L' UNIVERSITA' TENTA LA SVOLTA SE IL RICERCATORE DIVENTA UN COCOCÒ UNIVERSITÀ, UNA LEGGE SENZA «CERVELLO» UNIVERSITÀ, TOMBA DELL'INGEGNO LA SAPIENZA IN RIVOLTA CONTRO LA MORATTI SCUOLA, RIFORMA AL DECOLLO UNA SCUOLA MIGLIORE NON NASCE IN PIAZZA UNIVERSITÀ, OGNI PROVINCIA RIVENDICA LA SUA ATENEI MALATI D'AUTONOMIA LAUREA BREVE: MASTER PER SAPIENTI USA E GETTA E-LEARNING L’INSEGNATE VA IN AZIENDA VA A BATTESIMO IL 23 GENNAIO IL CARTELLO DELL'E-LEANIING ITALIANO RIVOLTA DEGLI UNIVERSITARI CONTRO LA REGIONE SARDA MISTRETTA:FINANZIAMENTI PER LE UNIVERSITÀ TUTTI I CORSI DEL MIT GRATUITI SU INTERNET =========================================================== RIFORMA AMMAZZA SANITÀ SANITÀ "SERVONO TRE NUOVE AZIENDE" SEI AZIENDE OSPEDALIERE PER CURARE LA SANITÀ SARDA TUTTO DA RIVEDERE IL PROTOCOLLO UNIVERSITÀ/REGIONE AL BROTZU IL CENTRO DI MEDICINA DELLO SPORT DAI VERTEBRATI AI CORALLI, QUANTI GENI IN COMPROPRIETÀ VACCINI CONTRO I TUMORI,TRA DUE ANNI TEST SULL’UOMO LASER INDIVIDUA CELLULE CANCEROSE SENZA BIOPSIA BOXER O SLIP? UN DILEMMA ANCHE MEDICO CONTRO L'ACCANIMENTO TERAPEUTICO C’È ANCHE UN VIRUS TRA LE CAUSE DELL’ATEROSCLEROSI MOBBING, NUOVA MALATTIA SOCIALE» IN GRAVIDANZA TROPPE DONNE ABUSANO DI MEDICINE SARDI IN DIMINUZIONE E SEMPRE PIÙ VECCHI =========================================================== __________________________________________ Corriere della Sera 20 gen. ’04 L' UNIVERSITA' TENTA LA SVOLTA L' ultimo progetto: due pregi e qualche difetto Panebianco Angelo Da molti anni si parla della riforma dello stato giuridico e del reclutamento dei professori universitari. Quando questo provvedimento verrà varato inciderà sulla fisionomia del corpo docente e condizionerà più di qualunque altro intervento, passato o futuro, il funzionamento del sistema di istruzione superiore, ossia di un settore strategico per lo sviluppo del Paese. E' sconcertante che le prime reazioni venute dal mondo universitario al «disegno di legge delega» su questo tema presentato dal ministro Moratti siano state quasi tutte ostili. E' sconcertante perché questo disegno, benché non perfetto, è comunque migliore di tutti i progetti fin qui circolati. I pregi sono soprattutto due. Il primo è di mandare in soffitta il ruolo di «ricercatore», un prodotto della follia sindacal-corporativa degli anni Settanta. Se il disegno passerà non si comincerà più la carriera accademica con il «posto di ruolo» (di ricercatore) ma con contratti di ricerca, e integrativi della didattica, rinnovabili una volta sola: chi nel frattempo non vince un concorso da professore cambia mestiere, come si usa in tutte le Università del mondo civile. Chi grida allo scandalo perché in questo modo si «precarizza» la fase iniziale della carriera dimentica che, per la sua natura, la carriera universitaria richiede massima flessibilità nella prima fase: solo dopo un certo tempo si può stabilire, sulla base dei risultati scientifici conseguiti, se la persona che ha iniziato il percorso possieda davvero i numeri per continuarlo. Il secondo pregio è di riformare il sistema dei concorsi. L' attuale è troppo difettoso: premiando quasi sempre i candidati locali (già incardinati nelle facoltà che bandivano il concorso) anche se poco meritevoli, si è spesso trasformato in una sorta di ope legis. Il disegno prevede, al posto del sistema vigente, commissioni nazionali che stabiliscano liste d' idoneità da cui le facoltà possano attingere. E' difficile negare che il progetto Moratti sia, su questi aspetti, serio e innovativo, e prometta di ridare un po' di vitalità a un corpo docente oggi alquanto anchilosato e burocratizzato. Non tutto convince, naturalmente. Tra i problemi aperti ne indico qui solo tre. Il primo riguarda il fatto che le 120 ore di insegnamento «frontale» previste sono troppe: se si insegna troppo si insegna male, senza preparare seriamente i corsi. Il secondo riguarda il fatto che oggi, fra laurea triennale, laurea specialistica e dottorato di ricerca, un giovane arriva al primo gradino della carriera (il contratto di ricerca previsto dal disegno) troppo tardi, alla soglia dei trent' anni. Bisognerebbe allora permettere che accedano ai contratti di ricerca anche i dottorandi, ai quali spetterebbe l' onere di preparare il dottorato e adempiere contemporaneamente agli obblighi previsti dal contratto. Come è prassi in tante Università occidentali. Il problema più grave, però, riguarda i finanziamenti. Le Università non hanno abbastanza soldi per i contratti. Senza un forte investimento iniziale da parte del ministero il progetto abortirebbe. Inoltre, se si rende flessibile la prima fase della carriera, come è giusto, bisogna però introdurre una compensazione: ossia pagare molto bene i contrattisti (certo più di quanto oggi prenda un ricercatore di prima nomina). Altrimenti, c' è il rischio che, mal pagati e senza certezza di carriera, i giovani più brillanti vadano altrove lasciando il posto ai mediocri. Riuscirà il ministro a farsi dare da Tremonti le risorse necessarie? Di questo, oltre che di altri aspetti del disegno sicuramente migliorabili, bisognerebbe che i professori discutessero pacatamente. Senza pregiudiziali ideologiche, barricate o girotondi. __________________________________________ Il Riformista 22 gen. ’04 SE IL RICERCATORE DIVENTA UN COCOCÒ ATENEI. EFFETTI POSSIBILI DEL DISEGNO DEL GOVERNO Di Alessandro FIGA TALAMANCA Dieci anni in posizione subordinata dipendenti E difficile non essere d'accordo con l'editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere di martedi scorso, quando afferma che la carriera accademica, o più precisamente il mestiere dello scienziato, non deve cominciare con un posto di ruolo. E infatti «solo dopo un certo tempo si può stabilire, sulla base dei risultati scientifici conseguiti, se la persona che ha iniziato il percorso possieda davvero i numeri per continuarlo». Si deve anche riconoscere che l'attuale figura del ricercatore, inventata nel 1980 da partiti e sindacati per sistemare i loro clienti, non si adatta alla funzione che ha effettivamente svolto negli ultimi venti anni e cioè reclutamento di giovani scientificamente autonomi, a pochi anni dal conseguimento del dottorato di ricerca. Ma da queste premesse non segue affatto che il recente disegno di legge governativo, che pretende di abolire il ruolo dei ricercatori, sia destinato a migliorare il reclutamento dei docenti universitari. L'effetto sarà proprio l'opposto. Per capire cosa significa il provvedimento del governo dobbiamo chiederci a quale età ci si aspetta che un docente universitario, o uno scienziato, possa e debba esercitare la sua attività di insegnamento e di ricerca in piena autonomia, inseguendo la propria curiosità, sviluppando le proprie idee, cercando di innovare rispetto ai dogmi scientifici ereditati dai suoi maestri, e tentando di fare dei proseliti tra i più giovani. Se si guarda a quel che accade a livello internazionale, in ambito scientifico, l'età adulta dello scienziato inizia verso i trent'anni, che è anche l'età della massima creatività, quando l'esperienza maturata si combina ancora con l'entusiasmo, la spericolatezza, l'ambizione sfrenata, o, se vogliamo, la tracotanza, del giovane. A quest'età chi si avvicina alla carriera universitaria in Europa o negli Stati Uniti, ha al suo attivo un percorso universitario di almeno otto anni, che si 8 concluso con un dottorato di ricerca, ed ha acquisito, poi, altri due o tre anni di esperienza di insegnamento e ricerca. II disegno di legge governativo, invece, prevede che in Italia, dopo un dottorato di ricerca conseguito, nella migliore delle ipotesi, poco prima dei trent'anni, si possa, anzi si debba, restare per altri dieci anni in una posizione subordinata, con un contratto di co.co.co., assegnato con un concorso locale, probabilmente sotto gli auspici e la direzione «scientifica» di un un «barone». Si prevede cioè che fino a quaranta anni e più, l'aspirante docente universitario sia in una posizione ancora meno indipendente e più ambigua di quella degli attuali «ricercatori». E infatti, l'abolizione formale del, ruolo dei ricercatori non darà luogo alla scomparsa degli attuali ventimila e passa ricercatori universitari. Questi ultimi affolleranno tutti i concorsi a posti di professore associato, bloccando l'accesso dei più giovani. Ai nuovi dottori di ricerca resterà solo l'alternativa dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa decennali, previsti dal disegno di legge. Ma chi accetterà queste condizioni di ingresso nel sistema universitario? Non certo i giovani più brillanti. Meno che mai sarà possibile reclutare giovani stranieri, come fanno tutti i paesi con i quali siamo in competizione. Si riprodurrà per l'università un fenomeno che abbiamo conosciuto per la scuola secondaria: l'accesso ai ruoli attraverso interminabili anni di mal papato «precariato», determina una selezione negativa. Restano disponibili solo i soggetti che non hanno alternative. Dobbiamo allora lasciare tutto come ora? O sperare, come alla fine fa Panebianco, che un'improvvisa conversione del ministro dell'Economia consenta una costosa modifica del disegno di legge che lo renda compatibile con un reclutamento precoce dei giovani in posizioni, almeno potenzialmente, stabili? In realtà 8 disponibile una soluzione più semplice e non costosa: la riforma del ruolo dei ricercatori per renderlo coerente con la funzione che, bene o male, ha svolto negli ultimi venti anni, quella cioè di fornire una prima posizione stabile di docente universitario, corrispondente, ad esempio, in Francia, al "maítre de conference", in Gran Bretagna al "lecturer" e negli Stati Uniti allo "assistant professor". Prima di tutto, e subito, bisogna riformare il concorso di accesso al ruolo, che dovrebbe assumere un carattere veramente nazionale ed infatti internazionale. Non c'8 sistema di concorsi a cattedra che possa rimediare alla carenza di candidati qualificati. Per questo l'esigenza prioritaria è quella di migliorare la selezione per la posizione accademica iniziale. Prima o poi, bisognerebbe anche alzare il livello dello stipendio iniziale del «docente di terza fascia», per renderlo competitivo a livello europeo (adesso sono inutilmente competitivi solo gli stipendi dei più vecchi). Ma per quest'ultimo provvedimento bisognerà aspettare altri tempi, o, forse, ministri della spesa più sensibili ai problemi dell'università. • __________________________________________ Repubblica 20 gen. ’04 UNIVERSITÀ, UNA LEGGE SENZA «CERVELLO» L'Europa insegue il modello americano. Ma senza finanziamenti e strutture la ricerca diventa un fast-food MATTEO BARTOCCI Il governo italiano ha licenziato venerdi la legge delega che riforma da cima a fondo l' insegnamento e la ricerca universitari. A1 di là delle critiche sui singoli aspetti del provvedimento, è importante discutere il principio di fondo che anima l'ennesima riforma Moratti. Questa legge introduce nel nostro paese un modello definibile come «scienza precarizzata». Un modello culturale che non è affatto solo italiano o puramente berlusconiano: la precarizzazione dei ricercatori, negare il loro molo sociale e culturale portandolo ad «esaurimento» fa tutt'uno con il superaffidamento ai contratti a tempo determinato. Lo stesso accadrà nel reclutamento del personale docente. E' doveroso quindi riflettere sul paese dove esso è applicato con pieno successo: gli Stati Uniti d'America, l'indiscussa potenza egemone della nuova «economia basata sulla conoscenza». Bisogna ammettere che la «scienza precarizzata», nonostante i limiti sul piano dei diritti individuali, è consapevolmente scelta da milioni di ricercatori di tutto il mondo, Europa compresa. Non è necessario ripercorrere qui i capitoli di bilancio che sotto diversa forma, sempre più spesso militare, il governo federale statunitense assegna alla ricerca scientifica, tanto quella pura che quella applicata. Né è un mistero che il sistema privato statunitense, soprattutto attraverso le aziende della farmaceutica e dell'Ict, sia il primo attore della nuova economia e della nuova scienza. La ricerca di massa, eredità e conquista del XX secolo, è oggi quotata in borsa e affidata alle mani di avvocati specializzati nel far rispettare in tutto il mondo le spettanze economiche che ne derivano. La e di fatto lo è, essere scelta. Ma solo di fronte a grandi investimenti e una nuova organizzazione. In Italia accade il contrario: si scimmiottano principi e si tagliano fondi senza contropartita. Con i co.co.co generalizzati e la declinante struttura attuale non si fa un buon servizio alla scienza, la si condanna alla marginalità e all'irrilevanza. E se oltre a voler fare ricerca si desidera anche un figlio, il prezzo dell'infelicità è ancora più salato. __________________________________________ Il Foglio 23 gen. ’04 UNIVERSITÀ, TOMBA DELL'INGEGNO Burocratismo, statalismo e mediocrità attanagliano gli atenei della Vecchia Europa LUIGI DE MARCHI Il settimanale americano "Time" pubblica in copertina il ritratto di una giovane ricercatrice italiana, Sandra Bavaglio, e a lettere cubitali il titolo di una vasta e accurata inchiesta proposta nelle pagine interne: "Come l'Europa ha perso le stelle delle sue scienze". Dal servizio di "Time" si apprende che sono ben 400mi1a i giovani scienziati europei che, scoraggiati dalle difficoltà incontrate in patria, si sono trasferiti in America per continuare le proprie ricerche. E naturalmente la clamorosa iniziativa di "Time" ha scatenato una nuova ondata di indignazione e di polemiche anche in Italia, ove il fenomeno della cosiddetta "fuga dei cervelli" è da tempo segnalato e lamentato. Come sempre, però, da noi il dibattito si è subito trasformato in un pretesto per un ennesimo attacco a Silvio Berlusconi e al suo ministro dell'Istruzione, Letizia Moratti, cui viene naturalmente attribuita la responsabilità della tanto deprecata "fuga". Con buona pace dei demagoghi di sinistra e dei loro alleati girotondini, però, Berlusconi e Moratti, come diceva al lupo l'agnello nella famosa favola di Esopo, possono facilmente rispondere agli intellettuali del sinistrese: "Equidem natus non eram" (veramente, non eravamo ancora nati). La fuga dei cervelli, infatti, comincia in epoca molto anteriore non solo all'attuale ma anche al primo governo Berlusconi. E anche la causa del fenomeno comunemente indicata dalla nostra cultura accademica, e cioè l'insufficienza dei fondi stanziati dai vari governi per l'università e la ricerca, è una colossale balla perché, al contrario, la spesa dell'Italia per l'università è tra le più alte del mondo, in rapporto al reddito nazionale. Purtroppo, però, la massa stragrande dei fondi finisce nelle tasche del pletorico personale docente e non docente mentre solo le briciole restano disponibili per il finanziamento della ricerca e delle relative tecnologie. Quali sono dunque le vere cause della fuga dei cervelli dall’Italia? Una prima causa è sicuramente la mentalità mafiosa della stessa cultura accademica. Com'è noto i nostri cattedratici sono da sempre soprannominati "baroni". E non a caso. Essi sono baroni sia perché ottengono spesso le loro cattedre per meriti famigliari o castali oppure per il loro vassallaggio nei confronti del Principe (cioè del dignitario politico di turno), sia perché accordano a loro volta prebende e vitalizi ai loro più docili e servili valvassori (i cosiddetti portaborse). Tutto ciò porta inevitabilmente, tra le mura dei nostro atenei, a una selezione a rovescio, che non solo non premia l'ingegno, ma favorisce invece la perpetuazione della mediocrità morale e intellettuale dei baroni. E questa mediocrità, a sua volta, è un fattore cruciale della fuga sia dei giovani dagli studi universitari (abbiamo in materia un poco invidiabile primato europeo), sia dei cervelli dai nostri centri di ricerca. Un fattore cruciale, certo, ma non l'unico, né forse il principale. Un merito particolare dell'inchiesta di "Time" sta infatti, a mio parere, nell'aver dimostrato che la fuga dei cervelli non riguarda solo l'Italia, ma l'Europa intera. La causa centrale dell'inefficienza universitaria non può dunque essere ridotta al fenomeno provinciale della nostra cultura famiglista e mafiosa. Qual è dunque questa causa centrale? Per parte mia, credo che essa vada cercata nella mala erba del burocratismo e dello statalismo che affligge da secoli la Vecchia Europa e che ha inquinato, soprattutto negli ultimi due secoli, la vita delle sue università. È il modello franco-prussiano dello Stato pesante che ha in Hegel, fondatore dello storicismo idealista europeo, il suo massimo aedo e teorico. Nella sua opera ponderosa "Lineamenti di filosofia del diritto" (1821), Hegel arrivò a proclamare il Burocrate "Tutore del Bene universale" e a indicare nella burocrazia "lo strumento insostituibile dell'ascesa dell'umanità allo Spirito Assoluto" (e scusate se è poco). Comprensibilmente, l'idea piacque moltissimo non solo ai burocrati prussiani ma anche ai loro colleghi degli altri Stati europei, anche perché offriva loro non solo il diritto ma il sacrosanto dovere di rapinare i lavoratori dipendenti e indipendenti del privato per assicurarsi la serenità e i privilegi giustamente rivendicati da questa benemerita casta di Tutori del Bene Universale. In questa splendida teoria hegeliana vanno dunque cercate le radici del modello burocratico franco-tedesco di Stato pesante e anche dell'insabbiamento delle università europee nel clientelismo e nel burocratismo parassitario e inconcludente. Proprio assicurando ai docenti universitari posti sicuri a vita, carriere garantite e pensioni privilegiate la Vecchia Europa ha fatto delle sue università il ricettacolo delle personalità insicure, e quindi affamate di sicurezza, conformiste (e quindi timorose della indipendenza intellettuale e disposte al vassallaggio nei confronti dei primari e dei cattedratici), incapaci di conquistarsi autorevolezza (e quindi bramose di un'autorità delegata dall'alto), formaliste (e quindi ossessionate dal linguaggio tecnico a scapito della chiarezza intellettuale): insomma, mediocri. Ecco dunque le vere radici della fuga dei giovani ricercatori più creativi e innovativi dalla Vecchia Europa. Solo una Rivoluzione Liberale, per ora soltanto promessa, potrà estirparle. Assicurando ai docenti posti sicuri a vita, carriere garantite e pensioni privilegiate, il nostro continente ha fatto del sue accademie i1 ricettacolo delle personalità insicure, e quindi affamate di sicurezza, conformiste e formaliste __________________________________________ L’Unità 23 gen. ’04 LA SAPIENZA IN RIVOLTA CONTRO LA MORATTI Anche gli alti gradi della gerarchia universitaria non possono più stare a guardare. La riforma déllo stato giuridico della docenza diramata dal ministro Moratti è riuscita infatti in un miracolo che per anni è sembrato impossibile: svegliare dal loro torpore professori ordinari e associati. Il risveglio è cominciato alla Sapienza di Roma, quando ieri in una conferenza stampa membri del Consiglio di amministrazione e del Senato accademico hanno chiesto una mobilitazione di tutto il personale docente dell'ateneo contro il progetto Moratti. Sotto accusa, (a prevista estinzione della categoria dei ricercatori di ruolo, sostituiti da precari con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, la mancanza di finanziamenti e la fine della distinzione tra tempo pieno e parziale per la docenza.«È un attacco all'Università e alla ricerca pubblica - ha detto il prorettore della Sapienza Gianni Orlandi -. Questa riforma le affossa entrambe. Dobbiamo mobilitarci per esprimere il nostro dissenso». Il senato accademico ed il consiglio di amministrazione dell'ateneo hanno presentato un documento sulla riforma «valutata negativamente sulla base della sua incoerenza interna, sia in relazione alla povertà delle risorse messe a disposizione sia su quello della riduzione e dello svilimento dell'autonomia universitaria». Il 28 gennaio prossimo quindi si terrà un'assemblea dei docenti dell'ateneo romano, nella quale si decideranno le forme di lotta. Anche altri atenei stanno seguendo la strada della Sapienza. Il Senato Accademico di Padova ha scritto un comunicato nel quale esprime tutta la sua contrarietà alla riforma. __________________________________________ Il Sole24Ore 23 gen. ’04 SCUOLA, RIFORMA AL DECOLLO ROMA - Nessuna riduzione del servizio offerto e nessun taglio di personale con l'avvio della riforma. È uno dei contenuti più rilevanti del decreto legislativo su scuola dell'infanzia e primo ciclo dell'istruzione, che dovrebbe essere approvato questa mattina, in via definitiva dal consiglio dei ministri. E il testo che riceverà il via libera oggi non sarà la fotocopia di quello approvato in prima seduta lo scorso 12 settembre. La Conferenza unificata Stato-Regioni e autonomie locali prima, e le commissioni parlamentari poi, hanno espresso parere positivo, ma con una raffica di osservazioni e richieste che, pur non modificando l'impianto originario, ottengono almeno due risultati concreti: in primo luogo la gestione graduale del passaggio tra il vecchio e nuovo sistema dell'istruzione e poi una serie di norme esplicite soprattutto in materia di orario scolastico. Il testo verrà limato e ritoccato fino all'ultimo minuto prima di entrare in Consiglio dei ministri, ma integrare le norme approvate lo scorso settembre con le osservazioni arrivate al Miur consente di anticipare gran parte del contenuto. Nel dettaglio, secondo le indicazioni inviate al ministero dell'Istruzione, sarà l'articolo 14 («Scuola secondaria di I grado») a subire i maggiori cambiamenti. «Al fine di assicurare il passaggio graduale al nuovo ordinamento per l'anno scolastico 2004/2005, e fino alla messa a regime della scuola secondaria di primo grado, l'assetto organico delle scuole secondarie di primo grado viene confermato». Significa che i posti di lavoro non vengono toccati. Inoltre, sempre a seguito delle richieste delle commissioni parlamentari, sarà approvato il seguente comma: «In attesa dell'emanazione delle norme regolamentari, le istituzioni scolastiche, nell'esercizio della propria autonomia didattica e organizzativa, provvedono ad adeguare la configurazione oraria delle cattedre e dei posti di insegnamento ai nuovi piani di studio». Viene proposta quindi la cosiddetta «doppia velocità»: da un lato il numero dei docenti resta invariato, dall'altro si invitano le scuole ad applicare già il nuovo modello accelerando sull'autonomia. «Ai fini dell'espletamento dell'orario di servizio obbligatorio, il personale docente interessato a una diminuzione del suo attuale orario di cattedra viene utilizzato per le finalità e per le attività educative»: sarebbe la conferma che il modello organizzativo non prevede i cosiddetti «perdenti posto». Inoltre, entro un anno saranno ridefinite le classi di abilitazione all'insegnamento. Le osservazioni della Conferenza unificata si avvertono soprattutto come chiarimenti in merito al tempo pieno e al tempo prolungato. Modelli che il decreto ripropone, secondo un'organizzazione flessibile e opzionale diversa dall'attuale. Nel dettaglio, è confermato, in via di prima applicazione, per l'anno scolastico 2004-05, il numero dei posti attivati complessivamente a livello nazionale per il 2003-04 per le attività di tempo pieno. Altri cambiamenti dovrebbero riguardare l'articolo 3, sulla scuola dell'infanzia: stabilirà anche che «allo scopo di garantire le attività educative è costituito l'organico di istituto». All'articolo 4 («Primo cicliclo di istruzione»), verrà aggiunto un comma voluto sia dalla Conferenza unificata che dalle commissioni parlamentari: «Le scuole appartenenti al primo ciclo possono essere aggregate tra loro in istituti comprensivi anche comprendenti le scuole dell'infanzia esistenti sullo stesso territorio», un segnale concreto alle autonomie locali nella prospettiva di organizzare istituti che realizzino l'intero primo ciclo dell'istruzione. Per quanto attiene alle attività educative e didattiche, viene esplicitata la loro gratuità. Cosi come viene garantita la presenza dei docenti durante il tempo dedicato alla mensa. Sul decreto si è abbattuta la bufera di polemiche scatenata dall'opposizione. L'ultimo attacco, in ordine di tempo, è arrivato ieri, in occasione del parere della commissione Bilancio del Senato: secondo esponenti dell'Ulivo, il provvedimento doveva essere bocciato per mancanza di copertura finanziaria. Enrico Panini, segretario generale della Cgil scuola, chiede l'immediato ritiro del decreto. Mentre Massimo Di Menna, segretario generale della Uil scuola, annuncia opposizione durissima attraverso iniziative di mobilitazione in tutte le scuole. LUIGI ILLIANO __________________________________________ L’Unione Sarda 23 gen. ’04 UNA SCUOLA MIGLIORE NON NASCE IN PIAZZA di Mario Unnia La riforma della scuola disegnata dal ministro Moratti non va accettata a scatola chiusa. La sua opzione per un servizio in cui concorrono il pubblico e il privato necessiterebbe di un tempo di sperimentazione e anche di ridefinizione, se è il caso. Ma questo atteggiamento non è compatibile con una scelta di campo politica aprioristica e non negoziabile. La manifestazione di sabato 17 a Roma, largamente minoritaria rispetto alla grande categoria degli insegnati, ha messo in evidenza che questo è l’atteggiamento della sinistra, e che esiste una regia che mira alla “non riforma”. I cartelli che intimano «bocciamo senza appello la riforma» con toni da vertenza sindacale dura, non aprono ad un confronto pacato quale l’argomento richiederebbe. Al contrario, prospettano una rottura inconciliabile. E’ noto che la corporazione degli insegnanti, la minoranza sindacalizzata e la maggioranza passiva, è contraria ad ogni intervento che intacchi i privilegi. La cultura burocratica della scuola pubblica teme il meccanismo della valutazione sui risultati, preferisce strumenti di controllo labili, affidati alla stessa struttura che amministra l’apparato. S’è tentato di introdurre criteri di regolazione della macchina scolastica non interni, e di affidarne l’esercizio ai fruitori del servizio, ovvero alle famiglie degli scolari e degli studenti, e agli studenti stessi quando raggiungono l’età del voto. Questo in base al principio democratico secondo il quale il padrone della scuola pubblica non è lo Stato, bensì sono le famiglie e gli allievi, mentre i docenti ne sono i dipendenti: ma questi tentativi sono andati a vuoto. È passata la stagione dei cosiddetti decreti delegati, che negli anni ’70 aveva visto una larga partecipazione al governo della scuola degli stessi cittadini che la finanziano con le imposte. Nelle università oggi c’è ancora una minoranza di giovani che contestano, c’è poi una seconda minoranza di giovani che hanno a cuore la qualità degli studi e la buona gestione, ma purtroppo i più sono del tutto indifferenti. Non va per altro dimenticato l’uso spregiudicato che i partiti hanno sempre fatto della scuola, l’aver considerato l’apparato scolastico un serbatoio di voti e di favori clientelari. Dall’asilo all’università la larga maggioranza del ceto insegnante, condizionata dalla minoranza sindacalizzata, s’è chiusa a riccio di fronte alla prospettiva di sperimentare l’innovazione. Via via che il livello qualitativo del servizio declinava e per contro cresceva l’insofferenza dei fruitori, il sindacalismo scolastico ha cercato di trarre profitto: la protesta delle famiglie, inermi e inoffensive in quanto prive del potere di controllo, è stata dirottata a supporto della difesa corporativa del ceto insegnante. Ma non sempre questo coinvolgimento delle famiglie è avvenuto in modo corretto. Torniamo ancora alla manifestazione di Roma del 17 scorso. C’è da dubitare che l’aver portato in piazza i ragazzini a protestare contro il ministro Moratti abbia fatto un buon servizio alla scuola e alla democrazia. Trasferendo agli imberbi cittadini il messaggio che i diritti si “strappano” in piazza, che il ministro deve “finire dietro la lavagna”, che al dissenso “si chiude la bocca” (cito i testi di alcuni cartelli mostrati in tv) si fa diseducazione civica sul campo: perché quella dei bimbi è una protesta priva di consapevolezza, in cui l’emozione si sostituisce all’argomentazione, il contrario esatto di ciò che richiede l’esercizio della democrazia. __________________________________________ Il Sole24Ore 17 gen. ’04 UNIVERSITÀ, OGNI PROVINCIA RIVENDICA LA SUA Pianeta istruzione / Gli Atenei moltiplicati Immaginate una Regione con meno di un milione e mezzo di abitanti, quattro province e ben quattro Università (più, en passant, un Istituto di formazione post-laurea), due addirittura nella stessa provincia (peraltro la più piccola, 300mila abitanti), con tre facoltà di Economia, di Giurisprudenza e di Scienze. Immaginate che tre di queste Università rappresentino la principale fonte di reddito delle rispettive cittadine e che questi atenei abbiano distribuito sul territorio ben 15 poli universitari. Ebbene, questa regione - che, a seconda delle scuole di pensiero, sarebbe un sogno, quello dell'Università per tutti, legata al territorio, portatrice di cultura diffusa, e per altri un incubo, fatto di dispersione di risorse, negazione del principio stesso dell'Università come luogo di contaminazione culturale, vittoria degli interessi localistici - questa regione esiste davvero. È (sono?) le Marche. Se le Marche rappresentano l'apoteosi del campanilismo italico, il loro (suo?) sistema universitario rappresenta l'apoteosi del campanilismo marchigiano. E l'autonomia non ha fatto altro che aggravare le cose. I quattro rettori sono concordi nel ritenere che si sia esagerato nel moltiplicare i corsi decentrati per andare a caccia di studenti-clienti e ostacolare eventuali mosse dell'Università "concorrente". Ma ognuno di loro ritiene, evidentemente, che a sbagliare siano stati gli altri tre. E a ben poco serve il Comitato regionale di coordinamento, che spesso diventa sede di reciproche, inconfessabili concessioni e le cui indicazioni vengono comunque disattese. Un esempio per tutti: il recente (gennaio 2003) cambio di nome dell'Università di Ancona, che ora si chiama Università Politecnica delle Marche, con un'evidente operazione di marketing. Apriti cielo! I tre colleghi del rettore anconetano Marco Pacetti hanno fatto fuoco e fulmini, si sono rivolti al ministero (che ha effettivamente chiesto di soprassedere), hanno scritto e strepitato. «È una decisione ridicola. Tutt'al più avrebbe dovuto chiamarsi Università della Marca di Ancona», commenta il rettore di Urbino Giovanni Bogliolo. Pacetti, che guida l'unica Università marchigiana a non affondare le proprie radici nel passato remoto (è nata nel 1969) e sicuramente la più dinamica e aggressiva, sorride sornione, moltiplica le collaborazioni con il mondo delle imprese e va dritto per la sua strada. Accingendosi ad aprire un nuovo corso di Economia a San Benedetto del Tronto. Certo, Ancona non ha dalla sua il fascino e la bellezza di Urbino. Il capoluogo regionale, imbruttito dalle ricostruzioni post-belliche e asfissiato dal traffico degli oltre 200mi1a Tir che vanno e vengono dal porto, si sta riprendendo solo adesso dal terremoto del 1972, dalla frana del 1982, dalle tristemente famose "incompiute" e dalla sua Tangentopoli. Niente a che fare con l’ armonia di quella che è forse la più nota delle città-campus, i corrimano nei vicoli stretti e ripidi, i coppi rossi dei tetti che fumano nel freddo dell'inverno, lo strepitoso Palazzo Ducale dei Montefeltro e gli studenti in piazza a suonare per i 55 anni della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Anche se non sono tutte rose e fiori, come ammette lo stesso Bogliolo, successore - due anni e mezzo fa - del "mitico" Carlo Bo, rettore per 54 anni: «L'Università, con 82mila metri quadrati posseduti e 15mila in affitto, è il proprietario immobiliare di Urbino. E il datore di lavoro. La città si è adeguata, in modo parassitario. L'artigianato è praticamente scomparso, sostituito da paninoteche, alloggi in affitto e negozi di basso livello». Forse sarà il caso di inserire anche riflessioni di questo tipo tra le iniziative per i 500 anni dell'Università (nel 2006). E approfondire quella sullo status dell'Ateneo. Che, pur avendo tasse e un numero di professori di ruolo analoghi a quelli degli Atenei pubblici, appartiene al gruppetto delle Università "non statali". Riceve quindi meno fondi e incrementa i propri debiti (arrivati a circa 25 milioni). Allora delle due l'una: o lo Stato alza il contributo oppure Urbino chiederà la statizzazione. Anche a Macerata l'Università è il gran datore di lavoro. E il grande acquirente immobiliare. Persino troppo, visto che molti dei palazzi storici comprati avrebbero bisogno di restauri che l'Ateneo non si può permettere. Nell'attesa affitta locali vari, cinema compresi, per ospitare le lezioni. II nuovo rettore Roberto Sani, allievo di Pietro Scoppola e storico della scuola, sta cercando di mettere ordine nella disordinata crescita degli ultimi anni e intanto pensa all'apertura di tre nuove facoltà: Scienze della comunicazione, Lingue e Beni culturali. Infine Camerino, essa pare sul colle e tra le mura, come Urbino e Macerata. Un paese in ricostruzione, dopo il terremoto del '97, ma splendido e in piena decadenza. Una volta c'era qualche attività produttiva e, fino al 1957, l'Università era addirittura privata. Oggi non c'è più nulla e Camerino vive di terziario pubblico. A partire proprio dall'Ateneo. Che, tolti i cor~.i decentrati, ha meno di 8mila iscritti. Cinquemila dei quali a Giurisprudenza, con 3.500 fuori corso (avete letto bene, non è un errore) provenienti un po' da tutta Italia. La situazione, insomma, è quantomeno preoccupante. Eppure, grazie ai fondi del terremoto, l'Università ha avviato un programma di espansione immobiliare da 50 milioni. Il rettore Ignazio Buti, da sempre a Camerino, allarga le braccia: «Non posso darle torto, non è certo un momento brillante, per la cittadina e la sua Università. Ma visto che esistiamo proviamo a migliorare, facendo di Camerino un piccolo campus di eccellenza». Beh, noi crediamo che dopo un viaggetto nel pianeta universitario marchigiano anche i più scettici nei confronti dello slogan "meno Stato, più mercato" potrebbero ricredersi. __________________________________________ Il Sole24Ore 22 gen. ’04 ATENEI MALATI D'AUTONOMIA Da riscrivere gli statuti per ristabilire le responsabilità DI MAURIZIO GRASSINI* L’Università italiana versa in pessime condizioni ed è per questo che se ne parla tanto. Docenti universitari ne denunciano le sofferenze e, in generale indicano soluzioni ispirate dalla nostalgia di una perduta giovinezza. Cosi leggiamo di realtà paradisiache, come Cambridge di qua e Cambridge di là, alle quali dovremmo guardare per orientarci sul cosa fare; ma sono sempre descrizioni basate sui ricordi di viaggi ed esperienze di professori, allora ventenni, tutte vissute sul lato dei fruitori di un apprezzato servizio prodotto da università straniere. Purtroppo queste analisi sembrano più suggerite dal desiderio di sottolineare di possedere una formazione aristocratica, con indulgenze esterofile, che non per indicare spunti concreti per tirar fuori il nostro sistema universitario dalla palude in qui oggi si dibatte. Un po' di storia, a tal proposito, non guasta. Dopo una gestazione durata con vicende mutevoli per circa un ventennio, la riforma universitaria del 1980 incorporò l'animo assembleare dei furori sessantottini. La domanda di partecipazione si risolse in un allargamento di organi decisionali; in particolare, dei Consigli di facoltà. Laddove i componenti erano una decina, divennero per legge anche più di cinque volte; ma non c'era molto da decidere in quanto il ministero della Pubblica istruzione manteneva intatto il suo potere centrale. Alla fine degli anni Ottanta, il ministro Ruberti diede l'avvio a un processo di autonomia degli atenei che vennero allora impegnati, come primo atto del processo, nella stesura di propri statuti. Ovviamente, questi vennero scritti per il funzionamento futuro degli atenei, ma furono inopinatamente concepiti per un'istruzione universitaria ancora centralizzata; infatti, a parte il piacere di scrivere autonomamente uno statuto, ma sempre nell'ambito di uno schema quadro nazionale, di autonomia ce n'era al tempo ben poca. Questa è arrivata - vorrei dire si è abbattuta - sugli atenei molto dopo, cioè con il ministro Berlinguer (e successori). Infatti, questo è l'evento che ha condotto gli atenei in un pantano dal quale non potranno uscire se non con cambiamenti drastici del sistema istituzionale che governa l'istruzione universitaria. Alla fine degli anni Novanta, gli atenei hanno ricevuto in "dono" la dotazione ministeriale da gestire con le proprie strutture (Senato accademico, Consiglio di amministrazione, Consigli di facoltà, eccetera) in totale irresponsabilità insieme alla riforma 3+2 basata su tabelle ministeriali a dir poco incomprensibili. Questa è stata le miscela esplosiva che, deflagrando, ha in moltissimi casi sbriciolato le vecchie facoltà in una miriade di corsetti di laurea istituiti per l'ambizione di alcuni professori in cerca di propri piccoli regni, dando luogo anche a titoli e contenuti incredibilmente ridicoli. Provare per credere. Inoltre, l'autonomia della gestione del bilancio (alimentato principalmente dalla dotazione ministeriale e dalle tasse universitarie) ha offerto l'occasione per il saccheggio delle risorse con la promozione sia di camera che economica di tutte le figure accademiche possibili e l'istituzione di numerose nuove posizioni che altro non sono che vitalizi distribuiti al di fuori di ogni criterio di gestione. Come tutto ciò è stato possibile? Semplice: nell'ambito dell'autonomia universitaria che i professori universitari ripetutamente rivendicano «nel più alto interesse degli studi»! Per di più, seriosamente informano di essere cosi compresi nel proprio ruolo tanto da "autovalutarsi". È da questa spirale infernale che bisogna uscire, ma non rimpiangendo i tempi della nostra gioventù spesa in qualche prestigiosa università straniera o facendoci fare la morale da qualche studioso temporaneamente impiegato a fare docenza altrove. I rimedi non possono che essere drastici. Anzitutto, gli atenei dovrebbero essere commissariati e allo stesso tempo gli statuti riscritti per stabilire con chiarezza le responsabilità degli amministratori degli atenei che non debbono essere i professori, che notoriamente amano solo contesti autoreferenziali (a spese del contribuente). Inoltre, lo stato giuridico dei professori va ridefinito, perché, con l'immissione in massa di docenti che dovrebbero condizionare le scelte per i prossimi trenta anni, solo con l'eliminazione degli esuberi e le ridefinizione della mobilità e autonomia individuale si possono sbloccare gli impantanamenti del presente. * Università di Firenze __________________________________________ Il Manifesto 18 gen. ’04 LAUREA BREVE: MASTER PER SAPIENTI USA E GETTA Una formazione flessibile per un mercato del lavoro sempre più precario Master ROBERTO FINELLI Recentemente s'è svolto un interessante incontro all'università di Bari a partire dal libretto - L'università senza condizione - in cui sono raccolti due saggi, uno di Jacques Derrida e l'altro di Pier Aldo Rovatti (Raffaello Cortina) e che è già stato già discusso sulle pagine de il manifesto. Sollecitato anche dalla sciagurata conferma nell'ultima finanziaria governativa dei tagli drammatici all'università e alla ricerca vorrei svolgere qualche considerazione sulla questione dell'ultima riforma universitaria (la cosiddetta «tre + due») e sugli scenari che ha chiuso da un lato e aperto dall'altro. Questa riforma, concepita e voluta, si ricordi bene, non dal governo Berlusconi, ma dal centro-sinistra e dall'allora ministro Berlinguer, ha concluso e definitivamente sepolto l'idea utopica di università, che, sulla spinta della scolarizzazione di massa degli anni '50 e `60 in Italia, era stata all'origine del movimento studentesco del `68 e dei suoi sedimenti teorico- pratici più seri e creativi. L'idea cioè di una università che, di contro a quella autoritaria e per pochi, ereditata dall'organizzazione prima liberale e poi fascista dello stato, fosse invece qualificata e di massa, e capace, proprio per il suo essere di massa, di farsi costantemente aperta ai temi, alle contraddizioni, alle sofferenze dell'altro da sé: ossia di una società civile, economica e politica, di cui l'università fosse luogo di servizio e da cui in pari tempo traesse alimento, sempre nuovo, per la sua ricerca e la sua elaborazione culturale. Una università dunque che si provasse a sperimentare realmente la pregnanza del suo etimo universalistico, sia come istituzione volta alla trasmissione di tutte le conoscenze del passato che come istituzione volta ad accogliere l'intero universo delle pratiche sociali, ad essa contemporaneo, per metabolizzarne i problemi attraverso la scoperta e l'invenzione di soluzioni, procedure formali, codici di comportamento, tecnologie e metodologie adeguate. Questa idea di università - di una sua costitutiva e specifica dialetticità - è durata per altro lo spazio di un mattino. Ha fecondato di sé le prime movenze della rivoluzione studentesca universitaria del `68> secondo la lettura più originale e più propositiva dell'istanza dell'antiautoritarismo, per poi cedere a una traduzione immediatamente sociale e politica, al di fuori dell'università, del movimento degli studenti. Non che questo non abbia avuto un significato positivo, per l'accensione del `69 operaio, e di li per una trasformazione culturale profondissima nella società italiana degli anni avvenire. Ma ha prodotto la conseguenza, sul piano specificamente universitario di abbandonare quell'ipotesi di università antiautoritaria, qualificata e di massa, di cui s'è appena detto. L'università, nel trentennio successivo, è rimasta cosi università non qualificata ma solo di massa; e antiautoritaria essenzialmente nel senso che, soprattutto nelle facoltà umanistiche, una dissennata politica di liberalizzazione dei piani di studio (a cui concorsero non poco anche i quadri universitari e politici della sinistra storica del paese), concedeva percorsi facili allo studente-massa, che poteva conseguire cosi una laurea senza nessun approfondimento specifico e con uno scarso profilo professionale. Eppure, malgrado ciò, o forse proprio per ciò, quell'università è stata ancora in grado, nella molteplicità dei suoi indirizzi culturali, nella giustapposizione di metodologie varie di ricerca e d'insegnamento, di generare menti ancora dotate di una qualche attitudine all'universale, alla non coincidenza immediata e passiva con l'esistente, alla capacità di distaccarsi dal dato particolare per una qualche prospettiva di maggiore intelligenza e di maggiore presa sulla realtà. Tuttavia la sua sostanziale debolezza culturale, la sua incapacità di mediare, in un organico disegno culturale e politico, passato, presente e futuro, ha impedito che quell'università potesse svolgere nei con fronti della società quel tipo di illuminamento dialettico nel senso di quell'universalizzazione di cui si diceva sopra. L'università ha vivacchiato, rimanendo parte e non universalizzandosi. Ma appunto proprio in quanto parte, destinata a lasciarsi progressivamente dominare da quell'intero che aveva lasciato fuori di sé e che invece sempre più cresceva e si articolava secondo le sue logiche e i suoi interessi. Per dire cioè che alla fine l'università on poteva che lasciarsi incamerare dall'ideologia e dalla cultura del mercato, omologarsi e riorganizzarsi secondo la logica di un'azienda (che vive di utenti, di clienti, di crediti e debiti) e subordinare la sua frustrante incapacità di universalizzazione alla ben più diffusiva forza universalizzante del mercato e del capitale. Con la sorpresa, lo sbigottimento, quando non con ff disinvolto consenso, di un intero corpo docente> che avendo escluso dal suo orizzonte mentale la materialità dell'economico, ha assistito impotente e incredulo ad una riforma liquidatoria, ch'è passata, senza dibattito alcuno e con lo sbarramento di codici, di tabelle e di quantificazioni spesso incomprensibili, sopra la sua testa. Ho detto riforma liquidatoria, nel senso che la vera sostanza di questo « 3 + 2» (laurea triennale più laurea specialistica) è, a mio avviso, lo svuotamento del residuo di attività di educazione e di ricerca che ancora rimane in vita negli atenei (anche per l'intelligenza e la resistenza di docenti, ricercatori e studenti), col trasferimento della formazione dei gruppi dirigenti tecnici e umanistici di cui la società economica, civile e politica avrà bisogno, a centri e istituti privati o paraprivati che svolgeranno la funzione di selezione elitaria rispetto alla dequalificazione di una università che, come tale, può, anzi, deve rimanere di massa. Basti considerare il restringimento, la superficializzazione, il dosaggio in pillole, che deve essere dato necessariamente agli insegnamenti e agli esami della laurea triennale, sottratti, per riduzione del numero di ore, a quella meditazione dell’ascolto, a quella lentezza nella riflessione e nell'assimilazione che sono tipici di uno studio e di un apprendimento veramente tali. Per altro l'università pubblica non potrà mai diventare, sembra chiaro, un'azienda, con le caratteristiche e le funzioni di produttività, di efficienza, di profittabilità di un'azienda. Non lo può diventare né per il suo carattere multiculturale, né per la sua natura istituzionale comunque legata alla formazione e all'educazione dei giovani e intrinsecamente altra dai modi e dai tempi della produzione, della vendita e del consumo di una merce. Può accogliere però, del mercato e del marketing delle merci, l'istanza all'immagine esteriore, alla seduzione della e di senso delle cose, secondo quella superficializzazione del mondo cui lavora - e il postmoderno ne sa qualcosa - la vecchia talpa dell'astrazione del Capitale e della sua accumulazione di ricchezza astratta a spese della concretezza di vita di uomini e cose. E appunto l'università pubblica del futuro produrrà una cultura e una formazione di questo genere: veloce, snella, superficiale. Sarà insomma null'altro che il liceo o una corrispondente scuola secondaria superiore. Ma, data la distruzione già ormai pressocché compiuta della scuola secondaria, media e superiore, in Italia, non sarà neppure il liceo dei nostri anni `50 e `60. Dovrà svolgere invece solo le funzioni di generica alfabetizzazione e acculturazione, della nuova forza-lavoro mentale, la cui destinazione sarà quello di essere utilizzata dai nuovi mercati del lavoro, ad altissimo tasso di precarietà e di sfruttamento, legati alle nuove tecnologie informatiche. Perché questo serve all'economia di oggi e, sempre più, nel futuro: una forza-lavoro priva di qualsiasi sapere critico, ma sufficientemente alfabetizzata alla cultura democratica della cittadinanza di mercato, e capace di una qualche competenza alfa-numerica e computazionale, tale da adattarsi facilmente alle nuove tecnologie informatiche. Del resto in questi ultimi quindici anni la devastazione della scuola secondaria pubblica (scuole medie e scuole superiori), torno a dire anche per la responsabilità culturale e politica della «sinistra», è stata pressocchè totale. Un patrimonio di capacità, di competenze e professionalità, insieme a dei programmi di studio, che facevano della scuola italiana - in termini di risultati medi, di massa - forse la più avanzata al mondo, è stato progressivamente logorato, consumato e svenduto alla cultura e alla pedagogia del mercato, dell'utente e dei percorsi individualizzati. Solo la scuola materna e la scuola elementare hanno resistito su dei livelli molto avanzati di sperimentazione didattica e di socializzazione. Ma si apprestano a incrinarsi e a franare anch'esse sotto i colpi della riforma Moratti. Cosi alle università giungono studenti che per la maggior parte non sanno scrivere (nel senso che proprio non sanno neanche dove mettere una virgola) e non possiedono la più elementare cronologia storica degli eventi e dei passaggi fondamentali della civilizzazione umana. Ma appunto il «3 + 2» li aspetta per confermarli e legittimarli come cittadini del postmoderno, nel cui orizzonte la regola è il divenire e la trasmutazione costante di ogni identità> senza che si dia approfondimento e radicamento in alcunché. E che leader politici e sindacali della sinistra vadano anticipando che, anche in caso di caduta del governo Berlusconi, un nuovo governo di centro-sinistra non potrà certo cancellare le riforme in atto, bensi operare per loro più seria ed efficace riuscita, ci dice quale sarà comunque l'esito, drammatico e sciagurato, della nostra «pubblica istruzione», __________________________________________ Il Sole24Ore 17 gen. ’04 E-LEARNING L’INSEGNATE VA IN AZIENDA DI GLANNI RUSCONI Formazione a distanza mediante l'uso di nuove tecnologie: questa la classica definizione di elearning, una delle tante facce della rivoluzione digitale che dopo anni di faticoso apprendistato sembra poter finalmente assumere i connotati di fenomeno pronto alla definitiva affermazione. Le potenzialità, a detta dei diretti interessati, ci sono tutte: dall'importanza attribuita al settore, in crescita costante anche grazie alla spinta fornita dalle iniziative condotte a livello di Unione europea, alla trasversalità delle categorie professionali interessate in veste di utenti (professionisti, studenti, lavoratori dipendenti, autonomi e atipici) fino alla maggiore consapevolezza di aziende ed enti pubblici verso la formazione del personale in modo permanente. Ma l'e-learning, avvertono gli esperti. merita e necessita di verifiche più approfondite sia per definirne meglio le caratteristiche tecniche che soprattutto per dimostrarne gli effettivi vantaggi in fase di concreta applicazione. Di queste problematiche e dell'attuale scenario in Europa e in Italia se n'è parlato di recente a un convegno organizzato da Ceiil e Fondazione Luigi Clerici con il patrocinio del Miur (ministero dell'istruzione, università e ricerca), del Mit (ministero per l'innovazione e le tecnologie) e della Commissione europea. Le iniziative in Europa Marco Marsella, direttore generale della Technology enhanced learning unit in seno alla Commissione europea, ha parlato per esempio di «maturità, applicabilità ed efficienza dell'e-learning», ricordando in proposito che fattori abilitanti sono «progetti in essere come eEurope volti a crear entro il 2010 un'economia basata sulla conoscenza che prevede broadband diffuso nelle scuole, programmi di formazione professionali avanzati, campus universitari virtuali». Ancora più recenti sono i programmi di e-learning eTen ed eContent, entrambi pensati per favorire lo sviluppo e la gestione di servizi e contenuti multimediali per la formazione basata su tecnologie innovative, oppure Ist (finanziato con 140 milioni di euro), che prevede la creazione di strutture dedicate in campo universitario. Secondo Marsella, in generale, «il fattore sul quale far leva è l'utilizzo della tecnologia Internet, il wireless, il grid computing, come strumento di supporto per l'apprendimento a distanza, complementare a quello tradizionale, ma per arrivare al concetto di collaborative learning accessibile da piattaforme e dispostivi standard serve creare una vera massa critica d'utenza, a livello di comunità virtuali presso atenei e aziende». Vincenzo Fortunato e Alessandro Musumeci, rispettivamente consulenti di Mit e Miur, hanno da parte loro sottolineato, l'uno «i progressi compiuti dalle aziende in fatto di knowledge management e i piani di lavoro previsti per il 2004 relativi all'e-learning compresi nel progetto di informatizzazione del sistema paese», e l'altro «la strategica importanza della rapida alfabetizzazione tecnologica in campo scolastico, sia a livello di studenti che di docenti, e in altri settori vitali per il tessuto sociale con specifici progetti di life long learning». Roberto Liscia, presidente di Anee (la commissione servizi e contenuti multimediali di Assinform), ha fatto invece il punto della situazione in chiave mercato citando i numeri salienti di una ricerca presentata a settembre: «L'e- learning è ormai una voce forte dell'Ict italiano, grazie a una crescita a fine 2002 del 102% rispetto all'anno precedente, un'incidenza in valore sul settore passata dallo 0,07 allo 0,14% in soli 12 mesi e una quota della spesa totale in formazione prevista nell'ordine del 17% nel 2003 contro i 13,8% del 2002». Per inciso il fatturato dell'e-learning nel 2002 era di soli 108,4 milioni di euro, nel 2003 è stato stimato a 256,3 milioni euro e a fine 2004 la cifra dovrebbe superare i 592 milioni, mentre la prevista creazione di 50 mila nuovi posti di lavoro per il settore porterà a un ulteriore investimento formativo calcolato in circa 205 milioni di euro. L'Osservatorio e-learning Lucio Stanca, lo scorso autunno, ricordava come l'obiettivo del governo fosse quello di erogare in modalità e-learning il 30% (a fine 2002 il dato era fermo all'1%) di tutta la formazione della pubblica amministrazione centrale italiana entro la fine del 2004, coinvolgendo nel progetto 170 mila addetti e investendo per questo circa 60 milioni di euro (contro i 16 milioni spesi nel 2002). Secondo dati del recente «Osservatorio e-learning» realizzato proprio con i patrocinio del ministero per fin novazione e le tecnologie, l'Italia sarebbe effettivamente «in grande crescita anche se ancora lontana dai livelli statunitensi» e sempre maggiore «è il numero dei giovani che si iscrivono ai corsi di formazione a distanza». Fra gli esempi citati spicca quello dell'università di Firenze, che pei il 2004 ha attivato risorse per formare 15 mila studenti on-line; altre note liete dal fronte p.a., dove la riqualificazione del personale passa attraverso corsi on-line erogati direttamente tramite i computer dei ministeri e degli uffici pubblici. Quanto al futuro, molte enfasi è stata data allo sviluppo della banda larga, che sosterrà 1e diffusione dell'e-learning per un obiettivo che vede un solo docente poter gestire fino a 100 postazioni in contemporanea, alle enormi potenzialità dei sistemi satellitari e alle positive ripercussioni del decreto del 17 aprile 2003 firmato da Stanca e dal ministro pei l'istruzione Letizia Moratti per dare il via ufficiale all'università a distanza. Insegnare alle imprese Sotto il cappello dell'e-learning continuano a fioccare iniziative anche da parte di associazioni e organismi vari. Da Fondirigenti per esempio, il fondo per la formazione manageriale promosso da Confindustria e Federmanager, È stato promosso un ciclo di workshop (partito da Roma il 10 dicembre) durante i quali saranno analizzati scenari e prospettive dell'e-learning emersi da una sperimentazione fra le piccole e medie imprese italiane con l'obiettivo di allineare le esigenze formative dei manager delle pmi alla capacità d'offerta dei fornitori delle piattaforme di e-learning, sia dal punto di vista tecnologico che di quello dei contenuti. In particolare verranno presentati i risultati del Progetto E.Man@ger nelle pmi, che ha indagato sull'applicazione delle nuove tecnologie nei processi di formazione del management di aziende attive in Emilia Romagna, Lombardia, Lazio e Veneto. Sintomatico il commento in proposito di Giuseppe Perrone, presidente di Fondirigenti: «Occorre superare l’attuale gap tra domanda e offerta di e-learning in Italia». Anche CedCamera, l'azienda speciale di servizi informativi della Camera di commercio di Milano, ha presentato un programma per supportare il sistema imprenditoriale nell'utilizzo adeguato delle nuove tecnologie e per offrire soluzioni formative/informative on-line su temi di attualità. Con la Guida alla riforma del diritto societario, infatti, accessibile direttamente accessibile via Internet (è disponibile anche una versione su cdrom), le imprese potranno conoscere in tempo reale e a bassi costi (90 euro + Iva) e in modo semplice i cambiamenti del diritto societario che entreranno in vigore dal l° gennaio del 2004 e le migliori modalità per operare nel nuovo contesto normativo. Domanda e offerta Due grandi gruppi a confronto per cercare di capire da dentro l'effettiva portata delle attività di e-learning nelle aziende italiane. I numeri portati in dote da Banca Intesa sono sicuramente un biglietto da visita importante: : 90 mila ore di formazione ori4 line nel 2003 contro le 50 mila del 2000, il 15% di queste giornate hanno riguardato corsi manageriali in e-learning con oltre 3.300 partecipanti, il 32% corsi di carattere commerciale. A Luciano Beggio, responsabile metodologie & e-learning del servizio formazione in Banca Intesa, Itali@Oggi.it ha chiesto di illustrare com'è cambiato nel tempo l'approccio della società alla formazione, considerando che datano 1996 i primi esperimenti di formazione a distanza del gruppo bancario. «L'e-learning», ha spiegato Beggio, «sta diventando in Banca Intesa una modalità di erogazione della formazione di notevole importanza, ormai culturalmente accettata e gradita e lo dimostrano gli oltre 100 mila giorni/uomo di fruizione annuale con una percentuale sull'intera formazione che si avvicina al 50%, probabilmente la più alta d'Europa». Quanto ai risultati ottenuti, la risposta di Banca Intesa è altrettanto indicativa: «La capacità di mantenere a livelli la qualità del risultato è coincisa con quella di ridurre notevolmente i costi e i tempi di erogazione dei contenuti, il rapporto è di uno a tre, rispetto alla formazione tradizionale, tanto che sono bastati gli ultimi quattro anni per recuperare l'intero investimento». Per quanto riguarda le modalità operative, adattate al principio dell'aula virtuale trasformata in aula reale, Beggio ha sottolineato l'importanza della «costante attenzione all'innovazione, di cui le piattaforme software sono solo la base, e della qualità dei contenuti, un elemento fondamentale sul quale costruire il rapporto fra utenti e tecnologie». Già oggi, infatti, Banca Intesa eroga i propri corsi utilizzando sia la Intranet aziendale sia la web tv, mentre per la gestione dei contenuti i nuovi investimenti sono dedicati a Learn eXact. «Si tratta», ha spiegato Beggio, «di un potente learning content management system che accelera i processi aziendali di creazione, indicizzazione, gestione, assemblaggio e archiviazione di contenuti per la formazione a distanza garantendo un elevato valore aggiunto nell'automatizzare la produzione di differenti versioni degli stessi contenuti didattici sulla base dei differenti standard e delle periferiche di erogazione utilizzate». Un ultimo esempio di applicazione delle tecnologie alla formazione è infine Intesa campus, una piattaforma che riunisce più strumenti di comunicazione multimediale per veicolare il contenuto formativo che, come ha confermato Beggio, «sarà prossima a ospitare le capacità di produzione del learning content management system al fine di poter gestire anche la progettazione di corsi di aula e blended». Fra specialist e grandi vendor Secondo Anee, il 54% del volume d'affari generato dall’elearning in Italia è appannaggio dei grandi vendor di piattaforme (che costituiscono l'll% dell'offerta a livello numerico), in funzione di una concentrazione dell'offerta che premia i fornitori più dotati in termini di risorse e orientati a tutti i segmenti del mercato rispetto agli specialist di tipo verticale. Fra i cosiddetti e-learning global service provider ci sono anche nomi noti del settore It come Oracle, Hp e Toshiba. La prima, con il proprio Oracle iLearning (integrabile su richiesta con la e-Business suite), offre una soluzione professionale completa per la gestione del percorso formativo in tutte le sue forme di applicazione grazie alle funzionalità di Learning management system proprie della piattaforma. Fra i clienti più importanti ci sono Vodafone, con circa 100 mila addetti coinvolti in 21 filiali distribuite, e la stessa Oracle (con il progetto Oracle University), che forma on-line clienti, dipendenti e partner per complessive un milione di unità, mentre i contenuti sono forniti da grandi nomi del settore quali Netg, Skillsoft e SmartForce. La divisione Computer systems di Toshiba Europe, invece, grazie alla collaborazione con uno specialista nella formazione a distanza come Web Learn, ha lanciato servizi di e-learning attraverso il proprio sito www.toshiba.it/servizi sotto forma di e-card acquistabili presso rivenditori autorizzati. La carta contiene la licenza per seguire via Internet, entro sei mesi, uno dei corsi a catalogo che riguardano la preparazione alla patente europea Ecdl (European computer drive licence), Microsoft Windows XP Advanced e Outlook, Macromedia Dreamweaver; aggiuntivi servizi di supporto riguardano prevedono tra l'altro un tutor on-line con servizio di messaggistica, un test per il controllo dell'apprendi mento, mentre a fine corso l'utente avrà la possibilità d sostenere un test che, se superato, dà diritto a un attestato di frequenza e completamento del corso. Anche Hewlett Packard, fra i vendor It, ha scelto Weblearn per sviluppare e gestire programmi di formazione avanzati per le piccole e medie imprese. In base all'accordo, quest'ultima adotterà la piattaforma di Learning management system (un'infrastruttura basata sulla piattaforma software di Docent che integra funzionalità per la personalizzazione e l'erogazione on-demand dei contenuti. la valutazione dei profili e dei programmi didattici, la quantificazione dei risultati in relazione agli obiettivi stabiliti) e il sistema di Virtual Classroom per l'erogazione di corsi on-line di Hp Services, per facilitare e rendere più efficaci i processi di apprendimento delle aziende in merito agli obiettivi di business. Exa, invece, è uno dei tanti specialisti che affollano questo mercato e che vanta numeri interessanti nella formazione a distanza su cd-rom grazie ai 5.600 client installati sul canale retail e un fatturato nell'ordine dei 4 milioni di euro. L'ultima novità a livello di prodotto è Exa professional, un software che dispone l'accesso all'intero pacchetto dei corsi della società tramite semplice connessione al server di rete aziendale, mentre fra i corsi più richiesti spiccano quelli relativi alla piattaforma Windows e alla suite Office in modo particolare, che portano al rilascio della certificazione di Microsoft office specialist. L'esperienza del Politecnico L'ultima novità in fatto di iniziative dedicate all'e-learning è datata novembre e riguardava la presentazione di e-Lne, acronimo di e-learning network on excellence e in concreto una struttura che si prefigge con il 2004 di indicare le linee guida per lo sviluppo dell'apprendimento a distanza nei paesi della Comunità europea. Fra le otto università europee scelte (fra 500 che offrono servizi di e-learning) per assolvere a tale incarico, che prevede anche competenze dedicate nella gestione di risorse Ict, c'è anche il Politecnico di Milano. Per capire in modo approfondito le attività e gli sviluppi a venire sul fronte della formazione on-line dell'università milanese, che già opera a stretto contatto con vari vendor di piattaforme, abbiamo parlato con Giuliano Noci, responsabile marketing e sviluppo all'interno del Mip (la business school del Politecnico) pei quanto riguarda le aree e-business, e-government ed e- learning: “ E’ arrivato il momento», questa la premessa di Noci, «per definire in sede agli atenei le strategie sul fronte della formazione in rete, in virtù di tre fattori principali: il decreto sul le università telematiche, la maturazione delle tecnologie di supporto, la ripresa degli investimenti delle grande imprese l'entrata in campo di associazioni di categoria e servizi» Entrando nel merito delle caratteristiche dell'utente, Noci ha delineato tre categorie di riferimento: consumer, busines: e government. «Nell'ottica de. gli utenti finali, il ricorso all'e-learning per un ente come il Mip significa poter sfruttare uno strumento funzionale supporto della didattica in veste di complemento del percorso formativo, master o corso che sia: il processo di apprendimento si può virtualizzare nella necessità di vivere l'esperienza fisica rimane prevalente, il mezzo digitale, si pensi a: cd-rom o a anche a file Mp3 che contengono la lezione a cui si accede via Intranet tramite user name personalizzata, può uniformare la base di contenuti per la preparazione asincrona dell'utente ma la componente emotiva legata al rapporto con il docente ha pur sempre un ruolo fondamentale» Passando al vaglio le dinamiche che caratterizzano la domanda di e-learning delle imprese, Noci ha ricordato come «chi essenzialmente ha bisogno di formazione a distanza sono grandi realtà distribuite sul territorio e con elevato turnover del portafoglio prodotti, quindi banche, assicurazioni e società di tlc, realtà che guardavano a: Web come canale di comunicazione commerciale e che oggi prendono in considerazione la rete come strumento sul quale organizzare processi di indottrinamento su larga scala le tematiche di management». Fa specie rilevare, in tal senso, come il cd sia il mezzo ritenuto più idoneo, anche perché, dice Noci, «la banda larga è prerogativa delle realtà metropolitane» (secondo Anee, infatti, solo il 15% delle aziende dotate di connessioni broadband adotta servizi di e-learning, anche se tale indice è destinato a salire nei prossimi tre anni fino al 45%). Molto meno significativa, invece, la risposta di pmi e distretti, che Noci giudica «un mercato ancora totalmente vergine che inizia solo ora a registrare progetti di sperimentazione di portata limitata, per esempio il Web learning point creato dal Mip con la Camera di commercio di Como, che vertono sull'utilizzo di mezzi multimediali per la formazione a distanza via web degli addetti secondo il principio dell'interesse per la formazione prima esterno all'azienda e solo in un secondo tempo da internalizzare». Affrontando infine l'utenza pubblica, che il Mip in qualità di erogatore di servizi ritiene un contesto assai fertile in termini potenziali, l'invito di Noci alla p.a. è sostanzialmente per «una maggiore sensibilizzazione degli addetti sull'utilizzo delle tecnologie It e un più attento utilizzo dei finanziamenti previsti a livello di Unione europea, che hanno già prodotto alcuni concreti esempi di programmi di formazione on-line per progetti avanzati di egovernment». __________________________________________ Il Sole24Ore 19 gen. ’04 VA A BATTESIMO IL 23 GENNAIO IL CARTELLO DELL'E-LEANIING ITALIANO Un workshop a Milano Bicocca con tutti gli attori Partiamo da una storiella, come sempre orientale. Sei indiani ciechi si avvicinano a un elefante per studiarlo, descrivendo poi cosa avevano sentito. «È un muro», dice quello che aveva toccato un fianco. «E una lancia», dice quello che aveva toccato le zanne. E cosi via, chi indicando un serpente (la proboscide), chi un albero (la zampa), chi una funicella (la coda), chi un ventaglio (l’orecchia). L'e-learning è oggi in una condizione analoga: ognuno propone la sua visione dell'elefante, scambiando una parte per il tutto. Questa è la situazione che si propone di affrontare Sle-L, Società Italiana di e-Learning (www, sie-l.it), che il 23 gennaio all'Università degli studi di Milano-Bicocca apre il suo 2004 con un workshop. La giornata si potrà seguire anche sul Web in diretta attraverso il supporto di un software (Centra) messo a disposizione da DS Group. A1 termine gli iscritti eleggeranno il Consiglio direttivo. Solo tre anni fa parlare di e-learning voleva dire rivolgersi a poche persone, su un tema poco definito. Si confondeva (ma si confonde ancora) l’e- learning con la teledidattica o con la fruizione di materiali multimediali. Poi sono arrivate alcune iniziative che hanno reso visibile al grande pubblico il tema. Nell'ultimo anno ci sono stati momenti significativi: l'attuazione del piano sulla formazione dei docenti del Miur, il decreto Moratti-Stanca sulle Università telematiche, l'Osservatorio Anee 2003, la direttiva (in corso di emanazione) sull'e-learning nella Pa, il lavoro di Asfor sull'accreditamento dei Master in e-leaming, il conferimento delle prime lauree online italiane al Politecnico di Milano. Senza contare gli innumerevoli convegni universitari e aziendali e l'attenzione più volte riaffermata da parte dell'Unione Europea. In questo contesto si colloca la nascita della Sle-L, fondata nel luglio scorso, che attualmente conta quasi 200 membri di provenienze molto differenti. L'associazione nasce come punto di incontro tra culture diverse, tra la tecnologia e la pedagogia, tra il mondo della scuola/università e la formazione aziendale. La nascita di una associazione scientifica è un'occasione di confronto disciplinare e di ibridazione delle esperienze. E-learning non significa inserimento sul Web di un po' di materiali, ma gestione di processi formativi complessi, con loro specifici formati: é necessario quindi aprire la SIe-L alle relazioni can altre organizzazioni scientifiche nei settori della formazione, della comunicazione, della tecnologia, dei linguaggi e dell'intelligenza artificiale. Il lavoro si sta articolando in tre fasi. Ci sono stati alcuni mesi di dibattito sul sito, attraverso vari forum aperti; ci sarà il workshop del 23 gennaio, in cui si presenteranno e discuteranno le iniziative da prendere; si va verso il primo Congresso nazionale, tra maggio-giugno 2004. 1 temi trattati in questi mesi di dibattito sul forum sono stati molti. Sulla qualità di un percorso formativo, il dibattito è partito dall'analisi delle woi- st practice più diffuse e dagli equivoci legati all'e-learning per sviluppare ragionamenti sulla capacità di tradurre definizioni di qualità in indicazioni utili per progettare e gestire un corso. Sui profili professionali, uno degli interventi ricordava il grande numero di posizioni diverse (più di 40 profili definiti presso un sito Usa) e la necessità di ricondurle ad alcune funzioni base. L'impatto sul mondo della scuola ha portato ad analizzare essenzialmente la formazione dei docenti, in particolare la costruzione di comunità di pratica supportate dalla rete. Il dibattito sull'università ha analizzato il decreto Moratti-Stanca e sui pericoli che, se mal gestito, potrebbe introdurre. Come si inserisce la questione tecnologica in questo contesto? Si parla di formazione "sempre" (qui nasce il problema dei database), "ovunque" (e qui nasce la questione dell'erogazione), per «utenti diffusi» (qui c'è il tema dei nuovi ruoli tecnologico-educativi). Ciò porta a ragionare su strumenti di sviluppo, sistemi di archiviazione dei contenuti e di erogazione (Web, satellite), sistemi di feedback/monitoraggio, impatto organizzativo sulla struttura che gestisce il processo, sulla proprietà dei contenuti in un contesto in cui il tema dell'Open source è molto sentito, sul modo in cui il processo formativo deve essere progettato. Alberto Colorni Presidente Sie-L __________________________________________ L’Unione Sarda 21 gen. ’04 RIVOLTA DEGLI UNIVERSITARI CONTRO LA REGIONE SARDA Protesta. Fondi negati per mense e alloggi degli studenti: oggi manifestazione a Cagliari «La Regione ha tagliato i fondi dell’Ersu per le sedi gemmate dell’Università di Sassari, mense e alloggi sono a rischio». È l’allarme lanciato dai rappresentanti degli studenti dell’ateneo sassarese, che questa mattina si presenteranno a Cagliari, davanti alla sede della Regione, per chiedere a Italo Masala un appuntamento «che negli ultimi mesi ci ha sempre negato», come dichiara Omar Hassan, rappresentate studentesco nel consiglio di amministrazione. La vicenda va avanti già da diversi mesi, ma dopo lunghe trattative andate a vuoto gli studenti hanno deciso di rompere gli indugi e di alzare la voce, pur di far valere i propri diritti. «Per le Università sarde è davvero un anno drammatico - spiega ancora Hassan - il governo Berlusconi ha ridotto i fondi destinati all’Ersu e ora anche la Regione ci lascia senza soldi». Da Roma l’Ersu di Sassari ha ricevuto 370 mila euro in meno rispetto all’anno prima, «e lo scorso maggio la Regione ci ha informato che per le sedi gemmate dell’ateneo turritano l’Ersu non avrebbe ricevuto un centesimo», spiega Giuseppe Bertotto, rappresentante di tutti gli studenti sardi all’interno del Comitato di coordinamento regionale delle Università sarde. «Questo significa che l’ente per il diritto allo studio universitario si troverà costretto a negare agli studenti dei servizi per i quali pagano una tassa che si aggira attorno ai 60 euro l’anno», spiega ancora Omar Hassan, secondo cui «a rischiare maggiormente sono le mense universitarie di Oristano, Alghero e Tempio, mentre a Nuoro sono in pericolo anche i 25 alloggi che l’Ersu mette a disposizione degli allievi universitari». Discorso simile anche per quanto riguarda Olbia, «una sede universitaria in cui questi servizi non sono mai stati attivati e che anche quest’anno potrebbero non partire». L’unica possibilità, per l’Ersu sassarese, potrebbe essere quella di destinare agli utenti delle sedi distaccate i fondi regolarmente previsti per chi studia in città, che però hanno già subito un forte ridimensionamento rispetto al passato. Ma le intenzioni dei rappresentanti sono ben diverse. «Chiederemo formalmente che vengano restituiti agli studenti i soldi spesi per dei servizi che nessuno intende garantirgli», sostiene con decisione Bertotto, il quale sottolinea che «esistono delle commissioni e dei comitati ai quali spetta concordare assieme al governo isolano eventuali tagli, perequazioni e ridimensionamenti del budget a disposizione delle università sarde, ma nessuno di questi organi è stato chiamato in causa prima di decidere che per gli allievi che studiano lontano da Sassari non ci sarebbe stato un euro». Questa mattina si uniranno alla protesta degli studenti sassaresi anche quelli dell’ateneo cagliaritano, costretti a fare i conti con gli stessi problemi i quadro reso ancor più complicato dal commissariamento dell’Ersu del Capo di sotto. Omar Hassan, Giuseppe Bertotto e gli altri componenti della delegazione che questa mattina si presenterà a Cagliari chiederanno spiegazioni anche su ciò che stanno affrontando gli allievi delle lauree triennali per le professioni sanitarie, «che a causa della mancata convenzione tra Asl, Regione e Università rischiano di vedere bloccati i propri corsi di studio». Gian Mario Sias __________________________________________ L’Unione Sarda 23 gen. ’04 MISTRETTA:FINANZIAMENTI PER LE UNIVERSITÀ «Ogni assessorato stanzi due milioni per le Università di Cagliari e Sassari». È la provocazione lanciata dal rettore cagliaritano Pasquale Mistretta e condivisa da quello turritano Alessandro Maida. Una decina di milioni all’anno che potrebbero finanziare ricerche, borse di studio e tirocini degli studenti isolani in aziende che operano nei comparti di competenza dei vari assessorati. «La Regione è assente - denuncia Mistretta in un’intervista sul bollettino dell’ateneo, Unica News. «È vero che finanzia molte importanti iniziative ma è anche vero che non è sensibile alla gestione del sistema universitario. Il sostegno della formazione - aggiunge - è fondamentale ma le risorse devono essere destinate alla qualità». La proposta Secondo Mistretta, ogni assessorato dovrebbe stanziare due milioni di euro per le Università. Una somma che, sottolinea il rettore, equivale alle tasse pagate in un anno dagli studenti. «Le attività finanziate - precisa Mistretta - dovranno essere monitorate, valutabili a valle e a monte, emendabili e spendibili secondo le esigenze di sviluppo e vocazione del territorio e tenendo d’occhio le politiche della Regione». L’intervento regionale Le Università sarde sono sovvenzionate per l’80% dallo Stato. Il restante 20% è ripartito tra entrate proprie - che ammontano all’11% (nelle altre regioni italiane la media è del 40%) - e i fondi regionali. «La Regione è molto vicina alle Università», sottolinea il rettore Maida, riferendosi ai corsi di specializzazione nelle facoltà di Medicina e Veterinaria finanziati dall’assessorato alla Sanità, agli stage sovvenzionati da quello al Lavoro e ai corsi fuori dalla Sardegna finanziati dall’assessorato alla Programmazione. «La legge 25 del 2002 - aggiunge Maida - finanzia la mobilità degli studenti nelle Università dell’Unione europea con le borse di studio Erasmus e Socrates. È senza dubbio tanto, ma purtroppo non basta mai». Insomma, secondo i due rettori, un supplemento di una decina di milioni di euro sarebbe una «bella boccata d’ossigeno. Oggi - spiega Maida - la Regione è diventata il nostro interlocutore principale: una maggiore collaborazione ci permetterebbe di non dover ritoccare le tasse universitarie». Le reazioni Secondo Tore Amadu, assessore ai Trasporti, la proposta è buona, ma inattuabile. «Al momento manca una norma che permetta ai singoli assessorati di intervenire», afferma Amadu, precisando che «la Regione interviene già abbondantemente per le Università». Il responsabile dell’Ambiente Emilio Pani legge la provocazione come un invito a un migliore utilizzo dei servizi universitari. «Il nostro assessorato ha stipulato varie convenzioni con la facoltà di Agraria a Sassari - dice - facciamo quello che possiamo compatibilmente con le risorse a disposizione». L’assenza dei privati La provocazione nasce anche dalla constatazione che nelle Regioni più industrializzate d’Italia metà dei bilanci universitari è coperta dalle aziende private, voce che manca del tutto in quelli degli Atenei sardi. «È una lacuna cui la Regione non riesce a sopperire», sottolinea Emilio Pani. «Non credo però che ci sia la necessità di interventi spot - afferma l’assessore alla Sanità Roberto Capelli - occorrono progetti duraturi per intervenire sulla ricerca e sulla formazione». Una valutazione positiva alla proposta giunge dall’assessore ai Lavori Pubblici Pasquale Onida. «Tenterò di parlarne con le forze politiche nella prossima Finanziaria». Alessandro Zorco __________________________________________ Le Stampa 21 gen. ’04 TUTTI I CORSI DEL MIT GRATUITI SU INTERNET INIZIATIVA AMERICANA E ORA LA ADOTTA ANCHE IL POLITECNICO DI TORINO UN passo importante verso la costruzione di una rete mondiale della conoscenza aperta a tutti l'ha fatto il MIT, Massachusetts Institute of Technology, una delle più prestigiose università americane. Ha avviato l'OCW, OpenCourseWare, un progetto che potrebbe portare a un'autentica rivoluzione nell'insegnamento. L'obiettivo è di mettere in rete tutti i 2000 corsi del MIT, con i materiali usati, programmi, lezioni ed esercizi a disposizione dei docenti e degli studenti di tutto il mondo, gratis, senza che sia necessaria alcuna registrazione, e con la possibilità di copiare, distribuire, tradurre o modificare i materiali disponibili, ovviamente soltanto per scopi non commerciali. Certo, bisognerà superare le diffidenze del mondo accademico. Diffidenze che ha incontrato anche il presidente del MIT, Charles M. Vest, convinto sostenitore dell'OCW, "Porte aperte alla conoscenza". Nelle discussioni che hanno preceduto l'approvazione del progetto, alcuni docenti si sono lamentati del carico di lavoro in più che questo avrebbe comportato, chiedendosi se ne valesse veramente la pena. Altri si domandavano se mettere in rete appunti e materiali non rifiniti, non avrebbe rischiato di appannare l'immagine dell'istituzione. Ma la maggior parte dei dubbi riguardava la proprietà intellettuale dei lavori. I docenti temevano che una diffusione in rete dei loro libri ne pregiudicasse un uso commerciale, bruciando i diritti d'autore. Per superare ogni resistenza si decise di avviare il progetto su base volontaria, ognuno libero di aderire all'OCW o di ignorarlo. Così il progetto fu approvato nel 2001, con un investimento di 100 milioni di dollari, e nel 2002 erano già in rete i primi 32 corsi. Ora, all’inizio del 2004, i corsi disponibili sono 500 e si prevede che entro i prossimi cinque o sei anni tutti i corsi saranno in rete. E’ già possibile tentare un primo bilancio dell'iniziativa. Parte dei materiali sono già stati tradotti in dieci lingue e in un anno, dal 29 settembre 2002 al 31 ottobre 2003, i contatti al sito, http://ocw.mit.edu/, sono stati più di 180 milioni. "Noi riteniamo che l'OCW apra una nuova porta verso la democratizzazione dell'educazione - ha dichiarato in una recente conferenza stampa il presidente Vest - e speriamo che questa idea venga seguita da molte altre istituzioni e che si crei una rete di conoscenza che possa elevare la qualità dell'insegnamento e quindi la qualità della vita in tutto il mondo". Ad evitare malintesi, dev'esser chiaro che l'OCW non è un programma di distance- learning, non rilascia alcun certificato o tantomeno lauree che si possono conseguire soltanto frequentando direttamente il MIT, con una spesa annua di 41 mila dollari. E nemmeno è possibile contattare i docenti dei corsi Ma chi cerca nuove occasioni per arricchire le proprie conoscenze troverà nell'OCS una straordinaria opportunità. "E’ una grande iniziativa per socializzare la conoscenza che richiede impegno e risorse considerevoli - è il commento di Giovanni Del Tin, rettore del Politecnico di Torino, che molti considerano il MIT italiano - In questo momento siamo impegnati nella ristrutturazione del percorso di formazione, per adeguarci alla nuova riforma universitaria, la cosiddetta "tre più due", e solo in un secondo tempo potremo affrontare questi problemi sicuramente importanti. Ma in rete si trovano già i materiali di molti corsi, e questo dimostra la disponibilità dei docenti a rendere pubblici i loro testi, lasciando però alla loro discrezione il libero accesso oppure l'uso di una password che ne limiti la consultazione agli studenti del Politecnico". Curiosando tra i materiali in rete dell'OCW abbiamo trovato un corso completo di genetica, con programmi, esercizi, prove d'esame e appunti delle lezioni e con lo stesso apparato molti altri corsi, ad esempio, di biologia, teoria dei giochi, chimica organica e filosofia. Alcuni corsi, come "Applicazioni economiche della teoria dei giochi" riportano anche le slides che hanno accompagnato le lezioni e altri come il corso di elettromagnetismo o il corso di algebra lineare hanno addirittura in rete il video di tutte le lezioni. Studenti, docenti e autodidatti troveranno in questa miniera di conoscenza, che noi abbiamo appena intravisto, nuove preziose occasioni di studio. Federico Peiretti =========================================================== __________________________________________ L’Unione Sarda 23 gen. ’04 RIFORMA AMMAZZA SANITÀ Affollata assemblea all’ospedale Oncologico per analizzare la situazione Medici verso lo sciopero Il 9 febbraio programmata la prima astensione dal lavoro Diciotto sigle sindacali unite nella vertenza salute Sindacati uniti per salvare dal disastro la sanità pubblica. La battaglia è stata battezzata con un nome che è tutto un programma: vertenza salute. Il primo passo sarà lo sciopero programmato per il 9 febbraio. È stato ribadito nella sala conferenze dell’ospedale Oncologico: le 18 sigle sindacali che riuniscono medici, dirigenti sanitari, veterinari, tecnici e amministrativi, hanno già detto sì all’astensione dal lavoro. Falliti i tentativi di conciliazione con il Governo, autonomi e confederali della sanità dicono no al progressivo e inarrestabile impoverimento della sanità pubblica. Se nel resto d’Italia la situazione è triste, quella sarda riesce nel miracolo di essere anche peggiore. Il sistema sanitario funziona male e a pagarne le conseguenze sono come al solito i cittadini. La denuncia arriva dai medici che tutti i giorni convivono con questa situazione e che, oltre allo sciopero del 9 febbraio, ne annunciano altri per l’8 e il 9 marzo e una manifestazione a Roma per il 2 aprile. Secondo loro in Italia esiste una medicina di serie A e una di serie B: dal 2007, quando andrà a regime il sistema della devolution, la situazione - denunciano - peggiorerà ulteriormente, perché verrà definitivamente a mancare quel fondo di ripartizione nazionale che, fino ad ora, ha garantito la sopravvivenza anche di quelle Regioni dove i conti in rosso della sanità sono più preoccupanti. Ad aggravare la situazione, secondo i medici, è la mancanza di un Piano sanitario regionale, da anni in preparazione ma mai approvato ed entrato in vigore. Il ridotto finanziamento della sanità preclude ai cittadini la possibilità di avere garantite tutte le prestazioni alle quali hanno diritto. «Siamo molto preoccupati per l’atto di indirizzo del Governo che non solo trascura molti aspetti importanti della professione sanitaria - spiega il segretario regionale dell’Anaao-Assomed Marcello Angius - ma vorrebbe che ogni atto medico fosse schedato dal ministero dell’Economia. E poi ci opponiamo non solo ai 21 diversi sistemi sanitari, che creeranno diseguaglianze ancora più marcate rispetto alle attuali, ma anche a una riforma delle pensioni che peggiori la situazione dei dirigenti». I medici hanno sottolineato come la crisi investa anche i livelli essenziali di assistenza (Lea), provocandone un sottofinanziamento superiore ai 10 miliardi di euro. Va da sé che i medici giudicano «ormai improcrastinabile» il rinnovo del contratto scaduto nel 2001 e rifiutano lo «strapotere» dei direttori generali che «non devono decidere criteri di flessibilità non condivisi con i diretti interessati». Il manifesto Fa un certo effetto vedere il volantino con diciotto sigle sindacali una vicina all’altra. «In questa battaglia ciò che conta è essere uniti. - spiegavano ieri tutti i sindacalisti - In gioco c’è il futuro della professione e dell’assistenza cui hanno diritto i cittadini». Per questo i medici hanno ritenuto necessario raccogliere le idee e mettere nero su bianco la lunga lista di no: al progressivo svuotamento del servizio sanitario nazionale; a 21 servizi sanitari regionali diversi; alla schedatura da parte del ministero dell’Economia di ogni atto medico; ad una riforma delle pensioni che peggiori le attuali condizioni di tutta la categoria dei dirigenti; a questo atto di indirizzo delle Regioni per il rinnovo contrattuale che penalizza le condizioni di lavoro e minaccia i livelli economici; al blocco indiscriminato delle assunzioni e ai contratti atipici; al mancato finanziamento per il rinnovo contrattuale dei dirigenti; alla esternalizzazione dei servizi sanitari. Previdenza Antonello Dedoni, segretario regionale della Cimo-Asmd (associazione sindacale medici dirigenti), fa un analisi della situazione previdenziale presente e futura e i risultati non sono incoraggianti. Conclude così: «Finché il rapporto tra i colleghi in attività e quelli in quiescenza è nettamente a favore dei primi, tutto procede bene; quando invece, come nel nostro caso, il rapporto tende a scendere cominciano i guai. Una buona parte della nostra categoria gode ancora del beneficio del sistema retributivo. Col sistema contributivo attuale vengono riconosciuti solo i contributi versati. Bisogna trovare una mediazione di interessi che consenta un futuro pensionistico dignitoso anche ai medici neoassunti, e una tutela dei diritti di coloro che hanno più di 26 anni di contributi ma non ancora 57 anni di età e che sono direttamente interessati ad una modifica dell’attuale sistema pensionistico mancando ancora nel pubblico impiego il sistema dei fondi integrativi __________________________________________ L’Unione Sarda 22 gen. ’04 SANITÀ "SERVONO TRE NUOVE AZIENDE" La sanità sarda per i Ds è allo sfascio, completamente fuori controllo sia per spese che per assistenza: e visto che da qualche parte bisogna cominciare a rimetterla in sesto, la Quercia propone come prima tappa la costituzione di tre nuove aziende ospedaliere (Ss. Annunziata a Sassari in cui comprendere anche Civile di Alghero e il presidio di Ittiri; Azienda ospedaliera Nuoro, con San Francesco e Zonchello; San Martino di Oristano), l’integrazione di Microcitemico e Oncologico di Cagliari nell’azienda Brotzu, la nascita di due aziende ospedaliere integrate, la prima costituita dalle cliniche universitarie di Sassari e dall’ospedale Marino di Alghero, la seconda dalle cliniche di Cagliari e dal San Giovanni di Dio. La proposta di legge diessina, la prima di una terna in materia, intende colmare un vuoto che, denunciano i consiglieri, si è fatto davvero intollerabile. E se il capogruppo Giacomo Spissu accusa la Giunta di "approssimazione e mancanza di qualunque strategia compiuta", Silvio Lai rincara la dose: "Siamo senza piano sanitario e abbiamo una caricatura di rete ospedaliera, le condizioni di lavoro degli operatori e quelle degli assistiti sono decisamente peggiorate". (sa.pa.) __________________________________________ Le Nuova Sardegna 22 gen. ’04 SEI AZIENDE OSPEDALIERE PER CURARE LA SANITÀ SARDA Il progetto presentato dai Ds in Consiglio mira a recuperare una situazione al collasso sul fronte dell’assistenza e delle spese LUIGI ROCCO CAGLIARI. L’esperienza del "Brotzu", unica Azienda ospedaliera autonoma dalle Asl, è giudicata positiva. E c’è ora l’idea, col parziale coinvolgimento delle università, di portarle a sei: un’altra a Cagliari, due a Sassari, una a Nuoro e Oristano. La proposta di legge è stata presentata dai Ds in consiglio regionale e si inserisce nel dibattito in corso in commissione Sanità. Vediamo innanzitutto lo schema ipotizzato dai Ds. 1) Allargamento dell’Azienda ospedaliera cagliaritana Brotzu con l’integrazione dell’Oncologico e del Microcitemico; 2) Costituzione dell’Azienda ospedaliera Ss. Annunziata di Sassari con l’accorpamento degli ospedali civili di Alghero e di Ittiri; 3) Costituzione dell’Azienda ospedaliera di Nuoro con il San Francesco e il Zonchello; 4) Costituzione dell’Azienda ospedaliera di Oristano; 5) Costituzione dell’Azienda ospedaliera integrata tra le cliniche universitarie di Sassari e il Marino di Alghero; 6) Costituzione dell’azienda ospedaliera integrata tra cliniche universitarie di Cagliari e l’ospedale civile San Giovanni di Dio. In una conferenza stampa, i Ds hanno annunciato che a breve sarà presentata altre due specifiche proposta di legge: una per i "piccoli" ospedali, l’altra per l’assistenza nel territorio. Per l’aventuale Azienda ospedaliera di Olbia, invece, è stato detto che bisognerà attendere la costruzione del nuovo presidio ("il primo finanziamento lo decidemmo noi nel 1992"). Il capogruppo Giacomo Spissu, il primo firmatario Silvio Lai e il responsabile di settore del partito Massimo Dadea hanno spiegato che la proposta punta a migliorare la qualità dell’assistenza ospedaliera e a mettere ordine nei servizi "in assenza del piano sanitario regionale e in presenza di quella caricatura del piano di razionalizzazione della rete ospedaliera presentata dalla giunta". Numerosi e duri gli attacchi al Centrodestra: soprattutto perché l’aumento della spesa ("ormai fuori controllo") si è verificato soprattutto in una fase ("come ha certificato la Corte dei conti") di peggioramento dell’assistenza. Un’altra critica riguarda "la mancata firma del protocollo Regione-Università per le specializzazioni, che "sono state sospese, con grave danno per la formazione dei nostri giovani, spesso costretti a lasciare l’isola". La proposta dei Ds, ha detto in particolare Dadea, punta a "diffendere dappertutto il livello di eccellenza", mentre "oggi gli operatori hanno difficoltà a rispondere alle esigenze dei cittadini" (da qui anche l’aumento dei "viaggi della speranza" sulla penisola). Secondo Lai, il testo dei Ds "dà una risposta alla questione del rapporto tra l’assistenza ospedaliera e l’università, per una "migliore integrazione". In sostanza, gli ospedali maggiori potranno essere gestiti meglio e la formazione, potendo contare su strutture adeguate, potrà essere migliorata. "Abbiamo voluto mettere le premesse - hanno detto i Ds - per un riordino complessivo di questo fondamentale settore pubblico, oggi in evidente crisi __________________________________________ Le Nuova Sardegna 23 gen. ’04 TUTTO DA RIVEDERE IL PROTOCOLLO UNIVERSITÀ/REGIONE Fa discutere la controversa bozza di protocollo d’intesa Università/Regione licenziato dalla commissione tecnica istituita dall’Assessore alla Sanità. Gli organi di governo dell’Ateneo esamineranno nei prossimi giorni il documento in questione mentre i sindacati degli universitari hanno già avuto un primo confronto con il Rettore Mistretta. Le posizioni al momento sono molto distanti e non solo su singole parti del protocollo ma praticamente c’è dissenso sull’intero impalcato. Gli emendamenti proposti riguardano soprattutto il trattamento giuridico ed economico del personale universitario del comparto, il personale precario (medici, infermieri e ausiliari con contratto a termine) la parità di trattamento e la pari dignità dei soggetti che concorreranno a formare l’azienda mista. In particolare si è fatto notare che le pregiudiziali che fino ad ora avevano impedito la stipula del protocollo quali il numero dei posti letto, il finanziamento delle lauree triennali nella bozza di protocollo non sono neppure citati. L’articolo 12 della bozza stravolge lo stato giuridico ed i diritti acquisiti del personale universitario, non tiene conto dell’art. 51 del Ccnl Università, non è formulato nel rispetto della 517/99 e contiene tutta una serie di clausole illegittime. Preoccupa, e non poco la notevole esposizione della Regione e della ASL 8 nei confronti dell’Ateneo, problema del quale non si fa cenno. Arturo Maullu Consigliere di amministrazione Universita’ di Cagliari __________________________________________ L’Unione Sarda 24 gen. ’04 AL BROTZU IL CENTRO DI MEDICINA DELLO SPORT Un punto di riferimento per tutti gli sportivi. Apre a Cagliari la prima struttura medica regionale dedicata esclusivamente agli atleti. Oggi alle 9,30, nella sala auditorium della banca Cis in viale Bonaria, si terrà la presentazione del Centro polifunzionale che sarà diretto da Pietro Braina, lo specialista cagliaritano che ha curato centinaia di sportivi in città. Come dice la nota di presentazione, il centro, uno dei primi in Italia, e ultimo nato nell’azienda ospedaliera Brotzu, nasce per rispondere alle esigenze cliniche e di prevenzione formulate dal vasto e crescente universo sportivo isolano, sia professionistico sia amatoriale. La struttura rappresenterà un riferimento regionale per la prevenzione, la diagnosi precoce e il trattamento delle patologie da sport e opererà in sinergia con l’istituto di medicina dello sport di Cagliari e con la Federazione medico sportiva italiana. Il sistema si avvarrà di una banca dati e un servizio di prenotazione centralizzato e potrà disporre di una rete capillare di collegamento tra gli specialisti delle varie discipline mediche . Nel tempo il centro punterà anche a maturare competenze specifiche anche nei confronti degli sportivi con patologie come il diabete, epilessia, e diversamente abili. __________________________________________ Corriere della Sera 20 gen. ’04 DAI VERTEBRATI AI CORALLI, QUANTI GENI IN COMPROPRIETÀ LA SCOPERTA Mainardi Danilo Esistono due parole che ogni studente di biologia deve conoscere: genotipo e fenotipo. Il primo è il complesso dell' informazione genetica che darà origine all' individuo; il secondo è tutto ciò che dell' individuo appare (questo è il significato letterale del termine), cioè le strutture organiche, i meccanismi fisiologici, perfino i comportamenti. Una volta, quando i geni erano un qualcosa di astratto, entità solamente intuibili, la definizione di fenotipo era perfetta; ora non più, perché ormai anche il genotipo, il Dna, appare. Così, col progredire della scienza, anche il genotipo è divenuto fenotipo. I concetti, comunque, mantengono una loro validità. Il genotipo continua a essere l' informazione genetica, anche se ormai direttamente studiabile, mentre il fenotipo risulta essere ciò che nel corso dello sviluppo si va costruendo per interazione tra geni e ambiente. Detto ciò, e considerando la comune origine di tutti i viventi, non deve meravigliare se porzioni identiche del genotipo possano rinvenirsi anche in specie straordinariamente distanti. Una recente ricerca compiuta nell' Università del Queensland ha così dimostrato che certi geni considerati caratteristici dei vertebrati sono presenti nel genotipo dei coralli (foto). Questi geni - altro dato interessante - non si trovano invece in anellidi e insetti. Che significa tutto ciò? Difficile dirlo. Sappiamo che quei geni sono coinvolti, nei vertebrati, nello sviluppo neurale, mentre la loro funzione nei coralli è ancora ignota. Geni comuni e geni differenzianti: ora che il genotipo è divenuto fenotipo sono studiabili direttamente, ma i risultati sono ancora troppo frammentari. Occorreranno tanti anni e tante ricerche perché si possa inserirli davvero utilmente in un quadro complessivo della storia evolutiva della vita. D. M. __________________________________________ Repubblica 22 gen. ’04 VACCINI CONTRO I TUMORI,TRA DUE ANNI TEST SULL’UOMO Per quelli solidi dell’epitelio, positivi i test sugli animali. Nella ricerca, italiana, anche il CeSi di Chieti DI GIUSEPPE DEL BELLO Terapie oncologiche, patologie dell’invecchiamento, vaccini contro i tumori solidi e alterazioni molecolari precoci. È operativo da meno di un anno, ma già vanta numerose ricerche e programmi ambiziosi il CeSi (Centro di Scienze dell’Invecchiamento) di Chieti realizzato nell’ateneo abruzzese Gabriele D’Annunzio. Ricerche a largo raggio dunque, ma prevalentemente indirizzate alla comprensione dei fenomeni morbosi che caratterizzano la terza età. Spiega Franco Cuccurullo rettore dell’università di Chieti e presidente della Fondazione CeSi: «I nostri ricercatori —160, ma a pieno regime saranno 240 — stanno già lavorando su tre linee di ricerca: vascolare, neurodegenerativa e oncologica, quelle che, più delle altre, interessano gli anziani». Lo confermano le statistiche: l’80 per cento degli anziani muore per malattie cardiovascolari e il 17 per cento per cancro, mentre le patologie degenerative del cervello sono una costante dell’età avanzata che spesso si accompagna a disturbi estremamente invalidanti. L’incidenza delle più comuni forme di tumore epiteliale (della prostata, del colonretto, della mammella e del polmone) sale drammaticamente a partire dalla quinta decade di vita, sottolineano i ricercatori, con un incremento progressivo negli ultrasessantacinquenni: in Italia, come nel resto del mondo, questa fascia d’età è in progressivo aumento e, proporzionalmente, cresce anche l’incidenza di tumori. Una delle Unità operative del CeSi, partecipa con gruppi di lavoro delle università di Torino, Bologna e Camerino, alla realizzazione di un vaccino contro i tumori solidi epiteliali con promettenti risultati che, per ora, riguardano gli animali da esperimento. Ad anticiparne i contenuti è Piero Musiani, ordinario di Anatomia patologica e direttore del CeSi. «Il tumore» premette, «sviluppa proprie proteine dall’organismo da cui nasce che, appunto per questo, è impreparato a combatterlo: si tratta della "funzionetolleranza" secondo cui le nostre cellule vengono riconosciute, mentre tutto ciò che arriva dall’esterno diventa immediato bersaglio delle nostre difese. In passato non era mai stata utilizzata una vaccinazione contro il cancro perché si riteneva impossibile stimolare l’organismo a contrastare cellule proprie, ma studi recenti hanno rivelato la presenza di proteine di piccolo peso molecolare che regolano il sistema immunitario e quindi la capacità reattiva». Il vaccino in sperimentazione si avvale di una strategia basata su Dna, cellule tumorali e molecole immunostimolatorie che ha permesso ai ricercatori di bloccare la crescita neoplastica in topi geneticamente indotti a sviluppare tumori. «La vaccinazione è stata fatta contro il recettore di superficie HER2 o cErbB2», continua Musiani, «una molecola responsabile di alterazioni nella comunicazione tra la membrana cellulare e il nucleo coinvolte nella trasformazione neoplastica e che è significativamente presente nei tumori di mammella, testa e collo, stomaco e prostata». Quando si passerà all’uomo? «Ci vorranno ancora due anni», assicura il docente, «prima di tentare la vaccinazione nei soggetti a rischio. I ricercatori di Torino si occuperanno dei tumori della testa, del collo e del pancreas, Chieti dovrebbe essere punto di riferimento per il cancro della prostata». Tra le ricerche della Fondazione, quella del settore cardiovascolare è rivolta allo studio dei metaboliti dell’acido arachidonico, molti dei quali influiscono sulla sintesi di prostaglandine che, a loro volta, intervengono in tutti i sistemi dell’infiammazione e, quindi, anche su trombosi e arteriosclerosi. Conclude Musiani: «Si sa che piccole quantità di aspirina assunte quotidianamente hanno la capacità di inibire la trombosi vascolare e, conseguentemente, infarto e stroke; ma recentemente si è visto in alcuni trial che chi prende l’aspirinetta non si ammala di cancro del colonretto: di qui scaturisce l’idea che l’acido arachidonico possa anche contrastare lo sviluppo di alcuni tumori. Ecco perché, assodata la connessione tra patologie oncologiche e malattie cardiovascolari, si punta allo studio di entrambe». __________________________________________ Repubblica 22 gen. ’04 LASER INDIVIDUA CELLULE CANCEROSE SENZA BIOPSIA LONDRA Un nuovo dispositivo laser può identificare le cellule tumorali, permettendo diagnosi molto precoci e senza biopsia. Lo si sta sperimentando all’Università del Sussex e si tratta di raggi ultravioletti che rivelano una luminescenza particolare dei tessuti, uno spettro di colori cioè che separa le cellule sane da quelle cancerogene. L’istituto di Fisica inglese è infatti riuscito ad aumentare di 20 volte la capacità di un detector fotocatodo, superando di gran lunga gli attuali sistemi del mondo. Già due industrie britanniche stanno realizzando il nuovo dispositivo laser. La luminescenza, con una sorgente laser, come metodo diagnostico negli ultimi tre anni è stata sperimentata nei tumori alla pelle, polmoni e alla bocca. Con il laser dell’Università inglese si potranno diagnosticare anche i tumori alla mammella. La scoperta è frutto di un finanziamento pubblico/privato di 195 mila sterline. (s. j. s.) __________________________________________ Repubblica 22 gen. ’04 BOXER O SLIP? UN DILEMMA ANCHE MEDICO In principio era la foglia di fico. Antenata dell’attuale "velo vestimentario messo a protezione delle zone più sacre", delle mutande, insomma… «Non si vedono ma hanno sempre goduto dell’attenzione della moda. Rappresentano uno squarcio sulla cultura di ogni epoca seguendo insieme all’abito l’evoluzione del costume», nota Mara Parmigiani, docente di Storia del Costume all’università di Palermo, nel suo ultimo "Slip o Boxer?" (Marco Alfonsi ediz, € 10). Un viaggio nel tempo e nell’Uomo Segreto, risvolti curiosi e inediti insieme a una domanda anche di salute: come scegliere l’intimo maschile salvaguardando gli organi genitali? I boxer, soprattutto nello sport, nota il chirurgo (Giuseppe Pennini, Chirurgia generale, Univ. La Sapienza) possono provocare una serie di alterazioni: innanzitutto i traumi scrotali, corsia preferenziale verso ematomi, idroceli e varicoceli con danni importanti per la capacità di procreazione. «Ognuno può scegliere la mutanda che più gli pare», ribatte l’andrologo Ermanno Greco richiamando piuttosto l’attenzione sul tessuto con cui è fatto l’indumento. Come per le vaginiti da mutandine e collant nelle donne anche nell’uomo le fibre sintetiche (poliestere) non vanno d’accordo con le parti intime impedendo una corretta traspirazione cutanea: la temperatura dello scroto aumenta e le conseguenze sono a volte importanti. Ma il cambiamento di stile e cultura nel vestire può essere un altro volto di un cambiamento culturale più generale nella gestione del maschio dei propri ruoli, osserva il neuropsichiatria Pier Luigi Marconi e propone il predominio della funzione autoprotettiva dell’intimo come strumento di calore e di supporto che contenga e renda non "a rischio" i propri attributi... «Gli "attributi personali" non trovano più il sostegno di prima: s’infiltrano e devono negoziare direttamente con l’abito la loro nuova collocazione; non trovano più un momento di rilassamento, devono contare solo sul proprio muscolo sospensore…». __________________________________________ Le Scienze 23 gen. ’04 CONTRO L'ACCANIMENTO TERAPEUTICO Le cure per i tumori sono sempre più aggressive Le cure ai pazienti malati terminali di cancro stanno diventando sempre più aggressive, forse troppo. Lo sostengono gli autori di uno studio pubblicato sulla rivista "Journal of Clinical Oncology" che prende in considerazione il periodo fra il 1993 e il 1996, rivelando un piccolo ma costante incremento nella percentuale di pazienti ricoverati e sottoposti a terapie intensive appena prima di morire. Secondo Craig C. Earle del Dana-Farber Cancer Center di Boston, primo autore dello studio, la tendenza potrebbe essere collegata alla disponibilità di nuovi tipi di chemioterapia: "man mano che vengono sviluppati nuovi farmaci, - spiega - noi oncologi li usiamo. Non è un male, finché non si sfiora l'accanimento terapeutico". Secondo i ricercatori, tuttavia, sarebbe una buona idea espandere l'accesso ai servizi di ricovero progettati per venire incontro alle necessità dei pazienti terminali e delle loro famiglie nelle ultime settimane o mesi di vita. "Sembra che i pazienti che vivono nelle aree attrezzate con questi servizi - spiega Earle - si sentano meno soggetti a quelle che alcuni definiscono cure eccessivamente aggressive". Earle e colleghi hanno passato in rassegna i casi di oltre 28.000 persone dai 65 anni in su, deceduti entro un anno da quando era stato diagnosticato loro un tumore dei polmoni, del seno, del colon o di altro tipo. Molti indicatori di una cura troppo aggressiva sono aumentati nel corso del periodo dello studio. __________________________________________ Repubblica 22 gen. ’04 C’È ANCHE UN VIRUS TRA LE CAUSE DELL’ATEROSCLEROSI Scoperta italiana che cambia molte cose DI DANIELE DIENA L’aterosclerosi può anche essere d’origine infettiva. Non solo: dovrà essere classificata tra le patologie autoimmuni, quelle particolarissime malattie in cui il sistema immunitario aggredisce il nostro stesso organismo. Il patogeno sott’accusa è il Cytomegalovirus, virus piuttosto diffuso e abbastanza innocuo che però diventa aggressivo negli immunodepressi. Ora si è scoperto che le difese immunitarie attivate in risposta a quest’infezione sono dirette anche contro l’endotelio, dando così inizio al processo aterosclerotico. Quella che è una vera e propria rivoluzione delle attuali conoscenze riguardanti una malattia che rappresenta la prima causa di disabilità e di morte nel mondo occidentale è frutto d’una scoperta "Made in Italy", recentemente pubblicata su Lancet. «Da tempo ci si chiedeva come mai ci sono persone, soprattutto giovani, che s’ammalano di aterosclerosi senza che ci sia nessuno dei fattori di rischio abituali della malattia, cioè fumo, ipertensione, diabete, dislipidemia ed obesità», spiega il professor Antonio Puccetti, docente di Istologia all’Università di Genova e responsabile del laboratorio di Immunologia Clinica Sperimentale all’Istituto Gaslini, artefice del lavoro insieme ai professori Roberto Corocher e Claudio Lunardi, dell’ateneo di Verona, «una realtà tutta da indagare che riguarda il 30 per cento dei casi di aterosclerosi». E sempre da tempo gli studiosi lavoravano alla ricerca di una possibile spiegazione infiammatoria del fenomeno. Cruciali in tal senso gli studi del cardiologo Attilio Maseri, che per primo ha dimostrato il ruolo dell’infiammazione nell’infarto. Ed ecco ora questo studio che rivela la responsabilità di un virus sul processo infiammatorio. Il team di ricercatori ha confrontato 300 ammalati di aterosclerosi e 300 sani per cercare di capire cos’altro li differenziasse oltre ai fattori di rischio noti. Molti mesi di duro lavoro, poi la risposta scientifica in laboratorio: nei tessuti dell’85% dei soggetti malati era in corso un vero e proprio processo autoimmune. «Gli anticorpi diretti contro il virus sono attivati da due proteine virali», spiega Puccetti, «molto simili a quelle che ricoprono l’endotelio dei vasi sanguigni, così la reazione immunitaria finisce con l’aggredire anche le cellule che ricoprono le arterie». La scoperta, oltre a far nuova luce sul meccanismo dell’aterosclerosi, che cambia ora completamente volto ripresentandosi come malattia autoimmune, apre nuove prospettive per la prevenzione e la cura. «Con il test realizzato per svolgere questa ricerca s’individueranno le persone a rischio tra chi ha familiarità con la malattia o è esposto ad altri fattori di rischio», dice Puccetti. Chi risulterà positivo al test verrà avviato alle opportune terapie precoci, naturalmente accompagnate da un drastico cambiamento dello stile di vita. __________________________________________ Le Stampa 21 gen. ’04 MOBBING, NUOVA MALATTIA SOCIALE» UN CONVEGNO: IN ITALIA È SEMPRE PIÙ DIFFUSO L’ultima denuncia, pubblica, risale all’altro ieri. L’hanno fatta i dipendenti dell’Alitalia che protestavano contro il piano di licenziamenti, davanti al ministero dell’Economia. Un coro: «Siamo arrivati alla proporzione di un dirigente ogni ottanta dipendenti, fra un po’ saremo come l’esercito di Franceschiello, tutti generali e nessun soldato. E ti fanno pure il mobbing, per un nonnulla. C’è un intero piano di tecnici che sono tenuti in una stanza con una scrivania e un telefono, e basta. Li vogliono costringere alle dimissioni». Il mobbing è ormai fenomeno di costume, oltre che giudiziario, materia per sociologi e non solo per avvocati. Un fenomeno in costante evoluzione che inizia a emergere dal sommerso: 1500 casi dichiarati in Italia negli ultimi dieci anni (dato Ispesl) contro una media europea comunque superiore. Nel 2001 ben dodici milioni di lavoratori della Ue (8%) sono rimasti vittime di maltrattamenti sul lavoro. A «fotografare» il mobbing è la psichiatra Emilia Costa dell’università romana La Sapienza, in un convegno organizzato insieme col Policlinico, a Roma. Il mobbing è più diffuso in banche e università, dove le strutture gerarchiche sono rigide e non consentono flessibilità. Ma colpisce anche scuola, sanità, pubblica amministrazione, industrie: l’eccessiva burocrazia, le continue riforme e la competitività sfavoriscono la tutela del lavoratore. In dieci anni nelle aziende fino a 14 addetti i «mobbizzati» sono aumentati del 2%, nelle imprese con più di 500 dipendenti l’aumento raggiunge punte del 39 per cento. Le persecuzioni sul posto di lavoro possono causare ansia e depressione, fino ad arrivare alle somatizzazioni. «Per le vittime del mobbing - ricorda Costa - la vita si trasforma in un inferno, non solo per le conseguenze sulla salute ma anche per quelle sociali e familiari, spesso devastanti. I continui disturbi costringono ad assenze che possono portare al licenziamento, alle dimissioni, al pre-pensionamento, aumentando disagio, insicurezza e perdita dell’autostima. A volte la famiglia eccessivamente provata dai problemi del mobbizzato comincia a sua volta a isolare e colpevolizzare il congiunto». E le conseguenze economiche? Migliaia di ore di lavoro perse, risarcimenti come quello ottenuto da un dirigente: 10 miliardi di lire. Ma anche un impiegato oggi può incassare un milione di euro. __________________________________________ Le Nuova Sardegna 23 gen. ’04 IN GRAVIDANZA TROPPE DONNE ABUSANO DI MEDICINE Uno studio condotto da due farmacologi sardi mette in guardia dagli effetti che i farmaci possono avere sul nascituro GIAN UGO BERTI ROMA. Ancora troppe donne assumono abitualmente farmaci in gravidanza (dal 35% al 100%) ed 4 su dieci lo fanno nel primo trimestre, il più delicato per gli effetti malformativi sul feto. In ogni caso sono sempre le donne le maggiori "divoratrici" di medicine (25% in più rispetto agli uomini). La scoperta dei neurormoni (prodotti dal cervello e dall’ovaio) dimostra che concreta può essere la differenza dei farmaci usati nei due sessi. Fino al 1993 le donne non erano ammesse agli studi pre-clinici per le alterazioni fisiologiche indotte dal ciclo mestruale e le motivazioni etiche verso il prodotto del concepimento. Preoccupazione e speranze caratterizzano in tal senso l’attuale pensiero scientifico dei farmacologi italiani. Se ne sono fatti interpreti i docenti delle università di Sassari e Cagliari Flavia Franconi e Giovanni Biggio, che hanno coordinato, all’Istituto Superiore di Sanità a Roma, il primo incontro sull’argomento. "E’ un problema finora sottovalutato perfino dalla farmacovigilanza, ha detto Flavia Franconi, anche se l’Organizzazione Mondiale della Sanità incoraggia i Servizi Sanitari Regionali alla sperimentazione clinica sul sesso femminile. In tal senso si prevede la stesura a breve di un apposito documento da inviare al Ministero della Salute. "Una donna assume in media tre tipi di farmaci durante la gestazione, per arrivare a 15 trattamenti diversi, in seguito alla facilità di poterseli procurare anche via internet. D’altra parte, secondo Flavia Franconi, non si possono non curare malattie quali l’epilessia, per cui è necessario "pesare" i vantaggi per la madre e gli effetti negativi embrionali, fetali e nell’adulto". Non è a rischio solo il primo trimestre. Ad esempio i glucorticoidi - si è detto - nelle donne a rischio di parto prematuro inducono una riduzione della crescita alla nascita, mentre sui bambini di tre anni sono rilevabili disturbi comportamentali. La problematica riguarda però al contempo i rimedi botanici, gli integratori alimentari ed i prodotti di erboristeria, perchè in gestazione ed allattamento si possono concretizzare effetti tossici anche con l’apparentemente innocua valeriana. Un’ iniziale motivazione circa la differente assimilazione dei farmaci fra i sessi può venire da una scoperta fatta all’università di Cagliari, in collaborazione con i Centri di San Diego in California e Monaco di Baviera. Secondo Giovanni Biggio, coordinatore dello studio, alcuni ormoni femminili come il progesterone e l’allopregnolone, prodotti dall’ovaio, potrebbero avere effetti anti-ansia, sedativi ed ipnotici controllando la sfera emozionale, affettiva e cognitiva. L’elevata incidenza di tali condizioni cliniche nelle donne (rapporto doppio rispetto al sesso maschile) in concomitanza del ciclo mestruale, la menopausa, il post - partum e la loro scomparsa in gravidanza, hanno fatto sorgere l’idea di una loro azione in pur diversa maniera su specifiche aree cerebrali deputate al controllo di emozioni e sentimenti. I dati - ha concluso Biggio- suggeriscono delle differenze in tali meccanismi fra i sessi. Diversità nel controllo ormonale del sistema nervoso centrale, capaci di in qualche modo di spiegare la maggior incidenza di alcune malattie del sistema nervoso nelle donne, sia la differente sensibilità ai farmaci ed agli stress psico-fisici documentati in entrambi i sessi. __________________________________________ L’Unione Sarda 21 gen. ’04 SARDI IN DIMINUZIONE E SEMPRE PIÙ VECCHI L’intervento di Ornello Vitali* Come è noto, l’opinione pubblica si interessa assai più di ciò che accade sul versante dell’economia che non all’evolversi della situazione demografica. Questa riveste tuttavia un’importanza che non può essere trascurata, poiché, quasi insensibilmente, produce effetti di lungo o medio periodo rilevanti, con evidenti implicazioni di natura sociale. Si pensi che, recentemente, l’Onu ha diffuso dati di una proiezione demografica relativi all’Europa che si spingono sino al 2300. Si tratta di un "esercizio" a carattere puramente indicativo ottenuto proiettando le tendenze attuali della popolazione mondiale e dei vari continenti. Se ci limitiamo ad osservare le situazioni al 2050 e al 2100 (pur sempre piuttosto lontane) rileviamo che l’ammontare della popolazione europea diminuirà di 796 milioni di oggi ai 632 del 2050 e ai 538 del 2100. Negli stessi anni l’Africa passerebbe dal triplo al quadruplo della popolazione europea. Il calo della fecondità, comune a tutti i paesi europei, è la causa prima della contrazione di popolazione dianzi segnalata; va sottolineato che l’Italia è caratterizzata da uno dei più bassi (se non il più basso) quozienti di fecondità fra tutti i paesi del mondo. Ciò ha comportato che, al censimento del 2001, gli italiani sono risultati circa 57 milioni, contro i 56,8 del 1991: un incremento minimo (poco più di 200 mila unità), dovuto in gran parte all’operare delle immigrazioni dall’estero; esso risulta il più esiguo se confrontato con i tassi di accrescimento che avevano caratterizzato il nostro Paese nei precedenti decenni intercensuari. E qual è la situazione in Sardegna? Qui si osserva addirittura un decremento demografico (- 2874 unità); infatti la sola provincia di Sassari manifesta un lieve aumento, al contrario delle altre tre, che presentano segni negativi. Va peraltro osservato che, se il dato complessivo della popolazione regionale è praticamente costante, lo stesso non accade nella sua struttura per età (le classi di età da 0 a 14 anni diminuiscono di poco più di 76 mila unità, mentre quelle da 65 anni e più aumentano di circa 56 mila individui). Queste tendenze comportano l’accentuarsi dell’invecchiamento della popolazione sarda (per la prima volta la quota percentuale di anziani da 65 anni in poi supera quella dei giovani da 0 a 14 anni). Stanti così le cose, e supponendo che il potenziale riproduttivo si assesti sui livelli attuali, ipotesi a dir poco ottimistica, perché il numero medio di figli per donna seguiterà verosimilmente a diminuire, può calcolarsi che al 2020 la popolazione isolana si aggirerà intorno al milione e mezzo di unità, mentre, nel 2040, essa si ridurrebbe a poco più di un milione e duecentomila individui. Forse la classe dirigente dovrebbe rivolgere maggiore attenzione a quanto segnalato, anche perché questi andamenti futuri non riguardano soltanto il "numero" di unità demografiche, ma anche l’evoluzione del loro stato sociale e del corrispondente livello di benessere, poiché tali andamenti tra l’altro acuiranno i problemi della spesa sanitaria e di quella pensionistica. *Ordinario di Statistica economica Università "La Sapienza" di Roma