DOCENTI, CONCORSI ALL’UNIVERSITÀ - PIÙ SPAZIO AI DOCENTI A CONTRATTO - LO STATO GIURIDICO DEI PROF - II NODO DEL CONCORSO PER RICERCATORE - I RETTORI: STOP ALLA RIFORMA MORATTI - IL MODELLO AMERICANO? E’ GIÀ IN DECLINO - IL CORAGGIO DI CAMBIARE - IL RISCHIO DI CAMBIARE IN CORSA - L'ISTRUZIONE VUOLE LA SUA ECONOMI - LA HIT MONDIALE DELLE UNIVERSITÀ - ATENEI, POCHE DONNE AL VERTICE - MA LA LEADERSHIP MASCHILE È DESTINATA A TRAMONTARE - SULLA RICERCA SFIDA IN SALITA - L' EUROPA DISUNITA DELLA RICERCA - BRUXELLES LANCIA L'ALLARME: SENZA FRENI LA FUGA DEI CERVELLI - USA, GLI ATTIRA-CERVELLI - SCIENZA GIACOBINA AL BIVIO - LAUREARSI COSTA CARO - MISTRETTA CONTRO LA LAUREA PER GLI AUTISTI - ERSU NEL CAOS, REGIONE SOTTO ACCUSA - OPINIONI DI SCIENZIATI E SOUBRETTE - ================================================================== E ORA CHE L’ITALIA CREDA NEL BIOTECH - POLICLINICO: TOCCA AL CONSIGLIO - CINQUANTA TRA LA STAZIONE DI CAGLIARI E IL POLICLINICO - A NUORO UN CORSO UNIVERSITARIO PER PREPARARE INFERMIERI - RISOLTO IL REBUS DEI VACCINI - COSÌ I GENI COMUNICANO TRA LORO - FALLISCE NUOVA TERAPIA DELLA FIBROSI POLMONARE - IL SESSO FA BENE ALLA SALUTE - UNA TEORIA SULL'ORIGINE DELL'AIDS - UNA MOLECOLA CONTRO L'ASMA - LA VITAMINA D ABBASSA IL RISCHIO DI SCLEROSI MULTIPLA - VALUTAZIONI ETICO-GIURIDICHE CURE MEDICHE E TESTIMONI DI GEOVA ================================================================== ______________________________________________ L’Unione Sarda 17 Gen. 04 DOCENTI, CONCORSI ALL’UNIVERSITÀ Via libera del Governo al disegno di legge sul reclutamento dei professori I ricercatori saranno assunti con contratti Co.co.co. Roma Il ritorno ai concorsi nazionali per la selezione dei professori, ricercatori reclutati con contratti Co.co.co, retribuzioni legate anche al merito, istituzione di cattedre ad hoc da parte di imprese o enti: sono alcune delle novità introdotte dal disegno di legge delega per il «riordino dello stato giuridico e del reclutamento dei professori universitari» approvato ieri dal Consiglio dei ministri. Un provvedimento che - ha spiegato Letizia Moratti - mette l’Italia in linea con gli assetti europei. Ecco, in sintesi, i punti qualificanti del ddl Moratti. DocentiI professori, ordinari e associati, verranno reclutati attraverso concorsi nazionali distinti, a cadenza annuale. Il numero dei posti disponibili per settore scientifico- disciplinare sarà pari al fabbisogno indicato dalle università (per cui è garantita la relativa copertura finanziaria) incrementato di una quota non superiore al 20% per consentire un margine di flessibilità tra un concorso e l’altro. Per quanto riguarda gli incarichi a tempo determinato, potranno avere una durata di anni, rinnovabile una sola volta; questi contratti a termine potranno essere trasformati, anche prima della scadenza, in contratto a tempo indeterminato previa valutazione del docente in base a criteri definiti dalle Università . RicercatoriNon si faranno più concorsi per nuovi ricercatori. Per svolgere attività di ricerca e di didattica integrativa le università possono stipulare contratti di collaborazione coordinata e continuativa con possessori di laurea specialistica, ovvero con studiosi in possesso di una qualificazione scientifica adeguata alle funzioni da svolgere. _______________________________________ Il Sole 24Ore 14 gen. ’04 PIÙ SPAZIO AI DOCENTI A CONTRATTO Si sblocca il Ddl sullo stato giuridico - Pensione a 70 anni ROMA a Si sblocca la riforma dello stato giuridico dei docenti universitari. Ieri, nella riunione preliminare del Consiglio dei ministri è stato raggiunto un accordo di massima sul testo messo a punto dal ministro Letizia Moratti e pronto ora per l'esame della prossima riunione di governo. Nei giorni scorsi c'erano state molte discussioni tra Istruzione, Tesoro e Funzione pubblica e anche forti pressìoni di An. Alcuni problemi sono stati superati, altri saranno rinviati alla discussione in Parlamento dopo l’ ok dell'Esecutivo. Il disegno di legge - in tre articoli secondo l'ultima versione - delega il Governo a emanare decreti legislativi e norme attuative che, innanzitutto, ripristinano il concorso nazionale per reclutare i docenti universitari. Le selezioni saranno fatte ogni due anni, una volta per i professori ordinari e una volta per gli associati, mentre sparisce la fascia dei ricercatori. Nelle commissioni di concorso ci sarà anche «la partecipazione di docenti designati dagli atenei dell'Unione europea» come si legge nella bozza del testo. Chi vince la selezione ha un primo incarico temporaneo di tre anni, che può essere rinnovato per altri tre al massimo. Le università possono coprire fino al sei per cento dei posti disponibili «con studiosi stranieri, o italiani impegnati all'estero, di chiara fama» ma è necessario il nulla osta del Ministero. Molto spazio è concesso alla possibilità per gli atenei di stipulare contratti di insegnamento di diritto privato, per non più di tre anni consecutivi, con il limite -solo per le statali - del 50% del numero dei docenti di ruolo. Il trattamento economico dì questi contratti deve essere compatibile con il bilancio dell'ateneo e rispettare un decreto Miur- Tesoro che sarà emanato ad hoc. Imprese, fondazioni e altri soggetti pubblici e privati potranno finanziare la creazione di cattedre. I ricercatori confluiscono in un ruolo a esaurimento. Sono previsti contratti quinquennali, rinnovabili per altri cinque. È probabile però. che in Parlamento spunti una norma che tenda a garantire un futuro certo per questa classe di insegnanti. Il trattamento economico dei professori è costituito da una parte fissa - che corrisponde all'attuale stipendio del docente a tempo pie no - e una parte variabile ed eventuale, corrisposta per «gli impegni ulteriori» oltre quelli fissati dalla legge. Il monte ore obbligatorio cambia: nelle 350 ore annue si passa da 60 a 120 ore destinate alle attività didattiche. Non dovrebbe essere un fatto solo virtuale o teorico: il maggiore impegno è legato anche alla riduzione delle supplenze nelle università, condizione necessaria per trasformare l'attività a tempo definito - che sparisce - in quella a tempo pieno. Nuove anche le regole di pensionamento: attualmente il limite di età è di 75 anni, viene ridotto a 70. Si stabiliscono poi per gli associati quote riservate di accesso, pari al 15%, nei concorsi a professore ordinario; e della stessa percentuale, per i ricercatori che fanno il concorso da associato. Il costo del provvedimento è stimato in circa 50 milioni di euro l'anno e le somme sono legate ai risparmi «derivanti dalla contestuale riduzione delle supplenze e degli affidamento rispetto a quelle conferite negli anni precedenti». Un fatto è certo: il ministero dell'Economia terrà gli occhi ben aperti. E An si farà sentire ancora, anche e soprattutto per motivi economici: il tema del finanziamento delle università ritornerà presto in ballo, dopo le discussioni dell'ultima Finanziaria. MARCO LUDOVICO ______________________________________________ IL Messaggero 15 Gen. 04 LO STATO GIURIDICO DEI PROF Università, la riforma avanza tra le polemiche Il governo ha varato il disegno di legge delega. Il ministro: così saremo in linea con l’Europa ROMA Il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge delega che riforma lo stato giuridico dei docenti universitari. Ora dovrà essere discusso in Parlamento. Ecco i punti salienti del documento che cambierà, in caso di approvazione, le carriere dei cattedratici e il loro accesso negli atenei. 1) Sarà il Miur, il ministero di università e ricerca, a fornire i criteri per giudicare se un professore è idoneo. Inoltre il ministero stabilirà le modalità di formazione delle commissioni giudicatrici. 2) Il concorso per professori verrà centralizzato, gli atenei attingeranno da una lista unica di idonei. 3) Le università possono stipulare convenzioni con imprese e fondazioni per realizzare programmi di ricerca affidati ai professori universitari. 4) Al posto degli attuali ricercatori, entrati nelle università con un concorso, e che continueranno a lavorare “ad esaurimento”, le università stipuleranno contratti di collaborazione coordinata e continuativa con possessori di laurea specialistica. I contratti avranno una durata massima quinquennale e potranno essere rinnovati una sola volta. 5) Il rapporto di lavoro dei professori sarà compatibile con lo svolgimento di attività professionali e di consulenza esterna. 6) Il loro trattamento economico sarà costituito da una parte fissa e da una eventuale parte variabile. La prima, corrispondente al trattamento economico del professore a tempo pieno sarà correlata a un impegno di 350 ore annue, di cui 120 di lezioni effettive. La seconda dipenderà da impegni ulteriori in attività di ricerca, didattica e gestionale. Il ministro Moratti ha definito il provvedimento «in linea con gli assetti europei visto che tante novità, come ad esempio i professori a contratto, in altri Paesi già esistono da tempo. L'Università ha sostenuto darà maggiori garanzie di qualità e di flessibilità. Con la lista unica di idoneità nazionale dei docenti si supererà il localismo che si è determinato negli ultimi anni e si conferirà maggiore libertà al sistema, con riferimento alla diversa tipologia di contratti che si potranno effettuare». Polemiche le opposizioni e il mondo universitario. «Un nuovo schiaffo, un nuovo atto di arroganza e totale disprezzo delle più elementari regole di dialettica politic», così commenta Giovanna Griffagnini, capogruppo dei Ds in commissione Cultura alla Camera. La Margherita chiede le dimissioni del ministro mentre l'Adi, l’associazione dottorandi e Dottori di ricerca, ritiene che la riforma «farà esplodere la fuga dei cervelli». An chiede un ulteriore approfondimento del disegno di legge mentre Piero Tosi, presidente dei rettori, sottolinea che questa legge è stata approvata senza il necessario confronto con il mondo scientifico e senza la necessaria copertura finanziaria. _______________________________________ Il Sole 24Ore 11 gen. ’04 II NODO DEL CONCORSO PER RICERCATORE Si parla spesso del reclutamento delle nuove leve dell'Università, con toni fortemente polemici, senza entra,,e nel merito della legislazione vigente. Infatti, vorrei sottolineare che non è tanto la condotta di molte commissioni da criticare quanto piuttosto la stessa legge 3 luglio 1998, n. 210 che regola i concorsi. Questa legge per i concorsi per ricercatore prevede che venga designato un solo "idoneo" senza spiegare perché tra dieci partecipanti ci deve essere solo un idoneo, senza una graduatoria tra tutti i concorrenti, come se questi fossero del tutto incapaci. Sarebbe certamente meglio costruire un confronto serio tra tutti i partecipanti, con una graduatoria attendibile, tesa a evidenziare il fatto che non c'è un solo idoneo ma un primo, un secondo... Per fare questo bisogna arrivare alla definizione di un punteggio basato sulla presentazione di titoli, pubblicazioni, scritti e orale che, necessariamente, per evitare una discrezionalità assurda, deve prevedere un punteggio massimo per ogni categoria di concorso. Bisogna poi scegliere i criteri. La legge parla, a questo proposito, di rilievo internazionale? A cosa serve se non si dice chiaro, ad esempio, che chi ha avuto recensioni su riviste scientifiche internazionali prende tre punti, chi ha una pubblicazione in una raccolta pubblicata nell'istituto di appartenenza un punto o, meglio, mezzo punto? Se non si stabilisce un punteggio si arriva all'assurdo che, come capita, una pubblicazione introvabile né, peraltro, mai cercata da nessuno, venga confrontata con una che ha avuto recensioni su riviste specializzate; che un ricercatore invitato da università straniere venga confrontato con uno che parla ai convegni "interni", dove ci sono solo studenti e un professore amico... ______________________________________________ IL Messaggero 17 Gen. 04 I RETTORI: STOP ALLA RIFORMA MORATTI La protesta dei vertici dei 70 atenei italiani, riuniti ieri. Parla il responsabile di Roma Tre «Assurdo eliminare il concorso dei ricercatori», dice Guido Fabiani di LUIGI PASQUINELLI ROMA L’università boccia il ministro Moratti. La proposta di riforma dello stato giuridico dei docenti e dei sistemi di accesso alla carriera non piace ai cattedratici. Oggi la Conferenza dei rettori (Crui) renderà noto il comune, se non addirittura unanime, malcontento. E chiederanno modifiche alla futura legge. Guido Fabiani, rettore di Roma Tre, non lascia dubbi sullo stato d’animo dei magnifici settanta (tanti gli atenei italiani) ieri riuniti per discutere il provvedimento ministeriale che attraverso i contratti a termine vorrebbe introdurre in facoltà e istituti flessibilità e mobilità. «Siamo rimasti sconcertati dice Fabiani dalla pochezza del documento. Il testo denota una scarsa conoscenza del sistema. Le analisi sono approssimative e superficiali». Tra i punti più controversi: Abolizione della figura del ricercatore . «La nuova legge sostiene il ”magnifico“ istituirebbe per didattica e ricerca contratti a termine, di cinque anni rinnovabili, da assegnare a candidati in possesso della sola laurea specialistica. I nuovi ricercatori non dovranno più sostenere concorsi. Ciò comporterà automaticamente la loro dequalificazione professionale. I vecchi ricercatori, parliamo di 25 mila persone, verranno invece condannati all’estinzione, quindi delegittimati, con tutte le conseguenze del caso: frustrazioni, demotivazione, tensioni con i nuovi». Orari . Il piano prevede un impegno di 350 ore di cui 120 da dedicare alla didattica. «Oggi le ore di didattica assicura il rettore della terza università romana arrivano anche a 250 all’anno. Le 120 ore non aumentano, come ritiene il ministro, ma diminuiscono il tempo dedicato agli studenti». Stipendi flessibili . Il testo prevede che i docenti possano “arrotondare“ aumentando le ore di lavoro. «Ma il documento precisa Fabiani recita anche: gli stipendi possono crescere sulla base delle risorse disponibili nell’università. Ora, come è noto, risorse disponibili nelle università non ci sono. Il ministero suggerisce allora: abolite le supplenze e finanziate con quei soldi la flessibilità. Ma i soldi delle supplenze sono almeno dieci volte inferiori alle stime del ministero. Ripeto: non sanno come funziona l’università». Il concorso per docenti . Non si svolgerà più su iniziativa dei singoli atenei ma a Roma, con cadenza regolare, biennale. Attualmente per ogni posto disponibile vengono dichiarati idonei due candidati. «Anche in passato il concorso era centralizzato, non si può tornare semplicemente indietro. Il problema dei concorsi si risolverebbe con la proclamazione di una sola idoneità. E bisognerebbe riflettere sul meccanismo di composizione delle commissioni». ______________________________________________ IL Messaggero 15 Gen. 04 IL MODELLO AMERICANO? E’ GIÀ IN DECLINO Gli atenei hanno cambiato pelle, avrebbero bisogno di analisi concrete non di approcci ideologici di LUCIANO RUSSI ERA inevitabile che il mito dell’Università “all’americana” conquistasse definitivamente cuore e cervello dell’Esecutivo “all’italiana”. I rettori delle quasi ottanta università del nostro Paese ne hanno “avuto contezza” (si diceva una volta) sin dalle prime visite di cortesia che il ministro Moratti e il suo staff, appena insediati, hanno compiuto nella sede della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane. Il ministro infatti non perse tempo a manifestare fastidio e insoddisfazione verso l’universo accademico nazionale, vuoi glissando sui suoi meriti, vuoi sottovalutando la trasformazione che l’aveva radicalmente modificato nel corso degli anni novanta del secolo appena trascorso. E’ oramai acquisito che non esiste in Italia una istituzione (culturale, scientifica) che si sia trasformata in modo più radicale di quanto abbia fatto l’università. A questa metamorfosi, che ha maggiormente avvicinato il sistema universitario alle esigenze e alle dinamiche della società italiana, il ministro non ha dato soverchia importanza. Nelle sue esternazioni invece frequenti hanno continuato ad essere le citazioni esemplificative di altre realtà e di altri modelli: quasi sempre paesi anglosassoni, qualche volta esperienze di università private. Sulla scorta di un antico e lungo vagheggiamento confindustriale verso il modello americano, il ministro Moratti (ma il ministro Tremonti non le è da meno) ha mostrato di voler innestare sul nostro ceppo un modello che sembra non soddisfare più neppure chi lo ha inventato e applicato. Di quest’ultimo modello, che per convenzione vuole definirsi anglosassone, al ministro non piace naturalmente tutto. Per esempio non le piaceranno gli alti indici di finanziamento alla ricerca provenienti sia da fonti pubblihe che private; né gli elevati salari che percepiscono per il loro lavoro sia i professori che i ricercatori; né l’assoluta libertà di ricerca su programmi verificati nella processualità e nel prodotto. Al ministro piacciono invece molto: la mobilità e la flessibilità dei cattedratici; l’abolizione del ruolo dei ricercatori; il reclutamento di tipo co.co.co.; una retribuzione modesta legata soltanto all’attività didattica e non anche alla ricerca; la fine della distinzione tra tempo definito e tempo pieno. Tutta questa ansia modificatrice (evitiamo di usare il termine “riformatrice”) sottende - come è evidente - un giudizio negativo verso le nostre università, che oggi contano due milioni di studenti, che negli ultimi anni ha nettamente abbassato il numero di fuori corso e che vanno meritando ogni considerazione e ogni stima da parte dei colleghi delle altre università europee e americane, che infatti hanno di noi una ben altra immagine. Il braccio di ferro governo-università è comunque destinato a durare almeno finché rimane un braccio di ferro manicheo tra modelli: tra quello buono ed efficiente (cui ispirarsi) e quello astratto e privilegiato (da abbattere). Sarebbe ora invece di abbandonare ogni approccio partitico (politico, ideologico( e di partire invece da un’analisi concreta e aggiornata di cosa è (diventata) l’università italiana; come bisogna valutarla, dopo che ha cambiato pelle; come sostenere le realtà che hanno ben meritato e meritano e come penalizzare chi si è comportato e si comporta in modo opportuno. La Crui da anni sta sostenendo questa cultura e questo approccio. Perché il ministro non è dello stesso avviso? * Rettore Università degli Studi di Teramo _______________________________________ Il Sole 24Ore 16 gen. ’04 IL CORAGGIO DI CAMBIARE DI SEBASTIANO MAFFETTONE Qualità e concorrenza guardando cclle migliori esperienze estere La nuova normativa proposta dal ministro Moratti prevede due fasce - invece delle tre attuali - di professori di ruolo, quella degli associati e quella degli ordinari. In pratica, non ci saranno più ricercatori a tempo indeterminato. Si tratta di un provvedimento ampiamente previsto, che ha dalla sua alcuni pro e alcuni contro. I pro consistono nell'adeguamento del sistema universitario italiano agli standard internazionali. Si può supporre che un certo periodo di precarietà a inizio carriera renda gli studiosi più competitivi sullo scenario nazionale e internazionale. Ma, e qui cominciano i contro, bisognerebbe fare molta attenzione a questo momento della carriera. Chi, come il sottoscritto e tanti colleghi, si confronta ogni giorno con le difficoltà che i giovani studiosi trovano in Italia per cominciare a lavorare sul serio, difficoltà che sono evidenziate dalla assurda e devastante fuga di cervelli cui assistiamo, sa benissimo che è insensato rendere l'inizio carriera più arduo di com'è ora. Si può dire, nonostante ciò, che un'assunzione a contratto temporanea, della durata prevista di sei anni (tre più tre), sia accettabile, soprattutto a paragone con la quasi paralisi attuale. Ma allora il meccanismo dell'assunzione permanente, sotto condizione di aver espletato per sei anni bene le proprie funzioni, deve essere assolutamente ben oleato e trasparente. Il meccanismo previsto al momento per l'idoneità da associato prevede invece una frequenza quadriennale. Si può così immaginare che un ricercatore temporaneo debba aspettare, se non è fortunato, quattro anni senza stipendio prima di poter concorrere al ruolo di associato. Per quanto riguarda poi gli idonei ad associato e ordinario, essi dovrebbero essere selezionati da una lista unica nazionale. Personalmente non trovo nulla di male nel fatto che i singoli settori disciplinari si pronuncino a livello nazionale sulle capacità scientifiche e didattiche dei candidati. Ma ci si deve rendere conto che, in questo modo, aumenterà con ogni probabilità il numero degli idoneati non chiamati a insegnare da singole università. Questo fatto provocherà un periodo quinquennale di stress e eccessi di politica accademica, in cui gli idoneati sotto la spada di Damocle della mancata assunzione saranno allo sbando e in preda a un vivace e comprensibile scontento. A fronte di queste regolamentazioni tutto sommato né più né meno rigide delle precedenti, si respira però *- al seguito delle nuove norme in arrivo - una certa area di flessibilità. Maggiore possibilità di contratti d'insegnamento, più opzioni di contratti integrativi da parte degli stessi professori di ruolo, incoraggiamento all'internazionalizzazione degli atenei e al ritorno degli studiosi italiani all'estero, sono tutti provvedimenti che fan no ben sperare in questa direzione. Proprio da questo punto di vista, tutto sommato apprezzabile, però, possono sorgere più profonde perplessità di carattere generale. Come si evince dalla "dottrina De Maio", come qualcuno la chiama dal nome di uno dei più influenti consulenti del ministero, con il tempo nelle università italiane la qualità dovrebbe andare a sostituire la quantità e la concorrenza dovrebbe operare con vigore mai esperito in precedenza. I dubbi in proposito nascono sia dal pregiudizio assai condivisibile secondo cui qualità e concorrenza non nascono per decreto, sia da constatazioni elementari quanto rilevanti. Per venire a queste ultime, è davvero difficile credere che la qualità possa essere incentivata, per esempio concedendo maggiori finanziamenti alle università più qualificate, se non si toccano alcuni nodi conosciuti quanto intricati. Eliminare il valore legale del titolo di studio, aumentare le tasse per i fruitori del servizio (gli studenti) rendendole più adeguate al costo reale dell'istruzione universitaria, e istituendo borse di studio per chi non è in grado di pagare le tasse, introdurre misure del tipo "numero-chiuso", creare ampi spazi residenziali per studenti onde favorirne la mobilità sul territorio nazionale, costituiscono tutti elementi di serietà di ogni plausibile riforma universitaria. Al tempo stesso, si tratta di provvedimenti che renderebbero davvero credibile uno sforzo diretto alla valorizzazione della qualità e la crescita della competitività. Ma questi sono nodi politici, come direbbe qualsiasi addetto ai lavori. Che nessun politico italiano, di destra o di sinistra non importa, è disposto a mettere in discussione, ritenendoli, a torto o a ragione, pericolosi per il suo consenso. Le perplessità sul progetto di legge Moratti dipendono proprio dalla mancanza di coraggio nelle direzioni auspicate e testé ricordate. Francamente, però, sarebbe ingiusto gettare la croce sulla ministro in carica. E non solo perché i suoi colleghi di sinistra non appaiono più coraggiosi di lei. Ma anche, e a mio parere soprattutto, perché gli accademici italiani non sembrano affatto in grado di indicare alla classe politica una politica universitaria coerente e degna di questo nome. ______________________________________________ IL Messaggero 17 Gen. 04 IL RISCHIO DI CAMBIARE IN CORSA di PAOLO FERRATINI CAMBIARE le vetture mentre il treno è in corsa è un affare complicato. Quando il treno in questione è la scuola e il cambiamento investe l’intero ordinamento, come nel caso della riforma Moratti e relativi decreti, trovare la via giusta per rendere operative le novità senza creare situazioni di caos richiede, da parte del timoniere, sensibilità istituzionale, prudenza nella scelta degli strumenti e dei tempi nonché doti spiccate di regia politica. Gioverebbe anche un contesto generale di tensione non esasperata con l’opposizione o, quanto meno, di forte compattezza nella maggioranza. E non è detto che basti. Mi pare che nessuna di queste condizioni si sia data nel caso della circolare della discordia emanata da Viale Trastevere. Giunta in ritardo rispetto al consueto, sotto il profilo delle conseguenze organizzative che ne derivano, essa presenta viceversa, nei contenuti, l’anticipazione di alcuni aspetti della riforma che, tutt’oggi al vaglio delle commissioni parlamentari competenti, non rientrano ancora nel quadro delle norme vigenti. Ne risulta uno scavalcamento delle prerogative del legislatore da parte del governo che, con un atto amministrativo, prefigura un pezzo di legge che ancora legge non è. Se è pur vero che, nella sostanza, la circolare si limita a richiamare gli elementi di continuità dell’ordinamento futuro con la normativa in essere e, dunque, non introduce novità reali, nondimeno lo strappo istituzionale, almeno sul piano tutt’altro che irrilevante della forma, c’è. Hanno dunque avuto buon gioco le opposizioni nel gridare all’“attentato” alle regole democratiche. Che la cosa non sia solo faccenda di bon ton e abbia toccato un nervo scoperto della dialettica governo-parlamento, stanno del resto a dimostrare le dimissioni della senatrice Napoli (An) da relatrice del decreto in materia presso la Commissione di Palazzo Madama, poi rientrate per un soprassalto di “ragion politica”, non sufficiente a dissimulare lo stato di agitazione provocato dall’iniziativa del ministro nella stessa maggioranza che peraltro, di questi tempi, ci mette assai poco a fibrillare. Di là dal profilo politico-istituzionale, la vicenda della circolare ha portato alla ribalta una questione di merito, connessa al contenuto del decreto legislativo attualmente in discussione, sulla quale, da settembre in avanti, si sono moltiplicate, accanto all’opposizione della minoranza, le iniziative di piazza, ultima delle quali ed è la seconda in pochi mesi la manifestazione nazionale che avrà luogo oggi. Si accusa il provvedimento di “tagliare” di fatto il tempo pieno, riducendo l’offerta formativa delle scuole dell’infanzia ed elementari. E al governo che ribatte di garantire, sotto altra forma, lo stesso numero di ore, partiti di opposizione, sindacati e piazza replicano che non è stata prevista neppure la copertura finanziaria. Su questo punto, in effetti, le rassicurazioni sono state molto generiche. Vorrei tuttavia prenderle per buone, giacché quando un ministro, come ha fatto la Moratti, scrive alle famiglie “che il tempo pieno sarà offerto a tutti i bambini della scuola primaria gratuitamente come per il passato”, contrae una obbligazione politica che non può che onorare se vuol sopravvivere. Mi pare che la questione vera stia non nella quantità ma nella tipologia dell’offerta. Il disegno della riforma prevede che il tempo scuola pomeridiano sia predisposto “tenendo conto delle prevalenti richieste delle famiglie”. In questa frase e in ciò che ne consegue in termini organizzativi sta un effettivo rischio per il tempo pieno come si è andato consolidando nell’esperienza degli ultimi tre decenni. Il modello in vigore punta infatti su una forte integrazione progettuale fra attività mattutine e pomeridiane: un curricolo unitario che sarà impossibile mantenere se le scuole dovranno predisporre “risposte” sempre nuove a “domande” potenzialmente sempre diverse, rifacendo ogni anno gli organici, disperdendo esperienze e “buone pratiche”, ecc. Quando la centralità della famiglia nei processi educativi, in sé sacrosanta, viene declinata nei modi di una scuola à la carte, rischia insomma di produrre non flessibilità ma disarticolazione e casualità dell’offerta, in un panorama complessivo nel quale il tempo pieno ricorderebbe qualcosa a metà tra il doposcuola e il dopolavoro. Su questo tema sarebbe interessante vertesse il confronto fra maggioranza e opposizione. *Esperto di politiche scolastiche Redazione rivista "il mulino" _______________________________________ Il Sole 24Ore 16 gen. ’04 L'ISTRUZIONE VUOLE LA SUA ECONOMIA Cresce l'esigenza di adottare criteri, oggettivi,misurare l'efficienza, della scuola - In Gran Bretagna si valutano anno per anno le performance degli studenti e i genitori scelgono 1a classe «migliore» DI ALESSIA MACCAFERRI Ogni anno le famiglie britanniche aspettano l'Educati on Leagree Tables con la stessa partecipazione che hanno verso le classifiche di calcio. I genitori spulciano i report sulle scuole del distretto alla ricerca di quella migliore, se non è già la prescelta, per il proprio figlio. Le rilevazioni, svolte da enti non governativi, misurano con prove oggettive gli apprendimenti dei ragazzi a 7, 11, 14, 16 anni. Poi viene pubblicata sia la classifica dei distretti sia la «pagella» per ogni istituto con i risultati per materia, il confronto con il distretto e con la media nazionale. Questo «campionato dell'istruzione» ha preso un po' la mano agli inglesi, diventati appassionati - e ossessionati - tifosi della «scuola migliore». Il Regno Unito è forse il caso limite, ma molti Paesi sentono sempre più l'esigenza di valutare con criteri oggettivi, e quindi comparabili, la qualità della scuola. Questo ambito di indagine che ne studia l'efficacia e l'efficienza ed esamina i costi e i benefici è anche una disciplina diffusa soprattutto nel mondo accademico: si chiama Economics of education, «economia dell'istruzione». In Italia è relegata perlopiù ad alcune cattedre all'interno delle facoltà di Scienze della formazione, e del resto è lontana dalla realtà l'adozione dei sistemi di valutazione. Qualità. Più volte in passato l’Ocse ha bacchettato l'Italia sull'attendibilità degli indicatori sull'istruzione. E dalle più recenti ricerche, il sistema scolastico ne esce male: secondo l'indagine Pisa il livello di competenza funzionale di lettura e matematica dei 15enni italiani è più basso della media di 32 Paesi Ocse. E il 45% della popolazione tra i 25 e i 34 anni ha lasciato la scuola senza diploma (contro il 27°!° della media Ue). Questo nonostante le spese annuali per studente siano superiori di circa il 10°I° rispetto alla media europea. Allora la qualità non è tanto un problema di risorse ma di efficienza e di efficacia, che per essere valutata deve essere misurata. Ma che cosa valutare? E soprattutto in che modo? II ministro dell'Istruzione Letizia Moratti ha istituito tre anni fa un gruppo di lavoro per la valutazione del servizio scolastico presieduto da Giacomo Elias. «Fino a due anni fa l'Italia era uno dei pochi Paesi a non aver ancora adottato nessun sistema di valutazione dell'istruzione, venivano solo condotte attività di carattere scientifico su alcuni fenomeni particolari», spiega Elias. Il gruppo di lavoro si è concentrato sull'organizzazione delle scuole e la valutazione degli apprendimenti. L'organizzazione. Il primo ambito è stato indagato attraverso l'invio di questionari a metà delle scuole italiane e prende in considerazione tutti gli aspetti organizzativi, dalla pianificazione degli orari ai corsi di recupero. Dal prossimo anno scolastico tutte le scuole potrebbero essere sottoposte a questa indagine. L'obbligo scatterà però solo con il varo del decreto delegato sull'articolo 3 della legge di riforma. Fino a oggi in Italia la valutazione delle scuole è stata affidata al ministero. «Si tratta di un'attività ispettiva non sistematica - rileva l'indagine L'Europa valuta la scuola. E l'Italia? condotta dall'associazione Treellle "per una società dell'apprendimento continuo" - spesso connessa ai fenomeni innescati dal contenzioso piuttosto che alla verifica della qualità dei processi e dei risultati». Il modello più conosciuto è quello inglese dell'Office for standards in education, che ha sostituito il tradizionale Ispettorato. L'Ofsted conduce un'azione capillare nelle scuole tramite visite condotte sulla base di modelli standardizzati. «Questo sistema è sicuramente valido ma costoso - aggiunge Attilio Oliva, presidente esecutivo di Treellle -. Noi proponiamo l'analisi delle scuole che hanno ricevuto più lamentele o che nel tempo abbiano registrato pessimi risultati». Apprendimento. Per misurare le conoscenze dei ragazzi italiani tre anni fa il gruppo di lavoro, in collaborazione con l'Invalsi (l'Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell'istruzione) ha distribuito un questionario per verificare le conoscenze in italiano e matematica. Al progetto hanno aderito volontariamente 2.832 scuole (elementari, medie e superiori) per un totale di 15mila classi e 314mila studenti. Nell'anno scolastico successivo l'indagine è stata estesa anche alle scienze e hanno partecipato circa 7.500 istituti, mentre è in corso il terzo progetto pilota, a cui aderiscono 9.500 scuole. «Abbiamo anche elaborato una media nazionale, così le singole scuole possono valutare il loro livello - aggiunge Elias -. E l'obiettivo è estendere, dall'anno accademico 2004-2005, il progetto a tutte le scuole sia pubbliche sia paritarie». Non basta però misurare l'apprendimento degli studenti. «Bisogna introdurre anche dei criteri per i quali i risultati siano monitorati nel tempo - spiega Claudio Gentili, responsabile del nucleo Formazione e Scuola di Confindustria-. L'obiettivo è arrivare al rating dei processi formativi per singola scuola». Che dovrebbero dotarsi di piani annuali per migliorare le prestazioni e, misurandole sistematicamente, elevare progressivamente gli standard. E all'autovalutazione «è indispensabile affiancare anche strumenti di valutazione esterna» aggiunge Gentili. Docenti. Ma lo scoglio maggiore è un altro. «Non c'è nessun tipo di controllo delle performance degli insegnanti - spiega Gentili -. E andrebbero del tutto rivisti anche i criteri di accesso all'insegnamento». Proprio l'analisi del merito provocò la rivolta degli insegnanti nel 2000 che costò l'incarico di ministro a Luigi Berlinguer. Intanto il ministro Moratti ha detto che è disposta a discutere aumenti di retribuzioni legati al merito. Alcuni disegni di legge sono state presentati in Parlamento dove è stata creata una commissione ministeriale ad hoc prevista dall'ultimo contratto. «La valutazione dei docenti è un ambito molto delicato e dagli alti costi - spiega Oliva -. Il problema dovrebbe risolversi quando le scuole potranno scegliere gli insegnanti, cioè con una piena autonomia scolastica». Incentivi. La valutazione è alla base dei sistemi di rendicontazione dell'istruzione che si stanno diffondendo in tutto il mondo. «I sistemi di accountabilitv non sono tutti uguali - spiega Enrico Gori, coordinatore del Comitato scientifico dell'Invalsi -. Ci sono quelli che agganciano ai risultati degli studenti sanzioni o premi nei confronti delle scuole, altri che rendono pubblici i risultati ottenuti dalle scuole senza ricorrere a incentivi. Infine altri che comunicano ai soli capi di istituto i risultati ottenuti». In Italia finora questi sistemi hanno solo fatto capolino nell'istruzione. Nella formazione professionale le Regioni rifinanziano solo i corsi che ottengono risultati, nelle università vengono pubblicati o dovrebbero esserlo i nomi dei professori che hanno ottenuto valutazioni positive dagli studenti. La disciplina. In base a studi di economia dell'istruzione emerge che l'adozione di sistemi di rendicontazione è un fattore strutturale capace di stimolare la crescita. In Italia questo ambito di indagine è nato da pochi anni e rientra perlopiù nell'ambito di Scienze della Formazione. «Perché questa disciplina è stata rifiutata dagli economisti - spiega Bianca Spadolini, docente di Economia dell'Istruzione all'Università Roma Tre, che ha attivato il primo insegnamento in Italia nel 1994 all'Università di Perugia -. Innanzitutto i perché l'istruzione, e la cultura in genere, non sono mai stati un business. In secondo luogo perché in Italia l'istruzione appartiene all'ambito umanistico mentre nel mondo anglosassone appartiene alla cultura scientifica». Gli ambiti si estendono a tutti quei settori in cui è determinante individuare i riflessi del capitale umano. «Le aziende sono interessate a questi nuovi profili professionali - aggiunge Spadolini - perché sono in grado di valorizzare le risorse umane, indipendentemente dall'ambito. Il capitale umano ha un valore diretto ma anche indiretto. Basta pensare ai fenomeni della criminalità o alla sanità». Ambiti nei quali un incremento dell'education ha benefici per tutta la società, non solo dal punto di vista strettamente economico. _______________________________________ Repubblica 12 gen. ’04 LA HIT MONDIALE DELLE UNIVERSITÀ Solo un'italiana tra le prime cento L’America meglio dell'Europa, La Sapienza settantesima ARNALDO D'AMICO ROMA - Duemila le università analizzate, 500 quelle classificate per produzione di scoperte e capacità di formare ricercatori: è il titanico lavoro compiuto-per la prima volta a livello mondiale - dall'università di Shangai, tra le più antiche e prestigiose della Cina, ed immediatamente recepito dalla Unione Europea che lo ha anticipato ieri sul suo sito Internet ufficiale. La graduatoria, sin dalle prime cento posizioni, testimonia lo strapotere americano con 4 università ai primi quattro posti e più della metà (58) che occupano la parte alta della classifica. Ma rivela anche l'ascesa della Gran Bretagna che piazza Cambridg e al quinto posto e ben 9 università tra le prime cento. Sorprende anche la performance di Olanda e Svezia, nazioni molto piccole, ma con ben tre università nella top 100. Un disastro il piazzamento italiano (o forse un miracolo, se si tiene conto dell'esiguità delle forze e delle risorse schierate): un solo ateneo tra i primi cento, al settantesimo posto, La Sapienza di Roma, nonostante sia il più grande d'Europa, mentre nella parte alta della classifica la Germania piazza ben cinque università; Olanda, Svezia, Svizzera e Canada tre ciascuna; Francia e Australia due: tutte con almeno un ateneo prima del nostro. Le restanti 22 università italiane citata dalla classifica generale sono sparpagliate tra il centesimo e il cinquecentesimo posto. «Lo studio dell'istituto di Shangai è importante- dice il Commissario europeo alla Ricerca Philippe Busquin - perché sottolinea un problema più volte denunciato dalla Commissione europea: il valore strategico della ricerca e dell'istruzione superiore in campo scientifico, chiave di volta del sistema educativo e dello sviluppo economico. Il numero limitato di atenei europei nella parte alta della classifica, rappresenta una situazione reale e preoccupante, anche se i criteri di valutazione possono essere discutibili. Ulteriori azioni concrete di potenziamento della produzione scientifica saranno discusse nella conferenza internazionale a Liegi i127 e 28 aprile». «Le scoperte sono il motore dell'innovazione tecnologica, soprattutto quelle nel campo della ricerca pura. Basta ricordare la rivoluzione economica avviata dalle prime ricerche sul Dna, stimolate dal puro desiderio di conoscere meglio i meccanismi alla base della vita», aggiunge Carlo Alberto Redi, direttore del laboratorio di biologia dello sviluppo dell'università di Pavia, uno dei ricercatori italiani più attenti al rapporto tra ricerca e sviluppo economico. «Ma la ricerca è anche lo strumento didattico di base per la formazione di nuovi ricercatori. Questo mestiere si apprende solo facendolo». Sono fosche, quindi, le previsioni per l'azienda Italia, su cui concordano anche tutti gli istituti economici internazionali: «La nostra economia ed il benessere di noi tutti - avverte Redi - sono destinati a diminuire. Per rimanere competitivi sui mercati non rimarrà che abbassare ulteriormente il costo del lavoro». L'impegno degli scienziati italiani non basta più a tenerci al passo. Tra tutti gli indicatori di sviluppo tecnologico, solo il dato della produttività dei nostri ricercatori è sopra la media europea. Tutti gli altri indicatori sono molto sotto, dalla percentuale del Pil investita nella ricerca (pari ormai a quello della Tunisia, la metà della media europea), al numero di ricercatori (ancora la metà), ai nuovi dottorati (un quinto), sino agli investimenti privati per la nascita di piccole aziende biotech che sono solo un terzo della media europea. «Se vogliamo arrestare il declino del Paese, servono almeno tre cose - conclude Redi - investimenti, politiche che agevolino lo sfruttamento commerciale delle nostre scoperte e una industria che investa nella ricerca, senza accampare scuse. Se vogliamo rimanere in Europa, allora comportiamoci da europei». Per la prima volta una classifica globale: premiato chi si dedica alla ricerca Meglio di noi Germania, Francia e Gran Bretagna ma anche Olanda e Svezia _______________________________________ Il Sole 24Ore 12 gen. ’04 ATENEI, POCHE DONNE AL VERTICE Un solo rettorato è oggi appannaggio femminile ma la crescita delle studentesse farà da volano al cambiamento Una sola donna rettore e un'altra (forse) in arrivo. Tutti qui i "vertici femminili" delle 77 università italiane. E se la percentuale di donne in cattedra o a capo di un dipartimento è più alta il bilancio in rosa resta negativo. A differenza di quanto accade in molte altre professioni, nel mondo accademico l’empowerment femminile - cioè l’«accrescimento di potere» che non avviene per concessione ma grazie alla valorizzazione delle competenze compiuta dalle dirette interessate - resta solo un concetto. Pochi ordinari. Secondo l'inchiesta messa a punto dal Sole-24 Ore del lunedì sui 77 atenei italiani (hanno risposto in 50), le donne rappresentano ancora oggi una netta minoranza nel corpo docente e nei ruoli dirigenti. Tra professori e ricercatori la presenza femminile è limitata al 30% del totale, ma l'incidenza si abbassa se si considerano nel computo solo i professori ordinari. A Roma Tre, per esempio, la parte femminile comprende il 50% dei ricercatori, il 40% degli associati e solo il 24% degli ordinari, e un andamento simile si registra all'Università di Bergamo: sono donne i140% dei ricercatori, il 32% degli associati e il 24% degli ordinari. Uomini al top. Salendo ulteriormente gli scalini della gerarchia accademica, la prevalenza maschile diventa ancora più evidente. Tra i direttori di dipartimento o d'istituto gli uomini sono l’88%, e tra i presidi di facoltà l’89%. Come detto, la tendenza trova la sua piena conferma quando si arriva al vertice del cursus honorum: Paola Bianchi De Vecchi, che guida l'ateneo per stranieri di Perugia è oggi l'unica donna rettore (si veda l'articolo qui sotto), anche se verrà affiancata a breve da Rita Franceschini, scelta - salvo sorprese - tra 56 candidati come futuro rettore dal Consiglio della Libera Università di Bolzano. «Da anni - spiega Friedrich Schmidl, presidente dell'ateneo - stiamo perseguendo una politica delle pari opportunità, che abbiamo anche introdotto nel nostro Statuto, perché ci siamo posti l'obiettivo di portare le donne nella ricerca e nell'amministrazione». La stessa meta è condivisa da Giovanni Del Tin, rettore del Politecnico di Torino, convinto della necessità di «incentivare le donne alla ricerca scientifica fin dall'inizio della loro carriera universitaria». È un atteggiamento che non fa bene solo alle donne; ma può aprire la strada anche a nuovi sviluppi per la ricerca. «L'ingegneria - sottolinea infatti il rettore del Politecnico torinese - è un ramo ancora molto maschile, ma alcuni settori come il biomedico possono ottenere grandi vantaggi dalla sensibilità che è tipica delle donne». A volte l'istanza verso la parità nasce dal contesto locale dell'ateneo: «Nella nostra città - sottolinea Gian Carlo Pellacani, rettore dell'Università di Modena - è un fatto normale e anche noi, con una media del 30%, riflettiamo questa realtà». Cambiamenti in vista. Se la situazione attuale presenta limiti consistenti, il prossimo futuro si annuncia ricco di novità. «Il panorama - ragiona Eva Cantarella, scrittrice e docente della Statale di Milano, dove dirige l'istituto di Diritto romano e diritti dell'antichità - è in rapida trasformazione, perché è cambiata la società e con essa è mutato anche il mondo accademico». Motore di questa evoluzione sono le nuove leve. «Le studentesse - afferma - non solo sono aumencate, ma sono anche animate da una determinazione che a volte stupisce: è difficile che una ragazza si presenti impreparata o intimidita agli esami, cosa che accade molto più frequentemente ai loro colleghi maschi». Se queste studentesse sceglieranno la carriera universitaria, inoltre, si troveranno ad affrontare una realtà più facile rispetto a chi le ha precedute. «Un tempo - continua Eva Cantarella - prima di diventare docente era necessario affrontare anni di mobilità, che ti costringevano a viaggiare in un periodo che spesso coincideva con le nozze e la maternità, e io stessa ho visto molte colleghe rinunciare per questo motivo». Oggi non è più così, perché «è possibile percorrere tutte le tappe della propria carriera rimanendo nella stessa sede universitaria. Si tratta di una mostruosità dal punto di vista formativo, perché si traduce in una netta provincializzazione culturale, ma almeno permette di conciliare meglio l'inizio della carriera con la formazione di una famiglia». FE.MI G.TR La presenza femminile nel principali ruoli universitari Totale. Donne. %donne sul totale ======.======== .==== Presidi di facoltà .. 360 40 11.67 Direttori di Dipartimento 1.261 155 12,29 Docenti 35.512 10.694 30,11 _______________________________________ Il Sole 24Ore 12 gen. ’04 MA LA LEADERSHIP MASCHILE È DESTINATA A TRAMONTARE» ROMA a «Sono evidenti i segnali di un'inversione di tendenza, e la presenza femminile nel mondo del lavoro sta crescendo a tutti i livelli». Per il ministro delle Pari opportunità, Stefania Prestigiacomo, anche l'attuale leadership maschile nel mondo accademico è destinata a tramontare. Prestigiacomo: «La corsa alla professione deve partire in parità» «Da anni ormai - spiega il ministro Prestigiacomo - il numero delle laureate supera stabilmente quello dei laureati e questa tendenza va affermandosi anche in facoltà un tempo esclusivamente maschili». Il mondo universitario riflette la situazione più generale del Paese, oppure in altre professioni intellettuali la parità è un obiettivo già raggiunto? La realtà accademica è retta da regole diverse da quelle di altre professioni intellettuali. Nell'Università si entra per concorso pubblico e questo dovrebbe garantire pari opportunità d'accesso. Inoltre è allo studio del Governo un progetto per la ridefinizione delle carriere che confido possa facilitare il riequilibrio. Le donne devo avere un ruolo particolare nella ricerca? Qualche mese fa ho letto i risultati di un'indagine dalla quale emerge che la qualità degli studi sulle malattie oncologiche firmati dalle donne è superiore a quella degli studi portati avanti dai colleghi uomini, malgrado la quantità dei fondi ottenuti dalle ricercatrici sia inferiore. Brave dunque le nostre donne medico e scienziate. Non credo però che si debba pensare in un'ottica di genere. E importante, invece, che le giovani studentesse trovino gli spazi adeguati per continuare a lavorare all'interno delle università e, soprattutto, che partano in questa "corsa" professionale da una situazione di assoluta parità con gli uomini. La situazione dell'Università è anche il sintomo del perdurare di un'impostazione culturale che sottolinea il carattere espressamente maschile di alcune professioni. Secondo lei questa impostazione è ancora viva in Italia? Le cattive abitudini, così come i retaggi culturali, sono dure da sradicare. Oggi però lo scenario è cambiato e la società si declina sempre di più al femminile. Ciò non toglie che vi siano delle resistenze da parte degli uomini ad accettare le donne nei loro territori storici. Da qui il ruolo fondamentale dell'istruzione a tutti i livelli; la cultura è lo strumento migliore per superare discriminazioni e resistenze. In che modo il ministero delle Pari opportunità sta lavorando per favorire il raggiungimento della parità nelle professioni? È mio obiettivo proporre convenzioni con i consigli nazionali delle varie professioni rivolti allo studio e alla promozione di azioni positive che consentano il pieno inserimento della donna nei circuiti professionali. Sono in corso contatti con i principali ordini professionali: in brevissimo tempo si arriverà alla firma. Altro nodo cruciale è favorire la conciliazione tra famiglia e lavoro. Per questo abbiamo lavorato per una legge che consenta la creazione di nidi e micro nidi aziendali nei luoghi di lavoro pubblici e privati e per un riassetto dell'intero sistema dei servizi per l'infanzia adeguato alle esigenze delle famiglie italiane. II dibattito è in corso anche a livello europeo: qual è la situazione italiana in questo quadro? È analoga a quella degli altri Paesi dell'Europa mediterranea, ma distante dagli Stati del Nord del continente dove i processi di emancipazione femminile sono iniziati 50 anni prima. A livello comunitario l'Italia è impegnata a stabilire un quadro di normative che favoriscano il pieno riequilibrio fra i sessi a tutti i livelli. Il ruolo delle donne nei processi decisionali politici ed economici è stato il tema centrale del semestre di presidenza italiana in materia di pari opportunità. Dalla Conferenza ministeriale di Siracusa abbiamo lanciato a tutti i partiti europei la sfida di candidare non meno del 30% di donne già alle prossime elezioni per il rinnovo dell'Assemblea di Strasburgo. FEDERICA MICARDI GIANNI TROVATI _______________________________________ Il Sole 24Ore 12 gen. ’04 SULLA RICERCA SFIDA IN SALITA La manovra Finanziaria contiene quest'anno alcuni provvedimenti, raccolti nei primi articoli del decreto 269, poi convertito dalla legge 326, che su fronti diversi intervengono nella delicata materia degli incentivi alla ricerca. Una prima norma, passata alle cronache come "Tecnotremonti", con riferimento al ministro dell'Economia che l'ha promossa, è una forma di detassazione dei costi destinati a ricerca e sviluppo. Si tratta di un incentivo indirizzato all'ampia platea degli imprenditori, ulteriormente rafforzato dal fatto che vengono anche agevolate le spese sostenute dalle piccole-medie aziende per sinergie nelle innovazioni informatiche. Un'altra norma (articolo 3 della legge 326) abbatte in modo drastico l'imposta personale sui redditi per i "cervelli" intenzionati a far rientro in Italia dopo almeno due anni (continuativi) di lavoro all'estero. Un incentivo robusto (l’Irpef scende al 10% per tre annualità d'imposta), indirizzato a un target preciso, minuscolo in termini numerici, ma di forte valenza simbolica. C'è, poi, la norma che istituisce l’Iit, Istituto italiano di tecnologia, che tanto ha fatto discutere già durante l’iter parlamentare del decreto. Tre indizi non fanno prova, si usa dire. Ma è pur vero che tre segnali così precisi ed eloquenti un messaggio lo lanciano: il Governo riconosce nelle attività di ricerca e sviluppo una delle chiavi prioritarie per la crescita del Paese e, in quanto tali, le tratta con favore. Ma la domanda di fondo che, a manovra approvata, occorre porsi è se queste misure, al di là del significato simbolico, siano in grado di rappresentare davvero un volano per l'innovazione. Sotto questo profilo la sfida parte da basi poco confortanti: l'Italia è, fra i 15 Paesi Ue, quello che fa registrare il più basso livello medio e, al tempo stesso, la dinamica più lenta nella creazione di "nuova conoscenza". I nostri investimenti in ricerca e sviluppo sono briciole non solo rispetto al colosso americano, ma anche rispetto ai partner europei. Recuperare posizioni partendo da un ritardo così grande, e con così forti vincoli di finanza pubblica, richiede davvero un atto di fede. ______________________________________________ Corriere della Sera 16 Gen. 04 L' EUROPA DISUNITA DELLA RICERCA Come cambiare per competere con gli Usa Romano Sergio Il ritorno in patria, all' università di Siena, di un brillante oncologo napoletano che ha vissuto in America quasi vent' anni, è un' ottima notizia. Ma in una immaginaria cartella clinica sullo stato di salute della ricerca italiana l' episodio corrisponde agli occasionali miglioramenti di un malato terminale. Anche Renato Dulbecco, Rita Levi Montalcini e Carlo Rubbia (Nobel dell' ultima generazione) sono tornati; ma soltanto dopo avere fatto all' estero (i primi due negli Stati Uniti) ciò che ben difficilmente avrebbero potuto realizzare nel loro Paese. A quanto già detto sulle condizioni della ricerca in Italia, non vi è molto da aggiungere. Esistono intelligenze vivaci, grandi talenti, istituti volonterosi e settori di punta. Ma se gli stanziamenti pubblici e privati continueranno a essere quelli degli scorsi anni, è inutile farsi illusioni o sperare che il ritorno di Antonio Giordano segnali un cambiamento di clima. Il problema, del resto, non è esclusivamente italiano. Sono settant' anni ormai (dall' esodo degli ebrei tedeschi dopo l' avvento di Hitler al potere) che gli Stati Uniti crescono e si irrobustiscono grazie alla scienza europea e alle nostre follie. Ricerche nucleari e spaziali, missilistica, astrofisica, biologia, biochimica, genetica, informatica: non vi è settore in cui gli studiosi europei e più tardi asiatici non abbiano avuto parte determinante. E' possibile rovesciare questa tendenza? Se le università europee sono sempre in grado di preparare eccellenti studiosi, che cosa ci impedisce di trattenerli in Europa? E' possibile tentare, ma tenendo conto realisticamente di due limiti. Il primo è rappresentato dalle finalità militari di una parte considerevole della ricerca americana. Il fallimento del Beagle inglese, lanciato su Marte da una sonda europea, è una cattiva notizia, ma è un episodio statisticamente inevitabile e ricorda i numerosi insuccessi della Nasa. Con una differenza. Dal giorno in cui John Kennedy decise di rincorrere e scavalcare lo Sputnik sovietico, gli Usa considerano la ricerca spaziale una priorità della politica di sicurezza nazionale. Se una spedizione fallisce o uno Shuttle precipita in fiamme, continueranno a provare e a riprovare finché non avranno raggiunto il risultato desiderato. Il denaro è importante, ma non è tutto. Occorrono un' ambizione nazionale e una cultura della potenza di cui in Europa, purtroppo, non esistono le condizioni. Inseguire l' America su questo terreno è probabilmente illusorio. Potremmo inseguirla e raggiungerla invece nei settori da cui dipende il futuro dell' uomo, dalla biologia alla genetica. Ma soltanto un impegno collettivo degli Stati dell' Unione può ottenere questo risultato. Occorrono progetti europei, finanziati con denaro europeo; e occorre che il denaro provenga da una cassa comune dell' Unione amministrata da un ministro europeo della Scienza. So che parlare dell' istituzione di una tassa europea sul reddito in un momento in cui non si riesce neppure ad approvare il testo di una costituzione può sembrare donchisciottesco. Ma finché il bilancio dell' Ue sarà pari, grosso modo, all' 1,5% del suo prodotto interno lordo, e finché metà della somma verrà spesa per proteggere le nostre agricolture dalle importazioni dei Paesi poveri, la situazione continuerà a essere quella di oggi. Le università europee formeranno gli studiosi, l' America li attirerà con la prospettiva di ricerche ben finanziate, e l' industria americana, qualche anno dopo, ci venderà, sotto forma di beni e servizi, il risultato del loro lavoro. Se è questo ciò che vogliamo, se il ruolo dello scudiero corrisponde alla nostra vocazione, non ci rimane che tirare avanti così. _______________________________________ Il Sole 24Ore 16 gen. ’04 BRUXELLES LANCIA L'ALLARME: SENZA FRENI LA FUGA DEI CERVELLI Viene dal Vecchio Continente il 14% degli scienziati che lavora negli Usa BRUXELLES m L'Europa diventa sempre meno attraente per gli scienziati, mentre nella ricerca si allarga il divario con Usa e Giappone. È questo lo scenario che emerge da un documento adottato ieri dalla Commissione europea. «L'Ue - osserva con preoccupazione Bruxelles - rappresenta nel suo complesso, un ambiente meno attraente per i ricercatori dei Paesi terzi. Quelli europei, poi, formati in patria con alti standard di qualità, scelgono di fare carriera negli Stati Uniti». Una preoccupazione espressa anche dal presidente della Commissione Ue, Romano Prodi che, nel suo intervento all'Europarlamento a Strasburgo, ha insistito sul bisogno di «creare in Europa dei centri di eccellenza a livello mondiale». «Il nostro continente - ha detto il capo dell'Esecutivo europeo - deve tornare a essere ciò che è stato per secoli: il punto di riferimento per tutti i giovani ricercatori del mondo». Un compito arduo: tra il 1980 e il 2003, l'Europa vanta 68 premi Nobel in medicina, fisica e chimica e nelle scienze fondamentali della vita, contro i 154 degli Stati Uniti e Bruxelles nota con preoccupazione che «un numero relativamente importante di essi sono in realtà nati o si sono formati in Europa». L'Ue deve fare i conti anche con l'agguerrito Giappone, il cui numero di premi Nobel è aumentato a quattro negli ultimi quattro anni, contro i tre in precedenza ottenuti dall'istituzione del premio al 1999. Il gap è preoccupante nel campo della fisica e della medicina, ed è «particolarmente marcato» in quello della chimica e delle scienze della vita. Nella scienze informatiche inoltre «gli Stati Uniti e Israele dominano nettamente la produzione mondiale». La Commissione si dice particolarmente allarmata per la proporzione della fuga dei cervelli. «Il 14% dei ricercatori che lavorano negli Usa - osserva Fabio Fabbi, portavoce del commissario Ue alla ricerca, Philippe Busquin - è di origine europea o si è formato in Europa. Il fenomeno è cresciuto dal 49% del 1990 al 73% alla fine del 2000». Per raggiungere l'obiettivo di portare le spese in ricerca 3% del Pil «avremo bisogno di 700mi1a nuovi ricercatori entro il 2010». _______________________________________ Avvenire 14 gen. ’04 USA, GLI ATTIRA-CERVELLI DA NEW YORK Lo scienziato italiano diventa l'emblema della fuga di cervelli dall'Europa verso gli Stati Uniti. Tanto da conquistarsi la copertina dell'edizione europea di Time. Il settimanale ha scelto l'astronoma Sandra Savaglio, che ha lasciato l'Osservatorio astronomico di Monteporzio Catone, in provincia di Roma, per la Johns Hopkins University nel Maryland. Ma le storie sono tante. Come quella della School of Medicine della New York University, dove a fare ricerca sul cancro è una specie di Ue dell'oncologia: all'italiano Valerio Dorrello, origini napoletane, si affiancano la spagnola VirginiaAmador e il tedesco Tarig Bashir. A coordinare il gruppo un altro italiano, Michele Pagano; poi ancora due connazionali e due francesi. Tanto che si sta pensando di appendere vicino ai telefoni una tabella con le frasi standard in tutte le lingue rappresentate: chi risponde potrà dire «Non c'è» a madri e fidanzati nell'idioma di chi chiama. Ma al di là delle battute, c'è una realtà radicalmente diversa per coloro che vogliono fare ricerca. «A casa avrei guadagnato 900 euro al mese - racconta Dorrello a Time -, qui guadagno tre volte tanto e si fa meglio scienza». Gli piace paragonare i medici ai calciatori, che vanno nei club più prestigiosi e che pagano di più. E così, come chiosa il settimanale americano, «l'Europa può vantare menti scientifiche tra le più dotate del pianeta, ma circa 400mi1a hanno preso il loro talento e si sono trasferite negli Stati Uniti». E c'è un certo compiacimento nel descrivere lo scontento dei ricercatori italiani e, più in generale, europei, che all'estero hanno trovato finanziamenti per le ricerche, strutture adeguate e migliori opportunità di carriera. «Le loro idee e la loro ingegnosità sarebbero determinanti alla creazione di nuovi posti di lavoro e al rilancio della competitività dell'Europa - scrive il giornale - così i politici hanno cominciato a corteggiarli perché li rivogliono a casa». L'impresa non sarà delle più facili, se si deve dare credito alle storie raccolte da Time. Innanzi tutto le nude cifre: gli Stati Uniti nel 2000 hanno speso in Ricerca e Sviluppo 287 miliardi di euro contro i 121 miliardi dell'intera Ue e possono vantare i178% di brevetti pro-capite in più nei settori chiave dell'alta tecnologia. Non sorprende che solo il 13% degli studiosi europei residenti in America manifesti il desiderio di tornare. Non sono soltanto gli italiani a lamentarsi e a «fuggire». Stupisce che un esperto britannico di biotecnologie dica: «L'Europa è un pasticcio burocratico che spegne la creatività». E che un quotato nutrizionista tedesco abbia presto fatto dietrofront dopo essersi convinto a rientrare a Potsdam: «Per ottenere un computer dovevo riempire quattro pagine di moduli. E poi la richiesta tornava indietro a causa di un errore nel paragrafo 342. Insopportabile». In confronto a tutto ciò, non manca di sottolineare Time, gli Stati Uniti sono un paradiso della scienza, che accoglie a braccia aperte gli studiosi (e si avvantaggia del loro lavoro). Una piccola speranza dal futuro Consiglio europeo delle ricerche. Ma è davvero poco. E forse è tardi. L'America è troppo lontana per chi resta, «troppo» vicina per chi vuole andarsene. (R.E.) _______________________________________ Il Foglio 13 gen. ’04 SCIENZA GIACOBINA AL BIVIO I ricercatori francesi in guerra con il governo rischiano l'effetto boomerang Rispondendo a un appello diramato via Internet, 3.500 ricercatori francesi minacciano di dimettersi per protestare contro le politiche per la scienza del governo che, secondo loro, "è sul punto di chiudere il settore della ricerca pubblica". Secondo il ministero si tratta di un'assurdità, proprio mentre Jacques Chirac annuncia una legge di sviluppo in questo campo. Ma la protesta francese, come quella italiana di qualche mese fa, parte da una visione tradizionale, in cui si privilegia la ricerca "pura", e quindi si contrastano misure che puntano invece ad accrescere l'integrazione col mondo produttivo. La quota francese nelle pubblicazioni scientifiche continua a crescere, mentre quella dei brevetti crolla: indice di una frattura tra ricerca e tecnologia. Per i ricercatori pubblici ogni azione che punta a colmare questo iato è considerata un "abbandono" dei propri compiti da parte dello Stato. E' un aspetto della radicalizzazione dei ceti medi che investe l'Europa intera, con uno spostamento di quelli produttivi verso un accentuato liberismo di mercato, al limite della rivolta fiscale, e di quelli, prevalentemente intellettuali, che lavorano nelle strutture pubbliche in direzione di forme di neo-statalismo corporativo. Va notato come questi processi seguano percorsi assai simili anche in situazioni politiche assai diverse come quella italiana, in cui l'esecutivo si dichiara liberista (almeno a parole) e quella d'oltralpe, dove nessuno mette in discussione il dogma giacobino dello Stato forte. Probabilmente, al di là delle diverse ispirazioni, sono i problemi di base a essere simili. La concorrenza accentuata nel mercato globale rende indispensabile misurare in modo assai più oculato l'efficacia dell'intervento pubblico, il cui costo, comunque ancora assai elevato nell'Europa continentale, viene considerato dai settori dell'economia diffusa la causa di tutte le insoddisfazioni dei ceti medi produttivi. La ricerca, se non si chiude nella torre d'avorio dell'autoreferenzialità, è uno snodo decisivo tra Stato e mercato, per questo ribolle in tutto il continente. ______________________________________________ Corriere della Sera 12 Gen. 04 LAUREARSI COSTA CARO POI IL LAVORO NON ARRIVA O È MAL PAGATO Le famiglie investono nelle lauree ma i figli restano a carico per anni. Ingegneri, architetti e dottori in Giurisprudenza: primo lavoro tra 500 e 1000 euro al mese. Gli ordini professionali: e' inevitabile, sono troppi. E in molti scelgono di andare all' estero. "Da avvocato non vedevo futuro: ora faccio la soldatessa" PROFONDO ITALIA: I GIOVANI LAUREATI. Assunzioni in nero e giornate di lavoro lunghe e stressanti Un neoprogettista accusa: vogliono braccia, non cervelli Il nodo della mediocre preparazione tecnica nelle università L' investimento dei genitori nel titolo accademico dei figli è sempre più lungo e costa almeno 8000 euro all' anno Anche con il massimo dei voti la retribuzione resta minima Di Vico Dario, Fittipaldi Emiliano Far laureare un figlio in ingegneria, architettura, fisica e persino giurisprudenza è un investimento vero e proprio. Secondo stime di fonte ministeriale il mantenimento di uno studente universitario costa in media 7 mila euro all' anno, circa 600 al mese. Di conseguenza per far diventare ingegnere il proprio rampollo - tempo medio necessario sette anni - un genitore deve investire minimo 50 mila euro. E stiamo parlando di valutazioni estremamente prudenziali perché, se la sede dell' ateneo è distante dalla città di residenza della famiglia, bisogna aggiungere la spesa per vitto e alloggio e si arriva almeno a 8.300 euro. Quando però il giovane ingegnere trova il primo impiego, magari in una multinazionale o in una grande impresa italiana, nell' ultima riga della busta paga trova scritto 900 euro, la retribuzione della quinta categoria metalmeccanici. Con una cifra così modesta si può affittare un appartamento in proprio e concepire un autonomo progetto di vita? Certo che no e così i genitori del neo-occupato devono di nuovo mettere mano al portafoglio e garantire un salario integrativo. Sicuramente per qualche anno, infatti prima che l' investimento iniziale cominci ad essere veramente redditizio bisogna aspettare almeno un lustro. Lo stesso schema vale per i giovani avvocati e architetti. Il periodo di studio può essere più corto ma la retribuzione di ingresso è ancora più bassa. Laura B., laureata a Napoli in architettura con 110 e lode e pubblicazione della tesi, è entrata in un prestigioso studio della città. Guadagna 500 euro al mese senza alcun contratto, lavora 10 ore al giorno sabato compreso. Sergio L., laureato da quattro anni in legge a Genova, ha iniziato con un praticantato gratuito di sei mesi, poi ha cambiato padrone per 500 euro al mese ma è stato messo alla porta quando, dopo un intero anno di lavoro, ha chiesto due settimane di ferie non retribuite. «Ho trovato un altro studio - racconta - che mi dà 100 euro in più». Di casi così è facile trovarne a migliaia, ormai negli ambienti delle professioni il ricorso al lavoro nero non fa più scandalo, e storie come quelle di Laura B. e Sergio L. sono la prassi. E anche quando il neo-laureato viene messo in regola e può iscriversi alla cassa previdenziale, la retribuzione sale ma di poco. Secondo statistiche elaborate su dati Inarcassa la media degli architetti under 30 guadagna 10.900 euro all' anno e i loro coetanei ingegneri arrivano a 15 mila euro. CALVARIO E CURRICULUM - La realtà è che prima di affermarsi un giovane laureato aspirante libero professionista deve affrontare un calvario fatto non solo di basse retribuzioni. Francesca C. oggi ha 33 anni ma ha già girato studi di architettura in tre regioni (Campania, Puglia, Lazio) e la sua paga ha oscillato tra i 150 e i 600 euro. «La professione mi ha tradito, il curriculum non serve a niente. Le mansioni che mi sono state richieste c' entrano poco con quello che ho studiato. Ogni lavoro di progettazione è spezzettato come fossimo in una catena di montaggio. Vogliono braccia, non cervelli. Così non impariamo niente, non cresciamo». Roberto P. lavora all' Enea, undici anni fa si è laureato in fisica ed è andato avanti con borse di studio e contratti di collaborazione occasionale al Cnr. «Venivo pagato solo undici mesi l' anno, e l' ultimo stipendio lo chiamavano l' undicesima». Stufo, ha deciso di emigrare e di andarsene ad Amburgo per un anno come ricercatore di robotica a contratto, stipendio 2 mila euro. A dieci anni dalla laurea è tornato in Italia perché nel frattempo ha vinto un concorso all' Enea per un posto a tempo determinato e 1.200 euro al mese. Scaduto il contratto ha vinto un secondo concorso e sta aspettando di entrare in servizio. «La beffa è che a 42 anni l' industria mi considera troppo vecchio». Anche Luigi V., bergamasco, autore della miglior tesi in diritto penale della sua sessione all' università di Milano, racconta una storia esemplare. «Mi hanno preso prima come assistente all' università, facevo esami, organizzavo convegni, mai visto una lira. Allora sono entrato nell' avvocatura con paghe da rimborso spese. Negli studi legali vige lo sfruttamento selvaggio dei giovani laureati. In un anno sono girati una trentina di praticanti». La realtà denunciata da Luigi è così estesa che il consiglio dell' Ordine di Milano ha imposto agli studi un salario minimo non inferiore a 500 euro e maggiore trasparenza. Per uscire dal tunnel tantissimi giovani avvocati giocano la carta del concorso da magistrato: quest' anno sono stati 26 mila a presentarsi agli esami per 350 posti da toga. «SIETE TROPPI» - Per gli ordini professionali la causa di tutto ciò è abbastanza chiara: ogni anno vengono abilitati circa 15 mila nuovi avvocati e circa il 30% degli architetti europei è italiano. Troppi. Se il Belpaese produce un architetto ogni 548 abitanti, nel Regno Unito ce n' è uno ogni 7.500 residenti. Gianfranco Pizzolato vicepresidente dell' Ordine dà la colpa all' università di massa, ammette che «i giovani architetti spesso finiscono per riciclarsi come grafici, consulenti tecnici, impiegati nei Comuni» e aggiunge che molti alla fine preferiscono emigrare. Destinazione preferita la Spagna, dove è segnalata un' elevata domanda di creatività. E lo sfruttamento? «I nostri studenti escono dalle università con una preparazione tecnica mediocre rispetto ad americani, francesi e tedeschi. Così da noi, negli studi, continuano la didattica. Certo - aggiunge Pizzolato - bisognerebbe regolamentare il rimborso spese per il tirocinante». Per Paolo Giuggioli, presidente dell' Ordine degli avvocati di Milano, sono troppi i giovani che si iscrivono a Giurisprudenza, «bisognerebbe che studiassero fisica, chimica, ingegneria». Il mercato, a suo giudizio, «è drogato dalla troppa facilità con cui vengono superati gli esami di abilitazione, specie al Sud. A Catanzaro e Reggio Calabria c' è una specie di industria delle promozioni». Il profilo del neo-avvocato di successo è «quello dell' imprenditore di se stesso», comportamento però che in pochi riescono ad assimilare. Per i tanti che non ce la fanno sono dolori. «Riciclare un avvocato è come creare uno spostato». CONTA LA CLIENTELA - Chi studia da anni e anni il mondo delle professioni è Gian Paolo Prandstraller, sociologo all' università di Bologna. La sua riflessione parte da un elemento chiave: «Un libero professionista è tale quando ha clienti suoi, fino ad allora non ha autonomia». E per conquistare clienti ci vuole ovviamente un elevato capitale sociale fatto di relazioni a tutto campo che per un giovane costituiscono una barriera insormontabile. In più il lavoro è diventato sempre più complesso. «Prima bastava conoscere il codice. Ora senza avere una struttura informativa che comprende le sentenze del Consiglio di Stato, dei Tar e della Cassazione e in più i raffronti internazionali, non si è competitivi sul mercato». Anche i clienti sono cambiati. «I privati sono sempre di meno, la vera clientela è fatta di enti e Spa ed è chiaro che, se prima bastava il passaparola, oggi ci si rivolge agli studi più quotati. Una società che vuole aprire un centro commerciale si rivolge a professionisti che ne hanno già curato almeno un altro». Tutto quindi congiura contro gli outsider. La laurea da ingegnere dà invece una doppia chance. Si può esercitare la libera professione o si può, più spesso, essere assunti in aziende medio-grandi come lavoratori dipendenti. Dei livelli retributivi di ingresso abbiamo già detto (un giovane ingegnere guadagna in media il 30% in meno di un suo collega di Parigi o Berlino) ma non c' è dubbio che l' impresa sia per sua natura più orientata a favorire il merito di quanto lo siano gli Ordini. All' ingresso però un 110 e lode non vale uno stipendio più alto: secondo una ricerca realizzata da Od&M Consulting su 180 aziende per il 77% delle imprese il voto del neolaureato è praticamente ininfluente e il 66% non bada nemmeno all' autorevolezza della facoltà di uscita. Se però fino a qualche anno fa era possibile raddoppiare la paga nel giro di pochi anni ora tutto il percorso di carriera si allunga. E persino nel mondo del web, dove la creatività dovrebbe farla da padrona e autorizzare carriere turbo, la gavetta sta diventando la norma e il salario d' ingresso è basso. Una multinazionale del largo consumo ha da poco assunto a tempo determinato, dopo un' estenuante selezione, il responsabile del suo sito Internet. Stipendio: 600 euro. (ha collaborato Emiliano Fittipaldi) (6 - continua. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 20/11, il 24/11, l' 1/12, il 10/12 e il 22/12) Il dibattito su Corriere.it Come percepiscono gli italiani il mutamento della società avvenuto negli ultimi anni? Il sito del Corriere offre uno spazio di discussione online aperto a tutti e legato all' inchiesta iniziata il 20 novembre. Nelle puntate precedenti si è parlato di declino dell' ex ceto medio, nuovi benestanti, mobilità sociale, nuovi emigranti, rapporto con l' euro. Servizi e forum su www.corriere.it Per saperne di più La rivista Economia & Lavoro (Fondazione Brodolini) ha dedicato il numero 2 del 2003 alla sociologia delle professioni. Per La valutazione del costo degli studi universitari in Italia fa testo il volume di Giuseppe Catalano e Guido Fiegna edito dal Mulino. Sulla condizione degli ingegneri esiste una recente ricerca di Emanuele Palombo e Massimiliano Pittau (www.centrostudicni.it) LA STORIA «Da avvocato non vedevo futuro: ora faccio la soldatessa» ROMA - «Di stress e frustrazioni, in cambio di uno stipendio da fame, ne avevo le scatole piene. Ho capito che fare l' avvocato non faceva per me. Così ho cambiato tutto, e sono diventata un soldato». Caterina C. ha 29 anni, è di origini meridionali, ha studiato all' Università «La Sapienza» di Roma e si è laureata con il massimo dei voti in giurisprudenza. Ora vive in Piemonte. «Per fare l' ufficiale dell' Aeronautica dovevo avere la laurea: gli studi a qualcosa mi sono serviti». Quanto guadagnava come avvocato? «Nello studio dove lavoravo mi davano un piccolo rimborso spese: quando mi andava bene, portavo a casa 500 euro al mese. Troppo poco, non ci paghi nemmeno le bollette. Dopo aver vinto il concorso in aeronautica, la mia busta paga è triplicata: 1500 euro. È lo stipendio d' ingresso». Non le dispiace aver lasciato la professione? «Continuo a pensare che l' avvocato sia il mestiere più bello del mondo. Ma per fare carriera e guadagnare un po' di soldi devi essere spalleggiato. Per quanto tu sia bravo, è impossibile sfondare se non c' è qualcuno che ti passa i clienti. Devi avere pazienza, prima di poter diventare indipendente dal punto di vista economico rischi di aspettare anni. Se il lavoro di un procuratore è certamente affascinante, la vita che facevo prima non mi manca per niente. Molti sacrifici, pochissime soddisfazioni». A quali mansioni era stata adibita? «In pratica, facevo lo scagnozzo. Tutti i giovani laureati, praticanti e non, vengono sfruttati senza pietà. Nessun orario fisso, ovviamente. Ma questo lo avevo messo in conto. Io abitavo ad Anzio, e dovevo uscire di casa alle sei di mattina. Tutti i giorni. Correvo allo studio, lavoravo alle pratiche, facevo udienze. Anche se ero alle prime armi, producevo per decine di milioni. Ma rimani sempre l' ultima ruota del carro». Così ha deciso di dare una svolta alla sua carriera. «Cambiando mestiere. Erano mesi che mi guardavo intorno. Alla ricerca di un posto più tranquillo e più remunerativo. Una amica mi ha segnalato il concorso come ufficiale. L' ho vinto, e sono entrata in aeronautica come tenente. Mi piace. Soprattutto, è un lavoro sicuro. Il sogno di tutti: un posto fisso e ben pagato, dove sai a che ora inizi e sai quando puoi tornare a casa». Emiliano Fittipaldi ______________________________________________ L’Unione Sarda 15 Gen. 04 PER GLI AUTISTI MISTRETTA CONTRO LA LAUREA Dicono che tra i critici ci fosse addirittura il rettore dell’università Pasquale Mistretta. Anzi, che fosse tra i più convinti a sostenere che la laurea non serve. . Ai tassisti, ovviamente. Insomma, un ingegnere deve saper progettare, un commercialista far quadrare i conti. Un tassista, è ovvio, deve saper guidare. E allora la laurea che c’azzecca? Invece, tra i titoli, vale 20 punti, quanto una lunghissima anzianità di servizio sostitutivo, contro i 16 del diploma. Insomma, un autista che ha lavorato per vent’anni come sostituto di un collega, senza diritto al radiotaxi, senza orari, a tariffe minime, senza garanzie, può essere superato da un neolaureato senza esperienza. Paolo Frau, capogruppo dei Ds, non concorda: "Ma scusate", dice ai colleghi, "con la disoccupazione intellettuale che cresce, perché non dare ai laureati disoccupati anche questa opportunità?" Nella giornata dei paradossi anche Radhouan Ben Amara (Prc), che insegna lingue, esprime la sua contrarietà ai 20 punti assegnati a chi conosce tre o più lingue. E concorda con Mistretta sull’inutilità della laurea. E pensare che Ettore Businco, predecessore di Onorato al traffico, ai dottori avrebbe assegnato non 20 ma 25 punti. ______________________________________________ La Nuova Sardegna 16 Gen. 04 ERSU NEL CAOS, REGIONE SOTTO ACCUSA Da oltre due anni l'organismo manca del suo presidente LA POLEMICA "Una creatura divisa a metà" CAGLIARI. I membri del Consiglio d'amministrazione ci sono tutti: c'è il rappresentante degli studenti, quello dei docenti, i due membri nominati rispettivamente da maggioranza e opposizione del Consiglio regionale. All'appello manca solo lui: il presidente. Una carica, la sua, decaduta due anni fa, ma che la Regione non ha ancora pensato di rimpiazzare. Così, dopo due anni di gestione da parte del solo commissario straordinario, l'Ente regionale per il diritto allo studio universitario è ora una creatura a metà: impermeabile ai repentini cambiamenti degli ultimi anni, e incapace d'ascoltare le nuove esigenze del mondo studentesco. Ieri, lo sfogo e la rabbia di tre dei consiglieri d'amministrazione, costretti con le mani legate ormai da troppo tempo. "È dal gennaio del 2003 che l'Ersu è gestito in maniera del tutto monocratica- ha esordito Giancarlo Nonnoi, rappresentante dei docenti- Se però la figura di un commissario straordinario poteva avere un senso all'inizio, quando i membri del Cda non erano ancora stati nominati, non capisco che ruolo possa avere adesso. Cosa ci vuole perché Italo Masala nomini il presidente?". Una domanda fatta, e rifatta, più volte nel corso di tutti questi mesi, ma a cui non è mai arrivata risposta. Neppure quando, qualche tempo fa, il presidente della Regione, insieme col Rettore dell'università di Cagliari, Pasquale Mistretta furono invitati a dare spiegazioni nel corso di una trasmissione di Radiorai. "In quell'occasione- racconta Nonnoi- Mistretta, che pure dovrebbe partecipare alla nomina del presidente dell'ente, dichiarò di non essersi mai sentito con Masala. Il che è un fatto a dir poco gravissimo". Così, nel silenzio delle istituzioni, l'Ersu è andato avanti guidato da una sola persona, il commissario straordinario Silvaldo Gadoni che, solo, soletto, ha impegnato l'Ente in operazioni di indubbia consistenza. Come la costruzione di una nuova Casa dello studente, da 330 posti letto, nel complesso dell'ex semoleria di via Is Maglias, per una spesa pari a circa 20 milioni di euro: "In assoluto, l'affare più grosso che l'Ersu si sia mai trovato per le mani", sbotta indignato Matteo Murgia, rappresentante degli studenti. Che aggiunge: "In pratica, per la nuova casa l'Ersu spenderà oltre 60 mila euro a posto letto: una pazzia se si pensa che nell'ex Hotel moderno, in un lussuoso palazzo di via Roma, mettere su una casa dello studente, di euro ne ha invece costati 49 mila". Non che il giovane Matteo sia contro l'aggiunta di nuovi alloggi: "Quel che non sopporto- dice- è che con tutti quei soldi si sarebbero potuti mettere insieme ben più di 330 posti letto. Se il Cda fosse stato funzionante, avremo discusso della cosa, e certi problemi ora non ci sarebbero". Ma quel che manca è anche tutta una serie di servizi che da tempo l'ente non riesce più a garantire. A partire da quelli culturali: servizi che prima creavano tra gli studenti dei bei momenti di scambio e di svago e che ora, non ci sono più. "Qui ci sono diverse violazioni- dice ancora Nonnoi-: non ultimo il fatto che il commissario sia consigliere comunale e militante di un partito (Sardistas ndr). A questo punto valuteremo l'ipotesi di ricorrere alle vie legali". In queste condizioni la sola speranza, dice Sabina Contu, altra consigliera, "è che il presidente della Regione Masala abbia alla fine un sussulto di dignità". Speranza che, data la gestione attuale, sembra però destinata a morire. Sabrina Zedda _______________________________________ Il Sole 24Ore 12 gen. ’04 OPINIONI DI SCIENZIATI E SOUBRETTE di Andrea Pezzi Ogni nuovo mezzo di comunicazione non distrugge i precedenti, .ma li cambia. Nel caso di Internet in molti avevano parlato della fine della carta stampata, ma questi hanno dovuto ricredersi nel vedere il moltiplicarsi delle pubblicazioni, molte delle quali hanno mutuato da Internet il principio della gratuità. E i cambiamenti in questo ambito sono ancora in corso. La televisione commerciale, ad esempio, dagli anni 80 in poi ha cambiato i3 modello strutturale del giornalismo di approfondimento. I mensili di larga diffusione e con abbondanti inserzioni commerciali, sono diventati sempre più simili alla Tv generalista: dei frullati in cui mescolare un numero crescente di mondi e di culture, parificando i temi "alti" a quelli "bassi". Questa logica si rifà chiaramente ai principi della cultura di massa che ci prevede tutti uguali: il top manager, lo scienziato, il personaggio televisivo di turno e il caso umano stanno sullo stesso palcoscenico; l'approfondimento leggero sulla situazione finanziaria italiana e l'annoso problema del seno rifatto contro quello naturale condividono le stesse pagine. Tutti questi temi hanno, nella logica della comunicazione di massa, la stessa dignità e accontentando la velleità di approfondimento con la logica del nulla che non impegna, espletano una funzione sociale dignitosamente accettabile. In tutto questo, guardando i vari prodotti editoriali, risulta chiaro che le sole differenze riscontrabili derivano dal dosaggio di questi pochi costanti elementi del "frullato editoriale". Non è il caso di soffermarsi sul senso morale o me no dell'utilizzo del "basso" per comunicare i contenuti ritenuti più "alti": una donna nuda spesso è più espressiva del pensiero di molti editorialisti. II problema è come siamo arrivati fino a questo punto? Cosa rende inopportuna la vocazione editoriale all'approfondimento culturale per i prodotti di massa? È "la gente" che non vuole perché interessata solo al nulla? O è la cultura ufficiale che non riesce a fare breccia perché oltre l’autoreferenzialità di certi intellettuali non c'è nulla di commestibile'. È certo che in questi ultimi anni sono profondamente cambiate tutte le logiche per le quali si decide di fare cultura: se prima si scriveva con l'aspirazione di lasciare un segno nella storia, oggi la percezione del sapere come di una tensione fine a se stessa, ha fatto sì che tutto venisse esposto in funzione di un tornaconto più immediato e per lo più puramente economico. E del resto se la cultura e la sapienza ufficiali non riescono a rendere la vita più accettabile se non addirittura piacevole, perché mai fregiarsi di essere studiosi? Opinione per opinione, quella di uno scienziato del Cnr può stare accanto, e forse ha bisogno di stare accanto, all'intervista della soubrette del momento. Ma se ormai è opinione comune che il modello televisivo generalista e tutta la cultura che ne è il fondamento sono in crisi, occorre chiedersi se esista oggi una strada per creare un prodotto editoriale che sia un successo in numeri centrando una necessità larga per quanto è largo il mercato, ma che sia in più onorevole effetto di una aspirazione superiore da parte di tutti. Mai come oggi le opinioni, quando nascono da sensibilità e culture diverse, denotano un valore di utilità e funzionalità rispetto a tutte quelle persone che vogliono lavorare producendo valori e ricchezza; oggi e sempre di più domani. ================================================================== _______________________________________ Il Sole 24Ore 14 gen. ’04 E ORA CHE L’ITALIA CREDA NEL BIOTECH Le biotecnologie sono strategiche per il Paese secondo lo studio sulle «Priorità nazionali della ricerca industriate» della Fondazione Rosselli Le biotecnologie sembrano perfette per il tessuto economico italiano. Hanno bisogno di capitali modesti, poca energia, l'impatto ambientale è basso e le esigenze di logistica molto ridotte. E, dettaglio da non trascurare, il loro sviluppo permetterebbe di produrre innovazioni ad alto valore aggiunto da trasferire con successo all'industria e assorbire rapidamente un vasto numero di laureati in materie scientifiche che oggi guardano all'estero per fare ricerca. È questo il quadro disegnato nel capitolo dedicato al biotech nel secondo rapporto sulle «Priorità nazionali della ricerca industriale» pubblicato dalla Fondazione Rosselli. L'analisi, redatta da un panel di dieci esperti provenienti dall'università, dalla ricerca pubblica e industriale, individua le tecnologie principali all'interno dei diversi campi d'applicazione del biotech: terapie e diagnosi biomediche, agroalimentare, industria e ambiente, descrivendone le prospettive di evoluzione nel corso dei prossimi 10 anni e valutando l’attrattività di ognuna per l'Italia. L'analisi contraddice il luogo comune che il biotech sia ormai un settore riservato alle grandi imprese straniare come Amgen e Genetech che non lascerebbero spazio per nuove iniziative e individua una strategia "minimalista" volta alla promozione di spin-off dalla ricerca pubblica che potrebbe rivelarsi premiante anche per l'Italia. Le opportunità. Il contesto internazionale è maturo e ben più solido di qualche anno fa: se nel 1999 solo 21 aziende facevano profitti a livello mondiale nel campo dei farmaci biotech, quest'anno la Food and drug administration americana ha ricevuto più richieste di autorizzazione per farmaci biotech che per quelli tradizionali e più di 50 gruppi biotech dovrebbero fare profitti l'anno prossimo. Non solo, nei prossimi anni i prodotti biologici oggi in corso di sviluppo nei laboratori hanno una probabilità tre volte più alta di arrivare sul mercato rispetto alle molecole tradizionali, secondo i consulenti della britannica Wood Mackenzie. « Il biotech è un settore che premia l'innovazione - osserva Claudio Roveda, consigliere delegato per la ricerca della Fondazione e coordinatore del rapporto -, e se è vero che la competizione è quasi immediatamente a livello globale, ci sono ottime possibilità di avviare un biotech nazionale competitivo, se si scelgono le nicchie giuste in cui operare». Una strategia in qualche modo obbligata visto che nel 2003 il mercato dei capitali di rischio per il biotech, che negli Stati Uniti ha raggiunto gli 8,52 miliardi di dollari, in Europa ha raccolto appena 1,73 miliardi secondo la Windhover information. Tre settori per l’Italia. Il rapporto individua tre settori promettenti per l'Italia: la salute, nella quale possiamo vantare un'alta tradizione di ricerca nonostante la mancanza di grandi aziende farmaceutiche nazionali, l’agroalimentare, inteso non solo come Ogm (non approfonditi nel rapporto perché fortemente dipendenti dall'evoluzione del quadro normativo), ma anche come tecnologie molecolari per la selezione di nuove varietà; e quello industriale. Quest'ultimo comprenderebbe anche la protezione dell'ambiente poiché le biotecnologie adottate all'interno dei processi produttivi per ridurre i costi sono spesso in grado di ridurre anche l'inquinamento. La "bioremediation", ovvero la bonifica di un'area mediante microrganismi o piante in grado di digerire o estrarre gli inquinanti dal terreno e dall'acqua, è invece ancora limitata poiché la normativa vigente limita le possibilità di diffusione di organismi trasgenici nell'ambiente. La bioindustria. La bioindustria italiana (che contribuisce in modo limitato al settore della cura della salute, ma è ben radicata nella produzione di enzimi e dei prodotti da fermentazione), secondo la Fondazione Rosselli, rappresenta oggi il 6,3% del prodotto interno lordo nazionale. Il fatturato è passato dai 735 milioni di curo del 1994 ai 2.800 del 2000 e promette di toccare i 7mila entro il 2005. Il buon livello di competenze presente nel nostro Paese non vuol però dire che le biotecnologie abbiano la strada spianata. «In campi altamente innovativi come le biotecnologie il trasferimento di conoscenze è prima di tutto trasferimento di cervelli - osserva Roveda -, ma il nostro sistema scoraggia i ricercatori a uscire dal mondo accademico per partecipare all'avviamento di un'impresa, perché non gli permette di rientrarvi come invece succede negli Stati Uniti e in Germania. Il secondo problema sono i brevetti: in Italia sono scarsamente tutelati e i ricercatori preferiscono pubblicare piuttosto che brevettare. Così si aiuta tutta la comunità scientifica, ma non il sistema economico italiano e per gli imprenditori non avere una protezione forte della proprietà intellettuale significa esporsi a rischi più alti negli investimenti». Infrastrutture carenti. Non meno importante è il problema delle infrastrutture. «Ci sono ancora diversi nodi da sciogliere - dice Lilia Alberghina, direttrice del Centro di eccellenza per le biotecnologie industriali (Cebib) dell'Università di Milano-Bicocca, che ha partecipato alla stesura del rapporto -, bisogna innanzitutto creare delle condizioni che facilitino la nascita di spin-off e start-up non solo industriali, ma anche accademiche, attraverso la realizzazione di bioincubatori, capaci di ospitare le imprese nascenti offrendo spazi attrezzati, servizi tecnologici e gestionali. Per la creazione di questi biodistretti è fondamentale la nascita di un sistema di cofinanziamento pubblico-privato e che si sviluppi anche un meccanismo di public-procurement, in cui i fondi pubblici servano da catalizzatore per gli investimenti provati, come per esempio è stato fatto dall'Nih statunitense nel campo dei vaccini». Il passo più difficile per l'avvio di imprese sembra proprio a livello dei biodistretti che, al contrario di quelli tradizionali nati anche casualmente sul territorio negli ultimi 40 anni, hanno bisogno di una strategia di pianificazione forte a livello nazionale per creare una rete di interazione con i centri ricerca di eccellenza ai quali il distretto fa riferimento. Un buon esempio è l'esperienza delle "bioregioni" tedesche che, pur consentendo l'aggregazione di imprese intorno ai centri di ricerca universitari tecnico-scientifici, ha visto un forte intervento del governo federale e dei singoli Lander per stimolare la creazione di Pmi attraverso il coinvolgimento degli enti locali e delle realtà accademiche, ne hanno indirizzato la localizzazione. È interessante notare che circa la metà degli addetti di ogni distretto tedesco operano nei servizi di supporto: finanziari, legali, di consulenza gestionale, per il trasferimento tecnologico. Ciò non significa che si possano predefinire a livello politico le aree di sviluppo delle attività industriali e su quali innovazioni puntare, ma piuttosto bisogna concepire i bioincubatori per grandi aree in grado di mettere a frutto una scoperta innovativa. «È opportuno che lo sviluppo di biodistretti e delle società sia un processo bottom-up - osserva Alberghino -, perché le competenze diffuse sono importanti per dare luogo ad aziende di servizio, che funzionano localmente secondo un modello local to local, ma il vero motore dea mercato è l'innovazione portata da aziende che si basano su idee radicalmente nuove in grado di competere su un mercato globale secondo un modello local-to global. Anche nell'area milanese dove si concentrano il 40% delle aziende biotech nazionali e dove non mancano Università e gli istituti scientifici di altissimo livello, per ora abbiamo ancora soltanto un biodistretto potenziale». Le difficoltà non sono perciò poche per l'Italia, sprovvista di grandi gruppi farmaceutici e agrochimici, e carente nelle infrastrutture, ma il rapporto è sostanzialmente ottimista anche in virtù dei segni di ripresa delle Borse, interessate al forte impatto della farmacogenomica sull'industria farmaceutica. «Il biotech è un treno che possiamo ancora prendere - conclude Alberghina -, e anche se non saliremo sulla prima carrozza insieme agli Stati Uniti, è fondamentale salire a bordo e sono sicura che il nostro Paese potrà competere con ottimi risultati». ______________________________________________ La Nuova Sardegna 10 Gen. 04 POLICLINICO: TOCCA AL CONSIGLIO Nel cammino a tappe dell’azienda mista adesso serve l’impegno dell’assemblea regionale Gara pubblica per l’incarico di direttore generale CAGLIARI. L’assessorato alla sanità i compiti li ha fatti, vale a dire ha preparato la bozza per il protocollo d’intesa con l’università e la Regione per istituire le aziende miste degli ospedali di riferimento delle due facoltà di Medicina. Il prossimo scoglio dell’azienda mista si chiama consiglio regionale. Perché la proposta che di fatto riformerà il funzionamento delle facoltà di Medicina è contenuta in un progetto di riorganizzazione degli ospedali sardi all’eterna attenzione del consiglio. Non c’è bisogno che il consiglio licenzi l’intera razionalizzazione della rete ospedaliera: basta che stralci il capitolo. Se questo succederà il lavoro dell’assessorato coronerà sforzi e aspettative, di universitari, ospedalieri e studenti. Altrimenti la bozza sarà carta destinata a ingiallire nei cassetti mentre le facoltà sarde perderanno ogni credibilità davanti al consesso medico e istituzionale europeo. Ce lo possiamo permettere? La bozza ha cominciato il giro delle presentazioni. Giorni fa l’hanno ricevuta i sindacati Cgil, Cisl e Uil. Nella commissione che l’ha elaborata c’erano i due presidi delle facoltà di Medicina e varie rappresentanze del mondo ospedaliero. Si racconta che sia un documento equilibrato dove per equilibrio, in questo caso, s’intende che le esigenze dei medici ospedalieri e quelle dei colleghi universitari sono collocate sullo stesso piano e hanno ottenuto pari dignità di considerazione e di trattamento. La precisazione è necessaria perché, con i vecchi rapporti di forza, l’equilibrio sarebbe stato raggiunto soltanto con uno sbilanciamento a favore dell’università. Sembra che questo potere ridimensionato (ma certo di più nobile contenuto) stia creando qualche fastidio proprio all’interno dell’ateneo e si racconta che ci sia il rettore dell’università cagliaritana deciso ad apportare ritocchi a favore della sua amministrazione. Caratteristica del documento licenziato dalla commissione riunita dall’assessore alla sanità è di contenere principi generali che dovrebbero governare il funzionamento delle due facoltà e degli ospedali che a queste si riferiscono (si poteva invece scegliere la strada di stipulare una convenzione con l’università di Cagliari e un’altra con quella di Sassari). Soltanto una volta costituita l’azienda mista il direttore generale entrerà in tutti i dettagli necessari nell’elaborazione del cosiddetto atto aziendale (il programma di lavoro di una usl che è anche un contratto integrativo rispetto alle disposizioni generali). Nella parte che riguarda il personale universitario, l’atto aziendale sarà concertato, ovviamente, con la facoltà di Medicina. Altro aspetto che dimostra la possibilità di una pacifica convivenza tra ospedalieri e universitari è la nomina del manager dell’azienda. Il direttore generale sarà cercato attraverso un avviso pubblico e nominato dalla Regione d’intesa con l’università. Non succederà che Regione e università compongano una terna e in questa si scelga. Il sistema delle terne, di solito, genera patteggiamenti infiniti tra le forze politiche e ritardi insopportabili per il buon funzionamento di un’azienda dove si devono produrre risultati molto importanti per la comunità. L’ossatura del documento dovrebbe incontrare il consenso delle parti perché la bozza è stata costruita dopo varie audizioni delle parti ospedaliere e universitarie. In altre parole, il documento dovrebbe essere riuscito a risolvere le contraddizioni e non a provocarle. Una volta che finirà il giro di consultazioni, dato lo schema che è stato impresso alla bozza, l’assessorato in un paio di giorni di lavoro intenso potrebbe essere in grado di redigere il testo della convenzione definitiva. Fatto il miracolo della pace raggiunta tra universitari e ospedalieri, riuscirà anche quello di riunire il consiglio regionale su questo argomento decisamente non qualunque? (a. s.) ______________________________________________ L’Unione Sarda 13 Gen. 04 CINQUANTA MINUTI IN PULLMAN TRA LA STAZIONE DI CAGLIARI E IL POLICLINICO Monserrato. Il lungo, interminabile viaggio in treno degli studenti diretti verso il capoluogo Per i pendolari della Cittadella la sveglia suona prima dell’alba Oltre cinquanta minuti in pullman tra la stazione di Cagliari e il Policlinico È la cittadella dei pendolari. La sveglia suona un’ora prima dell’alba e poi un lungo viaggio in treno e in corriera per raggiungere l’università. Arrivano ogni giorno dai confini della provincia, ma anche dai paesi dell’Oristanese, per assistere alle lezioni nella cittadella di Monserrato, il nuovo tempio universitario delle scienze e della medicina. Tre ore di viaggio all’andata, altre tre per rientrare a casa, con l’ansia continua del poco tempo per riuscire a studiare: "Vivere a Cagliari costa troppo", spiega Eliana Frau, studentessa di Mogoro: "Non tutti possiamo permettercelo: se non si ha diritto alla casa dello studente affittare una stanza costa un sacco di soldi. Meglio viaggiare, anche se è faticoso". E anche chi arriva dalla città si sente comunque un mezzo-pendolare. "Qui siamo tutti pendolari", spiega Luca Nonnis, ieri mattina diretto al Policlinico. "Per arrivare in autobus da Cagliari, esattamente da piazza Matteotti, ci vogliono dai 40 ai 50 minuti, mentre al ritorno ci sono giorni in cui ci si impiega anche un ora e un quarto". Salvo piccole eccezioni, il compito di trasportare gli studenti pendolari è affidato alle tre maggiori società regionali (il Ctm, l’Arst e il sistema misto treno-pullman delle ferrovie), ma anche a un gran numero di privati, più o meno in regola, con furgoni e piccoli pulmini. A seguito del continuo trasferimento di corsi dalle facoltà cagliaritane al nuovo ateneo monserratino, anche le tre aziende hanno potenziato le corse: il consorzio Ctm ha aumentato il numero di mezzi e migliorato anche i collegamenti con gli altri comuni dell’area metropolitana; stesso discorso anche per l’Arst che già da alcuni mesi ha attivato nuove linee e incrementato quelle già esistenti. Ma restano i disagi per chi è costretto a lunghe sfacchinate per raggiungere l’ateneo, a giudizio degli studenti ancora troppo scollegato con i resto della città: "Talvolta abbiamo problemi anche solo per fare delle fotocopie", racconta Beatrice Angioni, futura farmacista di Nuraminis: "Qui in cittadella esistono delle copisterie, ma talvolta tutte le fotocopiatrici sono occupate. Chi possiede un’auto può andare in cinque minuti a Sestu o a Monserrato per copiare gli appunti, gli altri invece sono penalizzati perché prendendo gli autobus, tra una cosa e l’altra, si perde tutta la mattina". Disagi raddoppiati invece per gli universitari del Sulcis-iglesiente, costretti a prendere un treno sino a Decimo e poi l’autobus sino a Monserrato. Ma c’è perfino chi arriva da più lontano: "Ci alziamo tutte le mattine alle cinque e mezzo per venire in facoltà e torniamo a casa alle 16", raccontano Anna e Maria Rosa, la prima in biologia, l’altra in farmacia, entrambe di Ales: "I posti alla casa dello studente sono pochi e i proprietari delle case se ne approfittano e chiedono cifre da capogiro. Sarebbe bello se la cittadella di Monserrato si trasformasse in un campus all’americana. Visto che siamo in mezzo alla campagna, lo spazio per fare i dormitori non manca". E intanto le aziende titolari del trasporto pubblico annunciano ulteriori potenziamenti: in arrivo nuove linee per raggiungere i comuni dell’hinterland, mentre aumentano anche i privati. Francesco Pinna ______________________________________________ L’Unione Sarda 12 Gen. 04 A NUORO UN CORSO UNIVERSITARIO PER PREPARARE I FUTURI INFERMIERI La Sardegna è una delle poche regioni ad avere tanti infermieri iscritti ancora alle liste di disoccupazione, ma il problema della formazione professionale rischia di esplodere nei prossimi anni. Perché oggi solo i centri universitari di Cagliari e Sassari possono sono abilitati a preparare queste figure: 30-40 nuovi infermieri all’anno - sostiene Angelo Piras, docente di infermieristica all’Università di Cagliari e responsabile incaricato del Servizio infermieristico dell’Asl di Nuoro - appena sufficienti a garantire il turn over di un grande ospedale come il Brotzu di Cagliari o il San Francesco di Nuoro. E se in tutta Italia ciascun operatore sanitario può aspirare ad una formazione sanitaria con laurea di primo livello, master o lauree specialistiche, la Sardegna per colpa della mancata firma del protocollo Regione-Università è l’unica regione a fornire ancora i diplomi universitari anziché la laurea perché non sono stati attivati i percorsi formativi previsti dalla riforma universitaria del 1999. "Questo ritardo rischia di avere effetti negativi sui risultati che i cittadini potrebbero invece avere con infermieri più preparati ", scrive in una nota Angelo Piras, sollevando il problema della scuola barbaricina chiusa da qualche anno: "Un centro come Nuoro deve avere i corsi di laurea per infermiere anche nel rispetto di una storia di una scuola regionale che ha fornito personale specializzato che ci hanno invidiato in tutta Italia. Così come è urgente che in Sardegna siano attivati i master di specializzazione in area critica, assistenza all’anziano e in psichiatria, come è altrettanto importante che le università sarde attivino per lo meno un corso di laurea specialistica per infermieri". In questo specifico campo Nuoro può giocare un ruolo specifico proprio nella formazione, tanto che Angelo Piras lancia un appello al sindaco Mario Zidda, al presidente della Provincia Francesco Licheri, al Consorzio universitario, ai rettori degli atenei di Cagliari e Sassari e agli assessori regionali alla Programmazione e alla Sanità. "Quando l’offerta formativa sarà completata", scrive Piras, "gli infermieri potranno davvero sviluppare ed esercitare una competenza stratificata su più livelli. Potranno progredire da un livello nazionale ad un livello più avanzato approfondendo metodi, strumenti e conoscenze messe a disposizione dalla ricerca. La pratica infermieristica avanzata sarà quindi offerta da infermieri esperti nello specifico campo del nursing". _______________________________________ Il Sole 24Ore 10 gen. ’04 «RISOLTO IL REBUS DEI VACCINI» Nobel Rolf Zinkernagel spiega perché non si riesce a prevenire terapeuticamente Aids ed epatite C - Ma il futuro è nelle biotecnologie L'uomo é strutturato per dare risposte immunitarie forti a patologie acute, di routine a quelle croniche GENOVA a In centovent'anni la scienza non è riuscita a trovare un vaccino contro la tubercolosi e la lebbra. E anche per l’Aids e l'epatite C, che pure sono malattie più "recenti", l'ipotesi di una vaccinazione efficace è ancora lontana. Per altre infezioni, a partire dall'influenza per arrivare fino alla parotite o alla rosolia, il vaccino è stato invece messo a punto ed è efficace. Esistono dei motivi per spiegare queste differenze? Probabilmente, alla base delle attuali difficoltà ci sono i meccanismi difensivi specifici dell'organismo umano, che nelle infezioni senza ancora un vaccino sono generalmente diversi rispetto a quelli che entrano in gioco per altre malattie come il morbillo 0l’influenza. E forse, oltre alla variabilità dei virus che entrano in gioco in alcune patologie, esiste anche una sorta di "predisposizione" evolutiva dell'essere umano a combattere diversamente malattie che hanno uno sviluppo lento, come appunto l'infezione da Hiv e l'epatite C rispetto a infezioni acute. Questa teoria, che aiuta a spiegare le oggettive difficoltà della scienza nella messa a punto di vaccini efficaci contro alcuni virus, è di Rolf Zinkernagel, direttore dell'Istituto di Immunologia dell'Università di Zurigo e Premio Nobel per la Medicina nel 1996 per le sue ricerche in queste settore. In sostanza, secondo Zinkernagel - ospite del convegno «Children and the Mediterranean» di Genova - la ricerca riesce a mettere a punto vaccini efficaci contro malattie acute, che agiscono nelle età giovanili e scompaiono pochi giorni dopo avere raggiunto l'apice, ma ha difficoltà nelle malattie in cui si instaura un equilibrio tra organismo e virus. E forse questo è correlato alla natura stessa dell'uomo. «Dal punto di vista prettamente biologico della conservazione della specie, l'essere umano è "predisposto" per vivere imo a 25- 30 anni, in modo da arrivare ad avere figli, dopo di che diventa inutile»,, è la spiegazione del Nobel. E evidente che il sistema immunitario si è quindi "organizzato" per avere risposte anticorpali rapide ed efficaci in caso di malattie che possono uccidere nelle fasce di età più giovani, mentre tende a "dilazionare" le risposte in altre patologie con le quali può convivere. Lo stiamo vedendo anche con il virus Siv delle scimmie, che ormai viene sopportato dagli animali come un'infezione cronica. Forse è proprio per questo che i tentativi di produrre vaccini per infezioni che tendono a cronicizzare non hanno ancora portato a risultati apprezzabili». Ma oltre a questa ipotesi, tuttavia, esistono delle basi scientifiche comprovate che spiegano le difficoltà dei ricercatori: difficoltà che risiedono nelle differenti risposte del sistema immunitario di fronte ai virus. «Siamo abituati ad avere vaccini che agiscono attraverso la produzione di anticorpi specifici contro determinati virus e batteri, ma in certi casi non è questa la via attraverso cui il corpo si difende dall'infezione, e quindi è necessario studiare altre strade efficaci - spiega Zinkernagel - Questo tipo di difesa si definisce cellulo-mediata e su di essa è difficile influire, perché al momento non possiamo imitare il meccanismo naturale di stimolazione dei linfociti T». La prima difficoltà nella messa a punto di nuovi vaccini, insomma, sarebbe nascosta all'interno del sistema immunitario. I preparati di cui disponiamo stimolano la produzione di anticorpi neutralizzanti l'attività del virus e agiscono prima ancora che questo entri all'interno della cellula. Inoltre, visto che nella vita capita di "incontrare" virus che stimolano la produzione di anticorpi nel tempo, la protezione si prolunga. Per altri virus, invece, i meccanismi difensivi sono molto più complessi, ed entrano in gioco quando la cellula è già stata infettata dal ceppo virale. «In questi casi, la difesa si basa sulla distruzione della cellula infettata dal virus, ma ovviamente è molto difficile stimolare dall'esterno con un vaccino questo meccanismo - è il parere di Zinkernagel -. È il caso della tubercolosi, che non è virale ma batterica, e sopravvive all'interno delle cellule. In queste situazioni, il vaccino è difficile da mettere a punto perché comunque dovrebbe agire su cellule già infettate, in una logica che è più di carattere "curativo" che preventivo. Ma non basta: i meccanismi di difesa che ho spiegato sono presenti nella quasi totalità della popolazione, che quindi reagisce attivamente nei confronti dell'infezione che si mantiene nel tempo, in un equilibrio costante tra virus che infetta e sistema immunitario che difende. E il corpo mantiene nel tempo l'infezione sotto controllo, come accade per epatite C e Aids». C'è solo un'eccezione a questo ragionamento di Zinkernagel, ed è l'esistenza di un vaccino contro l'epatite B. Ma secondo lo studioso questo dipende da un altro fattore: il virus non si modifica nel tempo. Le variazioni genetiche sono infatti un altro elemento che rende estremamente difficile la messa a punto di un vaccino efficace. Come accade per il virus Hiv, che causa l’Aids. FEDERICO MERETA _______________________________________ Il Giornale 10 gen. ’04 COSÌ I GENI COMUNICANO TRA LORO Lo studio delle informazioni tra cellule nuova frontiera della medicina LUIGI CUCCHE Il buio e la luce. Il riposo e l'attività, giorno dopo giorno, per anni sono regolati da alcune cellule cerebrali che organizzano la ciclicità della nostra vita. Le informazioni tra le cellule sono alla base dello sviluppo del nostro corpo che necessita di armonia. Alla disarmonia il nostro corpo reagisce e produce sostanze anti-stress come il cortisolo, prodotto dalle ghiandole surrenali. Gli studi sul metabolismo, sull'informazione tra i geni, sulle conseguenze che si possono avere in presenza di carenze di intermedi metabolici come la L- acetilcamitina, stanno progredendo in tutto il mondo nei laboratori di biologia più avanzati. Incontriamo il professor Menotti Calvani, docente di metabolismo all'università Cattolica di Roma, da anni è impegnato proprio nella ricerca delle più avanzate forme di comunicazioni tra membrane cellulari. La passione per questa materia lo ha portato nei giorni scorsi a prendere una seconda laurea in Scienze della nutrizione umana. Come direttore scientifico Sigma-Tau è in contatto con i più qualificati Centri di eccellenza sul metabolismo. «II funzionamento del cervello, l'invecchiamento, la comparsa di molte malattie, dipende dai nostri geni. Le ricerche sul genoma umano hanno fatto progredire di molto le nostre conoscenze: oggi riusciamo a comprendere la funzione e l'attività di molti geni. E nata una nuova disciplina scientifica l’epigenetica, cioè lo studio dei meccanismi che attivano o disattivano i geni. Queste ricerche rappresentano una nuova frontiera del sapere. Il gene - ricorda Menotti Calvani - viene attivato da un interruttore (promotore) che lo apre o lo chiude, lasciando passare informazioni o trattenendole, in funzione dell'influsso degli ormoni (estrogeni, testosterone, tiroideo), e di vitamine quali la A e la D, la cui mancanza non produce solo rachitismo essendo coinvolta nell'apertura di almeno 150 geni, importanti come quello della crescita, dell'insulina, dell'angiotensinconverting enzyme, un enzima che porta al la produzione dell'angiotensina che controlla la nostra pressione arteriosa. Gli animali che non hanno il recettore della vitamina D hanno problemi nell'assorbimento del calcio e sono tutti ipertesi come d'altronde moltissimi pazienti ipertesi hanno basso livello di calcio nel sangue. Tutto ciò diventa rilevante se si considera che alcuni studi compiuti negli Stati Uniti alla fine degli anni Novanta hanno dimostrato che dopo i 60 anni vi è spesso una carenza di vitamina D, carenza che si registra anche negli obesi e in molti bambini dell'area mediterranea. «Questo è un paradosso perché la vitamina D si forma a livello cutaneo per esposizione al sole e per questa ragione si consiglia agli anziani di vivere più ore all'aria aperta. La ricerca ci ha consentito di comprendere alcune leggi generali della biochimica che regolano l'apertura o la chiusura dei geni. Si è compreso il fenomeno della metilazione, cioè del trasferimento di una parte del Dna di un gruppo chimico che deriva dall'acido folico e che porta il gene a non aprirsi. Una tipica conseguenza sono le malattie da ipometilazione: una di queste, a livello cardiovascolare, si manifesta con infarti e ictus cerebrali preceduti da alti livelli nel sangue della omocisteina, una sostanza che trasporta il metile sul Dna. Altra conseguenza è la comparsa della spina bifida nei neonati da mamme che prendevano farmaci antiepilettici. Anche la demenza e la depressione possono essere causate da simili meccanismi. Queste ricerche (epigenetica) riconoscono un approccio metabolico alla malattia e sono sviluppate nei laboratori delle università di Napoli, Trieste, Torino, Roma, Milano». Fino a pochi anni orsono si pensava che numerose malattie avessero all'origine un gene mutato, ora sappiamo che spesso la vera causa è la disfunzione, cioè la disarmonica attivazione o disattivazione dei geni. «Così come la mancanza di acido folico può portarci alla demenza ed alla depressione, l'insufficienza di L-acetìlcarnitina può portarci al deficit di attenzione o alla sindrome da fatica cronica. Le stesse dislipidernie sono una conseguenza dell'attività disarmonica dei geni, il cui intempestivo funzionamento determina una alterazione dei trigliceridi, dei livelli di glicemia, del colesterolo, della pressione arteriosa e perfino la comparsa di alcune formo neoplastiche». Questi studi rappresentano una autentica rivoluzione rispetto alla concezione riduzionistica della medicina che porta alla cura del singolo organo. «Il corpo umano è in grado di autogenerarsi. Siamo macchine che si autoriparano, ogni piccolo difetto viene eliminato sostituendo il pezzo di giorno e di notte. Il nostro cuore ogni quindici giorni sintetizza e cambia tutte te sue proteine. Il muscolo scheletrico ogni mese si ritrova con proteine nuove. I globuli rossi 1,5 milioni per millimetro cubo) vengono sostituiti ogni quattro mesi. Ogni giorno produciamo miliardi di cellule, per costruirle abbiamo bisogno di materie prime rappresentate da grassi, proteine, intermedi. Il nostro corpo è un grande laboratorio, una macchina che si autorinnova e per decenni smonta ve rimonta i nostri organi. La medicina diventa una scienza della salute e supera il concetto di organo ammalato. «II suo compito, diventa quello di mantenere le armonie tra i vari organi e il cervello il quale coordina tutto e tutti gli altri organi che lo informano dell'ambiente circostante; fra tutti non va trascurato l'intestino che, con una superficie di due campi da tennis, consente al nostro organismo di assorbire i pezzi di ricambio che gli permettono di autorigenerarsi». _______________________________________ L’ECO di Bergamo 12 gen. ’04 FALLISCE NUOVA TERAPIA DELLA FIBROSI POLMONARE II cammino della ricerca è costellato anche di insuccessi: è questo il caso di una ricerca effettuata presso il Duke University Medicai Center di Durham, nel North Carolina, dove è stato riscontrato con rammarico che un promettente farmaco, l'interferone gamma-1b, non si è dimostrato efficace nella terapia della fibrosi polmonare, una grave malattia che può compromettere I'ossigenazione dei tessuti sino a portare al decesso. Secondo quanto si legge sulla prestigiosa rivista medica The New England Journal of Medicine, l'assunzione del farmaco interferone gamma-1b non è stata in grado di alleviare i sintomi della patologia né di prevenirne il progresso in un gruppo di 1,32 pazienti reclutati in vari istituti di cura degli Stati Uniti. Un unico dato parzialmente positivo a riguardo è un relativo miglioramento nell'aumentare la sopravvivenza di pazienti in cui è stata possibile una diagnosi precoce della malattia. _______________________________________ Repubblica 15 gen. ’04 IL SESSO FA BENE ALLA SALUTE Tutto quello che avreste voluto sapere, di scientifico e no, sulle alcove moderne. Un'inchiesta choc finisce in copertina sul "Ti Il sesso fa bene alla salute trasgredire migliora la vita DAL NOSTRO CORRISPONDENTE ALBERTO FLORES D'ARCAIS NEW YORK -Il sesso fa bene all'amore e l'amore fa bene alla salute. Quindi, secondo i vecchi sillogismi, il sesso fa bene alla salute. Non si tratta certo di una grande novità, eppure un settimanale serioso e affidabile come "Time" ha deciso di dedicare all'argomento copertina (dell'edizione americana) e circa sessanta pagine di inchiesta: relegando in secondo piano guerre e campagne elettorali (anche se è la settimana delle primarie) per dimostrare, nel modo più Il scientifico" possibile, quanto la vita amorosa possa rendere la nostra salute migliore tanto da farci vivere più a lungo (e ovviamente più felici). Il "potere dell'amore", questo il titolo dell'inchiesta, analizzala vita sessuale in tutte le sue componenti: dalla chimica del desiderio (un campo di ricerca su cui c'è ancora molto da scoprire) alla chimica vera e propria con le sue pozioni e le sue pasticche (tipo Viagra). Per arrivare ai benefici che l'amore (sessuale) può portare ad ognuno di noi: meno ansie e depressioni, perdita di peso (senza bisogno di diete), minori rischi di infarti, maggiore immunità alle malattie e longevità. Fino a spingersi adire che l’ossitocina e l'ormone Dhea (entrambi "rilasciati" durante l'orgasmo delle donne) possono impedire alle cellule cancerose del seno di svilupparsi in tu more vero e proprio. Per i patiti della palestra e della corsa arriva un impietoso confronto: l'attività sessuale produce gli stessi benefici di una buonamezz'ora di jogging e di una quindicina di minuti di esercizi ginnici. Perchè? Perchè durante l'orgasmo sia il battito cardiaco che la pressione del sangue praticamente raddoppiano. Vero 0 falso che sia la discussione è aperta anche tra i ricercatori: «Possiamo dire che fare sesso è uguale a camminare o fare un miglio in bicicletta?» Secondo Robert Friar, un biologo dell'Università statale del Michigan «non lo sappiamo, perchè dati certi ancora non esistono». Un capitolo a parte è dedicato alle azioni- reazioni del "cervello in amore", con la pubblicazione di un articolo di Helen Fischer, una guru in questo campo che ha scritto, "Why we love" ("Perchè amiamo") diventato un best seller negli Usa. La tesi della studiosa è che l'amore "romantico" altro non sarebbe che un "sentimento umano universale" prodotto da "specifici agenti chimici" e da "connessioni" presenti nel nostro cervello. "Time" ci informa poi sulle terapie coniugali, ma stando alle statistiche non sembra che gli specialisti nel trattare problemi matrimoniali e sessuali raggiungano grandi risultati. Forse è meglio il fai-da-te e l'inchiesta del magazine non disdegna di toccare anche capitoli più scabrosi come il porno e quelle che venivano un tempo classificate come "deviazioni sessuali". I1 porno - soprattutto quello ormai diffusissimo via Internet - non aiuta ad avere relazioni sessuali particolarmente soddisfacenti (ed anche questa non è una novità); in America si stanno diffondendo invece sempre di più le pratiche sadomaso in ambito familiare. Un sadomaso soft, più psicologico che reale, che secondo l'inchiesta di "Time" aiuta a ritrovare e a ricreare una vita sessuale che, soprattutto nei matrimoni ormai stanchi, sembrava del tutto perduta. Nell'America puritana di Bush, mentre la Casa Bianca si appresta a varare un programma perla difesa del matrimonio tradizionale, la voglia di trasgressione sembra dunque in aumento. L'inchiesta di "Time" è solo una spia, ma basta girare il telecomando per rendersi che «sex&love» sono un binomio che nessun gruppo conservatore è in grado di fermare. Così se da una parte un serial televisivo come «Sex and the City» ha sbancato nelle ultime stagioni pur andando in onda su una televisione a pagamento come Hbo (sono migliaia le lettere e e-mail di protesta contro la fine del programma), se la sua eroina Samantha non ha disdegnato di cimentarsi in una puntata anche nel sadomaso soft, le copertine delle riviste sono piene di foto di quello che si annuncia già come il nuovo cult della stagione: "The L Word", dove L sta per lesbica da domenica prossima in onda su Showtime, un altro canale a pagamento rivale li Hbo. Protagoniste un gruppo di ragazze e signore (tutte piuttosto belle) di Los Angeles che sono appunto lesbiche, bisessuali o almeno «bi-curiose» per riprendere un termine molto in voga in questo momento. Con buona pace dei gruppi che vogliono proibire matrimoni ed unioni tra persone dello stesso sesso. I rapporti frequenti scongiurano gli attacchi d1 cuore e abbattono l'ansia ______________________________________________ Le Scienze 14 Gen. 04 UNA TEORIA SULL'ORIGINE DELL'AIDS Cellule ibride possono trasmettere all'uomo i virus degli animali Alcuni ricercatori genomici della Mayo Clinic hanno dimostrato che il mescolamento di materiale genetico in un essere vivente può verificarsi naturalmente. Gli scienziati hanno individuato le condizioni in cui cellule di maiali e di esseri umani possono fondersi insieme nel corpo per dar origine a cellule ibride che contengono materiale genetico di entrambe le specie e portare un virus dei suini molto simile all'HIV, il virus che causa l'AIDS, che può infettare le normali cellule umane. Anche se la ricerca non spiega se questa infezione può provocare vere malattie negli esseri umani, fornisce però un nuovo metodo per comprendere come le infezioni virali possano passare dagli animali agli uomini. "Abbiamo scoperto qualcosa di completamente inatteso, - afferma il biologo Jeffrey Platt - Queste osservazioni ci aiuteranno a spiegare come un retrovirus possa saltare da una specie a un'altra, e potrebbero contribuire a individuare l'origine di malattie come l'AIDS o la SARS. La scoperta potrebbe anche chiarire come le cellule in circolo possano diventare parte di tessuti solidi". Lo studio è stato pubblicato sull'edizione online della rivista "Federation of American Societies for Experimental Biology Journal" e apparirà in stampa sul numero di marzo della rivista. ______________________________________________ Le Scienze 16 Gen. 04 UNA MOLECOLA CONTRO L'ASMA Aiuterebbe anche i fumatori con disturbi respiratori Alcuni biologi hanno individuato una molecola in grado di prevenire l'ostruzione delle vie aeree nei topi asmatici. La scoperta potrebbe aiutare anche i pazienti umani che soffrono di disturbi respiratori. Più di cento milioni di persone in tutto il mondo, infatti, soffrono di asma e sono soggetti ad attacchi ricorrenti con respiro affannoso quando le loro vie respiratorie si restringono e secernono grandi quantità di muco. "In molti casi, il disturbo può risultare letale - spiega Kenneth Adler, che si occupa di malattie respiratorie alla North Carolina State University di Raleigh - Troppo muco significa un rischio di mortalità più elevato. Può infatti danneggiare l'interno delle vie aeree, rendendo i pazienti più suscettibili alle infezioni batteriche e ai difetti respiratori". Il team di Adler ha realizzato la molecola, un peptide chiamato MANS, e l'ha sperimentata su topi che soffrono di sintomi simili all'asma. Quando i roditori sono esposti a un allergene, le loro vie respiratorie si gonfiano e la produzione di muco aumenta di cinque volte. Una singola dose del farmaco, somministrato quindici minuti prima di un attacco d'asma indotto, è in grado di impedire l'accumulo di muco. "Il peptide è potenzialmente utile in clinica - sostiene Joe Garcia della Johns Hopkins University di Baltimora - ma sarebbe complementare alle terapie standard e non le sostituirebbe". Il farmaco potrebbe aiutare anche i pazienti di fibrosi cistica e quelli con disturbi polmonari ostruttivi cronici come i fumatori. M. Singer et al. A MARCKS-related peptide blocks mucus hypersecretion in a mouse model of asthma. Nature Medicine, doi:10.1038/nm983, (2004). ______________________________________________ Le Scienze 16 Gen. 04 LA VITAMINA D ABBASSA IL RISCHIO DI SCLEROSI MULTIPLA Il cibo e l'esposizione alla luce solare costituiscono fattori importanti Le donne che assumono supplementi di vitamina D hanno il 40 per cento di probabilità in meno di sviluppare la sclerosi multipla (MS) rispetto alle altre. Lo sostiene uno studio pubblicato sul numero del 13 gennaio della rivista "Neurology". Fra le fonti di vitamina D, oltre al cibo, c'è anche l'esposizione alla luce solare. "Poiché il numero di casi di MS aumenta più ci si allontana dall'equatore, - spiega l'autrice dello studio Kassandra Munger dell'Harvard School of Public Health di Boston - era stata avanzata l'ipotesi che l'esposizione alla luce solare e alti livelli di vitamina D potessero ridurre il rischio di sviluppare la malattia. Questo è il primo studio che analizza a fondo la questione. I risultati necessiteranno una conferma con ulteriori ricerche, ma sembra proprio che basti prendere delle multivitamine per ridurre la probabilità di sviluppare la sclerosi multipla". I ricercatori hanno esaminato i dati di due grandi studi durati rispettivamente venti e dieci anni. Sono state esaminate le diete e l'utilizzo di multivitamine da parte di 187.563 donne. Di queste, 173 hanno sviluppato la MS nel corso dello studio. Le pazienti sono state divise in gruppi a seconda del loro uso di vitamina D. Quelle con il maggior consumo di vitamina (400 IU o più al giorno) avevano il 40 per cento di probabilità in meno di sviluppare la malattia rispetto a coloro che non assumevano alcun supplemento multivitaminico. __________________________________________________________ 11 BOLLETTINO ORDINE DEI MEDICI (CA) 7/2003 Valutazioni etico-giuridiche sulla dichiarazione di volontà relativa alle cure mediche dei Testimoni di Jehovah Dr. Tonio Sollai1 BIOETICA Aggiornamento Premessa In un ampio e articolato documento Achille Aveta2, esamina in maniera lucida, sapiente ed esauriente le problematiche etico-religiose della trasfusione di sangue e dei suoi componenti nelle persone che professano il credo religioso dei Testimoni di Geova. Le valutazioni contenute nel lungo articolo possono essere razionalmente del tutto condivisibili, in quanto chi non professa tale religione difficilmente riesce ad accettare le imposizioni discutibili su come affrontare un intervento chirurgico che può richiedere, per il buon andamento clinico, la necessità di infondere sangue o emoderivati. Si tratti, poi, di convinzioni a cui un adepto perviene dopo riflessione personale o che si tratti di imposizioni del credo religioso, ha scarsa importanza e non è assolutamente sostanziale. Le convinzioni, comunque, sono radicate e come tali vanno accettate o rifiutate, ma in ogni caso meritano rispetto come tutte le confessioni religiose, siano esse cristiane o no. I rilievi e le critiche di Aveta sono profonde e circostanziate, in gran parte inerenti convinzioni religiose, su cui una persona che professa un'altra confessione religiosa non ha criticamente alcuna possibilità di incidere in maniera convincente tale da indurre l'interlocutore a cambiare idea, in quanto sono valutazioni per le quali i Testimoni di Geova hanno sempre una risposta convinta e non accettano interferenze né considerazioni di merito ritenendo la loro posizione legittima, ragionevole e retta. Nello specifico in ambito prettamente medico, il sanitario curante non dovrebbe entrare nel merito delle convinzioni religiose, anche se queste possono incidere in maniera anche drammatica sulla salute e sulla vita dell'individuo. All'interno di una franca e rispettosa relazione medico- paziente, può capitare che si sfiori o si affronti un dialogo sulla tematica religiosa, ma solo a livello di convinzioni personali, le quali non dovrebbero inficiare il rapporto strettamente medico che il sanitario deve intrattenere con il malato. Il credo religioso di un soggetto, anche se non condiviso, rientra nella sfera del privato e dell'intima convinzione individuale, su cui nessuno ha il diritto di interferire se rimane in tale ambito senza ledere il diritto degli altri. Nel citato articolo sono condivisibili anche le valutazioni di ordine strettamente medico, dell'irrazionalità dell'accettazione di alcuni componenti ematici o di altri organi, ma non del sangue. Sono, altresì, condivisibili, in parte, anche le valutazioni espresse dall'Associazione Europea dei Testimoni di Geova nella loro pubblicazione3 in oggetto, con una visione diametralmente opposta. Il fatto è che il problema deve essere affrontato, oltre che dal punto di vista etico, anche dal punto di vista giuridico: i Testimoni di Geova, o chiunque altra persona malata che afferisce ad un reparto ospedaliero, ha il diritto di rifiutare una qualsivoglia terapia, anche salvavita come può essere la trasfusione di sangue, oppure no? E se arriva ad un Pronto Soccorso in coma e necessita di una trasfusione salvavita, come si deve comportare il medico? E con i minori, compresi quelli chiamati "grandi minori" (15-17 anni), quale è l'atteggiamento corretto che il medico deve assumere? Fonti normative e sentenze Non ci sono dubbi che gli Artt. 13 ("La libertà personale è inviolabile") e 32 della Costituzione ("Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge") garantiscono la libertà personale e conferiscono ad ogni persona la libertà di decidere sui trattamenti sanitari, di accettarli in tutto o in parte, oppure di rifiutarli. Sono fatti salvi solo i Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO coattivi e non coattivi), i quali si rife- riscono a problematiche specifiche chiaramente definite ed esulano dal nostro contesto. Il Codice Deontologico dei Medici nell'articolo 12 salvaguarda la libertà personale: "Al medico è riconosciuta autonomia nella programmazione, nella scelta e nell'applicazione di ogni presidio diagnostico e terapeutico, anche il regime di ricovero, fatta salva la libertà del paziente di rifiutarle e di assumersi la responsabilità del rifiuto stesso". Ancora nell'articolo 17 ".. Il medico nel rapporto col cittadino deve improntare la propria attività professionale al rispetto dei diritti fondamentali della persona". E nell'articolo 32 viene ribadito lo stesso principio dello stesso articolo della Costituzione, "In presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi non essendo consentito alcun trattamento contro la volontà della persona..". È utile riportare il caso di un chirurgo di Firenze che negli anni Novanta ha stimolato la riflessione e anche violente discussioni in diversi ambiti della società civile. Il medico in questione è stato condannato in tutti i gradi di giudizio (Corte di Cassazione, sentenza N° 699 del 21.04.92) per aver effettuato un intervento chirurgico diverso da quello per il quale aveva ottenuto il consenso. L'anziana signora aveva dato esclusivamente il consenso per l'asportazione di polipi rettali chiedendo espressamente che non venisse effettuata una amputazione addominoperineale con applicazione di un ano artificiale. Il chirurgo, ritenendolo indicato e senza alcuna nuova situazione di emergenza o di pericolo immediato, ha effettuato l'intervento al quale la malata non aveva concesso il consenso. Dopo due mesi la paziente muore. Il medico è stato condannato per omicidio preterintenzionale. La sentenza ha determinato una svolta nel rapporto tra il malato e il medico curante, i cui effetti si protrarranno a lungo ancora e saranno forieri di ulteriori sentenze a favore dei malati. Ciò dovrebbe esitare, è auspicabile, in un cambiamento dell'atteggiamento dei medici nei confronti dei malati e dei suoi diritti che, non raramente venivano misconosciuti se non in pochi casi, addirittura negati. È opportuno rileggere alcuni passi sostanziali di tale sentenza: "È infatti di tutta evidenza che nel diritto ciascuno di disporre, lui e lui solo, della propria salute ed integrità personale, pur nei limiti previsti dall'ordinamento, non può che essere ricompresso il diritto di rifiutare le cure mediche, lasciando che la malattia segua il suo corso anche fino alle estreme conseguenze: il che a ragione non può che riaffermare che la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente al soggetto interessato dal volere o, peggio, dall'arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell'avente diritto, trattandosi di una scelta che…riguarda la qualità della vita e che pertanto lui e lui solo può legittimamente fare." Questo passo della sentenza riveste importanza sostanziale nello specifico della nostra digressione, ma è opportuno riportare anche un altro stralcio, particolarmente significativo, che ci deve indurre ad una attenta e profonda riflessione: "Assieme alla componente di dissesto fisico, l'aspetto psicologico ha giocato un ruolo importante nel far venir meno le difese dell'organismo… ma questa componente psicologica… altro non è se non una conseguenza diretta e immediata del gravissimo trauma che non avrebbe mai immaginato che potesse esserle inferto non solo senza il suo consenso, ma soprattutto a sua totale insaputa". Quindi la componente psicologica "diventa fondamentale nel considerare la morte della paziente come conseguenza (sia pur non voluta) delle lesioni (che erano volontarie) e quindi finisce per essere alla base della pesante condanna per omicidio preterintenzionale del chirurgo che aveva operato senza il consenso della paziente".4 Altre sentenze che legittimano il rifiuto all'emotrasfusione da parte di persone adulte, capaci di esprimere le proprie volontà: " Sentenza del GIP del Tribunale di Messina dell'11.07.1995 " Sentenza del Pretore di Roma del 09.04.1997 " Decreto del Pretore di Treviso del 29.04.1999 Si riportano altre due recenti sentenze: " 03.04.97 del Pretore Penale di Roma: assoluzione dei medici imputati di omicidio colposo per aver omesso l'esecuzione di una trasfusione di sangue a un malato Testimone di Geova nella consapevolezza dei rischi cui andava incontro. Il Pretore riconosce all'individuo l'insopprimibile diritto fondamentale all'autodeterminazione che consente di rifiutare le cure fino alle estreme conseguenze, in quanto non vi è alcuna legge che stabilisca l'obbligatorietà della trasfusione di sangue. La sentenza esclude la possibilità di attribuire al medico il dovere di intervento in presenza di un dissenso reiterato ed attuale manifestato dal soggetto interessato. Viene richiamato specificamente l'Art. 32 della Costituzione. Questa sentenza è stata criticata da due giuristi, G. Iadecola e P. Avecone, in particolare quest'ultimo "È assolutamente pacifico che la vita è un bene non disponibile, per cui neppure il titolare può legittimamente rinunciarvi… omettere di praticare una trasfusione che, come nel caso di specie, avrebbe salvato la vita del paziente, realizza in pieno l'omicidio del consenziente". 5 Un altro giurista6 "in contrasto… ha altresì osservato che un diritto di rilevanza costituzionale non può essere disatteso sulla base di un'interpretazione della disciplina penalistica in tema di omicidio del consenziente e di istigazione al suicidio7." " 11.01.2002 del Tribunale di Pordenone (Il tribunale dà ragione al malato testimone di Geova che aveva richiesto risarcimento per i danni conseguenti a una trasfusione a cui egli aveva negato il consenso. La sentenza con il richiamo all'Art. 2043 del Codice Civile e l'Art. 2 della Carta Costituzionale, viene riconosciuto il diritto al rispetto dell'identità personale che si esprime attraverso la religione). Occorre, a questo punto, ricordare quali sono le responsabilità del medico che si appresta a fare una trasfusione: " ottenimento di un valido consenso del ricevente; " corretta definizione dell'indicazione all'emoterapia; " compilazione di una corretta richiesta di emoterapico alla struttura trasfusionale; " modalità di esecuzione della trasfusione; " segnalazione alla struttura trasfusionale di ogni reazione avversa collegata all'emoterapia. Nessuna prestazione medica è ritenuta, quindi, lecita senza il consenso del paziente. L'applicazione di provvedimenti diagnostici o terapeutici, in tal caso, potrebbe configurare diversi tipi di reato, dal sequestro di persona alla violenza privata, alle lesioni personali lievi o gravi. Precedente al consenso e come fattore di validità giuridica dello stesso, vi è il dovere di informativa del medico (con la eventuale collaborazione del personale infermieristico) nei riguardi del paziente, a proposito del trattamento terapeutico specifico, oggetto della richiesta di consenso. C'è da considerare anche un altro aspetto spesso misconosciuto dai medici, cioè che il consenso ha la sola funzione di rendere lecito l'atto sanitario, ma non solleva in alcun modo il personale sanitario da eventuali responsabilità penali e civili da comportamento colposo. Dalla sentenza dei giudici di Firenze e da queste due recenti sentenze di Roma e Pordenone, si evince che la giurisprudenza attuale tende a conferire una grande importanza al consenso per le prestazioni sanitarie. Infatti pur appellandosi a normative diverse, le due sentenze arrivano alla stessa conclusione: gli atti sanitari senza il consenso dell'interessato vengono sistematicamente puniti. Importante anche una sentenza della Corte costituzionale (09.07.1996, n°238) che ha perentoriamente escluso che una persona possa essere costretta a sottoporsi ad un intervento sanitario indesiderato (prelievo ematico), basando la decisione sulla libertà personale: "Un diritto inviolabile rientrante tra i valori supremi, quale indefettibile nucleo essenziale dell'individuo, non diversamente dal contiguo e connesso diritto alla vita e all'integrità fisica, con il quale concorre a costituire la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto, della persona". Tra le normative più controverse si riporta il DM 01.09.1995, Art. 4, 3° comma e Art. 5, 1° comma recita testualmente " … Quando vi sia un pericolo imminente di vita, il medico può procedere a trasfusione di sangue anche senza il consenso del paziente. Devono essere indicate nella cartella clinica, in modo particolareggiato, le condizioni che determinano tale stato di necessità". E, aggiungo, di cui dovrà eventualmente rendere conto! Tale Articolo è chiaramente riferito alla circostanza nella quale il malato non esprime il consenso, ma neanche il dissenso alla trasfusione. Se dovesse essere preso alla lettera questo articolo, che ovviamente non tiene conto dei casi specifici come i malati testimoni di Geova, si configurerebbe una sistematica violazione del principio costituzionale (Art. 32) e della norma Deontologica (Art. 32), esponendo il medico alle sanzioni penali e disciplinari che un semplice e ambiguo DM non può scongiurare. Ipotesi procedurale Come procedere, quindi, nei confronti di un malato testimone di Geova maggiorenne, cosciente, in grado di discernere e di esprimere un dissenso nei confronti della trasfusione di sangue, anche se da tale decisione potrebbe conseguire la morte dello stesso? Tenuto conto che la giurisprudenza attuale non conferisce validità piena alla dichiarazione di volontà anticipata delle cure (il Living will degli anglosassoni), la dichiarazione contenuta nel "Tesserino di Identità" dei Testimoni di Geova potrebbe essere riportata, in sintesi, nella cartella clinica (che costituisce a tutti gli effetti un documento ufficiale) e sottoscritta dall'interessato di fronte a due testimoni adulti e consapevoli della gravità delle responsabilità che il malato si addossa. Nella eventualità, invece, di un progressivo aggravamento delle condizioni del malato fino alla perdita della coscienza, con rischio di successivo decesso, "l'obbligo giuridico in capo al medico diviene, dunque, quello di esporre e di far comprendere con precisione tecnica il grave rischio al quale il paziente si sta esponendo, aggiornandone nel tempo l'evoluzione in peius con il rilievo dei dati funzionali e vitali peggiorativi. Di fronte al reiterato e cosciente dissenso del paziente capace d'intendere e di volere, il sanitario deve astenersi dal trattamento e attuare ogni altro provvedimento sanitario o chirurgico utile a tentare in ogni modo di salvare una vita umana".8Attraverso colloqui informali con alcuni giudici in ambito di un Convegno è emerso, però, che prevale la tolleranza nei confronti dell'intervento medico che effettua una trasfusione d'urgenza in un malato testimone di Geova che perde la coscienza, al fine di salvargli la vita, con la presunzione che lo stato di incoscienza potrebbe costituire motivo di revoca della volontà precedentemente espressa. Il rispetto del principio di autonomia e della volontà del malato, espressa in varie modalità, dovrebbe essere di ben maggiore rilievo ed importanza e non ignorabile solo a causa della perdita, peraltro temporanea, della coscienza. Occorre sottolineare che l'interventismo medico non sempre viene giustificato dai giudici, come avveniva in passato. Il ricorso allo stato di necessità (art. 54 del codice penale) da parte dei medici per giustificare un intervento di estremo salvataggio su malati che non hanno espresso in maniera palese il consenso, può in certi casi solo rendere lecito un comportamento, ma non deve essere considerato un obbligo. Talvolta, per legittimare l'interventismo, si porta come giustificazione l'istinto di conservazione della specie umana. Altre volte per giustificare una trasfusione si ricorre al cosiddetto "consenso presunto" quando il malato perde la coscienza dopo una progressiva anemia. Ma non si capisce perché un malato che prima di perdere la coscienza esprime una volontà specifica, ad esempio di non subire una trasfusione di sangue o di non essere rianimato in una situazione drammatica di coma conseguente a malattia terminale di origine neoplastica, subito dopo lo stesso malato possa cambiare idea e si debba quindi presumere una volontà di revoca! La regola del consenso informato agli atti medici era stata riconosciuta anche da un altro importante organo istituzionale, il Comitato Nazionale per la Bioetica nel documento Informazione e consenso all'atto medico, redatto nel 1992. La Convenzione sui diritti dell'uomo e la biomedicina (Convenzione di Oviedo), firmata dagli Stati membri del Consiglio d'Europa e dalla Comunità Europea (04.04.1997), recepita interamente dallo Stato italiano come Legge n° 145 del 28.03.2001, pubblicata sulla G.U. del 24.04.01, nel Capitolo II, Art. 5 sul consenso, espressamente recita "Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell'intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi." E all'Art. 9 sui desideri precedentemente espressi, recita "I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell'intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione". La formulazione non sembra a prima vista molto perentoria, ma il significato è inequivocabile. A commento di questi articoli Amedeo Santosuosso, giudice del Tribunale di Milano, esprime: "Ciò vuol dire che, da ora in avanti, non sarà più possibile, di fronte a volontà espresse in precedenza, far prevalere sempre e comunque l'idea che i medici o altri hanno degli interessi e dei bisogni del diretto interessato. E anzi bisognerà rendere conto di ogni scostamento da quei desideri precedentemente espressi".9 Particolare importanza riveste anche l'articolo 6 della stessa Convenzione, 3° comma, sulla protezione delle persone che non hanno la capacità di dare consenso, ad esempio un testimone di Geova in Pronto Soccorso o in sala operatoria privo di coscienza, le cui condizioni cliniche richiedono una trasfusione di sangue: "Allorquando, secondo la legge, un maggiorenne, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare, non ha la capacità di dare consenso ad un intervento, questo non può essere effettuato senza l'autorizzazione del suo rappresentante, di un'autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge." Si riporta anche la ricostruzione di una drammatica vicenda, da parte di un medico legale di Milano, successa qualche anno fa e riportata sulla rivista Bioetica, N° 3 del 2000: "Alle 18.10 veniva disposto Trattamento Sanitario Obbligatorio per poter effettuare la terapia trasfusionale, che veniva attuata alle 18.40 su decisione dei sanitari e col ribadito rifiuto del paziente, giudicato "ancora cosciente" e in grado di fornire "risposte orientate e corrette". Il paziente, apparentemente lucido e presente a sé stesso, cercando di alzarsi dal letto rifiutava fermamente la terapia invocando "Geova"… Personale medico e infermieri trattenevano a letto il paziente (neoplastico in fase terminale di malattia) che continuava a rifiutare con "violenza" la terapia. Intorno alle 19.40 si dava inizio all'emotrasfusione… contenendo il paziente… Pochi minuti dopo (19.45) il paziente era "agitatissimo e incontattabile in preda a uno stato di agitazione psicomotoria grave". I sanitari decidevano di proseguire il trattamento emotrasfusionale. Il decesso interveniva alle 20.30". Ogni commento a questa triste vicenda sembra superfluo e pleonastico! Rimangono da affrontare due situazioni di fondamentale importanza di ordine etico, giuridico e pratico: i minori e il malato in coma che non può esprimere né desideri, né consensi o dissensi alle pratiche mediche. La "Convenzione sui diritti del fanciullo" (New York 20/11/1989), resa esecutiva in Italia con legge del 27/5/1991, riconosce tra l'altro "al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa. Le opinioni dei fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto del suo grado di maturità "10. Considerata l'importanza del problema, che è regolamentato da specifiche normative, riporto la risposta articolata del Dr. Franco Melis, già Procuratore della Repubblica di Cagliari, al quesito specifico sui diritti dei minori nelle pratiche mediche: "Bisogna fare riferimento esclusivamente alle norme del diritto positivo italiano, che non riconosce la categoria dei minori maturi o grandi minori. Minore in base alle norme del diritto positivo, è un soggetto che non ha ancora compiuto il diciottesimo anno d'età. Il minore può essere titolare di diritti ma di regola non è in grado di esercitarli da solo, non ha la capacità di agire per la cura dei propri interessi e necessita pertanto di un rappresentante legale. La rappresentanza del minore è affidata dalla legge ad entrambi i genitori o in mancanza a un tutore (artt. 320, 343 e segg. cod. civ.). La capacità d'agire e quindi la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita un'età diversa la si acquista solo con la maggiore età al compimento del diciottesimo anno di vita. La norma tutela in modo piuttosto rigido il minore degli anni diciotto, soggetto sì di diritti, ma ritenuto incapace di agire e perciò di esercitarli a causa della minore età. Proprio per tale sua caratteristica il minore, a prescindere dalla sua intelligenza e capacità materiali, è, per definizione, incapace. La sua volontà nella produzione dell'evento non ha voce. Coloro che decidono per lui, volente o nolente, sono i suoi rappresentanti legali, i suoi genitori la cui manifestazione di volontà potrebbe, apparentemente, essere in armonia con quella del minore ma che potrebbe al contrario soverchiarla per cui non si potrebbe mai escludere che alla volontà di vivere del minore si sovrapponga la convinzione religiosa degli adulti. Pertanto:qualora i genitori rifiutino di sottoporre un figlio minorenne ad una trasfusione salvavita, il medico dovrà rivolgere immediata istanza all'autorità giudiziaria (Tribunale dei Minori) per gli interventi del caso". Stante la rigidità della normativa, al medico non resta che applicare la legge. Tuttavia questo non esclude che, in caso di aperto dissenso del "grande minore" e nelle more della risposta del Giudice tutelare, il curante tenti di instaurare un rapporto franco e sincero di informazione ed eventuale collaborazione, spiegando Aggiornamento le ragioni mediche che inducono ad una scelta difficile e sofferta, ma che consente di preservare la vita. Ciò consentirebbe di guadagnare tempo prezioso per una ulteriore riflessione su questa difficile problematica, nella speranza di un ripensamento che permetta di fugare dubbi e incertezze e fare una scelta verso la vita piuttosto che verso la morte. L'altra situazione in cui il malato Testimone di Geova in coma non può esprimere né desideri, né consensi o dissensi alle pratiche mediche, rappresenta un altro grande problema etico e pratico che coinvolge in maniera rilevante il medico di fronte alla necessità di praticare una trasfusione di sangue ritenuta indispensabile per salvargli la vita. Data per scontata la professionalità del medico che deve prendere una decisione così importante in un soggetto che gli pone una problematica etica di tale consistenza, la decisione coinvolge necessariamente i parenti più stretti, i quali presenteranno il Tesserino di Identità debitamente firmato che contiene la volontà precedentemente espressa di rifiutare le trasfusioni di sangue anche nel caso estremo di pericolo di vita. Buona parte dei medici non ha una preparazione specifica su problematiche bioetiche di tale portata. La decisione crea imbarazzo ed è fonte di notevole inquietudine e travaglio interiore, anche perché i parenti perentoriamente si sforzeranno di far riconoscere la validità attuale del documento di identità e si opporranno alla trasfusione di sangue e di altri emoderivati che si rendessero indispensabili per salvare la vita del malcapitato. C'è da osservare che in tale drammatico frangente il medico, che deve prendere una decisione in pochissimi minuti, non è in veste di giudice per vagliare la validità di un documento che, in teoria (absit injuria verbis) non conoscendo le persone, potrebbe essere stato compilato poco prima da chiunque. Egli è in veste di rianimatore e in quanto tale si trova obbligato a prendere una decisione dalla quale potrebbe scaturire o il decesso del malato o una sua possibile ripresa clinica. Personalmente, pur essendo dell'avviso che dal punto di vista etico al documento si debba riconoscere la validità a tutti gli effetti, occorre considerare che il Testamento Biologico (Living Will) sui trattamenti sanitari da applicare in determinate situazioni cliniche, al momento non viene riconosciuta validità giuridica. Inoltre nell'ambito del Comitato Nazionale per la Bioetica, istituzione pubblica di diretta emanazione della Presidenza del Consiglio, in un documento che diventerà una prossima proposta di legge, ha espresso il parere che il medico deve tenere nella giusta considerazione le volontà espresse dal malato sul testamento biologico, ma non ha l'obbligo di rispettarle. In caso si mancato rispetto di tali volontà dovrà giustificare il suo operato con una formale motivazione scritta nella cartella clinica. Ben differente dev'essere l'atteggiamento del medico quando il malato è vigile e capace di intendere e di volere. Se il Testimone di Geova una volta informato e ben consapevole delle conseguenze delle sue decisioni, oltre a presentare il Tesserino di Identità, ribadisce per iscritto in cartella clinica che non vuole essere sottoposto a trasfusione di sangue e di altri suoi componenti per nessun motivo, anche se da tale scelta dovesse sopraggiungere il decesso, il medico a mio parere ha il dovere giuridico e morale di ottemperare a tale richiesta. Pur nella sua drammaticità e con tutta l'umana comprensione della vicenda, il paternalismo deve cedere il passo e far prevalere il principio etico dell'autonomia su quello della beneficenza. Le sentenze richiamate sopra dovrebbero indurre il medico a desistere da intraprendere una strada che può portare, oltre al danno morale della persona, all'incriminazione per violenza privata o lesioni personali. Considerazioni conclusive Per brevità sono state riportate solo alcune sentenze e alcune valutazioni contrastanti, che denotano quanto controversa sia la problematica della trasfusione di sangue nei malati Testimoni di Geova. In teoria il problema dovrebbe essere abbastanza semplice se si tenesse conto solo dei dettati costituzionali e delle leggi che normano i termini della questione, ma in questo tema entrano in gioco altre valutazioni di ordine culturale, religioso ed etico, per cui comprensibilmente da parte del medico la decisione non è semplice né facilmente attuabile facendo riferimento alla scienza e coscienza personale. Infatti alla valutazione squisitamente clinica della necessità della trasfusione per curare uno stato di malattia che la richiede, subentrano le sue considerazioni etiche, religiose e quelle del malato, dei parenti o di terzi che a vario titolo ritengono di doversi inserire nelle decisioni cliniche di pertinenza medica, ma che devono necessariamente essere intraprese in stretta collaborazione e condivisione col malato. Inoltre, dalla disamina di altre sentenze e pareri di diversi Giudici espressi nelle riviste scientifiche, si evince che anche costoro possono avere una visione etica differente da quella di altri colleghi, che in certi casi può influenzare l'interpretazione di una normativa verso una direzione piuttosto che verso un'altra. Il consenso agli atti medici, debitamente informato e tale da portare alla consapevolezza dei pericoli cui si va incontro contravvenendo alle decisioni cliniche ritenute necessarie, viene riconosciuto a vari livelli. A livello normativo viene riconosciuto sia dalla Costituzione che dalle varie leggi ordinarie anche di derivazione comunitaria. Viene riconosciuto da Codici di Deontologia professionale dei medici e di altri operatori sanitari. La Consulta di Bioetica, il Comitato Nazionale di Bioetica e altre istituzioni pubbliche e private che si occupano di problemi etici, pur con qualche distinguo, riconoscono che dal consenso informato non si può prescindere in tutti gli atti medici di assistenza e cura. Ma il consenso a un atto medico altro non è che la manifestazione pratica e applicabile di uno dei principi basilari dell'etica biomedica: il principio di autonomia e autodeterminazione. I tempi sono maturi perché il consenso sia anche l'espressione più manifesta della collaborazione tra il medico e il malato sulle scelte che lo riguardano. Da una stretta relazione umana, professionale e dalla efficace comunicazione tra i due soggetti, medico e malato, dovrebbe scaturire una alleanza terapeutica che determini un'informazione precisa, autentica e rigorosa, adeguata a condividere le scelte, talvolta difficili, salvaguardando da un lato la volontà del malato e dall'altra, nei limiti del possibile, le opportune scelte terapeutiche proposte dal medico. Note 1 Coordinatore della consulta di Bioetica della Sardegna, Cagliari 2 Achille Aveta, "Bioetica e movimenti religiosi alternativi: il caso dei testrimoni di Geova", Religioni e Sette nel mondo, n° 20 5 (1999/4) pp. 72- 124 3 ASSOCIAZIONE EUROPEA DEI TESTIMONI Dl GEOVA PER LA TUTELA DELLA LIBERTA' RELIGIOSA (a cura di), "Emotrafusioni e consenso informato. La questione dei minori", Il Diritto di Famiglia e delle Persone-, 25 (1996/1) 376-418 4 Amedeo Santosuosso: Il diritto di non soffrire. Quaderni di cure palliative n° 2, 1996, pp. 141-144 5 P. Avecone: Aspetti giuridici (mancata trasfusione di sangue, da negato consenso, in paziente testimone di Geova, seguita in nesso causale dal decesso). La giustizia penale, II, 1998, pp. 659-662. 6 A. Vallini: Il significato giuridico-penale del previo dissenso verso le cure del paziente in stato di incoscienza. Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1998, pp1426-1436 7 Sergio Fucci: Rilevanza giuridica del rifiuto delle cure da parte del paziente. Bioetica, rivista interdisciplinare, 1/2000, pp 123-132 8 S.Fucci, A. Flores, "Il servizio trasfusionale". 1998,4 9 A. Santosuosso, La novità della Convenzione di Oviedo e i limiti del governo. Bioetica, rivista interdisciplinare, n° 2, Giugno 2001, pp. 273-276. 10 Op. cit. (nota N° 3), pag. 378