non si può andare avanti con i dispetti reciproci tra Regioni e governo - evidenzia il segretario generale nazionale Cisl, Giuseppe Garraffo - sul tappeto ci sono numerosi problemi da risolvere e con il prossimo contratto bisogna scongiurare ulteriori momenti di tensione, come avvenuto in Finanziaria sulla compatibilità tra incarichi ospedalieri e ambulatoriali». La "rivoluzione copernicana" annunciata da Sirchia suscita, poi, distinguo e prudenti aperture nella comunità scientifica. «Negli ultimi anni la professione medica ha subito un notevole svilimento e la meritocrazia è diventata un´utopia - osserva il professor Carlo Caruso, amministratore delegato del Parco Biomedico San Raffaele di Roma -. Oggi il chirurgo che compie ottocento interventi all´anno guadagna quanto quello che ne fa cento e, nonostante se ne parli da tempo, nella retribuzione continua a mancare qualsiasi criterio di incentivazione. Su un punto, però, Sirchia ha ragione: il contratto deve uscire da tavolo di lavoro composto da ministero, sindacati e tecnici puri, ossia esponenti delle società scientifiche». Inoltre le direzioni generali degli ospedali devono essere affidate non a manager esterni bensì a "camici bianchi" con competenze di economia sanitarie. «Discutere soltanto con le federazioni può andar bene per fissare lo stipendio di lavoratori dipendenti - aggiunge Caruso - i medici però non sono lavoratori dipendenti e basta: non si può dare un valore alla loro professionalità e alla ricerca scientifica in base a meri parametri sindacali». Dopo il discusso ritorno negli Usa di Ignazio Marino dell´Ismett, il centro-trapianti siciliano, altro tema caldo è quello della fuga dei cervelli all´estero. «L´eccellenza scientifica - spiega il ministro, che nei giorni scorso aveva imputato agli atenei di bloccare i giovani in favore del nepotismo - si ottiene puntando sul capitale umano, sulla motivazione delle persone e sull´organizzazione e la sinergia dei vari centri di eccellenza». Su questo tema, si è innescata una polemica con Piero Tosi, presidente della Conferenza dei rettori delle Università italiane, secondo il quale il rientro dei cervelli richiede il potenziamento delle strutture e non «generiche accuse». A giudizio di Sirchia il mondo accademico, comunque, ha un´occasione storica per valorizzare i talenti migliori, ossia il nuovo e più severo esame di Stato per i medici, che entrerà in vigore dal prossimo anno, basato su scelte multiple. Si deve superare il 60% delle domande per essere ammessi alla libera professione e all´iscrizione all´albo. «Così potrà accadere - sostiene il ministro - che in un certo ateneo venga promosso il 70% dei laureati, mentre in un altro il 30%; e se l´università con studenti più meritevoli verrà premiata con la tecnologia più innovativa, allora si innescherà una competizione fondamentale per lo sviluppo. Gli atenei americani sono cresciuti non perché prendono i soldi dallo Stato come pensa il rettore Tosi ma perché hanno la capacità di primeggiare sul mercato per qualità. Da noi gli stipendi dei professori devono essere liberalizzati, in quanto «non è pensabile che un docente di alto profilo prenda lo stesso stipendio di un´altro di basso profilo». Giacomo Galeazzi =========================================================== ____________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 10 gen. ’03 SENZA I 20 MILIONI DELLA REGIONE IL POLICLINICO RISCHIA LA CHIUSURA CAGLIARI. La mancata intesa tra l'Università e l'assessorato regionale della Sanità sul finanziamento da garantire al Policlinico rischia di provocare pesanti ripercussioni sul futuro della struttura di Monserrato: se non verranno garantiti in tempi ristretti i fondi indispensabili per assicurare i servizi, soprattutto quelli di emergenza, il Policlinico potrebbe essere chiuso. La circostanza è emersa nel corso di un'assemblea dei docenti della facoltà di Medicina durante la quale è stata denunciata la situazione di precarietà ed incertezza in cui sono costretti ad operare i docenti, mettendo in discussione la continuità didattica, elemento cardine del Policlinico. E' stata quindi ribadita con forza la necessità di un'immediata azione del rettore, del consiglio di amministrazione e del senato accademico per sollecitare l'intervento tempestivo dell'amministrazione regionale. Occorre infatti definire il debito che l'Università vanta nei confronti della Regione per l'attività svolta nell'ambito del Servizio sanitario nazionale. Il contenzioso oscilla tra i 18 e i 20 milioni di euro. E' indispensabile inoltre procedere alla costituzione della società mista Università-Regione per assegnare alla struttura il ruolo che le compete sia per l'assistenza sia per la didattica. Una volta costituito l'ente gestore, sarà possibile assicurare al Policlinico il vertice che ne delinei programmi, rilancio e prospettive. In questo contesto si collocano le rivendicazioni legate all'istituzione dei servizi di Pronto Soccorso e Rianimazione senza i quali sono compromesse l'assistenza agli ammalati gravi e le urgenze. E' stato invece completato il parcheggio. ____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 10 gen. ’03 RISCHIA LA CHIUSURA IL POLICLINICO UNIVERSITARIO contenzioso con la regione L’attività del Policlinico universitario di Monserrato potrebbe essere messa in discussione, dopo la mancata intesa tra l’Ateneo e l’assessorato alla Sanità sul finanziamento che la Regione paga per l’assistenza ai pazienti. L’Università vanta crediti per 7,5 milioni di euro relativi agli anni scorsi, ma dalla Regione non arriva un centesimo. Per questo, il Policlinico universitario potrebbe essere chiuso, com’è emerso nel corso di un’assemblea dei docenti della facoltà di Medicina. Durante l’incontro è stata denunciata la situazione di precarietà ed incertezza in cui sono costretti ad operare i docenti, mettendo in discussione la continuità didattica, elemento cardine del Policlinico. È stata quindi ribadita con forza la necessità di un’immediata azione del rettore, del Consiglio di amministrazione e del Senato accademico per sollecitare l’intervento tempestivo della Regione. Durante l’assemblea è stato definito indispensabile procedere alla costituzione della società mista Università-Regione per assegnare al Policlino il ruolo che le compete sia per l’assistenza sia per la didattica. ____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 12 gen. ’03 ALLARME POLICLINICO:RISCHIO CHIUSURA, I TIMORI DELLA COMMISSIONE SANITÀ Ibba: «La Regione trovi i soldi» Il Policlinico di Monserrato rischia la chiusura. Lo dice da mesi il rettore dell’università Pasquale Mistretta, lo hanno denunciato nei giorni scorsi i docenti della facoltà di Medicina. Ora la questione entra in consiglio regionale, in commissione sanità. «La Regione ha il dovere di trovare i 7 milioni e mezzo di euro per il Policlinico universitario», dice, con tono perentorio, Raimondo Ibba, componente socialista della commissione e presidente provinciale dell’Ordine dei medici. «I soldi si devono trovare nelle pieghe del bilancio 2003 che stiamo per discutere e devono servire a sanare i debiti pregressi e a garantire l’attività di tutte le sue componenti». Per Ibba «il Policlinico è una parte dell’industria della cultura della Sardegna, oltreché sede della formazione dei medici specialisti e quindi della qualità dell’assistenza sanitaria in Sardegna. La ricerca, la didattica e l’assistenza», aggiunge, «sono compito delle università ma anche tre momenti inscindibili della catena assistenziale della salute dei sardi che non possono venire meno». Ibba invita anche a definire «i contenuti del protocollo di intesa Asl-Regione- Università per la creazione di un’“Azienda mista di tipo B” che preveda il rispetto del ruolo degli ospedalieri nell’assistenza e l’esercizio della funzione didattica degli universitari senza prevaricazioni di carriera né mortificazioni individuali». Mercoledì erano stati i docenti a denunciare una situazione al limite del sostenibile. «L’Università», avevano ribadito, «vanta crediti per 7,5 milioni di euro, ma dalla Regione non arriva un centesimo. Per questo il Policlinico potrebbe essere chiuso». Durante l’incontro era stata denunciata la situazione di precarietà e incertezza in cui sono costretti ad operare i docenti, preoccupati per la continuità didattica, elemento cardine del Policlinico, che secondo i docenti sarebbe messa in discussione. I docenti di Medicina avevano chiesto «un’immediata azione del rettore, del Consiglio di amministrazione e del Senato accademico per sollecitare l’intervento tempestivo della Regione». Durante l’assemblea era anche stato definito «indispensabile» procedere alla costituzione della società mista «per assegnare al Policlinico il ruolo che le compete sia per l’assistenza sia per la didattica». Il rettore due mesi fa si era detto certo che la Regione avrebbe onorato il suo debito in tempi brevi». Invece sembra che, indebitata sino all’osso, l’amministrazione per ora non abbia intenzione (o la possibilità) di saldare il debito. D’altro canto l’Ateneo, che ha subito tagli drastici, è allo stremo delle forze. E se quei soldi non arrivano da Villa Devoto, si chiude. Qualcuno sarà contento, molti altri no. ____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 10 gen. ’03 BROTZU: L’UNIVERSITÀ È DA POTENZIARE NON DA COMBATTERE La cultura è una risorsa Tutte le ricerche costano e per tutte bisogna troverà i fondi necessari. Le facoltà umanistiche accusano quelle cosiddette scientifiche di costare troppo e tra le facoltà scientifiche vi è la stessa querelle. Quella a cui appartengo è sotto accusa per aver inciso troppo sul bilancio dell’Università. Ma, facendola molto breve, se l’assistenza medica che essa ha reso nel passato al Servizio sanitario nazionale fosse stata pagata, essa oggi sarebbe in attivo. Arrivare a scrivere «Il Policlinico come la Fiat» è un eccesso. “Medicina” da parecchi anni si sente trattata in maniera non giusta. Le sono stati affidati vari compiti didattici. Il primo è logicamente formare medici, poi formare odontostomatologi, poi preparare medici in varie specialità, alcune obbligatorie per svolgere attività ospedaliere come anestesia e rianimazione. Inoltre deve, per legge, preparare tecnici nei vari settori secondo le necessità della Regione. Per risolvere i vari problemi si vorrebbero applicare principi didattici incomprensibili a noi docenti e che non condividiamo. Uno studente impara a far il medico solo se frequenta per molto tempo le corsie. Se uno di noi non sta bene, cerca il medico più esperto. Ebbene oggi ci si dice che dobbiamo lavorare poco perché se lavoriamo costiamo. Per la prima volta mi viene detto «cerca di non lavorare, tanto lo stipendio è uguale» e così non consumi risorse. Abbiamo per anni lavorato presso strutture sanitarie (si può dire gratis, infatti il nostro stipendio era pagato dal Ministero, ma il frutto del nostro lavoro andava a vantaggio dei bilanci delle varie strutture ospedaliere) e ci siamo sentiti dire: lavora il più possibile. Oggi il Policlinico universitario è, giustamente, sotto accusa da parte di altre facoltà, perché viene finanziato con i fondi dell’Università, mentre potrebbe essere attivo se venissero pagate le prestazioni effettuate negli anni passati a favore dei pazienti sardi. L’Università è un bene che bisogna alimentare e non combattere. Essa ha il compito di fornire cultura a tutti, competenza specifica in settori spesso poco conosciuti, ma fondamentalmente di laureare studenti capaci di contribuire allo sviluppo della Sardegna. I nostri politici questo non sembrano comprenderlo, forse perché paga poco dal punto di vista elettorale, ma se vogliamo sviluppare la nostra isola dobbiamo potenziare tutta l’Università. La cultura forse è l’unica risorsa che non costa poi tanto, ma rende molto. Non desidero proprio che una facoltà sia costretta a cessare di svolgere la sua attività didattica per la scarsa considerazione che sembra mostrare tutto il mondo attorno a noi. Giovanni Brotzu Cattedra di Chirurgia Vascolare Università degli Studi di Cagliari ____________________________________________________________________ Corriere della Sera 12 gen. ’03 COSA SUCCEDE NEGLI OSPEDALI di PAOLO FALLAI Ospedali, gestione della spesa, ristrutturazioni: questi gli appuntamenti non rinviabili che attendono la sanità regionale. Con l’obbligo legale di far quadrare i conti in bilancio e quello morale di garantire efficienza al sistema della salute pubblica. I punti di partenza sono le inaugurazioni appena festeggiate: la giunta Storace ha approvato il piano di rilancio del policlinico Umberto I e quest’anno dovrà trasformarlo in provvedimenti concreti, sciogliendo tutti i «non detti» con l’Università La Sapienza che ne condivide la gestione. Inaugurata la nuova «piastra tecnologica» del San Camillo (il nuovo pronto soccorso) si dovrà ora mettere mano alla riorganizzazione dei reparti. La giunta regionale ha aperto, con grande soddisfazione, il Sant’Andrea, che era diventato il simbolo dell’inefficienza nella sanità laziale, immagine di un colosso desolato e vuoto da trent’anni, sull’orizzonte del Grande raccordo: ora sarà necessario completare le forniture di materiali, rendere meno simbolico il numero dei letti effettivamente operativi e soprattutto risolvere la grande «resistenza». Quella di tutte le strutture - e del personale - del policlinico Umberto Primo che finora a Grottarossa non ci sono voluti andare, puntando ad una duplicazione strisciante. Altri punti dolenti sono la verifica dei direttori generali della Asl e l’avvio della ristrutturazione della rete ospedaliera. Sui direttori generali, solo pochi mesi fa, Storace stabilì la conferma «a tempo» di tutti i manager vincolandoli ai risultati 2002. Più che una promozione apparve, all’epoca, il rinvio di una resa dei conti, mentre lontano dai riflettori si giocava un confronto tutto politico sugli schieramenti di riferimento degli stessi manager. Ora, con i risultati in arrivo, c’è da temere che vengano usati per saldare conti in sospeso, o per regolare pesi e rappresentanze all’interno della stessa maggioranza. Se questo è un duello che potrebbe giocarsi dietro le quinte, la ristrutturazione della rete ospedaliera sarà un affare di quelli che si vedono anche troppo bene. E l’assessore Vincenzo Saraceni dovrà mettere in campo competenza e aspirazioni per una rete che unisca copertura del territorio e efficienza delle strutture. Almeno quanto il suo collega di giunta Andrea Augello, che sta lì per far tornare i conti. Ma la vera prova sul campo saranno le prestazioni diffuse: c’è attesa per vedere all’opera il Centro unico di prenotazione regionale (numero verde 800.986.868), lungamente atteso e finalmente collegato a tutte le strutture pubbliche. Se funziona, sarà una rivoluzione vera per la sanità pubblica, in una regione dove quella privata si segnala per strapotere e occupazione strategica del territorio. In concreto funziona così: se dovete fare una ecografia all’addome e la Asl vi costringe ad aspettare più del termine massimo stabilito dalla Regione (ad esempio 60 giorni), il cittadino deve protestare (con gli impiegati? all’ufficio reclami?), pretendere che la Asl gli faccia la visita entro i termini (in che modo?) e ottenere che la Asl gli metta a disposizione lo specialista accollandosi la spesa relativa (si chiama prestazione in intramoenia). Per centinaia di migliaia di pensionati laziali, non sarà una passeggiata. pfallai@corriere.it ____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 11 gen. ’03 CGIL: BISOGNA POTENZIARE I PICCOLI OSPEDALI NON BROTZU E ASL 8 È possibile dotare la Sardegna di una rete ospedaliera razionale e consona ai bisogni dei cittadini ? Sono forse i piccoli ospedali la palla al piede della sanità sarda ? Nel 1997 in Sardegna avevamo 8991 posti letto, cioè 5,43 per ogni mille abitanti. Una dotazione quasi ottimale. La giunta regionale, nel luglio del 2001, ha varato un provvedimento col quale ha inteso razionalizzare la rete ospedaliera. Quali erano gli obbiettivi che si intendevano conseguire ? Non è dato saperlo. Quale razionale o quale metodologia è stata seguita? Nei documenti ufficiali non risultano metodologie. Il numero dei posti letto è stato portato a 8573, che equivalgono a 5,18 per ogni mille abitanti. Sono stati tagliati 418 posti letto, pari al 4,65 per cento. La mancanza di un metodo, o forse la necessità di conseguire obbiettivi diversi da quelli necessari ai cittadini, ha portato a peggiorare ancor più la distribuzione dei posti letto. Infatti, se si escludono la Asl 8 di Cagliari e l’ospedale Brotzu, sono stati tagliati 738 posti letto nelle restanti Asl. I posti letto di una popolazione di 1.179.106 abitanti, cioè del 70 per cento della Sardegna, sono passati dal 4,5 per mille abitanti al 3,88. Cioè un numero nettamente al di sotto di quello necessario. Nella Asl 8 e nell’ospedale Brotzu invece, i posti letto sono stati aumentati di 320 unità. Se facciamo riferimento alla popolazione di 475.364 abitanti, cioè del restante 30 per cento della Sardegna, i posti letto per mille abitanti sono passati da 7.73 a 8,4. Un numero quasi doppio di quello necessario. Sinceramente: si può chiamare, questo provvedimento, razionalizzazione della rete ospedaliera ? Due ulteriori esempi: Gli abitanti della Asl di Sanluri, 146.660, hanno a disposizione 172 posti letto mentre la Asl Iglesias-Carbonia, con la stessa popolazione ha 523 posti letto. Iglesias, addirittura, ha tre ospedali, quando tutti i servizi utili dovrebbero essere concentrati in unico ospedale. Le case di cura della Sardegna, ancora, hanno circa 1500 posti letto e la razionalizzazione non ne ha toccato uno. Se guardiamo al tasso di utilizzazione dei posti letto, infine, scopriamo che forse era necessario fare molto di più. Infatti, su cento ne vengono usati abitualmente 62,5. Se il dato viene riferito alla Asl 8 scopriamo che l’utilizzo è solo del 66,6 per cento. La sanità sarda vive da anni una grave crisi economica, organizzativa, di idee e di rinnovamento. I provvedimenti, come quelli sopra citati, vanno nel senso opposto ai bisogni della gran parte dei sardi; i provvedimenti assunti non si basano sui bisogni dei cittadini. Non si conoscono infatti le cause di ricovero negli ospedali e la gravità delle malattie. Non sono disponibili dati sulla mobilità sanitaria all’interno della regione, anche se si stima che sia altissima. Dai dati disponibili però si può sostenere che è arrivato il momento di potenziare i piccoli e medi ospedali e, di conseguenza, ridurre la disponibilità di posti letto del cagliaritano. Tonio Barracca Coordinamento Medici Cgil ____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 9 gen. ’03 TALASSEMIA: PER IL CENTRO SIRCHIA BOCCIA LE MARCHE L’Associazione dei pazienti: «La Regione chieda al Governo l’assegnazione della struttura» Talassemia, una speranza per il Centro Il ministro Sirchia boccia le Marche, torna in corsa la Sardegna Lo scontro tra il Governo nazionale e la Regione Marche riapre per la Sardegna la possibilità di ospitare il Centro per lo studio e la cura della talassemia. Con una lettera inviata ieri al presidente della Giunta Vito D’Ambrosio, il ministro della sanità Gerolamo Sirchia ha annunciato di aver revocato l’assegnazione del progetto alla città di Pesaro in quanto la Regione Marche non ha adottato le delibere necessarie entro la data fissata del 15 dicembre scorso. D’Ambrosio ha immediatamente replicato, confermando l’interesse e oggi a Roma il presidente marchigiano incontrerà Sirchia. Ma in questa battaglia può inserirsi la Sardegna, regione italiana con il più alto numero di casi di talassemia e con un ospedale, il Microcitemico di Cagliari, ad alta specializzazione nel campo. «Per noi - commenta Liviana viola, presidente regionale dell’Associazione italiana talassemici - si tratta di un bella notizia ma al tempo stesso di una opportunità da non perdere. È necessario che i cittadini, la Giunta e i consiglieri regionali e i parlamentari sardi si mobilitino immediatamente per fare in modo che il Centro nasca in Sardegna». Non sarà facile, ma la presidente ricorda che bisogna provarci: «Nei mesi scorsi - prosegue Liviana Viola - abbiamo organizzato una campagna di informazione e abbiamo raccolto le firme di ventimila cittadini a sostegno della richiesta di aprire in Sardegna il Centro. Siamo i candidati ideali, non soltanto per il gran numero di casi, ma anche perché l’ospedale Microcitemico ha una storia di venti anni di ricerche che hanno permesso di ridurre il numero di nascite di talassemici e di migliorare la qualità della vita di chi è già colpito dalla talassemia». La Sardegna però, anche nel caso in cui le Marche non rientrino in gioco, deve battere la concorrenza di altre cinque regioni: Lombardia, Lazio, Sicilia, Puglia e Campania hanno chiesto a loro volta l’assegnazione della scuola. «Proprio per questa ragione è necessario muoversi subito», avverte il capogruppo dello Sdi-Su in Consiglio regionale Peppino Balia, in prima fila sin dall’inizio di questa battaglia. «Considero grave il ritardo con cui la Regione sarda si è mossa, sebbene fosse stata sollecitata da più parti e sebbene l’assessore Giorgio Oppi fosse stato avvertito dei mancati adempimenti da parte delle Marche. Comunque - prosegue Balia - a questo punto è necessario che l’assessore e il presidente della Giunta chiedano l’assegnazione del Centro. L’assessore si faccia forte delle ventimila firme raccolte dall’Associazione talassemici: sarebbe gravissimo - conclude il capogruppo socialista - se la Sardegna venisse superata da un’altra regione». Oggi a Roma si terrà l’incontro tra il ministro e il presidente delle Marche. Un summit inevitabile a seguito della presa di posizione di Sirchia, che, dopo avere più volte sollecitato la Regione Marche a pronunciarsi a favore della trasformazione dell’ospedale di Pesaro, sede della scuola, in istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs), ha annunciato che il governo ha intenzione comunque di procedere «attraverso la costituzione di un Irccs in altra Regione», accusando le Marche di non aver voluto «collaborare». Il progetto sulla talassemia era partito in grande stile nel luglio 2002 con l’arrivo in Italia di un gruppo di piccoli palestinesi talassemici sottoposti a trapianto di midollo osseo nell’ospedale San Salvatore di Pesaro, ma poi si è arenato in questi mesi nel duello tra il ministro Sirchia, i vertici dell’azienda ospedaliera pesarese e Guido Lucarelli, direttore scientifico del progetto, da un lato, la Regione, il Comune e la Provincia di Pesaro dall’altro. Oggetto del contendere proprio la trasformazione in Irccs, la struttura più adatta, secondo il ministro per le attività della scuola, mentre gli enti locali e la Regione si sono più volte espressi a favore di un Ircss limitato alla sola attività oncoematologica. Grande sostenitore dell’assegnazione alle Marche della scuola è Mario Baldassarri, pesarese, vice ministro dell’Economia. A favore di Cagliari si sono invece pronunciati i parlamentari sardi del centrosinistra, che hanno scritto una lettera all’assessore regionale Giorgio Oppi chiedendo un suo intervento. Oppi, a sua volta, aveva garantito che in caso di rinuncia da parte di Pesaro la Sardegna si sarebbe mossa verso il ministero. Il caso sarà trattato dalla trasmissione “Excalibur”, su Rai Due condotta da Antonio Socci, in una puntata monografica sulla sanità che dovrebbe andare in onda il 17 gennaio. ____________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 11 gen. ’03 IL PRESIDENTE ADMS «AI DIABETICI SARDI CURE VECCHIE» CAGLIARI. In Sardegna ai diabetici non vengono applicati i risultati raggiunti dalla ricerca e, ad esempio, non sono disponibili le nuove insuline per il diabete di tipo 1. Lo ha denunciato il presidente dell'Associazione diabete mellito Sardegna (Adms), Michele Calvisi, nel presentare un bilancio 2002 del servizio sanitario applicato ai diabetici: «Ci sentiamo presi in giro e ci siamo chiesti perchè non riusciamo ad avere l'insulina sperimentata e ritenuta valida, già in commercio in tutta Europa tranne in Italia e in Sardegna, benchè siamo al primo posto nel mondo per la diffusione del diabete tipo 1. Inoltre la ricerca ha stabilito che il 50-60% di persone con diabete di tipo 2 non avrebbe sviluppato tale malattia se si fosse fatta prevenzione (con una attività fisica e una corretta alimentazione) ed allora applichiamo i programmi di prevenzione». L'Adms si è chiesta, inoltre, a cosa serva la ricerca se i diabetici non possono utilizzare moderni strumenti quali microinfusore, refrettometro, pungidito, per la migliore gestione del diabete. Oltre alla somministrazione di insulina e alla misurazione della glicemia vi dovrebbero essere anche figure professionali e interventi continui e capillari per i malati. Calvisi ha auspicato, infine, un diverso approccio nei confronti dei diabetici (considerati portatori di handicap grave) che chiedono di poter ottenere la patente. ____________________________________________________________________ Corriere della Sera 8 gen. ’03 I QUARANTENNI OBESI VIVONO SETTE ANNI DI MENO I risultati di uno studio dell' università di Groninga Il grasso uccide quanto le sigarette Gli uomini avvantaggiati rispetto alle donne Essere sovrappeso accorcia la vita fino a 3 anni Farkas Alessandra DAL NOSTRO CORRISPONDENTE NEW YORK - L' «epidemia» di obesità in atto nel mondo occidentale rischia di produrre danni maggiori di quelli del fumo sulla salute delle popolazioni. E' questo lo sconcertante risultato di un nuovo studio che per la prima volta è riuscito a dimostrare come la vita sedentaria e l' indulgenza in tavola uccidono quanto le sigarette. STUDIO - «I dati sono ben più drammatici di quanto non ci aspettassimo», ha commentato Luc Bonneux, uno degli autori della ricerca condotta dall' Erasmus Medical Center e dall' Università di Groninga e pubblicato sugli Annals of Internal medicine. I ricercatori olandesi hanno esaminato i dati raccolti tra il 1948 e il 1990 su un campione di 3.457 volontari tra i 28 ed i 62 anni a Framing ham in Massachusetts, analizzando per la prima volta non solo gli effetti del grasso sulle aspettative di vita degli obesi veri e propri, ma anche su quelle degli individui finora ritenuti in lieve sovrappeso. Oltre a contribuire allo sviluppo di mal attie letali quali disturbi cardiaci, ictus, tumori e diabete - proprio come il fumo - il grasso priva gli individui che ne sono affetti di svariati anni di vita. MEZZA ETA' - Il fattore «ciccia» colpisce a partire dalla mezza età. «Se sei obeso a 40 anni vivi circa sette anni in meno - spiega lo studio -; se sei sovrappeso ti accorci l' esistenza di almeno tre anni». Per «sovrappeso» si parla di un indice di massa corporea tra 25 e 29,9; per «obeso» di un indice superiore a 30. L' indice si ott iene dividendo la massa corporea per l' altezza. Una donna di quarant' anni, alta 166 centimetri che pesi all' incirca 67 chili viene pertanto considerata «sovrappeso» dagli scienziati, secondo cui la sua aspettativa di vita diminuisce di tre anni ri spetto alla media. Se la stessa donna fosse obesa, ossia pesasse circa 80 chili, la durata della sua esistenza diminuirebbe di circa sette anni. Leggermente più rosea la prospettiva per il sesso forte. Un uomo della stessa età che sia solo sovrappeso avrà una diminuzione identica nell' aspettativa di vita - tre anni - ma nel caso egli sia obeso, il crollo dell' aspettativa di vita è lievemente inferiore: il maschio obeso camperà circa 5,3 anni meno del coetaneo smilzo. COMBINAZIONE LETALE - L' a bbinamento più pericoloso di tutti è mangiare e fumare insieme. Le donne obese e fumatrici muoiono in media 7,2 anni prima rispetto alle fumatrici non in sovrappeso e 13,3 prima delle non fumatrici in forma. Per gli uomini obesi e col vizio del fumo la vita si accorcia in media di 6,7 anni rispetto ai coetanei normopeso e di 13,7 anni paragonati ai soggetti in forma e non fumatori. E a complicare le cose è il fatto che, come per il fumo, anche le diete tardive spesso non bastano. Chi ingrassa si n da giovane, secondo lo studio, accresce i rischi per la salute e la durata della vita. «Questo studio dimostra che se un soggetto è in sovrappeso in questo periodo della vita, anche se poi dimagrisce, rimane ad alto rischio di morte precoce - comme nta Serge Jabbour, direttore della clinica del dimagrimento al Thomas Jefferson University Hospital di Philadelphia -. Il messaggio è che bisogna preoccuparsi per tempo della propria linea». Negli Stati Uniti, dove l' obesità ha raggiunto livelli epi demici colpendo quasi i due terzi della popolazione e un numero impressionante di giovanissimi, la ricerca olandese ha avuto un' eco enorme. Le autorità sanitarie che da anni esortano i cittadini a mettersi a dieta, pensano di usarla per lanciare nuo ve campagne all' insegna dello slogan: «Magri si vive più a lungo». Ma secondo gli esperti interpellati dai media, la soluzione del problema è molto semplice. «Se volete una vita lunga e sana - spiega il dietologo Tom Milkan -, mangiate di meno e non fumate». Alessandra Farkas ____________________________________________________________________ Corriere della Sera 9 gen. ’03 L' ADATTAMENTO DEL CORPO AL FREDDO DIPENDE DAL NOSTRO DNA Caprara Giovanni MILANO - Se soffriamo il freddo o se amiamo i climi caldi dipende dai nostri geni. A questa conclusione è giunto il professor Douglas Wallace con il suo gruppo di ricercatori dell' Università della California indagando sulla mappa del genoma umano co mpilata dall' Human Genome Project e facendo riferimento al Dna di 104 persone nei diversi continenti. Così ha scoperto che una piccola parte del nostro codice, nota come Dna mitocondriale, nasconde le informazioni dalle quali dipende la nostra sensi bilità e il nostro adattamento alle diverse temperature. Nei risultati pubblicati sui Proceedings of the National Academys of Sciences, Wallas nota come vi siano notevoli diversità in questa parte del Dna fra le popolazioni della Terra. Le maggiori v ariazioni si riscontrano in Africa e le minori in Siberia. Il Dna mitocondriale - spiega lo scienziato - assomiglia ad una fornace che produce calore. Se funziona bene genera molta energia senza disperdere calore. Quando invece è inefficiente allora succede il contrario. Per questo ha constatato che gli abitanti delle regioni fredde dispongono di un gruppo di geni che si sono modificati sino ad essere poco funzionali da questo punto di vista. Ma ciò ha favorito l' adattamento a certi climi. Inol tre questi geni devono probabilmente averne influenzati altri dai quali dipende il nostro bisogno di cibo. E sarebbe proprio per questo che quando c' è freddo il nostro corpo ha bisogno di essere alimentato in maggiore quantità. «E' un risultato inte ressante anche se ancora molto parziale - dice Edoardo Boncinelli, direttore della Sissa di Trieste - ma in generale sarà sempre più così. Cioè andando avanti scopriremo che vi saranno sempre più atteggiamenti o manifestazioni dell' organismo spiegab ili in questo modo, trovandone traccia nella nostra mappa genetica. Credo che potremo persino arrivare a definire anche la tendenza a risparmiare oppure a spendere. Ma per il momento rimangono ancora incertezze sui dati perché la base di partenza del le indagini è ancora troppo limitata». G. Cap. ____________________________________________________________________ Le Scienze 30 Dic. ’02 DA CELLULE STAMINALI A RENI La nuova tecnica potrebbe aprire la strada a una alternativa ai trapianti Un gruppo di ricercatori guidato da Yair Reisner, del Weizmann Institute of Science, ha indotto cellule staminali umane e di maiale a crescere e svilupparsi in reni funzionanti in topi di laboratorio. Il metodo, descritto sulla rivista "Nature", potrebbe portare a una soluzione del problema della perenne scarsità di reni per il trapianto. Le scoperte suggeriscono che il tessuto fetale umano, o di maiale, potrebbe prendere la forma e la funzionalità di un rene sano, anche se trapiantato negli esseri umani. Il tessuto dei maiali, a differenza degli organi interi, non dovrebbe causare forti reazioni di rigetto, come è stato dimostrato dal recente trapianto di cellule produttrici di insulina prelevare da un feto di maiale. I ricercatori sperano quindi che le cellule staminali di maiale possano fornire una fonte inesauribile per i pazienti che attendono un rene. Reisner ha trapiantato cellule umane e di maiali precursori di reni in topi. Entrambi i tessuti hanno dato luogo alla formazione di reni delle stesse dimensioni di quelli di topo e funzionali. In un esperimento successivo, i ricercatori hanno iniettato linfociti umani in topi effetti da immunodeficienza, per avere un'idea della possibile risposta immunitaria umana, con risultati incoraggianti. La procedura è ora in fase di studio preclinico, ma se tutto va bene potrebbe diventare utilizzabile entro pochi anni. ____________________________________________________________________ Il Messaggero 11 gen. ’03 LA VITA SI ALLUNGA: 3 MESI IN PIÙ OGNI ANNO L’Unione europea avvia uno studio su 1.000 centenari di vari paesi. La scansione del loro genoma per scoprire il segreto Le donne europee si confermano le più longeve: 80 anni contro i 76 degli uomini di CARLA MASSI ROMA - Ha spento 111 candeline. Orsola Perego, ieri, nella casa di riposo di Chiavenna, ha festeggiato il suo compleanno e il titolo di signora più anziana d’Italia. Al suo fianco la famiglia "ristretta": circa un centinaio di persone tra figli, nipoti e pronipoti. Orsola è una delle quattromila persone che nel nostro paese, hanno raggiunto o superato il secolo di vita. Un esercito di super-nonni destinato a diventare sempre più numeroso. In Europa, infatti, dal dopoguerra ad oggi, l’età media si è innalzata al ritmo di tre mesi ogni anno. Facendoci raggiungere quota 80 per le donne e 76 per gli uomini. Ma la previsione è di un’ulteriore allungamento dell’età. Chi sono i fortunati Matusalemme? Quali particolari segreti custodisce il loro corpo per arrivare a oltrepassare i cento? Qual è il disegno della loro mappa genetica? Proprio per costruire il profilo, il più possibile completo, del nonno over 100, l’Unione Europea ha deciso di far scendere in campo una task force di geriatri. Questi avranno il compito di reclutare oltre mille centenari nei vari paesi della comunità per sottoporli alla scansione del genoma. Obiettivo dei diversi laboratori coinvolti è quello di individuare i geni che presiedono la longevità. In particolare lavoreranno su coppie di fratelli che hanno vissuto a lungo e su coppie di gemelli. L’annuncio è stato dato a Bologna nel corso di un Forum dell’Unione Europea organizzato dall’università e dall’Istituto nazionale di ricovero e cura anziani. «Fino ad oggi - spiega Franco Rengo presidente della Fondazione per lo studio e la ricerca sull’invecchiamento - sono state studiate solo parti del patrimonio genetico. Lavori settoriali che hanno riguardato l’immunologia o l’apparato cardiovascolare. Con questo progetto arriveremo a poter valutare l’intero assetto genetico dei centenari. Un grande obiettivo, un grande patrimonio anche se, fino ad oggi, abbiamo la certezza che i geni influiscono sulla longevità per il 30% e lo stile di vita per ben il 70%». I risultati degli studi dell’Unione europea, secondo gli esperti, serviranno più per i giovani che per i nonni. Si pensa, con ogni probabilità, ad un test predittivo. Ad un esame che,con un largo margine, permetta di "leggere" che cosa accadrà durante la vecchiaia. I tempi per lavorare, sono le statistiche a parlare, sembrano anche essere molto stretti: gli italiani che hanno superato i 65 anni sono oggi il 18% della popolazione. Su cinque donne che muoiono una ha 90 anni o più. E ancora. I lavoratori fra i 20 e i 40 anni, entro il prossimo ventennio, diminuiranno del 40%. Vale a dire sei milioni di lavoratori in meno. Da noi ma anche in Francia e Germania. Senza immigrati la popolazione della Ue crescerebbe al rallentatore come dimostra l’indagine Eurostat appena uscita. Secondo l’indagine il 75% dell’aumento della popolazione europea nel 2002 è frutto solo dei flussi migratori. La crescita naturale, la differenza cioè tra i nuovi nati ed i morti, rappresenta un aumento medio, nella Ue, di solo lo 0,8 unità per migliaio di abitanti. Grazie alle migrazioni la crescita complessiva tocca le 3,6 unità per migliaio di abitanti. La Ue lavorerà sui super-nonni ma, qualche segreto, già si conosce: il 90% dei supervecchi ha goduto di buona salute fino ai 90 anni; gruppo sanguigno 0; valori più alti di colesterolo Hdl (quello “buono") protettivo delle pareti dei vasi arteriosi. Infine, un consiglio: prendere esempio dai sardi. Con una popolazione di solo 1,6 milioni di abitanti l’isola vanta ben 222 centenari. ____________________________________________________________________ La Stampa 11 gen. ’03 UN FARMACO ANTI ICTUS DAI PIPISTRELLI VAMPIRI UN PARTICOLARE ENZIMA USATO COME ANTICOAGULANTE corrispondente da NEW YORK Il rimedio agli ictus potrebbe venire dalla saliva dei vampiri. L'ipotesi viene avanzata sull'ultimo numero del «Journal of the American Hearth Association» che rivela il successo avuto in Australia in fase di sperimentazione del nuovo farmaco «Dspa», derivato direttamente dalla saliva del «Desmodus rotundus», una delle tre specie di pipistrelli-vampiri esistenti in natura che non si cibano di insetti ma esclusivamente di sangue. Il segreto della saliva di vampiro sta nel fatto che contiene un particolare enzima che fa scorrere velocemente il sangue dal corpo della vittima dentro quello dell'animale e quindi è un perfetto anti- coagulante adatto a facilitare la circolazione del sangue quando una persona viene colpita da ictus a causa di un blocco dell'afflusso di sangue verso il cervello. Il «Desmodus rotundus» è di proporzioni molto ridotte - 75 mm di lunghezza e 3,5 cm di apertura alare - ma ha un morso particolarmente efficace e doloroso. Prima di colpire si posa delicatamente sulla schiena dell'animale prescelto - in genere si tratta di bestiame - e quindi all'improvviso infila i denti affilati facendo scorrere il sangue attraverso la lingua ad altissima velocità. La presa dei denti ed il risucchio del sangue sono talmente forti che il vampiro riesce a rimanere attaccato al corpo anche se ostacolato da movimenti bruschi e da colpi di coda. Il piccolo vampiro volante solo raramente infierisce sugli esseri umani. Sue Barbard, dipendente dello Zoo di Atlanta, in Georgia, è una delle vittime conosciute e ricorda l'esperienza come molto dolorosa: «All'improvviso ti senti risucchiare tutto ciò che è sotto la pelle». I tradizionali luoghi di riproduzione del pipistrello-vampiro sono in America Centrale e Meridionale dove si nasconde in vecchie miniere, pozzi in disuso e grotte con scarsa illuminazione per poi diventare l'incubo di allevatori ed agricoltori, che lo temono soprattutto a causa del rischio che porti con sè il contagio della rabbia. Al momento l'unico farmaco anti-coagulante autorizzato negli Stati Uniti deve essere assunto entro un periodo massimo di tre ore ma solo il cinque per cento dei pazienti riesce a raggiungere l'ospedale entro questo tempo limite: i ricercatori della Monash University, in Australia, ritengono che l'uso del «Dspa» potrà consentire un intervento di soccorso per un periodo assai più lungo, fino a sette ore dopo l'ictus. «Il "Dspa" allunga di molto i tempi di possibile intervento medico dopo essere stati colpiti da un ictus - spiega Rob Medcaf, capo del team dei ricercatori australiani - e ciò potrà contribuire a salvare la vita di numerose persone». Gli esperimenti finora eseguiti su topi in Australia hanno dato risultati soddisfacenti - anche perché è stata riscontrata una diminuzione del rischio di versamenti interni - ed ora inizia una fase di test su esseri umani in Europa, Asia, Australia e negli Stati Uniti da parte della «Food and Drug Administrazion», l'ente che sorveglia la qualità di cibo e medicinali. Il fatto di aver deciso di usare la saliva di vampiro a fin di bene non disturba troppo i ricercatori: «Già da tempo in medicina si usano veleni di serpenti e insetti assassini con funzioni molto differenti - osserva Medcaf - i vampiri non sono che un'altra delle terapie possibili che ci vengono offerte dalla natura». Non tutti tuttavia ritengono che la saliva di vampiro possa essere un rimedio ottimale contro gli ictus: «Il problema di fondo è che il danno al cervello viene fatto entro le prime tre ore, intervenire dopo può servire a poco» osserva Keith Siller, neurologo dell'Università di New York. Maurizio Molinari