2004 ODISSEA UNIVERSITÀ - ATENEI: COME ARRESTARE IL DEGRADO - UNIVERSITÀ, CRESCE IL «NO» ALLA RIFORMA - AL VIA IL PRIMO ATENEO ONLINE - PIÙ POSTI AGLI SPECIALIZZANDI - QUALE LAVORO PER I NEOLAUREATI - RICERCA, LA SLOVACCHIA BATTE L'ITALIA - RICERCA TRE PASSI NEL BUIO - UN DOTTORE SU TRE NON SA COME SI USA IL PC - FUORICORSO COSTANO ALLO STATO 20 MILA L’ANNO, ALLE FAMIGLIE 8 MILA - IL MIT ITALIANO PARLA GENOVESE - IL DECLINO ITALIANO - IL NUOVO CORSO DELLA CHIMICA - =========================================================== TRE VITE IN PRIMA LINEA - MEDAGLIA D’ORO AGLI EROI SILENZIOSI - BROTZU, NUOVA EQUIPE RIPARTONO I TRAPIANTI - BROTZU: TRAPIANTO EPATICO - TRAPIANTI DI FEGATO: CENTRO REGIONALE - FEGATO: DUE POLI CON UN’UNICA ÉQUIPE - I SINDACATI:"SUBITO LE AZIENDE MISTE" - MISTRETTA: PIÙ FORZA ALL’UNIVERSITÀ - LA SANITÀ SALVATA DAGLI OSPEDALI - ECCO GLI ULTRASUONI PER CURARE LA PIORREA - TUMORE AL SENO,GOVERNO IN CAMPO - LA GENETICA HA SPICCATO IL VOLO - I GRANDI PROGRESSI CONTRO LA LEUCEMIA - NUOVI POSSIBILI FARMACI ANTICANCRO - =========================================================== ___________________________________________________________ L’Espresso 04 mar. ’04 2004 ODISSEA UNIVERSITÀ ATENEI DI ECCELLENZA. Soldi solo a chi fa ricerca e punta sulla qualità. Ecco la ricetta dei rettori di Bocconi e Normale L’anomalia è già tutta nei numeri che fotografano l'università Italiana: circa 37 mila prafessori di ruolo, di cui la metà andrà in pensione entro il 2010; 20.900 ricercatori, di cui il47 per cento ha più di 45 anni. Una gerontocrazia che governa su 78 atenei spalmati su tutto il territorio, vale a dire uno ogni 3.800 chilometri (compresi monti, laghi e valloni) a contendersi 300 mila matricole l'anno, attirate con corsi di laurea studiati a tavolino dal marketing piuttosto che generati dall'esperienza scientifica (lauree brevi o specialistiche dai dubbi sbocchi professionali, ma dal sicuro appeal sulla popolazione giovanile) e abbassando sempre più i requisiti curriculari necessari a conseguirle. Così l'università italiana tinge di aprirsi al nuovo, spostando vecchi ricercatori in carico, per esempio al dipartimento di Fisica a erudire gli studenti sui temi della comunicazione della scienza; professori ultracinquantenni di arte bizantina a insegnare conservazione dei beni culturali. E si avvita in una spirale avvilente di piccole invenzioni lasciando ad altri - all'estero - la ricerca umanistica e scientifica, e a nessuno l'alta formazione. Su questo sistema si abbatte il disegno di legge Moratti con le sue pretese liberiste e il sua carico di ambiguità. Servirà a modernizzarlo? O finirà con l’affossarlo definitivamente? Ne abbiamo parlato con due grandi del management universitario italiano, al governo di istituzioni di eccellenza, una pubblica e l'altra privata: Carlo Secchi, rettore della Libera Università Bocconi di Milano e Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa. L'università italiana sembra impantanata. È possibile immaginare uno sbocco che la proietti nella modernità? Secchi: «Dilemma: forziamo le cose per innescare un processo che sblocchi l’empasse, o le lasciamo andare finché tutto non salta per aria, perché il sistema non è riformabile, tesi apparentemente cara al ministro Tremonti?». Settis: «Rifiuta l'idea che l'università non sia riformabile: sarebbe una sentenza di morte per il paese». Lasciamo solo il ministro Tremonti a recitare il De profundis e proviamo a dire cosa si dovrebbe fare e se il decreto la Ma•atti lo fa. Secchi: «In Italia ci sono un'ottantina di università: non possono essere tutte uguali nel ruolo che svolgono. Non è un problema solo nastro. In Germania, ad esempio, il governo sta mettendo in piedi un certo numero di centri di eccellenza, destinati a svolgere i compiti dell'alta formazione e della ricerca, con l'intento di lasciare agli atenei che già ci sono la didattica ». È b spirito del sistema americano con le University e i City College. È proprio inevitabile di fronte alla marea montante dell'università di massa? Secchi: «Già il generalissimo Francisco Franca, negli ultimi anni della sua dittatura, si pose il problema della modernizzazione della Spagna e diede l'avvio a una serie di Centri, come l'Università dell'Opus Dei, destinati all'eccellenza. Nel tempo, la corsa di questi nuovi superatenei scosse tutto il sistema universitario spagnolo che è cambiato molto profondamente. Lo stessa è accaduto in Francia, con le Grandes Ecoles, in Inghilterra o nei paesinordici. Loschema è quello di avere grandi università di eccellenza e una buona rete di piccoli atenei dove si fa utile formazione». Settis: «La divisione fra università di ricerca e di formazione è estranea alla tradizione italiana. Certo è importante comprendere che il problema di modernizzare l'università non è solo nostro. Ci sono però anomalie sola italiane, come il ruolo di ricercatore a vita. O come il fatto che ci siano stati blocchi delle carriere molto lunghi che hanno invecchiato il carpo docente». Voi avete i contratti a termine per i ricercatori: ritenete che questo sia un bene per l'ateneo, per gli studenti e per i ricercatori stessi? Secchi: «Noi abbiamo introdotto un meccanismo di arruolamento dei ricercatori a termine che tiene canto delle performance del candidato a livello internazionale». Sono i ricercatori a tempo della Moratti. Precari per dieci anni e poi sbattuti chissà dove. Secchi: «Innanzitutto va detto che se uno è bravo può fare il concorso e andare in ruolo anche dopo un anno. Ma voglio sottolineare che la nostra esperienza ha mostrato chiaramente come un meccanismo di questo tipo permetta a un giovane di cercare la carriera adatta a lui senza mettergli l'ombrello di un posto fisso subito che finisce con l'essere una briglia alle sue potenzialità e ai suoi desideri». Settis: «Anche noi da quasi quattro anni facciamo solo concorsi per ricercatori a tempo determinato e abbiamo creato un continuo ricambio molto positivo. Aggiungo poi che in Normale, da sempre, sono bandite le carriere interne: i posti di ruolo sono coperti per chiamata di persone di fuori. E questo garantisce un buon livello e esclude le conventicole». Secchi: «I migliori sistemi universitari non privilegiano carriere interne a un ateneo, anzi. Si vuole che un professionista si metta alla prova in sedi diverse e nulla impedisce che alla fine torni al punto di partenza ». Settis: «Questo permette una circolazione di idee, personalità, sistemi di ricerca, tematiche, modi di pensare che è l'unica garanzia di crescita ». Altro punto scottante del progetto Moratti: riportare i concorsi su scala nazionale. Ma centralizzare la scelta dei professori non va in senso opposto all'autonomia degli atenei? Settis; «In Italia il titolo di studio ha valore legale e questo obbliga ad avere università con standard minimi comuni. Bisogna però puntare su un controllo centrale di qualità. Benissimo i concorsi nazionali, allora, ma la nota dolente non è tanto la dicotomia nazionale-locale, quanto il criterio di formazione delle commissioni e la garanzia che il giudizio si faccia sulla qualità piuttosto che sulle conventicole accademiche. Per questo mi piace che lo schema Moratti introduca la possibilità di avere commissari non italiani nelle commissioni. Così come noi siamo chiamati a scegliere professori a Francoforte o a Oxford, non vedo perché non debba essere possibile per noi chiamare colleghi da altre sedi importanti, cosa che oggi la legge impedisce». Secchi: «Chi governa l'istruzione superiore non ha compreso che le varie istituzioni sono in concorrenza tra loro per conquistare i migliori studenti. Ma per avere i migliori studenti bisogna avere i migliori professori. Se questo fosse compreso, non avremmo certe cattive abitudini perché un'università che assume il figlio del rettore piuttosto che il vicesindaco, o altro ancora, perde di reputazione». Settis: «C'è uno scollamento tra il modo di ragionare dei corpi accademici e quello degli studenti, che esprimono il bisogno di qualità». Forse in questo il vostro osservatorio è un po' limitato. Bocconiani e normalisti non sono studenti standard. Siamo sicuri che l'università parcheggio non è un'esigenza dei ragazzi o delle famiglie? Secchi: «Lo è dei professori, certamente: i veri parcheggiati. Ed è vero anche, purtroppo, che in Italia molto spesso gli studenti scelgono la sede su base logistica più che ricercando l'eccellenza>. Questo ci riporta alla necessità di un sistema a due velocità: da un lato centri di eccellenza, pochi, a svolgere il compito della ricerca, spartendosi i relativi, pochi, fondi e della produzione di cultura, e dall'altro i college sparsi sul territorio a cui è demandata la didattica. Settis: « In Italia esiste un corpo docente tutto arruolato con i medesimi criteri. Il professore all'università di Rocca annuncia ha vinto un concorso identico a quello di un professore della Bocconi e per questo non gli si può dire che deve smettere di fare ricerca per dedicarsi solo alla didattica. Piuttosto: nel panorama delle diverse università è possibile individuare dei settori che qui o là funzionano meglio o peggio. A me piacerebbe che ci fossero meccanismi, incentivi di qualunque natura, capaci di incoraggiare i settori che funzionano meglio nelle diverse università. Premiando le scelte virtuose si può costruire una rete di luoghi di eccellenza che avranno un effetto trainante sul sistema». Secchi: «Ineccepibile. Ma non c'è dubbio che il mercato conosce la differenza tra una sede e l'altra e che le lauree pesano diversamente a seconda che siano state conseguite in questo o quell'altra sede ». Non sono però solo le scelte virtuose a marcare un ateneo. Una fase di scarsità di risorse come quella attuale ha generato mostri: da un lato la moltiplicazione delle offerte per attirare studenti e dall'altra tagli a servizi e ricerca... Secchi: «Parliamo allora delle tasse che, nelle università statali, rappresentano oggi il 20 per cento circa dei fondi. É un tema all'ordine del giorno in tutto il mondo - il governo di Tony Blaìr ha rischiato grosso imponendo un aumento malvisto da molti - e non possiamo evitare di porlo in maniera serena perché oggi ì meno abbienti finanziano attraverso la fiscalità generale l'università di chi se la può permettere». Settis: «Tasse, intervento pubblico e donazioni dei privati: sono queste le fonti di finanziamento. Ma le donazioni non arriveranno mai senza un sistema di defiscalizzazione. Harvard è riuscita a raccogliere due miliardi e 600 milioni di dollari avendo 175 mila donatori che hanno contribuito in media per meno di 15 mila dollari. Perché erano defiscalizzati». Secchi: «Ma se io assumo come professore il vicesindaco, nessuno mi manderà diecimila curo! Voglio dire che non ci può essere vera modernizzazione se non c'è una spinta interna al nuovo. E questo ci porta dritto diritto al tema dei temi: il governo delle università. In massima parte gli organi di governo dipendono da un elettorato composito che ne condiziona i comportamenti e ne inceppa le scelte». Come a dire che il rettore deve la sua elezione, e rielezione, a una molteplicità di soggetti che gliela faranno pagare sotto forma di concessioni al momento di compiere le scelte concrete, dalla gestione dei corsi ai fondi per le biblioteche o i laboratori. Settis: «È vero: bisogna immaginare nuovi sistemi di governance, e ci stiamo lavorando. Ma già oggi, si possono innescare meccanismi virtuosi. Ad esempio: disincentivando le università a introdurre corsi per cui non hanno le attrezzature o l'esperienza scientifica ». Ma chi può impedire a un ateneo di istituire il centesimo inutile corso di laurea in una disciplina inventata e inutile al mercato dei lavoro? Secchi: «Chi ha il rubinetto dei soldi!». Settis: «Se ci fosse un criterio di valutazione stringente del successo di un ateneo che si misura anche sulla possibilità di trovare lavoro dei suoi laureati, gradualmente la Babele cui oggi assistiamo svanirebbe. Ora, invece, i parametri di valutazione di un'istituzione sono meramente quantitativi e su questi si distribuiscono i fondi». E il disegno di legge Moratti? Settis: «Lo schema Moratti andrebbe giudicato non come un frammento isolato, ma in un progetto più generale che lo stesso ministro sta preparando». Secchi: « Un disegno più organico è in ebollizione e deve essere esplicitato. Comunque, è già un passo in avanti». ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 5 Mar.’04 ATENEI: COME ARRESTARE IL DEGRADO ATENEI & RICETTE DI FIORELLA KOSTORIS PADOA SCHI0PPA Ieri è .stata indetta una giornata di lotta contro il «riordino dello stato giuridico e del reclutamento dei professori universitari» approvato in gennaio dal Consiglio dei ministri. Significative in tal senso sono sia le migliaia di adesioni all'appello dei docenti protestatori, registrate nel sito un quotidiano nazionale, sia all’opposto le importanti dissociazoni di varie sigle sindacali. Personalmente ritengo che il disegno di legge governativo proietti luci e ombre e che una delle tre principali critiche contenute nell'appello dei contestatori sia parzialmente fondata, ma rilevo che né il primo, né tanto meno il secondo mostrano abbastanza carica riformatrice nel perseguire quella autonomia delle istituzioni universitarie che entrambi dichiarano di volere prioritariamente. Fra gli aspetti eccellenti del progetto presentato dal ministro Moratti, annovererei quello sulla «partecipazione di docenti designati da atenei dell'Unione europea» nelle Commissioni giudicatrici dei concorsi a cattedra. Laddove in altri Stati Membri (come in Francia) questa prassi si è già instaurata, essa ha nettamente migliorato il desiderabile processo di selezione esclusivamente meritocratica, riducendo quei do ut des che talora portano i Commissari a colludere scambiandosi favori anziché a scegliere i candidati migliori. Fra le innovazioni in teoria apprezzabili, ma di fatto inadeguatamente realizzate, c'è la variabilità degli stipendi dei professori resa possibile dalla costituzione di «una parte fissa e una eventuale parte variabile» del trattamento economico. L'eliminazione di ogni forzata uniformità di fronte all'evidente difformità dei docenti e degli atenei è altamente encomiabile, ma essa e coerente con l'efficienza e insieme con l'equità solo se è improntata al riconoscimento e all'incentivazione dei diversi meriti individuali e di gruppo, da accertare e valutare nei prodotti accademici con criteri internazionali. Non sembra allora consono attribuire, come stabilito dal progetto Moratti, «la parte di retribuzione variabile in relazione agli impegni ulteriori di attività di ricerca. didattica e gestionale», quasi andasse premiato chi dedica più tempo alla ricerca (indipendentemente da quel che trova!), oppure passa più ore con gli studenti o con il personale non docente (magari senza essere capace di insegnare o senza attitudini manageriali! ) né d'altra parte basta aggiungere che bisogna adeguare l'eventuale componente retributiva variabile «ai risultati conseguiti, secondo i criteri e le modalità definiti con decreto» del ministro competente, sentiti anche quelli dell'Economia e della Funzione pubblica, poiché è noto che in passato tali risultati sono stati in Italia raramente misurati a livello ministeriale con riferimento alla best practice vigente in questo campo nel resto del mondo. Fra gli elementi meno condivisibili c'è quello sulla presunta, generale compatibilità «del rapporto di lavoro dei professori, con lo svolgimento di attività professionali e di consulenza esterna, con l'esercizio di incarichi retribuiti», a meno che non sussistano condizioni di concorrenza o altro nocumento per l'Università e purché in essa venga espletato «il tempo pieno» consistente in «350 ore annue, di cui 120 di didattica frontale». Questa impostazione non pare accettabile se non viene contestualmente introdotta la fondamentale distinzione fra le Facoltà che negli Usa si chiamano school e quelle che invece costituiscono i department: nelle prime, dove si apprende, sia pure ad alto livello un mestiere, una impegnativa occupazione extrauniversitaria può essere utile complemento alla preparazione dei docenti e quindi beneficiare la formazione dei discenti; nelle seconde, al contrario, sarebbe inconcepibile pensare di produrre e insegnare a fare buona ricerca nel limite delle 350 ore comprensive «delle attività scientifiche e dell'impegno per le altre attività», contemporaneamente svolgendo altri lavori esterni di natura professionale. Ma la auspicabile minore frequenza di questi ultimi, unitamente alla consapevolezza dell'importanza strategica della ricerca, non dovrebbe certo penalizzare, a parità di merito, i docenti dei "dipartimenti" rispetto a quelli delle "scuole" perciò, l'eliminazione del tempo definito, con la contestuale trasformazione di tutti i professori universitari in docenti a tempo pieno, sembra inopportuna, come rilevato dall'appello dei contestatori sopra menzionato. D'altra parte, la fissazione uniforme di un identico monte ore lavorative annue non risulta coerente né con le generali tendenze in atto nel mercato (e non solo italiano), né con il principio di flessibilità cui si ispirano varie altre parti del progetto dell'Esecutivo e in particolare quelle, assai criticate dall'appello, riguardanti i modi nuovi per accedere all'accademia attraverso collaborazioni coordinate e continuative. Capisco che la trasformazione del contratto a tempo indeterminato dei ricercatori in uno a tempo definito preoccupi i contestatori. Ma non bisogna nutrire eccessivi timori per due ordini di motivi: perché la domanda di nuovi ricercatori tendenzialmente aumenta, in quanto si azzera la preoccupazione di doverli tenere anche in casi di palese loro inadeguatezza; e perché questo sistema dimostra di funzionare perfettamente nelle migliori università del mondo, dove la cosiddetta tenure track (strada verso il ruolo) incentiva i neoassunti a dare il meglio di sé. creando esternalità positive per tutti, in condizioni di indipendenza dalle baronie accademiche e di disponibilità di mezzi per la ricerca, nella prospettiva del diritto dopo 6-7 anni a essere giudicati, non ad avere un posto fisso. Da questo punto di vista, invece che impegnarsi in battaglie di retroguardia per il mantenimento di privilegi corporativi, dovrebbero essere suggeriti vari emendamenti al progetto Moratti, per rafforzare le opportunità dei giovani. Ma perché ciò possa compiutamente avvenire in un quadro completamente liberato da lacci e laccioli, è necessario consentire la massima autonomia organizzativa, didattica, scientifica e salariale alle varie sedi universitarie, lasciandole differenziarsi e competere per ottenere gli studenti, i ricercatori e i finanziamenti migliori, "pagando" in caso di errori. In questo contesto perderebbero di significato i concorsi nazionali e il valore legale del titolo di studio andrebbe abolito perché basterebbero il mercato ed eventuali esami di Stato. ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 5 Mar.’04 UNIVERSITÀ, CRESCE IL «NO» ALLA RIFORMA Docenti e ricercatori protestano contro il Ddl di riordino – Dal Ministro Moratti l’invito ad «avere fiducia» ROMA a Rettorati occupati e didattica semiparalizzata negli atenei di mezza Italia. Ieri la protesta di docenti e ricercatori contro lo schema di riforma delle carriere universitarie proposta dal ministro Letizia Moratti ha attraversato l'Italia da nord a sud, con cortei e assemblee, alle quali - in certi casi - hanno aderito anche i rettori. E mentre si annuncia per il prossimo 26 marzo una giornata di sciopero generale, che dovrebbe coinvolgere anche le scuole, l'opposizione si schiera cori i manifestanti, mentre Letizia Moratti invita professori e ricercatori «ad avere fiducia» nell'azione riformatrice del Governo. La protesta. Occupazione dei rettorati e assemblee per protestare contro «la precarizzazione del lavoro universitario, l’eliminazione della fascia dei ricercatori, il blocco delle assunzioni e la scarsità dei finanziarnenti destinati alle università». Questi i motivi che hanno animato le mobilitazioni alla 'Sapienza" di Roma, dove i professori latino svolto in piazza la verbalizzazione degli esami sostenuti dagli studenti, come a Torino, dove il Politecnico ha votato un documento contro il Ddl Moratti e il rettore dell'università degli studi ha preso parte all'assemblea dei docenti. A Trento il presidio nella sede del rettorato ha coinvolto anche il personale tecnico- amministrativo a Bari è stato annunciato il blocco della didattica per tutta la prossima settimana e nell'università della Calabria continua l’autogestione, già iniziata sette giorni fa. Le assemblee hanno affollato anche- le aule d°gli atenei di Napoli, Firenze, Benevento, Salerno, Macerata, Pisa e Genova. A Sassari e Cagliari i rettori delle due università hanno offerto solidarietà ai manifestanti. Il dibattito politico. «Agli studenti, ai ricercatori, ai docenti che oggi hanno protestato in tante università italiane dico di avere fiducia-ha dichiarato il ministro Moratti - perché stiamo lavorando per un sistema universitario più qualificato c più europeo. Il provvedimento sul reclutamento dei docenti e dei ricercatori è finalizzato a dare più opportunità alle università per assumere più giovani leve di ricercatori. Abbiamo assunto 1.390 nuovi ricercatori - ha continuato - e con il Progetto Giovani sono state aumentate le borse di dottorato e di studio da 3.000 a 8.000». Ma l'opposizione attacca: «Chiediamo al Governo e alla Moratti - ha detto il segretario dei Ds, Piero Fassino - un ripensamento complessivo di questa riforma e nello stesso tempo continuiamo a lavorare insieme con ì docenti e i ricercatori per elaborare proposte che ci permettano di costruire l'università migliore per tutto il Paese». Il confronto sulla riforma. Intanto prosegue il dialogo con il mondo accademico. l:l Miur ha avviato tavoli tecnici di confronto con la Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane) e il Cun (Consiglio universitario nazionale) e con i sindacati. E proprio dal Miur arrivano dati sul reclutamento dei docenti: secondo l’ultimo rapporto sull'università italiana, dal 1994 al 2002 il numero dei professori è aumentato del 25%, a fronte di un incremento del 65°Io di laureati e diplomati. Anche Alleanza Nazionale ha aperto un dialogo con Crui e Cuti per «migliorare il testo con il più ampio consenso possibile» ha detto Giuseppe Valditara, responsabile scuola e università del partito. Del sistema di finanziamento delle università si discuterà il 10 marzo a Palazzo Chigi, in un vertice tra il vicepresidente del Consiglio, Gianfranco Fini, il ragioniere generale dello Stato, Vittorio Grilli - Piero Tosi, presidente Crui. La prossima settimana, infine, comincerà alla Camera l'esame del Ddl ALESSIA TRIPODI ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 6 Mar.’04 AL VIA IL PRIMO ATENEO ONLINE ROMA - Arriva il primo ateneo italiano online. Il ministro dell'Istruzione, Letizia Moratti, ha firmato lo scorso primo marzo il decreto attuativo del Dm 17 aprile 2003 - che ha istituito le università telematiche in Italia - dando, così, il via all'attivazione dell'Università "Guglielmo Marconi", nata su iniziativa di un gruppo di istituzioni tra le quali figurano Wind Telecomunicazioni Spa, la Banca di Credito Cooperativo di Roma, la Cassa di Risparmio in Bologna (Gruppo San Paolo) e l'Anfe, l'Associazione nazionale famiglie emigrati. Il neonato ateneo sarà presentato alla prossima riunione informale dei ministri del l'Istruzione della Ue. La "Guglielmo Marconi", secondo quanto indicato dal decreto ministeriale, offrirà corsi di Scienze giuridiche ed economiche, Scienze della formazione e dell'educazione, Scienze geo-topo cartografiche, Scienze del servizio sociale, Lingua e cultura italiana. I percorsi didattici potranno essere seguiti in modalità e-learning, attraverso l'uso di tecnologie web, reti telematiche e satellitari. Lo studente avrà l'opportunità di accedere ai materiali didattici in qualsiasi momento, con il supporto di docenti e tutor, disponibili 24 ore su 24. La piattaforma e-learning della "Guglielmo Marconi", infatti, offre diversi strumenti per partecipare alla formazione interattiva: lezioni in video streaming, simulatori, virtual classroom, videoconferencing forum e biblioteca on line. La sede centrale dell'ateneo è a Roma, ma sono garantiti i collegamenti con numerosi poli didattici in Italia e al l'estero, che offrono agli studenti tutto il supporto di cui hanno bisogno. «L'università telematica - si legge in una nota dell'ateneo - annulla gli ostacoli e le barriere che determinano l'alta percentuale di abbandoni e facilita l'accesso all'istruzione superiore per i diversamente abili, gli studenti lavoratori e quelli residenti in zone disagiate. L'istituzione delle università telematiche - si sottolinea nella nota - consente all'Italia di accedere ai finanziamenti previsti dal Piano di istruzione e-learning varato dall'Unione europea il 28 marzo 2001, dai quali il nostro Paese è stato finora escluso». ALESSIA TRIPODI ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 28 Feb. ’04 PIÙ POSTI AGLI SPECIALIZZANDI Per medicina il ministero dell'Istruzione ha bandito 5.490 borse Gli scritti per l'ammissione in calendario dal 20 aprile ROMA a Mentre il Parlamento lavora al nuovo status giuridico dei medici specializzandi, è cominciata la corsa alle scuole di specializzazione per l'anno accademico 2003-2004, Ed è ufficiale l'incremento dei posti: ce ne sono 5.490, 102 in più rispetto al 2002/2003. Anestesia è la regina degli aumenti: conquista 70 nuovi posti, arrivando a 525 complessivi. A ripartire le borse di studio tra le varie specialità ha provveduto un decreto del ministro dell'Istruzione, Letizia Moratti, firmato il 12 febbraio. Il Dm recepisce le indicazioni sul fabbisogno annuo di specialisti da formare, fomite dal ministero della Salute e dall'Istruzione a novembre, sulla base delle esigenze formulate dalle Regioni, che hanno stimato la necessità di 6mila specialisti. Alle 5.490 borse da 11.603 euro ciascuna erogate dallo Stato, le Regioni ne aggiungono infatti 631 finanziate di tasca propria. In una circolare ai rettori del 12 febbraio, il capo dipartimento della direzione generale per l’ Università del ministero dell'Istruzione ha invitato gli atenei a pubblicare i bandi di concorso entro il20 febbraio (ma non tutte le strutture hanno rispettato la scadenza). E ha comunicato le date uniche delle prove scritte di ammissione alle scuole: il 20 aprile per l'arca medica, il 21 aprile per l'arca chirurgica e il 22 aprile per l'arca dei servizi. La Conferenza dei presidi di Medicina ha chiesto che ogni candidato possa fare non più solo tre concorsi, ma nove. Ogni università dovrebbe quindi fare in modo che le prove in ogni giornata siano suddivise in tre fasce orarie: il candidato potrebbe così partecipare a tre concorsi al giorno. Dal 10 marzo sarà consultabile sul 'sito del ministero (www.miur.it) la banca dati dei quesiti, come previsto dal Dm 99/2003, che ha introdotto le nuove modalità d'accesso. La circolare dispone inoltre che possano accedere ai test di ammissione solo quanti, al momento dell'iscrizione, abbiano completato il tirocinio previsto per gli esami di Stato dei laureati in medicina, riformati anch'essi con il Dm 445/2001, che contempla un mese a Medicina interna, un mese a Chirurgia e un mese da un medico di base. Immediate le proteste dei laureati in medicina per il groviglio di quiz e tirocini in cui dovranno districarsi. La domanda per l'esame di Stato, che si terrà il 15 luglio, va presentata entro il 5 marzo. Per il vecchio ordinamento non valgono più i sei mesi di tirocinio ma, a partire dal 1° aprile, fino al 30 giugno, i partecipanti dovrebbero fare i tre mesi di tirocinio del nuovo esame. Gli esami di accesso alla specializzazione finiscono a giugno. Alcuni bandi usciti in questi giorni (Genova, Siena, Udine, Pavia, Milano Bicocca) sono andati incontro alle esigenze dei laureati, permettendo l'accesso alle scuole anche a chi non ha espletato il nuo vo tirocinio, a patto che ciò avvenga entro la prima sessione utile dopo l'iscrizione alla scuola. «Ma è quasi superfluo sottolineare - commenta Federspecializzandi - come le istituzioni, che avrebbero dovuto semplificare le normative che regolano l'accesso alla formazione specialistica, siano riuscite invece, con le riforme, a renderle ancora più complesse e difficilmente attuabili». MANUELA PERRONE ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 28 Feb. ’04 QUALE LAVORO PER I NEOLAUREATI BOLOGNA a Secondo uno studio condotto dal Mannheim centre for european social research su 11 Paesi europei, nell'ambito del progetto Eurostat, emerge che in Italia il 73% dei laureati occupa, al primo impiego, posizioni manageriali oppure è impegnato nelle libere professioni (il record è dell'Olanda, con il 90%) il 22% svolge lavori impiegatizi o è attivo nel settore del commercio e dei servizi come addetto alla vendita, mentre il restante 5% si adegua a mansioni, anche non specializzate, nei sistemi produttivi industriali (ma in Spagna i "colletti blu" laureati al primo impiego sono ben il 18%). Un confronto internazionale sul tema dell'incontro fra la domanda e l'offerta di lavoro per i giovani che giungono alla laurea è offerto dal convegno «La transizione dall'università al lavoro in Europa e in Italia», che si concluderà oggi a Bologna, con la presentazione del 6° Rapporto Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati italiani. Particolare attenzione è stata rivolta alle questioni della continuità fra la formazione universitaria e della scuola media superiore e le esigenze del mondo lavorativo, tenendo presente la comparabilità dei dati curo- pei, nodo cruciale per elaborare progetti internazionali in ambito Ue. In Italia, l'ultima rilevazione Istat sullo status occupazionale nel 2001 di chi ha conseguito la laurea nel '98 mette in luce che il73,5% lavora, il 10,4°Io sta ancora cercando una professione e il 9,3% continua il percorso formativo. Sul fronte dei diplomati, il 55,5% si è inserito nel mercato del lavoro, il24,8% prosegue gli studi e il 16,8% è in cerca di occupazione. Per facilitare l’incontro fra i neolaureati e le richieste del mondo lavorativo continua l'attività di Almalaurea, la banca dati nata nel '94 su iniziativa dell'Osservatorio statistico dell'Università di Bologna, che raccoglie dati e curricula a disposizione delle imprese di 410mila giovani usciti da 30 atenei italiani, a cui si affianca un altro progetto in fase di sviluppo, Almadiploma, con le stesse funzioni a beneficio dei diplomati. «Tuttavia, in una prospettiva di crescente mobilità e internazionalizzazione del mercato del lavoro - sottolinea Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea - il progetto a cui dobbiamo puntare, già presentato all'Ue, è la creazione di Euroalmalaurea, ossia una banca dati europea che contenga le informazioni essenziali sui laureati nei Paesi comunitari, a disposizione delle aziende di tutto il mondo attraverso Internet». ROBERTO FABEN ___________________________________________________________ Italia Oggi 26 Feb. ’04 RICERCA, LA SLOVACCHIA BATTE L'ITALIA Eurostat: L’UE manca gli obiettivi di Lisbona. Investimenti europei ancora sotto la soglia del 2% Spesa dell'Est all' 1,55% del pil contro l'1,07% nazionale DI CHIARA CINTI Repubblica Ceca e Slovacchia battono l'Italia per gli investimenti nella ricerca. A rivelarlo è uno studio pubblicato ieri da Eurostat, secondo il quale l'Europa destina complessivamente meno del 2%.del suo prodotto interno lordo alla ricerca e sviluppo, ma l'Italia ne rappresenta il fanalino di coda, seguita solo da Portogallo e Grecia. Lo studio prende in esame la spesa complessiva di ciascun paese in termini di personale, ricercatori, brevetti, risorse umane e import-export di prodotti ad alto contenuto tecnologico. Nonostante l'Unione europea, in occasione del consiglio di Lisbona del 2000, si sia impegnata a investire entro il 2010 fino al 3% del pil in ricerca e sviluppo, a oggi la spesa complessiva sfiora solo il 2%. Per l'esattezza si tratta dell'1,99%, contro il 2,8% degli Usa e quasi il 3% del Giappone. L'Italia, invece, per cui sono disponibili solo i dati del 2000, è ben al di sotto della media: spende l’1,07% del pil, rapporto superiore solo a quello di Portogallo (0,84% ) e Grecia, paese che in assoluto spende meno in Europa con solo l0 0,67%. Ma la spesa tricolore è inferiore perfino a quella della Repubblica Ceca e della Slovacchia. I nuovi stati membri, che faranno il loro ingresso in Europa dal prossimo 1° maggio, la superano, destinando alla ricerca rispettivamente l’1,33% e f1,55% del prodotto interno lordo. Tra le nazioni che investono di più in ricerca ci sono comunque due paesi europei: la Finlandia, con il 3,49%, e la Svezia, con il 4,27%; mentre restano sopra la media dei Quindici la Germania (2,49%) e la Francia (2,23%). Le somme destinate dagli stati del Vecchio continente al settore sono cresciute di poco nel corso degli anni: nel 2000 si investiva solo l’1,95% del pil, l'anno seguente la cifra è salita all'1,98%, fino a toccare quota 1,99% nel 2002. E tra i dieci nuovi membri le percentuali sono inferiori all'1%, a parte alcune eccezioni, come la Repubblica Ceca e la Slovacchia, che, appunto, con investimenti in ricerca rispettivamente dell'1,33% e dell'1,55%, superano l'Italia. Sempre negativo il bilancio high tech per l'Europa. Nel 2001 la bilancia commerciale del Vecchio continente ha raggiunto un deficit di 23 miliardi di euro. L'Italia è, insieme alla Spagna, lo stato che ha registrato il peggior risultato: 9 miliardi di euro di deficit (23 miliardi per l'export, contro una spesa di 32,2 per l'importazione); seconda solo alla penisola iberica, che ha sfondato quota 10,3 miliardi di euro (7,9 miliardi di euro dall'export, contro una spesa di 10,6 miliardi per l’import). I risultati migliori, dunque, li hanno riportati Germania (101 miliardi per l'export contro i 99 per le importazioni), Francia (92 miliardi per l'export a fronte di una spesa di 87 miliardi), Gran Bretagna (80 miliardi per l'export a fronte di una spesa di 73 miliardi) e infine Olanda (57 miliardi per l'export a fronte di una spesa di 53 miliardi). Nello stesso anno, invece, gli Stati Uniti hanno registrato il primato per le esportazioni di prodotti ad alta innovazione sia per valore (234 miliardi di euro) sia per quota di mercato (29% del totale delle esportazioni globali), seguiti dal Vecchio continente (196 miliardi e il 20% dell'export totale) e dal Giappone (111 miliardi, pari al 25% delle esportazioni globali). Ma gli Stati Uniti sono anche i maggiori importatori di prodotti tecnologici, con una spesa complessiva di 243 miliardi di euro, seguiti dall'Europa (219 miliardi di euro, pari al 21% del totale delle importazione) e dal Giappone (solo 72 miliardi di euro, pari al 19%). Scienziati e ingegneri da Svezia, Irlanda, Francia ed Est Europa. Oltre il30% degli studenti universitari svedesi, francesi e irlandesi ha conseguito nel 2001 una laurea in materie scientifiche o in ingegneria. Ma è sempre più larga la schiera di ingegneri e scienziati che arrivano dall'Europa dell'Est: Slovacchia, Lituania e Repubblica Ceca hanno sfornato nel 2001 oltre 8 mila studiosi di scienze e 15.400 ingegneri, rispetto ai ben 630 mila studenti dell'Europa dell'Est che hanno raggiunto un titolo universitario. All'interno dei Quindici, nello stesso anno, almeno 2 milioni di studenti europei hanno conquistato una laurea. Secondo Eurostat, si calcola che ci siano 40 laureati ogni 1.000 abitanti, con un'età media compresa tra i 20 e i 29 anni. Contro i 55 laureati ogni 1.000 abitanti dei paesi dell'Est. Almeno il26% dei laureati Ue ha un titolo in materie scientifiche o in ingegneria. All'interno dei Dieci la percentuale scende al 13%. ___________________________________________________________ L’Unità 24 Feb.’04 RICERCA TRE PASSI NEL BUIO Pietro Greco Letizia Moratti, ministro dell'istruzione dell'Università e della Ricerca, ha presentato di recente il disegno di legge delega sul «Riordino dello stato giuridico e del reclutamento dei professori universitari». Giulio Tremonti, ministro dell'Economia, ha firmato nei giorni scorsi a Genova, insieme alla stessa Letizia Moratti, il decreto che inaugura l'istituto Italiano di Tecnologia (Iit) immediatamente commissariato e affidato alla direzione del Ragioniere generale dello Stato, Vittorio Grilli. Adriano De Maio, Rettore dell'università privata Luiss e Commissario del massimo Ente pubblico di ricerca italiano, il Cnr, ha inviato nei giorni scorsi ai direttori degli oltre cento istituti del Consiglio Nazionale delle Ricerche l'atteso documento in cui prefigura la sua proposta di riordino della struttura fondata da Vito Volterra e guidata, tra gli altri, da Guglielmo Marconi. Così, per caso, in pochi giorni e tra mille contestazioni ci sono stati offerti, finalmente, un numero di elementi sufficienti per capire in che direzione sta andando la ricerca scientifica italiana sotto il governo Berlusconi. Cominciamo dall'università. Quello proposto dal Ministro del Miur, signora Moratti, è un riordino a costo zero. Eppure capace, come rileva Giulio Baillo, Rettore del Politecnico di Milano, di minare alla base addirittura «il ruolo e la missione dell'università». Dell'università pubblica> aggiungiamo noi. Per i motivi che sono ampiamente denunciati in questi giorni da professori e studenti, mai così uniti nella lotta. La. precarizzazione (brutto termine per una bruttissima prospettiva) della carriera universitaria e la liceizzazione (brutto termine per una prospettiva addirittura medievale) degli atenei pubblici, destinati - proprio come succedeva nelle università del Tardo Medioevo - a produrre didattica senza ricerca. Se questa riforma verrà attuata, la qualità dell'università italiana pubblica scadrà a livelli bassissimi. Tanto da svuotare di senso sia il concetto di "università di massa" (ovvero aperta a tutti, ricchi e poveri) sia quello di "università motore delle produzione di nuove conoscenze" che, da almeno due secoli a questa parte, costituisce il fondamento dell'organizzazione scientifica e culturale in tutto il mondo. Come sostiene Baillo, il «ruolo e la missione dell'università» saranno stravolti. Con quali conseguenze? Con tre conseguenze prevedibili. La migrazione (verso l'estero, verso università private italiane tutte da costruire) degli studenti più abbienti e dei professori più richiesti. Il parcheggio per qualche anno dei giovani meno abbienti che restano a studiare nell'università -liceo in attesa di un lavoro qualificato che non verrà mai. Quella di prosciugare la gran parte della ricerca scientifica di base del nostro paese (piccola, ma spesso di qualità) e di prosciugare, quindi, la stessa cultura della ricerca in un periodo in cui, ironia della sorta, nel mondo occidentale sta nascendo la "società della conoscenza". Poiché - Giappone docet - non c'è sviluppo duraturo senza ricerca pubblica di base, la direzione verso la quale punta con decisione la riforma delle università è tanto chiara quanto paradossale: portare l'Italia fuori dalla "società della conoscenza". La medesima direzione verso cui sembra puntare la costituzione, a Genova, dell'Istituto Italiano della Tecnologia per volontà del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. La firma, in pompa magna, del decreto istitutivo dell'Iit ha infatti iniziato a rendere più chiara la sua fumosa fisionomia. L'istituto che in Italia dovrebbe rinverdire le gesta del mitico Mit di Boston sarà diretto, unico esempio in Occidente, dal Ragioniere generale dello Stato. E, probabilmente, non si fonderà sul lavoro di centinaia di scienziati impegnati a realizzare precisi programmi di ricerca, ma su pochi amministrativi (si parla di una decina) impegnati a distribuire risorse, cospicue per l'Italia, senza un progetto scientifico. L'impressione è che l’Iit finirà per diventare un'agenzia e per dispensare i suoi fondi a pioggia ad aziende private italiane prive di una vocazione per l'innovazione fondata sulla ricerca. Quei fondi, peraltro, non sono pochi nel panorama tecnoscientifico italiano e vengono sottratti alla ricerca pubblica. Ancora una volta il messaggio è chiaro: meno soldi al pubblico, più soldi (pubblici) al privato. Con questo tipo di approccio il sistema produttivo italiano non riuscirà mai a entrare in quel settore decisivo della competizione economica internazionale che è l'alta, tecnologia. Veniamo, infine, al progetto di riordino del Cnr che il commissario governativo Adriano De Maio ha trasmesso nei giorni scorsi ai direttori d'Istituto del Cnr. Non entreremo nei dettagli. Diremo subito che il progetto De Maio, che peraltro è ancora in corso, non segue, per fortuna, le direttive del Ministro Moratti. Che il commissario ha adottato un metodo abbastanza partecipativo, coinvolgendo le strutture del Cnr. Che il suo progetto ha una sua filosofia interna ben definita e coerente. Anche se la sua filosofia - trasformare il Cnr in un Ente di ricerca con una fortissima vocazione all'applicazione tecnologica - non è quella della gran parte dei ricercatori dell'Ente e, per quel che conta, neppure la nostra. In definitiva, a parte una certa analisi ingenerosa nei confronti dei presidenti che l'hanno preceduto, Adriano De Maio conferma la sua nota abilità e propone un progetto di riordino piuttosto radicale, ma logicamente fondato. Con un difetto, però. Non c'è alcuna indicazione dei costi. E non c'è alcuna indicazione perché Adriano De Maio sa che i soldi di cui avrebbe bisogno non ci sono. Che il nostro governo, quando si tratta di riformare le strutture pubbliche, lesina i quattrini. Annuncia nozze mettendo a disposizione solo fichi secchi. Ma le riforme strutturali, come le nozze, non si fanno con : fichi secchi. Lo riconosce lo stessc De Maio: «Questa struttura regge soltanto se esiste un sistema pluriennale di finanziamento». Sistema pluriennale di finanziamento su cui il nostro massimo Ente pubblico di ricerca, il Cnr, non può evidentemente contare, a differenza dell'Iit di Tremonti. Ma non mancano solo i soldi (che pure sono indispensabili). Manca anche e soprattutto la politica Adriano De Maio, a conclusione del suo documento, sembra indicare le condizioni per una saggia direzione della ricerca: «In questo momento caratterizzato da scarsità di risorse e da una struttura industriale che ha poca propensione all'investimento ed è costituita prevalentemente da piccole e medi( imprese, è la mano pubblica a giocare il ruolo principale nella definizione di una strategia della ricerca in Italia». Non distruzione del pubblico, dunque, ma, al contrario, forte direzione del pubblico per stimolare la nascita di una reale vocazione alla ricerca anche nella nostra industria privata. Adriano De Maio ricorda che esiste una «forte correlazione tra una chiara "strategia pubblica"» e la percentuale della ricchezza nazionale che un sistema Paese (pubblico più privati) investe in ricerca. Anche i privati, infatti, hanno bisogno di una "strategia pubblica" forte e chiara. Perché «un'azienda investe in un Paese se "sa" dove il Paese stesso vuole andare». Non è un caso che nel paese leader dello "sviluppo fondato sulla ricerca" e della "scienza imprenditrice", gli Stati Uniti, a definire la strategia, con politiche chiare e mezzi finanziari pubblici imponenti, sia il governo federale. Va da sé che, se Adriano De Maio sente il bisogno di fare questa notazione sulla "strategia pubblica" è perché rileva che in questo momento il nostro paese non "sa" dove vuole andare. Nella distruzione, sistematica eppure furiosa, della ricerca pubblica il ministro del Miur, Letizia Moratti, il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, e l'intero governo Berlusconi si sono dimenticati del loro dovere politico primario. Indicare al Paese una strategia. Dire all'Italia dove deve collocarsi in quella che una volta veniva chiamata la divisione internazionale del lavoro. Ecco, dunque, che il decreto Moratti per l'università, l'inaugurazione dell'Iit e il progetto di riordino del Cnr a opera del commissario De Maio ci forniscono l'indicazione chiara della direzione verso cui punta il governo Berlusconi: distruggere la ricerca pubblica e la pubblica formazione e poi vagolare nel buio, senza meta. ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Mar.’04 ANCORA UN «DOTTORE» SU TRE NON SA COME SI USA IL PC Università / Indagine AlmaLaurea Le conoscenze informatiche sono un buon motore per l'occupazione. Più strumenti informatici si conoscono, infatti, più crescono le opportunità di lavoro e le prospettive di stipendio. Trampolino di lancio. Questo legame emerge in modo evidente dall'indagine sulla condizione occupazionale dei laureati che il consorzio interuniversitario AlmaLaurea ha condotto su un campione di 45mila giovani e presentato sabato scorso a Bologna. A un anno dal titolo, infatti, il 65,8% dei laureati che conoscono almeno cinque strumenti (dalla videoscrittura alla creazione di siti Web) ha un'occupazione, e questa quota scende con il diminuire delle conoscenze, fino ad arrivare al 48% di occupati che si registra tra gli "analfabeti" informatici. Questi ultimi rappresentano un gruppo ancora numeroso, visto che il 32% dei laureati dichiara di non saper maneggiare un Pc, e 46 neodottori su 100 non sono in grado di usare programmi di videoscrittura, mentre solo una nicchia di iniziati (7 su 100) riesce a realizzare un sito Web. «È particolannente preoccupante - sottolineano da AlmaLaurea - che un'assoluta mancanza di conoscenze informatiche riguardi molti fra coloro che intraprendono la carriera di insegnante». Vince la specializzazione. La «cultura informatica diffusa», dunque, stenta a decollare, mentre lo studio specialistico sta conoscendo una fase di maturazione dopo l'esplosione effimera legata alla new economy. Negli ultimi tre anni, infatti, il numero di diplomatiche sceglie la classe di scienze e tecnologie informatiche (classe di laurea 26) è diminuito (erano quasi 9mila nel 2001/2002, mentre oggi sono 8.120), ma sono in molti a ritenere fisiologica questa. flessione. «È normale registrare un ridimensionamento dopo anni di boom, e anche l'atteggiamento dei giovani è mutato - sottolinea ad esempio Ernesto Damiani, docente di ingegneria del software alla Statale di Milano. Oggi gli studenti prediligono l'approfondimento di settori specifici, come mostra il nostro corso sulla sicurezza informatica che ha registrato un successo superiore alle nostre aspettative, attraendo studenti da tutto il Paese perché è l'unico di questo tipo in Italia». Nuovi orizzonti. La classe 26, del resto, abbraccia poco più del 30% dei corsi di laurea in informatica: su 157 titoli presenti negli atenei italiani e distribuiti fra 9 facoltà, 53 appartengono a ingegneria dell'informazione e 49 a informatica, mentre gli altri sono divisi soprattutto fra matematica e Scienze statistiche. Ma gli ambiti scientifici non esauriscono il quadro, e non mancano proposte anche in area economica e umanistica. A Pisa, per esempio, la facoltà di lettere ha attivato quest'anno un corso di laurea triennale in informatica umanistica, unico nel suo genere in Italia, mentre per la specialistica si può scegliere tra Macerata, l'Orientale di Napoli e l'Università Ca' Foscari di Venezia. «La laurea specialistica in informatica umanistica - spiega Paolo Mastrandrea, docente di latino e ideatore del corso - è stata capita dagli studenti ma ha incontrato una ,erta diffidenza nel mondo accademico». Un atteggiamento ambivalente si riscontra anche nel mondo del lavoro, perché “le imprese ancora non colgono l'importanza del connubio di Cultura umanistica e competenze informatiche, mentre chi lavora pare essersene accorto. .a maggioranza dei nostri scritti - conclude Mastranlrea - è rappresentata da perone già laureate e occupate, che scelgono questo corso per arricchire le proprie possibilità di carriera». ___________________________________________________________ Il Messaggero 2 Mar.’04 I FUORICORSO COSTANO ALLO STATO 20 MILA L’ANNO, ALLE FAMIGLIE 8 MILA Università/Una ricerca del Miur ROMA Il ritardo nel conseguimento della laurea da parte degli studenti italiani costa al Paese 7,6 miliardi di euro. L'universitario italiano medio si laurea, infatti, a 27 anni, e impiega sette anni e mezzo per terminare il corso degli studi accademici, tra i due e i tre anni in più rispetto al termine legale previsto dalla facoltà. È quanto emerge dal Secondo Rapporto sullo stato di salute dell'istruzione universitaria in Italia, curato dal Comitato per la valutazione del sistema universitario del Miur (ministero università) e presentato ieri alla Camera. Lo studio ha preso a campione gli Studenti immatricolati nell'anno accademico 2002/03, catalogati per ateneo, facoltà, tipologia, corso di studi e provenienza. Ad ogni singolo studente che non riesce a conseguire nei tempi previsti il titolo universitario corrisponde un costo sociale che varia tra i 15 e i 20 mila euro annui. Ciò, tradotto, vuol dire che ciascuno dei fuori corso ancora iscritti negli atenei italiani potrebbe guadagnare fino a 20 mila euro all'anno. Una cifra che, se moltiplicata per tutti i 'laurendi tardivì, produrrebbe un incremento medio del Pil italiano di 7,6 miliardi di euro per anno. Ma quanto costa alle famiglie mantenere un figlio all'università? Secondo il Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario, la spesa per gli studenti fuori sede sfiora i 6 mila euro. Una cifra che considera, però, soltanto le spese strettamente essenziali, cioè direttamente collegate al regolare svolgimento degli studi: l'alloggio, il vitto, i trasporti ed il materiale di studio. Se a tali uscite si aggiungono le spese accessorie, cioè le attività ricreative, la formazione, il (quasi) essenziale Internet, i costi lievitano fino a 8mila e 300 per ogni fuori sede. Si mantiene stabile il dato sulla mobilità universitaria tra le regioni: si immatricola nella stessa regione di residenza l'80 per cento degli studenti e circa il 50 per cento si immatricola nella stessa provincia. Ma si registra ancora un fortissimo saldo migratorio dei giovani del Mezzogiorno verso gli atenei del centro e del nord, nonostante la crescente offerta degli atenei meridionali. ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 4 Mar.’04 IL MIT ITALIANO PARLA GENOVESE In arrivo nel capoluogo ligure investimenti pubblici e privati destinati atta tecnologia e alta ricerca scientifica Genova diventa catalizzatore degli investimenti destinati alla tecnologia e alla ricerca scientifica. Da un lato quelli pubblici con l’Iit (Istituto italiano di tecnologia), dall'altro quelli privati con il technology village che sorgerà sulla collina degli Erzelli. Da una parte i 22 del comitato di indirizzo dell'Iit, tra cui anche Rita Levi Montalcini e Pasquale Pistorio presidente e Ceo di St Microelectronics, dall'altra i 34 imprenditori che partecipano alla realizzazione del villaggio hi-tech. Alberto Clavarino ed Enrico Castanini fanno parte del gruppo di investitori che sostengono Genova hi tech con una partecipazione iniziale pro capite pari a 50mila curo, è però previsto a breve un aumento di capitale. Gli imprenditori. Clavarino, fondatore e amministratore delegato di Soloinrete (società che sviluppa soluzioni software, offre servizi di consulenza informatica e ha recentemente acquisito la milanese Oxys specializzata in sicurezza, wireless e telefonia Ip), non nasconde che il progetto è ambizioso ma si dimostra ottimista, soprattutto in relazione alla capacità che avrà di convincere le imprese a trasferire le loro attività nella nuova cittadella della tecnologia: «Le aziende arriveranno. C'è un grande entusiasmo attorno al progetto, la stessa figura di Renzo Piano è un fattore importante, così come lo è il fatto che si tratta di un'iniziativa interamente privata. Certo le imprese genovesi da sole non sono sufficienti per sostenere l'iniziativa, servono nuovi arrivi, uno o due grossi nomi internazionali che facciano da apripista». I genovesi guardano già la collina degli Erzelli immaginando le torri che svetteranno sopra i tunnel dall'autostrada e la vista sul mare che si godrà dal parco, ma ciò che più entusiasma è la credibilità di un progetto che ha la potenzialità di contribuire considerevolmente al rinnovamento dell'economia della città. «Dopo il tramonto dell'industria pesante e il ridimensionamento delle attività portuali, Genova deve trovare una nuova strada che non può essere soltanto quella del turismo", osserva Clavarino. Anche Enrico Castanini, amministratore delegato di Datasiel (società controllata per il 51% dalla Regione Liguria e per il 49% da Telecom Italia / Finsiel), è uno dei 34 che partecipano al progetto: «I primi passi sono quelli più difficili ma lavoriamo su un terreno fertile, penso all'Università che pone molta attenzione alle facoltà scientifiche e tecniche, vi è quindi disponibilità di personale qualificato, inoltre credo che un ruolo importante lo avrà il cosiddetto "effetto a cascata": quando le prime aziende saranno insediate sugli Erzelli si inizierà a creare un tessuto fatto di sinergie e di risorse che contribuirà ad attrarne di nuove». I Cervelli. I cervelli sono indubbiamente il cuore pulsante di entrambe le iniziative. L'Iit nasce proprio per offrire a scienziati e ricercatori un terreno fertile che fino a oggi hanno dovuto cercare all'estero. Il villaggio tecnologico si propone di fare leva sulle iniziative che a Genova hanno già trovato la forza di crescere e svilupparsi, proponendosi come il luogo ideale dove possa crearsi convergenza tra progetti e innovazione. Entrambe le iniziative sono da salutare con favore, entrambe si preparano a compiere i primi passi in un terreno che è non certo privo di ostacoli, e difficoltà. È forse ancora prematuro considerare Genova come la capitale italiana della. ricerca scientifica e tecnologica, è però vero che la città ha d,mostrato più di altre di voler credere e scommettere su questi progetti capaci di portare nuovo entusiasmo all'economia dell'intera regione. Le aspettative sono alte così come lo è l'attesa per i primi risultati, l'augurio è che i due poli: quello privato di ponente e quello pubblico di levante, sappiano crescere e sostenersi a vicenda, collaborare e creare sinergie per offrendo ai cervelli una valida e promettente alternativa alla fuga. DA UN PROGETTO DI RENZO PIANO NASCE IL VILLAGGIO HI-TECH La collina degli Erzelli, oggi desolato deposito di container, è il luogo che ospiterà il villaggio tecnologico di Genova. Questa iniziativa prende vita quasi simultaneamente alla scelta del capoluogo ligure quale casa dell'Istituto italiano di tecnologia (Iit) recentemente presentato dai ministri dell'Economia Tremonti e dell'Istruzione Moratti (vedi Il Sole-240re del 17 febbraio 2004). Il villaggio tecnologico. Il technology village di Genova è voluto e sostenuto da una società che si chiama Genova high tech (Ght), presieduta da Carlo Castellano, già fondatore del Dixet, il distretto di elettronica e tecnologie avanzate del capoluogo ligure, e partecipata da altri 33 tra imprenditori e manager genovesi che operano nel settore delle alte tecnologie. Cavalcando l'attenzione della quale Genova gode in veste di capitale europea della cultura per il 2004, Ght ha voluto presentare i dettagli del technology village, in particolare quelli del progetto architettonico realizzato da un genovese illustre: Renzo Piano. «Tutto nasce poco meno di un anno fa - racconta Castellano - con la fondazione della società Genova high tech che ha raccolto subito il favore degli imprenditori dell'alta tecnologia che lavorano qui. Abbiamo scelto di non coinvolgere imprese immobiliari e istituzioni pubbliche, l'iniziativa è interamente privata». Oggi la prima elaborazione del piano urbanistico è pronta, prevede la costruzione in due fasi di un totale di dodici torri, le sei più alte supereranno i 160 metri, e di un grande parco. Presto il progetto sarà sottoposto all'attenzione del Comune e della Provincia di Genova, nonché della Regione Liguria per le necessarie approvazioni. In seguito si procederà alla posa della prima pietra per poi completare l'intera cittadella dopo circa otto anni di lavori. A regime il technology village ospiterà tra le 200 e le 250 imprese, laboratori di ricerca e un campus universitario e, si prevede, sarà popolato da circa diecimila persone. «Già oggi a Genova ci sono circa 150 imprese che operano nella ricerca e nelle tecnologie - dice Castellano - che danno lavoro circa settemila persone. Il nostro obiettivo è di attirare imprese da fuori, il modello al quale ci ispiriamo è quello di Sophia Antipolis (il villaggio tecnologico sorto nel sud della Francia, ndr). Si tratta certamente di una sfida ambiziosa ma noi con questo progetto vogliamo esprimere la nostra capacità di fare innovazione». Sfida che trova proprio nella capacità di reperire i fondi necessari per realizzare il villaggio tecnologico e nelle strategie da adottare per portare le imprese a popolare le nuove strutture, i punti più critici. II presidente di Ght non ha fornito dettagli sui piani di finanziamento affermando che si sta lavorando al completamento del business plan con la collaborazione di due società di consulenza, At Kearney ed Ernst&Young, e che la ricerca degli investitori disposti a fornire capitale di rischio è ancora in atto. Complessivamente si prevede che saranno necessari circa 500 milioni di euro. L'Iit. Diversissima è la situazione dell'Istituto italiano di tecnologia. Qui i fondi ci sono, previsti dalla legge finanziaria: 50 milioni di euro per partire e 100 milioni di euro all'anno per i prossimi dieci anni. C'è anche già la sede, gli edifici del vecchio ospedale psichiatrico di Quarto, quartiere del levante genovese, che saranno oggetto di un programma di ristrutturazione che avrà un costo pari a circa 25 milioni di euro e che si propone di rendere disponibili i locali nel più breve tempo possibile. Il neonato Istituto si basa su un modello operativo ispirato a quello del Mit (Massachusetts institute of technology) di Boston, proponendosi come perno della ricerca italiana capace di consolidare i rapporti tra le iniziative e le risorse pubbliche e private. La Fondazione Iit sarà guidata dal ragioniere generale dello Stato Vittorio Grilli che assume la carica di commissario unico il cui lavoro verrà affiancato da un comitato di indirizzo e regolazione al quale parteciperanno ventidue esperti italiani e stranieri che avranno il compito di individuare le aree di ricerca più promettenti verso le quali indirizzare le attività dell'Iit. ___________________________________________________________ La Repubblica 2 Mar.’04 IL DECLINO ITALIANO Il Paese punta solo sul mattone Lo sviluppo non abita. più qui Nei settori avanzati l'Italia ormai fanalino di coda ROMA -Guarda indietro invece che avanti. Se cresce lo fa solo in settori super tradizionali come quello del mattone ma si guarda bene dal rischiare, dal pensare al nuovo. Consuma poco e non investe. Invecchia e impoverisce. L'Italia è ferma: lo ha conferma il dato Istat sul Pil. Ora -una delle pochissime cose su cui opposizione e maggioranza sono d'accordo-bisogna assolutamente rilanciare. Ma al momento non si vedono segnali. Quel poco di crescita messa a segno lo scorso anno, ci fa sapere l'istituto di statistica, è stata realizzata in uno dei settori più «di rifugio» che un'economia matura possa conoscere: l'edilizia, cresciuta sia in investimenti (più 1,8 per cento) che in occupazione (2,9). Una ripresa dovuta probabilmente anche alla crisi di incertezza che ha colpito i risparmiatori e al conseguente rifiorire della domanda di «beni solidi». Per il resto siamo messi male. A parte i noti problemi di difesa del potere d'acquisto e di competitività, ciò che traspare nelle classifiche Eurostat è che l'Italia resta al palo in tutti quei settori sui quali - chi vuole emergere- dovrebbe invece investire: ricerca e tecnologia soprattutto. Mentre noi torniamo alle costruzioni la Spagna - per esempio - spenderà 70 milioni di euro da qui al2008 per realizzare in accordo con l’Ibm il secondo computer più potente del mondo che potrà essere utilizzato per ricerche sulla salute, l'ambiente e le scienze I capitali stranieri vanno altrove, è fuga anche dalle aree sviluppate del Nord chimico-fisiche. Qui invece non si investe nemmeno sull'hi-tech: contro il dato complessivo della Ue che fissala spesa al3 per cento del Pil, l'Italia vi dedica l'1,9 per cento appena, candidandosi a rimanere per lungo tempo un paese importatore. E se governo e imprese non dedicano risorse alla ricerca, gli stranieri ben si guardano dal venire in Italia. Uno studio Ambrosetti ha fatto i conti su quanti soldi arrivano dall'estero sotto forma di investimenti tecnologici: fra il 1996 e il 2001 l’Italia è riuscita a mettere assieme al 0,5 del Pil appena, contro il 12,8 dell'Irlanda. Non è nemmeno questione di politiche fiscali dedicate agli ospiti: anche la Germania e la Francia hanno fatto molto meglio di noi (2,9e2,3).La tendenza, fra l'altro è generalizzata. A soffrire di questa scarsa fiducia non è solo il Sud: gli investimenti tecnologici stranieri se ne stanno andando anche da alcune zone industrialmente forti come Prato, Pescara, Ferrara. II quadro è nero: se ne preoccupano sindacati e consumatori, ma anche il commento di Confindustria è spietato. «Le esportazioni e gli investimenti, componenti che più imprimono velocità alla crescita analizza il Centro studi - sono andate male (-3,9 e-2,1 per cento rispettivamente). Tra i paesi dell'area dell'euro l'Italia risulta aver maggiormente sentitogli effetti della rivalutazione della moneta unica sia nel 2002 che nel 2003. Nei due anni, le esportazioni sono diminuite del 7,1 per cento in Italia, dello 0,9 per cento in Francia e sono, invece, cresciute del 4,6 in Germania». ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 3 Mar.’04 IL NUOVO CORSO DELLA CHIMICA Un patrimonio di 2.100 imprese con gli indici più elevati per occupazione, redditività e innovazione Diana Bracco (Federchimica) Un sistema capace di trainare l’economia ma che ha bisogno di aiuti ROMA Molte promesse e troppe delusioni per la chimica italiana. Le promesse risuonano nei palazzi del Parlamento che ospitano il convegno promosso dalla Federchimica. Se ne fa carico direttamente il ministro delle Attività produttive, Antonio Marzano. Ottime prove di efficienza e di innovazione, soprattutto dalle nostre imprese chimiche più piccole e reattive, sottolinea il ministro sull'onda della ricerca-appello appena presentata dall'associazione imprenditoriale. Diana Bracco, presidente di Federchimica, chiede un nuovo corso, sotto forma di regole più coerenti, potenziamento delle infrastrutture e incentivi per chi mostra davvero di innovare. Marzano annuisce. La ricetta è giusta. Il nuovo corso, giura, è già iniziato. Dopo il grande riassetto degli anni 80 e 90 sul campo è rimasto - insiste la Bracco - un patrimonio di innovazione di cui non si ha immediata consapevolezza. Un patrimonio fatto - come mostra lo studio "Il nuovo volto della chimica italiana" realizzato con la collaborazione della Bocconi - di piccole e medie imprese (la stragrande maggioranza delle circa 2.100 realtà del settore) che vantano gli indici più elevati, rispetto agli altri settori imprenditoriali, in termini di redditività, produttività. remunerazìone del lavoro, intensità del capitale e innovazione. Imprese che alimentano l'occupazione (in dieci anni si è passati nelle Pmi chimiche da 74mila a 79mila addetti a fronte di un calo complessiva del settore da 171mi1a a 138mi1a occupati) e oltretutto esportano una serie di prodotti "centrali" per molte attività industriali riuscendo oltretutto a rispondere al di là del richiesto ai nuovi vincoli ambientali (-11% le emissioni di C02 rispetto al '90). È vero che paghiamo - sottolinea Diana Bracco - un deficit commerciale chimico che nel 2003 ha raggiunto gli 8,6 miliardi di curo, ma è anche vero che ad arginare l’emorragia hanno contribuito gli importanti surplus degli scambi realizzati nelle vernici e adesivi (400 milioni) e nella cosmetica e detergenza (900 milioni). A testimonianza che «esiste un sistema della chimica italiana di altissimo livello». Un patrimonio capace di trainare l'intero sistema economico italiano e che «va orientato e sostenuto» incita il presidente di Federchimica. Che sollecita, tra l'altro, «l’abolizione dell'onere dell'Irap sull'attività inerente i ricercatori industriali, umiliante oltre che iniquo, che penalizza chi fa più ricerca per competere sui mercati internazionali» e indica tra le priorità la collaborazione tra imprese e università e tra pubblico e privato. Con il necessario sostegno di una pubblica amministrazione che sappia riprendere celermente la strada della maggiore semplicità ed efficienza nelle regole e nelle procedure, come incita Giancarlo _erutti, vicepresidente della Confindustria per l’internazionalizzazione e come auspica, dalla stessa tribuna, anche il 'padre" delle prime modernizzazioni della macchina burocratica, Franco Bassanini. Anche perché nuovi errori sono in agguato, insiste Diana Bracco puntando l'indice sul Reach, la nuova proposta di regolamentazione comunitaria sulla registrazione, valuta;;ione e autorizzazione delle sostanze chimiche. Un'impostazione che soffre ancora-denunciano gli imprenditori - di tutti quegli appesantimenti burocratici che vanno invece eliminati. E che rischia dunque «di essere un freno e non strumento di sviluppo sostenibile, penalizzando in particolare le medio-piccole imprese chimiche» insiste la Bracco. Ma il Governo italiano è intervenuto tempestivamente per frenare l'approvazione del nuovo regolamento UC, chiedendo (come del resto hanno fatto Inghilterra e Germania) una nuova stesura. Lo conferma direttamente il ministro Marzano, che rilancia le sue promesse. Il Governo punterà a incentivare soprattutto la chimica fine «sulla quale mostriamo più capacità di innovazione», oltre che sulle biotecnologie e sulle nanotecnologie. Lo farà innanzitutto «riqualificando e potenziando le aree già individuate per i poli della chimica, facendone un nuovo punto di riferimento per i settori industriali» usando come strumento principale quello degli accordi di programma. FEDERICO RENDINA =========================================================== ___________________________________________________________ Corriere della Sera 26 Feb’04 TRE VITE IN PRIMA LINEA Due medici e un tecnico, tre vite in prima linea Il chirurgo sempre pronto a partire Giorno e notte con il camice addosso LE STORIE. IL PRIMARIO Arachi Alessandra le Storie DA UNO DEI NOSTRI INVIATI CAGLIARI - Valla a spiegare adesso la sua leggerezza che diventava goliardia quando in ospedale raccontava barzellette e non esitava a raccontarle zozze, con il ghignetto e le battute ingenue dell' infanzia. Non si può spiegare, si deve soltanto intuire quanto sia fondamentale la lievità in una vita come quella di Alessandro Ricchi, cardiochirurgo che trapiantava cuori, ventiquattro ore al giorno a disposizione delle vite degli altri, ogni giorno gomito a gomito con la morte. Se ne è andato all' altro mondo con un cuore tra le mani: chissà quante volte aveva pensato che sarebbe potuto succedere. Era da quindici anni che Alessandro Ricchi correva contro il tempo con i cuori tra le mani: non può durare più di due ore e mezza il viaggio di un chirurgo che accompagna il nostro muscolo vitale per un trapianto. E lui già otto anni fa aveva rischiato di lasciare la sua vita in una corsa in auto contro il sonno e la nebbia nella strada che da Sassari scende giù verso Cagliari. Anche quella volta con lui c' era Antonio Carta, il suo aiuto nell' ospedale Brotzu. Ma quella volta si era fracassata soltanto la macchina e il cuore era riuscito ad arrivare a destinazione. «Voglio sbrigarmi a tornare a lavorare», il suo ritornello dal letto dell' ospedale dopo l' incidente. Il ritornello della sua esistenza. Cinquantadue anni, tre figli, una bella moglie: Alessandro Ricchi era nato a Pavullo nel Frignano, poche anime nel Modenese. Ma dalla provincia era fuggito in fretta, il tempo di laurearsi e specializzarsi, endocrinologia. Quindi una fuga all' estero e l' incontro con il suo grande amore della professione: il cuore. È all' Italian Hospital di Londra nel 1980 che Alessandro Ricchi conosce Valentino Martelli, maestro inseparabile. La cardiochirurgia gliela insegna lui ed è sempre grazie a lui che il giovane ed entusiasta Alessandro torna prima a Bologna e corre poi all' università di Birmingham, Alabama, Stati Uniti: vuole sapere tutto e di più sul cuore. Rimane pochi mesi lì giù Alessandro, appena il tempo di conoscere il grande amore della vita: Serena, la mamma di Valentina, 14 anni, Francesco, 11, Lorenzo, 9. La donna che lo avrebbe sempre accompagnato con discrezione anglosassone e dedizione napoletana, capace di assecondare una vita che rasentava l' impegno del missionario, pronta a correre in ospedale nella pausa pranzo pur di mangiare un panino insieme con lui. Con il sorriso sulle labbra. Era alto, magro e un po' stempiato il professor Alessandro Ricchi, amante dell' arte moderna e del mare della Sardegna che poteva guardare dalle finestre della sua casa a Capoterra. A Cagliari era arrivato nel 1987 insieme con Valentino Martelli per aprire questo centro trapianti che in pochi anni aveva interrotto i viaggi della speranza dei sardi e che da dieci anni gestiva tutto da solo, il suo maestro prestato alla politica. Settanta trapianti e uno da record mondiale di cuore abbinato al rene non avevano cambiato il suo spirito umile del missionario, pronto a partire a caccia di un cuore a qualsiasi ora della notte senza neanche togliersi il camice. Non gli avevano cancellato il ghignetto delle battute goliardiche. Alessandra Arachi ___________________________________________________________ L’Unione Sarda 6 Mar.’04 MEDAGLIA D’ORO AGLI EROI SILENZIOSI Cagliari, visita lampo del ministro della Sanità Sirchia di Lucio Salis “Non siamo alla ricerca di colpevoli ma di donatori”. Alessio Pinna, fratello di Gianmarco, il perfusionista morto nella tragedia dei Sette Fratelli, avrebbe voluto dirlo a Girolamo Sirchia. Non ne ha avuto il tempo, il ministro della Sanità era preoccupato che si scambiasse la sua visita per una passerella pubblicitaria. «Non voglio fare spettacolo» ha detto nel concludere la visita lampo, lasciandosi alle spalle un po’ di delusione. Peccato, perché alcuni parenti delle vittime volevano cogliere l’occasione per parlare della donazione di organi. Forse per la toccante manifestazione di solidarietà ricevuta da una interminabile teoria di folla, nell’atrio del Brotzu trasformato in camera ardente, ma soprattutto perché i loro cari avevano fatto una consapevole scelta: impegnarsi per ridare la vita a chi aveva bisogno di un organo. Senza risparmio di tempo e fatica, come sanno bene mamme, mogli e figli che oggi li piangono. Per questo, ieri avrebbero voluto dare un seguito a questa missione ideale, lanciando un messaggio attraverso l’imponente concentrazione di giornalisti e telecamere presente al Brotzu. Non ci sono riusciti, bloccati da un protocollo forse troppo severo. È arrivato dopo le 15, il ministro, ed è ripartito dopo circa mezz’ora. Accolto dalle autorità cittadine, ha raggiunto subito lo studio del direttore generale del Brotzu, Franco Meloni, dove lo attendevano i parenti delle vittime. Tra i quali, la mamma e la fidanzata del giovane cardiochirurgo Antonio Carta; la moglie, il figlio e il fratello di Gianmarco Pinna; la moglie e i figli di Sandro Ricchi. A loro il ministro ha espresso il cordoglio suo, del Presidente del Consiglio e del Capo dello Stato. Quindi ha sostato in raccoglimento davanti ai feretri di cinque delle sei vittime della sciagura aerea (la bara del pilota Daniele Giacobbe, esposta durante la mattinata, è stata poi trasferita a Catania). Prima di ripartire, il ministro ha confermato che il Presidente della Repubblica «ha condiviso ampiamente» la sua proposta di decorare i caduti con la medaglia d’oro al valore civile. «Sono qui, commosso, - ha detto - perché ho lavorato per anni in questo mondo dei prelievi e dei trapianti d’organo. Ho vissuto direttamente molti dei problemi, delle ansie e delle difficoltà che queste persone affrontano ogni giorno, per realizzare un programma che vede l’Italia all’avanguardia. Un risultato raggiunto grazie a chi si sacrifica fino al costo della vita». “Eroi silenziosi” li ha definiti, «perché in silenzio lavorano di giorno e di notte, senza badare a festività, per assicurare ai malati una salvezza altrimenti impossibile. Questo è un momento in cui gli italiani si rendono conto che nella sanità operano degli eroi veri». A questo punto, alcuni familiari delle vittime avrebbero voluto lanciare un appello in favore delle donazioni, ma il ministro non ha voluto raggiungere la saletta in cui era concentrata la stampa. «Sono disposto a incontrare i parenti in forma privata», ha detto prima di lasciare l’ospedale accompagnato dal codazzo delle autorità. Delusione tra quanti avrebbero voluto che si fermasse ancora per qualche minuto. Se n’è fatto interprete Alessio Pinna, fratello del perfusionista sempre presente nelle équipe in partenza per prelevare un cuore da prelevare: «Il suo era un impegno assoluto, anche a costo di sacrificare i momenti liberi da dedicare alla famiglia. Quante volte gli avevo detto “riposati, mettiti dei limiti, non puoi andare avanti così”. La sua risposta era sempre la stessa: “Non posso, al posto di chi aspetta un organo potrebbe esserci mia madre, mia sorella, un amico”». Si identificava completamente nel lavoro Gianmarco, fedele allo spirito di squadra creato da Sandro Ricchi, ma diffuso tra tutti coloro che lavoravano in Cardiochirurgia. Uniti da quella voglia di fare, impegnarsi aldilà dei limiti contrattuali e fisici, «a volte, Gianmarco andava avanti a forza di Aulin» sospira il fratello. Dedizione al lavoro, la sua, ma anche altruismo con radici profonde: «Quando aveva dieci anni - ricorda Alessio - lo avevano proposto per il “Premio Motta della bontà”: tutti i giorni accompagnava a scuola un compagno colpito da distrofia. Doveva quasi caricarselo sulle spalle. Un impegno gravoso per un bambino. Sembrava nato per fare queste cose. Vorrei che non fosse dimenticato e m’impegnerò, come faceva lui, per cercare altri donatori». Voleva dire questo al ministro? «Volevo dirgli che noi parenti non cerchiamo colpevoli, ma donatori. Perché la perdita di questi tre ragazzi non sia vana». Non a caso, dopo l’incidente, ci sono state due importanti donazioni, di Elisa Deiana e Igor Cireddu «e questo mi ha dato un attimo di grande felicità». ___________________________________________________________ La Repubblica 3 Mar.’04 BROTZU, NUOVA EQUIPE RIPARTONO I TRAPIANTI A Cagliari dopo la tragedia aerea CAGLIARI - È tornato in piena attività il centro trapianti dell'ospedale Brotzu di Cagliari, ad una settimana esatta dallo schianto del Cessna 500 sui monti dei Sette Fratelli che aveva azzerato i vertici della cardiochirurgia. La macchina si è rimessa in moto alle 6.30 di ieri, quando i genitori di una ragazza morta in un incidente stradale hanno dato il consenso per l' espianto degli organi, cuore, fegato e reni. La nuova équipe ha eseguito le operazioni con successo. ___________________________________________________________ La Nuova Sardegna 4 Mar.’04 BROTZU: TRAPIANTO EPATICO Giuseppe Dettori: "Per gli assessori Oppi e Capelli solo apprezzamenti" SASSARI. Intervengo sul problema del trapianto epatico, poiché sento doveroso chiarire meglio alcune affermazioni attribuitemi dalla "Nuova", che non rispecchiano esattamente il mio pensiero. Mi riferisco in particolare alla frase comparsa nel numero di ieri, 4 marzo, secondo la quale io "sarei rammaricato con l’assessorato per non aver ancora concesso l’autorizzazione ai trapianti di fegato a Sassari". Da questa frase, che non ho certo pronunciato in questi termini, sembra trasparire un mio personale atteggiamento contestativo nei confronti del precedente e dell’attuale assessore. Bene, è vero esattamente il contrario: negli ultimi dodici anni della mia vita professionale non ho fatto che esprimere apprezzamento e gratitudine per l’opera svolta nei suoi due mandati assessoriali alla sanità dall’onorevole Giorgio Oppi, cui l’intero nord Sardegna ed in particolare tutti noi dell’università e degli ospedali di Sassari e provincia dobbiamo riconoscere di aver svolto, al di là dei colori di appartenenza, una politica sanitaria equa ed equilibrata che, pur tenendo conto delle maggiori esigenze del polo cagliaritano, ha sempre previsto per Sassari e per il nord Sardegna (come del resto per tutti gli altri poli dell’isola), un’ adeguata assegnazione di risorse che ci hanno consentito di svolgere in modo efficiente gran parte del nostro lavoro. Così come vivo apprezzamento sento di rivolgere al neo assessore onorevole Roberto Capelli che, come da lui stesso dichiarato, condivide le linee programmatiche già tracciate dal suo predecessore anche in materia di trapianti, preconizzando l’istituzione di un centro di trapianto epatico con due poli operativi di pari dignità, l’uno a Sassari (università ed ospedale in piena intesa collaborativa) e l’altro a Cagliari. Dobbiamo dunque all’onorevole Oppi ed oggi all’onorevole Capelli l’attribuzione a Sassari del trapianto epatico, che speriamo presto divenga una realtà operativa. Come potrei dunque aver espresso rammarico e non gratitudine nei confronti dell’assessorato? E per giunta, come potrei imputare inesistenti ritardi ad un assessorato che ancora oggi non ha definitivamente ottenuto il trasferimento delle competenze in materia da parte del ministero? Si è sicuramente trattato di un banale errore di trascrizione, o forse io stesso posso essermi espresso in modo non molto chiaro. Ma era comunque doveroso che io facessi queste precisazioni. Nel ringraziarla per avermi concesso questo spazio, desidero anche, caro direttore, esprimere a lei, a nome dell’intera sanità sassarese, parole di apprezzamento e gratitudine per la forza e l’efficacia con la quale da sempre porta avanti le giuste rivendicazioni della sanità sassarese, finalizzate a tutelarne le innengabili tradizioni culturali, e soprattutto finalizzate a garantire ai nostri pazienti pari efficacia e dignità di trattamento rispetto a quelli del resto dell’isola. Prof. Giuseppe Dettori direttore dell’istituto di clinica chirurgica dell’università di Sassari ___________________________________________________________ L’Unione Sarda 4 Mar.’04 TRAPIANTI DI FEGATO: CENTRO REGIONALE L’assessore alla Sanità annuncia due poli a Cagliari e Sassari "La Regione autorizzerà un Centro regionale per i trapianti di fegato con due poli: a Cagliari e a Sassari". Lo ha annunciato l’assessore regionale alla Sanità Roberto Capelli, che già l’altro ieri aveva espresso grande soddisfazione per l’intervento eseguito al Brotzu. Dopo anni di polemiche, tutti gli ostacoli potrebbero essere superati in tempi brevi. Perché la Conferenza Stato-Regioni sta per trasferire dal ministero agli assessorati alla Sanità le competenze in materia di autorizzazioni per i trapianti. Un punto già all’ordine del giorno, come precisa l’assessore, che aggiunge: "C’è comunque un pieno accordo tra l’Azienda Brotzu e la Asl 1 di Sassari. L’altro ieri ho incontrato i due direttori generali, Franco Meloni e Antonio Scano, che mi hanno annunciato la presentazione di una richiesta di autorizzazione congiunta perché venga riconosciuto un centro regionale per i trapianti di fegato. Ciò significa che gli interventi potranno essere eseguiti, secondo le contingenze, in una delle due città capoluogo. Per quanto mi riguarda, approverò la proposta in tempi brevissimi, senza tener conto di sterili e tristi polemiche". In effetti, di tempo, sinora, se n’è perso anche troppo. C’è necessità di un intervento che consenta alle aziende ospedaliere di mandare avanti l’attività trapiantistica. Sotto questo profilo, a Cagliari è tutto a posto. Come ha dimostrato l’intervento eseguito l’altro ieri al Brotzu. A Sassari le cose sono un po’ più complicate. I trapianti di fegato dovrebbero essere eseguiti nella divisione Chirurgia dell’ospedale Santissima Annunziata, diretta da Nicola D’Ovidio. Ma esiste anche una candidatura della Clinica chirurgica universitaria, direttore Giuseppe Dettori. Due reparti, ma anche due scuole chirurgiche diverse: quella ospedaliera fa riferimento al romano Raffaello Cortesini, mentre l’universitaria è più legata a Salizzoni. Entrambe, però, gravitano nell’orbita della Asl 1. Un bel problema per Antonio Carta. Ma ormai (almeno a Cagliari) è finito il tempo delle contese. Il manager del Brotzu, Franco Meloni, conferma che ormai si va verso tempi stretti: "Forse già domani (oggi per chi legge, ndr) incontrerò il collega Scano e insieme prepareremo la domanda di autorizzazione da presentare all’assessore. Prevede un unico centro con due poli: a Cagliari e a Sassari. Coi colleghi di Sassari abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto di collaborazione e questa sarà un’occasione per rinsaldarlo". Che l’attività trapiantistica del Brotzu possa procedere finalmente senza intoppi se lo augura anche il presidente della Commissione regionale Sanità, Gianni Locci: "Ormai è un’azienda ospedaliera di caratura nazionale. Non credo che ci debbano essere dubbi sull’opportunità di concedere l’autorizzazione ai trapianti di fegato. D’altro canto, in questi ultimi anni la Sanità in Sardegna ha vissuto alla giornata. Non c’è stata alcuna volontà di affrontare i problemi". Sull’opportunità di far presto concorda anche il coordinatore regionale dei trapianti, professor Licinio Contu: "Abbiamo un numero elevato di malati che hanno bisogno di un trapianto di fegato e un numero di donazioni di organi al più alto livello del CST (Centro sud Italia transplant). Questo significa che c’è la possibilità di dare risposte, con i nostri donatori, ai pazienti che hanno necessità di un fegato nuovo. Sino a qualche tempo fa non avevamo le équipe idonee a eseguire questo particolare intervento. L’ultimo trapianto al Brotzu ha dimostrato che esiste l’organizzazione necessaria, un’équipe di ottimo livello che ha saputo affrontare un’operazione difficile, considerate le condizioni del paziente. A maggior ragione sapranno fare quelle di routine". Mentre ancora si discute di organizzazione, A.A. il carpentiere cagliaritano di 52 anni, cui è stato trapiantato il fegato, ha lasciato la Rianimazione: "Sta benissimo - dice Fausto Zamboni, il chirurgo che ha eseguito l’intervento - lo avevamo già svegliato in sala operatoria, quindi trasferito in Rianimazione. Ora è in reparto. Perfettamente lucido". Nonostante le precarie condizioni del paziente, non si sono registrate particolari difficoltà "salvo quelle legate al tipo di intervento, certo non banale, e al fatto che era il primo che eseguivamo nel nostro ospedale". Stanno bene anche il paziente di Ales sottoposto a trapianto di cuore dall’équipe di Cardiochirurgia e i due con un rene nuovo. Sempre nel reparto di Urologia del Brotzu, un altro nefropatico si è liberato dalla schiavitù della dialisi grazie al rene che apparteneva a Igor Cireddu, il giovane ucciso domenica scorsa a Villaputzu. Il trapianto è stato eseguito ieri pomeriggio da un’équipe di chirurghi composta da Sergio Lilliu, Gianni Bianco e Massimo Usai. È questo l’ultimo intervento (in ordine di tempo) registrato in questi due giorni di intensa attività al Brotzu, ma anche al Marino, dove sono stati prelevati gli organi di Igor Cireddu. Quarantotto ore che hanno visto impegnati al massimo tutti coloro che lavorano negli ospedali, compresi gli infermieri, come (giustamente) sottolinea una nota del sindacato Nursind. Lucio Salis ___________________________________________________________ La Nuova Sardegna 4 Mar.’04 FEGATO: "DUE POLI CON UN’UNICA ÉQUIPE" L’ASSESSORE REGIONALE ALLA SANITA’ La ricetta di Capelli: Cagliari e Sassari collaboreranno E sull’intervento all’ospedale Brotzu: "Quando si deve salvare una vita qualsiasi cosa è più che lecita" CAGLIARI. C’è la benevolenza della Regione sulla forzatura del trapianto di fegato fatto martedì al Brotzu, l’ospedale che mesi fa non aveva ricevuto l’autorizzazione del ministero. Così l’assessore alla sanità Roberto Capelli, quasi a intervento in corso: "Qualsiasi cosa porti a salvare una vita umana è più che motivata e lecita". L’assessore non è preoccupato che la Sardegna diventi una specie di Far West dei trapianti: "Il problema è prossimo alla soluzione". E spiega: "All’ordine del giorno della conferenza Stato-Regioni c’è proprio la devolution alle regioni in materia di trapianti. E questo risolverà il problema". - Allora direte sì dove il ministero della Sanità ha detto no? "Diremo quello che abbiamo detto proprio martedì durante l’incontro che ho avuto col direttore generale della Asl 1 di Sassari Scano e col direttore generale dell’azienda Brotzu Meloni. Nell’incontro convocato in precedenza e per discutere di altro, è stato naturale parlare dei trapianti e di quello che faremo: due poli di eccellenza per i trapianti, con un’unica équipe, in piena collaborazione. Sui dettagli, chiedete ai direttori generale che formuleranno la proposta assieme". - Il chirurgo "di fuori" poteva essere invitato anche prima. Non le pare infelice la scelta del momento? "Insisto nel sostenere che su determinati eventi c’è un’estenuante ricerca della polemica. Io credo che tutto quello che è burocrazia sarà messo a posto. C’è stata un’emergenza in un momento particolare, il sistema ha dato una risposta: e io ritengo sia stata quella che doveva dare". - Assessore, le polemiche sono scoppiate 24 ore dopo la tragedia dell’aereo dove sono morte sei persone, tre delle quali protagonisti di una lunga stagione di trapianti. "L’ho già detto: sarebbe d’obbligo un rispettoso silenzio, che non c’è stato. In certi casi entra in gioco la moralità e la coscienza dei singoli. Io non posso certo dare ordini affinché si faccia silenzio". - Non le pare che anche il clamore sul trapianto multiplo di martedì potesse essere rinviato? "Quando si è sotto l’occhio vigile della stampa non è facile tenere riservati certi eventi. Io spero che non ci siano state strumentalizzazioni. Ma credo anche che su certi argomenti ci vogliano l’educazione e la formazione per vedere i lati positivi e finirla con l’evidenziare sempre e solo il lato negativo". - E’ un suggerimento anche per lo scontro Meloni (manager) e Martelli (direttore del dipartimento Cuore) dove il primo ha sospeso il secondo per le dichiarazioni rese poche ore dopo la morte dei suoi colleghi-amici? "Non ho titolo per dare suggerimenti. Potrei solo cortesemente indicare quello che mi piacerebbe succedesse, ma nel più stretto riserbo". - Quindi non tenterà di capire come andrà a finire? "Senta, ancora oggi mi ritrovo a sperare che tutta questa vicenda non sia mai iniziata". (a. s.) ___________________________________________________________ La Nuova Sardegna 4 Mar.’04 I SINDACATI:"SUBITO LE AZIENDE MISTE" Sanità, intervengono le segreterie regionali di Cgil, Fp Uil e Fpl e i responsabili dei medici CAGLIARI. Anche le segreterie regionali di Cgil, Fp-Uil, Fpl e i responsabili regionali dei medici, intervengono per rimarcare l’importanza della costituzione delle aziende miste con le università di Cagliari e Sassari. E la loro protesta è successiva all’incontro con l’assessore regionale Roberto Capelli, al quale comunque hanno già comunicato la loro posizione per il grave ritardo del provvedimento. Le segreterie regionali hanno però sottolineato che le aziende miste, in quanto parte integrante della riorganizzazione di tutta la rete ospedaliera della Sardegna, non possono essere costituite con un atto a sè stante. Il consiglio regionale, secondo i sindacati, deve discutere e approvare la riorganizzazione dell’intera rete ospedaliera, trovando le giuste soluzioni e collocazioni per tutti i presidi ospedalieri, la eventuale costituzione di altre aziende ospedaliere (Nuoro, Oristano, Microcitemico e Oncologico di Cagliari), il ruolo dei piccoli ospedali, le aziende miste. "La proposta di azienda mista definita come stralcio dall’intera rete ospedaliera - sostengono i sindacati - rappresenta perciò una fuga in avanti di un pezzo del sistema che pregiudica l’equilibrio dell’intera rete. Una proposta sovradimensionata rispetto ai fabbisogni della Regione, con una attribuzione di posti letto in aumento rispetto a quelli già utilizzati dalle università, che contrasta con l’indicazione di riduzione generale dei posti letto per acuti, contenuta nella proposta approvata dalla maggioranza della commissione sanità del consiglio regionale". E’ definita "incomprensibile e ingiustificata la scelta di riconoscere la tariffa (Drg) di alta specialità per tutte le prestazioni dell’azienda mista. L’alta specialità riguarda ben specifiche patologie e con protocolli di intervento definiti da leggi e regolamenti, nessuno può fare arbitrarie promozioni sul campo. Peraltro è utile costo per tutte le prestazioni erogate. Un incremento dei costi della spesa sanitaria regionale di oltre 50 milioni di euro all’anno. La proposta - si legge ancora nella nota - non può tradursi in un escamotage per compensare i tagli del governo alle università attraverso l’utilizzo delle risorse destinate al servizio sanitario sardo: i tagli del governo riguardano anche lo stato sociale, sanità compresa". Le segreterie regionali giudicano "inaccettabile una ricetta che favorisce ingiustificati aumenti della spesa e si propone di fare cassa riducendo le prestazioni garantite dal servizio pubblico e tenendo in vigore i ticket sui medicinali. I lavoratori della sanità privata ricevono gli stipendi con ritardi insostenibili e la chiusura dei piccoli ospedali fa sempre moda e immagine di efficienza aziendalistica, anche se rappresentano appena 40 milioni di euro su una spesa di oltre due miliardi di euro". ___________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 Feb.’04 MISTRETTA: PIÙ FORZA ALL’UNIVERSITÀ o l’azienda mista non si farà "Le aziende miste nascono per garantire l’attività didattica e di ricerca. Se questo obiettivo diventerà secondario, costituire l’azienda non ci interessa". In un momento di stallo nella trattativa per la sigla del protocollo d’intesa tra Servizio sanitario e università per l’istituzione dell’azienda sanitaria con la Regione, il rettore Pasquale Mistretta lancia un messaggio chiaro agli interlocutori. Non minaccia rotture, chiarisce piuttosto ruoli, competenze, rapporti. Professore, l’accordo sembrava vicino. Che cosa è successo? "Che si è perso di vista lo spirito della legge 517 che stabilisce che le aziende miste devono garantire l’attività didattica e di ricerca". Invece? "Mi sembra che i pesi siano spostati verso le aziende ospedaliere". Può fare qualche esempio? "Bisogna dire le cose in modo chiaro. Noi portiamo in dote il Policlinico e la clinica pediatrica, cioè due gioielli, la Regione il San Giovanni di Dio. Noi portiamo docenti di prima fascia, loro una componente assistenziale che è sempre stata governata dai docenti universitari. Noi conferiamo laboratori di ricerca, loro di analisi cliniche. Tutto ciò che noi portiamo in dote è un patrimonio che non possiamo svendere e che loro non possono acquisire come fosse acqua fresca". Chi non vuole accettare questi principi? "Credo che Capelli l’abbia capito bene, ma ritengo che abbia bisogno di un supporto tecnico diverso perché quello che ha è evidentemente più spostato sull’azienda ospedaliera piuttosto che sull’azienda mista. E’ evidente che non ha gli strumenti politici". E chi dovrebbe affiancarlo nelle scelte? "Vorrei che fosse chiaro che l’assessore ha un ruolo di coordinatore e che se non si coinvolge il consiglio regionale, parlo soprattutto della commissione sanità, questo protocollo non passerà mai". E’ solo un problema politico? "Dò atto a Capelli di aver preso in mano con determinazione un problema difficilissimo più volte messo sul tappeto e sempre rinviato. Questo me lo fa considerare un interlocutore serio. Il problema è che nella commissione istruttoria taluno ha svolto il suo incarico con una mentalità burocratica e senza l’intelligenza che richiede un accordo in cui l’Università, che ha la presunzione di essere al top dell’intelligenza, è controparte". Ma a che punto è la trattativa? "A buon punto e siamo motivati ad andare al confronto con la commissione sanità del consiglio regionale per chiudere la vicenda prima delle elezioni. Ma non possiamo rinunciare a tre punti". Quali? "La valutazione dei criteri sul dimensionamento dell’azienda; il riconoscimento formale e sostanziale dello stato giuridico del nostro personale docente e non solo dal punto di vista contrattuale, ma soprattutto da quello della dignità e del ruolo nel lavoro; gli assetti finanziari, non i debiti e i crediti pregressi, ma il pericolo che le perdite possano ricadere sull’università senza che l’università sia coinvolta nella gestione e nel controllo". Non saranno le solite rivendicazioni baronali? "Guardi, sono un ingegnere e non difendo il baronato medico ma la facoltà di medicina e il futuro degli studenti e degli specializzandi. Difendo il loro diritto alla didattica e alla ricerca con il giusto numero di posti letto: tre per ogni studente del primo anno". Il suo è un ultimatum? "No, ma tutte le altre Regioni hanno già siglato il protocollo, noi siamo gli ultimi. E tutti danno il giusto ruolo all’università. Possibile che la Regione sarda sia l’unica che vuol fare un’azienda molto più ospedaliera con meno attenzione alle esigenze universitarie? Poi c’è un altro rischio". Qual è? Che se non si trova l’accordo entro 90 giorni dalla trasmissione della proposta regionale del protocollo d’intesa il ministro avoca la pratica". Fabio Manca Il decreto Le aziende miste sono disciplinate dal decreto legislativo 517 del 1999 che stabilisce il rapporto tra Servizio sanitario nazionale e università I protocolli d’intesa Devono promuovere e disciplinare l’integrazione dell’attività assistenziale, formativa e di ricerca tra Ssn e università; definire le linee generali della partecipazione delle università alla programmazione sanitaria regionale; indicare i parametri per individuare le attività e le strutture assistenziali complesse, funzionali alle esigenze di didattica e di ricerca dei corsi di laurea in Medicina e delle Aziende Usl per le attività di prevenzione; definire il volume di attività e il numero massimo di posti letto e di strutture assistenziali anche in rapporto al numero degli studenti e alle esigenze di ricerca Pianta organica Secondo il rettore dell’università, non sono stati valutati correttamente i criteri sul dimensionamento dell’azienda e sulla pianta organica; manca il riconoscimento formale e sostanziale dello stato giuridico del nostro personale docente e non solo dal punto di vista contrattuale, ma soprattutto da quello della dignità e del ruolo nel lavoro; non sono stati definiti gli assetti finanziari ed esiste il pericolo che le perdite possano ricadere sull’università senza che l’università sia coinvolta nella gestione e nel controllo Gli studenti Oggi gli studenti di Medicina e chirurgia sono 2262, di cui 1472 in corso e 635 fuori corso. Le matricole sono 170. Secondo le linee guida per i protocolli d’intesa Servizio sanitario-Università, per lo svolgimento delle attività didattiche e di ricerca il numero di posti letto messo a disposizione della facoltà di Medicina deve essere di tre per ogni studente iscritto al primo anno ___________________________________________________________ L’Unione Sarda 4 Mar.’04 LA SANITÀ SALVATA DAGLI OSPEDALI Mentre decade l’Università Chi scrive è un medico che fa parte di quella "componente assistenziale", citata dal rettore dell’Università di Cagliari Pasquale Mistretta, in un’intervista pubblicata il 21 febbraio, come controparte di scarso valore rispetto al patrimonio universitario rappresentato dai Professori di I fascia. Ringrazio il professor Mistretta della sua intervista che chiarisce, come poche volte accade, le reali intenzioni della parte universitaria nello stipulare l’accordo che dovrebbe legare i destini delle Aziende Usl e dell’Università, intenzioni peraltro già chiare per chi avesse letto la sua proposta di accordo. Il rettore afferma che "bisogna dire le cose in modo chiaro". E allora diciamo, per esempio, che il meraviglioso Policlinico di Monserrato è una cattedrale nel deserto, dove corsie e ambulatori sono mandati avanti da medici in formazione, gli specializzandi, oberati da responsabilità che non competono loro. Diciamo che, anche recentemente, proprio Mistretta ne ha minacciato la chiusura per mancanza di personale specialistico di guardia, situazione ora in parte sanata con l’assunzione a contratto di personale medico non universitario, ma comunque non in grado di far fronte alle urgenze, ancora prontamente trasferite nei vari reparti ospedalieri della città. Diciamo che la "componente assistenziale" del San Giovanni di Dio si prende cura della reale formazione degli specializzandi, nella condivisione delle funzioni di assistenza, assumendosi così i rischi professionali e umani connessi. Diciamo che i professori di I fascia (e, ritengo, anche quelli di II fascia) hanno fatto sì con il loro "lavoro" che l’Università degli Studi di Cagliari scivolasse agli ultimi posti nelle graduatorie di merito redatte dalla stampa nazionale. Diciamo infine che la "componente assistenziale" ospedaliera ha raggiunto in tutto il San Giovanni una preparazione eccellente, nonostante il "governo" dei Direttori universitari. Rammento, infine, che oggi la maggior parte della ricerca, che necessita di grandi numeri, è svolta in tutto il mondo anche all’interno dei presidi ospedalieri. Sarei peraltro curioso di conoscere il valore della produzione scientifica dell’ultimo decennio dei professori a cui il rettore si riferisce. Lo invito quindi a rileggere la proposta di accordo di cui si lamenta con un occhio più benevolo e rispettoso verso la "componente assistenziale", soprattutto nell’interesse di quella che ritengo essere la vera forza dell’Università: gli specializzandi. Vincenzo Nissardi Dirigente Medico Azienda Usl 8 Cagliari ___________________________________________________________ Il Giornale di Vicenza 3 Mar.’04 ECCO GLI ULTRASUONI PER CURARE LA PIORREA ODONTOIATRIA. La nuova tecnica «La malattia porta alla perdita dei denti» Gli ultrasuoni nuova frontiera della medicina: è indolore e non traumatico un nuovo metodo di terapia paradontale che consente oggi di curare la bocca aggredita dalla piorrea. La malattia, che colpisce persone over 40 anni e se non tempestivamente curata porta alla perdita dei denti, è ancora, indipendentemente dalla classe di appartenenza, una delle patologie socialmente più diffuse e, nella fase iniziale, più sottovalutate, nonostante gli effetti negativi che comporta per l'organismo. La piorrea, più correttamente la gengivite, come spiegano gli odontoiatri, è in parte «ereditaria», ossia c'è, in alcuni soggetti, una predisposizione ad ammalare. Tra i fattori scatenanti quello immunitario, tra gli aggravanti il fumo, ma soprattutto la mancanza di una corretta e sistematica igiene orale, incuria che determina la presenza, e lo sviluppo, di batteri nel «solco paradontale», ossia nello spazio fra dente e gengiva. Ristagno e cronicizzazione provocano poi quell'arretramento gengivale che porta al cosiddetto «allungamento» del dente il quale finisce per vacillare. Per anni, cercando di contrastare questo fenomeno, molti pazienti erano costretti a sottoporsi ad interventi, in anestesia locale, nel corso dei quali venivano praticati tagli ai lati dei denti interessati, ribaltata la gengiva verso l'esterno, che veniva poi pulita, riaccollata e suturata. Seguivano trattamento antibiotico e visite di controllo. Talvolta l'intervento doveva venire ripetuto, ma in ogni caso c'erano successivi sketing e levigatura delle radici dei denti da fare ogni sei mesi. Oggi si può trattare la gengivite, grazie ad attrezzature tecnologiche innovative, con una metodica definita «non traumatica», con protocolli di cura che prevedono, in base alla gravità della malattia, interventi differenziati non aggressivi. Per l'azione viene utilizzato un apparecchio che emette ultrasuoni controllati, a sviluppo longitudinale, cioè che corrono lungo l'asse maggiore del dente e, con movimento circolare, frantumano depositi di tartaro, drenano la «sacca» intaccata dai batteri e infine, sulla parte gengivale, tolgono il primo strato di cellule, infiammate o morte. L'intervento ha la durata di circa un'ora e va ad interessare entrambe le arcate dentali. La metodica, che non altera il ritmo di una giornata standard del paziente, prevede a distanza di un mese la visita di richiamo; nei mesi successivi trattamenti verranno regolati a seconda della gravità del caso. JolandaFontana ___________________________________________________________ La Repubblica 4 Mar.’04 TUMORE AL SENO,GOVERNO IN CAMPO PER AIUTARE LE DONNE A BATTERLO" Approvate dalla Camera tre mozioni di Ds, An e Lega. "Sforzo prioritario del servizio sanitario nazionale ROMA - A pochi giorni dall'8 marzo la Camera ha approvato, quasi all'unanimità, le tre mozioni presentate dai Ds, da Alleanza Nazionale e dalla Lega, che impegnano il governo «a considerare la lotta contro il cancro della mammella uno sforzo prioritario dell'azione strategica del nostro servizio sanitario nazionale». Una vittoria trasversale delle parlamentari donne che costringe adesso il governo e le Regioni ad organizzare, in tutte le aziende sanitarie locali, centri e servizi di senologia, specializzati nella lotta contro questa patologia. La prevenzione, la diagnosi, la cura, gli screening di massa, la terapia postoperatoria, l'educazione sanitaria, la garanzia della ricostruzione plastica dell'organo: tutto, questo almeno il significato del voto di Montecitorio, deve avvenire a spese del servizio sanitario nazionale. In linea col piano oncologico nazionale dovranno essere incrementati i finanziamenti per la ricerca scientifica, che significa nuovi farmaci, nuove tecnologie strumentali di diagnosi, predisposizione familiare, protocolli diagnostico-terapeutici. E significa anche promuovere l'informazione corretta e psicologicamente attenta nella comunicazione della diagnosi al malato, nelle scuole e nei luoghi di aggregazione. «E' questa la strada per salvare sempre più donne da una malattia che colpisce nel fisico e nella propria identità - spiega la diessina Marida Bolognesi, prima firmataria della mozione. - Una malattia da cui è possibile guarire, come suggeriscono le indicazioni dell'Organizzazione mondiale della sanità e dell'Unione europea. La prevenzione deve diventare un diritto di tutte le donne, in ogni regione, senza differenze. E' inammissibile che in molti ospedali si continui ad asportare la mammella perché manca la rete di sostegno alle cure di tipo non invasivo». Ora dovranno essere organizzati in ogni Asl centri di senologia per la diagnosi e cura I CASI In Italia 36.000 nuovi casi di tumore al seno l'anno, 11.000 le vittime LA DIAGNOSI – 60% Nel 2003 individuato il 60% dei casi di malattia allo stato iniziale (15% nel `93) GUARIGIONI – 80% Nel 2003 guarite 8 donne su 10 con tumore al seno (4 su 10 nel 1950) IN EUROPA Ogni anno 300.000 casi di tumore al seno. Mortalità: 80.000 casi l'anno ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Mar.’04 LA GENETICA HA SPICCATO IL VOLO Dai microarray alla proteomica: la ricerca avanza a passi da gigante verso una comprensione migliore dell'essere vivente di Alessandro Quattrone Pensate a cosa deve essere successo nella testa del fisico Jean-Francois Pilatre de Rozier e del marchese Francois d'Arlandes quando il 21 novembre del 1873 i due uomini presero quota al centro di Parigi dentro una mongolfiera, e volarono fino ai sobborghi. In quei 25 storici minuti essi videro per la prima volta, dall'alto, cos'era una città. Videro, in verticale, i tetti delle case di Parigi, dei palazzi; videro le strade e le piazze, abbracciarono la vita pulsante della metropoli nell'insieme, come mai nessuno aveva fatto. Se si fossero portati una mappa e ne avessero avuto il tempo, avrebbero potuto rapidamente dare un nome a ogni edificio, a ogni incrocio, a ogni statua, a cose che prima chiunque aveva visto bene, si, ma separatamente, una per volta: avrebbero avuto la perfetta visione della città: totale e al contempo dettagliata. Pensate ora che nella testa di Patrick Brown e dei suoi collaboratori a Stanford, nei primi mesi del 1996, deve essere successo qualcosa di simile. Questo gruppo di ricerca l'anno prima aveva trovato il modo di "vedere" l'espressione di una manciata di geni, 25, contemporaneamente, e qualche mese dopo era già in grado di salire su una "mongolfiera" che consentiva di osservare dall'alto l'espressione di un intero genoma, quello - composto "solo" da 6mila geni - di un organismo semplice, il lievito di birra. La mongolfiera di Pat Brown si chiamava microarray, ed era in sostanza una griglia di minuscole sonde stampata su un vetrino, ciascuna sonda capace di interrogare un singolo gene. Ci volle qualche tempo perché si cominciasse a capire quello che stava accadendo. I ricercatori, prima, erano abituati a camminare a piedi per le strade della genetica cellulare: vedevano quel palazzo - quel gene - e girandoci intorno ne studiavano i rapporti con le altre case del rione; poi magari, dopo qualche anno, si spostavano, e facevano visita a colleghi che lavoravano in un altro sobborgo della città cellulare. Le strade destavano da sempre grande interesse, perché, esattamente come in una città di mattoni, senza comunicazione non c'è vita, e allora, ad esempio, anni passati a svelare palmo a palmo le strade percorse da certi veicoli, le proteine segnalatorie, che si spostano da un rione all'altro per trasferire carichi di informazione. Le mappe del genoma. Un lavoro difficile, da certosini, anche perché per trent'anni e più nessuno aveva mai immaginato quanto davvero grande fosse la città; nessuno disponeva, come poteva già fare il marchese d'Arlandes nel suo volo su Parigi, di una mappa completa del genoma. Per fortuna quelle mappe arrivarono proprio nel momento giusto: prima il genoma di lievito, nel 1996, poi quello del moscerino della frutta nel 2000, e infine, la storia è nota, agli inizi del 2001 quella del genoma umano. Addirittura prima di Brown, intorno al 1990, un fisico con spiccate attitudini imprenditoriali aveva cominciato a costruire un aerostato genetico più sofisticato, utilizzando per fare le sue griglie la stessa tecnologia impiegata per stampare i microprocessori dei computer: quel signore si chiamava Stephen Fodor, era californiano, e oggi è il chief executive officer di un'azienda quotata in Borsa che da poco produce un microarray, un chip di un centimetro di lato, capace di leggere accuratamente tutti i circa 35mila geni del genoma umano. Questa azienda che, nel suo ambito, ha velleità monopolistiche non dissimili da quelle di Bill Gates, si chiama Affymetrix ed è strenuamente tallonata da altre, emanazioni dirette o indirette di multinazionali, in una corsa che sta inondando il mercato degli strumenti per la ricerca biomedica, e che è destinata a travalicame presto i confini. Il volo. Ma torniamo alla nostra mongolfiera. In quegli anni di grande eccitazione e di un poco di sbigottimento qualche buontempone si mise a fare un po' di conti, mostrando ad esempio che per quello che facevano i microarray di Brown e di Fodor in tre giorni a uno scienziato sarebbero occorsi con il vecchio metodo dell'esplorazione a piedi (e a fare in fretta) circa 300 anni, con un costo superiore di tre ordini di grandezza. Ma non è questo il punto, non è per questo che sta nascendo una nuova scienza, destinata davvero a cambiare la vita di tutti nei prossimi decenni. Quando abbiamo detto che Fodor e Brown vedevano i geni come de Rozier e d'Arlandes più di un secolo prima le case di Parigi, quella era un'approssimazione: i nostri eroi, e i loro colleghi chiusi nelle mura dei laboratori di tutto il mondo, vedono molto di più. Intanto non hanno ormai quasi più il problema della perdita di definizione: se il pallone si alza ad abbracciare le 35mila casette del nostro genoma non si rischia più di perdere molti dettagli. Poi in realtà non si vedono i geni ma, come si è accennato, la loro espressione, ovvero si vede non le case ma .;Se nelle case la luce è accesa o no, se c'è riscaldamento; si vede insomma l'attività, anche se in un modo un po' indiretto, perché si quantificano i cosiddetti Rna messaggeri, che sono i vettori intermedi della funzione dei geni. I responsabili finali di questa funzione sono le proteine, e il bello è che sta montando, un poco in ritardo rispetto ai microarray, un'altra onda tecnologica, quella che comincia a permettere di identificare e quantificare proprio le proteine, da una per volta come un tempo a decine e centinaia, e presto a migliaia, fino a vederle tutte (e sono molte, forse il triplo dei geni, perché in media un singolo gene produce tre varianti proteiche). Ma non solo: i geni stessi, la loro struttura fine, sono letti da altre particolari griglie che arrivano a riconoscere i singoli nucleotidi, o basi, le unità chimiche elementari che li compongono, tre miliardi nel genoma umano. Questo vuol dire poter identificare presto ogni alterazione, quelle che danno malattia c che sono a malattia associate, e quelle che semplicemente fanno la differenza genetica - somatica, in certa misura anche comportamentale - fra individui. E infine qualcuno sta trovando il modo di vedere nell'insieme quel che nella cellula rimane, oltre ai geni, gli Rna e le proteine: le piccole molecole, i metaboliti, le sostanze chimiche che vengono elaborate e consentono l'espletamento delle funzioni vitali. Le mongolfiere. Questi approcci sono accomunati da una espressione di moda. high throughput, che starebbe più o meno per alta processività, e da una costellazione di suffissi "-omici", che il lettore troverà sempre più disseminati per la pubblicistica anche non scientifica: genomica, trascrittomica, proteomica, metabolomica. Non si allarmi: per ora questi non sono che mongolfiere specializzate, che prendono la forma di macchine per microarray, di sequenziatori paralleli, di spettrometri di massa, di diavolerie per i metaboliti, e che stanno trasformando i laboratori di ricerca dalle buone botteghe artigiane di una volta in fabbriche un po' impersonali, dove sempre meno ricercatori e sempre più squadre di tecnici si aggirano fra ordigni del valore di milioni di euro. Una fotografia senz'anima. Questi voli aerostatici ipertecnologici, di fatto, stanno generando una massa enorme di informazioni fotografiche ad alta definizione sullo stato di tutti i componenti delle cellule: una visione sempre più perfetta, totale e al contempo dettagliata, ma ancora senz'anima. In altre stanze, quelle sempre più ampie della bioinformatica, altri ricercatori più propensi alla vita contemplati va che all'attività ascensionale stanno cercando di mettere insieme le informazioni per carpire pezzi di quest'anima, e per ora, francamente, ci riescono piuttosto male. La frontiera. La posta in gioco è il sogno delle scienze della vita: è la comprensione olistica, integrale e integrata, di un sistema vivente. È la nuova scienza, che alcuni chiamano genomica funzionale e altri biologia dei sistemi. Ma i nomi importano poco, quel che importa è che se c'è qualcosa che ci permetterà di sconfiggere, dopo le malattie infettive, quelle degenerative, dal cancro all'Alzheimer al diabete, e di allungare - per chi lo desideri - la vita combattendo efficacemente l'invecchiamento cellulare, e di controllare gli ecosistemi tamponando gli squilibri, e di produrre a volontà con metodi biotecnologici sostanze che ci servono per alimentarci o curarci, e altro ancora, questo qualcosa è il giocattolo della biologia dei sistemi. Perché possiamo davvero cominciare a usare questo giocattolo deve succedere qualcosa nella testa, qualcosa d'altro rispetto a quanto è successo in quella dei pionieri aerostatici o dei primi astronauti, e la nostra testa, per quanto sofisticata, è curiosamente più restia ai cambiamenti di quanto non lo siano le tecnologie nella loro travolgente evoluzione. Non dubitate che è solo questione di tempo, perché si comincia a intravedere la via giusta, che viene, tra l'altro, da territori scientifici impensati. Nel frattempo godetevi, come avrà fatto certamente il marchese d'Arlandes levitando sulla Ville Lumière, il paesaggio. E come dicono gli americani, che di queste cose se intendono: stay tuned. State all'erta, che ne accadranno delle belle. Accelerazione Oggi in 3 giorni si fanno studi che prima avrebbero richiesto 300 anni Le tappe Tutto cominciò nel 1996 quando venne mappato il menoma del lievito L'INTERVISTA LA VERA STORIA DELLA SCOPERTA DEL DNA Recentemente, durante una delle tante occasioni per celebrare l'anniversario del Dna, Jim Watson (scopritore insieme a Francis Crick della struttura della molecola alla base dell'ereditarietà) si è scusato con Maclyn McCarty. McCarty, 93 anni, è professore emerito alla Rockefeller University di New York ed è stato protagonista, insieme a Oswald Avery e Colin Mac Leod, della dimostrazione che il Dna è effettivamente il portatore del materiale genetico e che è un comune denominatore, cioè il codice segreto che attraversa tutti gli esseri viventi, da un microbatterio all'uomo. Gli esperimenti di Avery-MacLoad- McCarty furono pubblicati nel 1944, segnando una pietra miliare della scienza moderna. La prima pubblicazione, di una lunga serie, terminava con queste parole: «Il materiale qui presentato conferma l'ipotesi che un acido di tipo desossiribonucleico costituisce l'unità fondamentale della sostanza di trasformazione derivata dal pneumococco di tipo III». Watson e Crick nel loro storico lavoro del 1953, dove rivelarono la struttura a doppia elica del Dna, non avevano fatto alcuna menzione della scoperta del team americano. Che cosa si sapeva prima della vostra pubblicazione in «The journal of experimental medicine», nel febbraio del 1944? Nonostante la scoperta del Dna risalisse alla metà del secolo precedente, si sapeva pochissimo a proposito della sua attività biologica. Studi chimici su gli acidi nucleici avevano suggerito per essi una bassa eterogeneità e un piccolo numero di componenti. L'idea era che non avessero l'eterogeneità necessaria a trasferire l'informazione genetica. Per questo era molto radicato il pensiero che fossero le proteine gli elementi costituenti i geni. Come è cominciato il vostro lavoro? Il lavoro è nato studiando la polmonite batterica e facemmo molti esperimenti prima di essere sicuri di quello che avevamo. Nel 1928, il patologo inglese Frederick Griffith aveva fatto una scoperta molto importante: l'iniezione di pneumococchi vivi, non virulenti, associati a un preparato indebolito di cellule virulente provoca la morte dei topi così trattati, dai quali si possono poi isolare organismi virulenti; analoghe osservazioni inerenti tale processo, designato come trasformazione batterica, vennero effettuate anche in provetta. Era chiaro che le cellule lisce virulenti dovevano contenere qualche sostanza capace di trasformare permanentemente e in linea ereditaria la coltura di batteri ruvidi non virulenti, e precisamente in una specie di cellule che assomigliava agli organismi dispensatori lisci virulenti. A questo punto entrate in gioco voi. Seguirono dieci anni di intenso lavoro. Avery e MacLeod avevano cercato di eliminare tutte le possibili cause di trasformazione, come I'Rna e le proteine. E un punto interessante è che non sapevano di avere Dna negli estratti fina ai sei mesi prima che io arrivassi, nel 1941. E poi continuammo con tutti i controlli necessari. Eravate consapevoli della portata sensazionale della vostra scoperta? In un certo senso si. Quadrava con il fatto che si sapeva che il Dna costituiva parte dei cromosomi nelle cellule superiori. Però, la maggior parte dei genetisti di allora non riconosceva nei batteri lo stesso percorso vitale degli esseri superiori. Concettualmente fu difficile da digerire. Non si era pronti ad accettare che il Dna fosse lo stesso in tutti gli organismi. E molti continuarono a pensare che fosse costituito da proteine. Quando è stato accettato? Irwin Chargaff, alla Columbia, fu tra i primi ad apprezzarne la portata e si dedicò all'analisi degli acidi nucleici dimostrando che erano simili. E poi venne lo studio strutturale di Watson e Crick, che ha tracciato, anche se più lentamente di quanto si pensi, le fondamenta per gli sviluppi moderni successivi. Che effetto fa essere uno dei tre scopritori di una delle tappe della scienza che si traducono oggi nel Progetto genoma umano? Per me è soprattutto straordinario vedere gli sviluppi raggiunti in tutti questi anni. E tracciare le tappe. Prima la sequenza, poi la clonazione, divenuti strumenti ormai di routine in ogni campo della biologia, dalla immunologia alla neurobiologia, dalla biologia dello sviluppo alla biologia vegetale. Alla fine degli anni 40, mi sono allontanato dalla ricerca originaria per avvicinarmi di più a quella clinica e sono sbalordito e compiaciuto del fatto che queste tecniche siano indispensabili anche in campo medico, per capire e concepire trattamenti per le malattie più diverse. Marta Paterlini I( Nobel Jim Watson si è scusato con Maclyn McCarty: ipotizzò, 10 anni prima di lui il ruolo della doppia elica ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 Feb.’04 I GRANDI PROGRESSI CONTRO LA LEUCEMIA di Franco Mandelli I progressi realizzati negli ultimi anni nella diagnosi e nella terapia di leucemie, linfomi e mieloma sono entusiasmanti. Nuove terapie si affiancano alla chemioterapia, alla radioterapia, al trapianto di cellule staminali che mantengono il loro ruolo fondamentale ma che non sono più l'unica strada da seguire. L'Ail, l'Associazione italiana contro leucemie, linfomi e mieloma, ha ritenuto quindi indispensabile e urgente far conoscere a tutti, malati e non malati, i progressi già realizzati e quelli prevedibili per un prossimo futuro. Con l'iniziativa «II futuro che c'è: la nuova sfida contro i tumori del sangue» ha presentato un manifesto sottoscritto da politici, personaggi della cultura, dell'arte, dello spettacolo, medici e scienziati. Le nuove terapie. La ricerca di base e quella applicata alla clinica hanno compiuto passi da gigante e stanno bruciando le tappe con nuovi farmaci che hanno dato risultati talmente damorosi da consentire, in alcuni casi, un rapido trasferimento dalla ricerca di base alle applicazioni cliniche. Uno straordinario cambiamento è stato realizzato nella cura di una particolare varietà di leucemia acuta, la leucemia promielocitica, forma molto aggressiva che sino a pochi anni fa era la più grave delle leucemie acute con la morte dei pazienti nella maggioranza dei casi e che ora invece ha un'elevatissima percentuale di guarigioni (oltre il 70%). Questo cambiamento radicale è stato realizzato grazie all'impiego di un derivato della vitamina A, l'acido retinoico, che elimina la malattia non uccidendo le cellule leucemiche, ma facendole maturare e quindi ritornare normali. La combinazione di questo farmaco con i chemioterapici più atti vi, ha consentito di ottenere risultati impensabili e ha aperto la strada alla ricerca di nuovi farmaci che agiscano con lo stesso meccanismo, cioè quello di differenziare le cellule neoplastiche senza colpire le cellule normali. Farmaci mirati. Lo stesso principio di poter utilizzare farmaci mirati di scarsa tossicità che non compromettano le cellule normali ma che siano diretti soltanto, o prevalentemente, contro le cellule neoplastiche è stato realizzato con la sintesi di proteine dotate di attività anticorpale contro antigeni presenti nella cellule neoplastiche. Gli anticorpi si fissano agli antigeni ed eliminano le cellule che li esprimono. Un primo anticorpo sintetizzato e ampiamente utilizzato in clinica è l’anti Cd20 diretto contro l'antigene Cd20 che è espresso nelle cellule linfatiche di tipo B. L'applicazione in terapia di questo anticorpo, impiegato sia da solo sia in combinazione con chemioterapici, ha consentito di ottenere risultati estremamente validi con aumento delle risposte terapeutiche e della possibilità di sopravvivenza e di guarigione. Questo farmaco è molto attivo anche nella leucemia linfatica cronica e in altre neoplasie ematologiche. Va sottolineato che rispondono al trattamento anche pazienti recidivati e non più rispondenti alla chemioterapia. Sono in sperimentazione, con risultati preliminari molto interessanti, nuovi anticorpi diretti contro antigeni presenti su cellule linfatiche di tipo T e anticorpi coniugati con isotopi radioattivi che ne aumentano l'attività nei confronti delle cellule neoplastiche. È già impiegato in protocolli terapeutici un anticorpo diretto contro un antigene (Cd33) presente sulle cellule della leucemia mieloide acuta con risultati positivi anche in pazienti anziani. Un altro campo di ricerche è quello dei farmaci che interferiscono nei meccanisnv che stanno alla base della trasformazione delle cellule normali in cellule neoplastiche. II prototipo di questi farmaci è l'imatinib, già in commercio per la terapia della leucemia mieloide cronica. La sua attività consiste nel blocco della tirosinchinasi, enzima che trasforma la cellula normale in cellula leucemica favorendone la proliferazione e la moltiplicazione. La risposta a questo farmaco si ha nella quasi totalità dei pazienti con leucemia mieloide cronica con normalizzazione dei valori ematologici e scomparsa dei sintomi della malattia; ma soprattutto si ha una risposta a livello citogenetico, con scomparsa dell'alterazione cromosomica (il cromosoma Philadelphia) tipico di questa malattia e riduzione sensibile dell'alterazione molecolare. Questa terapia consente di usare il trapianto di cellule staminali da donatore compatibile solo nei casi non rispondenti all'imatinib, in quelli in cui compare una resistenza o in quelli che evolvono verso una forma acuta molto più grave. Staminali. Anche per quanto riguarda l'impiego di cellule staminali nelle neoplasie ematologiche, la ricerca sta cambiando lo scenario. Attualmente infatti abbiamo a disposizione non solo le cellule staminali di un fratello compatibile, ma anche quelle dei donatori volontari e quelle del cordone ombelicale, così che si può ricorrere al trapianto allogenico in circa il 60% dei pazienti. Inoltre, il limite al suo impiego legato alla tossicità è superato dall'utilizzo di trattamenti chemioterapici pretrapianto cosiddetti d'intensità ridotta, di minore tossicità e con un'efficacia dovuta più a un effetto immunoterapico contro le cellule neoplastiche che a un'efficacia antineoplastica diretta. * Professore di ematologia all'Università La Sapienza di Roma Acido retinoico, anticorpi e nuovi farmaci aprono straordinarie possibilità nella lotta alla malattia ___________________________________________________________ Le Scienze 6 Mar.’04 NUOVI POSSIBILI FARMACI ANTICANCRO Il recettore IGF-1R è attivo anche nelle cellule sane Alcuni scienziati hanno scoperto un nuovo sorprendente bersaglio per i farmaci anticancro: una molecola di segnalazione cellulare che viene usata sia dalle cellule dei tumori sia da quelle sane. Bloccando la molecola si ostacola la crescita di un gran numero di tumori, compresi alcuni che resistono alla maggior parte dei farmaci oggi disponibili, senza danneggiare le cellule sane. Lo studio è stato descritto in un articolo pubblicato sul numero di marzo della rivista "Cancer Cell". Tradizionalmente i ricercatori che studiano possibili farmaci anticancro si concentrano sulle vie di segnalazione molecolari che malfunzionano nelle cellule dei tumori. Per questo motivo, hanno sempre ignorato il recettore IGF-1R (insulin-like growth factor receptor), anche se già sapevano che i tumori ne hanno bisogno per crescere e diffondersi. A differenza di altri potenziali target di farmaci, il funzionamento di IGF-1R appare normale nella maggior parte dei tumori. E poiché viene usato anche dalle cellule sane, i ricercatori ritenevano che bloccandolo si sarebbero distrutte anche quelle. Gli scienziati dell'Istituto oncologico Dana-Farber di Boston, negli Stati Uniti, e dell'istituto di ricerca biomedica della Novartis di Basilea, in Svizzera, hanno invece deciso di studiare meglio il processo. Somministrando una molecola che inibisce IGF-1R a topi cui erano state iniettate cellule tumorali umane, si è osservato un rallentamento della crescita dei tumori e gli animali sono sopravvissuti più a lungo.