ATENEI: RISCHIO CENTRALISMO - SÌ, L'UNIVERSITÀ È IN CRISI. MA DI CRESCITA - LAUREE AD DISHONOREM - MORATTI: IN APRILE IL VARO DEL PROGRAMMA NAZIONALE DELLA RICERCA - RICERCATORI DI TUTTA ITALIA UNITI CONTRO LA MORATTI - INTELLECTUELS SULLE BARRICATE - PRIMO, LIBERARE I RICERCATORI DAI BUROCRATI - LA REGIONE SARDA AIUTI L’UNIVERSITÀ - LAUREA, ARRIVA IL POPOLO DELLA BREVE - LA BEFFA DELLE LAUREE BREVI: IL LAVORO RESTA UN SOGNO - LA RABBIA DEI "TRIENNALI" CONTRO LAUREE DI SERIE B - NOI, DISOCCUPATI CON LAUREA TRIENNALE - ORGANICI DELLA SCUOLA: SARANNO 5.885 LE CATTEDRE IN MENO - MEDICINA, LA VITTORIA DEI RICORRENTI NAPOLETANI - ===================================================== AZIENDA MISTA: RIVOLTA CONTRO L'UNIVERSITÀ PIGLIATUTTO - SULLE QUALIFICHE DELLA SANITÀ ACCORDO IN VISTA - FUMO, ACCELERA IL DECLINO MENTALE LEGATO ALL'ETÀ - AL VIA LE SPERIMENTAZIONI PER IL PACE-MAKER CEREBRALE - QUANDO IL TUMORE AL POLMONE COLPISCE CHI NON HA MAI FUMATO - ENZIMI RIDUCONO: LA PRESENZA DEL VIRUS DELL'EPATITE B - INFARTI: MAI PIÙ MORTI SOTTO I 65 ANNI - UN NUOVO MODELLO ANIMALE PER IL TUMORE DEL SENO - CANCRO AL SENO: VINO E GRASSI AUMENTANO IL RISCHIO - STRESS E SCLEROSI MULTIPLA - PIÙ ALLERGIE DA NICKEL CON L’EURO - UNA NUOVA MEDICINA E’ IL CANE DELLA MUTUA - VACCINI E PAESI POVERI UN PROBLEMA DI CIVILTÀ - ===================================================== ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 20 mar. ’04 ATENEI: RISCHIO CENTRALISMO Il progetto di riforma universitario alla prova delle autonomie DI ALESSANDRO MONTI * La qualità della didattica non va sacrificata al risparmio Diventa sempre più acceso il dibattito sui provvedimenti in materia di istruzione universitaria. Per valutare le questioni sul tappeto e le implicazioni dei cambiamenti proposti dal Governo, può essere utile una storicizzazione della normativa vigente. Mentre lo stato giuridico dei professori universitari, regolato da una legislazione che risale prevalentemente al 1958 (sia pure con alcune integrazioni apportate negli anni 80) si presta ad aggiornamenti, non è cosi per i meccanismi di selezione e reclutamento che sono stati riordinati appena nel '98. Si tratta dell'unico provvedimento largamente condiviso nell'ambito di una controversa stagione di riforme avviata dal Centro-sinistra nella XIII legislatura. Alla legge 210/98 si è arrivati, infatti, dopo ampia ponderazione, a seguito della constatazione degli esiti del tutto insoddisfacenti del sistema di reclutamento preesistente, che aveva alimentato un diffuso contenzioso. In effetti, le grandi università raramente si avventuravano a bandire concorsi per la copertura dei posti vacanti, preferendo organizzare "cordate accademiche" per piazzare i loro candidati nei concorsi banditi dalle università di piccole dimensioni, senza cosi correre il rischio di un vincitore appartenente ad altra università. La conseguenza di questa vera e propria "politica di rapina" a danno degli atenei minori è stata quella di imporre, a questi ultimi, professori spesso inadeguati alle esigenze didattiche specifiche della facoltà e proiettati verso un rapido rientro nell'università di provenienza, ma con un'inevitabile coté negativo costituito dall'incerto avvio di iniziative di ricerca e dalle frustrazioni morali e professionali nei docenti interni esclusi dalla lista dei vincitori, anche se con curriculum scientifico di alto livello. Per attenuare questi inconvenienti e snellire modalità e tempi concorsuali, il legislatore nel '98 ha attribuito agli ;atenei le competenze statali in materia di reclutamento, affidando al rettore il potere di nomina dei ricercatori e dei professori che prima era riservato al ministro insieme alla nomina d'ufficio nel caso di non chiamata del vincitore da parte della Facoltà. Dai dati del Servizio ministeriale che monitora gli esiti del nuovo modello di reclutamento, risulta che i meccanismi concorsuali affidati all'autonomia decisionale delle sedi universitarie hanno tempestivamente determinato condizioni di più efficiente funzionamento dell'attività didattica delle facoltà. La motivazione addotta dal Governo per un ritorno ai pletorici maxiconcorsi nazionali del passato, complicati da successive prove valutative a livello di ateneo, si basa su una generica accusa di eccesso di localismo negli esiti concorsuali, figurando tra i chiamati un'alta percentuale di docenti già in servizio presso l'università. Nella nuova configurazione dello stato giuridico dei professori l'idea guida del Governo appare quella di ridurre la spesa statale, diminuendo progressivamente il numero dei professori di ruolo e affidando l'attività didattica, istituzionale e integrativa, a soggetti estranei utilizzando i meno costosi contratti temporanei rinnovabili. In questa logica il disegno di legge dispone la soppressione del ruolo dei ricercatori universitari. A1 riguardo va osservato che í compiti e lo stato giuridico dei ricercatori, istituiti nel 1980 in sostituzione degli assistenti ordinari, sono rimasti in gran parte da definire. Non essendo previsto un suo autonomo sviluppo di carriera, cosi come avviene invece negli enti pubblici dei ricerca, l'equivoca figura del ricercatore universitario si è trasformata di fatto in quella impropria di primo gradino della docenza, una scala che non ha sbocchi certi e programmabili. O si ha il coraggio di recuperare l'impostazione originaria di un professionista della ricerca non subalterno ad altri soggetti oppure è meglio un ruolo a esaurimento, prevedendo però una dignitosa uscita per gli attuali ricercatori: riserva di posti nei concorsi a professore associato in misura ben più consistente di quella attuale (15 per cento). La "ri-centralizzazione" dei meccanismi di reclutamento, la riduzione dei professori di ruolo e la moltiplicazione di docenti precari, in definitiva, anziché il rapido conseguimento di una più elevata qualità della didattica e di un più equilibrato rapporto medio docenti/studenti finiscono per privilegiare flessibilità e risparmio della spesa a tutti i costi, non la sua efficacia. * Università di Camerino ______________________________________________________________ Corriere della Sera 23 mar. ’04 SÌ, L'UNIVERSITÀ È IN CRISI. MA DI CRESCITA Il presidente della Conferenza dei rettori italiani risponde a Claudio Magris che aveva denunciato l'eccesso di burocrazia Le parole eleganti e pure pesanti con le quali Claudio Magris ha annunciato il suo addio all'Università sono una rara occasione per riflettere con animo pacato sullo stato dei nostri Atenei. Tutti noi lo dobbiamo ringraziare per averci spedito tramite il Corriere della Sera del 16 marzo questa "lettera": condivisibili o meno che siano le sue riflessioni, è indubitabile che esse sono le stesse che animano i dibattiti negli Atenei italiani. Ciò che ci dice tocca lo strato più profondo della nostra sensibilità e del nostro modo di vivere la vita dell'Università. Dalla sua pagina traspira soprattutto un grande amore per l'Università, per il sapere che essa produce, per il fuoco della ricerca che alimenta molti spiriti. Sono perle, queste, che è bene continuare a preservare, che hanno costituito la natura stessa e l'identità degli Atenei italiani, che non hanno motivo di cercare di copiare modelli altrui. Condivido, inoltre, anche molti dei crucci e delle perplessità che Claudio Magris esprime, elevando a coscienza pubblica uno stato di disagio assai diffuso e sentito negli Atenei. L'amarezza che prova Claudio Magris quando, nella sua vita di docente, si trova dinanzi a insopportabili pratiche burocratiche dell'attuale esperienza universitaria (quote, crediti, riunioni) va inserita però nel giusto contesto. Le Università italiane sono da decenni una sorta di "cantiere aperto", dove da un lato si opera per preservare le antiche e solide mura e dall'altro ci si preoccupa di far fronte agli indispensabili cambiamenti, mentre si tenta di seguire gli aggiustamenti che ci impongono le frequenti disposizioni di legge. Se non si colloca in questo scenario ciò che sta accadendo, a prevalere saranno i ricordi di ciò che siamo stati, che non servono all'oggi e tolgono speranza nel domani. Le difficoltà che Claudio Magris registra sono senza dubbio il prodotto di una crisi. Ma vi sono anche crisi che derivano da processi di crescita e, comunque, di cambiamento. Voglio fare come lui e parlare di fatti concreti. Partiamo dall'amministrazione. Nel passato, la gestione era integralmente rimessa alle determinazioni di autorità governative che, in luogo e vece dei protagonisti, amministravano, gestivano e disponevano con logiche centralistiche. Era quel modo di amministrare migliore di quello attuale? L'autonomia, cioè la relativa libertà che le Università hanno conquistato in questi dieci anni, richiede un esercizio saggio e prudente così come richiede la responsabilità del proprio agire, forme snelle di decisione e la selezione delle condotte più virtuose. Le Università non erano abituate e organizzate per lavorare così. Per dirla con una metafora, c'è da educare la "giovane Università dell'autonomia" a diventare "adulta", assumendo su di sé compiti e oneri. Educare è difficile e per educare - Claudio Magris lo sa - serve tempo e pazienza. Ciò costringe tutti noi, in questa fase di transizione, a passare purtroppo anche sotto il peso di esperienze farraginose, sopportando i disagi di modelli burocratici, un tempo centralistici, che si presentano oggi con il volto della modernità e del localismo. È un imparare mentre si lavora - come direbbe l'esercito degli anglofili: un "learning on the job" - necessario se si vuole che una cultura dell'autogoverno possa davvero diffondersi e attecchire in un ambiente come quello universitario. L'autonomia di oggi è compatibile - a differenza dello statalismo - con la società del pluralismo e del multiculturalismo. Due ultime considerazioni, una sul modello di studi e l'altra sui crediti. Il nuovo modello degli studi universitari non è una invenzione estemporanea: è il frutto di una concertazione di 29 Paesi che si impegnarono solennemente a Bologna ad adottare un modello comune di studi superiori. L'Italia ha cercato di realizzarlo, analogamente a quanto è accaduto, con identici o simili problemi, in altri Paesi. In questa logica, la misura dei crediti non è un alambicco mostruoso che comprime la libertà. Introduce piuttosto un regime di programmazione didattica: i crediti esprimono, infatti, un tracciato culturale che i docenti hanno il dovere di formulare collegialmente nell'adempimento del dovere di trasmettere allo studente non un sapere qualsiasi ma ciò che serve per fare del sapere trasmesso un "sapere utile" al conseguimento di finalità formative proprie di un corso universitario. Spesso - è vero - qualcuno ha usato i crediti con logiche burocratizzanti, utilizzandoli per meschini fini di bottega, magari centellinandone le dosi in complicate alchimie numeriche. Ma conviene solo "screditare" i crediti o, consapevoli delle potenzialità e della funzione di questo strumento, considerarli passaporto per assicurare la mobilità degli studenti fra le Università, cioè un segno di "cittadinanza" europea? Non credo che la cattiva utilizzazione dei crediti possa essere argomento sufficiente a negare le funzioni che possono esprimere, né che essi possano essere strumentalizzati come un facile passe-partout per affermare una Università sul modello proposto dalle tante aziende che offrono corsi cosiddetti "universitari". Anche qui, insomma, ciò che trovo confermato è che solo una passione aperta e disponibile a cogliere il buono del nuovo può costituire la fonte del miglioramento dell'Università. Solo qualche riga finale sui finanziamenti. Noi Rettori siamo impegnati con tutte le nostre energie a garantire la sopravvivenza degli Atenei anche dal punto di vista finanziario. I fondi li ricerchiamo perché non ci sono e, comunque, quelli a disposizione non bastano per garantire il diritto alla ricerca e allo studio. Per garantirlo a tutti. Vivendo negli Atenei giorno dopo giorno ci vuole poco a capirlo. In questo impegno si esplicita anche il nostro desiderio di riconquistare la piena fiducia della società nell'Università, esponendo in modo trasparente le nostre attività di ricerca e di insegnamento alla valutazione da parte dello Stato. Del resto, noi universitari facciamo dello studio la nostra vita: e "studiare" vuol dire anche "amare" anche l'Università, per la quale viviamo e nella quale mi auguro continui a esercitare a lungo l'alta funzione della docenza anche il collega Claudio Magris. Piero Tosi Presidente della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane ______________________________________________________________ La Stampa 20 mar. ’04 LAUREE AD DISHONOREM LAUREE AI PERSONAGGI FAMOSI PER FARSI PUBBLICITÀ Il 29 marzo l’Università di Torino attribuirà la laurea honoris causa in Scienze Politiche a Michelangelo Pistoletto, il giorno dopo quella di Trento la stessa onorificenza, ma in sociologia a Maurizio Cattelan. Pistoletto e Cattelan, di generazioni diverse, sono tra gli artisti italiani più affermati a livello internazionale. Il primo, leone d’oro all’ultima Biennale di Venezia è, con i suoi «specchi», tra i padri dell’arte povera. Il secondo con i suoi sberleffi che potremmo definire neosituazionisti, riesce ad essere sempre imprevedibile: come dimenticare il piccolo tamburino che campeggiava solitario e strafottente su una balaustra nella piazza del Municipio per la recente biennale di Lione o ancora il Papa colpito da una meteorite o il minuscolo Hitler che prega in ginocchio? In occasione della laurea honoris causa Cattelan proporrà, tra l’altro, due nuove installazioni nell’ingresso della facoltà di sociologia: «attacco diretto - si legge nel comunicato che annuncia l’evento - all’autorità della scuola, ma anche disarmante ritratto dell’artista da cucciolo, l’opera di Maurizio Cattelan gioca con la tradizione contestataria della facoltà di Sociologia trentina, ma si rifà anche a una storia centenaria di insubordinazioni e riti carnevaleschi contro dottori e professori». Tutto ok? Non proprio perché il dubbio, nonostante fior di motivazioni che spiegano l’importanza politica del lavoro di Pistoletto e sociologica di quello di Cattelan è che si sia stravolto, in questi come in altri casi recenti, il senso delle lauree ad honorem. Un tempo si davano a personaggi che pur non essendo laureati avevano portato lustro alla disciplina per la quale ricevevano il riconoscimento, un caso per tutti la laurea in lettere a un intellettuale come Nuto Revelli. Oggi con l’«aziendalizzazione» dei corsi universitari l’impressione è che le lauree ad honorem stiano diventando negli atenei di tutta Italia una sorta di specchietto per le allodole, che, grazie al nome della star che viene «premiata», servono soprattutto ad attirare l’attenzione dei media e delle eventuali matricole sul consiglio di facoltà o sull’università che delibera il riconoscimento. Insomma le lauree ad honorem come operazione di «marketing» per rilanciare un’università sempre più in crisi, nonostante si susseguano ad ogni tornata elettorale le ipotesi di riforma, dal discusso «tre più due» di berlingueriana memoria alle «magnifiche e progressive sorti» della Moratti. E si arriva al punto che alcuni corpi docenti accettino, basta leggere la presentazione dell’evento trentino, anche di essere messi alla berlina, pur che della loro università si parli. Così paradossalmente più serie di molti consigli accademici si dimostrano attrici come Catherine Deneuve, che alla proposta di un riconoscimento in Scienza della Formazione da parte dell’Università di Torino ha avuto l’eleganza di rispondere «No, grazie». ______________________________________________________________ Il Tempo 25 mar. ’04 MORATTI: ENTRO APRILE IL VARO DEL PROGRAMMA NAZIONALE DELLA RICERCA ROMA - Entro aprile il ministro Moratti dovrebbe presentare al cipe e al Consiglio dei Ministri il Programma nazionale della ricerca. Lo ha annunciato il capo della segreteria tecnica del Ministero dell'Istruzione Luigi Rossi Bernardi nel corso di un convegno dedicato alla ricerca organizzato da Forza Italia. all progratnrna - ha confermato il ministro Moratti nel suo intervento al convegno - è in fase di elaborazione finale». «E’ quasi pronto. Sono in corso - ha aggiunto Bernardi Rossi - le consultazioni cori la comunità scientifica». II documento, molto corposo (70 pagine dedicate alla parte più politica, circa 150 riservate agli aspetti tecnici) contiene gli indirizzi per la ricerca scientifica italiana. Si tratta di un passo importante per il settore sul quale oggi il dipartimento ricerca scientifica di Forza Italia ha acceso i riflettori. Il ministro Moratti nel suo intervento ha sottolineato ]'impegno profuso dal Governo per la ricerca: dall'elaborazione delle linee guida alla scelta di costruire un sistema di valutazione, alla ristrutturazione degli enti di ricerca alla r_-reazione (lei distretti di alta tecnologia. Ha quindi ricordato che la Finanziaria 2003-3004 ha incrementato le risorse pubbliche per la ricerca di 1 miliardo c 761 mila curo. (Che corrisponde ad un incremento nei finanziamenti per ricerca e sviluppo del nostro paese pari allo 0,129% contro un target dello 0,07% previsto dalla Ue). Risorse - ha spiegato - che sono date da una parziale detassazione di parte dei costi per le imprese private che fanno investimenti in ricerca da investimenti pubblici». Moratti ha quindi assicurato che continuerà a battersi per avere ulteriori risorse: (,Gli investimenti in capitale umano, come ha detto recentemente anche il Presidente Berlusconi - rappresentano una priorità per questo Governo». La necessità di puntare sullo sviluppo del capitale umano (oltre che sullo sviluppo del sistema produttivo) era stata sottolineata in mattinata anche dal viceministro Guido Possa. Tanti i temi toccati durante il convegno. Dalla fuga dei cervelli («Non esiste. Sono strumentalizzazioni della stampa» ha assicurato il direttore dell'Ingv Enzo Boschi ammettendo solo —difficoltà tecniche») al ruolo della valutazione («In un momento in cui le risorse sono poche è fondamentale che quelle che ci sono vengano investite bene e perciò la valutazione della ricerca è cruciale» ha osservato Franco Cuccurullo, presidente del Civr). Adriano De Maio, commissario del Cnr ha auspicato un contratto ad hoc per chi lavora nella ricerca e il finanziamento del settore su un arco pluriennale (almeno 5 anni) ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 21 mar. ’04 «INTELLECTUELS» SULLE BARRICATE Ricercatori, filosofi, scrittori e registi, ma anche psicoanalisti e archeologi contestano i tagli alla cultura DI FABIO GAMBARO La ricerca sull'orlo del baratro. La fronda dei cervelli. La jaquerie degli intellettuali. È in questi termini che la stampa transalpina ha parlato della minaccia di paralisi che pesa sul mondo della ricerca francese. Qualche giorno fa infatti più di duemila dei 3.500 responsabili della ricerca pubblica hanno dato le dimissioni per protestare contro l'indifferenza del governo alle loro richieste. Si tratta di un'azione collettiva senza precedenti che rappresenta l'ultima tappa di un braccio di ferro che dura ormai da oltre tre mesi. Da quando cioè il collettivo "Sauvons la recherche", fondato dal biologo Alain Trautmann, ha lanciato una petizione in cui denunciava il declino della ricerca francese, le crescenti difficoltà dei ricercatori e il progressivo disimpegno dello Stato dalla ricerca di base. La petizione in poche settimane è stata finnata da oltre settantamila dei circa centomila ricercatori francesi, i quali chiedono più fondi e attenzione perché «dalla ricerca dipende anche il futuro del Paese». Di fronte all'inerzia dei poteri pubblici, ai quali il famoso genetista Axel Kahn rimprovera di ascoltare le richieste dei tabaccai ma non quelle degli scienziati, i ricercatori hanno deciso il gesto clamoroso delle dimissioni di massa. In risposta, il governo ha promesso un contributo di 3 miliardi di euro nei prossimi tre anni e l'impegno. entro il 2010, di attribuire alla ricerca il 3% del Pil. Promesse che i ricercatori considerano troppo vaghe e senza effetti immediati. Un tentativo di mediazione è stato affidato a Etienne-Emile Baulieu, il presidente dell'Accademia delle Scienze, il quale coordinerà una commissione chiamata a elaborare progetti e proposte. Un compito non facile, cui però intende contribuire un libro appena pubblicato, De la recherche ,fi-uufai.se (Gallimard), opera polemica ma molto documentata, scritta da una dozzina di ricercatori che spiritosamente si firmano Hélène Cherrucresco, che poi è l'anagramma di chercheurs en colère. Indipendentemente dai suoi esiti la rivolta dei ricercatori ha messo in luce il malessere diffuso che agita il variegato mondo della cultura francese. Di recente hanno protestato anche gli archeologi e gli psicanalisti, senza dimenticare il mondo del cinema e del teatro, in subbuglio da tempo, sia per i tagli ai finanziamenti (si parla di 2t)0 milioni di curo in meno per il ministero della Cultura) che per la riforma delle indennità di disoccupazione. Proteste molto diverse tra loro, certo, che però hanno trovato un'espressione comune in un'altra petizione: l'Appello contro la guerra all'intelligenza lanciato dal settimanale «Les Inrockuptibles», una rivista di musica e cultura giovanile molto apprezzata, che in poche settimane ha raccolto oltre settantamila firme. Tra coloro che hanno sottoscritto l'appello figurano intellettuali di spicco come Jacques Derrida, Alain Touraine o Pietre Vidal Naquet, scrittori come Eduard Glissant, Martin Winkler, Lydie Salvayre o Pattick Chamoiseau, personalità del mondo del cinema e del teatro come Alain Tavernier, Patrice Chéreau, Claude Lanzmann o Arianne Mnouchldne. Tra i firmatari anche molti artisti, psicanalisti, ricercatori e insegnanti. Tutti insieme denunciano gli attacchi più o meno striscianti cui sempre più spesso sarebbero sottoposti «i settori del sapere, della ricerca e della riflessione». Attacchi che genererebbero una sorta di «anti-intellettualismo di Stato» finalizzato a indebolire e screditare «il lavoro invisibile dell'intelligenza, lavoro giudicato improduttivo e non redditizio». Secondo i firmatari, questa vera e propria guerra contro-l’intelligenza segnerebbe una svolta senza precedenti nella storia della Francia, un Paese dove la cultura e il lavoro intellettuale sono sempre stati considerati una ricchezza nazionale. Se i ricercatori hanno ricevuto un largo appoggio da parte dell'opinione pubblica, l'iniziativa della redazione de «Les Inrockuptibles» ha invece suscitato molte polemiche. Il ministro della Cultura, Jean Jacques Aillagon, ha denunciato senza mezzi termini la presunzione di eh «si arroga il monopolio della difesa dell'intelligenza». Lue Ferry, filosofo e ministro dell'Educazione, ha criticato le «mummie delle petizioni», mentre altri esponenti della maggioranza hanno ironizzato sugli intellettuali presenti sulle liste di protesta ma non su quelle dei Nobel. Le critiche però sono giunte anche da alcuni intellettuali. Il filosofo Bernard Henri Lévy, ad esempio, ha preso le distanze dai firmatari, sottolineando i rischi di un atteggiamento troppo partigiano che mira a creare un fronte unico dei malumori intellettuali. Un rimprovero condiviso dal filosofo Marcel Gauchet, della rivista «Le Débat», il quale ha dichiarato: «Non si può mischiare tutto nel nome delI"'intelligenza", altrimenti si favorisce il ritorno della peggiore confusione demagogica». Per l'autore del recente Après le désenchantemeret du monde (l'Atelier), «una battaglia in nome dell'intelligenza è solo uno spettacolo da grand-guignol». Dal canto suo, il settimanale l’Express, ha denunciato «la vanità, la pedanteria e l'inquietante incoerenza» degli intellettuali francesi, il cui «partito autoproclamato dell'intelligenza difende i privilegi di un nuovo terzo stato culturale, più preoccupato di se stesse e dei sue affari che del mondo che lo circonda». L'iniziativa de «Les incorucptibles» segnala con forza il divorzio in atto tra il mondo della cultura e il mondo della politica. Un divorzio che preoc2upa non poco la destra francese. Dopo le elezioni presidenziali del 2002, nelle quali Jacques Chirac si era presentato come un baluardo contro l'estremismo di Le Pen, il mondo della cultura (tradizionalmente più vicino alla sinistra) aveva mostrato una certa disponibilità nei confronti della nuova maggioranza. In poco tempo però il capitale di simpatia si è esaurito. Oggi larga parte del mondo intellettuale deve fare i conti con una progressiva precarizzazione e rimprovera ai poteri pubblici di non prendere abbastanza in considerazione il malessere diffuso di un settore che continua a sperare in una politica culturale forte e ambiziosa. A1 «buon senso economico» proposto dal Primo ministro Jean Pierre Raffari n il mondo della cultura oppone la necessità «del riconoscimento del suo carattere vitale per tutta la società». La crisi attuale è anche una conseguenza della trasformazione che il sistema culturale francese ha subito negli ultimi anni, dove, come ha dimostrato il sociologo Bernard Lahire nel suo brillante studio La culture des individus (La Découverte), sono venute meno molte delle tradizionali gerarchie che in passato opponevano e separavano cultura alta e cultura bassa. La figura dell'intellettuale ha cosi perso la nitidezza di un tempo, tanto che oggi «essa suscita al contempo fascino e obbrobrio», come ha fatto notare Frangoís Dosse in un saggio di recente pubblicazione, La marche des idées (La Découverte). Lo studioso vi ha ricostruito la storia degli intellettuali francesi, ai quali si offrono oggi nuove prospettive a patto però di ridefinirne la funzione. Per Dosse di fronte a un mondo dominato dalla frammentazione di saperi sempre più complessi, «agli intellettuali si offre una nuova possibilità: quella di un impegno di fronte ai problemi reali della società per sciogliere i molteplici nodi del presente, contribuendo cosi a ricostruire con i cittadini una speranza collettiva se nuove basi». Un programma ambizioso, che dovrebbe mettere tutti d'accordo. ______________________________________________________________ La Stampa 24 mar. ’04 PRIMO, LIBERARE I RICERCATORI DAI BUROCRATI L’ITALIA non è affatto priva di centri scientifici di eccellenza, anche se, nel suo complesso, la ricerca deve ancora arrancare in salita nel suo cammino verso l'Europa. I centri di eccellenza esistenti comprendono grandi istituzioni, come i due politecnici del Nord, i centri di Trieste, l'Istituto nazionale di Fisica, alcuni Istituti oncologici di ricovero e cura a carattere scientifico, il San Raffaele, il Negri, l'Ifom di Milano e altri. Inoltre una buona produttività è riconoscibile, sempre di più, in numerosi laboratori e centri ritagliabili nel contesto di grandi università e strutture ospedaliere, di grossi enti pubblici come il Consiglio Superiore di Sanità e il Consiglio Nazionale delle ricerche. Numerose di queste strutture traggono risorse anche da importanti fondazioni private "non profit", sorte con l'unico scopo di raccogliere fondi da destinare alla promozione della ricerca, adottando, a questo fine, validi criteri di scelta dei ricercatori e di laboratori affidabili. Attualmente alcune di queste associazioni, come l'Associazione Italiana per la ricerca sul cancro (AIRC) e Telethon, assicurano un impatto rilevante alla ricerca italiana nel settore dell'oncologia e della genetica. L'adozione di criteri aperti, internazionalmente validati, nell’assegnazione e gestione degli interventi, conferisce a queste associazioni un ruolo ancora più importante costituendo esse un modello di efficienza e di corretta gestione che ormai neanche gli enti pubblici possono trascurare. Occorre, inoltre, segnalare alcuni fatti nuovi che possono incidere positivamente sulle deficienze e contraddizioni ancora esistenti nel nostro paese aprendo strade nuove e nuovi modi di pensare. Si tratta di tre eventi: 1) il ruolo, sempre più incisivo nel supporto alla ricerca scientifica che stanno assumendo le fondazioni bancarie, particolarmente, in talune regioni; 2) le funzioni che, nella ricerca pubblica, sta per assumere l'Istituto Italiano di Tecnologia (ITT), che potrebbe diventare un modello fortemente innovatore nei confronti di enti statali che ancora assorbono la maggior parte delle risorse governative e tuttora incapaci di sciogliersi dai lacci di una gestione eccessivamente burocratica e talvolta ancora clientelare; 3) la possibilità di trarre vantaggi dalla consistenza maggiore e dagli obiettivi più allargati dei fondi assegnati dall’Unione Europea alla ricerca e all'innovazione. Valutate globalmente, tutte le nuove e meno nuove possibilità fin qui descritte, suggeriscono alcune riflessioni ed attenzioni che potrebbero essere utili, volendo sfruttare al meglio la situazione favorevole. Esse riguardano: - La necessità di assicurare un buon rendimento degli investimenti, scegliendo accuratamente sia i campi di intervento sia i ricercatori in grado di fornire un valido prodotto; purtroppo si assiste ancora alla programmazione in astratto di progetti, alla costituzione di comitati di gestione e coordinamento senza la certezza che vi siano i ricercatori idonei. - La necessità di assicurare un buon controllo dell'avanzamento dei prodotti della ricerca. Pensiamo alle ispezioni in sede, di rito altrove, quasi mai attuate da noi. Oppure alle riunioni con esperti che illustrano lo stato del progetto ("progress reports") e dove i responsabili sono tenuti a esporre i risultati già ottenuti. Infine occorre sistematicamente riferirsi ai fattori di impatto delle riviste che accettano di pubblicare i risultati definitivi. - Un altro punto importante riguarda l'allocazione dei fondi stanziati per la ricerca. Sarebbe meglio che essi andassero direttamente ai destinatari e responsabili della ricerca stessa, non alle istituzioni. E' la formula vincente americana degli ultimi 50 anni ed è la formula con cui sono cresciute l'AIRC e Telethon. In effetti, è l'unica via per rendere i ricercatori più responsabili e più autonomi, meno burocratizzati, e in grado di portare a termine il progetto da loro ideato e che è stato finanziato, anche se dovessero cambiare sede di lavoro. [TSCOPY](*)Università di Torino Felice Gavosto (*) ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 mar. ’04 LA REGIONE SARDA AIUTI L’UNIVERSITÀ Adolfo Lai: le risorse per la ricerca sono indecenti "La Regione ha scommesso poco o niente su cultura e formazione. Il trattamento che si sta riservando ai giovani è vergognoso. Senza ricerca non c’è un’offerta di alto livello, non c’è sviluppo. Senza ricerca siamo destinati a diventare un liceo, superiore certo, ma pur sempre un liceo. Sembra che questo i politici abbiano difficoltà a capirlo. Il mio primo impegno è quello di cercare di rilanciare il potere contrattuale dell’ateneo nei rapporti con la Regione. Ora dobbiamo giocare e vincere la partita del Centro di competenza al quale sono destinati molti miliardi dall’Unione europea. C’è il rischio che le risorse si disperdano o che prendano strade sbagliate". Ha appena avuto un incarico prestigioso il professor Adolfo Lai, ma dovrà affrontare un’impresa titanica. Il rettore (con la benedizione del Senato accademico) lo ha nominato delegato per la ricerca scientifica dell’Università. Era da una quindicina d’anni che non esisteva un responsabile, fino a poco tempo fa se ne occupava il pro-rettore, e nell’ultimo periodo Pasquale Mistretta direttamente. Sessant’anni, una vita trascorsa tra aule e laboratori, direttore del dipartimento di scienze chimiche ("ma mi dimetto oggi perché avrò troppe altre cose a cui pensare"), il professor Lai ha una cattedra in chimico-fisica e la sua specialità sono le risonanze magnetiche nucleari. Congratulazioni. Che programmi ha per il prossimo futuro? Ho avuto questo incarico nel momento forse peggiore per la nostra Università dal punto di vista finanziario. Lavorerò in stretta collaborazione con Franco Nurzia, docente di Ingegneria, delegato per Por e Pon. Sulla carta, dovrei predisporre una politica della ricerca scientifica, basata però su risorse modeste, trascurabili, cioè dovrei fare qualcosa con zero mezzi. Un nonsenso. Così dovrò soprattutto trovare canali di finanziamento, agevolare e informare i professori. Garantire la sopravvivenza di tutti. Altro obiettivo: uno sportello a Bruxelles, oggi non abbiamo notizia dei bandi in tempo reale. Quanti soldi ha attualmente l’ateneo per la ricerca? Una quantità indecente. Il canale tradizionale è quello ministeriale - i progetti di rilevante interesse nazionale - 2 milioni di euro l’anno. Poi, ma non per la ricerca di base, ci sono altri bandi nazionali ed europei (10 milioni di euro negli ultimi 4 anni) e i fondi strutturali gestiti dalla Regione. Gestiti bene o male? Ora il problema vero è quello di rilanciare il ruolo dell’Università nella politica, per partecipare alle scelte che si devono ancora fare per utilizzare i fondi Ue. Parte sono destinati a progetti con il Cnr e a qualche centro di ricerca che deve ancora decollare. Ma bisogna fare in modo che l’Università - che ovviamente ha le maggiori competenze per la gestione delle ricerche e dovrà condurre i giochi - abbia la quantità di risorse che si merita. Si spieghi meglio. Con 10 milioni di euro, per cominciare, dobbiamo creare un centro regionale di competenza per la ricerca tecnologica sulla biologia avanzata. Ogni regione dell’Obiettivo 1 farà altrettanto per un settore portante. Ciascun Centro sarà collegato in un network con laboratori e strutture, e poi tutti i Centri regionali tra loro. È un progetto di fondamentale importanza, che darà anche grande impulso a tante iniziative economiche e sarà distribuito sul territorio. La gestione, dobbiamo dire chiaramente ai politici, deve essere affidata agli addetti ai lavori, a chi ha le competenze adeguate. Quindi: prima viene l’Università poi, con un ruolo secondario, i centri di ricerca. È una questione che si sta discutendo proprio in queste ore. Ma con la Regione sembra ci sia poca sintonia. Esiste un Comitato di coordinamento che - lo ha detto il rettore aprendo la Settimana della cultura - è una finta. È vero, non sta funzionando, e così com’è non ha nessuna utilità. Ma non dipende da noi, è la mancanza di volontà politica. La Regione non si è impegnata realmente sulla formazione e non ha investito sui giovani e sulla ricerca di base, che porta sviluppo e ci consente un’offerta formativa di alto livello. Che è ciò che differenzia l’insegnamento universitario da quello dei licei. E il progetto di legge di riforma universitaria? Prevede un precariato che può durare fino a dieci anni e stipendi che, con tutta probabilità, saranno da fame. I giovani ricercatori non saranno strutturati, avranno specie di co.co.co., contratti quinquennali rinnovabili. Alla fine potranno essere assorbiti dall’Università, oppure dirottati ad altre amministrazioni, ma a quel punto avranno un’età che non li vuole più nessuno. È tragico il trattamento che stiamo riservando ai giovani nel mondo della ricerca. Che rapporti ci sono tra Università e imprese? Il finanziamento privato è inesistente. Il rapporto è dato dal fatto che ci sono bandi, per accedere a fondi strutturali, che consentono di elaborare progetti con imprese che hanno bisogno di ricerca applicata per riconvertire o dare valore aggiunto ai loro prodotti. Ma ci mettiamo insieme soltanto per fare una richiesta di finanziamento pubblico. In più il nostro tessuto economico è molto povero. E i finanziamenti dalle aziende straniere ai singoli gruppi di ricerca? A quanto ammontano? Sono gestiti direttamente dai Dipartimenti. E non siamo in grado di quantificare perché non abbiamo ancora un sistema informatico. Né per la gestione amministrativa né per i prodotti della ricerca. Siamo a un livello artigianale. Lo ammetto: c’è un forte ritardo. Ma entro l’anno avremo la rete per l’amministrazione. Quanto conta la simpatia per la politica del rettore al fine di avere finanziamenti? L’Università dipende dalla politica, intendiamoci, non quella dei partiti. Conta quale spazio un professore, con le sue capacità individuali, riesce a conquistarsi. L’insieme di queste politiche non sono controllate interamente dal rettore, anzi, abbiamo una dialettica molto interessante. È vero che molti colleghi accusano il rettore di essere un accentratore, ma non c’entra con il successo nell’ottenere finanziamenti. È stato detto: l’obbedienza non è più una virtù. Io per carattere non sono ubbidiente, vado molto con la mia testa, non sono uno allineato. Però, accettando questo incarico, dovrò sempre verificare il grado di consenso in ateneo prima di fare delle scelte. Nel mondo della ricerca è fondamentale il confronto continuo. Cristina Cossu ______________________________________________________________ Il Messaggero 21 mar. ’04 LAUREA, ARRIVA IL POPOLO DELLA BREVE A giugno i diplomati dei corsi triennali. Mentre il Consiglio di Stato sta per licenziare la revisione del ministro Moratti I rettori: «Il modello “3+2” funziona, crescono i laureati e cala la dispersione» di ANNA MARIA SERSALE ROMA - Il decreto legislativo della Moratti per la revisione del “3+2” sta per essere licenziato dal Consiglio di Stato, dopo qualche ritocco formale. Approderà presto nelle Commissioni di Camera e Senato, ma la tendenza del governo, in questa fase pre-elettorale, è di non riaccendere il dibattito. «Speriamo però - osserva Alessandro Finazzi Agrò, rettore di Tor Vergata - che non piombi negli atenei in pieno luglio, non avremmo il tempo di attrezzarci». La revisione della riforma universitaria introdurrà maggiore flessibilità ed andrà in vigore dal prossimo anno accademico. Non ci sarà più soltanto il modello «laurea breve, più laurea specialistica», ma un sistema ad y. In concreto, le facoltà potranno scegliere se optare per il “3+2” o scegliere di inserire su un anno di base percorsi del tipo “1+2+2”, oppure ”1+4”, con un quadriennio unitario, che ricalca più da vicino il vecchio modello. L’esigenza di intervenire era stata pressante. C’è chi ha tentato di «svuotare dall’interno» la riforma, chi l’ha «di fatto ignorata». Tra le accuse quelle di essere «troppo professionalizzante a discapito della teoria» o di avere «generato una proliferazione di corsi», di «dubbio sbocco lavorativo», nati come funghi in un «clima di competizione» all’interno delle 170 classi di lauree triennali e delle 104 specialistiche. Più «in risposta ad esigenze accademiche, che formative». L’introduzione delle lauree triennali, dunque, non è stata indolore. Ma in realtà negli atenei che cosa è accaduto? Per la prima volta è possibile valutare l’università riformata e capire come reagiranno le aziende di fronte a questo nuovo tipo di laureato. Il Messaggero, attraverso una raccolta di testimonianze, cerca di anticipare queste tendenze. Il primo contingente di dottori iunior uscirà dagli atenei a giugno prossimo. «Sono 335.106 gli iscritti ai corsi di laurea triennali - rileva Claudia Donati del Censis - . Calcolando il tasso di produttività intorno al 53% dovrebbero uscirne tra i 150 e i 175.000. Sarà il primo vero campione di nuovi laureati, partito nel 2001-2002. I primissimi laureati iunior dell’anno scorso, infatti, non rappresentavano un test perché erano quasi tutti fuori corso, transfughi passati dal vecchio al nuovo ordinamento». Il Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario, che presenterà un rapporto entro aprile, sta studiando gli esiti del “3+2”. «Il processo formativo funziona meglio - afferma Guido Fiegna, uno dei membri del Cnvsu - Tre anni di studi universitari sono sufficienti in tutto il mondo, ora anche da noi. Gli atenei hanno rimesso in discussione i loro percorsi, le nuove figure professionali hanno avuto successo». E i corsi-etichetta, quelli che dietro non avevano consistenza, con pochi servizi, pochi docenti, tanto appeal, ma poca concretezza? «E’ vero - prosegue Fiegna, molti atenei avevano scelto la logica dell’aggiunta, rincorrendo le mode. Ma le scelte degli studenti hanno fatto giustizia. La novità è che sono stati tagliati in tutta Italia cinque- seicento corsi». Al “3+2” era stato affidato un compito arduo. Evitare il “parcheggio” dei giovani nelle università, anticipare l’ingresso nel mondo del lavoro e recuperare la produttività del sistema universitario, precipitata dal ’90 ad oggi in fondo alla classifica. Nella fascia di età 25-34 anni i laureati in Italia sono appena il 12% (dati Ocse). La media dell’Ue, invece, è del 29%, ossia più del doppio. Un divario enorme. Non solo. I nostri laureati raggiungono il titolo alla soglia dei trent’anni e quando bussano alla porta delle aziende sono considerati già “vecchi”. La riforma doveva colmare questo gap tra noi e il resto del mondo. C’è riuscita? Anche a sentire rettori e docenti pare proprio di sì: «Aumentano i laureati e cala la dispersione». «Il nuovo sistema moltiplica i giovani che raggiungono il titolo - dichiara Mario Morcellini, preside della facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza - Tra il 1992 e il 2000 sono cresciuti del 56%, dal 1993 al 2002 l’aumento è stato del 67%. Ci sono più immatricolati e diminuisce la dispersione, che si è ridotta del 10%». «In aumento anche gli studenti lavoratori e le donne», poiché il percorso più breve li incoraggia. CONFINDUSTRIA «FINALMENTE INGEGNERI GIOVANI, LE AZIENDE LI STANNO ASPETTANDO» ROMA - Il mercato come accoglierà il nuovo laureato? Con diffidenza? «No, con favore - esordisce Silvio Fortuna, delegato del presidente della Confindustria per i problemi della scuola e dell’università - Non ci sono ancora dati ufficiali, ma i laureati dell’area ingegneristica, usciti per primi dalla sperimentazione, hanno dimostrato che le nuove figure professionali hanno grande successo. Eravamo abituati a formare solo ingegneri, come se tutti dovessero progettare impianti, anziché usarli. Invece, ci sono una serie di ruoli adatti a profili intermedi». «La cosa più importante - spiega Fortuna - è che finalmente si presentano sul mercato dei laureati giovani. Prima c’era un sistema immutabile, con professionalità tutte uguali, un sistema troppo rigido. Ora, invece, le università propongono profili professionali con molte sfaccettature. E questo piace alle imprese. Il giudizio degli industriali, perciò, è perciò positivo». Così alla Bocconi, anche se i toni sono più cauti. Dice Alessandro Ciarlo, vicedirettore del Centro di orientamento e dei rapporti con le imprese: «Il nuovo sistema didattico ha funzionato bene. Quanto al mercato c’è un clima di attesa. Gli imprenditori per ora non si sbilanciano, tuttavia mostrano interesse per i nuovi laureati. Aspettano di metterli alla prova. C’è da aspettarsi che le selezioni diventino ancor più rigorose, dando maggior peso alle competenze aggiuntive: capacità di relazione, di inserimento nell’ambiente, capacità di scrittura e dialettica, oltre, ovviamente, alla conoscenza dell’inglese». «Per la prima volta in giugno - continua l’esperto della Bocconi - si affacceranno sulla scena sia i laureati delle ultime lauree quadriennali, che quelli del primo triennio riformato». Un altro osservatore del fenomeno è Andrea Cammelli, uno dei dirigenti del Consorzio ”Almalaurea”, che raggruppa una trentina di atenei: «Sì, c’è un interesse notevole, lo vediamo dalle consultazioni fatte nella nostra banca dati, che in totale contiene 410mila curricula di laureati. Non è ancora un test valido, quello sui laureati triennali, ma delinea una tendenza». A. Ser. ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 25 mar. ’04 LA BEFFA DELLE LAUREE BREVI: IL LAVORO RESTA UN SOGNO Il lavoro resta un sogno: mea culpa dei professori La beffa delle lauree brevi: è rivolta in tutte le facoltà SASSARI. Beffati, sedotti e poi traditi da una riforma universitaria che avrebbe dovuto ridurre i tempi di conseguimento della laurea e che invece rischia di produrre l'effetto contrario. Gli allievi dell'Università di Sassari dichiarano battaglia alle nuove lauree triennali, "alle lauree che non sono considerate lauree e a un sistema universitario che invece di facilitare l'accesso al mondo del lavoro rischia di farci completare inutilmente i nostri corsi di studi per poi scoprire di non avere in mano lo straccio di un titolo", come hanno sottolineato in massa gli oltre cento studenti che hanno partecipato all'infuocato dibattito organizzato proprio per studiare una linea comune. In prima linea gli allievi di Scienze politiche, ma sono pronti a difendere coi denti i propri diritti anche a Lingue, Agraria, Medicina e Lettere. A creare tutto questo malumore, che nel giro di poco tempo è sfociato in una vibrante protesta nei confronti di un sistema di studi che rischia di mortificare le ambizioni degli aspiranti dottori, una constatazione semplice quanto allarmante. "Ora che è venuto fuori il problema, scopriamo allibiti che non esiste ancora una soluzione - dicono gli studenti senza ricorrere a mezzi termini - questo significa che passerà ancora parecchio tempo prima di vedere riconosciute le nostre lauree". All'incontro di due giorni fa hanno partecipato anche il preside di Scienze Politiche Virgilio Mura e alcuni docenti della stessa Facoltà. A loro, intervenuti per sottolineare il proprio sostegno agli studenti e la massima comprensione per i loro timori, neolaureati e laureandi hanno chiesto risposte in tempi brevi. Ma non sarà possibile. L'attuale stallo, a causa del quale esiste una concreta difficoltà a individuare e riconoscere i nuovi titoli di studio, "è frutto di una giungla legislativa che non dipende da noi", come ha detto proprio Mura. Resta ferma l'intenzione dell'ateneo di sollecitare il governo perché riporti tutto alla normalità prima possibile, ma restano anche i problemi. "Chi ci ripagherà tutto questo tempo sprecato", lamentano i giovani. Su tutti quelli che si sono già laureati da qualche mese e che hanno sbattuto il muso contro una marea di porte chiuse: concorsi pubblici inaccessibili, aziende private che non vedono di buon occhio quelle lauree brevi che rispetto alle vecchie e bistrattate lauree quadriennali ora sanno tanto di scorciatoie, ordini professionali che non sanno che pesci pigliare. "Il problema non è solo sassarese, questo è chiaro - sottolineano i protagonisti della contestazione - ma è fuori discussione che in un territorio in cui trovare lavoro era già abbastanza complicato il fatto di non avere dei titoli di studio è un problema in più". Chi ha potuto è tornato sui propri passi: proprio a Scienze politiche sono tantissimi gli studenti che hanno deciso di tornare al vecchio ordinamento, altri attendono ancora che la commissione didattica della facoltà gli conceda questa chance. Non potranno tornare sui loro passi gli allievi più giovani, quelli che si sono iscritti per la prima volta all'Università nel 2001: per loro il nuovo sistema è una scelta obbligata. Tra pochi mesi i più bravi completeranno il loro corso, poi dovranno aspettare che qualcuno gli attribuisca valore. Gian Mario Sias ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 25 mar. ’04 LA RABBIA DEI "TRIENNALI" CONTRO LAUREE DI SERIE B Affollata assemblea per il riconoscimento del titolo SASSARI. "Non siamo laureati di serie B". Vorrebbero risvegliarsi dall'incubo, i neodottori in Scienze politiche che alla presentazione della domanda per un concorso o una borsa di studio si sentono rispondere: "Spiacente, ma il suo titolo non è valido". In cento si sono ritrovati a discuterne, decisi a farsi riconoscere il diritto al titolo per il quale hanno studiato. L'assemblea, convocata dall'Associazione degli studenti di Scienze politiche, ha fatto il punto della situazione, lanciato ulteriori sos e prefigurato scenari di difficile gestione. La bomba è scoppiata qualche settimana fa, quando il forum del sito della facoltà si è riempito delle lamentele di studenti preoccupati e laureati infuriati. Il tam tam si è esteso agli altri corsi di laurea e la protesta è montata. Il nodo centrale è la confusione sulle opportunità offerte dal titolo, in un momento in cui i dottori con la "triennale" non sono ancora tanti, e il cosiddetto "tre più due" (l'aggiunta del biennio di specializzazione) a Sassari non è ancora possibile: l'ateneo turritano dovrebbe attivarlo dal prossimo ottobre. L'occasione della protesta, invece, è stata l'uscita del bando per trenta borse riservate a laureati da meno di due anni: l'assegno, che avrebbe dato accesso a uno stage aziendale, era però destinato esclusivamente a reduci della vecchia quadriennale. Solo dopo l'intervento del rettore, la possibilità è stata estesa a quindici laureati del nuovo ordinamento. Questa situazione di confusione sembra destinata ad aumentare col passare degli anni, visto l'alto numero di nuovi iscritti, migliaia, alle triennali: "Tre anni fa i docenti invitavano gli studenti a cambiare ordinamento - ha detto Simone Campus, presidente dell'Asp -. Non discuto sulla buona fede, ma forse avrebbero dovuto avvertire dei rischi cui si andava incontro". All'assemblea, partecipata e animata, era presente anche il preside Lio Mura e alcuni docenti. Tutti d'accordo con gli studenti sul bisogno di chiarezza e certezze. "Purtroppo - ha sottolineato Mura - dal 1999 una serie di leggi, talvolta in contrasto tra loro, hanno ingarbugliato la situazione. Ci muoviamo in una giungla". La realtà è che in una giungla di intoppi e rifiuti si sono trovati alcuni neodottori: come un laureato in Scienze politiche, già segretario comunale di un centro dell'Anglona, che aveva presentato il suo titolo per un avanzamento di ruolo, ma se lo è visto respingere tra i dubbi generali sulla sua validità. O come la poliziotta che non ha potuto partecipare a un concorso interno. "Sono tante le situazioni - spiega Campus - e ancora più grave e ciò cui si andrà incontro, soprattutto in alcuni nuovi corsi che stanno per sfornare centinaia di disoccupati. Chiediamo tre cose: maggiore chiarezza, diritto di recesso e, soprattutto, il riconoscimento del titolo". Renzo Sanna ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 23 mar. ’04 NOI, DISOCCUPATI CON LAUREA TRIENNALE I neo dottori insorgono: un concorso dell'università li discrimina SASSARI. Da quando la riforma universitaria è diventata una realtà si parla della reale spendibilità nel mercato del lavoro della nuova laurea triennale. Ministero e Università si sono prodigati nel rassicurare gli studenti sull'effettiva validità del titolo agli effetti occupazionali, incoraggiando a iscriversi al nuovo ordinamento più dinamico, efficace e non ultimo più breve di un anno o due. "Tutte frottole - smentiscono alcuni neo laureati triennali in Scienze politiche -. Ed è stata proprio la nostra università a dimostrarci che il titolo che abbiamo in tasca è carta straccia". Il caso è presto spiegato: l'ateneo sassarese di recente ha bandito un concorso per 36 borse di studio riservate a laureati da non meno di due anni, ma in possesso del titolo di laurea ante-riforma oppure della nuova laurea specialistica. Risultato? "I nuovi dottori triennali rimangono esclusi, per la gioia di chi non ha mai creduto nella riforma universitaria del "tre più due", ma ha incoraggiato gli studenti titubanti a cambiare ordinamento didattico - denuncia Mario, studente di Giurisprudenza -. In questo modo abbiamo ottenuto un danno doppio, visto che saremo costretti a proseguire comunque i due anni per ottenere la laurea specialistica e competere con i vecchi laureati". I quali in molti casi (giurisprudenza, scienze politiche, scienze naturali) si sono laureati in quattro anni, mentre ora i corsi sono "tre più due". Il bando dell'ateneo sassarese prevede borse di studio semestrali a 700 euro al mese riservate a 36 neodottori i quali, dopo essersi accordati con un'azienda, volessero intraprendere un periodo di praticantato. "Una bella opportunità - dicono con amarezza alcuni laureati triennali - che ci è stata preclusa, a dimostrazione di come il sistema universitario si stia adeguando alla riforma dei cicli accademici, mortificandoli e creando nuova disoccupazione". Un po' la stessa cosa di quanto è successo con i vecchi diplomi universitari, dove non si era carne ne pesce. Eppure il decreto ministeriale 509/99, e tutti i chiarimenti ministeriali successivi, parlano chiaro: la laurea ora è triennale, per cui nessuna distinzione per un laureato in scienze politiche prima o dopo riforma. Allora come mai un concorso bandito proprio dall'ente universitario, che dovrebbe essere il primo ad aver assimilato i nuovi cicli di studi, pratica una simile discriminazione? Sollecitato dall'associazione degli studenti di Scienze Politiche, sembra che il rettore Maida abbia garantito che il problema sarà risolto. Ma la beffa e i disagi ogni giorno aumentano per i nuovi laureati, colpevoli solo di aver concluso l'università nell'anno sbagliato. Problemi che non si arrestano solo per quanto riguarda i concorsi, ma si estendono anche alle professionalità e quindi ai famigerati albi dove con il decreto 328/01 hanno istituito elenco di serie A e B. Insomma, le discriminazioni non mancano. Ma allora quali saranno le distinzioni, ad esempio, tra un agronomo junior e senior e le loro competenze? Sergio Ortu ______________________________________________________________ Il manifesto 24 mar. ’04 RICERCATORI DI TUTTA ITALIA UNITI CONTRO LA MORATTI Ricercatori universitari in piazza in tutta Italia contro il ministro Moratti. Cgil (Nidil e Snur), Adi (i dottorandi) e la Rete nazionale dei ricercatori precari (Rnrp) hanno organizzato decine di manifestazioni locali dando vita alla prima «giornata nazionale di lotta dei precari dell'università e degli enti pubblici di ricerca». Al centro della protesta il ritiro della riforma Moratti della docenza universitaria, che abolisce il ruolo dei ricercatori e permette ai docenti di usare gli atenei come un hobby, consentendo loro appena 350 ore annue di insegnamento. I ricercatori hanno anche ricordato al governo che l’intero finanziamento pubblico dell'università ammonta a 35 milioni di euro, mentre il debito Irpef delle squadre di calcio è di oltre mezzo miliardo. Concedere «Meno tasse per Totti» sarebbe una provocazione indigeribile per la ricerca pubblica e la formazione superiore. Le manifestazioni hanno anche chiesto un piano pluriennale per assumere almeno 20mila ricercatori, la fine del blocco delle assunzioni per il personale tecnico-amministrativo (il cui contratto è scaduto da due anni) e l'introduzione di una formula contrattuale unica per il reclutamento dei docenti e dei giovani scienziati al posto delle 12 attuali: una giungla di borse e contrattini che non dà prospettive a chi dimostra di saper fare ricerca. Mentre la protesta si susseguiva in tutta Italia, a Roma si sono tenuti due incontri importanti per la giornata di mobilitazione. Circa cento ricercatori universitari, infatti, hanno inscenato in mattinata un presidio davanti la sede della Conferenza dei rettori (Crui), con tanto di banda che chiedeva alla Mo ratti di «cambiare musica». Una protesta che nel pomeriggio si è spostata al ministero dell'Istruzione. Manifestazioni a cui sono seguiti incontri ufficiali - dal tono ben diverso tra loro - di una delegazione con i funzionari del Miur e i rappresentanti dei rettori. Davanti al ministero hanno manifestato soprattutto i precari di enti pubblici di ricerca come Istat, Cnr ed Enea. E l'incontro con i funzionari che ne è seguito è finito con un sostanziale muro contro muro. Ricercatori e sindacati hanno perfino appreso dagli stessi vertici ministeriali che il ddl Moratti «è stato redatto senza aver minimamente tenuto conto dell'esistenza e della consistenza delle molteplici figure precarie all'interno dell'università». I sindacati stimano che siano circa 55mila i ricercatori precari in Italia, con stipendi risibili di 800/900 euro al mese. Far finta di non saperlo, se non è strumentale, suona come la conferma di ciò che molti sostengono da tempo, come ha fatto l'interlocutore dell'altro incontro di ieri, quello presso la Crui. «Si stanno riformando gli atenei senza sapere come essi funzionino in concreto» ha detto il rettore dell'università di Reggio Calabria, Alessandro Bianchi, in qualità di portavoce della Crui mentre ascoltava le posizioni dei manifestanti. Un franco scambio di vedute che alla fine ha fatto registrare se non una convergenza di posizioni almeno l'apertura di un dialogo tra le parti. Dialogo che era stato messo in crisi dal timore che i rettori, pur contrari alla riforma, «svendessero» gli atenei in cambio della promessa di qualche finanziamento in più. Il percorso comune rimane però condizionato a un pronunciamento effettivo della Cnzi sulla riforma Moratti. I rettori infatti si sono impegnati in un tavolo tecnico con la ministra, ma Bianchi ha annunciato che proporranno entro aprile una propria proposta autonoma, alternativa a quella del governo. Ne discuterà già oggi il comitato di presidenza e il documento dovrebbe approdare nell'assemblea generale di giovedì prossimo, che dovrebbe pronunciarsi formalmente dopo pasqua. Bianchi ha anticipato i punti principali del testo, che non sarà un articolato ma una serie di paletti: difesa delle università pubbliche e del loro finanziamento, mantenimento del ruolo dei ricercatori e dell'università come luogo congiunto per la didattica e la ricerca scientifica: «L'una non può prescindere dall'altra, altrimenti si creerebbe solo un grande Cepu universitario», ha detto Bianchi. Sul reclutamento, infine, si pensa a un concorso universitario dopo il quale scatta per il ricercatore precario un contratto non superiore a 3 anni. Dopo tale termine si propone una prova di idoneità e la rapida assunzione in ruolo. Meccanismi opposti a quanto previsto dalla Moratti. Raccontando gli incontri tecnici con il Miur, Bianchi ha spiegato che finora non si sono affrontati i punti più ostici, anche se si sta riscrivendo l’articolato punto per punto. L'ipotesi più probabile è che si passi a un precariato di 3+3 anni mediante un contratto a tempo determinato. E si pensa a una fusione della delega Moratti con gli altri cinque ddl del centrodestra che giacciono in parlamento. La maggioranza non sembra cedere, anche se l’iter del provvedimento sarà lungo. Di conseguenza la protesta non si ferma: i13 aprile manifestazione dei ricercatori precari, mentre in molte città i sindacati hanno concesso ai lavoratori di scuola e università la testa dei cortei dello sciopero generale di venerdì prossimo. ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 24 mar. ’04 DEFINITI GLI ORGANICI DELLA SCUOLA: SARANNO 5.885 LE CATTEDRE IN MENO I ricercatori delle università in piazza contro la riforma In arrivo la proposta dei rettori ROMA a Saranno 5.885 i posti tagliati negli organici degli insegnanti per il prossimo anno scolastico. E l’ennesimo aggiustamento contenuto nella bozza della circolare che il ministero dell'Istruzione sta per varare. La cifra è stata diffusa dallo Snals-Confsal ieri, al termine di un incontro al Miur. Nel dettaglio, i 5.885 tagli risultano da 2.200 posti in meno nella scuola primaria, 591 nella secondaria di primo grado, un taglio di 2.513 cattedre nella secondaria di secondo grado e di 800 posti di sostegno. Nella scuola dell'infanzia, invece, sono previsti 219 posti in più. Inoltre, l'esordio della riforma dovrebbe portare 2.900 nuovi posti. «Grazie alla concertazione siamo riusciti a ottenere una drastica riduzione dei tagli», dice Fedele Ricciato, segretario generale dello Snals-Confsal. «Il Miur taglia tanto e non garantisce le scelte dei genitori», commenta Enrico Panini (Cgil). Giudizio negativo anche di Massimo Di Menna (Uil). Intanto, sempre sul fronte sindacale, il sottosegretario, Maria Grazia Siliquini, ha dichiarato che «avvierà un tavolo di confronto con i sindacati, per l'omogeneizzazione degli stipendi del Miur entro il 2004». Sempre sul fronte delle agitazioni va detto che ieri i ricercatori erano in piazza contro la riforma dello status giuridico dei docenti universitari. In molte città italiane si sono svolte manifestazioni di protesta indette dalle associazioni di categoria Adi (Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani), Nidil-Cgil e Snur-Cgil. «È necessario - dice l’Adi - trasformare le attuali forme di impiego dei ricercatori non strutturati (cioè precari, ndr) in veri contratti di lavoro dipendente a tempo determinato» e «bandire a concorso un congruo numero di posti nelle università e negli enti di ricerca, finanziando adeguatamente i progetti». Secondo i dottori di ricerca, il ddl Moratti «andrebbe ripensato a partire dai sui principi fondanti». Intanto dalla Crui, la Conferenza dei rettori delle università italiane, arriva una nuova proposta per il reclutamento dei ricercatori. Alessandro Bianchi, rettore dell'Università mediterranea di Reggio Calabria, ha parlato ieri di una bozza di riforma - all'esame dei rettori - secondo la quale il ricercatore, dopo il concorso universitario, dovrebbe essere assunto per un massimo di tre anni e poi entrare in ruolo, ma solo dopo aver superato una prova di idoneità scientifica. ______________________________________________________________ Il Giornale 24 mar. ’04 MEDICINA, LA VITTORIA DEI RICORRENTI NAPOLETANI IL CONCORSO CONTESTATO. IL CONSIGLIO DI STATO HA CONFERMATO LA SENTENZA DEL TAR CHE AVEVA DISPOSTO L'ANNULLAMENTO DELLA GRADUATORIA la Seconda Università dovrà stabilire un nuovo calendario "Mazzata" per il Rettore. «Se bisognerà rifare qualcosa, spetterà al ministero stabilire l'allargamento dei posti». MARIO PEPE Anche il Consiglio di Stato dà ragione agi studenti rimasti esclusi dal concorso di Medicina dello scorso settembre e che contro la decisione della Seconda Università, avevano inoltrato ricorso alla giustizia amministrativa. Ieri il Consiglio di Stato ha chiusa la cosiddetta fase caute lare con un'ordinanza nella quale ha so stanzialmente confermato il giudizio del tribunale amministrativo regionale che aveva annullato la graduatoria del concorso. Soddisfatti i legali dei ricorrenti Andrea Orefice, Felice Laudadio, Angelo Lisani e Vittorio Scaringia. Con la decisione del Consiglio di Stato, la graduatoria stabilita per la prova è stata ritenuta annullata anche se, secondo alcune indiscrezioni, lo stesso organo d giustizia amministrativa di secondo grado avrebbe in un certo modo stabilito di dovere tutelare anche la posizione dei 300 iscritti. In pratica una decisione salomonica che ha lo scopo di non scontentare nessuno: quindi né gli studenti che avevano fatto ricorso contro la decisione della Seconda Università e né coloro i quali si erano conquistati l'ammissione alla frequenza dei corsi di Medicina. Dal canto suo, il rettore Antonio Crella ha accolto con prudenza la decisione del Consiglio di Stato. ===================================================== ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 25 mar. ’04 AZIENDA MISTA: RIVOLTA CONTRO L'UNIVERSITÀ PIGLIATUTTO I sindacati ospedalieri accusano l'assessore di favoritismi inauditi Ospedale universitario "Ci han preso in giro ma ci ribelleremo" di Alessandra Sallemi CAGLIARI. Cova la rivolta tra i medici sardi che non intendono far da truppa per i generali universitari. Promettono qualunque forma di protesta, sciopero compreso. Sono sferzanti i giudizi sull'assessorato alla sanità che, nella vicenda del protocollo per l'azienda tra ospedale e università, ai loro occhi si è macchiato di una colpa grave: li ha presi in giro. Quella bozza non andava stravolta perché stabiliva finalmente equilibrio di carriere e remunerazioni fra gli universitari e gli ospedalieri. La delusione suggerisce agli ospedalieri considerazioni velenose. Una fra le tante: se la parte ospedaliera avesse voluto infliggere un duro colpo al sistema universitario, avrebbe potuto pretendere i riconoscimenti contenuti in protocolli d'intesa di altre regioni dove, quando si parla dei docenti di Medicina, non si intendono gli universitari e basta ma le figure che insegnano, senza distinzioni fra cattedratici e dottori di corsia. Traduzione per il mondo che assiste alla rissa: per gli universitari forse è arrivata l'ora di riconoscere come nessuno abbia messo in discussione il loro dominio sulla didattica e, di conseguenza, come sia spropositato l'ultimo blitz pigliatutto. Quali sono i passaggi che hanno provocato tanto scalpore? Lo spiega Luigi Maxia, responsabile provinciale del sindacato Cimo: "E' cambiato l'impianto generale che garantiva l'equità di trattamento. Non c'è omogeneità nell'età pensionabile: gli universitari andranno in pensione a 75 anni, mentre gli ospedalieti devono lasciare a 67; perfino i ricercatori universitari possono diventare direttori di unità ospedaliera complessa (primari), mentre questo posto dovrebbe essere assegnato solo agli ordinari o ai docenti di seconda fascia; per gli universitari ci sono previsioni giuridiche che non hanno nulla a che vedere col sistema sanitario nazionale e tutto questo perpetuerà situazioni come quelle del policlinico universitario di Monserrato, dove ora le guardie sono coperte da specializzandi e borsisti. Oppure i nepotismi che indirizzano le carriere dentro l'università". La super lobby della grande lobby universitaria? "Ci sono professori che sarebbero già in pensione con le regole del sistema sanitario: invece di uno di questi si dice abbia perfino l'intenzione di fare il direttore generale dell'azienda mista di Cagliari. Mentre altri, anch'essi influenti, hanno i figli al seguito. Se passerà un protocollo del genere sarà la guerra: è il colmo che l'assessore ci presenti la sua bozza, ci chiede di mettere per iscritto le osservazioni, noi lo facciamo, e poi accoglie un protocollo che non recepisce una sola delle nostre richieste ma stravolge anche l'equità che avevamo giudicato fondamentale". Incomprensibile la posizione dell'assessore. "Comprensibilissima, invece. Lo ha detto il rettore di Cagliari all'inaugurazione dell'Anno Sanitario che la facoltà di Medicina organizzerà i corsi delle lauree brevi a Oristano e Nuoro". A casa dell'assessore. "Già. Mentre resta irrisolto l'altro problema, che noi avevamo presentato: con la fretta di approvare il protocollo per l'azienda mista, in assenza delle previsioni sul numero di posti letto contenute nel piano sanitario e nella razionalizzazione della rete ospedaliera, l'ospedale universitario otterrà i posti letto per acuti in base all'attuale previsione di 8 letti ogni mille abitanti, mentre si sa già che la nuova previsione sarà di 5 per mille. E' chiaro che i tagli, inevitabili, si faranno tutti dopo negli altri ospedali". Com'è che gli universitari possono pensare di fare incetta di posti letto: la legge non fissa il numero in rapporto alle matricole? "Sì, 3 posti letto per ogni iscritto al 1° anno. Ma gli universitari dicono di volere anche letti per le lauree brevi". Insomma, vale sempre l'equazione posti letto uguale potere? "Più che mai adesso che vanno sistemate troppe situazioni anomale delle facoltà di Medicina: fate il conto delle cattedre di chirurgia, di reumatologia, di medicina. Gli attuali ordinari non vorranno essere ridimensionati, vorranno diventare direttori di strutture complesse". Dottore, in fondo è una questione loro: al paziente cosa importa? "La domanda sarebbe giusta se la facoltà si occupasse solo di didattica e di ricerca: potrebbero bastare 50 posti letto. Ma la legge stabilisce che l'azienda mista eroghi anche assistenza al cittadino: non è importante, allora, che la distribuzione di posti letto risponda alla domanda di salute dei cittadini e non alle esigenze di un gruppetto di professori universitari?". ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 24 mar. ’04 SULLE QUALIFICHE DELLA SANITÀ ACCORDO IN VISTA Verso l'equipollenza ai diplomi universitari per i titoli rilasciati dopo corsi «brevi» ROMA a Nuova tornata, tutta federalista, per le equivalenze delle professioni sanitarie. Si tratta della prima ipotesi di un accordo Stato-Regioni per il riconoscimento dei titoli che abilitano all'esercizio della professione, conseguiti secondo ordinamenti diversi e precedenti a quelli già "sanati" con il decreto del ministero della Sanità del luglio 2000 sulle equipollenze per i 22 profili professionali di area sanitaria, in base alla legge 4211999. In quel caso a essere equiparati ai diplomi universitari erano stati tutti i corsi già esistenti che avessero avuto un ordinamento simile a quello dei nuovi studi universitari. Come la triennalità della formazione. Con la legge 1/2002 i diplomi universitari sono stati resi a loro volta equipollenti alle lauree triennali. Ma tutta una serie di titoli conseguiti a livello regionale con corsi più brevi dei tre anni o con ordinamenti didattici troppo diversi da quelli dei diplomi universitari, si trovano ancora nel limbo dell'incertezza sul futuro della liceità dell'esercizio della professione. E non si tratta di pochi operatori, visto che un primo censimento fatto in questi giorni dall'Associazione degli educatori professionali, ha calcolato in circa 10n-ila unità il numero di chi, per questa sola categoria, attende la sanatoria. A essere interessati - e favorevoli - all'accordo, dovrebbero essere anche i logopedisti, i neuropsicomotricisti, gli audioprotesisti, tutte professioni dove è stata frequente la formazione "fatta in casa" che non hanno trovato riscontro nel primo round di equipollenze. E con il fiato sospeso ci sono anche i massofisioterapisti, che finora si sono fatti largo per l'esercizio della professione a colpi di ricorsi ai Tar, con sentenze spesso tra loro contraddittorie. Del tutto indifferenti all'accordo, invece, le altre professioni (infermieri, tecnici di radiologia, ortopedici e di neurofisiopatologia, ostetriche eccetera) la cui situazione è tutta "rientrata" nel decreto del 2000. Mentre qualche speranza in più sembrerebbe aprirsi anche per situazioni come quella dei pedicure che aspirano a rientrare nella categoria dei podologi e per gli assistenti alla poltrona dei dentisti che ambirebbero a condizioni analoghe a quelle degli di igienisti dentali. La scelta dell'accordo Stato-Regioni è stata quasi obbligata. Già alla fine del 2003, infatti, il ministero della Salute ha proposto alle Regioni un testo che i governatori hanno respinto al mittente perché secondo il nuovo Titolo V della Costituzione le competenze su professioni sanitarie e tutela della salute rientrano nell'ambito della legislazione concorrente. E per questo a riscrivere il testo - che ora dovrà essere sottoposto ai ministeri competenti - sono state questa volta proprio le Regioni, che tuttavia ritengono necessario un provvedimento omogeneo per tutti, soprattutto per evitare disparità di trattamento tra operatori in uguale condizione di partenza. L'equivalenza prevista dal nuovo testo è «ai soli fini dell'esercizio professionale» (niente salti avanti di carriera. quindi) e dovrà essere il ministero dell'Istruzione, semmai, a individuare i requisiti per il riconoscimento dell'equivalenza dei titoli per l'accesso alla formazione avanzata post base. Ma anche a fissare i criteri per i percorsi compensativi che dovranno essere effettuati da coloro che, pur superando la soglia minima di sei punti da assegnare ai vecchi titoli secondo tabelle di valutazione della durata e della tipologia dei corsi svolti, non raggiungono i 12 punti necessari per l'equivalenza. PAOLO DEL BUFALO ______________________________________________________________ Libero 26 mar. ’04 FUMO, ACCELERA IL DECLINO MENTALE LEGATO ALL'ETÀ Non c'è giorno in cui non veniamo informati sugli ulteriori guai che comportano le sigarette, l’ultimo studio pubblicato su Neurology rivela che l'abitudine del fumo può accelerare anche di cinque volte il declino mentale legato all'età. Ossia, i fumatori incalliti, se non vengono colpiti prima da tumori letali, rischiano nell'età avanzata di vedere diminuite sensibilmente le loro facoltà mentali. Il fumo dà in testa. I ricercatori per giungere a questa conclusione hanno esaminato le funzioni mentali di circa 9000 soggetti di età superiore ai 65 anni. Il meccanismo attraverso cui si esplica il danno cerebrale è probabilmente dovuto, secondo gli studiosi, all'effetto vasocostrittore della nicotina. Un minore afflusso di sangue al cervello comporta un apporto inferiore di nutrienti alle cellule cerebrali e un'accelerazione della loro morte. ______________________________________________________________ La Repubblica 22 mar. ’04 AL VIA LE SPERIMENTAZIONI PER IL PACE-MAKER CEREBRALE Una ricerca in corso a Grenoble sembra in grado di dare buoni risultati per disturbi quali la depressione o le sindromi ossessivo-compulsive: l'interesse del mondo sanitario, dell'industria e della tecnologia è grandissimo, ma da altri ambienti scientifici arrivano voci di profondo scetticismo EUGENIO OCCORSIO Con tutta la cautela possibile, chiarendo benissimo che lavorano solo su volontari perfettamente consapevoli, che sanno alla perfezione di esplorare un terreno reso tragicamente minato dagli elettroshock e dalle lobotomie del XX secolo, un gruppo di scienziati americani ha avviato un esperimento rivoluzionario: l'installazione di pace-maker nel cervello. Con un meccanismo molto simile alla stimolazione cardiaca, e grazie ai più recenti studi che hanno permesso di localizzare nel cervello molte funzioni, questi apparecchi mirano a risolvere una lunga serie di problemi, a partire dai mal di testa più invincibili fino alle più devastanti forme di depressione e di disordini ossessivo-compulsivi. «Si è aperto tutto un nuovo campo di ricerca», commenta Alim-Louis Benabid, il neurochirurgo che conduce gli studi all'università di Grenoble. «Una lunga serie di industrie di materiali sanitari avanzati sta investendo massicciamente (non a caso la notizia l'ha data il Wall Street Journal, ndr), anche se vedremo i primi risultati concreti non prima di 5-10 anni». Per installare il pace-maker celebrale bisogna intraprendere una difficile operazione che dura sei ore serrate, per di più sul paziente sveglio e collaborante: a lui vengono infatti risparmiati dolore e sofferenze, tanto sono miniaturizzate le apparecchiature usate ed evolute le tecnologie operatorie. Cosi per lunghe fasi può restare vigile e guidare i chirurghi dicendogli le sue sensazioni momento per momento. Vengono praticati due piccoli fori nella parte alta del cranio, e da li introdotti due cavi dello spessore di uno spaghetto, attrezzati di elettrodi e scanner computerizzati iper avanzati. Quindi, trovando la strada nelle fibre nervo se superficiali precedentemente mappate, i cavi vengono pian piano fatti scendere lungo il capo del paziente, uno per lato. L'obiettivo è raggiungere due neurostimulatori inseriti sotto la pelle appena sotto al collo, simili ai pacemaker cardiaci. Come per questi, il livello, l'intensità e il ritmo delle stimolazioni sono programmati dal medico, una volta trovati i punti del cervello su cui l’elettrostimolazione deve agire. I cavi sono collegati ad un microelettrodo (un ago del diametro di 1-2 millimetri) lungo il quale sono previsti dei punti di contatto con l'ambiente circostante, cioè le cellule nervose "bersaglio" dell'intervento, attraverso cui è possibile registrare e stimolare. Alla base della procedura c'è la consapevolezza che il cervello usa per trasmettere messaggi piccoli impulsi elettrici e chimici: la stimolazione dall'esterno li amplifica, li attenua, li "spegne" quando necessario. I primi risultati sembrano incoraggianti: il professor Benabid racconta di pazienti- volontari che sono potuti tornare al lavoro e riprendere una vita normale vincendo paure e ossessioni paralizzanti, altri che hanno smesso le loro debilitanti ripetizioni di comportamenti, altri ancora che hanno vinto la depressione. Il ricercatore francese non lo dice espressamente, ma nel suo ambiente in parecchi cominciano a pensare ad una soluzione addirittura per l'inguaribile Alzheimer. «Il problema vero è che è molto difficile capire lo stesso processo che è alla base dell'Alzheimer», obietta però John Morris, neurologo della Washington University. Ma sull'intera questione la comunità scientifica è molto prudente e in buona parte scettica. «Tenete presente che l’elettrostimolazione, con elettrodi ad ago sottilissimo inseriti in alcune zone particolari del cervello, è già usata ampiamente da anni e con un certo successo contro il morbo di Parkinson», commenta Paolo Rossini, direttore del dipartimento di neuroscienze del Fatebenefratelli di Roma. «Inoltre, al posto di questo metodo di neurostimolazione "invasiva" sono già disponibili tecniche non invasive che impiegano onde elettromagnetiche erogate all'esterno del cranio, che si sono dimostrate d'interesse per la cura delle depressione e dell'epilessia». Sulle altre applicazioni sperimentate oggi in Francia, le perplessità sono pesanti. «In ogni caso, per esempio contro la depressione, dev'essere sempre ben chiaro che parliamo di una frangia di pazienti estremamente minoritaria per i quali qualsiasi altra terapia si è dimostrata vana. Ma anche a queste condizioni - conclude Rossini - non vedo un gran futuro per l’elettrostimolazione nella cura delle malattie mentali». Le stimolazioni con aghi sottilissimo sono usati oggi solo per il Parkinson ______________________________________________________________ Il Giorno 23 mar. ’04 QUANDO IL TUMORE AL POLMONE COLPISCE CHI NON HA MAI_FUMATO Predisposizione genetica MILANO - il fumo è considerato il responsabile numero uno dell'insorgenza di cancro polmonare, prima causa di morte per tumore nel mondo. Ma all'insorgenza del carcinoma concorrono altri fattori, soprattutto di ordine genetico. Su 35.000 nuovi casi all'anno in Italia, 4.000 non hanno mai toccato una sigaretta. È la storia di Marta Nurizzo, una ragazza morta a soli 21 anni di neoplasia polmonare senza aver mai fumato e che dà il nome a un'Associazione nata per promuovere la ricerca sulle neoplasie polmonari. La predisposizione genetica sembra avere un ruolo determinante nell'insorgenza del tumore al polmone. dato che è stato dimostrato che i parenti di primo g rado di pazienti affetti da questa malattia presentano un rischio due/tre volte maggiore di ammalarsi rispetto alla popolazione generale. «È importante che la ricerca si concentri sull'individuazione dei geni responsabili», sottolinea il professore Natale Cascinelli, direttore scientifico dell'Istituto nazionale dei tumori di Milano, «Identificare le vie biochimiche responsabili della suscettibilità o, viceversa, della resistenza al tumore polmonare significherebbe poter mettere a punto strumenti diagnostici per valutare il rischio e personalizzare le terapie». Con questo obiettivo ha preso il via uno studio multicentrico condotto dall'Istituto Nazionale dei Tumori e dall'Istituto Mario Negri, con il sostegno dell'Associazione Marta Nurizzo, che studia i pazienti non fumatori che hanno sviluppato un tumore polmonare i n età inferiore ai 60 anni. Chi volesse partecipare allo studio può rivolgersi al numero verde 800903609 o consultare il sito www.martalive.org ______________________________________________________________ Corriere della Sera 25 mar. ’04 ENZIMI RIDUCONO: LA PRESENZA DEL VIRUS DELL'EPATITE B Una nuova tecnica per combattere l'epatite B è stata sviluppata dal Collegio di medicina dell'Università della Pennsylvania. Il gruppo di Gary Clawson si è servito infatti di un enzima a Rna per tagliare in alcuni punti critici molecole fondamentali per il virus (nella foto di Spl il virus visto al microscopio elettronico), impedendo cosi la replicazione dell'agente infettivo. 1 risultati sperimentali, pubblicati su «Molecular Therapy», mostrerebbero nei topi trattati con questa terapia una riduzione superiore all’80% del Dna virale presente nelle cellule epatiche cronicamente infettate. Attualmente non esistono terapie specifiche per la cura dell'epatite B, ma è possibile vaccinarsi. Questa malattia è molto contagiosa e può essere trasmessa sessualmente o per contatto con sangue o liquidi del corpo infetti. L'epatite cronica può evolvere in cirrosi (circa i150% dei casi), in insufficienza epatica e carcinoma epato cellulare primitivo. ______________________________________________________________ Corriere della Sera 25 mar. ’04 INFARTI: MAI PIÙ MORTI SOTTO I 65 ANNI Annuncio dei medici inglesi. Dubbi degli esperti italiani La nuova strategia anti infarti Nel nostro Paese ogni anno 160 mila attacchi ischemici ROMA - Le malattie cardiovascolari, prima causa di morte nella società occidentale, nel giro di un decennio non saranno più una minaccia. Sotto i 65 anni, le morti per infarto diventeranno un'eccezione. Prospettive dorate per i nostri cuori, secondo Roger Boyle, direttore del National Heart Disease che sul Times ha annunciato trionfante: «Entro il 20131a percentuale degli eventi fatali potrebbe rasentare lo zero grazie al miglioramento delle cure». Le sue affermazioni, però, non sono condivise dai cardiologi italiani che le trovano avventate. Attilio Maseri ritiene che il traguardo indicato da Boyle sia ancora molto lontano: «Ci sono troppi punti oscuri da chiarire su queste malattie per cantare vittoria». UNO OGNI 4 MINUTI - In Europa le coronaropatie sono la principale causa di morte negli uomini dopo i 45 anni e nelle donne dopo i 65. Da noi ogni anno, dati Istat, 160 mila persone nella fascia 35-64 anni sono vittime di un attacco ischemico a carico del muscolo che ci dà la vita. Un infarto ogni 3-4 minuti. Almeno 50 mila pazienti non lo superano. Chi arriva in ospedale entro due ore ha buone possibilità di salvarsi. Ma la tempestività nel raggiungere un centro attrezzato riguarda la minoranza dei casi. «Le dichiarazioni dei colleghi britannici mi sembrano azzardate - le commenta con stupore Maseri -. Non ci sono le premesse per aspettarci risultati cosi decisivi e ravvicinati. Anzi la curva dei decessi, scesa in modo sensibile tra gli anni 1960 e 1990, da allora in poi ha seguito un declino meno sensibile. Nel 1992, i due premi Nobel che hanno scoperto le statine prevedevano che l'era dell'infarto sarebbe tramontata nel 2000. Si sbagliavano». I ricercatori devono dipanare «diversi misteri sul perché a un certo punto il cuore smette di pompare senza aver tradito segnali di affanno - continua lo specialista italiano -. Devono esserci cause genetiche, ma servono indicazioni più precise. Non si comprende perché, al contrario, chi ha fattori di rischio importanti - come obesità, fumo, sedentarietà - magari non ha nessun tipo di problema». SALVACUORE - Franco Valagussa, presidente dell'Heart Care Foundation Onlus giudica nettamente più attendibili le previsioni dell'Organizzazione mondiale della sanità: le malattie cardiovascolari diminuiranno del 75% se la popolazione farà prevenzione sposando stili di vita protettivi. Alimentazione corretta, povera di grassi animali e ricca di frutta, pesce e verdura. Esercizio fisico, controllo del peso, niente fumo, attenzione alla pressione arteriosa e al colesterolo. Proprio su questi temi insiste la campagna patrocinata dal ministero della Salute che la Fondazione ha organizzato con l’Anco, l’Associazione dei cardiologi ospedalieri. I15 aprile in aeroporti e supermercati ci saranno «casette del cuore» presidiate da specialisti dove chiunque potrà avere informazioni. Margherita De Bac PERSONE colpite da infarto ogni anno in Italia. Si tratta di un infarto ogni 3-4 minuti MORTI all'anno per infarto, prima causa di morte fra uomini sopra i 45 anni e donne sopra i 65 LA DIMINUZIONE delle malattie cardiovascolari se si segue un sistema di vita sano: lo dice I'Oms ______________________________________________________________ Le Scienze 25 mar. ’04 UN NUOVO MODELLO ANIMALE PER IL TUMORE DEL SENO L'irraggiamento delle cellule crea le condizioni adatte per il loro sviluppo Un team di biologi della Tufts University, nel Massachusetts, ha sviluppato un nuovo modello animale del tumore del seno che sembra superiore ai metodi usati in precedenza per studiare le fasi di sviluppo del tumore. Lo studio è stato descritto in un articolo pubblicato online sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences". Charlotte Kuperwasser e colleghi hanno impiantato con successo nei topi cellule umane che successivamente hanno sviluppato tessuti del seno che assomigliano molto a quelli degli esseri umani. La chiave del successo di questa nuova tecnica risiede nell'irraggiamento di una porzione delle cellule del fibroblasto trasferite con il tessuto umano. L'irraggiamento attiva le cellule del tessuto connettivo che, a loro volta, creano un microambiente ospitale e ricco di nutrienti per le cellule impiantate. I ricercatori hanno anche scoperto che il tessuto del seno apparentemente normale trasferito nei topi si sviluppa occasionalmente in iperplasie, che possono costituire i precursori del cancro o essere cancerogeni a loro volta. Questa scoperta rinforza l'idea che il tessuto apparentemente normale possa ospitare piccole isolette di cellule geneticamente anormali in grado di diventare cancerose. Suggerisce inoltre che le cellule negli strati di tessuto connettivo possano liberare segnali che stimolano la progressione del tumore. Gli autori dello studio affermano che la loro tecnica si rivelerà utile nello studio dei passi che conducono dal normale tessuto del seno a un gran numero di sottotipi di tumore. ______________________________________________________________ Libero 26 mar. ’04 CANCRO AL SENO: VINO E GRASSI AUMENTANO IL RISCHIO Un nuovo studio condotto da medici svedesi ha scoperto che nelle donne in menopausa che consumano grandi quantità di alcool il rischio di sviluppare un cancro al seno raddoppia. Secondo l’autrice della ricerca, la dottoressa Irene Matthison dell'Università di Lund (Svezia), c'è una soglia al di sotto della quale l’alcool non produce nessun effetto, ma per ora è- difficile stabilirla con esattezza. «Abbiamo scoperto però - dice la dottoressa - che bere più di un bicchiere e mezzo di vino al giorno in una donna in menopausa raddoppia le probabilità di un cancro al seno. Da un ulteriore punto di vista dietologico, anche elevate quantità di grassi acidi Omega 6 (che si trovano, ad esempio, nell'olio di semi di mais e di girasole) ne aumentano il rischio», Secondo la Matthison, inoltre, le over 45 dovrebbero consumare più Omega 3 (grassi che si trovano nell’olio di semi di rapa, nel salmone, nei tonno, e nei semi di lino). ______________________________________________________________ Le Scienze 25 mar. ’04 STRESS E SCLEROSI MULTIPLA Problemi finanziari o lavorativi possono influire sui sintomi della malattia La maggior parte dei pazienti di sclerosi multipla (MS) è convinta che lo stress possa peggiorare i propri sintomi, ma questa teoria ha sempre suscitato controversie nel mondo accademico. Ora una nuova ricerca, pubblicata il 19 marzo 2004 sul "British Medical Journal", conferma l'associazione fra gli eventi stressanti e l'esacerbazione dei sintomi nel pazienti di MS. I ricercatori dell'Università della California di San Francisco hanno analizzato dati provenienti da 14 trial, scoprendo un rischio modesto ma significativo di peggioramento in seguito a eventi stressanti non traumatici come lo stress da lavoro o i problemi finanziari. Tuttavia, gli autori sottolineano che questi dati non consentono di collegare specifici tipi di stress all'esacerbazione, né dovrebbero essere usati per concludere che i pazienti sono responsabili del peggioramento delle proprie condizioni. I risultati dello studio, invece, aiuteranno a investigare nuovi possibili metodi per gestire la sclerosi multipla, sia attraverso una maggior cura psicologica dei pazienti sia mediante il trattamento della loro risposta fisica allo stress. ______________________________________________________________ La Stampa 24 mar. ’04 PIÙ ALLERGIE DA NICKEL CON L’EURO L’EURO fonte di inconvenienti per numerose persone. Per gli allergici al nichel le nuove monete possono essere dannose: il dato emerge da uno studio coordinato dal direttore del Servizio di Allergologia del Policlinico universitario Agostino Gemelli di Roma, Giampiero Patriarca, e pubblicato sul British Journal of Dermatology. La ricerca dimostra una differente capacità allergizzante delle monete, maggiore in quelle da 1 e 2 Euro, a causa della struttura bimetallica che favorirebbe il rilascio di nickel. Quella al nickel è la più frequente allergia da contatto nei Paesi industrializzati, con prevalenza del 7-10% tra le donne (2-3% tra gli uomini). Per eseguire la ricerca sono stati arruolati 25 soggetti allergici al nickel e 10 non allergici come gruppo di controllo. Monete da 1, 2, 50 centesimi di euro, 1 e 2 euro, e monete da 100 e da 500 vecchie lire italiane sono state applicate con un cerotto sulla pelle dei soggetti e ne sono stati valutati gli effetti a distanza di 72 ore. I risultati indicano una spiccata reattività cutanea dei pazienti allergici, specie verso le monete da 1 e 2 euro. Oltre al nichel, sembra determinante la struttura bimetallica di tali monete, che appunto favorirebbe il rilascio di nichel in quantità «pericolosamente significative». ______________________________________________________________ La Stampa 24 mar. ’04 UNA NUOVA MEDICINA E’ IL CANE DELLA MUTUA UNA ASL DI TORINO ALLEVA E ADDESTRA GILDA, FEMMINA DI GOLDEN RETRIEVER, CHE UTILIZZA COME COADIUTORIO NELLA CURA DEGLI AMMALATI DI ALZHEIMER ESISTE un progetto che si svolge in uno scenario drammatico, ma che ha per protagonista un personaggio gioioso: un cane di nome Gilda, che abita da quando aveva tre mesi presso l'ASL 4 di Torino. E' una giovane femmina di Golden Retriever, equilibrata, affettuosa e dotata di una innata predisposizione all'apprendimento, come da standard di razza. Le terapie assistite con l'impiego di animali utili al miglioramento della salute e della qualità di vita dell'uomo stanno entrando nel nostro modo di pensare, e Gilda esercita quel mestiere conosciuto nel linguaggio comune come "pet therapy". Non è una novità del giorno d'oggi, dato che nell'Egitto dei Faraoni l'animale sacro ad Anubis, dio della medicina, era il cane, così come le divinità dei Sumeri, dei Caldei e dei Greci erano affiancate dai propri animali da compagnia nella cura delle malattie. Tra i cani della vita moderna, il Golden Retriever è uno dei prescelti per stare vicino ai malati: l'uomo ha plasmato morfologia e carattere della progenie del lupo selezionando le razze canine e l'indole del Golden rispecchia in modo fedele il suo aspetto. La responsabilità del proprietario di un animale, che si tratti di un padrone in carne ed ossa o di un ente astratto, è quella di garantirgli il necessario benessere perché conservi e coltivi le sue qualità, in modo da diventare capace di donare a sua volta in maniera naturale. Gilda non può avere un solo padrone, essendo di un'ASL, ma il personale che si occupa di lei sta partecipando a un corso di formazione utile a garantire la riuscita del progetto: è necessario uniformare atteggiamenti ed azioni, così da semplificare il più possibile agli occhi dell'animale l'interpretazione del linguaggio umano. Allevare un cane in una sede sanitaria è un esperimento che la nostra società forse è pronta ad affrontare, perché la cultura ci ha insegnato che la Gilda di turno non è soggetto passivo al quale dare benevolenza secondo capriccio o da utilizzare secondo necessità, ma creatura dotata di attiva capacità di dare. Nell'Ottocento il naturalista Buffon scriveva: "Invero, l'uomo disse senza accorgersene ciò che intende per amicizia, il giorno in cui proclamò il cane suo amico". Nel Duemila la consapevolezza di ricevere affetto da un cane può trasformare l'amico animale in una vera medicina, tanto efficace da poter fare a gara con pillole e farmaci e pareggiare o addirittura vincere, vista l'assenza di effetti collaterali. Il progetto dell'ASL 4 risponde a due esigenze precise della sanità: una co-terapia per i malati di Alzheimer e altri malati cronici non autosufficienti, basata sulla fiducia e sull'affetto di un amico a quattro zampe, e la creazione di nuove figure professionali nelle strutture sanitarie pubbliche. Per un cane è necessario mobilitare un'équipe di persone specializzate: confermata la collaborazione tra il Servizio Veterinario e la Geriatria territoriale, è stato necessario un punto di riferimento per l'animale. In questo caso c'è: Anna Maria Cavallero, veterinaria entusiasta. Poi ci vogliono l'addestratore e l'etologo, per non parlare di medici, psicologi e infermieri. Un cane del genere ha bisogno di sei persone, ognuna con un ruolo specifico nei suoi confronti. Quattro di queste sono dipendenti della struttura sanitaria; il gruppo di lavoro, terminata la prima parte dell'incombenza, seguirà un corso di specializzazione per l'abilitazione nazionale brevettata dalla Delta Society, che è una scuola riconosciuta a livello internazionale. In futuro, se la logica della pet therapy troverà consenso nelle ASL italiane, essere "conduttore" del cane diventerà una nuova professione. Durate la presentazione del progetto ha parlato anche il responsabile della Residenza Sanitaria Assistenziale di via Botticelli e del Centro diurno per malati di Alzheimer Aurora di via Schio, i due "posti di lavoro" previsti per Gilda. Pietro Landra è direttore della Geriatria territoriale e con rispetto chiama "vecchi" i suoi pazienti, usando una parola bella, molto più accettabile che non "anziani" o "nonni". Hanno malattie degenerative del sistema nervoso, pochi sono lucidi, pochissimi autosufficienti. Quando molte persone con la stessa patologia vivono insieme c'è il rischio di manicomizzare, sommando comportamenti tutti uguali che escono dal controllo. La geriatria è nata per questo, e ogni progetto che renda accogliente quella che per molti sarà l'ultima casa non può essere che positivo. Tante sono le maniere, dalla personalizzazione delle camere ad altre piccole e grandi cose, compreso l'inserimento del cane. Agli ospiti e ai loro familiari è stato sottoposto un questionario per capire la disponibilità verso il mondo animale e i risultati sono stati tanto incoraggianti da auspicare una ciotola e una cuccia abitata in ogni stanza. Quando Gilda è arrivata tutti l'hanno accolta con gioia; i vecchi, durante i loro momenti sociali, hanno dimenticato il consueto monologo sui propri mali e hanno incominciato a parlare del cane, meravigliosa alternativa di conversazione per combattere ansia e depressione. Non sarebbe una stravaganza offrire a ogni vecchio il suo animale di compagnia da tenere vicino, ma la vera questione è l'impegno che questo lavoro comporta. Il progetto iniziale è stato finanziato dalla ASL stessa per la formazione del personale interno, e dal Rotary Club Torino Mole Antonelliana insieme ai dipendenti San Paolo Imi per l'acquisto e l’allevamento del cucciolo durante il primo anno e per la formazione del personale non dipendente. Perché il lavoro prosegua, diventi importante e conservi la serietà del progetto d'inizio ci vorranno molti altri quattrini. In tempi di tagli, lo scodinzolare di Gilda sembra una sfida da don Chisciotte: però regala un sorriso e apre una strada. Se vale la pena percorrerla anche in salita lo dica chi sa quanto fa bene sorridere. Caterina Gromis di Trana ______________________________________________________________ La Stampa 24 mar. ’04 VACCINI E PAESI POVERI UN PROBLEMA DI CIVILTÀ L’AVVIO DI CAMPAGNE PROFILATTICHE E’ SEMPRE PRECEDUTO DA VALUTAZIONI DI TIPO ECONOMICO. INIZIATIVE PER CORREGGERE UNA GRAVE SPECULAZIONE Mario Valpreda STRUMENTO indispensabile per il controllo e l'eradicazione delle malattie infettive dell'uomo e degli animali, i vaccini hanno scandito varie tappe della medicina moderna. Una storia con molte luci e poche ombre sotto il profilo dei vantaggi ma che, nell'era del mercato globale, richiede un'attenzione particolare da parte dei responsabili della sanità pubblica. Infatti nemmeno i vaccini sfuggono al nodo della relazione imperfetta, propria di tutto il settore farmaceutico, che si instaura quando una tecnologia prodotta industrialmente con obiettivi di profitto, viene utilizzata per uno scopo di utilità collettiva: la tutela della salute pubblica. E’ una dialettica complessa, con vaste implicazioni scientifiche, etiche, sociali ed economiche. La prima riflessione, che riguarda obiettivi e strategie della vaccinazione, è strettamente legata alla tipologia dei vaccini, distinguibili in due categorie generali: i vaccini protettivi e i vaccini di controllo. I vaccini protettivi sono quelli usati per proteggere singoli individui contro conseguenze e complicazioni di una malattia, senza interferire con la presenza e la diffusione del morbo nella popolazione. Paradigmatico in questo senso è il vaccino contro l'influenza, una patologia provocata da un virus caratterizzato da una grande variabilità. Ad ogni stagione epidemica il virus cambia la propria identità e il vaccino antinfluenzale contiene il virus isolato l'anno precedente. Per questo la corrispondenza tra virus circolante e vaccino disponibile non è mai totale e sono possibili insuccessi vaccinali, legati anche alla presenza di una miriade di altri virus che provocano sintomi indistinguibili da quelli dell'influenza. Verso di essi il vaccino antinfluenzale ovviamente non protegge. Poiché pensare di eradicare una malattia con le caratteristiche dell'influenza con un vaccino è impossibile, si è deciso di vaccinare le persone a maggior rischio di complicazioni, cercando di limitare i danni dell'epidemia (morti, ricoveri ospedalieri, complicazioni gravi, spese farmaceutiche). Il numero di persone vaccinate non ha praticamente effetti sulla circolazione del virus e sulla diffusione dell'influenza, ma quante più persone a rischio sono vaccinate, tanto maggiori saranno i vantaggi collettivi. Vaccini di controllo sono invece quelli usati per impedire la comparsa di una malattia in un’area e tentare di eradicarla. Esempi classici sono i vaccini contro il vaiolo (già eradicato), la poliomielite (in fase di eliminazione), il morbillo. In quest'ultimo caso non si è ancora riusciti a raggiungere un livello di copertura sufficiente a impedire la circolazione virale, con due conseguenze, entrambe negative: la comparsa periodica di nuove epidemie e l'innalzamento dell'età dei casi di malattia, con possibilità di gravi complicazioni. Per questo prima di iniziare una campagna vaccinale ai fini di controllo si devono valutare con attenzione diversi fattori: la presenza di servizi sanitari organizzati su tutto il territorio, di operatori preparati e motivati, di campagne di comunicazione che richiamino la popolazione a rispettare l'obbligo. Ma, attualmente, agli aspetti tecnici e organizzativi dell'uso dei vaccini si è aggiunta anche la questione del rapporto tra sanità pubblica e industrie produttrici. Negli ultimi anni è avvenuto un imponente processo di concentrazione di grandi industrie farmaceutiche che controllano oltre il 70% del mercato mondiale. Anche il giro di affari è aumentato (da 1 a 5 miliardi di dollari/anno) ma, visto con gli occhi di una multinazionale del farmaco, produrre un nuovo vaccino è sempre un rischio. Si calcola infatti che con le nuove tecniche di ingegneria genetica, coniugazione e combinazione, lo sviluppo di un nuovo vaccino richieda investimenti di 500 milioni di dollari e 12-15 anni di lavoro. Il risultato è una licenza di vendita esclusiva per vent'anni. Poi il vaccino potrà essere prodotto liberamente. Quindi l'interesse dei produttori è sviluppare nuovi vaccini da vendere a prezzo elevato ai paesi ricchi. Di contro si osserva un progressivo abbandono dei vaccini tradizionali, meno remunerativi e con un mercato più incerto per le difficoltà economiche dei paesi poveri e per l’inadeguatezza degli aiuti internazionali. Questa situazione allarma l'OMS, che già nel rapporto 2002 ha denunciato lo scandalo di milioni di bambini lasciati senza protezione dai governi nazionali che, non avendo soldi per comperare il vaccino, possono solo attendere che il prezzo si riduca allo scadere del brevetto. Sempre l'OMS ha segnalato il rischio che si interrompano i processi di ricerca e sviluppo in corso sui vaccini contro AIDS, tubercolosi e malaria, infezioni che mietono ogni anno milioni di vittime. I motivi sono sempre gli stessi: sono vaccini che hanno il loro mercato prevalente nei paesi poveri, non in grado di acquistarli. Una colossale iniquità a cui si cerca di rimediare con iniziative tipo quella denominata GAVI (Global alliance for vaccines and immunisation) patrocinata, tra gli altri, da OMS, UNICEF e Banca Mondiale. La GAVI si propone di correggere le distorsioni di mercato favorendo il sorgere di industrie locali. E’ una battaglia di alta civiltà ma difficile in un'epoca in cui i valori etici e solidaristici devono troppo spesso inchinarsi alla logica del profitto ad ogni costo. Vittorio Demicheli