UNIVERSITÀ-MORATTI, UN MOSTRO DI DISUGUAGLIANZA - UNIVERSITA’: LA RIFORMA NON BASTA - LA MIA UNIVERSITA' SCOMPARSA - COME MIGLIORARE RICERCA E DIDATTICA - BRICIOLE PER LA RICERCA, RISCHIAMO LA SERIE B - LO STATUS QUO DELL'UNIVERSITÀ È PESSIMO - LE RIFORME E LE CORPORAZIONI - ATENEI, RIFORMA APERTA AI CAMBIAMENTI - ATENEI, RISORSE A CHI LAVORA MEGLIO - UNIVERSITÀ, SVOLTA IN VISTA PER I FONDI - II MODELLO GIUSTO? QUELLO DELL'IIT - RICERCA: L’ITALIA E' ANCORA ULTIMA - RIFORMA: ORE DI INGLESE DIMEZZATE - CAGLIARI. I DATI: PRECARI 2500, EFFETTIVI 2400 - IL 60% DEI LAUREATI TROVA LAVORO IN UN ANNO - I MASTER EUROPEI SI PRESENTANO A ROMA - SIAMO IL POPOLO DELLE INVENZIONI INUTILI - ===================================================== ACCORDO REGIONE-UNIVERSITÀ SULL’AZIENDA SANITARIA MISTA - L'AZIENDA MISTA NON CONVINCE SINDACATI E MEDICI - TROPPE MODIFICHE A FAVORE DEGLI UNIVERSITARI - AZIENDA MISTA: GLI ULTIMI "PACCHI DI PASTA" - ORA VI DICO PERCHÉ MUORE LA SANITÀ SARDA" - DOTTORANDI, ECCO LE PROMESSE DI RISTRETTA - SPECIALIZZANDI: SIAMO I MANOVALI DELLA SANITÀ" - MISTRETTA TENTA DI BLOCCARE SORU - INFERMIERI, È CRISI DELLE VOCAZIONI - RIAPERTA LA PARTITA SUI 25MILA MEDICI SPECIALIZZANDI - LA CLINICA OSTETRICA DI CAGLIARI 4 IN RICERCA - MAI PIÙ MEDICINE CONTRAFFATTE - BRACCIALETTI «INTELLIGENTI» AL SAN RAFFAELE - UNA RICERCA RIABILITA LA NICOTINA - NON SPARATE SULLA CLONAZIONE - CURARE LA CALVIZIE CON LE STAMINALI - ===================================================== ___________________________________________________ L’Unità 17 mar. ’04 UNIVERSITÀ-MORATTI, UN MOSTRO DI DISUGUAGLIANZA La denuncia del professore: «La riforma é una mannaia sui bilanci degli atenei». La storia relegata Luciano Canfora: docenti ridotti a semplici tecnici. La ricerca? Produrrà solo notizie di seconda mano un cassetto: «Rischiamo l'incoscienza civile» Wanda Marra ROMA «C'è un brano di Giacomo Leopardi, che descrive perfettamente il nostro tempo. Si tratta del Dialogo di Tristano e di un Amico, una delle Operette morali, dove il concetto di decadenza è molto forte. Dove si parla di non necessario progresso». Leopardiano> pessimista, Luciano Canfora, ordinario di Filologia greca e latina presso l'Università di Bari, studioso della storia e della filosofia antica, storico da sempre appassionato alla battaglia delle idee, ha una prospettiva originale e composita anche sulla situazione dell’università. Dalla riforma targata Morattí alla rivolta di tutte le categorie della docenza. Professore, possiamo parlare di sfascio dell'università italiana? «La cosa più grave oggi è l'inadeguatezza delle strutture materiali e l'errore gigantesco dell'impostazione dei programmi di studia, quanto mai riduttiva e lontana da quel che dovrebbe essere l'università». Quali sono i punti più critici del progetto Moratti di riforma dell' università? «Il progetto Moratti ha 2 0 3 punti a mio avviso erronei. La distinzione tra tempo pieno e tempo definito che comporterà un aggravio di spesa, perché viene fatto un grazioso dono ai colleghi che fanno la libera professione di quel pezzo di stipendio che prima non riscuotevano. Questo dovrà venir fuori o dai bilanci universitari o dal ministero. Comunque è un aggravio assolutamente indebito e che fa a pugni con l'altra idea morattiana di ingigantire la cosiddetta adidattica frontale». Non si capisce dove uno che fa la libera professione possa trovare il tempo di fare le 120 ore di lezione che la Moratti prefigura. L'altra cosa grave è quella della eterna precarietà degli insegnanti. L'idea che non c'è mai un approdo conclusivo e che questo dovrebbe servire ad indurre i docenti a continuare a studiare mi pare erronea e inutilmente punitiva. Capisco che il riformatore pensa ai modi del reclutamento, ma non si rimedia cosi». Cosa suggerirebbe lei, come metodo di reclutamento? «Un modello molto semplice è quello del mondo tedesco, dove c'è una facoltà che ti chiama. Con un'unica clausola: non può essere quella da cui provieni». Cosa ne sarà dell'università se passa la riforma Moratti? «Diventerà definitivamente un paraliceo. E più che mai si cercherà di creare isole sublimi qua e là, con una totale disuguaglianza. Verrà ridotta a un ruolo minore, mentre la scienza vera si farà da un'altra parte, abbassando í contenuti e la qualità. L'università dovrebbe essere il posto dove (a ricerca si trasforma in insegnamento: se è solo una fabbrica di notizie di seconda mano diventa un'altra cosa». Quali saranno le conseguenze se si afferma questo modello di formazione? «Una parcellizzazione totale. Un operatore sarà poco più di un tecnico del computer e quindi diventerà suddito invece che cittadino. Con la conseguente dequalificazione dei soggetti che poi decidono. Qualsiasi rais potrà diventare un capo. Tra gli strumenti di formazione di massa, il più importante è la televisione: poteva essere un raggio di luce, invece è il contrario. Comunque, non c'è un grande vecchio che ha orchestrato tutto. È piuttosto come il fiume che scava il suo letto... ». Si parla molto di quel che sarà il destino delle facoltà scientifiche. Cosa ne sarà invece di quelle umanistiche? «Le persone intorno al ministro hanno un orientamento prettamente tecnologico, ma questo accadeva già nell'epoca Zecchino Berlinguer quando i matematici dicevano che il sistema delle lauree brevi (il cosiddetto 3+2) andava bene per matematica. È un sistema che in realtà va malissimo, perché è un abbassamento drastico di livello che colpisce gli studenti in manie ra immotivata. II problema> insomma, è il meccanismo nel suo insieme. Valutare l'importanza delle discipline è pericolosissimo perché si può cadere in una mentalità economicistica> per cui ciò che non è immediatamente redditizio non ci interessa. Penso che questo ragionamento sia incombente e che ci penalizzerà. Ma io non sono di quelli che si mette a piangere in nome della disciplina x o y. Ogni disciplina avrà modo di vivere di non vivere. Questo dipende da noi». Cosa succede in una società che non riconosce il valore dell'antichità, della tradizione? Che non ha il senso della memoria? «Si perde il senso e la percezione della storia: se c'è scarso senso delta storia c'è anche una pessima politica, un'incoscienza diffusa, la possibilità di ripetere errori. Io sono del parere di Leopardi: so solo quello che so a memoria. Gli insegnamenti che prescindono dai dati di fatto sono quasi inutili». $ vero, come si dice, che una protesta come questa non si vedeva da trent'anni? «Un tempo in Parlamento erano presenti esponenti del ceto universitario di un certo prestigio e si parlava di lobby universitaria. Oggi questo non è e quindi la mobilitazione è molto più difficile. Ma il potere sa reggere anche crisi del genere e aspetta che passi. È il Parlamento che dovrebbe essere investito di questa questione». ___________________________________________________ La Stampa 19 mar. ’04 UNIVERSITA’: LA RIFORMA NON BASTA RICERCA, PRIVATI, BUROCRAZIA: COME CAMBIARE L’UNIVERSITÀ SENZA DISTRUGGERLA Giuseppe Sergi [CL801']L’INVITO a discutere del presente della nostra università, del cosiddetto «tre più due» e del rapporto fra insegnamento e ricerca non poteva giungere da fonte più autorevole. Dei due autori dell'articolo del 7 marzo uno, Raffaele Simone, in un libro del 1993 denunciò i difetti della vecchia università e in particolare l'assenteismo dei docenti: non è dunque sospettabile di essere un nostalgico, così come nostalgici non erano gli oltre 100 docenti che nel 1996 sottoscrissero un documento che, partito dalle università di Pisa, Pavia e Torino, rispondeva con responsabilità a un necessario «che fare» con suggerimenti molto lontani da un orientamento riformatore che inesorabilmente cominciava allora ad accomunare sinistra e destra. Che 70 studenti su 100 abbandonassero l'università prima di laurearsi era indubbiamente un problema grave. Ma, nell'affrontarlo, si poteva scegliere una strada impegnativa (quella degli interventi sulla struttura, sui servizi, sulle prestazioni dei docenti) e una elementare (quella di abbassare le soglie di difficoltà). Era forse inevitabile - ma inopportuno - che se ne scegliesse una intermedia, con entrambe le ispirazioni. Era necessario fare tesoro delle indicazioni che provenivano dagli scambi Erasmus con le università europee: con studenti stranieri che a noi apparivano forniti di una poverissima cultura (in tutti i settori) e studenti italiani spesso collocati d'autorità (dai nostri colleghi francesi, inglesi e spagnoli) in seminari di dottorato anziché nei corsi di primo livello. Questo è un elemento largamente ignorato dall'opinione pubblica. Non dimentichiamo che la «fuga dei cervelli» di cui tanto si parla è causata, sì, da assenza di posti in Italia, ma anche dalla «domanda» di università straniere che evidentemente apprezzano gli studiosi formati in Italia. Il senso comune, come sempre, o è pigro o è pilotato. Soprattutto in tema di rapporto fra ricerca e insegnamento la malafede si intreccia con l'ignoranza: nel fare confronti spesso sciocchi quanti, ad esempio, sanno che le università e gli istituti di livello universitario in Italia sono 77 e negli Stati Uniti sono 4.200? (si può immaginare con quali abissali squilibri qualitativi). Tra le colpe, numerose e varie, dei docenti e dei ricercatori dell'università italiana, sembra che vi sia quella di avere affossato l'innovazione tecnica della nostra industria, rifiutandosi di collaborare con il dinamico mondo imprenditoriale che li circonda. Curiosa gente, questi professori italiani! chiusi nel chiostro immateriale dell'accademia, si perdono dietro a fantasmi culturali di nessuna utilità pratica. Una tale situazione non è compatibile con la logica dell'azienda-paese, né con la competizione aperta in libero mercato. Che la nostra industria conosca problemi di innovazione del prodotto è dato certo; nell'ultima classifica sull'innovazione tecnologica il nostro paese figurava, orrore, dietro la Thailandia. Il senso comune ha pochi dubbi sulle responsabilità dei professori universitari: sembra sufficiente un rapido confronto con gli Stati Uniti per rendersi conto di quale abisso separi il centro dell'impero dalla periferia, se non altro perché da qualche tempo intervengono a ricordarcelo alcuni luminari che nel centro dell'impero si trovano, pur essendo del nostro stesso sangue. Per farla breve, occorrono idee forti e il coraggio di metterle in atto. L'attuale architettura universitaria, basata sulla continuità delle scuole scientifiche, va destrutturata, perché ha carattere autoreferenziale. Si può intervenire in molti modi: facendo mancare i finanziamenti, mettendo in piedi strutture improvvisate, formando tra lo stesso personale universitario una categoria di controllori, o aspiranti tali, che faccia riferimento a un potere esterno all'università. Usciamo dallo scherzo e ammettiamo che rimarrebbero alcuni problemi da risolvere anche in un'università completamente rinnovata. Neppure tutti i professori attuali appartengono alla categoria degli accademici puri di cuore. Una buona parte di essi accetterebbe di buon grado di partecipare a un qualsiasi progetto di innovazione industriale, purché fosse retribuito: il guaio è che nessuno chiede la loro collaborazione. Il mondo imprenditoriale italiano è alieno dall'idea di un investimento a lungo termine, di esito incerto, come quello richiesto dalla ricerca innovativa; in parte per carenza di capitali, nella piccola e media impresa, in parte per una cultura radicata che rifugge dal rischio. Negli Stati Uniti a far la differenza concorrerà forse l'etica puritana, ma anche un dato politico e sociale di rilievo: l'esistenza di un complesso integrato di industrie, organizzazioni politiche e militari, università e mezzi di comunicazione di massa che ruotano attorno all'affermazione mondiale di un modello. Questo strabordante potere è in grado di convogliare un flusso continuo di denaro pubblico, che circola sotto il segno della necessità superiore, la sicurezza nazionale (si pensi a studio, sviluppo e produzione di nuove armi), e risolve alla radice la difficoltà di investimento a lungo termine dei privati. In questo fiume scorre di tutto, la truffa come la ricerca di avanguardia, e vi nuotano dentro vari studiosi di valore, ma il contesto tuttavia è determinato dal fiume. Non abbiamo nulla di simile in Italia. Ignorandolo, procediamo a tentoni, e sprechiamo un patrimonio a basso prezzo, quello delle competenze trasmesse e sviluppate da scuole scientifiche che, con tutte le loro difficoltà, hanno finora reso ancora appetibile il nostro prodotto umano per istituti di ricerca di livello mondiale. Hanno ragione Simone e Potestio quando denunciano la corrosione di una salda cultura di base attraverso piccoli «moduli» di insegnamento in cui si adottano «libretti, suntini, estratti». Hanno ragione quando ricordano il mostruoso spreco di intelligenze in riunioni fiume per stabilire dettagli burocratici. Venturi sarebbe stato un grande storico e Ferrari un grande ingegnere meccanico se avessero dovuto così impiegare gran parte delle loro giornate? Chi conserva memoria dei quasi due anni impegnati per progettare i trienni finalizzati ai C.U.B. (certificati universitari di base, di tipo professionalizzante), prima di buttarli alle ortiche e scegliere trienni di formazione generica, pensati solo per il successivo biennio specialistico? E hanno ragione nel distinguere i «veri professori» (buoni o cattivi, ma in ogni caso impegnati insieme nell'insegnamento e nella ricerca) dai «falsi professori», i quali in vari modulini «si limitano a raccontare quel che fanno nelle loro attività professionali»: sono quelli a cui si ricorre con i contratti, che dovrebbero rappresentare l'apertura al mondo della produzione ma le cui competenze sono state selezionate da un mercato che, sul piano scientifico, non è un controllo di qualità. Spesso svolgono bene il loro compito (che tuttavia dovrebbe essere complementare rispetto all'asse portante delle formazione), ma che c'entra questo con la ricerca? E' utile che si aumenti soltanto il numero degli studenti alfabetizzati (male), che si concepisca l'apprendimento universitario solo come addestramento? E' positivo che lo studente così addestrato pensi che la ricerca non lo riguardi e che sia una specie di magia da osservare da lontano, leggendo qualche volta su un settimanale che alcuni loro colleghi, toccati da grazia divina, hanno fatto, quasi per caso, compiere progressi alle conoscenze umane? Claudio Cancelli, professore di Fluidodinamica ambientale al Politecnico di Torino Giuseppe Sergi, professore di Storia medievale all’Università di Torino ______________________________________________________ Il Corriere della Sera 16 mar. ’04 LA MIA UNIVERSITA' SCOMPARSA Tra quote, crediti e inutili riunioni l' università muore di aziendalismo Verso l' addio Magris Claudio Fra qualche giorno diventerò anch' io, per i miei colleghi, un oggetto niente affatto oscuro di desiderio come Arduino Agnelli, professore come me nella facoltà di Lettere a Trieste e mio amico da più di quarant' anni, autore, fra le altre cose, di studi fondamentali sull' idea di Mitteleuropa e sull' austromarxismo e per due legislature senatorie nelle file del Psi. Fra tre anni Agnelli, dopo una vita dedicata all' università, andrà - per raggiunti limiti d' età - in pensione. Quando passa per i corridoi o interviene alle sedute, gli sguardi dei colleghi, che pure lo apprezzano universalmente, lo seguono bramosi e impazienti come quelli degli avvoltoi e dei corvi che, nei western, volteggiano al di sopra di impavidi cow boys che attraversano il deserto sfiniti dalla sete. Un po' più giovane di lui, alcune settimane fa ho chiesto, dopo 42 anni di servizio effettivo, il collocamento in anticipo fuori ruolo e dunque fra tre anni andrò in pensione insieme a lui. Alla notifica del relativo decreto diverrò dunque anch' io una promessa di un prossimo piccolo pasto, oggetto di complessi calcoli matematici relativi alle «quote» - ossia a misteriose unità di danaro - che la mia dipartita lascerà disponibili. Non si tratta del consueto posto libero lasciato da chi va in quiescenza e dei contrasti e appetiti che desta la sua possibile utilizzazione. Negli ultimi anni i normali interessi successori hanno subito una trasformazione antropologica, dilatandosi con febbrile ossessione e impaniandosi in conteggi elaboratissimi. Chi va in pensione non lascia più vacante una cattedra, da destinare a un altro docente, bensì libera alcune quote, ossia parti o frazioni del suo stipendio, la spartizione delle quali esige non solo l' abituale aggressività primordiale, come quella dei lupi nei romanzi di Jack London, ma anche una sofisticata arte combinatoria, a metà fra la cabala e il calcolo infinitesimale. Una quota delle quote potrà essere prelevata, come un balzello, dall' amministrazione centrale, altre saranno suddivise o sommate per ingaggiare un associato più mezzo ricercatore, oppure un ricercatore e mezzo più forse un termosifone, oppure per contribuire all' allestimento di uno stand in cui l' università presenta se stessa, regalando uno zainetto a ogni studente che partecipa all' iniziativa. Da qualche anno, all' università, non si parla che di quote; si somma, sottrae, divide, occupando così quasi tutto il tempo che dovrebbe essere dedicato a ricercare, insegnare, leggere, discutere di problemi scientifici con allievi e colleghi. Questa perenne e sterile fibrillazione non è una cosa nuova e non è imputabile al ministro Moratti, che prosegue l' opera dei suoi predecessori, ora migliorandola (ad esempio con la benemerita reintroduzione dei concorsi nazionali, dopo la burletta di quelli locali) ora esasperandone negativamente il lambiccato bizantinismo e l' ansiosa e ansiogena incertezza. Il deterioramento dell' università è avvenuto negli ultimi anni sotto governi di diverso e opposto colore e del resto avrebbe potuto essere arginato solo da eccezionali intelligenze e capacità politiche, perché tutti i governi della cosiddetta Seconda Repubblica hanno trovato un' università scalcagnata da immissioni scriteriate, spesso dovute non a disegni organici di largo respiro ma a leggine speciali, sanatorie, rattoppi, idoneità regalate come un sigaro e una croce di cavaliere quando non avevano efficacia pratica e poi tramutate in posti fissi e così via. La vecchia, classica università aveva le sue pecche, ma una sua logica e una sua struttura organica e funzionava. La sua trasformazione - necessaria per la nuova dimensione di massa e le vertiginose innovazioni del sapere e delle sue tecniche - non è mai avvenuta. I rammendi e i compromessi - fra sbracate concessioni demagogiche, civetterie con mode culturali vagamente orecchiate, difese corporative di obsoleti e iniqui privilegi feudali e modernizzazioni a vanvera - l' hanno distrutta senza crearne un' altra. Tale situazione non sembra destinata a migliorare con l' attuale disegno di riforma. Come rivela la febbre delle quote, l' imperante economicismo, che crede di poter trasformare di colpo le università in imprese, produce l' effetto contrario. L' impresa ha la sua logica e la sua peculiarità e proprio per questo non ogni cosa è un' impresa. Una famiglia, una fabbrica di scarpe e una brigata alpina devono essere tutte gestite con oculatezza economica, senza sprechi e facendo quadrare i bilanci, ma senza scordare che il fine della fabbrica di scarpe è il profitto, il quale invece per la famiglia e per la brigata alpina - e anche per l' università - è un mezzo necessario per realizzare altri fini. La Fiat è un' azienda, l' Italia o la Chiesa no, e ciò non significa sottovalutare la dignità della Fiat. Una cultura d' impresa inoltre non si crea per decreto o vezzo intellettuale. Le università americane hanno dei patrimoni che investono, ma non passano tutto il tempo a parlare di investimenti, anche quando è il momento di parlare di filologia classica o di odontoiatria. Da noi invece le università, strangolate dalla povertà di mezzi che spesso le priva delle più elementari attrezzature scientifiche e assordate dall' aziendalismo ideologico, parlano solo di soldi senza produrli. Un' altra comica e nefasta scopiazzatura è stata l' introduzione dei crediti. I crediti hanno imposto una gretta mentalità, secondo la quale ogni attività dello studente - dalla lettura di un libro a una corsa campestre - deve comportare un utile formale e immediato. Mesi fa uno studente mi ha detto che sarebbe venuto a sentire un seminario interdisciplinare su letteratura e scienza, tenuto alla Scuola superiore di studi avanzati di Trieste, se ciò gli avesse procurato dei crediti. Stupefatto che non gli fosse venuta in mente l' idea di andarci perché il tema lo interessava, gli ho chiesto se aveva mai baciato gratis una ragazza. I crediti disabituano a investire. Ogni investimento, all' inizio, è un rischio; le cose che facciamo solo per amore - anche leggere un libro - sono spesso quelle che poi ci rendono di più, ma indirettamente, ed è ridicolo pretendere punti perché si è letto - si spera con passione - Leopardi. La distribuzione dei crediti fra i vari corsi e discipline è complicatissima, scatena contese, esige conteggi tortuosi, togliere un credito a un modulo (ossia a uno spezzone di lezioni) per poterne assegnare due a un altro, ma i conti non tornano, i crediti mancano e avanzano e le energie che bisognerebbe dedicare alla filosofia di Kant o al diritto civile vengono assorbite da logoranti e rissosi puzzle. L' informatica, oggi necessaria come l' alfabetizzazione, è stata doverosamente introdotta, con un' enfasi peraltro spesso contraddetta dalla mancanza di fondi per comprare un computer - talora perfino per rinnovare l' abbonamento a riviste scientifiche essenziali. Tuttavia anche l' informatica - come la letteratura, la chimica e qualsiasi materia - se usata male può diventare anticultura, spesso spocchiosa. Una collega mi raccontava che uno studente, in un biglietto, le aveva scritto «grazzie» e, alle sue rampogne, aveva risposto che non aveva importanza perché, se l' avesse scritto non a mano ma come di consueto al computer, questo avrebbe provveduto a correggerlo. L' utilissima possibilità di inviare sms, mi ha detto un altro collega, induce alcuni studenti a chiedere, per tale via istantanea, il giorno prima dell' esame quali libri è opportuno leggere per l' esame stesso, libri il cui elenco è affisso in bacheca. Inoltre la giusta selezione e la verifica del lavoro dei docenti sono ben diverse dalla crescente e caotica incertezza. La mancanza di cattedre induce a coprire gli insegnamenti con una selva di contratti a brevissimo termine, che non creano alcuna reale figura d' insegnante e impediscono ogni continuità e ogni ordinato svolgimento degli studi. Il vero e proprio corso, atto ad approfondire per tutto l' anno un argomento, a impartire una formazione istituzionale e a stabilire un rapporto concreto fra docenti e allievi, è sempre più sostituito o pasticciato dai «moduli», monconi erranti di dieci, venti o trenta lezioni, in cui il contatto estrinseco fra il docente e gli studenti si dissolve subito. Oltre un certo limite, la precarietà del posto di lavoro ostacola la selezione, perché allontana le forze migliori. Alcuni colleghi miei coetanei hanno a suo tempo vinto una cattedra quando lavoravano in altri settori, ad esempio in banche, industrie o in altre amministrazioni; hanno accettato la cattedra, lasciando il lavoro precedente, perché anche la cattedra dava a essi e alle loro famiglie la tranquillità economica, senza la quale non avrebbero forse potuto permettersi la scelta accademica. Pure l' articolazione dei corsi di studi e delle lauree specialistiche, priva di un saldo modello, costringe a discussioni interminabili e spesso inconcludenti su quanti e quali corsi o moduli attivare, suddividere, spezzare, nel dissolvimento di ogni itinerario di studi preciso. Non sono le paventate centoventi ore di lezione «frontale» (?), che molti già di fatto tengono per le necessità del loro insegnamento, a minacciare i docenti, la lezione e la ricerca. Sono le innumerevoli ore di sedute, comitati, commissioni didattiche, snervanti discussioni, che occupano il tempo e le energie e ostacolano la riflessione, lo studio, il dialogo sui temi di una ricerca o di una disciplina. Travestita sotto le spoglie di una modernizzazione tecnocratica, trionfa la vecchia retorica dei blateramenti assembleari. È anche questo che soffoca l' università, dove non si dovrebbero fare quasi soltanto riunioni; lo Spirito, ha detto Céline, non ama le riunioni. ___________________________________________________ La Stampa 17 mar. ’04 COME MIGLIORARE RICERCA E DIDATTICA Tempo pieno anche per l’università IL disegno di legge sul riordino dello stato giuridico dei professori universitari recentemente approvato dal Consiglio dei ministri ha determinato numerosi commenti critici sia da parte del corpo accademico sia da parte dei più giovani componenti del mondo universitario. Una revisione dell’attuale ordinamento è sicuramente necessaria, specie considerando l’elevato ricambio del corpo docente che si realizzerà nei prossimi anni, ma risulta spontaneo il domandarsi se le linee programmatiche che emergono dal disegno di legge presentato, linee sulle quali logicamente verranno impostati i successivi decreti attuativi, risultino realmente idonee a rimuovere i problemi attuali dell’Università. I punti che, a mio avviso, destano maggiore perplessità riguardano in primo luogo l’abolizione del ruolo dei ricercatori. E’ indubbio che nell’ordinamento attuale questo ruolo, essenzialmente formativo, si è troppo spesso trasformato per molti ricercatori in una deludente situazione di «stallo», in cui le motivazioni e l’impegno iniziali si sono progressivamente spenti; ma viene logico il domandarsi se sostituirlo con un contratto quinquennale a tempo determinato, rinnovabile per ulteriori cinque anni, rappresenti un’alternativa valida se contemporaneamente non verranno offerte, con criteri rigidamente meritocratici, concrete possibilità di una progressione in carriera. E’ pur vero che durante questo periodo gli elementi validi potranno conseguire un’idoneità a professore associato, ma questa non comporta automaticamente la chiamata e la presa in servizio in quanto il decreto legge stabilisce giustamente che per ogni concorso bandito il numero degli idonei possa superare del 20 per cento i posti per cui è stato richiesto il bando. Ora risulta difficile pensare che, persistendo le attuali ristrettezze di finanziamento, le università possano incrementare gli organici oltre il fisiologico ricambio. Quanti giovani, seppure fortemente motivati, saranno disposti ad affrontare un «iter» così denso di incognite, considerando anche che, a differenza di molti altri Paesi, nell’attuale struttura italiana sono ben rari sbocchi alternativi in cui l’esperienza acquisita possa essere riconosciuta e valorizzata? Risulta inoltre probabile, sulla base delle passate esperienze, che le cadenze stabilite per i concorsi nazionali non possano essere osservate; pertanto verranno ad accumularsi progressivamente sempre maggiori ritardi nel conseguimento delle idoneità. Per i ruoli superiori, di professore associato e di ordinario, viene mantenuto il periodo di straordinariato, con possibilità di prolungarlo sino a sei anni (per quanto pare comprendere che possa in alcuni casi essere, al contrario, abbreviato). A parte l’illogicità, peraltro già esistente nella normativa attuale, di ripetuti periodi di conferma per i docenti già in servizio, con la nuova normativa il docente si ritroverà per molti anni, corrispondenti proprio al periodo di più intensa e feconda attività didattica e di ricerca, in un rapporto di lavoro non stabile e senza, in Italia almeno, molte possibilità alternative. E’ verosimile che questa situazione possa compromettere sia l’indispensabile serenità che il particolare lavoro richiede, sia la disponibilità a impegnarsi in progetti a lungo termine. Meglio forse sarebbe il passaggio, sia pure dopo un ragionevole periodo, a un rapporto a tempo indeterminato con periodiche valutazioni, non puramente formali come ora spesso avviene, dell’attività svolta. Un’ultima considerazione riguarda l’impegno complessivo richiesto, stabilito in 350 ore/anno. Tutti noi che abbiamo dovuto, per periodi anche lunghi, scegliere il «tempo definito», affiancando una seconda, sia pur molto limitata attività, sappiamo quanto questo sia dispersivo e come risulti faticoso e difficile evitare che l’impegno universitario ne risulti in alcun modo compromesso. E’ infatti parere ampiamente condiviso che il lavorare in modo esclusivo nell’università innalzi il livello dell’attività, sia nel campo della ricerca, che in quello della didattica. Pertanto, a mio avviso, l’unica soluzione concreta consisterebbe in un «tempo pieno» reale, con impegno temporale pari a quello normalmente richiesto in ogni attività lavorativa. Questa impostazione comporterebbe di necessità un allineamento delle retribuzioni ai livelli europei, ma forse l’impegno economico sarebbe accettabile se il legislatore riconoscesse finalmente alle università pubbliche il ruolo essenziale che rivestono in Italia e, creando migliori condizioni per il loro funzionamento, le ponesse in condizioni di contribuire all’auspicato progresso scientifico in tempi di certo più brevi rispetto ad altre ipotizzate soluzioni, ad elevata immagine, ma richiedenti, necessariamente, molti anni per essere poste a regime. Professore Emerito di Medicina interna Università degli Studi di Torino ___________________________________________________ Il Messaggero 15 mar. ’04 BRICIOLE PER LA RICERCA, RISCHIAMO LA SERIE B Oggi a Roma Tre il convegno: “Testimonianze contro il declino dell’università”. Tra i firmatari il Nobel Rita Levi Montalcini «Briciole per la ricerca, rischiamo la serie B» L’allarme degli scienziati: atenei troppo «provinciali» e fuga di cervelli. Un appello al governo di ANNA MARIA SERSALE ROMA - Gli scienziati chiedono a Berlusconi e alla Moratti di riconsiderare la politica economica in materia di università e ricerca. Chiedono un reale potenziamento dell’intero sistema, perché lo sviluppo scientifico dell’Italia rischia di «precipitare ai livelli più bassi d’Europa». Denunciano «lo stato di abbandono della ricerca di base», alla quale sono destinate solo «briciole». E aggiungono che lo fanno «non per «difesa corporativa», ma per la «rilevanza strategica» che la ricerca pura, al di là di quella di mercato, ha per il Paese. E’ l’Sos di intellettuali e scienziati. Economisti, umanisti, filologi, storici, fisici, astrologi, che si riuniranno oggi nell’aula magna dell’Università Roma Tre. Sono nomi eccellenti, tra cui il Nobel Rita Levi Montalcini, Margherita Hack, Paolo Sylos Labini, Cesare Segre, Dario Antiseri, Enrico Alleva, Alberto Piazza, Luciano Canfora e Andrea Carandini. Mentre il cartello degli scienziati critica la politica del governo, dalle stanze silenziose dell’Accademia dei Lincei sta per partire un nuovo appello al ministro Moratti: «Rischiamo l’isolamento», questo il nocciolo del messaggio. Gli scienziati, intanto, sottolineano che l’«università italiana» rischia di diventare sempre più provinciale e che la «fuga dei cervelli» è frutto della «debolezza delle politiche nazionali» e conseguenza «dell’incertezza in cui la ricerca opera». Gli scienziati inoltre mettono in guardia dai pericoli della «privatizzazione», che allontana gli istituti dai loro «compiti istituzionali» e spinge alla «destrutturazione della ricerca nelle università». C’è una schiera di ricercatori, giovani o meno giovani, che rischia di diventare una «generazione perduta». Dichiarazioni, queste, che la dicono lunga sulle preoccupazioni che girano tra gli studiosi. Eloquente anche il titolo del convegno di oggi a “Roma Tre”: “Fare ricerca, testimonianze contro il declino dell’università”. Gli interventi previsti dalle 9 alle 18. Paolo Sylos Labini, economista, lancia l’allarme: «Il difetto è nel manico, il peggio inizia con questo governo, con il decreto economico-finanziario di Tremonti, a giugno del 2001. Avevo avvertito che, con la congiuntura Usa, anche l’Italia avrebbe sofferto. Non c’era bisogno del profeta Ezechiele, bastava ascoltare noi economisti, per sapere che i condizionamenti sarebbero stati pesanti. Ecco perché bisognava stabilire delle priorità irrinunciabili: scuola, università e ricerca. Al contrario la ricerca, che deve servire allo sviluppo del Paese, è rimasta una Cenerentola. Ma non è solo un problema di soldi. E’ in pericolo anche l’autonomia e la libertà, per effetto dell’instabilità dei ricercatori, i quali non hanno certezze per il futuro. Così, se uno è mal visto o non è sostenuto dai potenti, può anche arrangiarsi». Il ministero dell’Università, dal canto suo, ribadisce la ferma volontà di «sostenere la ricerca». «Per noi è una priorità, i fondi sono garantiti». Ma il braccio di ferro continua. Cesare Segre, letterato e filologo, denuncia il fatto che sono «a rischio anche gli studi umanistici», che hanno bisogno di finanziamenti come le scienze. «Ogni progresso - sottolinea Segre - cancella le vecchie ipotesi, le supera. In ambito scientifico la tradizione pesa molto meno, tutto ciò che si è stampato negli ultimi dieci anni è vecchio. Ma la spinta ad andare avanti non riguarda soltanto il mondo scientifico. Da umanista posso dire che fotografie e microfilm non sostituiranno mai il testo originario o manoscritto, fondamentale per le annotazioni. L’antichità è un valore. Anche noi dobbiamo viaggiare, andare negli archivi, nelle biblioteche, nei luoghi dove i testi sono conservati». «E’ vero, le università rischiano il declino - sostiene lo storico Luciano Canfora - Faccio un esempio concreto. L’insegnamento universitario è lo sbocco della ricerca, senza alcun trionfalismo l’università è il luogo principale in cui debba essere fatta. Invece, la riforma di Zecchino e della Moratti impongono in forma ossessiva l’impegno delle 120 ore di cattedra. Impraticabile. Non ci sono nè lo spazio nè il tempo per fare tutte queste lezioni. Bisognerebbe centuplicare le aule, dividere gli studenti, farli a “pezzi”, da una parte la testa, dall’altra i piedi. Questa idea ossessiva dell’insegnamento frontale, dei docenti occupati solo e unicamente a fare lezione, per un numero assurdo di ore, è un’altra minaccia che pesa sulla ricerca. E’ un modo per umiliare noi, in qualità di ricercatori. Possibile che non abbiano capito che se studio e ricerca vengono disgiunti dall’insegnamento l’università diventa un liceo? Concludo, affermando che ogni riforma che non rispetti il ruolo della ricerca è una ricerca sbagliata». ___________________________________________________ Il Riformista 19 mar. ’04 LO STATUS QUO DELL'UNIVERSITÀ È PESSIMO MA LA RIFORMA MORATTI NON LO MIGLIORA DIALOGHI. RISPOSTA A UN ARTICOLO DI QUAGLIARIELLO ALESSANDRO TALAMANCA Abolito il ruolo dei ricercatori si tornerà all'arbitrio del «maestro» La «carriera nella stessa sede dalla culla alla bara» è frutto dei disincentivi alla mobilità Accolgo volentieri l'invito implicito di Gaetano Quagliariello ad un dibattito pacato sul disegno di legge Moratti sullo stato giuridico dei docenti. Vorrei però partire dai problemi anziché dalle soluzioni proposte dal governo, evitando in tal modo l'alternativa tra la difesa dello status quo e l'accettazione di una riforma che a mio parere lo peggiora. Non c'è dubbio ad esempio che uno dei problemi dell'università italiana è il localismo, «la carriera nella stessa sede dalla culla alla bara». Ma è superficiale attribuire questo fenomeno soltanto, o anche prevalentemente, al «nuovo» sistema dei concorsi. L innovazione che ha più spinto in tempi recenti al localismo è stata l'autonomia finanziaria che ha reso apparentemente più costosa alle sedi universitarie l'assunzione di un esterno che la promozione di un interno. II disincentivo alla mobilità che ne è derivato potrebbe essere corretto da una seria politica di incentivi finanziari per le sedi e i docenti. Ricordiamo che ora, nella quasi totalità dei casi, la promozione da una fascia di docente all'altra non comporta alcun aumento di stipendio per i primi tre anni. Se, come era stato a suo tempo proposto dal ministro Zecchino, la promozione da ricercatore ad associato e da associato a ordinario comportasse immediatamente un deciso aumento di stipendio, le sedi sarebbero disincentivate a promuovere gli anziani, e i docenti sarebbero incentivati a cercarsi le promozioni altrove. Vale anche la pena di ricordare, poiché la politica non è fatta solo di progetti di legge, che il governo ha creato, attraverso il sistema del blocco delle assunzioni e delle deroghe un ulteriore fortissimo disincentivo alla mobilità. II ritorno a concorsi nazionali può essere quindi auspicabile ma il problema vero è la nostra incapacità di far circolare i giovani, che in altri paesi, dopo la laurea, si spostano in una sede diversa per il dottorato ed ancora in altra sede per la prima formazione post-dottorale. Per la circolazione dei giovani, che comporta una vera circolazione delle idee, sono necessari incentivi che premino, ad esempio, i dottorati che accolgono studenti laureati in sedi diverse da quelle in cui si svolge il dottorato. Ma il provvedimento più importante sarebbe quello di superare il localismo nei concorsi che danno luogo al primo ingresso nella carriera universitaria. Arriviamo qui al punto più controverso del disegno di legge: la «messa ad esaurimento» del ruolo dei ricercatori. L’analisi di Quagliarello corrisponde solo in parte alla realtà. Se si escludono gli ottomila (circa) ricercatori entrati con i giudizi di idoneità negli anni ottanta ed ancora nei ruoli, la popolazione dei ricercatori universitari è relativamente giovane, e mobilissima in termini di promozioni alle fasce superiori, o uscite per altre occupazioni. Insomma, a partire dalla metà degli anni ottanta il ruolo dei ricercatori ha svolto, bene o male, le funzioni di primo reclutamento dei docenti universitari, che in altri paesi sono svolti da ruoli analoghi. I suoi difetti sono la mancanza di un vero concorso nazionale di accesso, l'ambiguità della posizione in termini di doveri e diritti, il basso stipendio iniziale (che preclude un serio reclutamento dall'estero), compensato da lenti aumenti per pura anzianità. Questi difetti possono essere corretti da una riforma dello stato giuridico dei ricercatori che ne chiarisca le funzioni, introduca un serio periodo di prova, e che soprattutto rafforzi il carattere nazionale del concorso di accesso al ruolo. Il progetto governativo va nella direzione opposta. Abolito il ruolo dei ricercatori il primo reclutamento sarà soggetto all'arbitrio di un capo o «maestro», che proporrà un concorso secondo le esigenze della sua «cattedra», e sulla base di finanziamenti di cui egli stesso è «titolare». A questo proposito conviene affrontare il problema del cosiddetto «precariato». Nessuno dubita che deve essere precaria la posizione di uno studente di dottorato o un recente dottore di ricerca che sta scegliendo se proseguire la carriera universitaria o utilizzare altrove la formazione ricevuta attraverso la ricerca. Ma a due o tre anni dal conseguimento del dottorato, e oltrepassati i trent'anni di età, l'unica forma di precariato compatibile con l'esigenza di autonomia di un giovane docente e con gli standard internazionali è quella che condiziona la stabilità soltanto al raggiungimento di traguardi di merito scientifico e di impegno didattico e non alla disponibilità di finanziamenti, di cui qualcun altro è titolare. Se si accetta questo punto di vista si vede subito che è possibile, e più facile, introdurre una «sana» precarietà, attraverso una riforma del ruolo dei ricercatori che preveda un serio periodo di prova, piuttosto che con la sua abolizione. ___________________________________________________ L’Unione Sarda 16 mar. ’04 LE RIFORME E LE CORPORAZIONI di Sandro Maxia* Sarà ancora possibile ad una voce fuori del coro di unanime esecrazione che ha colpito la "riforma Moratti" dello stato giuridico dei docenti universitari, far sentire la sua flebile presenza? Non ho alcuna simpatia per la concezione "aziendalistica" dell’Università che viene attribuita al ministro Moratti, ma credo che sia più proficuo mantenere anche nelle fasi calde dello scontro politico un certo distacco critico. Esaminando le cose con freddezza, si scorgono molti aspetti di continuità tra la politica universitaria del centro-sinistra e quella del centro-destra. Alla "riforma Moratti" si contesta: il fatto che intenda legiferare per delega del Parlamento; l’abolizione del ruolo dei "ricercatori", ovvero, detto in gergo sindacale, la "precarizzazione" della fascia d’ingresso; il ritorno al concorso nazionale per l’assunzione al ruolo di professore. Ricordo agli smemorati quanto segue: la pessima riforma Berlinguer-Zecchino, nota con la formula del "3+2", fu imposta con legge-delega; l’attuale assegno di ricerca con durata quadriennale (contratto dunque a tempo determinato) fu introdotto da Berlinguer, con l’evidente intenzione (basta leggere la legge istitutiva) di porlo in alternativa al ruolo del "ricercatore"; la gestione dei concorsi su base locale, introdotta ancora da Berlinguer (in questo caso succube della visione corporativa, tipica dei sindacati della scuola) ha dato una prova talmente negativa che, ben prima che la Moratti mettesse mano alla sua riforma, era sommersa di critiche (lo stesso professor Tranfaglia, storico dell’Università di Torino, uno degli ispiratori di Berlinguer, parlò di "ascesa del cretino locale"). Inoltre, il virus corporativo da cui erano affetti ha fatto sì che essi si risolvessero in un generale avanzamento di carriera per quanti già erano in forza all’Università, con grave danno proprio di quei giovani che ora si fa finta di voler proteggere dalla "precarizzazione" (ma è proprio impossibile trovare una via di mezzo tra il contratto a breve termine e la sinecura del "posto fisso", prediletta dai sindacati?). Le responsabilità dei governi nazionali (di sinistra e di destra) nello scadimento dell’Università italiana a livelli inferiori a quelli di molti Paesi del Terzo Mondo sono evidenti, ma la corporazione dei docenti universitari deve smettere di farsene un alibi e cominciare a parlare delle proprie responsabilità, se vuole rendere credibili le sue rivendicazioni. In particolare, occorre che ci si cominci a interrogare su quel generale fenomeno di accecamento che ha portato la quasi totalità della corporazione ad accettare acriticamente (salvo il solito ricorso allo sport nazionale del mugugno) una "riforma" come quella del "3+2" che, dissociando l’aspetto dell’efficienza (produrre più laureati nel minor tempo possibile) da quello culturale, finiva col sancire la trasformazione dell’Università da luogo di elaborazione del sapere critico a sede di "informazione di base" e di acculturazione di massa. *Docente nell’Università di Cagliari) ______________________________________________________ Il Corriere della Sera 17 mar. ’04 ATENEI, RIFORMA APERTA AI CAMBIAMENTI L' annuncio di Berlusconi. I professori rispondono a Magris: «E' vero, troppa burocrazia. L' università affonda» Carlo Secchi, numero uno della Bocconi: «Assegnare a un esame un punteggio basso, viene visto come un' offesa». Gli studenti: «Crediti distribuiti in modo arbitrario» Salvia Lorenzo ROMA - L' occasione è la posa della prima pietra di un nuovo reparto dell' ospedale di Pavia. Il rettore chiede una maggiore collaborazione tra sanità e mondo della ricerca. E Silvio Berlusconi coglie la palla al balzo per parlare della riforma dell' università: «Siamo aperti - dice il premier, contestato da un gruppo di studenti - a tutti i suggerimenti migliorativi da qualunque parte arrivino. Li accettiamo senza preconcetti», anche se «c' è tanta disinformazione, come per la riforma della scuola». Il governo, quindi, è pronto a riaprire il dibattito sul progetto di legge che ridisegna le università. Ma a far discutere sono anche le parole di Claudio Magris che, sul Corriere di ieri, ha annunciato il suo addio all' insegnamento. E soprattutto ha parlato di atenei italiani intasati dalla burocrazia, strozzati dalla mancanza di fondi, e ormai incapaci sia di insegnare sia di fare ricerca. BUROCRAZIA - Tante riunioni inutili? Dario Antiseri, professore di Metodologia delle scienze sociali alla Luiss, ci scherza sopra: «Non di rado il lavoro di uno studioso viene fatto non grazie all' università ma nonostante l' università. Una cosa da perdere la voglia». Secondo Carlo Secchi, rettore della Bocconi, la «situazione è diventata ancora più complicata dopo la riforma del "3+2" che, con la moltiplicazione dei corsi, ha provocato una vertiginosa crescita delle decisioni burocratiche». La pensa diversamente il rettore di Roma Tre, Guido Fabiani: «Stiamo vivendo un periodo particolare. I singoli atenei stanno acquisendo autonomia sia didattica che finanziaria. E per evitare che tutto questo venga imposto dall' alto, la partecipazione è fondamentale». CREDITI - Ilaria Lani - rappresentante dell' Udu, l' Unione degli universitari - è d' accordo con la critica di Magris: «Il problema è che il numero dei crediti viene spesso assegnato in modo arbitrario. Molti si basano sulla quantità di pagine del libro e addirittura c' è chi modifica il carattere di stampa per raggiungere la quota di crediti prevista». Il rettore della Bocconi, Secchi, dà un' altra spiegazione: «Purtroppo c' è ancora troppa accademia, nel senso deteriore del termine. Assegnare a un esame un punteggio più basso, viene visto dal corpo docente come un' offesa al singolo professore. Bisogna stare attenti a non offendere nessuno e allora si deve usare il bilancino. A confronto Cencelli era un dilettante». FONDI - Non è un problema nuovo. Ma secondo Magris ormai è la stessa ricerca di finanziamenti a togliere tempo all' attività scientifica. Alberto Piazza, professore di Genetica umana a Torino, non la vede così: «Dedico un' ora della mia giornata a questa attività e non vedo alcuno scandalo. E' giusto utilizzare tempo ed energia per convincere della bontà di un progetto chi deve metterci i soldi». Per Cesare Segre, docente di Filologia romanza a Pavia, a soffrire di più sono le facoltà umanistiche: «Perché, si dice, non occorrono, come per fisica o chimica o medicina, attrezzature da milioni di euro. Fatto sta che gli americani sono altrettanto generosi nel sovvenzionare laboratori e biblioteche. Noi no». Secondo il rettore della Bocconi, Secchi, il problema è un altro: «Lo Stato fa quel che può, i privati non hanno incentivi fiscali per finanziare la ricerca. Non restano che le tasse universitarie, ma non si può nemmeno accennare all' ipotesi di alzarle, naturalmente per avere servizi migliori. Scoppierebbe la rivoluzione». L. Sal. * Le novita' I punti LE SELEZIONI Il concorso unico La riforma reintroduce il concorso nazionale per la selezione dei docenti. Si svolgerà ogni 2 anni, una volta per gli ordinari, una per gli associati. Il primo incarico sarà al massimo di 3 anni, rinnovabile una sola volta (ma si potrà essere confermati in ruolo anche prima della scadenza) DIDATTICA E STIPENDI I ricercatori Saranno dedicate alla didattica 120 ore su 350 di attività scientifica annuale (contro le 60 di oggi). Alla retribuzione fissa se ne aggiungerà una variabile per ulteriori impegni di ricerca, didattici e gestionali. Scompare il ricercatore a tempo indeterminato. Chi ha una laurea specialistica o una preparazione adeguata potrà fare ricerca con contratti di collaborazione di 5 anni al massimo, rinnovabili una sola volta, per un totale complessivo di 10 anni I FINANZIAMENTI I criteri In un' intervista al Corriere il ministro ha annunciato: i fondi saranno erogati non più solo in base al numero degli iscritti, ma anche ai risultati della ricerca e agli obiettivi raggiunti dagli studenti (laureati in corso, lavoro dopo la laurea) * I PROBLEMI DELL' UNIVERSITÀ 1 La questione delle «quote»: l' arte di spartire gli stipendi «Chi va in pensione - ha scritto Claudio Magris sul Corriere di ieri, in un intervento dedicato all' università - non lascia più vacante una cattedra, bensì libera alcune quote, ossia parti o frazioni del suo stipendio». Per spartirle serve «una sofisticata arte combinatoria», che occupa ore da dedicare a ricerca e insegnamento 2 Il nuovo sistema dei crediti «Conteggi tortuosi per gli studenti» Nello sforzo di copiare i college americani, gli atenei italiani hanno introdotto il sistema dei crediti, imponendo una mentalità per cui «ogni attività dello studente deve comportare un utile formale e immediato». Anche qui «la distribuzione dei crediti fra i vari corsi e discipline esige conteggi tortuosi» e assorbe le energie 3 Le riunioni interminabili: un ostacolo a studio e dialogo Secondo Magris «l' articolazione dei corsi di studio e delle lauree specialistiche, priva di un saldo modello, costringe a discussioni interminabili e spesso inconcludenti». La vera minaccia per la ricerca sono «le innumerevoli ore di sedute, comitati, commissioni» che ostacolano riflessione, studio e dialogo 4 La precarietà delle docenze e la fuga delle forze migliori Oggi «la mancanza di cattedre induce a coprire gli insegnamenti con una selva di cattedre a brevissimo termine». I corsi sono sostituiti dai «moduli», «monconi erranti di 10, 20 o 30 lezioni» in cui il contatto tra docenti e studenti «si dissolve subito». Risultato: una precarietà che «allontana le forze migliori» ___________________________________________________ Il Sole24Ore 13 mar. ’04 ATENEI, RISORSE A CHI LAVORA MEGLIO Il nuovo «modello Miur» di finanziamento delle università statali un documento all'esame di Crui e Cun Definita una griglia di valutazione per dare i fondi - In arrivo una quota fissa destinata a chi fa ricerca in facoltà ROMA a Cambia il sistema di finanziamento delle Università statali: le risorse saranno legate alla valutazione dei risultati dei singoli atenei. E per la prima volta viene stabilita una quota fissa di fondi da destinare alle attività di ricerca svolte da facoltà e dipartimenti. Le novità sono descritte in un documento del ministero dell'Istruzione - realizzato in collaborazione con il Cnvsu, il Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario - che contiene le proposte per la messa a punto di un nuovo modello di ripartizione del Ffo (il Fondo di finanziamento ordinario) alle Università statali. Secondo il modello messo a punto, l'attribuzione delle risorse dovrà essere collegata alla valutazione di quattro elementi: il numero degli studenti iscritti; il livello dei processi formativi misurato in base al numero dei crediti acquisiti dagli studenti; i risultati della ricerca scientifica; gli incentivi specifici per sostenere situazioni particolari. I primi tre fattori peseranno per il 30% sull'attribuzione dei fondi, mentre gli incentivi per il 10 per cento. In base al primo criterio i corsi di laurea saranno classificati in quattro gruppi, secondo il loro casto: così, per esempio, gli studenti iscritti alle facoltà dell'area medica o veterinaria "peseranno" di più nella determinazione delle risorse da assegnare, perché le attrezzature e i laboratori scientifici necessari alla didattica richiedono maggiori quantità di fondi. Gli iscritti non saranno più considerati - come è accaduto finora - tutti uguali, ma è prevista una distinzione tra studenti a tempo pieno, studenti part time - che studiano e lavorano allo stesso tempo - e "teledidattici", quelli, cioè, che seguono i corsi a distanza. I risultati della formazione, invece, saranno giudicati sulla base dei crediti formativi acquisiti dallo studente e dei tempi e modi in cui gli stessi sono stati conseguiti. Saranno ritenuti validi, quindi, solo gli obiettivi formativi raggiunti entro la durata legale del corso, aumentata di un anno. Questi valori saranno raddoppiati nel caso di studenti part time. La novità più rilevante prevista dal modello di valutazione è l'attribuzione del 30% del Ffo ai risultati della ricerca scientifica, che negli ultimi anni ha risentito, si legge nel documento, della «scarsa consistenza dei finan7iamenti» e della «occasionalità degli interventi» che «li ha resi sostanzialmente inefficaci». Per valutare le attività di ricerca è necessario, secondo il Cnvsu, istituire una banca dati costantemente aggiornata delle attività svolte a livello universitario, che offra un quadro completo e dettagliato dei progetti in corso. In attesa che la banca dati venga realizzata, il modello Miur propone l'assegnazione delle risorse sulla base del "potenziale teorico di ricerca", cioè del numero dei soggetti coinvolti nelle attività, compresi i dottorandi e gli assegnisti. Dal 2005 questo valore «dovrebbe essere sostituito - dice il testo - dal numero di soggetti attivi nella ricerca, quale risulterà dalla banca dati». Il 10% del Ffo, infine, sarà impegnato per incentivare la mobilità dei docenti e il sostegno agli studenti disabili, e per compensare la riduzione delle entrate che provengono dalle tasse universitarie, causata dall'applicazione della normativa sulle borse di studio. II documento del Miur è ora all'esame della Crui (la Conferenza dei rettori delle università italiane) e del Cun (il Comitato Universitario nazionale). ALESSIA TRIPODI ___________________________________________________ Il Sole24Ore 18 mar. ’04 UNIVERSITÀ, SVOLTA IN VISTA PER I FONDI ROMA Stop ai finanziamenti "a pioggia", arriva la valutazione per la ricerca svolta dalle università e dagli enti. Le risorse saranno assegnate in base alla qualità e ai risultati delle attività scientifiche. Le attività partiranno entro pochi mesi, secondo i criteri enunciati in un decreto del ministro dell'Istruzione, Letizia Moratti, registrato lo scorso venerdì presso la Corte dei Conti. Il testo ministeriale conclude una fase di preparazione iniziata lo scorso maggio con la presentazione delle "Linee guida per la valutazione della ricerca" elaborate dal Civr, il Comitato di indirizzo per a valutazione della ricerca. Proprio al Civr spetterà il compito di giudicare il lavoro delle università, degli enti e di tutti quei soggetti pubblici e privati che svolgono attività di ricerca scientifica e che dovranno presentare, entro il prossimo 30 giugno, la documentazione sul lavoro svolto nel triennio 2001-2003, comprese le informazioni sulle risorse umane complessive impegnate nelle attività, su eventuali brevetti e partnership e dati sulle risorse finanziarie e sulla loro gestione. L'assegnazione delle risorse pubbliche privilegerà quelle strutture che si saranno sottoposte alla valutazione. Una volta a regime, il processo avrà cadenza triennale. Tutta l'operazione sarà gestita a livello informatico dal Consorzio interuniversitario Cineca. La valutazione delle strutture sarà organizzata aree scientifico disciplinari. 0ltre alle quattordici aree di riferimento indicale dal Cun (comitato universitario nazionale), saranno presi in considerazione anche altri sei settori di ricerca, le cosiddette "aree special.", scelte dal Cnn in base «al prioritario valore aggiunto per il Paese - si legge nel decreto - e della loro coerenza con gli obiettivi previsti dal Pnr, il Programma nazionale della ricerca e dai programmi di ricerca e sviluppo comunitari». La documentazione consegnata al Civr sarà esaminata da comitati di esperti, suddivisi a seconda delle aree scientifico-disciplinari. I comitati saranno composti da un minimo di cinque a un massimo di nove esperti, nominati dal ministro, su indicazione del Civr. Il ministro potrà nominare anche esperti provenienti da altri Paesi. Entro il giugno del 2005 i panel dovranno consegnare al Civr le relazioni di valutazione: a quel punto, il comitato di indirizzo potrà produrre i suoi giudizi finali su ogni struttura e su ogni progetto speciale. I risultati di questo processo costituiranno il modello di riferimento per l'assegnazione dei finanziamenti statali. Il costo dell'intera operazione si aggira intorno ai 5 milioni di euro ma «sarà possibile - precisa Franco Cuccurullo, presidente del Civr - realizzare grosse economie di scala perché potremo usufruire di strutture già esistenti, come, per esempio, reti d esperti o convenzioni in atto». Nei prossimi giorni saranno pubblicati il bando per la selezione dei componenti dei panel e quello contenente le indicazioni operative per partecipare al processo di valutazione. I criteri di selezione : Libri e loro capitoli Articoli su riviste Brevetti Progetti, composizioni, disegni e design Performance, mostre ed esposizioni Manufatti e opere d'arte Testi o software di interesse didattico Abstract di conferenze Prove e analisi di routine Rapporti tecnici interni ___________________________________________________ Il Sole24Ore 17 mar. ’04 II MODELLO GIUSTO? QUELLO DELL'IIT Il nuovo Istituto italiano di tecnologia nasce all'insegna di una concreta autonomia gestionale: una ricetta che andrebbe estesa anche alle altre università, abbandonando la visione centralistica Di ALESSANDRO SCHIESARO* Con la creazione dell'Istituto italiano di tecnologia (Iit) e la contemporanea proposta di riforma dello stato giuridico dei docenti universitari il Governo sta offrendo due visioni antitetiche di come impostare e gestire università e ricerca. II nuovo istituto nasce come fondazione autonoma aperta alla collaborazione con i privati; introduce di fatto anche in Italia una forma di patrimonializzazione che libera dall'obbligo di estenuanti contrattazione annuali con il ministero; conferisce ai responsabili ampi poteri discrezionali senza imporre nessuno degli eccessi burocratici e assembleari che paralizzano le università pubbliche; istituisce da subito collaborazioni internazionali di prestigio indiscusso; si appresta certamente a selezionare e gestire il personale senza sottostare alle complicazioni dei concorsi pubblici. La bozza di riforma ministeriale che riguarda le università è invece scritta con tutt'altro spirito. Intanto si concentra su un aspetto importante ma circoscritto, quello dello stato giuridico dei docenti, senza nulla dire - per fare solo un esempio - sui meccanismi di gestione degli atenei, la cui riforma è precondizione essenziale se si vogliono favorire politiche del personale basate sul merito e sulla responsabilità economica. Rafforza l'aspetto centralistico e regolatorio della legislazione universitaria; introduce meccanismi di selezione lontani anni luce dalla prassi internazionale; escogita per il futuro una sorta di precariato permanente che non ha paralleli all'estero, però rinuncia sia a metter mano al problema della mobilità "in uscita" che anni di ope legis hanno reso drammaticamente necessaria, sia a proporre modelli di valutazione continua - i soli che garantiscano insieme a un doveroso monitoraggio dei risultati ottenuti anche un ragionevole grado di sicurezza per il singolo studioso. Sembra, insomma, che varando l’Iit il Governo abbia voluto proporre un modello "extraterritoriale" di finanziamento, governance e gestione, e al contempo dare implicitamente per persa ogni speranza di riformare la struttura complessiva del sistema universitario, considerandolo ormai troppo burocratizzato, lontano dai bisogni del Paese e dalle sfide della ricerca internazionale. Se è vero - e lo è certamente - che il sistema universitario e della ricerca ha bisogno di una forte scossa per conquistare efficienza e competitività, non c'è ragione per non applicare almeno i principi basilari del modello Iit anche alle università. La diversità delle terapie proposte sembra ispirata a un'erronea contrapposizione tra didattica (affidata a università licei) e ricerca (compito di alcune poche realtà di eccellenza), unita all'illusione che qualche isola felice possa riscattare e compensare un sistema in crisi. Un ruolo può averlo giocato anche il timore di proporre scelte troppo radicali: ma è proprio di questo che c'è assoluto bisogno. Non meno dell'Iit, infatti, tutta l'università italiana ha bisogno di una massiccia iniezione di vera autonomia gestionale, per liberarsi da un eccesso di regole vecchie e centralistiche che le impediscono di esprimere a pieno il suo potenziale scientifico e di competere sulla scena mondiale. Per far fronte a questa esigenza l'ultima cosa che il Governo dovrebbe fare è proprio microgestire la selezione e l'impiego del personale docente. Altri devono essere i suoi compiti di indirizzo, macroregolazione, e verifica: proporre (o imporre) meccanismi nuovi di ,qovernance; affidare alle università compiti formativi chiari e misurabili; indicare gli obiettivi da raggiungere per reclutare gli studenti; stabilire metodi per remunerare efficienza ed eccellenza nella didattica e nella ricerca; sostenere alcuni grandi progetti strategici, dalla ricerca avanzata all'internalizzazione del sistema, senza appunto dimenticarsi che un'università in cui non si fa ricerca può essere varie cose, ma non è un'università; selezionare gli atenei per caratteristica e funzione quindi proporre una doverosa differenziazione tra istituzione assai diverse; elaborare proposte innovati .ve su come finanziare un sistema in continuo debito d'ossigeno. Il resto, tutto il resto, spetta alle singole università, libere di fare errori e pagare per questo, ma libere anche di rinnovarsi ed eccellere. La "ricetta Iit", insomma, deve poter valere dappertutto, se non altro perché include elementi che caratterizzano tutte le università come si deve in giro per il mondo, dalla natura giuridica di fondazione all'apertura del consiglio a forze esterne, dall'autonomia gestionale alla libertà nella scelta e la gestione del personale. II problema dello stato giuridico, della selezione e la gestione del personale, non si può certo affrontare, dicevamo, senza prima metter mano ai meccanismi di controllo e valutazione delle università. Ma nel frattempo sarebbe bene evitare un ritorno a eccessi centralistici che hanno dato negli anni passati ampie prove di inefficienza. In un sistema universitario articolato, per fare un solo esempio, non ha senso fissare per legge il monte ore di impegno dei docenti, che è necessariamente soggetto a variabili sulle quali è impensabile legiferare. II reclutamento dovrebbe ispirarsi alle procedure in uso nel mondo anglosassone, che danno alle singole istituzioni insieme massima libertà e massima responsabilità, e non riproporre metodi di provata inefficienza e incomprensibili all'estero. Nel dibattito di questi giorni si sta diffondendo la curiosa opinione che i concorsi nazionali siano garanti di qualità e quelli locali favoriscano una deriva non meritocratica, dimenticando comodamente sia le lottizzazioni "nazionali" pre 1998. sia che anche i (giustamente) vituperati concorsi "locali" di oggi sono svolti da commissioni elette su base nazionale in cui siede un solo rappresentante dell'ateneo che ha bandito il posto. Infatti la vera opposizione non è tra concorsi nazionali e concorsi locali, ma tra concorsi deresponsabilizzati e concorsi gestiti da chi ha un interesse diretto e misurabile per far si che vincano i mignon. L'assurdo del sistema in vigore è un altro: la legge del 1998 ha insensatamente consentito che per ogni concorso si potessero designare due idonei, permettendo quindi quasi automaticamente alla sede locale di imporre il proprio candidato quali che ne fossero i meriti, e tacitando i commissari esterni con il secondo posto disponibile. Quel che è certo è che l’Iit non affiderà mai a commissioni nazionali elettive il compito di scegliere i propri docenti, né lo fanno, ovviamente, Oxford o Harvard o la Sorbona. Nella scelta tra modelli "chiusi" e "aperti" di università si gioca l'ultima battaglia per salvare l'università italiana da un declino provinciale cui neppure l’Iit potrà fare da contrappeso. Basta parlare con i giovani colleghi che vivono precariamente ai suoi margini per capire il livello di frustrazione soggettiva e di oggettivo spreco di risorse intellettuali che il sistema produce. Peggio ancora se si discute con i giovani italiani che si affollano all'estero: abituati a realtà in cui vige il libero mercato delle idee e dei posti, questi studiosi sono atterriti da un sistema burocratico, poco trasparente, interessato soprattutto a proteggere gli interessi di chi è già dentro. II ministro ha dato segnali espliciti della sua disponibilità a discutere molti aspetti del disegno di legge, e l'impostazione innovativa data all' Iit lascia intuire una lucida consapevolezza di qual è la direzione giusta in cui muoversi. C'è quindi spazio per elaborare una discontinuità forte rispetto all'assetto attuale, e su questo bisogna insistere: sarebbe infatti un vero disastro allestire una scialuppa di lusso e lasciar intanto affondare la nave. ___________________________________________________ Il Sole24Ore 17 mar. ’04 RICERCA: L’ITALIA E' ANCORA ULTIMA Il peggior risultato nell'Europa a «25» - Più difficile l'obiettivo di destinare il 3% del PIL all’innovazione DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES a Peggio di Portogallo e Grecia, ma anche di Estonia e Cipro. È stata cosi brusca in Italia la frenata dei finanziamenti pubblici alla ricerca nel 2003 che il calo, addirittura del 5,3%, noti ha eguali non solo tra i 15 Paesi europei della Vecchia Europa, ma anche tra i 25 dell'Unione allargata. Il risultato emerge dalla prima istantanea sulla ricerca comunitaria che la Commissione Ue renderà pubblica oggi, in preparazione del summit europeo della settimana prossima. Il panorama d'assieme non è molto confortante sulla strada che punta all'obiettivo, fissato al vertice di Barcellona nel 2002, di far salire dal 2 al 3% del Pil le risorse destinate alla ricerca in Europa, con due terzi provenienti dal settore privato. Una meta che - secondo il commissario europeo alla Ricerca, Philippe Bousquin - implicherebbe un tasso di crescita media dei budget della ricerca pubblica dell'Europa allargata del 6,5°I° l'anno. In termini reali, tra 2002 e 2003 si è, invece, viaggiato al 2% e sullo stesso passo si sta procedendo, secondo le previsioni, tra 2003 e 2004. Lo studio della Commissione - il primo del suo genere - osserva con preoccupazione che dal varo nel 2002 della strategia del 3%, ala maggior parte dei Paesi con bassi livelli di spesa pubblica non ha reagito con il necessario slancio» e che «la maggior parte di quelli con alti livelli di spesa ha fatto segnare un declino significativo del tasso di crescita annuo». Con il rischio di vedersi cosi accentuare, e non ridurre, l'abisso che separa l'Europa da Stati Uniti e Giappone. Molto diseguali poi i risultati dei diversi Paesi Ue. L'amo scorso, oltre al calo dei finanziamenti pubblici italiani del 5,3% a 6,9 miliardi di curo (e senza alcun sgravio fiscale supplementare alla ricerca), si registra la diminuzione del ?% anche in Portogallo a 880 milioni di euro e dello 0,9% nei Paesi Bassi a 3,2 miliardi di euro (dove si sono concessi però anche sgravi fiscali alla ricerca per 364 milioni). Il passo più spedito l'ha fatto invece registrare Cipro, con un aumento del 15,2% a 13 milioni del budget pubblico per la ricerca, seguito da Repubblica Ceca (+ 13,9%) ed Estonia (+13,3%), mentre tra i vecchi membri il primato va alla Grecia (+9,8%), seguita dalla Svezia (+9,2%). Avvilente anche il confronto, in termini assoluti, con gli altri «big». Ai 6,9 miliardi di euro di fondi pubblici italiani fanno riscontro i 16,9 della Germania, i 12,8 della Gran Bretagna e i 12,3 della Francia (che non includono però i fondi regionali e locali). I dati dell'Esecutivo Ue illustrano che l'Italia perde terreno anche se si compara la crescita media del periodo 1998- 2002 con quell0 2002-2004. Mentre nel primo quadriennio i fondi pubblici alla ricerca nel nostro Paese crescevano a una media dell' 8%, l'aumento della spesa pubblica complessiva nell'ultimo biennio va di poco oltre la media dell'1%. La fotografia di Bruxelles offre anche proiezioni per il 2004 e in questo caso si prevede finalmente un colpo di reni del nostro Paese, che dovrebbe potenziare i fondi pubblici del 14% a 7,9 miliardi con la comparsa anche di 650 milioni di curo di sgravi fiscali. Un balzo che resta lontano dall'aumento del 61,5% previsto da Cipro e del 33,9% della Slovenia, ma che tra gli Stati dell'Europa a 15 viene battuto solo dagli incrementi di Lussemburgo (+l7°Io), Irlanda (+16,5%) e Austria (+15,8%). ENRICO BRIVIO ___________________________________________________ L’Unione Sarda 16 mar. ’04 CAGLIARI. I DATI: PRECARI 2500, EFFETTIVI 2400 Cagliari: una storia bruttina Alla faccia della flessibilità: 2500 precari contro 2400 effettivi. L'Università di Cagliari vanta un primato non da poco. Più della metà dei suoi dipendenti sono co.co.co, contratti a termine, atipici, collaboratori a vario titolo genere e grado. Neanche il call center più rabberciato ha una tale quantità di sfruttati. Questa sarebbe l'istituzione di alta formazione che dovrebbe formate la futura classe dirigente? Brutta storia. E la colpa, di chi è? Ma di nessuno, ovviamente. È il sistema, quello che si giocava un tempo con il Totocalcio. Il futuro poi, non è roseo. Riforme e decreti ministeriali continuano a flessibilizzare sempre più. Comunque, noi, possiamo dormire sonni tranquilli. Le conseguenze dell'Università elastica, buone o cattive che siano, le subiranno i nostri figli e nipoti. Quindi, in definitiva, chi se ne frega. (Alfio Role) ___________________________________________________ La Repubblica 20 mar. ’04 RIFORMA: ORE DI INGLESE DIMEZZATE La lingua era una delle "tre I" del programma di Berlusconi La difesa del sottosegretario Aprea: "Qualità più che quantità" le sorprese della riforma Dal prossimo anno scolastico alle medie passeranno da 99 a 54 di MARIO REGGIO Alunni a una manifestazione contro la riforma Moratti ROMA - La teoria delle "tre I", inglese, internet e impresa, sbandierata dal presidente del Consiglio per esaltare la riforma Moratti, perde i pezzi per strada. Dagli slogan ai fatti: le ore di lezione della lingua inglese alle medie, passeranno dalle attuali 99 a 54 l'anno. In pratica un'ora e 38 minuti a settimana, contro le tre di oggi. La notizia era stata anticipata da Repubblica lunedì scorso. E ieri, rispondendo ad un'interrogazione dei parlamentari della Margherita Andrea Colasio e Franca Bimbi, il sottosegretario all'Istruzione Valentina Aprea ha dovuto ammettere la verità. "E' vero, ci sarà una diminuzione del monte ore annuale - ha risposto Valentina Aprea - compensata però da un aumento alle elementari: un'ora a settimana nella prima classe e due nelle successive quattro". Ma sarà davvero così? Facciamo due conti. Oggi, alle elementari, l'orario normale prevede 30 ore d'insegnamento e settimana che salgono a 40 con il tempo pieno. Dal prossimo anno scolastico le ore settimanali scenderanno a 27, delle quali due di religione, quindi la didattica dovrà essere ripartita in 25 ore. Quindi tutti i programmi, gestiti direttamente dalle scuole grazie all'autonomia, dovranno essere compressi. Ci sarà spazio per le due ore d'inglese a settimana? Ma non basta. Oggi, in molte scuole elementari le lezioni di lingua straniera sono tre a settimana. Qualche dubbio è venuto anche al parlamentare della Margherita, Andrea Colasio: "Il taglio alle medie, comunque, non è compensabile con l'aumento annunciato per elementari, perché nei primi anni di scuola l'apprendimento non può che essere basato sul gioco e non strutturato e impegnativo come avviene col passaggio alla scuola secondaria". La replica del sottosegretario all'Istruzione Valentina Aprea è imbarazzata: "Le scuole, nella loro autonomia didattica, possono utilizzare gli spazi dei laboratori per veicolare in una lingua comunitaria anche insegnamenti diversi da quelli linguistici. Inoltre ci sono altre misure di accompagnamento che, soprattutto in ambito domestico, possono consolidare l'uso e la conoscenza della lingua". Comunque la riforma non si tocca: "L'obiettivo fondamentale è quello di migliorare la qualità, piuttosto che la quantità degli insegnamenti - ha concluso - quello che conta sono le competenze conseguite alla fine dei percorsi formativi, e non le ore di insegnamento erogate". ___________________________________________________ Il Sole24Ore 10 mar. ’04 IL 60% DEI LAUREATI TROVA LAVORO IN UN ANNO Inchiesta / Sotto la lente il rapporto tra Università e occupazione Le medie migliori all'ateneo di Firenze Più di un neolaureato su due trova un lavoro entro pochi mesi dalla discussione della tesi. Non sono negative le prospettive per chi conclude gli studi in un'università del CentroNord, secondo quanto risulta da un monitoraggio compiuto nei sei atenei che aderiscono al consorzio universitario AlmaLaurea (Bologna, Ferrara, Modena-Reggio, Parma, Firenze e Siena). I dati fotografano una situazione che vede fra il 47,1% e il 62,2% la percentuale dei neo dottori che trovano un'occupazione a un anno dalla laurea (la media nazionale è il 56,6%), una quota che sale da un minimo del 66,6% a un massimo dell'80% a tre anni dal conseguimento del titolo. Fra gli atenei, quello fiorentino mostra le medie migliori: (62,2% a un anno, l'80% a tre anni), anche se in generale il mercato del lavoro toscano non è molto generoso con i profili più qualificati. Sulla stessa dimensione di Firenze anche l'Università di Modena e di Reggio con il 62% dei laureati dopo un anno. Buone anche le prospettive per chi si laurea, per esempio a Bologna, in Lettere (57%) o in Lingue (70%). Dal punto di vista degli imprenditori e delle categorie professionali i dati potrebbero essere migliori, se le università offrissero una formazione più vicina alle esigenze concrete del mondo del lavoro. Per sopperire alle carenze dei profili professionali più richiesti, in genere quelli legati ai processi innovativi, si moltiplicano gli stage in azienda e i corsi di formazione. ___________________________________________________ La Repubblica 15 mar. ’04 I MASTER EUROPEI SI PRESENTANO A ROMA FINO a qualche anno fa chi aveva terminato con successo un Mba, un Master in Business Administration, delle migliori scuole negli Usa o in Europa, poteva contare su almeno cinque ottime proposte di lavoro. Poi le cose sono cambiate: la crisi ha frenato le grandi società di consulenza e le banche d'affari che insieme rappresentavano il principale sbocco dei master. Oggi la tendenza si è di nuovo invertita. Specie perché altri settori industriali, soprattutto farmaceutico e largo consumo, hanno iniziato ad assumere persone con un master. E anche le scuole si stanno impegnando di più nel fare conoscere meglio i loro servizi. Di qui nasce il World Mba Tour: una sorta di road show di presentazione delle migliori business school (i selezionatori incontrano i potenziali candidati Mba) con appuntamenti nelle principali capitali del mondo (da San Francisco a Mosca, da Stoccolma a Kuala Lampur, ecc.). "I segnali un nuovo trend positivo- conferma Nunzio Quacquarelli - direttore del World Mba Tour - sono che le principali business school registrano un nuovo incremento nelle assunzioni dei propri allievi". Certamente quello che deve ancora diffondersi in molti paesi, primo tra tutti l'Italia che per numero di master conseguiti viene dopo la Cina e l'India, è la conoscenza di cosa rappresenti realmente frequentare un Mba. E' qualcosa di diverso rispetto ai vari corsi di specializzazione (per esempio in marketing o finanza). Andare all'estero è un'opportunità da valutare, ma come scegliere una business school straniera? Questa volta la cosa può essere più facile perché sono i master stranieri stessi che vengono in Italia a presentarsi. Ci saranno tutti i maggiori (Insead, Sila Bocconi) all'appuntamento del World MBA Tour a Roma il 22 marzo, lunedì prossimo (registrazioni sul sito www.topmba.com). I laureati potranno ricevere tutte le informazioni necessarie e, soprattutto, fare domande per capire quale possa essere la proposta più confacente ai propri progetti. Un buon Mba non costa poco: una cifra non inferiore ai 20.000 euro). Ma esistono borse di studio e prestiti d'onore. Ricordando anche che malgrado la recente crisi lo stipendio medio annuo di un neomaster si attesta oltre i 75.000 dollari. (carlo alberto pratesi) ___________________________________________________ Libero 16 mar. ’04 SIAMO IL POPOLO DELLE INVENZIONI INUTILI L'UFFICIO BREVETTI E MARCHI ITALIANO RIVELA: LA FANTASIA SI SBIZZARRISCE NEL SETTORE TRASPORTO Dalla due ruote tascabili alla barca a coda di pesce, alla sigaretta che si accende da sola. Sono 10 mila le idee geniali proposte ogni anno di GIANLUCA GROSSI MILANO - Francesco Negri (1841 - 1924)nel 1880 inventa il teleobiettivo e un apparecchio per la microfotografia. Enrico Bernardi (1841 - 1910) nel 1894 progetta il motore sperimentale a gas e produce i primi esemplari italiani di automobili con motori a combustione interna. Guglielmo Marconi (1874 - 1937) realizza nel 1901 la prima trasmissione radiotelegrafica tra l'Europa e l'America. Sono solo alcuni esempi relativamente recenti che riguardano gli italiani e la loro straordinaria capacità di cimentarsi con il mondo delle invenzioni e della tecnologia: una peculiarità che ancora oggi ci contraddistingue e che ci consacra ulteriormente come uno dei popoli al mondo più fantasiosi e più ricchi di idee. La conferma di ciò arriva direttamente dall'Ufficio Brevetti e Marchi italiano, il quale afferma che annualmente sono almeno 10 mila le invenzioni che vengono "recapitate" per essere approvate. Di invenzioni ce ne sono davvero di tutti i colori, alcune che fanno sorridere e altre che potrebbero invece tornare molto utili. Uno dei campi dove l'intelletto italiano si cimenta di più è quello relativo ai mezzi di spostamento. Per esempio abbiamo la cosiddetta "bicicletta tascabile". Essa è stata inventata per occupare il minore spazio passibile, per essere trasportata ovunque, e soprattutto per muoversi senza problemi nel traffico cittadino. È caratterizzata da ruote più piccole della norma e da un manubrio che si può ripiegare: in questo modo è possibile trasportarne addirittura quattro o cinque in un comune bagagliaio. Per chi ama il mare c'è invece la "barca a coda di pesce". Si basa sull'azione di un timone che, collegato a una superficie flessibile in gomma che si comporta esattamente come l'appendice di un comune abitante dei mari, va a sostituire l'azione efficace, ma spesso "ingombrante" dei remi. Tra le invenzioni più nuove e sorprendenti c'è la bara parlante: un metodo che permette di "comunicare" con i propri defunti senza l'ausilio di un medium o di sedute spiritiche. Essa consiste nel disporre al posto della lapide cimiteriale, sulla parte esterna del loculo, una speciale apparecchiatura dotata di uno schermo televisivo. Mentre all'interno si posiziona un videoregistratore con le cassette registrate dal caro estinto prima della dipartita. Il sistema viene infine azionato da un telecomando. Anche ai fumatori si è pensato, soprattutto a quegli smemorati che lasciano sempre a casa l'accendino o si scordano di comprare i cerini. Per loro ora c'è la "sigaretta che si accende da sola". Essa è caratterizzata da un semplice dispositivo: un piccolo cilindro di carta fornito esternamente di un rivestimento abrasivo che va a collocarsi sul prolungamento di carta della sigaretta stessa, rivestito internamente di un materiale speciale in grado di infiammasi per sfregamento. Infine c'è l'invenzione che potrebbe "salvare" la vita di tante persone alle prese con un fastidiosissimo problema: le flatulenze. L'inventore ha predisposto in pratica delle mutande dotate di aspiratore, il risultato delle tecnologie moderne che consentono di miniaturizzare ogni componente elettronico. Il loro fine è quello di assorbire gli odori nocivi provocati da un peto e di convertirli in un piacevole profumo. L'invenzione si basa su dei piccolissimi condotti predisposti al trasporto dei gas "naturali". Essi sono collegati a un depuratore chimico situato in una tasca apposita: al momento opportuno, quando cioè il "vento" è imminente e non si può far nulla per trattenerlo, entrano in azione ed è cosi che l'aria si mantiene "pulita". Per attenuare il rumore di una flatulenza particolarmente violenta gli slip sono inoltre dotati di materiale fonoassorbente che elimina il rumore quasi del tutto. La bara parlante permette di conversare can i propri defunti ===================================================== ___________________________________________________ L’Unione Sarda 16 mar. ’04 ACCORDO REGIONE-UNIVERSITÀ SULL’AZIENDA SANITARIA MISTA Via libera del Senato accademico al protocollo d’intesa Più fondi per la ricerca nelle cliniche dell’Ateneo Sbloccati anche i corsi di laurea breve saltati quest’anno CAGLIARI. Un’intera mattinata di discussione poi il consiglio d’amministrazione e il senato accademico dell’Università danno l’ok a alla collaborazione con la Regione nella sanità. È l’atteso via libera all’azienda mista che in Sardegna nasce con cinque anni di ritardo rispetto a tutte le altre regioni italiane e che dovrebbe da un lato sbloccare le lauree brevi (quest’anno i corsi sono semplicemente saltati), dall’altro redistribuire le risorse non solo economiche in modo da regolare l’assistenza sanitaria con la didattica e la ricerca universitarie. Di lì un’oculata previsione dei posti letto, una diversa tipologia e una più efficiente organizzazione dei reparti, i maggiori finanziamenti, la riduzione degli orari in corsia per i professori universitari. Senza dimenticare l’altra novità: l’Università diventa consulente della Regione nella predisposizione del piano sanitario. Il rettore Pasquale Mistretta ha convocato per ieri mattina prima il senato accademico poi il consiglio d’amministrazione: voto unanime per il primo, l’astensione di un rappresentante di Studenti a sinistra e voto contrario del sindacalista Cisal nel secondo. Il prossimo passo sarà l’esame della commissione Sanità del Consiglio regionale, poi la discussione in Aula. Il problema sono i tempi: ci sono le regionali e non tutti sono convinti che si arriverà alla definizione dell’azienda mista prima delle elezioni. Si vedrà. Intanto il senato accademico, che nel protocollo d’intesa "ravvisa lo strumento indispensabile per consentire all’Ateneo, e in parte alla facoltà di Medicina, di svolgere secondo il quadro normativo attività istituzionali di didattica, ricerca e assistenza", dà mandato al rettore di "rappresentare ai diversi livelli decisionali il parere dell’Università e auspica la stipula del protocollo d’intesa in questa legislatura per consentire quanto prima l’istituzione della nuova azienda". La collaborazione tra servizio sanitario e Università si realizza "con un’azienda ospedaliero-universitaria, una con sede a Cagliari l’altra a Sassari. Quella cagliaritana comprende il San Giovanni di Dio, incluso il complesso pediatrico di via Porcell, la clinica psichiatrica di via Liguria, il policlinico universitario di Monserrato, il complesso odontostomatologico di via Binaghi". Il protocollo definisce "le linee generali della partecipazione delle università alla programmazione sanitaria regionale". I vantaggi sono molti: non bisogna dimenticare che l’istituzione dell’azienda mista è un atto dovuto senza il quale gli studenti che scelgono i corsi triennali rischiano di avere fra le mani un titolo di studio che non vale in Europa e neanche anche sul resto del territorio nazionale. Una legge del 1992 e il decreto legislativo del 1999 stabiliscono infatti che le lauree brevi poggino su strutture idonee, come le aziende miste. Le altre regioni hanno già provveduto, la Sardegna ci aveva tentato negli anni della giunta Palomba ma il progetto si era arenato. È rimasto per quasi quattro anni in un cassetto e solo ora intravede il traguardo. Nella bozza del protocollo si legge che "l’ Università contribuisce per gli aspetti concernenti le strutture e le attività assistenziali all’elaborazione del piano sanitario regionale. Contribuiscono inoltre alla definizione di indirizzi di politica sanitaria e di ricerca, di programmi di intervento, nonché all’applicazione di nuovi modelli organizzativi delle strutture e delle attività sanitarie". "Sulla base degli indirizzi e dei criteri definiti dalla Regione, il direttore generale definisce la pianta organica: i posti riservati ai professori universitari, ai ricercatori e agli assistenti sono individuati dal direttore generale d’intesa col rettore". Quanto al personale del servizio sanitario nazionale che lavora nelle strutture che confluiscono nelle aziende di riferimento, entro 60 giorni potrà chiedere il trasferimento presso altre strutture regionali con diritto di precedenza rispetto ad eventuali altre domande". La Regione e l’Università concorrono al sostegno economico finanziario dell’attività: l’università con l’apporto del personale docente e non docente, con la concessione in uso a titolo gratuito dei beni immobili che saranno individuati nel progetto di scorporo, con il trasferimento in proprietà o la concessione in uso a titolo gratuito dei beni mobili. La Regione fornirà corrispettivi delle prestazioni di ricovero e di quelle specialistiche ambulatoriali effettuate dall’azienda. A questo proposito, dopo un anno si procederà a un monitoraggio per aggiornare i tariffari regionali per il rimborso delle prestazioni. A carico della Regione ci sono poi: finanziamenti specifici in conto capitale nell’ambito dei programmi regionali; altri finanziamenti per la realizzazione di specifici programmi; l’apporto di beni mobili e immobili. ___________________________________________________ L’Unione Sarda 17 mar. ’04 L'AZIENDA MISTA NON CONVINCE SINDACATI E MEDICI Tra Regione e Università ospedali Organici pieni ma non bastano e così crolla anche la qualità dell’assistenza ai pazienti ricoverati Le aziende sanitarie miste, che comprendono la Regione e le Università, non piacciono ai sindacati. All’indomani dell’approvazione del protocollo d’intesa da parte del Senato accademico cagliaritano, in una nota le segreterie regionali Fp-Cgil e Fpl-Uil esprimono un netto dissenso sulla proposta di costituzione delle aziende miste avanzata dall’assessore regionale della Sanità, Roberto Capelli. Secondo i sindacati, il progetto "stravolge l’assetto della intera rete ospedaliera di cui ne pregiudica la futura riorganizzazione, scaricando sui presidi ospedalieri pubblici l’onere della riconversione dei posti letto per acuti, con grave pregiudizio su importanti ospedali, quali il Santissima Annunziata di Sassari, il San Giovanni di Dio di Cagliari, e su quelli piccoli". Nella nota diramata dalle organizzazioni sindacali, si legge inoltre che "le dimensioni delle aziende miste proposte dall assessore sono ingiustificate rispetto al fabbisogno formativo della Sardegna, che vanta uno degli indici più alti d’Italia nel rapporto medico per abitante. Inoltre determinano un incremento della spesa sanitaria a carico del bilancio della Regione di oltre 50 milioni di euro, assolutamente incompatibile con la crisi finanziaria della sanità sarda, che si scarica sui cittadini con il taglio delle prestazioni e i ticket, e sui lavoratori della sanità privata costantemente in arretrato con gli stipendi". Le segreterie dei due sindacati chiedono quindi un deciso ridimensionamento della proposta e la contestuale approvazione della riorganizzazione della rete ospedaliera, salvaguardando la funzione dei piccoli ospedali e individuando la costituzione delle nuove aziende ospedaliere di alta specialità. Viene, inoltre, sollecitata un’intesa con le Università per le lauree infermieristiche: poichè l’avvio dei corsi non dipende dalle aziende miste, i sindacati chiedono all’assessore Capelli di definire i relativi protocolli per l’ anno accademico 2004/2005, sottolineando l’ esigenza che i corsi siano previsti, oltre che a Cagliari e Sassari, anche a Nuoro e Oristano. La bozza di protocollo d’intesa fra Regione e Università non piace nemmeno all’Intersindacale medica, che rappresenta i medici ospedalieri sardi. "Non sono state minimamente prese in considerazione le nostre osservazioni", protesta la categoria, accusando l’assessore regionale alla Sanità, Roberto Capelli, che aveva convocato i sindacati, di aver ignorato le proposte avanzate nelle scorse settimane. "Quello che parrebbe il documento definitivo è stato modificato in alcune sue parti e i cambiamenti introdotti non sono affatto graditi al mondo ospedaliero, in quanto, fra le altre cose, reintroducono quegli elementi di disparità che tanto abbiamo combattuto e che credevamo definitivamente superati. Ci rendiamo conto", afferma l’Intersindacale medica, "che le modifiche apportate verosimilmente hanno origine dalle pressioni degli universitari e sappiamo bene quanto i nostri politici siano sensibili al canto delle sirene accademiche. Tuttavia, i medici ospedalieri non subiranno passivamente". ___________________________________________________ La Nuova Sardegna 17 mar. ’04 TROPPE MODIFICHE A FAVORE DEGLI UNIVERSITARI Si ribellano i sindacati medici sui ritocchi all’azienda mista "L’assessore forse si è fatto incantare dalle sirene d’ateneo" CAGLIARI. Ma a quale gioco sta giocando l’assessorato regionale alla sanità che consulta i sindacati dei medici sul protocollo di azienda mista e poi non tiene in alcun conto i pareri espressi? Di più: secondo i medici, le uniche modifiche rintracciabili sono peggiorative rispetto al testo letto alla presentazione ufficiale e, qui sta l’affronto alla categoria, ristabilirebbero una manciata di disparità tutte a favore degli universitari. La reazione è pronta: un comunicato che denuncia la presunta scorrettezza dell’assessore il quale a parole cerca il consenso delle parti e nei fatti asseconda le richieste delle "sirene universitarie". L’intersindacale medica che raggruppa Anaao-Assomed, Anpo, Cimo Asmd, Aaroi, Cgil Medici e Cisl Medici si prepara alla mobilitazione. Ecco la nota: "Abbiamo letto con vivo disappunto la bozza del protocollo d’intesa tra Regione e Università che dovrebbe essere portata in giunta regionale. Il nostro disappunto - scrive l’associazione dei sindacati medici ospedalieri - nasce da due elementi di fatto. In primo luogo non sono state minimamente prese in considerazione le nostre osservazioni. Ci sentiamo presi in giro quando l’onorevole assessore ci convoca chiedendo il nostro parere sul documento, ottiene la nostra approvazione sia sull’impianto generale del documento sia sul metodo di consultazione e poi non prende minimamente in considerazione i nostri rilievi e le nostre proposte. In secondo luogo - si continua nel documento -, quello che parrebbe essere il documento definitivo è stato modificato in alcune sue parti e le modifiche introdotte non sono affatto gradite al mondo ospedaliero in quanto, tra le altre cose, reintroducono quegli elementi di disparità che tanto abbiamo combattuto e che credevamo definitivamente superati nella versione del protocollo che ci era stato a suo tempo consegnato". L’intersindacale non minimizza: "Qualcuno - si sottolinea - lo chiama il gioco delle tre carte. Ci rendiamo conto che le modifiche apportate forse originano dalle pressioni universitarie e sappiamo bene quanto i nostri politici siano sensibili al canto delle sirene accademiche. Tuttavia - vanno avanti i sindacati -, i medici ospedalieri non subiranno passivamente il fatto di vedere la loro dignità e professionalità ancora una volta calpestate e sacrificate sull’altare dell’ambizione di una sparuta schiera di professori universitari". Infine: "Le elezioni sono vicine e ci si può quindi aspettare che la potente lobby universitaria eserciti le sue pressioni, ma anche i medici ospedalieri votano e, guarda caso, sono molto più numerosi e non abbarbicati alle poltrone ma agiscono in difesa di diritti sacrosanti sanciti dalle leggi". Cgil Funzione pubblica e Uil criticano pesantemente la bozza dell’assessore: "La proposta stravolge l’assetto dell’intera rete ospedaliera, ne pregiudica la futura riorganizzazione, scaricando sui presidi ospedalieri pubblici l’onere della riconversione dei posti letto per acuti... le dimensioni delle aziende miste proposte dall’assessore sono assolutamente ingiustificate rispetto al fabbisogno formativo della Sardegna che vanta uno degli indici più alti in Italia nel rapporto medico per abitante". Insomma: ricomincia la guerra? ___________________________________________________ La Nuova Sardegna 17 mar. ’04 AZIENDA MISTA: GLI ULTIMI "PACCHI DI PASTA" SIAMO seri: non scherziamo con le istituzioni. Da diverse parti del Governo regionale arrivano proposte per la risoluzione di problemi antichi, nei tre mesi di fine legislatura. Parlo nel mio settore, dell’Università e della Sanità. L’Università sta al gioco e risponde agli Assessori (politici?): gli stessi Assessori condannano la "Politica" per i suoi ritardi. Viene spontanea una domanda: quale politica e quali politici? E’ una domanda legittima di là dalle simpatie per il proprio schieramento. Dobbiamo ancora porci di fronte ad un’altra questione. E’ plausibile che l’Università si confronti con un Governo regionale (di minoranza?), a fine legislatura, praticamente a campagna elettorale già iniziata? Immaginiamo, per un momento, che le questioni possano essere risolte (ne dubitiamo fortemente). Ai tempi di Lauro una pacco di pasta, nel 2004 un "protocollo d’intesa", per i clienti della politica. E’ una facile battuta, ma con cui esprimiamo tutta la nostra amarezza per la credibilità delle istituzioni, dell’Università e del Governo regionale. Possiamo essere smentiti dalla "buona fede" di questo o di quell’Assessore, di questo o di quel Rettore o Preside di Facoltà, ma quanto meno rimane forte il sospetto, per l’Università dei clienti della politica, per gli Assessori che siano in campagna elettorale. Fermiamoci! L’Università, nel suo ruolo istituzionale, deve seguire attenta il dibattito politico (elettorale), ma in silenzio. Questo non impedisce che, in democrazia, anche l’Università sia uno dei luoghi del confronto politico e che il singolo docente parteggi per questa o per quell’alleanza politica, ma personalmente e non certo in nome dell’Università in quanto istituzione. E’ altrettanto legittimo che il singolo Assessore faccia la sua campagna elettorale, ma, analogamente al docente universitario, lo deve fare in nome della sua alleanza politica, non in quello del Governo regionale. La Sardegna è investita da una grave crisi: il primo problema che si dovrà porre è forse quello del rigore istituzionale. Paolo Pani (professore ordinario) ___________________________________________________ La Nuova Sardegna 10 mar. ’04 ORA VI DICO PERCHÉ MUORE LA SANITÀ SARDA" Sassari, parla Giulio Rosati, preside della facoltà di Medicina e chirurgia Pesanti le conseguenze della mancata costituzione delle aziende miste in Sardegna di Roberto Morini SASSARI. Le due facoltà di medicina sarde bloccate. Niente lauree brevi e quindi niente infermieri, niente tecnici di radiologia o fisioterapisti. E poi: niente specializzazioni postlaurea, né cardiologi né ortopedici. È la situazione assurda in cui gli annosi giochi della politica sarda hanno gettato un settore vitale. La denuncia viene da Giulio Rosati, neurologo, preside della facoltà di medicina di Sassari. Che mette sul banco degli imputati i politici sardi, quelli del centrosinistra che hanno governato fino a l’altro ieri e quelli del centrodestra al potere oggi. Tutti incapaci di sbloccare una situazione che ha le sue origini nel lontano 1992. E che produce anche, conseguenza tutt’altro che secondaria, servizi sanitari capaci di offrire sempre meno ai malati e insieme di costare sempre di più ai contribuenti. Ci racconti questa vicenda. Quando comincia? "Comincia con il decreto legislativo 502 del 1992 che riordinava il servizio sanitario nazionale applicando la filosofia degli altri sistemi sanitari europei: c’erano le aziende Usl che compravano per conto dei cittadini i servizi sanitari, i ricoveri, gli esami da altre strutture che li erogavano e che si chiamavano aziende ospedaliere. Questa filosofia venne applicata gradualmente in tutta Italia. La Sardegna fece qualcosa in quella direzione con la legge 5 del 1995. Ma solo in parte: le aziende Usl continuarono a gestire i grossi ospedali. L’unica eccezione fu il Brotzu a Cagliari". Perché in Sardegna fu fatta questa scelta? "Il problema era ed è l’abitudine a usare la sanità per interessi diversi da quegli degli utenti. Il governo di una grande Asl, anche in termini di ritorno elettorale, è molto più pagante di una serie di strutture differenziate". Perché questi ritardi della politica bloccano l’attività di formazione delle facoltà di medicina sarde? "Il decreto del 1992 obbligava a stipulare protocolli d’intesa con le università e con le facoltà di medicina. Si riconosceva la necessità di creare una rete di servizi universitari insieme a quelli del servizio sanitario regionale per sostenere la formazione delle professioni sanitarie - infermiere, fisioterapista, logopedista, tecnico di laboratorio, di radiologia - e per sostenere la formazione post laurea, le specializzazioni mediche. Ma qui non si fecero i protocolli d’intesa. Nel 1998 ci arrivammo vicini. Ma non si chiuse il discorso". Chi c’era alla Regione? "Il centrosinistra. L’assessore era Paolo Fadda, che arrivò con noi a concludere un protocollo d’intesa condiviso. Ma non c’era l’accordo con l’università di Cagliari. Fummo sacrificati a questo tipo di ottica: o tutti e due o niente". Poi cambiò la giunta e quindi tutto ciò che era stato fatto fino a quel momento venne buttato via. "Sfortunatamente succede sempre così. Non solo. Il nuovo decreto legislativo del 1999 imponeva che le nuove aziende ospedaliere, oltre che dell’assistenza, si occupassero della formazione e della ricerca. Contestualmente ci fu la riforma dell’insegnamento universitario con l’introduzione dei due livelli di laurea: triennali e specialistiche". Qual era l’obiettivo di questa riforma? "Favorire la libera circolazione dei laureati in Europa. Se vuoi che il titolo di studio venga riconosciuto in tutta Europa deve uscire da un percorso formativo con caratteristiche precise. Per la medicina è indispensabile che la struttura didattica di riferimento sia l’azienda ospedaliera universitaria. Le lauree brevi e le specializzazioni prese nelle due università sarde non hanno dunque nessun valore. E il caso Sardegna è unico in Italia". Per arrivare alla firma di questi protocolli dopo il fallimento del 1998 non si è fatto più nulla? "Prima Giorgio Oppi e poi Roberto Capelli hanno messo al lavoro una commissione paritetica che è ora arrivata a una bozza d’accordo, che si affronterà domani (oggi per chi legge) a Cagliari, con la speranza che poi questo protocollo venga approvato dal consiglio regionale". Che tempi ci sono per chiudere in maniere utile? "Dobbiamo mandare l’offerta formativa entro il 31 marzo. E comunque per attivare i corsi si può arrivare al massimo a giugno. L’anno scorso sono andati in giro per l’Italia 400 studenti, quest’anno saranno ancora di più". Si può arrivare alla nomina di un commissario? "La legge prevede che se non è attuato il protocollo d’intesa entro 180 giorni, e sono ormai passati anni, entrano in azione i ministeri. Ma non succede mai". Questa situazione ha conseguenze anche per l’assistenza ai malati? "Certamente. Intanto una azienda ospedaliera universitari ha i requisiti dell’alta specializzazione, a cui devono essere destinate risorse di un certo livello. Un’esperienza personale: lunedì non riuscivo a stabilire la diagnosi differenziale perchè non c’è una reperibilità per il tecnico della risonanza megnatica. Ci sono riuscito solo chiedendo un piacere personale". Ci sono state resistenze politiche ed economiche. È proprio sicuro che non ci siano anche resistenze dal mondo medico? "Ci sono sicuramente. Quando tentammo, come università, di arrivare all’azienda mista con il Santissima Annunziata si scatenarono contro tutti i sindacati medici. Eppure la commissione paritetica con cinque primari ospedalieri e cinque universitari aveva stabilito un accordo, che sostanzialmente ricalca quello che c’è nella bozza di protocollo attuale, che è quella che dà di più agli ospedalieri. Se non riusciamo a riorganizzare i servizi sanitari sassaresi, a fare un salto di qualità, finisce che Cagliari riesce a drenare la fetta maggiore di finanziamenti. Per ogni cittadino cagliaritano si spendono due milioni e mezzo di lire, contro un milione e settecentomila speso per ogni cittadino residente nel Sassarese. Così ci troviamo in grosse difficioltà: abbiamo attrezzature obsolete, reparti che sul piano alberghiero non sono dignitosi, anche stiamo facendo un grosso sforzo. Siamo vicini al punto di non ritorno". Cosa si può fare? "Può intervenire solo la politica. Bisogna innescare un progetto di rilancio di Sassari. Io sono stato a Sassari appena laureato, tra il 1969 e il 1975. La qualità di Sassari non era diversa da Parma o da Ferrara. Quando sono tornato ho visto un declino enorme. Non c’è stata una politica di modernizzazione". Ora si tratta di accelerare l’approvazione di questo protocollo. "Qualcuno forse vuole definire meglio questo protocollo. Non siamo bambini, sappiamo che ci possono essere interessi non strettamente sanitari, dal momento che siamo nell’imminenza delle elezioni regionali. Ma almeno si stabilisca che vanno bene le linee generali del protocollo. Poi si nomini un commissario e chi vincerà deciderà sui direttori generali. Oppure intanto si stabilisca che le aziende ospedaliere universitarie vanno fatte, senza definire i dettagli. Ma per lo meno si faccia questo passaggio che consideriamo essenziale per non bloccare i corsi di studio. In quel caso ci sentiremmo autoriszzati a dare il via ai corsi senza il rischio che fra tre anni lo studente laureato si veda sbattere tutte le porte in faccia perché il suo titolo non ha nessun valore. Ci sia almeno un segnale politico chiaro da parte del consiglio regionale". ___________________________________________________ L’Unione Sarda 19 mar. ’04 DOTTORANDI, ECCO LE PROMESSE DI RISTRETTA La protesta: il consiglio d’amministrazione deve cancellare la delibera che ha introdotto la tassa di 258 euro Il rettore: martedì la questione sarà portata all’attenzione del Senato accademico Si apre uno spiraglio per i 113 dottorandi senza borsa che dovranno pagare la nuova tassa di 258 euro, introdotta dal consiglio di amministrazione dell’Università. Ieri mattina una rappresentanza è stata ricevuta dal rettore Pasquale Mistretta e gli ha consegnato una sorta di "testo denuncia" della situazione dei dottorandi. Al termine dell’incontro Mistretta ha garantito che porterà la questione nella prossima riunione del Senato accademico, martedì 23. Un impegno che potrebbe servire a trovare una scappatoia, anche se il rettore ha ribadito che "il mondo universitario sta attraversando un momento critico, e i soldi servono". Dall’altra parte i dottorandi, con e senza borsa, costituiti in un coordinamento spontaneo, hanno accolto positivamente l’impegno del rettore, anche se i problemi restano. La tassa contestataErano una trentina ieri davanti all’Università. "Chiediamo il ritiro della delibera del consiglio di amministrazione che ha introdotto la tassa a carico dei dottorandi senza borsa": questa la richiesta del coordinamento, come ha ricordato Igor Marcialis, dottorando in Economia. Una strada difficilmente perseguibile, ma Mistretta ha anticipato altre possibili soluzioni. "Possono essere introdotte delle fasce di reddito, così chi non potrà pagare sarà esonerato oppure verserà una percentuale minore - ha ipotizzato il numero uno dell’Università cagliaritana - c’è anche la possibilità che arrivino i contributi del fondo sociale europeo, o di quelli di privati e fondazioni, e tutto sarebbe risolto". C’è anche una terza via, che Mistretta ha definito "rischiosa": "Delegare tutto ai dipartimenti, con la possibilità che non siano più richiesti dottorati senza borse". Una cosa è certa: "I soldi servono, da qui non si scappa - ha ricordato il rettore, che ha concluso assicurando che porterà la questione in Senato accademico martedì prossimo". Che i soldi servano non è una novità, ma i dottorandi chiedono "come potranno essere ridistribuiti tra i dipartimenti i 30 mila euro della tassa, e a cosa potranno servire". Lavoratori o no L’introduzione della tassa, ha stabilito la delibera del Consiglio di amministrazione, nasce dall’equiparazione del dottorando a un corso post-lauream. "È la goccia che ha fatto traboccare il vaso - ha commentato Gianluca Sanna, dottorando in Filosofia - dicono che non siamo lavoratori. Ma allora perché versiamo un contributo previdenziale all’Inps, pari al 14 per cento?". Senza contare le mansioni svolte: "Non abbiamo nessun servizio - ha aggiunto Marcialis - in alcuni dipartimenti mancano stanze o addirittura scrivanie. Molti sostituiscono docenti in esami, seminari ed esercitazioni". Il tutto, per chi ha la borsa, a 800 euro circa netti al mese. Per chi non ha la borsa, oltre allo stesso lavoro dei colleghi "più fortunati", anche la beffa della tassa. Così tutti uniti: ritiro della delibera, basta al precariato accademico e uno status preciso del dottorando. Matteo Vercelli ___________________________________________________ La Nuova Sardegna 17 mar. ’04 SPECIALIZZANDI: SIAMO I MANOVALI DELLA SANITÀ" Sit-in dei medici specializzandi che si sentono discriminati LA PROTESTA Sfruttati e caricati di responsabilità SASSARI. È passato un anno e mezzo dall’ultima protesta con scioperi e manifestazioni in tutta Italia, ma per i medici specializzandi nulla è cambiato. Anzi, oggi la loro posizione è minacciata ulteriormente dall’approvazione in Senato del disegno di legge 2701, che li ridefinisce come lavoratori autonomi, con l’obbligo di pagare Irpef e Inps. Il nuovo documento attualmente in discussione alla Camera modifica il decreto legislativo 368/99, peraltro mai attuato, che per i medici in specializzazione prevede la stipula di un contratto di formazione lavoro. Per questo ieri circa 200 neo medici iscritti alle scuole di specializzazione della facoltà di Medicina e chirurgia dell’università di Sassari, in linea con i colleghi di tutta la penisola, hanno scioperato, manifestando la loro protesta con un sit-in in viale San Pietro. L’astensione dal lavoro è cominciata lunedì, e a riprova dell’importanza del lavoro che quotidianamente gli specializzandi svolgono nelle strutture sanitarie, molti reparti sono andati in tilt, con notevoli rallentamenti nello svolgimento dell’attività assistenziale. La goccia che questa volta ha fatto traboccare il vaso è dunque rappresentata dal nuovo disegno di legge che ridefinisce la figura del medico specializzando come lavoratore autonomo, con l’assunzione di piena responsabilità professionale e nessuna tutela dei diritti di malattia, maternità, contributi previdenziali adeguati, ferie. Se il documento venisse approvato anche alla Camera, considerato l’esiguo stanziamento di 36 milioni di euro per il 2004, i medici specializzandi già da quest’anno percepirebbero un importo mensile inferiore all’attuale borsa di studio (circa 800 euro), a fronte dei versamenti contributivi e delle tasse previste dalla legge per i lavoratori autonomi e parasubordinati. "Siamo ormai niente più che manovalanza a basso costo - hanno detto ieri i rappresentanti delle varie scuole di specializzazione - senza diritti e con enormi responsabilità". Eppure sono medici a tutti gli effetti, che svolgono attività a tempo pieno nei reparti sanitari, sopportando il più delle volte pesantissimi carichi di lavoro e vedendo negati gli stessi che negli altri paesi europei sono riconosciuti da quasi 10 anni. La normativa li definisce "medici in formazione specialistica" e, con il Decreto legislativo 368/99, regola la loro posizione in materia di libera circolazione dei medici e di reciproco riconoscimento dei loro diplomi, certificati ed altri titoli, nell’ambito dei Paesi dell’Unione europea. Con l’approvazione di questo decreto il Parlamento ha però soltanto sulla carta adeguato l’Italia alle regole UE, poiché di fatto questo decreto non è mai stato applicato, e gli specializzandi continuano ancora ad usufruire di borse di studio, facendosi carico del pagamento delle tasse universitarie e del versamento della quota annuale all’ordine dei medici, e correndo il rischio di non vedere riconosciuto il loro titolo nel resto d’Europa. "Un ritardo applicativo discriminatorio - denunciano gli specializzandi - che ci priva della dignità di lavoratori e della garanzia di ricevere una formazione controllata e di qualità". Questa situazione in Sardegna è aggravata dalla mancata sigla dei protocolli d’intesa tra Regione e Università: "Un problema, quest’ultimo - aggiungono - che non riguarda soltanto noi ma l’intera sanità, e che rimanda alla legge 517/99, che regola i rapporti e gli indirizzi tra Università e Sistema sanitario nazionale. Senza i protocolli d’intesa fino ad oggi non hanno potuto trovare applicazione neppure i contratti di formazione. Ed ora la beffa arriva dal nuovo disegno di legge". Angela Recino ___________________________________________________ La Nuova Sardegna 18 mar. ’04 MISTRETTA TENTA DI BLOCCARE SORU INCONTRO CON GLI STUDENTI Folla per l'imprenditore, che esalta il valore della conoscenza "Assenti le imprese, nessuno contribuisce ai costi dell'istruzione" CAGLIARI. Renato Soru è riuscito a riempire di studenti l'aula magna di ingegneria, stracolma come non s'era mai vista, fra code in attesa e applausi. E senza volerlo ha fatto nascere un caso politico interno all'ateneo: secondo la denuncia di Matteo Murgia, rappresentante degli studenti nell'Ersu, il rettore Pasquale Mistretta ha provato a bloccare l'incontro-dibattito organizzato dall'associazione Don Chisciotte esprimento "perplessità". Non gli è piaciuta l'idea di un candidato alla presidenza della Regione che parla in una facoltà: "Sono il garante della democrazia all'interno dell'Università di Cagliari" ha detto Mistretta, stando al racconto di Murgia. Che non ha lesinato i commenti caustici: "Strano, proprio Mistretta che si fa cambiare lo statuto per essere eletto quattro volte rettore, lui vuole insegnarci la democrazia. Forse farebbe bene a occuparsi meno di piano urbanistico comunale e più di università". Alla fine, come ha spiegato Egildo Tagliareini della Don Chisciotte, il problema s'è risolto ribaltando il programma: da Soru che parla a Soru che ascolta, seduto fra studenti e professori, al fianco dei consiglieri regionali Nazareno Pacifico e Ivana Dettori, attento a non perdersi una battuta. E le battute sono fioccate in quest'assemblea-sfogo, dove i problemi dell'università - tra la riforma Moratti e l'assenza cronica della Regione - sono venuti fuori uno ad uno: Murgia e Tagliareini hanno protestato per le tasse che pur incidendo del solo sei per cento sul bilancio dell'ateneo rappresentano un ostacolo per molte famiglie. Poi la vicenda della casa dello studente acquistata dal commissario straordinario dell'Ersu Silvaldo Gadoni: "E' costata 20 milioni di euro, per un posto-letto se ne spenderanno 60 mila - ha fatto i conti Murgia - sarebbe stato più conveniente, dati alla mano, comprare due hotel a quattro stelle". Attacchi alla Regione ("il centro-destra ignora gli studenti, ma il dialogo con il centro-sinistra non è stato più produttivo") e malcontento diffuso, anche fra i docenti, per la sequenza di tagli imposti dal governo: "Non abbiamo più i soldi per comprare le rivisce scientifiche - ha denunciato tra gli altri Raffaele Paci, preside di scienze politiche - come si fa a fare ricerca in queste condizioni?". Invitato a dire la sua sul mondo degradato dell'istruzione pubblica, Renato Soru non ha liquidato i problemi concreti ("tasse, alloggi, cose importantissime") ma ha alzato decisamente il tiro per parlare del valore della conoscenza: "E' difficile avere un'università ricca in una regione povera - ha detto il fondatore di Progetto Sardegna - ma l'università e la scuola non possono essere considerati soggetti terzi rispetto alla società. Sono i luoghi dove si formano la coscienza e la conoscenza, il centro della nostra regione è lì. Scuola e università non sono cose marginali, non sono luoghi come tutti gli altri". Il riferimento di Soru è stato al rapporto con quel "mondo globale dove ormai il valore non è più il conto in banca, ma il livello di conoscenza". La competizione si è spostata: "Chi è migliore cresce, chi non ha conoscenza resta indietro". E per stare al passo bisogna fare "come Alice nel paese delle meraviglie, che per stare ferma deve correre, oggi chi vuole mantenere il proprio tenore di vita deve aumentare la propria cultura". E' la legge - secondo Soru - del nuovo mondo globale, il mondo contemporaneo. Dove la Sardegna rischia di restare in una posizione di retroguardia: "La nostra università è al diciottesimo posto in Italia, dietro la Basilicata. E nell'isola c'è un inaccettabile tasso di abbandono scolastico e universitario". Per Soru "è evidente che serve un intervento pubblico straordinario" ma non è possibile che l'impresa non aiuti l'istruzione: "In Lombardia contribuisce per il trenta per cento ai costi, in Sardegna zero". Altre possibilità: "Progettazioni e consulenze pubbliche - ha avvertito Soru - devono andare agli istituti universitari, non all'amico e all'amico dell'amico". (m.l) ___________________________________________________ L’Unione Sarda 17 mar. ’04 INFERMIERI, È CRISI DELLE VOCAZIONI Stipendi bassi e laurea triennale scoraggiano i giovani formazione I corsi universitari sono bloccati: la Regione non versa contributi alla facoltà di Medicina che li organizza Sulla carta sono sufficienti, ma non sempre passano la prova campanello. Basta suonarlo dal letto di molte corsie ospedaliere, per accorgersi che non sempre l’infermiere arriva in tempi accettabili. Loro, gli infermieri, non ne hanno colpa: il fatto è che non bastano e non è nemmeno facile trovarne altri. Oltretutto, con la crisi dei cosiddetti generici (che ora diventeranno operatori socio-sanitari), i professionali sono chiamati a svolgere anche funzioni non di loro pertinenza, come ad esempio accompagnare i pazienti in altri reparti per le consulenze. Così diventa inutile suonare il campanello: l’infermiere è altrove, per accompagnare un solo malato. Stipendio tra i 1.100 euro (senza turni notturni e festivi) e i 1.500 euro al mese (con i turni e la reperibilità) e, per di più, obbligo di laurea triennale in Scienze infermieristiche. "Perché stupirsi se i giovani non sono attratti da questa professione?", commenta Pierpaolo Pateri, presidente del Collegio degli infermieri. In effetti, la crisi di vocazioni c’è, aggravata dal fatto che i corsi universitari, in città e a Sassari, quest’anno non sono partiti: le facoltà di Medicina non hanno più le risorse per formare gli infermieri professionali, e la Regione - almeno fino ad ora - non ha mai scucito un euro di contributo. Ora, grazie alla convenzione con la Regione per l’azienda sanitaria mista con l’Università, appena ratificata dal Senato accademico, la situazione dovrebbe migliorare. "È una speranza, non certo una previsione", scherza ma non troppo Gavino Faa, preside di Medicina, "d’altra parte, il ministero richiede la convenzione per poter attivare i corsi in Scienze infermieristiche, ma anche per ostetriche, tecnici di laboratorio, fisioterapisti, ortotisti (sono gli assistenti in oculistica) e tecnici di radiologia". I corsi sono a numero chiuso: trenta matricole l’anno a Cagliari, altrettante a Sassari, ma non si riesce mai a saturarli. È crisi delle vocazioni, insomma, anche se qui da noi il problema non assume le proporzioni drammatiche che lo caratterizza già da anni nel Nord Italia. "Noi abbiamo lo scopo di formare medici e odontoiatri, la formazione degli infermieri è una committenza: ci chiedono di creare figure professionali di alta qualità in grado di lavorare in tutta l’Europa, ma la Regione non contribuisce". In città, a sentire i direttori generali delle Aziende sanitarie, non ci sono grandi difficoltà. "Gli organici sono pieni", commenta Efisio Aste, il dirigente dell’Asl 8 (cui fanno capo tutti gli ospedali tranne il Brotzu), "ma non troviamo i sostituti per gli assunti che vanno in malattia per lungo tempo, in aspettativa oppure in maternità. Abbiamo bandito una selezione anche pochi giorni fa, ma sappiamo che non li troveremo: la maggior parte degli infermieri vuole un posto di ruolo, non vengono per periodi limitati perché spesso lavorano nelle cliniche private". Discorso un po’ diverso al Brotzu (duemila dipendenti, tra cui 650 infermieri), che è un’azienda a parte: "Gli organici sono a posto, troviamo sempre i sostituti per chi va in pensione, è più difficile rilevare chi manca per lunghi periodi di tempo", commenta il direttore generale, Franco Meloni, che aggiunge: "Le carenze ci sono, ma legate ai bilanci, che non consentono di assumere tutti gli infermieri che vorremmo". Troppo facile prendere in esame solo gli ospedali pubblici cittadini. "Provate a chiedere nei nosocomi periferici, oppure alle cliniche private, che tutti i giorni ci chiedono di segnalare qualcuno", spiega Pierpaolo Pateri, presidente del Collegio degli infermieri: "La paga è inadeguata, serve il titolo di studio e l’infermiere ha un ruolo non ancora ben riconosciuto dalle istituzioni: molti preferiscono fare altro". Carenze, gravi, anche al Policlinico universitario: "Abbiamo difficoltà a trovare infermieri professionali", commenta il preside di Medicina, Gavino Faa, "così come accade negli ospedali periferici: i cagliaritani che lavorano a Iglesias o a San Gavino, per esempio, fanno di tutto per rientrare a Cagliari, sguarnendo gli altri ospedali". Perché stupirsi, dunque, se molti infermieri disertano le corsie preferendo le cosiddette veglie private o domiciliari? Si guadagna molto, spesso in nero, e si vive più tranquilli. Intanto, tra qualche anno le conseguenze del blocco delle lauree brevi si faranno sentire. Allora sì, per trovare un infermiere servirà un miracolo. Luigi Almiento ___________________________________________________ Il Sole24Ore 19 mar. ’04 RIAPERTA LA PARTITA SUI 25MILA MEDICI SPECIALIZZANDI ROMA Con il blocco alla Camera del decreto legge 10104, la partita dei 25mila medici specializzandi ricomincia daccapo. Per Amsce e Federspecializzandi, le due associazioni di categoria, la bocciatura del provvedimento è una vittoria. Perché le modifiche al decreto legislativo 3tí8199, introdotte al Senato, erano state subito bollate come «un'assurdità giuridica». A partire da quel «contratto di formazione specialistica», che avrebbe dovuto sostituire il contratto di formazione-lavoro, previsto dalla legge del L999 e mai decollato. Il nodo resta uno: quale status giuridico, compatibile con le risorse disponibili (il decreto legge stanziava 34 milioni per il 2004, con la promessa di recuperarne altri 17), va riconosciuto ai medici iscritti alle scuole e impiegati a tempo pieno negli ospedali. Se; il decreto legislativo 368 aveva sostanzialmente introdotto un contratto di lavoratore subordinato in formazione, la modifica proposta in Parlamento seguiva un'altra strada. «Ci avrebbero trasformati in lavoratori autonomi, iscritti alla gestione separata dell'Inps», affermano Amsce e Federspecializzandi. Con il rischio di essere penalizzati, rispetto all'attuale regime di borse di studio (da 11.603 curo lordi annui ciascuna). A sostenere la tesi dei medici in formazione è Angelo Vincenzo Izar, avvocato Giuslavorista e docente di diritto sindacale all'Università di Milano Bicocca,: «Le modifiche proposte sembrano orientate dalla volontà di trasformare la natura del rapporto di lavoro da subordinato ad autonomo. Le modalità con cui gli specializzandi lavorano per il Ssn impongono invece, alla luce di un orientamento giurisprudenziale consolidato, di considerare il loro rapporto come subordinato». Dopo la bocciatura del decreto legge, il sottosegretario alla Salute, Cesare Cursi, ha affermato che bisognerà lavorare «per individuare uno strumento giuridico per sbloccare le risorse destinate ai giovani medici». M.PER. ___________________________________________________ La Nuova Sardegna 12 mar. ’04 LA CLINICA OSTETRICA DI CAGLIARI 4 IN RICERCA Quarto posto in Italia per la ricerca CAGLIARI. Conquista il quarto posto per la ricerca in Italia la clinica ostetrica e ginecologica dell’università di Cagliari diretta da Gian Benedetto Melis. L’analisi qualitativa e quantitativa, si spiega in una nota stampa, è tratta dalla National Library of Medecine of Bethesda, la più importante biblioteca medica mondiale secondo cui l’Italia ha pubblicato in riviste mediche internazionali di indiscusso valore tra il 1998 e il 2003 152 sperimentazioni complesse e scientificamente del tutto affidabili. Il punto sulla ricerca medica in Italia è stato fatto da una giornalista di Repubblica sull’inserto Salute con un’inchiesta dal titolo "I cacciatori di malattie". ___________________________________________________ Repubblica 18 mar. ’04 MAI PIÙ MEDICINE CONTRAFFATTE Una raccomandazione dell'Fda potrebbe obbligare te case farmaceutiche a ricorrere in blocco all'etichetta elettronica Nel mondo. le medicine contraffatte rappresentano tra il 5 e l’8% del totale. Contraffatte: cioè senza principio attivo, oppure con dosi sbagliate. addirittura con sostanze nocive al proprio interno. Responsabili, ogni anno, di qualcosa come 190mila morti in Cina, ma che mietono decine di migliaia di vittime anche nei più evoluti Stati Uniti d'America. La tecnologia Rfid può fare qualcosa per loro. La raccomandazione dell'Fda. I dati sulla contraffazione raccolti negli anni dall'Organizzazione mondiale della sanità hanno fatto riflettere la Food and drug administration (Fda), l'autorità Usa che dà l’ok alla messa in vendita dei medicinali, tanto da farle redigere un report che si è trasformato nei primi mesi dell'anno in una raccomandazione al Governo americano: adottare entro il 2007 le etichette Rfid su larga scala, cioè su ogni farmaco. in modo tale che in ogni momento sia rintracciabile lungo la filiera, dalla casa produttrice al corriere logistico, fino alla farmacia e al singolo utente. Oggi Attilio Bellman è responsabile della tecnologia Rfid alla Bearingpoint. ma quando ancora lavorava all'Autold center del Mit di Boston scrisse il libro bianco dedicato alla supply chain dell'industria farmaceutica: «L'idea dell'Fdx - spiega in qualità di esperto - prende spunto dalla legislazione della Florida. uno Stato dove tradizionalmente molti anziani si trasferiscono per via del clima temperato. e che quindi è in prima linea nella lotta ai medicinali contraffatti. Qui è già in vigore una legge che richiede la traccia dettagliata del percorso di ogni confezione di pillole, ma il processo è reso difficoltoso dal fatto di dover compilare manualmente la storia del prodotto. Ecco perchè l’Fda ha pensato alle etichette radiotrasmittenti, che contengono un tracciato numerico studiato sul principio dei codici a barre, il quale è univoco per ogni singola confezione: permette di sapere in ogni momento da quale stabilimento proviene e che strada ha fatto per arrivare in quella determinata farmacia». Come funziona. Con un semplice chip, quindi, si potrebbe ricostruire a tempo di record la provenienza di un preparato non conforme alle regole dettate dall'Fda, senza contare l’effetto deterrente che si avrebbe su chi produce medicinali contraffatti: nessuna confezione potrà essere venduta se non ha l'etichetta elettronica. Si potrebbe cosi porre fine alla messa in commercio di farmaci dal dosaggio sbagliato, ma si potrebbe anche impedire, per esempio, che i farmaci donati al Terzo mondo rientrino illegalmente nel Paese di provenienza per poi essere venduti sul mercato. La trasparenza del processo arriverà fino al singolo cliente, che inserendo il numero stampato sulla confezione acquistata nel portale Internet del produttore potrà sapere se il suo preparato è effettivamente uscito da quelle fabbriche o no. Ovviamente, l'accessibilità al network informativo sarà scaglionata per livelli, a seconda che il richiedente sia un consumatore, un'azienda farmaceutica o addirittura l'autorità preposta al controllo. I costi. Al momento, quella della Food and drug administration è niente più che una raccomandazione, ma è tradizione che la voce della massima autorità Usa in campo sanitario non resti inascoltata nei corridoi del Congresso. Tanto che già le più grosse case farmaceutiche si stanno attrezzando con i primi progetti pilota: «Il costo di pochi centesimi a chip - sostiene Bellman - è irrisorio per un'industria farmaceutica, a differenza di quanto sostengono colossi della grande distribuzione come WalMart. Anche perché richiamare tutti i farmaci "difettosi" immessi sul mercato costa molto di più, multe comprese». Micaela Cappellini ___________________________________________________ Repubblica 18 mar. ’04 BRACCIALETTI «INTELLIGENTI» AL SAN RAFFAELE Tag grandi quasi come una moneta cinquanta centesimi entrano nel mondo della sanità. E questa frontiera hi-tech è il fiore all'occhiello di i.net, il gruppo che fa capo a British telecommunications e che sta per lanciare sul mercato Rfidnet per la gestione di materiale biologico ed ematico. Le applicazioni di queste piccole etichette in campo sanitario sono enormi. Basta pensare, per esempio, alla cartella clinica sempre "indossata" dal paziente come se fosse un braccialetto e, quindi, costantemente consultabile. «Lnet - racconta Marco Maucchi, il suo amministratore delegato - ha accordi con Alti, specializzata nella produzione di Rfid, e Angelantoni industrie, che si occupa dei sistemi per la refrigerazione sanitaria». E da questi accordi sono partili alcuni progetti. All'ospedale di Milano. Il progetto «Niguarda online» prevede che alcuni pazienti dell'ospedale milanese, al momento del ricovero, indossino un braccialetto che non solo registra le informazioni cliniche o le terapie, ma che al momento della dimissione diventano una vera e propria cartella clinica hi- tech: un medico qualsiasi, connettendosi a Internet, potrà verificare in ogni momento lo stato di salute del suo paziente. Da un'idea dell'Ospedale San Raffaele sempre di Milano é, invece, in fase di sperimentazione l'applicazione dei chip Rifd su materiale ematico refrigerato. I frigoriferi sono dotati di antenne che comunicano con le etichette elettroniche posizionate sulle sacche di sangue; in questo modo inviano, grazie a un server centralizzato, informazioni sul sangue di un determinalo paziente a un database. Ne'_le trasfusioni gli errori di identificazione, cioè di attribuzione di una sacca di sangue alla persona giusta, sono molto frequenti: l’Rfid contribuirebbe a risolvere il problema. Fase sperimentale. «La fase sperimentale sarà avviata con le autotrasfusioni - spiega il dottor Silvano Rossini, direttore del Centro trasfusionale Ospedale San Raffaele - cioè nei casi in cui il paziente deposita il sangue prima di un intervento chirurgico e riceve il suo stesso sangue in un momento successivo». E proprio durante questo intervallo di tempo, quando il materiale ematico deve essere refrigerato, che entra in gioco l’Rfid, per assicurare la corretta identificazione del ricevente. A1 paziente viene fornito un braccialetto contenente i suoi dati clinici, mentre un'altro tag viene applicato sulle sacche di sangue: quando il paziente torna in reparto dopo l'intervento, il personale medico ha a disposizione un palmare per incrociare i dati del braccialetto e della sacca. Vittoria Ardino ___________________________________________________ Libero 18 mar. ’04 UNA RICERCA RIABILITA LA NICOTINA Woody Allen profetico sul fumo che fa bene di NANTAS SALVALAGGIO Alcuni scienziati della Florida University mettono un freno alla persecuzione dei tabagisti: dopo anni di ricerche, possono annunciare che la nicotina «ci salva dal morbo di Parkinson e tiene a bada l'Alzheimer». Nel pubblicare gli esiti delle indagini, gli studiosi hanno brindato a champagne: molti di loro, infatti, fumano. E tuttavia il cronista ha il compito di rilevare che la notizia era in qualche misura attesa. Pur non avendo studiato medicina né a Yale né a Berkeley, Woody Allen lo predisse dieci anni fa in un libretto (...) ( segue a pagina 23) (...) di aforismi: «Non vorrei che nel 2007 i medici mi dovessero spiegare che il fumo fa bene». Mi auguro che il dispaccio giunto dalla Florida non mandi il boccone di traverso all'ineffabile professor Sirchia, ministro della Salute, che oltretutto pare la fotocopia di un mio zio notaio. Ma da uomo di mondo, Sirchia è il primo ad ammettere che "est modus in rebus" e che il vero nemico dell'uomo è l'eccesso. Un bicchiere di buon vino a pasto fa buon sangue, mentre un'intera bottiglia di whisky spappola il fegato. La stessa cosa vale per la sigaretta o il mezzo toscano: una Turmac dopo i pasti rilassa e fa digerire; cento Turmac al giorno catramano i polmoni e sviluppano gli edemi. D'altra parte il tabacco ha goduto, in passato, di una eccellente reputazione. Piacque ai marinai di Cristoforo Colombo quando videro che le tribù degli indios fumavano dei bastoncini di foglie secche (dette cojiba, il nome indigeno della pianta del tabacco) ed erano felici. Caterina dei Medici usava il tabacco per guarire le emicranie. E le nobildonne veneziane, sulle vellutate poltrone del Caffé Florian, fumavano dei sigarilli per guarire la malinconia e gli attacchi di nervi. Solo un austero cattolico (Urbano VIII) fece pollice verso e scomunicò i fumator i. Personalmente detesto i "laudatores" del tempo che fu; ma è indubbio che negli anni Cinquanta, quando frequentavo l'università, la sigaretta era considerato uno "svago distinto", non certo una trappola di morte. Chi fumava una Macedonia Extra, con il bocchino dorato, si sentiva socio di un qualche club esclusiv o. Adolescente al ginnasio, durante la guerra, ricordo le bestemmie di un vicino di casa, il cavalier Berti, che lamentava la penuria di tabacco. Quel poco che c'era, veniva destinato ai soldati. «Maledetta guerra, boja di un Mussolini!», imprecava il cavaliere. La mancanza di sigarette fu il peggior sacrificio che gli impose il conflitto. Non a caso divenne antifascista e membro del Partito d'Azione. Lo ricordo ancora mentre raccoglieva nel suo orto foglie secche di qualsiasi tipo, che poi arrotolava in un pezzo di giornale. Ne usciva un fumo acre, che avrebbe fatta secca perfino la zanzara tigre. Ma lui qualcosa doveva accendere e mettere in bocca; se no sarebbe morto di rabbia. Poi venne la pace. A sedici anni fumai la prima Camel, me la offrì un soldato americano. Era una delizia da gustare a occhi chiusi. Un paradiso. ___________________________________________________ L’Espresso 25 mar. ’04 NON SPARATE SULLA CLONAZIONE La scienziato padre della pecora Dolly spiega perché la sua pratica non è contraria all'etica La clonazione umana è finalmente a portata di mano. Ma sebbene l'équipe di scienziati coreani che ha fatto questa sperimentazione abbia superato alcuni ostacoli tecnici, le barriere politiche che si frappongono allo sfruttamento delle sue potenzialità terapeutiche rimangono. Molti sono contrari a qualsiasi ricerca di questo tipo, sia pure a scapi curativi, poiché sono convinti che aprirebbe inevitabilmente le porte alla riproduzione di esseri umani can questa tecnica e che €a sperimentazione sugli, embrioni sia comunque immorale. la credo invece che i suoi benefici potrebbero essere talmente grandi da far apparire immorale qualsiasi tentativo di impedir€a. Proprio per questo, molti laboratori di ricerca in Gran Bretagna, compreso quella che dirigo al Roslin Instîtute di Edimburgo, si accingono a chiedere alle autorità competenti il permesso di proseguire le indagini in questo campo. E per quanto io sia inesorabilmente contrario alla clonazione riproduttiva di per se stessa, resta convinto che la procreazione di bambini clonati sia auspicabile in alcune circostanze, come ad esempio quando si tratta di prevenire una malattia genetica. Le potenzialità terapeutiche di questa tecnica stanno nelle cellule totipotenti (a Es). Estratte da embrioni di sei giorni. queste possono generare qualsiasi tipo di cellula nell'organismo. L vero che si possono ricavare cellule totipotenti: anche da embrioni fertilizzati in vitro già disponibili, ma ciò presenta un inconveniente-. i ricercatori non hanno alcun controllo sulla struttura genetica di questi embrioni e questo è, un problema: ad esempio se le si vuole utilizzare per rîgenerare tessuti distrutti da un incidente a da un malattia, se non sono geneticamente compatibili con il paziente, potrebbero scatenare una reazione immunitaria. La clonazione invece può consentire di superare questa ostacola, fornendo al paziente cellule compatibili con il suo tessuto. Uno dei campi d'applicazione più interessanti della clonazione sarà lo studio delle malattie; in special modo quelle ereditarie. Oggi è spesso impossibile prelevare in modo sicuro campioni di cellule malate da pazienti ancora in vita, soprattutto se soffrono di malattie genetiche che: colpiscono il cervello e il cuore Come il morbo di Parkison o alcune aritmie congenite. Non solo, ma quando: il paziente comincia a svilupparne i sintomi, la sua patologia è già progredita da qualche tempo, e questo rende difficile stabilire se le alterazioni delle cellule derivano direttamente dalla causa che ha prodotto la malattia o non ne sono invece semplici effetti secondari. L’ideale sarebbe quello di poter controllare l'avanzamento della malattia man mano che si sviluppa all'interno delle cellule, in modo da individuarne la causa. La clonazione ci consentirebbe di ricreare queste cellule, malate, con la stessa struttura genetica, al di , fuori dell'organismo del paziente, per osservare come si sviluppano fin dall'inizio e effettuare la stesso genere di sperimentazioni genetiche che possiamo compiere solo sugli animali: La nostra équipe ha in programma la clonazione di cellule totipotenti provenienti da pazienti affetti dal morbo di Gehrig, una sindrome neurodegenerativa designata con la sigla Als. Questa paralisi progressiva, incurabile; colpisce persone di mezza età, impedendo loro di muoversi, parlare o respirare senza dover essere assistite. E la maggior parte delle sue vittime muore entro cinque anni dalla diagnosi. E’ una patologia causata dall'alterazione dei neuroni motori, presenti nel cervello e nella spina dorsale, che non possono essere prelevati, data la loro localizzazione, a scopo d'indagine. Ciò spiega in parte perché non abbiamo ancora una precisa cognizione delle sue cause. Sappiamo soltanto che nel 10 per cento dei casi è ereditaria e che un quinto di essi é dovuta a mutazioni di un gene designato con la sigla Sod1. Ma nella maggior parte degli altri rasi le sue origini restano invece un mistero. L’uso della clonazione per creare colture di neuroni motori ci aiuterebbe senz'altro a chiarirla: Per questo abbiamo decise di chiedere un'autorizzazione a clonare cellule di pazienti colpiti da questa malattia in Gran Bretagna, Nella convinzione che, oltre a promuovere la ricerca su di essa, le nostre tecniche potrebbero essere utilizzate anche per estenderla ad altre patologie neurodegenerative; quali il morbo di Parkin e quello di Alzheimer: La clonazione potrebbe avere effetti rivoluzionari anche in altri campi di ricerca biomedica, in particolare per quanto riguarda la terapia di organi malati o la correzione di difetti genetici. I trapianti di cellule geneticamente compatibili con i tessuti dei pazienti cui sono destinate consentiranno di sperimentare nuovi tipi di cure, quali la ricostruzione dei muscolo cardiaco danneggiato dopo un infarto. Perché questo passa accadere dobbiamo risolvere alcuni problemi tecnici, come ad esempio accertare in che ;nodo le cellule formative potranno generare altri tipi di cellule, e scongiurare il rischio che provochino il cancro. Gli ovuli umani, infine, non sono disponibili in abbondanza ___________________________________________________ Le Scienze 19 mar. ’04 CURARE LA CALVIZIE CON LE STAMINALI Un trapianto di cellule potrebbe far crescere nuovi capelli Dopo aver individuato cellule staminali a lunga vita nei follicoli piliferi dei topi, alcuni scienziati del Medical Center dell’Università della Pennsylvania sostengono di essere in grado di identificare le stesse cellule negli esseri umani, il che potrebbe portare a una cura per la calvizie e forse per altri tipi di malattia. Secondo i ricercatori, i follicoli piliferi dei topi contengono cellule staminali adulte con la potenzialità di trasformarsi non solo in nuovi capelli ma anche in altri tipi di tessuto. Quando gli scienziati hanno trapiantato le cellule nei topi, sono germogliati peli dove in precedenza non ve ne erano. Un esame accurato ha permesso a George Cotsarelis e colleghi di dimostrare che le cellule erano in effetti cellule staminali. In un articolo pubblicato sul numero di aprile della rivista "Nature Biotechnology", Cotsarelis spiega che nelle cellule staminali erano attivi determinati geni che non lo erano in altri follicoli piliferi o cellule della pelle. Farmaci in gradi di colpire questi geni negli esseri umani potrebbero rappresentare un nuovo metodo per controllare la crescita dei capelli. E il tracciamento dei geni consentirebbe di individuare le stesse cellule negli umani. "Definendo questi marcatori molecolari - conclude Cotsarelis - potremo isolare cellule staminali umane dai follicoli piliferi". Il suo team aveva già mostrato qualche anno fa che i follicoli umani contenevano cellule staminali, ma finora non si sapeva come identificarle.