L’EUROPA HA BISOGNO DI 700 MILA RICERCATORI - GLI ATENEI CHIEDONO PIÙ FLESSIBILITÀ - SULLE LAUREE TRIENNALI DAL GOVERNO UNA RIFORMA SENZA PENALIZZAZIONI - UNIVERSITÀ, AL VIA IL CUN INTEGRATO - ATENEI, NELL'ANAGRAFE NAZIONALE IL «PERCORSO» DEGLI STUDENTI - CATTEDRATICI VIP SUPERSTIPENDIATI - UNIVERSITÀ: I BASSI STIPENDI DEL RICERCATORE - UNIVERSITÀ: IL DIPARTIMENTO NON PUÒ STARE IN GIUDIZIO - SCIENZA E INNOVAZIONE L'AMERICA TEME IL SORPASSO - HACK: IN AMERICA UN PATRIMONIO DI CREATIVITÀ E MIOPIA POLITICA - RICERCA: TRABALLA IL PRIMATO DEGLI USA NELLA R&S - LE PRIME CREPE IN UN MODELLO VINCENTE DAL 1950 - SULLA RICERCA LA SPAGNA DÀ UN ESEMPIO - POCA RICERCA,NIENTE BREVETTI COSÌ L'ITALIA ESCE DAL FUTURO - BASTA MEZZO EURO PER ADOTTARE UN RICERCATORE - L'ITALIA RIMANE MAGLIA NERA NEI PROGETTI DI LABORATORIO - I BREVETTI NON SERVONO: IL 90% VIENE CESTINATO - CAGLIARI: "LASCIATECI STUDIARE ALL'ESTERO" - LEZIONI ONLINE LA TECNOLOGIA SFIDA LA POVERTÀ - EVOLUZIONE, 4 SAGGI PER LA MORATTI - ================================================================== SANITÀ, L'AZIENDA MISTA RESTA SOLO UN MIRAGGIO - LA BOZZA SULLE AZIENDE MISTE - AZIENDE MISTE, OSPEDALIERI IN RIVOLTA - SINDACATO: IL RETTORE INTERVENGA SULLE GRADUATORIE PER CAPOSALA - VERONESI: NEL CUORE DEL CANCRO - BIOETICA:«NO ALLE MEDICINE ALTERNATIVE» - NASCE LA SALA OPERATORIA DIGITALE - IPERTERMIA PER I TUMORI DELLA VESCICA - BAMBINI "PROGETTATI" PER DONARE SANGUE E MIDOLLO AI LORO FRATELLI - AMNIOCENTESI ADDIO BASTERÀ UN PRELIEVO - AMNIOCENTESI: MA IN UN CASO SU CINQUE PRESCRIVERLA È INUTILE - SALUTE A RISCHIO PER I TURNISTI - PIÙ IGIENE NEGLI STUDI DENTISTICI - NUOVI MEZZI DI CONTRASTO UTILIZZATI NELL’IMAGING DIAGNOSTICO - PRONTI A CLONARE L'UOMO MA SOLO PER CURARLO - MENO ISTRUZIONE, MENO STRESS - VITAMINE E COLESTEROLO - ================================================================== ___________________________________________________ La Stampa 5 mag. ’04 L’EUROPA HA BISOGNO DI 700 MILA RICERCATORI APPELLO PER RIPOPOLARE LE FACOLTA’ SCIENTIFICHE E’ L’OBIETTIVO FISSATO DALL’UNIONE PER POTER COMPETERE CON STATI UNITI, GIAPPONE E GLI ALTRI PAESI HI-TECH: MA OCCORRE INVESTIRE IL 3% DEL PIL UN obiettivo ambizioso: portare il finanziamento della ricerca dall'1,9 per cento al 3 per cento del prodotto interno lordo per poter arrivare al 2010 con settecento mila nuovi ricercatori. E’ l’obiettivo fissato dall’Unione Europea a Barcellona nel marzo 2002. Un traguardo che ora sembra però irraggiungibile. «L'Europa rischia di vedere diminuire il numero degli scienziati in modo molto sensibile». L'allarme arriva da un gruppo di esperti ad alto livello, costituito lo scorso anno dal commissario Ue alla Ricerca, Philippe Busquin, che ha consultato circa trecento importanti istituzioni scientifiche europee e i ministri competenti degli Stati membri, dei paesi in via di adesione e dei paesi candidati per valutare l'efficacia delle rispettive politiche nazionali. Il quadro che emerge è deludente. Il tasso di crescita annuale del numero di scienziati a livello europeo si ferma al 2,1 per cento. Una percentuale considerata troppo bassa, spiegano gli esperti, per raggiungere lo sviluppo di altre aree del mondo. Nel periodo dal 1998 al 2001, ad esempio, in paesi come la Germania e l'Olanda si è verificata una diminuzione dei laureati in ingegneria e in scienza, materia quest'ultima in cui il calo ha interessato anche l'Italia. Una situazione che preoccupa Bruxelles che sta ora valutando la possibilità di lanciare una vasta campagna di sensibilizzazione nel corso del 2005. Il gruppo degli esperti (tra cui John Ziman, professore emerito di fisica all'Università di Bristol, e Paul Caro, ex direttore della ricerca presso il CNRS, istituto che analogo al Consiglio nazionale delle Ricerche italiano), sottolinea che i governi non sostengono a sufficienza il settore pubblico europeo, caratterizzato da scarse risorse, retribuzioni insufficienti e mancanza di prospettive di carriera. Di qui l'appello di Busquin agli Stati membri: correre ai ripari e assolutamente puntare ad aumentare l'impegno per sostenere e concorrere allo sviluppo della ricerca, nonostante sia il settore privato attualmente il principale datore di lavoro del personale scientifico. Anche perchè il confronto con altre aree del mondo, in particolare con gli Stati Uniti, mettono in evidenza una pericolosa distanza dell’Europa: il settore privato americano ha messo a disposizione della ricerca cento miliardi di euro in più rispetto a quanto destinato dai Paesi dell'Unione. «L'eccellenza in materia scientifica e tecnologica è essenziale per garantire il futuro dell'Europa - ha affermato il commissario europeo responsabile della ricerca - L'Europa non solo deve mantenere e attirare gli scienziati di alto livello, ma anche incoraggiare i giovani a diventare la prossima generazione di innovatori e inventori». Ma con quali ricette? È indispensabile, dicono gli esperti, porre rimedio alle disparità esistenti in Europa nella formazione alla ricerca, nei metodi di assunzione, carriere e retribuzione dei ricercatori. Altrimenti il rischio è la fuga di cervelli perché la mancanza di un vero e proprio mercato del lavoro per i ricercatori europei fa sì che i giovani non siano particolarmente attratti da una carriera nel settore. Tra l’altro, come ha constatato il gruppo di esperti, le stesse imprese «high-tech» sono in piena mutazione. Sono ormai finiti i tempi dei laboratori aziendali di ricerca centralizzati, situati geograficamente in prossimità della sede centrale. Le imprese tendono a insediarsi dove si concentrano le migliori risorse umane (è il caso, ad esempio dell’India, con le sue nuove eccellenze scientifiche e tecnologiche, capaci di attrarre nuove imprese in campo informatico). «I paesi in cui esiste una manodopera altamente qualificata possiedono un indiscutibile vantaggio. I responsabili politici devono quindi sostenere lo sviluppo delle competenze a livello nazionale», insistono gli esperti dell’Ue, esortando università e imprese a stringere nuovi accordi per promuovere le carriere. In particolare che, prima di intraprendere gli studi universitari, gli studenti possano essere sensibilizzati alla possibilità di orientare i loro studi verso discipline scientifiche. Una raccomandazione precisa anche alle scuole di ogni ordine e grado: rimediare a un insegnamento delle scienze spesso scisso da qualsiasi riferimento alla vita quotidiana e alla vita professionale. Anche perchè i «piccoli scienziati» possono crescere a beneficio degli auspicati futuri traguardi europei. C’è comunque un dato europeo significativo: la presenza di studentesse nelle facoltà scientifiche e tecniche è in continuo aumento. Anche se poi risulta che le donne impegnate nei settori legati alla ricerca scientifica ancora oggi ricevono stipendi inferiori rispetto a quelli dei colleghi uomini e sono, più spesso degli uomini, assunti con contratti a durata determinata. E sono pochi i nomi femminili che si ritrovano in posti di alta responsabilità. Anche questo appare come un ulteriore ostacolo a un’Europa con più scienziati. Stefanella Campana ___________________________________________________ Il Sole 24Ore 25 Apr. ‘04 GLI ATENEI CHIEDONO PIÙ FLESSIBILITÀ UNIVERSITÀ Il modello a «Y» per le lauree di primo livello proposto dall’ ministro Moratti incontra -numerose adesioni II «3+2» criticato per il farraginoso riconoscimento dei crediti - C'è però il rischio-confusione indotto da nuovi interventi Novità in vista per l'università italiana. Mentre stanno arrivando i primi laureati triennali, la struttura del «3+2» è rimessa in discussione. Dopo il parere favorevole del Consiglio di Stato si apre infatti la strada per il progetto di riforma studiato dal Miur con commissione guidata da Adriano De Maio. Tra i cambiamenti possibili (si veda l'articolo a fianco) spicca l'introduzione di percorsi a «Y» per le lauree triennali, che differenzieranno i corsi più professionalizzanti da quelli pensati per chi -intende proseguire, e la nuova struttura delle lauree specialistiche, che saranno articolate su 120 crediti autonomi. Flessibilità bloccata. Di possibili modifiche all'ordinamento si parla da tempo, in seguito alle critiche espresse da alcune facoltà sull'eccessiva rigidità del sistema. Il «3+2», si sostiene, doveva introdurre una buona dose di flessibilità nei percorsi di studio, consentendo un'ampia scelta di corsi specialistici ai laureati triennali e favorendo anche la mobilità tra classi di laurea affini, anche in diversi atenei, grazie al mutuo riconoscimento dei crediti. In realtà questo accade di rado perché, come spiega Sandro Rogari, preside della facoltà di scienze politiche all'Università di Firenze, «il sistema di riconoscimento dei crediti acquisiti è complesso e farraginoso, non è uniforme a livello nazionale ed è facile che uno studente che cambia ateneo o facoltà si veda attribuiti consistenti debiti formativi. Per questo accanto ai percorsi bisogna ripensare anche il regolamento delle classi di laurea». Svincolare la laurea di specializzazione dal triennio è visto con favore in molte facoltà, a partire da ingegneria. «L'attuale sistema dei crediti - riflette il rettore del Politecnico di Milano, Giulio Ballio - rende praticamente impossibile il passaggio tra classi di laurea affini anche quando gli studenti hanno le competenze adeguate». «Tuttavia - avverte Andrea Stella, presidente della Conferenza dei rettori di ingegneria - la nuova formulazione consente qualunque cosa e sta alla serietà dell'ateneo evitare che, ad esempio, un laureato triennale in scienze economiche si iscriva a una laurea specialistica in ingegneria gestionale». Giurisprudenza in attesa. Le nuove proposte incontrano qualche perplessità a giurisprudenza, che da tempo invoca dei correttivi al «3+2». «La Commissione ministeriale - spiega Vincenzo Ferrari, preside della facoltà all'Università Statale di Milano - ha agito senza consultarci, e giovedì prossimo la Conferenza dei presidi di giurisprudenza si riunirà per chiedere ufficialmente di avere voce in capitolo». AL di là degli aspetti di metodo, le facoltà di giurisprudenza sono state tra le più critiche nei confronti del modello «3+2» perché, come sottolinea Ferrari, «in tutta Europa gli studi giuridici hanno un percorso unitario, e imporre agli, studenti il "catenaccio" di una laurea triennale significa far perdere loro molti mesi per la preparazione e discussione della tesi». Per ovviare a questo problema i giuristi propongono una formula inedita, il «5-2»: lo studente si iscrive a un percorso quinquennale che, però, prevede la possibilità di essere interrotto dopo tre anni, senza una distinzione iniziale sul fronte dei programmi didattici tra aspiranti triennalisti (chi ad esempio vuol diventare giurista d'impresa) e chi punta invece a diventare avvocato, notaio o magistrato. In ogni caso sul percorso formativo si sta interrogando anche la commissione presieduta dal sottosegretario all'Istruzione, Maria Grazia Siliquini, nell'ambito della riforma dell'accesso alle professioni legali. Eccesso di riforme. Non tutti, comunque, vedono con favore l'introduzione di nuovi cambiamenti. «Oggi - spiega Enrica Amatwo, preside di sociologia e presidente della Commissione didattica dell'Ateneo Federico II di Napoli - in ogni facoltà ci sono già gli studenti "residui" del vecchio ordinamento e quelli del nuovo. Introdurre un'ulteriore novità rappresenterebbe un dramma per il personale di ateneo che non sarebbe in grado di gestirla e sarebbe impossibile svolgere le necessarie attività di orientamento per gli studenti, confusi dal rapido succedersi dei cambiamenti». Per questa ragione, secondo la Amaturo, «più che discutere di modelli astratti sarebbe utile concedere all'ordinamento i tempi tecnici di adeguamento». I master. Per allineare l'Italia alla terminologia Ue il Miur vorrebbe cambiare la denominazione dei corsi di laurea specialistica in «master», senza però precisare cosa accadrà degli attuali corsi di master. «Il problema di denominazione - mette in guardia Walter Tega, prorettore alla didattica all'Almamater di Bologna - nasconde il pericolo scomparsa dei master universitari, che hanno registrato un notevole successo (90 titoli e 1.300 studenti solo a Bologna) e che hanno creato ampi canali di dialogo tra università e mondo del lavoro». FEDERICA MICARDI GIANNI TROVATI ___________________________________________________ Il Sole 24Ore 4 Mag. ‘04 SULLE LAUREE TRIENNALI DAL GOVERNO UNA RIFORMA SENZA PENALIZZAZIONI Per l'accesso agli Albi il tirocinio sarà generalizzato ROMA a Non c'è alcun intento di penalizzare i laureati triennali già iscritti negli Albi o che si accingono a scegliere la professione. Lo assicura il sottosegretario all'Istruzione, Maria Grazia Siliquini, che coordina la commissione incaricata di rivedere il Dpr 328/2001 per quanto riguarda titoli d'accesso all'esame di Stato, tirocinio e modalità delle prove di abilitazione (compresa la composizione delle commissioni giudicatrici). A questo proposito le audizioni si sono chiuse la scorsa settimana incontrando i rappresentanti del Cup3 (che riunisce gli universitari e i professionisti "triennali"). La commissione ministeriale - ha annunciato Siliquini - sta tirando le fila del lavoro svolto in questi mesi. I risultati confluiranno in uno schema di Dpr, su cui si dovrà acquisire il concerto della Giustizia e che verrà sottoposto agli Ordini, alla rappresentanze accademiche, al Cun, al Consiglio universitario nazionale. È probabile che nel decreto venga recepito l'orientamento del sottosegretario di rendere generalizzato il tirocinio. «Per i professionisti triennali - afferma Siliquini - si potrebbe trattare di un periodo di sei mesi». Durante l'incontro della scorsa settimana «il Cup3 - riferisce il portavoce, Antonio Picardi - ha auspicato l'integrazione, anche parziale, dei tirocini pre e post laurea per evitare sovrapposizioni e appesantimenti. Devono essere ben definiti modi e tempi dei periodi di pratica per evitare disparità di trattamento sul territorio nazionale e abusi nei confronti dei tirocinanti». Il Cun ha inoltre sollecitato il regolamento elettorale, per dare voce, all'interno degli Ordini, anche ai professionisti triennali. «La disciplina - commenta Picardi - è imprescindibile per il funzionamento democratico degli Ordini. La disposizione è inoltre necessaria per consentire il corretto svolgimento delle eventuali procedure disciplinari nei confronti degli iscritti alla sezione B degli Albi». Il Cup3, infine, ha chiesto che il sistema elettorale sia all'insegna della democraticità. «Soluzioni come quella da più parti proposte di "liste bloccate" con il sistema maggioritario a turno unico - afferma Picardi - potrebbero dare luogo a casi di rappresentanti dei laureati triennali eletti nei Consigli direttivi senza la necessaria maggioranza dei consensi degli iscritti alla sezione stessa». L'ipotesi di liste bloccate è stata smentita dal sottosegretario Siliquini. La proposta di regolamento è all'esame della Giustizia. ___________________________________________________ Il Sole 24Ore 30 Apr. ‘04 UNIVERSITÀ, AL VIA IL CUN INTEGRATO Il Ddl approvato dal Consiglio dei ministri ROMA a Disco verde del Consiglio dei ministri alla riforma del Cun, il Consiglio universitario nazionale. Nella seduta di ieri il Governo ha approvato lo schema di disegno di legge per il riordino proposto dal ministro dell'Istruzione, Letizia Moratti. Rispetto all'assetto delineato dalla legge 127/1997 - che ha ridefinito il ruolo del Consiglio dopo l'avvio del processo di riconoscimento dell'autonomia delle università - la bozza di provvedimento approvata ieri introduce alcune novità. Il numero dei membri del Consiglio resta invariato, ma i rappresentanti eletti dal personale tecnico e amministrativo sono ridotti da quattro a tre e viene inserito un rappresentante della Conferenza permanente dei direttori amministrativi. La durata del mandato di metà dei componenti passa da quattro a sei anni e tra le competenze del Cun viene reintrodotta «l'espressione di pareri obbligatori - si legge in una nota Miur - sugli atti delle commissioni giudicatrici nelle procedure per il reclutamento dei professori universitari». La bozza di provvedimento prevede, in fine, la revisione della composizione della Corte di disciplina e la nomina di un presidente distinto dal presidente Cun, per garantirne l’indipendenza. E proprio il presidente Cun, Luigi Labruna, ha espresso ieri «viva soddisfazione» per l'approvazione del testo di riforma: «Viene così accolta - ha detto -l’esigenza più volte sostenuta del mantenere ferma ed esclusiva la provenienza elettiva del Consiglio escludendo qualsiasi nomina di natura diversa». Pareri positivi anche da Alleanza nazionale per «una riforma molto equilibrata - ha detto Giuseppe Valditara, responsabile scuola e università del partito - fatta con il consenso di tutta l'università e del Cun stesso». Ifts, definiti gli standard. Ieri la Conferenza unificata Stato-Regioni ha approvato l'accordo tra i ministeri dell'Istruzione 'e del Lavoro, le Regioni e le autonomie locali per la definizione degli standard minimi delle competenze tecniche delle 37 figure professionali degli Ifts, i corsi di formazione tecnica superiore di livello universitario. «Con questo accordo - ha detto il sottosegretario all'istruzione, Maria Grazia Siliquini - il sistema dell'Istruzione e formazione tecnica superiore viene, finalmente messo a regime». Prestiti d'onore. Il rettore della Luiss, Adriano de Maio, e l'ad di Banca Intesa, Corrado Passera, hanno fumato ieri un accordo per la concessione di crediti agevolati (fino a un massimo di 8mila euro l'anno) agli studenti in regola con gli esami,potranno essere erogati fino a cento prestiti ogni anno, per una durata massima di tre anni ciascuno. L'accordo riguarda anche l'università "Bocconi" di Milano. ALESSIA TRIPODI _____________________________________________________ Il Sole 24Ore 6 Mag. ‘04 ATENEI, NELL'ANAGRAFE NAZIONALE IL «PERCORSO» DEGLI STUDENTI ISTRUZIONE Istituita la banca dati su esami, crediti e stage - AL via anche il «supplemento al diploma» ROMA Un'anagrafe nazionale per monitorare le prestazioni di studenti e laureati e garantire la qualità del sistema universitario. Ieri il ministro dell'Istruzione, Letizia Moratti, ha firmato il decreto che dà il via all'attuazione della banca dati degli studenti e dei "neo dottori". L'anagrafe raccoglierà tutte le informazioni sui percorsi formativi e seguirà i giovani nella loro transizione dal mondo dell'università a quello del lavoro. Il provvedimento contiene anche le indicazioni per la compilazione del «supplemento di diploma», una sorta di "passaporto formativo" in edizione bilingue (italiano e inglese) che - a partire dal 2005 - gli atenei dovranno rilasciare ai laureati. Anagrafe al via. Il decreto firmato ieri dà attuazione alla legge n. 170 del 2003, che ha previsto l'istituzione dell'anagrafe, uno «strumento di governo del sistema», come lo definisce il Miur, che riveste un importante ruolo nel processo di valutazione dell'università. Gli atenei, infatti, dovranno registrare i dati relativi alla carriera di ogni iscritto e renderli disponibili per il periodico inserimento nell'anagrafe. La banca dati conterrà informazioni sugli esami sostenuti, sui crediti conseguiti, su eventuali stage o master frequentati. Il supporto tecnico per la progettazione e gestione della banca dati sarà affidato al Consorzio interuniversitario Cineca. «Per quanto attiene all'anagrafe dei laureati - si legge nel testo del decreto - in prima applicazione, il Miur si avvarrà delle attività e delle modalità di indagine svolte dal Consorzio interuniversitario Almalaurea, limitatamente al profili dei laureati e alla condizione occupazionale degli stessi». Un decreto successivo istituirà un Comitato tecnicoscientifico con compiti di consulenza, monitoraggio e verifica dell'anagrafe. «Il vantaggio di questo strumento - ha spiegato Moratti - è duplice: da una parte il sistema potrà conoscere i successi registrati dagli studenti e le difficoltà eventualmente affrontate, dall'altra l'anagrafe fornirà al sistema tutti gli elementi conoscitivi che consentiranno di mettere a punto un'offerta didattica adeguata alle esigenze degli studenti, in modo da garantire a tutti il pieno successo formativo. L'altra novità - ha continuato il ministro - sarà il monitoraggio dei laureati su scala nazionale, che sarà utile al ministero per "premiare" le università che raggiungeranno i risultati migliori». Il "passaporto formativo". IL decreto fornisce agli atenei anche le informazioni per compilare il «supplemento al diploma», un certificato integrativo del titolo di studio ufficiale, che corrisponde al modello europeo sviluppato per iniziativa della Commissione Ue, del Consiglio d'Europa e dell'Unesco. «Il supplemento - ha detto Moratti - renderà più agevole il riconoscimento professionale e accademico dei titoli italiani all'estero». ALESSIA TRIPODI Le informazioni La sintesi delle notizie contenute nell'anagrafe nazionale La banca dati. L'anagrafe degli studenti e dei laureati conterrà tutte le informazioni sulle carriere degli universitari: esami sostenuti, crediti conseguiti, eventuali stage e master frequentati L'obiettivo. La banca dati seguirà i giovani anche dopo il conseguimento del titolo, per monitorare il loro inserimento ne! mondo del lavoro Valutazione riforma. Con l'anagrafe sarà possibile anche valutare il grado di realizzazione della riforma universitaria e l'efficienza del sistema, attraverso l'analisi della durata media degli studi, del tasso di abbandono e della flessibilità dei percorsi formativi. Si potranno individuare le aree critiche e "premiare" gli atenei che mostreranno risultati migliori Supplemento al diploma. Il decreto fornisce anche le indicazioni per la compilazione del cosiddetto «supplemento al diploma», una certificazione integrativa al titolo di studio che a partire dal 2005 tutte le università dovranno consegnare ai laureati ___________________________________________________ L’Unità 27 Apr. ‘04 CATTEDRATICI VIP SUPERSTIPENDIATI Facciamo riferimento ad alcune recenti ipotesi di "ottimizzazione" del Sistema Ricerca del nostro povero Paese: la creazione di "centri d'eccellenza" e 1a proposta presentata alla Conferenza dei Rettori Italiani (Crui) da parte della sua Commissione Cultura. Secondo questa proposta, ogni Preside di Facoltà potrà proporre al Rettore un certo numero di "superprofessori" che avranno diritto a "un incremento di stipendio che può arrivare fino al 50%". Inoltre potrà "godere di preferenze" nell'attribuzione dei fondi di ricerca. Nulla viene detto sui criteri di valutazione (così controversi nel nostro Paese: e si pensi che anche l'acquisizione dello status di Centro di Eccellenza procede per strade tutt'altro che trasparenti). Nulla si dice della durata di questo privilegio (forse per sempre dal momento dell'acquisizione?). E mentre si propone questa anomala figura di Il superprofessore", si offrono ai giovani che aspirano alla ricerca solo anni di precariato. Coerentemente con questa impostazione, un paio di giorni fa anche il Direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa ha auspicato "riconoscimenti anche stipendiali a chi fa meglio e di più". Queste ipotesi di ristrutturazione e liberalizzazione del sistema universitario italiano su base "salariale" ci sembrano nefaste ed irriverenti nei confronti di una grande tradizione del nostro Paese. È stato il desiderio di capire, di conoscere, di sapere e l'impegno a disseminare le conoscenze che hanno animato le più briganti scuole di sapere del nostro Paese (una per tutte, quella di Edoardo Amaldi). Noi abbiamo avuto la fortuna di avere Maestri che sarebbero inorriditi a fronte di queste proposte. Forse è per questo che la proposta ci sembrava così sconcia da non essere credibile. Invece risulta vera. Non è certo soltanto un regime premiale ciò che ci appare distorcente, quanto l'idea che si intenda rendere beneficio "ad personam" e senza un trasparente processo di valutazione super-partes. Andrebbero premiate le attività di maggior pregio attraverso finanziamenti "per ricerca" (assunzione di giovani, laboratori, etc.). Forse uno dei nostri difetti è quello di credere ogni giorno di avere toccato il fondo: prima le "riforme" del Cnr, dell'Asi, dell'Infin, poi l'invenzione dell'itt., poi la "riforma dell'Università. Adesso i cattedratici Vip. E così, dobbiamo continuamente ricrederci. È vero che i nostri intellettuali hanno antica tradizione a fare da mosche cocchiere: furono solo 12 (dodici) i Professori Universitari che si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo: ma allora era in ballo, per molti, la possibilità di sopravvivere, di portare uno stipendio (non un "superstipendio") a casa. Oggi, francamente, non ci sembra che sia poi più che tanto rischioso rifiutare di adeguarsi e, in alcuni casi di "transfughi eccellenti", mantenere almeno memoria di scelte e prese di posizioni personali. È troppo pensare che le eventuali risorse destinate al premio (ammesso poi che ci siano) avvantaggino il bene pubblico e non gli amici dei governanti? Carlo Bernardini, Rino Falcone, Francesco Lenci, Giulio Peruzzi Osservatorio sulla Ricerca ___________________________________________________ Il Sole 24Ore 25 Apr. ‘04 UNIVERSITÀ: I BASSI STIPENDI DEL RICERCATORE Sono un ricercatore non confermato dell'Università Statale di Milano (settore informatica). Sottolineo il non confermato perché credo sia importante ricordare che già ora esistono meccanismi di selezione che peraltro vengono nella grande maggioranza dei casi disattesi (ogni ruolo, ricercatore, associato, ordinario, passa per un periodo di "prova" di tre anni, a stipendio considerevolmente ridotto e senza essere nel pieno delle proprie funzioni: non mi risulta che questo meccanismo sia mai stato usato per selezionare i migliori ricercatori). Lo stipendio di un ricercatore non confermato è di circa mille euro al mese lordi. Nel resto del mondo gli stipendi dei post-doc (tutti "precari") sono dell'ordine dei 2.500-3.500 euro al mese. Il risultato è che per "investire su se stessi", i nostri ricercatori sono costretti ad arrotondare con innumerevoli incarichi didattici, alla cifra di circa ómila euro lordi (non intendo affrontare qui lo scivoloso tema delle supplenze gratuite), per un corso di 50 ore frontali, 150 studenti, con conseguente valanga di esami. Personalmente credo che la didattica sia una straordinaria occasione di crescita, ma vi assicuro che quando si ha lezione tre giorni alla settimana su cinque è difficilissimo concentrarsi su un problema o frequentare la comunità internazionale. MATTIA MONGA Milano ___________________________________________________ Il Sole 24Ore 25 Apr. ‘04 UNIVERSITÀ, IL DIPARTIMENTO NON PUÒ STARE IN GIUDIZIO Palazzo Spada: soggetti giuridici solo gli Atenei ROMA «L'Università, avendo la personalità giuridica, è legittimata a stare in giudizio e non le articolazioni interne alla stessa, le quali non hanno soggettività». Chiaro e preciso il dettato del Consiglio di Stato che ha annullato una decisione del Tar della Puglia, dichiarando inammissibile il ricorso del Dipartimento di scienze storiche, filosofiche e geografiche dell'Ateneo di Lecce. Dopo il "no" che ha colpito i Consigli di Facoltà (Adunanza Plenaria n. 21/1982), le Facoltà stesse (Consiglio di Stato, VI sez., n. 1786/1997) e gli istituti universitari (Consiglio di Stato, VI sez., n. 538/1991), adesso anche per i Dipartimenti è stato sancito lo stesso regime; perciò non possono impugnare atti o delibere. La sesta sezione di Palazzo Spada, con il provvedimento 1872 del 6 aprile 2004, ha invertito la rotta rispetto al Tribunale amministrativo regionale, affermando che la struttura è «titolare di un potere consultivo (di tipo obbligatorio) e in possesso di autonomia di ricerca, didattica, finanziaria ed amministrativa», ma questi requisiti «non sono idonei a radicare in capo allo stesso la legittimazione ad impugnare». II Dipartimento si era opposto alla stessa Università di Lecce per annullare la nomina diretta di un docente per la cattedra di filosofia teoretica chiedendo, invece, che si svolgesse un concorso. La scelta era stata presa all'unanimità dal Consiglio di Facoltà, che aveva indicato un professore idoneo per la copertura di un posto di prima fascia. Nel primo grado di giudizio, la sezione staccata del Tar di Lecce, con sentenza 7162 del 3 dicembre 2002, accettava il ricorso e annullava le contestate delibere del Consiglio di Facoltà di Lettere e Filosofia. Il docente penalizzato e l'Università chiedevano la pronuncia d'appello, aggiungendo che l'istituto dipartimentale era stato anche sciolto dal Senato accademico dal 1 ° gennaio 2004, per carenza del numero minimo di docenti. «I provvedimenti di disattivazione non avendo efficacia retroattiva, non hanno effetto con riguardo alle vicende precedenti alla loro emanazione», precisa il collegio di Palazzo Spada (presidente Sergio Santoro, estensore Carmine Volpe), che fonda la sua decisione esclusivamente sulla carenza di personalità giuridica. In via incidentale si era opposto anche l'ex professore di filosofia e anche -il suo ricorso veniva dichiarato inammissibile perché, dopo aver votato favorevolmente in Consiglio di Facoltà non poteva «impugnare gli atti che ha concorso a porre in essere». ___________________________________________________ Corriere della Sera 4 Mag. ‘04 SCIENZA E INNOVAZIONE L'AMERICA TEME IL SORPASSO Più laureati e premi Nobel: la sfida di Europa, Giappone e Cina L'allarme di Washington: in questi campi l'eccellenza non è più solo nostra. Lo choc per la scoperta di metano sul pianeta rosso da parte della sonda Mars Express Gli Stati Uniti che più di tutti spendono in ricerca e sviluppo, e che si offrono come il sogno per la maggior parte dei ricercatori del pianeta, dichiarano di sentirsi come una stella cadente della scienza. «Stiamo perdendo il nostro dominio e il resto del mondo ci sta incalzando. Le aree di eccellenza non sono più soltanto americane» afferma sulle colonne del New York Times John E. Jankowski, della National Science Foundation, l'agenzia federale che sorveglia l'impegno scientifico statunitense. Il grido d'allarme è preciso e indica nell'Europa, ma soprattutto nei Paesi asiatici, i luoghi dai quali arriva la minaccia. Quattro segnali testimoniano la perdita della supremazia. Innanzitutto il numero dei brevetti. Fra tutti quelli rilasciati solo la metà nasce negli States, gli altri sono frutto del lavoro di giapponesi, tedeschi, taiwanesi e sudcoreani. Il secondo indizio è legato alle pubblicazioni. Nel campo della fisica sono diventate una minoranza rispetto a quelle dei colleghi stranieri: nel 2003 rappresentavano soltanto il29%, quando dieci anni prima erano il 61%. La stessa flessione si nota anche in altre discipline. Terzo elemento, forse più simbolico, ma anch'esso sostanziale, è la quantità dei premi Nobel conquistati. Anche qui sino a epoche recenti c'era un incontrastato dominio a «stelle e strisce», ma già nel Duemila solo il 51% era americano, gli altri erano assegnati alla Gran Bretagna, al Giappone, alla Russia, alla Germania, alla Svezia, alla Svizzera e alla Nuova Zelanda. L'ultimo segnale riguarda i dottorati: negli Usa scendono, in Asia e in Europa aumentano. E molti stranieri dopo averlo ottenuto nelle università americane, passato qualche anno, tornano ai Paesi d'origine mentre prima preferivano restare. Europa e Asia stanno crescendo, ma dei loro risultati non si parla negli Stati Uniti, dicono gli analisti. E citano, come esempio, la recente scoperta del metano nell'atmosfera di Marte ottenuta dalla sonda europea Mars Express con uno strumento italiano, di cui i media non hanno riferito mentre abbondavano le immagini trasmesse dai due robot Spirit e Opportunity della Nasa. Con timore, quasi, si evoca la prossima entrata in funzione del nuovo acceleratore di particelle «Lhc» del Cern a Ginevra che sarà il più potente al mondo per indagare i misteri della materia. I nostri studi - si dice - trascurano la ricerca di base, è eccessivamente finalizzata alla tecnologia e guarda troppo alla Difesa. Fa impressione una simile analisi in un Paese dove la ricerca pubblica spende quest'anno 126 miliardi di dollari e più ancora ne investe la ricerca privata, quando «l'Europa - dice il commissario Philippe Busquin - spende il40% meno degli Stati Uniti i quali investono solo nella ricerca industriale cento miliardi di euro più del Vecchio Continente». Ma questi segni negativi preoccupano gli americani soprattutto in prospettiva per due ragioni. Perché se si rafforzano possono diventare gravi malattie capaci di incrinare davvero il sistema con ripercussioni negative sull'economia. In secondo luogo, perché gli sforzi messi in atto sia in Asia che in Europa produrranno presto sfide con cui Washington dovrà fare seriamente i conti. «Ci troviamo in una situazione critica», avverto Toni Daschle leader democratico al Senato. «II cielo non sta cadendo sulla scienza americana. Forse c'è qualche nuvola che richiede attenzione», risponde John H. Marburger, consigliere scientifico del presidente Bush. Giovanni Caprara La grande avanzata dei Paesi asiatici nei brevetti • IL LAVORO Uno degli elementi che fanno riflettere sulla «decadenza» della ricerca scientifica americana è che tra tutti i brevetti rilasciati solo metà nasce negli States, gli altri sono frutto del lavoro di giapponesi, tedeschi, taiwanesi e sudcoreani I NOBEL Un altro elemento significativo è la quantità dei Premi Nobel conquistati: dopo un dominio tutto a «stelle e strisce», già nel Duemila solo il51 per cento dei premi assegnati era statunitense ___________________________________________________ Il Corriere della Sera 4 mag. ’04 HACK: UN PATRIMONIO DI CREATIVITÀ E MIOPIA POLITICA Hack Margherita C' è la sensazione fra molti scienziati americani che la loro supremazia scientifica vada cedendo il passo alla scienza europea anche perché si tende a privilegiare sempre di più la ricerca applicata rispetto a quella di base. Qualcosa di simile purtroppo sta succedendo anche in Italia. È una politica scientifica sbagliata perseguita da politici miopi che poco sanno di scienza perché le grandi innovazioni vengono dalla ricerca libera, che ha per scopo la conoscenza senza curarsi delle immediate ricadute. In Europa e in Giappone e secondo alcuni anche nei Paesi emergenti dell' Asia come l' India c' è forse più attenzione per la ricerca libera. E infatti nel campo della fisica delle particelle elementari e dell' astrofisica la scienza europea non teme il confronto con quella statunitense e per certi aspetti già la supera. Nel campo dell' astrofisica val la pena di ricordare alcuni recenti successi della scienza sia italiana che europea, in gran parte dovuti all' esistenza dell' Esa (European Space Agency) e dell' Eso (European Southern Observatory), mentre nel campo della fisica delle particelle elementari è stata ed è fondamentale l' esistenza del Cern a Ginevra. In occasione del passaggio della cometa di Halley nel 1986 la sonda europea Giotto arrivò all' appuntamento con precisione cronometrica. Un altro successo è stato il satellite astrometrico Hipparcos, per ora l' unico destinato a misurare le distanze e i moti delle stelle: dall' agosto 1989 all' agosto 1993 ha fornito dati per quasi 200.000 stelle. Il satellite italo olandese Beppo-Sax ha per primo risolto il mistero dell' origine dei lampi gamma il 28 febbraio 1997. Una collaborazione internazionale, capeggiata dal fisico Paolo De Bernardis dell' università La Sapienza di Roma, con strumentazione progettata dal Dipartimento di fisica della Sapienza, a bordo di un pallone stratosferico - Boomerang - orbitante per 11 giorni attorno al Polo sud ha rivelato che il nostro universo è piano, obbedisce alla semplice geometria euclidea. Un altro satellite europeo, Planck, si prepara a ripetere su maggiore area della volta celeste e maggiore acuità visiva, le osservazioni di Boomerang. La sonda europea Mars Express in orbita attorno a Marte ha dato la prima prova certa e diretta che al Polo sud c' è ghiaccio d' acqua. E poi, sul Monte Paranal, nel deserto cileno di Atacama, sorge il più grande telescopio del mondo, il Vlt (Very large telescope) dell' Eso. La nuova Europa beneficerà ora anche delle competenze scientifiche di molti dei nuovi Paesi membri. ___________________________________________________ Il Sole 24Ore 4 Mag. ‘04 RICERCA: TRABALLA IL PRIMATO DEGLI USA NELLA R&S Forte aumento per i brevetti e gli studi scientifici made in Asia NEW YORK a La notizia è da choc, anche se in realtà è figlia naturale del processo di globalizzazione in corso da anni: gli Stati Uniti stanno perdendo il primato nel campo della ricerca scientifica e tecnologica, a vantaggio dell'Asia e in misura minore dell'Europa. Lo rivela un'indagine del «New York Times», che ha sentito i pareri di numerosi esperti di agenzie governative e centri di ricerca, elaborando una serie di indicatori chiave del progresso scientifico, come i brevetti assegnati, i premi Nobel e le pubblicazioni dei ricercatori. «Il resto del mondo ci sta raggiungendo - spiega John Jankowski, analista della National science foundation - il primato nelle scienze non è più appannaggio soltanto degli Stati Uniti». I numeri non sembrano lasciare dubbi sul trend in atto. Se solo all'inizio degli anni Ottanta i centri di ricerca americani registravano a tutto campo brevetti nel campo delle alte tecnologie, oggi il vantaggio sugli altri è stato ridotto al 52% e presto gli Usa potrebbero ritrovarsi a rincorrere il resto del mondo. L'inversione di tendenza è stata ancora più marcata nel campo delle pubblicazioni scientifiche: se due decenni fa la maggior parte degli studi pubblicati dalle riviste di maggiore prestigio recava la firma di ricercatori americani, ora invece i nomi anglosassoni sono la minoranza. Emblematico il caso della prestigiosa «Physical Review»: soltanto il 29% degli articoli pubblicati è frutto di ricerche condotte in laboratori statunitensi, mentre nel 1983 questi rappresentavano il 61% del totale. La maggiore globalizzazìone della ricerca si è riflessa anche a livello di premi Nobel. Se fino agli anni Novanta i ricercatori americani facevano regolarmente razzia dei premi, con l'inizio del nuovo millennio la situazione è nettamente mutata: dal 2000, il 51% dei riconoscimenti è andato a ricercatori europei. Di questa autentica rivoluzione sono tuttavia ancora in pochi ad accorgersi negli Stati Uniti, dove comunque resta predominante l'interesse per le ricerche condotte nei laboratori "domestici". Secondo gli esperti, potrebbe essere la Cina la prima a strappare all'America lo scettro di regina della ricerca, se è vero che i suoi ricercatori presentano ormai in pubblicazione migliaia di studi , all'anno. Ma anche l'Europa sta i recuperando: il Vecchio continente, ad esempio, strapperà agli Usa il primato nel campo della fisica atomica nel 2007, quando diventerà attivo il nuovo acceleratore di '' particelle Lhc del Cern, costruito sotto il confine tra Svizzera e Francia. CORRADO POGGI ___________________________________________________ Corriere della Sera 4 Mag. ‘04 LE PRIME CREPE IN UN MODELLO VINCENTE DAL 1950 di FEDERICO CAPASSO* Non c'e dubbio che l'Europa e l'Asia sono in corso di chiudere il gap con gli Stati Uniti in vari settori della ricerca cosiddetta di base o fondamentale. L'America si trovò con un grosso vantaggio dopo la fine della Seconda guerra mondiale a fronte dell'Europa e del Giappone, che avevano subito immani distruzioni. A questo si devono aggiungere altri fattori: l'assorbimento di un grande numero di scienziati europei (soprattutto fisici) di grandissimo valore fuggiti negli Usa prima della guerra e durante, a causa di persecuzioni razziali o per cercare migliori opportunità di lavoro. Questo influsso di talenti, inizialmente impegnato nello sforzo bellico, si riversò poi nelle università americane. A questo si deve aggiungere che gli scienziati avevano dato un enorme contributo al successo in guerra: dalla bomba atomica al radar, mostrando che la scienza di base opportunamente incanalata può contribuire in maniera determinante alla supremazia tecnologica e militare. Questo successo portò quindi nel dopoguerra a un finanziamento senza precedenti della ricerca scientifica nelle università in una rete di laboratori nazionali di alto livello (Lawrence Livermore, Brookhaven, Oakrigde, etc). In pochi decenni l'America creò il sistema di ricerca migliore del mondo, continuamente alimentato dal flusso di studenti e ricercatori dall'estero. È inevitabile che dopo vari decenni il gap si stia chiudendo: è una conseguenza della globalizzazione della scienza, accelerata dall'enorme sviluppo delle tecnologie informatiche. Bisogna però dire che gli Stati Uniti sono ancora di molto avanti nella ricerca interdisciplinare, e sono all'avanguardia nel tradurre i risultati di questa in ricchezza nazionale. Una cosa che preoccupa me e molti miei colleghi americani è il progressivo indebolimento della ricerca a lungo termine nei grossi laboratori industriali tipo i Bell Laboratories, ove ho lavorato per oltre 25 anni, e quelli Ibm. Un altro problema sono i nuovi ostacoli burocratici dopo gli attacchi terroristici per chi vuole studiare negli Usa. Infine un'altra preoccupazione è che l'immane sforzo finanziario per la guerra in Iraq e la ricostruzione postbellica storneranno fondi dalla ricerca scientifica. Complessivamente però continuo a essere ottimista sul futuro della ricerca in Usa data la grande flessibilità e adattabilità del sistema. *Robert Wallace Professor of Applied Physics Harvard University Cambridge, Massachusetts L America è sempre prima nei settori interdisciplinari e nell'innovazione tecnologica Ma si è indebolita nel campo della ricerca a lungo termine ___________________________________________________ Repubblica 5 Mag. ‘04 SULLA RICERCA LA SPAGNA DÀ UN ESEMPIO Cosciente dell’importanza della ricerca scientifica il precedente governo spagnolo ha aumentato i fondi per la ricerca scientifica di circa il 13 per cento all'anno dal 1997 al 2003. Tale aumento è stato il secondo più alto in Europa. Tale situazione. purtroppo, non si è verificata in Italia che, come al solito, è uno dei fanalini di coda per risorse spese in ricerca e sviluppo. Il nuovo governo spagnolo di Luis Rodriguez Zapatero vuole fare ancora di più ed ha promesso nel suo manifesto politico di raddoppiare i fondi per la ricerca e sviluppo, che oggi sono quattro miliardi di Euro all'anno, ad otto miliardi di Euro entro il zoo8. Quindi, gli spagnoli sia di destra (Aznar) che di sinistra (Zapatero) hanno favorito e favoriscono un'espansione della ricerca scientifica coscienti che non è solo nell'interesse scientifico del Paese. ma è anche il prerequisito per creare un'economia della conoscenza. In Italia, al contrario, i governi passati sia di destra che di centro e di sinistra hanno fatto molto poco o nulla per migliorare ed espandere la ricerca e lo sviluppo e quella presente continua nella stessa tradizione. Le ragioni di questa mancanza di sensibilità verso un problema così serio sono molteplici, ma la più importante è la mancanza di cultura, non solo scientifica. Le Università, che dovrebbero creare giovani preparati, sono un carrozzone burocratico inflessibile ed inefficiente dove il merito viene osteggiato e dove fare ricerca seria è per martiri ed eroi. L'industria, che dovrebbe creare posti di lavoro. è di carattere familiare. Quella un po' più grande è scomparsa o sta scomparendo, essendo stata abituata a sopravvivere con i soldi dello Stato e non con l’innovazione, che è basata sulla ricerca. Sia nel Pubblico che nel Privato, la competizione, il confronto e la verifica sono visti con sospetto ed ostilità. E’ triste vedere come paesi senza una grande tradizione scientifica come la Spagna e l'Irlanda abbiano capito che è necessario stimolare la ricerca (e l'educazione), mentre l'Italia no. Uno dei più alti riconoscimenti per uno scienziato è l'essere un membro dell'Accademia Nazionale delle Scienze (NAS) degli Stati Uniti. L'appartenenza a questa Accademia è un'indicazione di qualità e di riconoscimento internazionale. Solo guardando a questo aspetto possiamo stilare una classifica e trarre le conseguenze di quanto stiamo dicendo. Il Giappone ha sedici membri dell'Accademia, la Germania trenta, la Francia trentasei, il Regno Unito settanta, un paese piccolo come l'Olanda sette e l'Italia? Solo tre! Questa è un'indicazione della bassa reputazione in cui, purtroppo, è tenuta la comunità scientifica italiana. Direttore del Kimmel Cancer Institute Fitadetfia (Usa) ___________________________________________________________ La Repubblica 6 Mag. ‘04 POCA RICERCA,NIENTE BREVETTI COSÌ L'ITALIA ESCE DAL FUTURO Senza alta tecnologia, fuori dal club dei paesi più ricchi MAURIZIO RICCI Volete guidare l'auto del futuro? E' giapponese o, forse, americana. Volete un miracoloso ritrovato della nuova medicina, che ripari il vostro Dna? Il rimedio è svizzero, inglese, americano, magari belga. Credete nel futuro dell'infinitamente piccolo e vi incuriosisce un nanomotore, grande quanto una molecola, capace di alzare pesi e di lavorare in squadra con altre nanomacchine? Vi può capitare di leggere l'annuncio della scoperta in italiano, ma, per vederla realizzata, meglio guardare alla California. A casa nostra, facciamo, invece, raffinati vasi di plastica o scarpe con i buchi per non far sudare i piedi. Roba buona, a volte geniale, che spesso si vende benissimo, ma che si copia in un baleno o che dura sul mercato solo finché la sorregge l'ispirazione. Low-tech, come si dice, perché di nuovo, che gli altri devono imparare, c'è poco. Ovvero, per usare il gergo degli economisti, il contrario di quei settori di alta tecnologia, "a forte processo di apprendimento - spiega Mario Pianta, docente di Economia dell'Innovazione a Urbino - che assicurano rendimenti crescenti e balzi di produttività". E che sono, nel mondo di oggi, dove la parola d'ordine del futuro è "knowledge economy", economia della conoscenza, la ricetta che rende (e fa restare) ricchi. Una recente ricerca di una società inglese di consulenza, la Robert Huggins Associates, annuncia che, nei prossimi anni, in tutte le regioni italiane (nessuna esclusa, neanche la Lombardia e il Nord Est) il reddito pro capite perderà terreno rispetto alla media europea: anche chi oggi sta sopra quella media, vedrà ridursi il suo vantaggio. Se i dati daranno ragione alla Huggins, sarà il sigillo dell'inesorabile scivolare dell'Italia nella serie B dell'economia planetaria. Qualsiasi economista, ormai, predice che, per sola forza d'inerzia, i numeri della crescita economica di giganti come la Cina, l'India, il Brasile, ci spintoneranno, più prima che poi, fuori dal G7, i Sette Grandi, il club dei ricchi del mondo. Ma già oggi siamo fuori da qualsiasi G7 della ricerca e dell'innovazione: la Cina, nel 2002, ha speso 60 miliardi di dollari per la ricerca. Solo Usa e Giappone hanno speso di più. L'India ne ha investiti 19 miliardi ed è fra i primi dieci al mondo. L'Italia, che pure ha un prodotto nazionale più grande dell'una e dell'altra, ha speso per la ricerca 10 miliardi di dollari, meno dell'anno prima. Il problema è che, fra questa classifica e annunci come quelli della Robert Huggins, c'è un rapporto e anche stretto. La serie B, come qualsiasi appassionato di calcio, ormai esperto di Borsa e di plusvalenze di bilancio, sa benissimo, non è solo un problema di prestigio, ma un colpo di scure sulle prospettive di incassi e di investimenti. Da tre anni, l'economia italiana è in panne. Francia e Germania, come non si stancano di ripetere i ministri del governo Berlusconi, non stanno meglio: la crisi apertasi con gli attentati dell'11 settembre 2001 vale per tutti. Ma c'è una differenza. Fra il 2000 e il 2004, la Germania, nonostante la crisi, ha aumentato le esportazioni del 15 per cento. La Francia del 12 per cento. In Italia sono diminuite del 7 per cento. Perché tanta sensibilità alla congiuntura? Proviamo a guardare le statistiche dall'altro lato. I settori più dinamici del commercio mondiale, negli ultimi dieci anni sono stati: farmaceutica, elettronica di consumo, computer, macchinari elettrici, strumenti di precisione, aerei. Insieme, costituiscono ormai un quarto di tutto l'interscambio. Sono i beni che le statistiche definiscono high-tech, tranne i macchinari elettrici, che rientrano nei beni a media tecnologia e sono anche gli unici in cui l'Italia abbia una presenza significativa. Nei beni ad alta tecnologia, la quota italiana del commercio mondiale si era già ridotta di un quarto fra il 1996 e il 2000, dal 2,20 all'1,64 per cento. Ormai ce la battiamo con la Spagna. Fra la trentina di paesi dell'Ocse, l'organizzazione dei paesi industrializzati, solo Polonia, Grecia e Turchia stanno peggio. Sono questi, ormai, lontani da qualsiasi zona Champions o Uefa, confinati nella parte bassa della classifica, i nostri avversari. Francia e Germania contano nell'economia globale dell'alta tecnologia per il doppio di noi, la Gran Bretagna per il triplo. La stessa Ocse produce ogni anno una sorta di pagellone della scienza e della tecnologia, che classifica i paesi industrializzati secondo 200 diversi indicatori. Nella stragrande maggioranza, i risultati ci inchiodano nella zona retrocessione. Il primo indicatore, ad esempio, misura gli "investimenti in sapere", dove i ricercatori Ocse sommano la spesa per la ricerca, la spesa per l'istruzione superiore, la spesa per il software. Fra il 1992 e il 2000, gli anni in cui è esplosa la "knowledge economy", il tasso di aumento di questi investimenti, che ne sono il motore fondamentale, è stato in Italia il più basso di tutto il mondo sviluppato. Peraltro, l'unica cosa che è davvero aumentata è la spesa per software: le altre due voci - ricerca e istruzione - sono, di fatto, diminuite. Anche la Republica Slovacca investe in sapere una quota maggiore dell'Italia del prodotto nazionale. Portogallo, Polonia, Messico e Grecia partono più indietro di noi, ma i loro investimenti in conoscenza aumentano dell'8 per cento l'anno, i nostri dell'1,8 per cento. E' solo questione di tempo, perché ci raggiungano. La conferma viene da quello che gli inglesi chiamerebbero "votare con i piedi". Dove vanno gli agenti portatori della economia della conoscenza: gli studiosi e i ricercatori, che sono il fattore più globalizzato della "knowledge economy" che, a sua volta, è il settore più globalizzato dell'economia globale? Il numero di laureati stranieri che lavora nelle università italiane è pari all'1 per cento del personale universitario di ricerca, come in Messico e in Corea. I laureati stranieri sono il 33 per cento nelle università di Svizzera, Gran Bretagna e Belgio, il 27 per cento negli Usa, il 18 per cento in Danimarca. La strada, del resto, è indicata per primi dai laureati italiani. Il 3-4 per cento di loro, ogni anno, va a studiare e a lavorare all'estero, dove ha più prospettive di ricerca e di carriera, oltre a stipendi che sono, di solito, il triplo di quello che avrebbero in Italia. La stessa percentuale è dell'1 per cento nel resto d'Europa. Non va meglio nel privato: nell'industria italiana ci sono 3 ricercatori ogni mille addetti In Spagna sono 4, la media europea è 5, in Usa, Giappone e Svezia stiamo fra 9 e 10. Eppure, l'asfissia della ricerca italiana non è (ancora) compiuta. Se si va a vedere il numero di pubblicazioni scientifiche - ad esempio, ma non solo, in un settore nuovissimo come le nanotecnologie (un nanometro è un milionesimo di millimetro: così si misurano i transistor dei chip nei computer) - l'Italia occupa una posizione rispettabile. Anzi, per blandire l'orgoglio nazionale, se si guarda al numero di citazioni - che misurano la risonanza di una ricerca - la classifica italiana è decisamente buona. I guai cominciano dopo. "E infatti - dice Giancarlo Salviati, che lavora all'Imem, l'Istituto Materiali per Elettronica e Magnetismo del Cnr - ci invitano ai convegni, a tenere relazioni, ci pubblicano. Poi, cominciano i problemi. Io, Salviati, posso essere bravo quanto un collega belga, ma se lui ha la macchina e io no, il progetto va a lui. E le macchine costano: in optometria, una macchina per misurare costa 2 milioni di euro e quella per verificare cosa c'è che non funziona ne costa uno. Dopo di che, c'è solo da sperare che non si rompano. Il risultato è lavorare con roba obsoleta: il mio microscopio elettronico ha la bella età di 18 anni". Nei mesi scorsi, l'università di Bologna ha messo a rumore il mondo scientifico, inventando il nanospider, un aggeggio grande quanto una molecola, con tre gambe e tre anelli, capace di sollevare un peso tre miliardi di volte superiore al suo. L'hanno inventato all'università di Bologna, ma, per realizzarlo in concreto, hanno dovuto rivolgersi ai colleghi dell'università di California. C'è un modo per misurare questo scollamento fra scoperta e realizzazione: i brevetti. "Da molti anni - dice Luciano Gallino, l'autore de "La scomparsa dell'Italia industriale" - acquistiamo molti più brevetti di quanti ne produciamo. Inoltre, i nostri sono, per lo più, a basso contenuto tecnologico. Solo il 10 per cento può essere definito high-tech. E' una brutta pagella". Guardiamo più da vicino. "Dieci anni fa - osserva Mario Pianta - la letteratura scientifica italiana era ancora tutta concentrata su fisica, ingegneria, chimica. Invece americani, svedesi, inglesi, francesi, tedeschi, giapponesi si erano già lanciati sulle scienze della vita - biologia, genetica, medicina - che sono il boom di questi anni". Scontiamo ancora questo ritardo: solo il 2 per cento delle pubblicazioni sulle riviste internazionali di biotecnologia è italiano. Giapponesi e inglesi sono al 10 per cento, francesi e tedeschi al 6, gli spagnoli al 2,6 per cento. E anche nei nostri supposti settori forti, "oggi la Corea vale l'Italia per i brevetti nelle tecnologie intermedie, ma è molto più avanti, ad esempio, su elettronica e computer". Insomma, aggiunge Pianta, "oggi scopriamo di essere arrivati alla stazione con l'accelerato, anziché con l'Eurostar e, così, abbiamo perso la coincidenza. Intanto, però, era arrivata la corriera con i coreani e gli indiani che, quel treno, l'hanno preso". ___________________________________________________ Il Messaggero 1 Mag. ’04 BASTA MEZZO EURO PER ADOTTARE UN RICERCATORE Appello dalla Sapienza di GIANNI ORLANDI * L'ITALIA deve occupare un posto di primo piano nella costruzione di un'Europa della conoscenza contro l'Europa dei dazi e delle barriere. Per farlo, serve un deciso cambiamento di rotta nella politica per la ricerca pubblica. Per dotare di risorse e strumenti adeguati l'attività dei ricercatori. Per arrestare la fuga dei cervelli, trattenere e attrarre i talenti. Per costruire nuove sinergie con il territorio. La Sapienza, la più grande università d'Europa, deve tornare a svolgere un ruolo protagonista. Serve al Paese. Serve alla Sapienza che sta guardando al suo futuro, in occasione del rinnovo del Rettore. Va in questo senso la mia proposta che è stata assunta nell'incontro di ieri alla Sapienza sul tema ricerca. Un appello ai cittadini, alle forze economiche e sociali, alle istituzioni locali e nazionali, per concorrere tutti insieme a regalare al Paese più ricerca e nuovi ricercatori. La ricerca ripagherà con progetti di sviluppo e progresso che fanno bene al Paese. Finanziamo un Fondo Speciale "Io adotto un ricercatore", devolvendo 50 centesimi quando andiamo a fare acquisti nella grande distribuzione e in tutti gli esercizi commerciali disponibili, o attraverso i gestori della telefonia. Triplichiamo il Fondo attraverso un pari contributo che chiediamo alle imprese e al Governo. Il Fondo sarà utilizzato per "mettere a bottega" i capaci, costruendo la fabbrica dei talenti: una borsa di ricerca a un giovane laureato meritevole per un progetto di ricerca di qualità, scelto da un "comitato di saggi", espressione della comunità scientifica. Avviamo a Roma l'esperienza, con l'aiuto e il sostegno delle istituzioni locali, a partire dal Comune di Roma, e delle forze economiche e sociali della città. Assumiamola nel "Progetto di Roma", il patto di concertazione per lo sviluppo, promosso e sottoscritto dall'Amministrazione Comunale insieme alle parti sociali e ai principali interlocutori economici, culturali e istituzionali della Capitale. La ricerca restituirà a Roma progetti che accompagnano le sue vocazioni, consolidate in questi ultimi anni, di capitale della conoscenza, che costruisce sviluppo coniugando antico e futuro, di città della solidarietà, di luogo di incontro tra culture e porta sul Mediterraneo. *Pro Rettore dell'Università di Roma “La Sapienza” ___________________________________________________ Il Sole 24Ore 30 Apr. ‘04 L'ITALIA RIMANE MAGLIA NERA NEI PROGETTI DI LABORATORIO Tecnologia / Nei distretti vince l'innovazione diffusa Insufficiente la ricerca di base MILANO a L'innovazione è l'arma per competere sui mercati globali ma, secondo quanto rileva il Rapporto Banca Intesa-Prometeia, l'Italia sconta pesanti ritardi. Gli investimenti in ricerca e sviluppo superano di poco il 2% del Pil mentre la Germania, ad esempio, supera il 4 per cento. Focalizzando l'attenzione sul settore industriale la spesa per ricerca e sviluppo si attesta sull'1,1% del Pil e l'Italia, rispetto alla media dei Paesi Ocse, risulta nettamente indietro: l'incidenza sul Pil è per l'Italia pari alla metà del valore degli altri Paesi. Tra le imprese che innovano, la maggior parte degli investimenti viene poi concentrata sull'acquisto di macchinari e impianti, con una spesa media di 9.600 euro per addetto. Inoltre una ricognizione sull'universo delle imprese italiane - rileva il rapporto Banca Intesa- Prometeia - registra il fatto che solo il 38,3% delle aziende risulta catalogabile come "innovativo" per il tipo di investimenti effettuati sui processi e sui prodotti. Il 61,7% delle imprese italiane, dunque, non fa alcun tipo di investimento in innovazione. Guardando infine la graduatoria dei brevetti sul mercato Usa l'Italia risulta a quota 33 a fronte dei 265 del Giappone, ai 77 della Francia, ai 147 della Germania e ai 214 della Svezia. Dunque, secondo tutti gli indicatori internazionali, le aziende italiane fanno poca ricerca. Ma allora come si spiega che l'Italia è leader in alcuni settori chiave come gli articoli per la casa e la persona lungo tutta la filiera che va dal prodotto alle macchine per realizzarlo? Le spiegazioni di questo ennesimo paradosso italiano sono molteplici, ma vanno ricercate anche nella forza dei distretti industriali: nelle aree locali c'è un sistema di trasferimento della conoscenza molto efficiente. Inoltre le aziende, specie le Pini, fanno moltissima innovazione incrementale, sul modello giapponese del Kaizen, che viene sistematicamente incorporata nel prodotto finale. In sostanza parecchia ricerca fatta dall'Italia non risulta formalizzata anche perché le statistiche tengono conto solo di quella che fanno i grandi gruppi. Una ricognizione campionaria, come riferiamo anche nell'articolo a fianco, ha comunque messo in evidenza che solo il 16% delle aziende ha in media effettuato almeno un brevetto su base internazionale. La quota di imprese con brevetti varia: si va dal 4% dell'alimentare al57% della farmaceutica. V.CFI. ___________________________________________________ Il GIornale 8 Mag. ‘04 I BREVETTI NON SERVONO: IL 90% VIENE CESTINATO Ogni anno 30 milioni di progetti arrivano negli uffici dell'Unione europea da tutti i Paesi del mondo. Ma sono pochissimi quelli che entrano nella vita comune STEFANO CALICIURI Borsetta con luce incorporata; «cucchiadito» per raccogliere lo yo gurt; bara con videoregistratore per proiettare le videocassette del caro estinto. E ancora: bicicletta a trazione integrale; spilloni da sabbia per tener fermi gli asciugamani in spiaggia; lettiera elettronica ed autodetergente per gatti. Sono solo alcune tra le diecimila invenzioni depositate ogni anno dagli italiani all'ufficio brevetti presso il ministero delle attività produttive, un numero che triplica se si sommano anche quelle consegnate direttamente al medesimo sportello dell'Unione europea. Soltanto una minima parte entrerà realmente nella vita comune di ognuno dì noi, riuscendo così a fare le fortune del geniale inventore, per il 90 per cento di esse invece la fine è già segnata: se non vengono cestinate a priori per vizi formali, sarà il mercato a decretarne il fallimento. Ogni anno circa trenta milioni di nuovi progetti vengono presentati da tutto il mondo all'ufficio brevetti dell'Unione europea, potendo scegliere tra ventisette Paesi in cui realizzare e distribuire il prodotto. Ovviamente, più l'arca di diffusione è ampia, maggiore sarà il costo per ottenere la licenza. A parte qualche rara eccezione, che si potrebbe realmente definire epocale, un'invenzione non attecchisce sul mercato per oltre un decennio senza esser sopravanzata dalle ulteriori innovazioni della concorrenza. Il prodotto che ha resistito di più nel tempo e che sembra quasi impossibile da migliorare, è il carrello per la spesa al supermercato in voga oramai da alcuni decenni. Negli ultimi tempi si possono segnalare invece le grandi intuizioni avute con il dispositivo salvavita elettronico, l'antifurto meccanico «con le palle» per le automobili, la suola traspirante. Intuizioni che hanno cambiato la vita di milioni di persone, oltre che naturalmente dei loro astuti inventori. Le invenzione «made in Italy» vivono però da tempo un periodo di sonnolenza. La ricerca ha bisogno di finanziamenti, sia dal pubblico sia dal privato e l'Italia non riesca ancora a raggiungere i livelli di Stati Uniti (circa 40mila brevetti nel 2003), Giappone (20mila) e Germania (18mila). E non bisogna neppure dimenticare che la concorrenza di «cervelli» è ormai globale, e alcuni paesi in via di sviluppo stanno mostrando una forte «creatività tecnologica». Tra questi, è la Repubblica di Corea nell'ultimo anno ad aver vantato il maggior incremento del numero di brevetti (2 mila 947), seguita dalla Cina (1.205), India (611) e Sud Africa (376). Una situazione che nei prossimi anni non potrà che peggiorare, anche in vista della prossima apertura dei mercati orientali in chiave maggiormente liberistica. Che fare, allora, per minimizzare il gap con cui l'Italia dovrà necessariamente fare i conti? Gian Maria Fara, presidente di Eurispes, suggerisce una strategia d'attacco, che andrebbe proprio ad anticipare l'avanzata dagli occhi a mandorla. «Il futuro della nostra economia non si costruisce alimentando derive protezionistiche o le irrazionali paure dell'arrivo dei cinesi, ma potenziando la qualità e l'immagine della nostra produzione». Secondo Fara, oggi «diventa sempre più necessario qualificare l'offerta del prodotto italiano attraverso la costituzione di sistemi economici territoriali e di consorzi di imprese e di marchi, in grado di elaborare pacchetti integrati di offerta territoriale, nella consapevolezza che può sussistere una relazione identitaria tra neolocalismo e ricchezza». Come dire: invece di attendere con le lacrime agli occhi che siano gli altri a scoprire quanto siamo bravi, uniamo le forze tutti insieme e proponiamo anche oltre confine quel giusto mix di cultura, arte, ambiente, turismo ed artigianato locale di cui andiamo tanto fieri. Rispolverando così l'antico detto che farebbe dell'Italia un «popolo di santi, navigatori ed inventori». ___________________________________________________ L’Unione Sarda 4 mag. ’04 CAGLIARI: "LASCIATECI STUDIARE ALL'ESTERO" Università. Contestati i criteri di selezione troppo rigidi per Erasmus Protestano gli studenti della facoltà di Economia Il sogno di poter affrontare un'esperienza di studio all'estero si infrange contro criteri di selezione troppo rigidi. A protestare sono un gruppo di studenti della facoltà di Economia, che dopo aver inutilmente tentato per diversi anni di partire usufruendo del programma Erasmus, hanno deciso di scrivere direttamente al preside per domandare che i requisiti per l'ammissione siano un po' meno restrittivi. "La nostra facoltà da diversi anni non riesce a usufruire del numero totale di borse pubblicizzate dal bando di concorso - si legge nella missiva - spesso i criteri forniti come requisiti per partecipare al bando, media voto, numero di esami e via dicendo diventano barriere all'ingresso". Quest'anno a disposizione della facoltà di Economia ci saranno 47 borse, ben dieci in più dello scorso bando, "ma - si lamentano gli studenti - i titoli richiesti sono ancora maggiori. La nostra paura è quella che anche quest'anno, come il precedente, non si riesca ad assegnare tutte le borse". Il preside, Roberto Malavasi, scongiura questo pericolo e stronca sul nascere ogni polemica: "La nostra volontà è quella di assegnare tutte le borse previste e per questo i ragazzi avranno tutto l'aiuto possibile", e chiarisce i motivi dei criteri di merito adottati: "Tutti chiedono di poter andare nelle sedi spagnole, inglesi e francesi e nessuno, o quasi, vuole usufruire delle borse previste per le università lituane, rumene, polacche o ungheresi. Si deve tener conto della ripartizione e per questo credo sia giusto che il diritto di scelta vada per primo a chi ha un curriculum migliore". Questione di gestione delle richieste, dunque, come conferma Luisanna Fodde, presidente supplente della commissione esaminatrice, che richiama l'attenzione su criteri che non sarebbero così severi. "Basti pensare che su 86 crediti previsti per il secondo anno, ne chiediamo appena 40 - spiega dati alla mano la professoressa - e su 154 per il terzo anno ne chiediamo 100. Condizioni più che accettabili, come per gli studenti fuori corso: per chi è al quarto anno domandiamo 120 crediti su 180". Per coloro che non riuscissero a rientrare in questi canoni, potrebbero comunque aprirsi a breve nuove possibilità. "Avremo altre destinazioni - conclude Malavasi - otto anni fa siamo partiti con tre borse per una sola sede, adesso abbiamo venti sedi in tutta Europa. Apprezzo che gli studenti vogliano fare questa esperienza che consiglio a tutti, ma non penso ci sia nulla di cui lamentarsi". Gianluca Zorcolo ___________________________________________________ Il Corriere della Sera 4 mag. ’04 MOUSE, SCANNER E LEZIONI ONLINE LA TECNOLOGIA SFIDA LA POVERTÀ Milano pronta ad aprire il primo «centro operativo» in rete Contadini del Ghana che seminano «seguendo» il web. Cure via Internet per i malati Ravizza Simona La tecnologia non facilita la vita solo a manager e esperti informatici. Al contadino Peter Bemile della tribù etnica Mole Dagbani la siccità non distruggerà più il raccolto: in un angolo del Ghana senza linea telefonica potrà conoscere le previsioni del tempo con un clic del mouse e seminare di conseguenza. Poco importa che Yejide viva in un villaggio rurale senza elettricità: la sua malattia contagiosa non sarà più difficile da individuare grazie all' immagine digitale dei batteri scannerizzati e inviati per e-mail in un ospedale occidentale all' avanguardia. I 10 mila studenti delle università di Uwa, Sunyani e Damango, sempre nel Ghana, possono seguire corsi tecnico- professionali online. Insomma: le Ict - ossia le Information and communication technologies - servono anche per sconfiggere la povertà. È il nuovo fronte della battaglia contro il sottosviluppo di cui Milano è stato testimonial d' eccellenza con la quarta edizione dell' Infopoverty World Conferency. Il promotore è l' Occam, l' Osservatorio sulla comunicazione creato dall' Unesco e associato all' Onu. Per due giorni Milano è stata il palcoscenico di esponenti di Onu, Unesco, Parlamento europeo, Agenzia spaziale europea, organizzazioni non governative e università, tra cui in prima fila il Politecnico di Milano e la Cattolica. Insieme per discutere le nuove strategie di lotta alla povertà. Il perno per dare il via a uno sviluppo sostenibile dei Paesi del Terzo mondo sono le nuove tecnologie. Collegamenti internet wireless, servizi a banda larga, connessioni via satellite. In piena avanzata, in luoghi senza elettricità né linea telefonica. «È una rivoluzione digitale dalle mille applicazioni», spiega Francesco Feliciani, in forza all' Esa. Di più: la sola possibilità di parlare al telefono permette alle popolazioni di uscire dall' isolamento. Creando opportunità di contatti d' affari e di nuovi business. «Di qui - dice il presidente di Infopoverty, Pierpaolo Saporito - l' importanza della sfida rinnovata con il convegno. Anche per progettare un villaggio digitale all' avanguardia in Tunisia». Il «villaggio digitale» come leva per fornire servizi fondamentali per risollevare l' economia e la qualità di vita di popolazioni povere. È una scommessa che coinvolge 5 miliardi di persone «non ancora connesse». Paul De Sio, 43 anni, già manager in società multinazionali, ha già fatto un passo in avanti. Lì, nei luoghi della sua infanzia, con un progetto sponsorizzato anche dalla Rcs. A metà maggio l' orfanotrofio di Jarapa avrà un Internet cafè, che metterà in rete un bacino da otto milioni di persone. «Fare circolare le informazioni - dice De Sio - è indispensabile per aiutare la popolazione a riscattarsi dalla miseria». Alberto Rovetta, ingegnere del Politecnico, guarda avanti: «L' appuntamento con Infopovertà 2005 potrebbe coincidere con la nascita di un centro operativo a Milano. Per diffondere le nuove tecnologie». Sul fronte della medicina, un esempio eclatante è l' ospedale San Raffaele. Da anni, don Luigi Verzè, fondatore del centro, predica e mette in pratica che «la povertà non si vince con l' elemosina». Per don Verzè, le nuove tecnologie, come la telemedicina, permettono un reale progresso nei Paesi in via di sviluppo. «Possiamo assistere i medici a distanza durante interventi chirurgici e leggere esami e lastre. Nel 1996, siamo stati fra i primi a usare il satellite per questi scopi». Simona Ravizza DON VERZE' «La povertà non si vince con l' elemosina. Le innovazioni tecnologiche possono permettere un reale progresso nei Paesi in via di sviluppo» ___________________________________________________ La Stampa 5 mag. ’04 EVOLUZIONE, 4 SAGGI PER LA MORATTI LA controversia sulla scomparsa della parola «evoluzione» dai programmi scolastici delle elementari e delle medie è giunta a una svolta: il ministro dell’Istruzione e della ricerca, Letizia Moratti, nel ribadire che non intendeva escludere l’evoluzionismo dall’insegnamento, ha annunciato che una commissione di studio lavorerà con lei «per dare precise indicazioni che costituiranno la base di tutti i percorsi educativi». La commissione, presieduta da Rita Levi Montalcini, sarà composta dal fisico Carlo Rubbia, dal neurobiologo Roberto Colombo (Università cattolica Sacro Cuore di Milano) e dal biologo molecolare Vittorio Sgaramella (Università della Calabria). Pochi giorni prima di questo annuncio, la Federazione Italiana Scienze della Vita, che riunisce otto società scientifiche e più di 3000 ricercatori, aveva approvato un documento in cui chiedeva che nella scuola disegnata dalla Riforma Moratti fosse riconosciuto il paradigma dell’evoluzione come base interpretativa della biologia. Nel documento, che probabilmente ha avuto un ruolo importante nel portare alla scelta di istituire la commissione, si legge tra l’altro che «il dibattito si è finora focalizzato soprattutto sulla teoria formulata da Darwin alla metà dell'Ottocento, senza tener conto degli straordinari sviluppi delle conoscenze avvenuti soprattutto negli ultimi decenni, sviluppi che hanno validato in modo definitivo e ampliato il concetto di evoluzione facendone un elemento fondamentale della cultura scientifica moderna. L'insegnamento tenuto fino ad oggi nella scuola media non è consistito nella presentazione di una teoria (che il coordinatore della riforma, prof. Bertagna, ritiene inadatta ai ragazzi prima dei 14 anni) ma piuttosto nel riconoscimento empirico e nella presentazione di elementi oggi universalmente presenti nella cultura scientifica generale. Ritenere che gli studenti di età inferiore ai 14 anni non siano in grado di comprendere osservazioni empiriche (..) e considerare l'evoluzione come un costrutto puramente teorico e opinabile, appare sorprendente ed è contrario all'esperienza di tutti i paesi avanzati.». «Queste considerazioni - prosegue il documento - appaiono particolarmente preoccupanti proprio nel momento in cui la mancanza di uno sviluppo scientifico competitivo è riconosciuta unanimemente come una delle cause principali delle difficoltà economiche in cui versa nostro paese. Uno degli strumenti del progresso scientifico non potrà che essere l'ampliamento e il rafforzamento della cultura scientifica dell'intera società. (...) In base a queste considerazioni la FISV ritiene necessario un dibattito sereno e articolato, che non contrapponga schieramenti ideologici ma approfondisca il problema a partire dalla sua dimensione non solo didattica (o così ritenuta) ma anche culturale, sociale ed economica.». La FIVS riunisce l’Associazione Biologia Cellulare dello Sviluppo, l’Associazione Genetica Italiana, la Società Italiana di Biofisica e Biologia Molecolare, la Società Italiana di Fisiologia Vegetale, la Società Italiana di Genetica Agraria, la Società Italiana di Mutagenesi Ambientale, la Società Italiana di Microbiologia Generale e la Società Italiana di Patologia. ================================================================== ___________________________________________________ La Nuova Sardegna 8 mag. ’04 SANITÀ, L'AZIENDA MISTA RESTA SOLO UN MIRAGGIO CAGLIARI. Non esultano gli ospedalieri davanti al naufragio in giunta regionale del protocollo d'intesa per l'azienda mista secondo loro troppo sbilanciato sulle richieste universitarie. La Sardegna è l'unica regione senza l'ospedale universitario. Azienda mista, affonda il protocollo squilibrato Dopo la rivolta annunciata dagli ospedalieri il documento si ferma in giunta La Regione cerca adesso un modo per finanziare i corsi delle lauree brevi nella facoltà di Medicina CAGLIARI. Non la chiamano vittoria i sindacati ospedalieri quella ottenuta nella seduta di giunta da dove l'assessore regionale alla sanità s'è dovuto riportare indietro il protocollo d'intesa per l'ospedale universitario. E' vero che non è passata la bozza riscritta dagli universitari secondo le loro grandi e piccole necessità, ma è vero anche che la Sardegna resta al palo della vergogna: unica in Italia a non avere ancora un protocollo che regoli i rapporti tra universitari e ospedalieri. Un protocollo 'giusto' serviva e c'era: il primo documento elaborato dalla commissione voluta dall'assessore che si era distinta per l'equilibrio delle scelte. Si racconta che nel documento presentato dall'assessore alla giunta ci fosse anche il dipartimento interaziendale concepita per lasciare la clinica urologica al Santissima Trinità: fuori dalla Asl e dentro l'azienda mista, ma lontana da questa e senza alcun taglio, di fatto, al numero di posti letto. Nel protocollo che la giunta non ha votato resisteva la discriminazione tra l'età pensionabile per gli ospedalieri (67 anni) e gli universitari (72) e non era stata cancellata la possibilità che i semplici ricercatori universitari potessero diventare capi di dipartimento. Che cosa succede adesso? Tutto resta com'è e in un incontro fatto coi rettori delle due università sarde l'assessore pochi giorni fa ha ragionato su come finanziare i corsi delle lauree brevi. Salvate queste, con uno stralcio al progetto di azienda mista, si marcerà spediti verso le elezioni e l'azienda mista sarà lavoro per il prossimo consiglio regionale. "Contrariamente a quanto si pensa noi non siamo contenti che la legislatura si chiuda senza che il protocollo per l'azienda mista sia stato varato - spiega Luigi Maxia del sindacato Cimo -. Il protocollo che ci era stato presentato andava bene, era equilibrato, poteva essere migliorato ma l'impostazione era valida. Quel che non avremmo potuto accettare era il rimaneggiamento fatto successivamente che squilibrava del tutto le posizioni e metteva gli ospedalieri in una condizione di schiavitù. Su questo, l'abbiamo detto, eravamo pronti allo sciopero regionale. Ma anche la situazione attuale non va bene: il protocollo serve, l'azienda mista serve, oltre che per le esigenze delle facoltà di Medicina anche per chiarire una volta per tutte i rapporti tra le parti". Le disparità che gli ospedalieri non accettavano in parte sono quelle che attualmente distinguono l'asse università-asl. Non c'è parità di orario di lavoro nei reparti ospedalieri convenzionati con l'università, non c'è riconoscimento per gli ospedalieri che svolgono attività di ricerca e che risultano ampiamente coinvolti nella didattica visto che gli specializzandi lavorano a contatto con loro. E' diversa l'età della pensione: un universitario può continuare ad assistere pazienti fino a 72 anni, gli ospedalieri devono lasciare a 67. Quel che sarebbe successo se fosse passato il protocollo messo all'indice dagli ospedalieri cristallizzava queste disparità e ne aggiungeva altre, molto temute. Una, per esempio, riguardava la direzione dei dipartimenti: in nessun punto del protocollo voluto dagli universitari si precisava che le direzioni dovessero essere equamente divisi. Un'altra era sui corsi e le cattedre dei professori: se la facoltà di Medicina produce professori e corsi, a questi non necessariamente deve corrispondere un reparto piccolo o grande. La ragione di questo stop secondo gli ospedalieri sta nella spesa: l'assistenza, vale a dire i reparti, nell'azienda mista sono a carico della Regione quindi destinati a incidere sulla gestione di tutti gli altri ospedali sardi. Ulteriore obbiezione: secondo gli ospedalieri doveva essere precisato il numero di posti letto sia per Cagliari che per Sassari e, soprattutto, non si doveva uscire dai parametri nazionali. I quali prevedono che si conti uno 0.5 posto letto per ogni specializzando a indirizzo clinico mentre nel protocollo bocciato si indicava un posto letto per tutti gli specializzandi, anche quelli di igiene, anatomia patologica, medicina legale, discipline "che del posto letto non sanno cosa farsene". ___________________________________________________ La Nuova Sardegna 27 Apr. ’04 LA BOZZA SULLE AZIENDE MISTE In riferimento alla lettera del Dr. Mario Palermo pubblicata ieri mi permetto di replicare ad alcune osservazioni sulla bozza di protocollo d'intesa Regione- Università, riservandomi una più approfondita discussione tecnica della materia nelle sedi opportune al fine di non tediare i lettori su tale argomento. Debbo però precisare alcuni punti innegabili, al fine di assicurare a tutte le "anime" ospedaliere delle future Aziende miste la soddisfazione ed il piacere nella convivenza con le "anime" universitarie, soddisfazione e piacere che evidentemente il Dr. Palermo considera di avere già raggiunto. 1) I posti letto risultanti dalla somma delle strutture che si prevede di fare confluire nella Azienda mista di Sassari sono 959 come, anche senza la calcolatrice richiamata dal Dr. Palermo, si può evincere sommando quelli indicati nel piano di razionalizzazione della rete ospedaliera consegnato dall'Assessore alla Sanità ai sindacati (Cliniche Universitarie in convenzione 604, Ospedale Civile di Alghero 198, Ospedale Marino di Alghero 76, Policlinico Universitario di Sassari 81). Siamo ben distanti da quanto previsto dalle normative nazionali vigenti in materia (circa il doppio di quanto reputato necessario ai fini formativi). 2) Nel protocollo d'intesa non sono garantite le specifiche aspettative professionali e di carriera della componente ospedaliera. 3) Nella bozza fornitaci troppi punti non sono stati chiariti e si rimanda a successivi provvedimenti di cui non conosciamo i tempi ed il contenuto (età di pensionamento dei professori universitari, entità della maggiorazione prevista per il finanziamento delle prestazioni, indicazione esatta del numero di posti letto, ecc.); purtroppo l'esperienza ci porta a diffidare di documenti in cui si rimanda a successivi atti, in quanto ciò che oggi è provvisorio rischia di rimanerlo per lungo tempo. Mi preme comunque osservare che i punti che salvaguardano le legittime aspirazioni universitarie sono molto ben specificati (manutenzione straordinaria degli immobili, garanzie di carriera in base al ruolo ricoperto, finanziamenti erogati dalle casse della Regione, ecc.). 4) Non ritengo sia però ora produttivo alimentare polemiche sul tema, certamente da me non volute, convinto come sono che la risoluzione dei problemi ancora irrisolti verrà trovata, forse con tempi più adeguati all'importanza del tema in oggetto, con ampia e reciproca soddisfazione. Sono del resto persuaso che la programmazione e la politica sanitaria, anche con il modesto contributo dei sindacati di categoria e non, sia compito e dovere dell'intero Consiglio Regionale della Sardegna e perciò auspico che quanto prima si possa discutere e addivenire ad una riorganizzazione complessiva della rete ospedaliera, anziché l'adozione da parte della Giunta Regionale di provvedimenti affrettati che potrebbero non tenere conto di una soluzione complessiva di tali aspetti. Sicuramente nell'ambito della discussione in Consiglio Regionale le due Aziende miste troveranno spazi, dimensioni e integrazioni funzionali, unitamente all'istituzione delle altre Aziende ospedaliere necessarie per il rilancio della sanità in Sardegna. Nicola Castiglia Segretario Cumi-Aiss Azienda Usl n.1 ___________________________________________________ La Nuova Sardegna 24 Apr.’04 AZIENDE MISTE, OSPEDALIERI IN RIVOLTA Non piace la bozza d’intesa che secondo i sindacati di categoria sarebbe sbilanciata a favore dell’università "Pronti allo sciopero se non saranno accolte le nostre richieste" "Sui posti letto a Sassari numeri gonfiati E i reparti d’eccellenza saranno tutti dell’università" CAGLIARI. Sale di giorno in giorno la preoccupazione dei sindacati dei medici ospedalieri per la bozza di protocollo d’intesa sull’azienda mista Regione- Università che, secondo loro, modella il nascente sistema ospedaliero in funzione della docenza universitaria senza tenere conto neppure della legge istitutiva delle aziende miste. Lunedì alle 18 in giunta regionale arriverà una bozza di protocollo: sarebbe grave "che fosse l’ultima versione del documento rimaneggiato su richiesta degli universitari". Così i sindacati ospedalieri. Per capire la rivolta di questi giorni bisogna ricordare che, due mesi fa, una commissione di esperti nominata dall’assessore alla sanità licenziò una bozza ritenuta equilibrata dagli ospedalieri e apprezzata anche sul Sole 24 Ore- Sanità. La bozza venne presentata alle parti in causa, che suggerirono alcune correzioni. Secondo i sindacati di otto sigle l’assessore avrebbe accolto tutte quelle di provenienza universitaria e nessuna di parte ospedaliera. Siamo all’oggi: i sindacati annunciano che se il documento varato dalla giunta regionale sarà lo specchio delle aspettative universitarie non è escluso che si vada al primo sciopero regionale dei medici sardi. E, forse per evitare che qualcuno possa dire "io non lo sapevo", due giorni fa l’intersindacale medica/sanitaria ha spedito una lettera con i sei punti di dissenso ai presidenti della giunta e del consiglio regionali, agli assessori, ai rettori, ai consiglieri della commissione sanità, ai direttori generali delle Asl di Sassari, di Nuoro e di Cagliari. I sei punti riassumono la questione generale. Gli ospedalieri chiedono che professori e dottori vadano in pensione alla stessa età (67 anni) e che perciò nel protocollo sia indicata la quota di assistenza minima necessaria perché un prof continui a insegnare e a studiare passati i 67 anni (la legge impone che all’università non ci siano didattica e ricerca sganciate dall’assistenza: se non si precisa la quota di assistenza, di fatto i prof possono tenersi tutto il reparto fino a 72 anni, età limite per il loro pensionamento). Ancora: l’orario di lavoro deve essere uguale, i ricercatori universitari non devono diventare capi di dipartimento, gli ospedalieri devono poter scegliere di restare nella Asl o di entrare nell’azienda mista e, una volta entrati qui, devono mantenere le qualifiche. Altro passaggio chiave: se l’università sforna ordinari e associati in quantità, non può pretendere che a ognuno di questi venga assegnato un reparto. Ecco perciò che nel protocollo va specificato l’obbligo dell’università di informare la Regione (il cassiere) sugli atti capaci di incidere sulla gestione dell’azienda mista. Nicola Castiglia, tra i componenti dell’intersindacale medica di Sassari, aggiunge altre critiche alla bozza gradita agli universitari che riguardano un problema assoluto per la sanità sarda: il numero di posti letto dell’azienda mista. "L’azienda che si sta configurando per Sassari - spiega il medico - in posti letto è la somma matematica dei 600 delle cliniche, più i 70 del policlinico, più i 180 dell’ospedale civile di Alghero, più gli 80 del Marino. Questo in difformità da ciò che il 6 febbraio stabilirono i commissari della 7ª commissione consiliare che previde un’azienda con 200 posti in meno. La peculiarità, qui, è l’ipertrofismo della compagine universitaria, col problema economico annesso causato dalla 517 (legge sull’istituzione provvisoria delle aziende universitarie che doveva portare poi all’ospedale di insegnamento) la quale, agli ordinari e agli associati, assegna a vita programmi che hanno lo stesso riconoscimento economico previsto per il direttore di una struttura complessa". Tutto questo, con l’azienda mista, lo pagherà la Regione, stesso ufficiale pagatore di tutti gli altri ospedali. Attenzione, perché l’azienda mista è considerata alta specialità, i drg dell’azienda mista costano un 20 per cento in più di quelli ospedalieri: "Se passa questo protocollo l’alta specialità qui a Sassari, nella provincia e fino a Nuoro - spiega Castiglia - sarà tutta universitaria. Il dimensionamento è un argomento chiave: la legge prevede tre letti per ogni iscritto al primo anno di Medicina, più una quota calcolata sugli iscritti al primo anno di specializzazione, s’intende per le specialità che hanno bisogno di posti letto. Invece in questo protocollo c’è scritto che la quota si calcola su tutti gli specializzandi". Altro problema che secondo gli ospedalieri rischia di zavorrare le casse pubbliche a discapito degli ospedali che resteranno fuori dall’azienda mista: "In questo protocollo si prevede che la manutenzione straordinaria degli immobili spetterà alla Regione. Perché la Regione deve pagare per immobili di proprietà universitaria? Inoltre - conclude Castiglia - se non c’è un elenco preciso già nel protocollo degli immobili, chi impedirà all’azienda mista di inserire nelle manutenzioni straordinarie anche gli edifici di insegnamenti che Medicina mutua da altre facoltà?". ___________________________________________________ L’Unione Sarda 1 mag. ’04 SINDACATO: IL RETTORE INTERVENGA SULLE GRADUATORIE PER CAPOSALA" Il sindacato contesta la selezione tra i dipendenti, no comment dell’azienda Policlinico, sos Cisl a Mistretta In una lettera al rettore Pasquale Mistretta la Cisl Università chiede un intervento per chiarire la querelle sulle graduatorie per gli incarichi di caposala al Policlinico. Una vicenda iniziata più di due anni fa e mai conclusa, visto che il sindacato continua a ritenere irregolare ciò che è accaduto nella cittadella di Monserrato e non più tardi di mercoledì ha bussato (non per la prima volta) alla porta del Rettorato. La ricostruzione firmata dal segretario della Cisl Università, Tomaso Demontis, è piuttosto semplice: nel settembre del 2001 la direzione generale del Policlinico diffonde un avviso di selezione, la struttura deve individuare i dipendenti che hanno più titoli per salire di grado e diventare caposala. La graduatoria però, come scrive Demontis nella lettera a Mistretta, "non è stata mai affissa né portata a conoscenza degli interessati". Uno stato di cose, denuncia il sindacato, durato fino a poco tempo fa, quando uno dei candidati alla promozione ha avuto la possibilità di vedere il documento. Non perché sia stato affisso in bacheca ma "a seguito di azione legale". In sostanza è successo che un dipendente ha chiesto aiuto a un legale per avere accesso agli atti: "Poter controllare i punteggi - aggiunge Demontis contattato telefonicamente - sarebbe stato importante per tutti i partecipanti alla selezione, anche per poter capire se c’era la possibilità di ricorrere". Ma non è solo la mancata affissione della graduatoria ad aver irritato la Cisl: "Dal 2001 - aggiunge il segretario - è in vigore un nuovo regolamento: ci aspettavamo che la selezione venisse riaperta e la graduatoria compilata in base ai nuovi criteri". Come ricorda la lettera spedita al rettore, negli ultimi incontri con le organizzazioni sindacali proprio Mistretta "aveva dato precise disposizioni al Direttore generale per rivedere e correggere detta graduatoria". Dopo aver definito "gravissimo" il fatto, il segretario d’Ateneo chiede l’intervento formale del rettorato per "evitare inutili e dispendiosi contenziosi tra il personale interessato". Fin qui la versione dei fatti del sindacato. Quanto all’azienda, dal Policlinico arriva solo un no comment. Nessuna replica dalla direzione sanitaria né da quella amministrativa o da quella generale: si tratta di una questione sindacale - è la spiegazione - e sulle questioni sindacali interviene solo il rettore. Il quale però è all’estero: quando tornerà, troverà sulle scrivania l’ultima (forse) puntata del caso delle graduatorie mai affisse. ___________________________________________________ L’Espresso 13 Mag. ‘04 VERONESI: NEL CUORE DEL CANCRO di Umberto Veronesi Dopo la mappatura del genoma umano, il passo successivo è ora quello di capire i mutamenti che ci sono all'interno delle cellule. La risposta che avremo servirà a sconfiggere i tumori. Accendiamo la luce, mandiamo un fax, saliamo in auto, navighiamo in Internet, riceviamo un sms su cellulare, scattiamo una foto, vediamo un film, mettiamo gli occhiali per leggere, facciamo un esame de sangue, affrontiamo un intervento chirurgico con la certezza di non sentire il dolore, ci sottoponiamo a una Tac o a una risonanza magnetica, guardiamo con trepidazione l'immagine ecografica di quello che sarà nostro figlio, prendiamo un farmaco, sappiamo che tempo farà grazie al le immagini scattate dai satelliti. È il nostro mondo, la usiamo senza pensarci, ci siamo abituati. E non pensiamo mai che tutte queste cose sono state create da un formidabile duo: la scienza che ha fatto le scoperte, e la tecnologia che le ha applicate. Se andiamo a vedere la definizione di scienza, troviamo che nel suo significato più comune e moderno, indica un tipo di conoscenza che contiene in sé il metodo di verifica delle proprie enunciazioni. La tecnologia è, invece, l'arte applicativa per eccellenza, quella che si incarica di tradurre nella pratica le scoperte scientifiche, producendo - in sostanza - degli oggetti, degli utensili, degli apparecchi, delle macchine. Scienza e tecnologia hanno un legame talmente stretto da sembrare una specie di simbiosi, una vita che per entrambe dipende dall'altra. Però non hanno la stessa natura, né gli stessi scopi. Ecco spiegato, perché tra la scienza e la tecnologia c'è sempre un rapporto di amore e odio. La scienza va per percorsi ideologici e filosofici, mentre la tecnologia è legata al risultato immediato di come risolvere i problemi anche più materiali, più banali; non guarda a un concetto generale come il bene dell'umanità, ma si rivolge alla società dell'homo economicus, quella che può comprare i suoi prodotti. Fu Antonio Meucci a scoprire il principio del telefono, ma poi fu Alexander Graham Bell a brevettarlo e a produrre gli apparecchi e la rete telefonica. In un mondo che in questo secolo supererà i 10 miliardi di popolazione grazie al generale miglioramento della vita (consentito appunto da scienza e tecnologia), forse è rischioso immaginare di mettere dei limiti a un'espansione che probabilmente è necessaria, però credo che sia giusto interrogarsi sulla diversa natura di queste due forze che caratterizzano la società contemporanea. La tecnologia rischia di divorare la scienza, perché mentre la scienza risponde ai grandi ideali e si confronta con grandi temi (la ricerca della verità, l'universalità della scienza, la riproducibilità dei risultati scientifici), la tecnologia non ha interessi filosofici e nemmeno etici, perché ha un solo interesse utilitaristico, risponde cioè solo al mercato. La scienza ha svolto un grande ruolo nel liberarci dalle credenze primordiali dagli oscuri rituali sacrificali e dalle superstizioni, mentre la tecnologia sembra attingere dalla scienza soltanto le idee che le permettono di conquistare quote di mercato. Anche i concetti di utilità e di uso subiscono una trasformazione, conseguenza logica di un mercato che crea una domanda di beni e servizi: se il ragazzino vuole una playstation con dieci variabili in più, il giorno dopo se la trova, perché è la logica del consumismo a fornirgliela. È giusto', È sbagliato: L'evoluzione tecnologica non si pone il problema della funzione di questo sviluppo, non si pone il problema se è giusto o no che il bambino abbia in mano degli strumenti tecnologicamente avanzati, e tutto continua ad accadere senza che ci sia stata una riflessione "culturale", o almeno l'inizio di un dibattito. Può darsi che al bambino sia utile giocare con queste sofisticate playstation, e che il gioco lo prepari a diventare un grande esperto d'informatica, ma questo tipo di considerazioni resta per lo più confinato nella cerchia degli esperti di pedagogia e psicologia infantile, che fanno le loro riflessioni su qualcosa che è già avvenuto (nel bene o nel male) perché il mercato l'ha prodotto e l'ha imposto. Il tecnologo risponde al mercato e non a una funzione strategica di quello che sta facendo. Il rischio, a questo punto è che nella simbiosi tra scienza e tecnologia, questa seconda prevarichi. Qualcuno ha detto che il mare che divide il dire dal fare va percorso ormai in senso opposto: il fare arriva prima del dire, inteso come pensare: il tecnologo fa, lo scienziato pensa. Com'è possibile trovare un punto di equilibrio in questo conflitto: Sarebbe sicuramente ingenua una visione della scienza che possa fare a meno della tecnologia, e mi viene in mente il famoso affresco di Raffaello nei Palazzi Vaticani, "La Scuola di Atene", con Platone che solleva un dito a indicare il cielo. No, penso che la scienza debba contenere il "cielo" dentro di sé (nel senso della sua ricerca di infinito), ma non possa additare il cielo delle astrazioni. L'obiettivo della scienza del futuro sarà quello di utilizzare bene la tecnologia, evitando di farsi sopraffare. La tecnologia è figlia della scienza, ma il figlio rischia di divorare la madre. Secondo me, la scienza ha bisogno di non perdere la guida di quel velocissimo veicolo che è la tecnologia. È sicuramente una scommessa, ma da questa scommessa passa il futuro della scienza, perché la scienza ha bisogno della tecnologia per progredire. Il Premio Nobel Rita Levi Montalcini, nel suo bel libro biografico "Elogio dell'imperfezione", ricorda il tedio e la fatica di una ricerca assegnata agli studenti di medicina del secondo anno: avevano il compito di determinare, con noiosissimi conteggi di decine di migliaia di cellule, se il numero di cellule nervose riconoscibili per la loro topografia fosse costante o al contrario fosse variabile. Un compito che la giovane Rita trovava non solo intollerabile, ma a rischio d'imprecisioni e di errori. Senza la tecnologia, non si potrebbero immaginare tante conquiste recenti. Craig Venter, il biologo che ha dato un contributo enorme alla mappatura del Dna, ebbe bisogno anche di un grande passo avanti tecnologico: si fece realizzare un computer che per potenza era pari a quello del Ministero della Difesa americano, e riuscì a sequenziare 14 miliardi e 500 milioni di basi, un obiettivo per cui fu necessario fare oltre 500 milioni di trilioni di confronti di Dna. Senza l'informatica nessun uomo al mondo ci sarebbe riuscito, nemmeno se varie generazioni di scienziati vi avessero dedicato la vita. Dopo la mappatura del genoma umano, i nuovi campi in cui la scienza si sta impegnando sono la genomica e la postgenomica, cioè la proteomica. Soprattutto la proteomica sarà la scienza di questo Ventunesimo secolo. Si tratta infatti di un importantissimo sviluppo della genomica. È lo studio dei grandi insiemi di proteine, della loro localizzazione nella cellula, delle loro varianti e delle loro inter-relazioni. È la prossima sfida della biologia cellulare. Uno scienziato canadese dell'università di Montreal, Michel Desjardins, fa un'analogia tra la proteomica e l'hockey: «La mappatura del genoma ci ha dato i nomi di tutti i giocatori della Lega nazionale di hockey, ora la proteomica ci permetterà di determinare la loro squadra, la loro posizione e i loro compagni di formazione». Con la proteomica, si entra nel vivo delle applicazioni della genomica. Questa nuova scienza è fondata sul riconoscimento che la maggior parte dei processi patologici e dei trattamenti terapeutici esercitano i loto effetti a livello della proteina espressa dal gene, piuttosto che a livello del gene. Anche qui, la tecnologia è indispensabile alla ricerca scientifica: bisogna applicare tecniche di elettroforesi bidimensionale, utilizzare la spettrometria di massa e altri sofisticati sistemi, per scoprire e validare dei "marcatori" di malattie che abbiano una correlazione statistica con dei potenziali trattamenti. Per tutta la mia vita ho cercato di portare avanti, insieme, la chirurgia e la ricerca scientifica. Nei primi anni Cinquanta, ero agli inizi della mia esperienza di ricercatore patologo nel campo dell'oncolagia, e avevo 27 anni, fui mandato a Londra, al Chester Beam Research Institute, che era allora uno dei più importanti centri al mondo per la ricerca sul cancro. Su consiglio dei miei maestri, mi indirizzai verso una branca allora ai primi passi, quella della genetica dei tumori. A Londra conobbi anche i grandi maestri della genetica a cui si deve la scoperta del "segreto della vita", una scoperta che affascina e che nello stesso tempo desta preoccupazione. Proprio il pericolo costituito da una tecnologia che può "fare" prima che la scienza possa "pensare" ci riporta all'affresco di Raffaello, a Platone che addita il cielo: la ricerca d'infinito della scienza non può fare a meno di ancorarsi a un'etica laica, che è l'etica della ragione. Nelle biotecnologie, per esempio, ci possono essere rischi di una distorta utilizzazione. Perciò la tecnologia deve essere tenuta sotto controllo, sempre e comunque. E sempre e comunque, la scienza deve lavorare solo a favore dell'uomo. Ciò implica ingenti finanziamenti, perché con la post-genomica l'analisi del Dna è diventata super raffinata, super computerizzata, ricca di algoritmi e di interpretazioni dei dati, per la cui realizzazione è necessaria una vera e propria piattaforma tecnologica. E non occorrono più solo ricercatori con la laurea in medicina, ma ingegneri, informatici, biologi, fisici. Per sostenere i costi, bisogna quindi creare centri tecnologici che aggreghino scienziati di diverse discipline. Grazie alla Fondazione italiana per la ricerca sul cancro (Firc), nel 1997 fu deciso di realizzare a Milano un centro di ricerca con queste caratteristiche. È nato così, in una fabbrica dismessa e ristrutturata (11.200 metri quadri), l’Ifom, l'Istituto di biologia molecolare della Firc. Dal 2002 è pienamente operativo e all'inizio ha riunito in sinergia 150 ricercatori: dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, dell'Istituto Europeo di Oncologia, dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, del Parco scientifico biomedico del San Raffaele, dell'Università degli Studi di Milano. Adesso sono più di 300, e altri ricercatori stanno arrivando. L'Ifom sta prendendo lo slancio di un grande centro internazionale: il 25 per cento dei ricercatori sono stranieri. Su questo esempio di successo altri nuovi centri di tecnologia avanzata sono pianificati in altre città del Paese da parte della medesima Fondazione. L idea so sta dimostrando vincente. E sta ripagando con importanti risultati (uno studio su come invecchiano le cellule umane è stato pubblicato su "Nature") la fiducia di chi ci ha creduto. Dalla Regione Lombardia, che ha dato un finanziamento di 5 milioni di curo, ai privati cittadini che hanno donato ben 33,8 milioni per far partire il progetto. Io vado spesso in via Adamello, a condividere l'atmosfera appassionata che si respira all'Ifom. È affascinante vedere cinque importanti istituti al lavoro insieme per fare "massa critica", dopo aver superato la tradizionale competizione che spinge a nascondere i risultati a chi viene visto come concorrente. Invece, i gruppi che lavorano all'Ifom fanno ricerca insieme, e pubblicano i risultati insieme, sotto il nome che li riunisce. Pier Paolo Di Fiore, il direttore scientifico, è stato 12 anni negli Stati Uniti, in quel "santuario" della ricerca contro il cancro che è Bethesda. Quando gli dicono che l'Italia è troppo piccola per fare ricerca, sorride con aria sorniona. Risponde, in modo garbato ma deciso: «Gli Stati Uniti hanno 250 milioni di abitanti, l'Italia ne ha 60. Ma l'Italia della ricerca non ha un piccolo posto nel mondo. Siamo un Paese di grandi capacità, e possiamo fare ricerca d'alto livello. Purché il Paese creda nel valore del pensiero scientifico». A l'appuntamento è per domenica 9 maggio. i.'occasione è la XX giornata dell'Azalea organizzata dall'Airc per raccogliere finanziamenti a favore della ricerca sul cancro (www.airc.it; oppure al costo di uno scatto: 840 001001). Con questi fondi l’Airc contribuirà a creare le quattro piattaforme di oncogenomica di cui Umberto Veronesi parla in queste pagine. È l'ultimo degli obiettivi di un'associazione che ha al suo attivo vent'anni di conquiste. Ecco le più significative. I finanziamenti dell'Airc puntano a terapie innovative, meno devastanti: nuove combinazioni di chirurgia, radio e chemioterapia e su nuovi farmaci per la cura dei tumori del seno, dell'ano e degli arti. In questi anni, l’Airc sponsorizza i trial che consacrano il tamossitene farmaco di elezione per le ricadute del tumore della mammella positivo agli ormoni. Al tempo stesso si dà impulso alla ricerca su alcune neopiasie scarsamente o per nulla curabili: messe a punto nuove tecniche di trapianto del fegato per tumori inoperabiti. Scoperta inoltre una cura innovativa per una fama di leucemia, detta promielocitica: Pier Giuseppe Pelicci, dello leo di Milano, scopre infatti il gene della proteina p75, interruttore biologico in grado di accendere o spegnere le cellule leucemiche. Significativi passi in avanti per quanto riguarda il tumore polmonare: Gabriella Sozzi, dell'Istituto dei tumori di Milano, segnala che nei forti fumatori sani è presente, nelle cellule bronchiali, un'alterazione sul cromosoma 3, assente in chi non fuma. II passaggio successivo è la caratterizzazione del ruolo della proteina p53 nelle lesioni che precedono il tumore: una scoperta considerata fondamentale. Come lo è una ricerca più recente del gruppo di Sozzi: quella che ha come protagonista il gene Fhit, sul cromosoma 3 contribuisce a innescare la canceragenesi. Nel 2003 Federico Bussolino, della Università di Torino, scopre la proteina semaforina 3A, chiave della formazione dei vasi sanguigni delle neoplasie, oggi sotto esame come bersaglio per nuovi farmaci antiangiogenetici. Nello stesso periodo Sylvie Menard, dell'istituto dei tumori dì Milano, identifica la molecola che dà il segnale di crescita ai recettori Her2, presenti ìn alcuni tumori della mammella: contribuisce a chiarire perché una neoplasia va incontro a recidive e identifica sia un marcatore per l'individuazione delle donne più a rischio, sia un bersaglio per un intervento farmacologico mirato. A fine 2003, Gabriella Sozzi e Ugo Pastaino pubblicano un lavoro fondamentale per la diagnosi precoce del tumore del polmone: nel sangue dei malati, quando il cancro non è ancora identificabile con i normali meni diagnostici, è presente Dna alterato. ___________________________________________________ La Stampa 24 Apr. ’04 BIOETICA:«NO ALLE MEDICINE ALTERNATIVE» TRA I «SAGGI» E’ ANCHE SCONTRO SULLA PILLOLA DEL GIORNO DOPO Il Comitato di bioetica boccia i corsi universitari ROMA Semaforo rosso per le medicine e pratiche non convenzionali, le cosiddette «medicine alternative», da parte del Comitato nazionale di bioetica. Il Cnb, infatti, ha approvato ieri all'unanimità un Documento che sostanzialmente boccia le aperture nei confronti di tali pratiche previste dalla proposta di legge in materia attualmente all'esame della Camera. Lo ha reso noto la bioeticista e membro del Cnb Cinzia Caporale. Il Comitato, ha spiegato l'esperta, «ha approvato, all'unanimità, con alcune astensioni, una mozione specifica relativa a tale proposta di legge; una mozione che non riguarda, dunque, la problematica in generale, ma la specifica proposta di legge». Esaminato il provvedimento, il Comitato giudica innanzitutto «discutibile» il principio affermato all'articolo 1 e che parla di «pluralismo scientifico». Il Cnb si dice inoltre «preoccupato» della proposta di istituire insegnamenti accademici e corsi di formazione nelle Università statali e non statali di medicine e pratiche non convenzionali, nonchè dell'ipotesi di inserire materie di insegnamento relative appunto all'ambito delle medicine e pratiche non convenzionali nei corsi di laurea di Medicina, Odontoiatria, Farmacia, Veterinaria, Biologia, Chimica ed altri. Il Comitato ha anche espresso parere negativo circa la proposta di accreditare quali società e associazioni scientifiche le società di riferimento delle professioni sanitarie non convenzionali. Perplessità pure sull'ipotesi di modificare la composizione del Consiglio superiore di sanità inserendo fra i suoi componenti i rappresentanti delle medicine non convenzionali. Ed ancora: il Cnb ritiene «ingiustificata» l'istituzione della qualifica di esperto per gli indirizzi che riguardano tale settore (dall'omeopatia all'agopuntura). Unica distinzione riguarda la fitoterapia, che il Comitato ritiene meriti un trattamento a parte. «La motivazione alla base del Documento - ha detto Caporale - è che, secondo il Cnb, tali pratiche non sono validate da metodologia scientifica». Secondo Caporale è «importante che su questo argomento si apra una discussione pubblica, perché sono molte le persone serie ma sono troppi i ciarlatani». Il Documento approvato verrà ora trasmesso al governo e al Parlamento. Il parere del Cnb è infatti non vincolante, essendo questo un organo di consulenza delle istituzioni. Quanto al parere sulla cosiddetta «pillola del giorno dopo» (il farmaco che si usa entro 72 ore dal rapporto sessuale a rischio) e alla possibilità di obiezione di coscienza da parte dei medici, nel Cnb s’è verificata una spaccatura. Nella seduta plenaria di ieri non s’è raggiunta una posizione unitaria: nei prossimi giorni si tenterà una mediazione, ma se anche questo tentativo dovesse fallire è probabile che si arrivi, entro maggio, all’approvazione di due documenti distinti e contrapposti. La pillola, secondo alcuni, oltre ad un effetto anticoncezionale potrebbe avere anche un effetto abortivo. r.cri. ___________________________________________________ Il Giornale 1 Mag. ‘04 NASCE LA SALA OPERATORIA DIGITALE Comandi vocali e interventi a distanza. Sterilità ed efficienza LUIGI CUCCHE La sala operatoria digitale è una realtà anche in Italia. La prima sta per essere installata in Lombardia. La si è ammirata a Genova nei giqrni scorsi in occasione del convegno Ortoreurna 2004. È una sala operatoria integrata, basata su un'architettura modulare che risponde quindi alle reali esigenze e che può modificarsi e crescere proprio in funzione delle sviluppo delle tipologie di interventi e delle accresciute necessità. In ogni momento può quindi subire aggiornamenti senza la perdita dell'investimento iniziale. È un concentrato di tecnologia elettronica e di telematica. L'équipe chirurgica può affrontare casi di particolare difficoltà interfacciandosi con centri di eccellenza di Rochester, della Majo clinic, o con altri di Melbourne per un intervento di chirurgia computer assistita. L'intervento può venir eseguito da un team chirurgico eventualmente guidato da uno specialista a migliaia di chilometri di distanza che interviene nei passaggi più ardui ed innovativi. Anche questa è una faccia della globalizzazione. Negli Stati Uniti, a Pittsburgh, capitale mondiale dei trapianti di fegato, nel Centro medico dell'università UPMC, fondata nel 1889, è stata messa a punto una sala operatoria digitale per interventi ortopedici. Si sviluppa, assieme al training center, su una superficie di ben 800 metri quadrati. Numerosi dispositivi si attivano con la voce dei chirurghi; accanto vi sono più sale per la sedazione e la preparazione dei pazienti all'intervento e laboratori di simulazione collegati alla sala operatoria. Questa struttura ora disponibile anche in Italia, dotata delle tecnologie elettroniche più avanzate che impiegano fibre ottiche, è stata realizzata dalla società americana Smith & Nephew Endoscopy, una divisione dell'inglese Smith & Nepltew, presente in 90 Paesi, all'avanguardia nel mondo per la produzione e lo sviluppo di dispositivi biomedicali. «Con semplici comandi vocali - ha spiegato Freddie Fu, capo del dipartimento di chirurgia ortopedica dell'Università di Pittsburgh - aumenta la sterilità del campo operatorio e migliora l'efficienza del team. In particolare senza dispersione di tempo si ha la visione d'insieme e di tutte le immagini utili all'intervento: così è più facile operare ed anche insegnare in tempo reale». I collegamenti costituiscono il punto di forza della nuova sala operatoria digitale. Un reparto di radiologia può inviare direttamente sullo schermo di un video collocato nella sala operatoria le immagini digitali. Le apparecchiature in rete, continuamente monitorate per l'assistenza, sono predisposte per poter ricevere aggiornamenti software senza nessuna azione manuale. Una sala operatoria integrata viene in pratica controllata a distanza da una cabina di comando che può trovarsi a qualsiasi distanza dove un team di informatici controlla l'efficienza degli apparecchi.'Tutto ciò mentre il chirurgo attiva con la sola voce le funzioni di un dispositivo elettronico senza rompere la barriera sterile. Il chirurgo ha il controllo di tutte le apparecchiature grazie alla ricerca ergonomica e l'attenzione è concentrata sul paziente. Il posizionamento della strumentazione agevola anche l'azione del personale infermieristico grazie a supporti pensili che evitano l'impiego di carrelli che circolano per la sala operatoria con una coda di cavi che ostacolano ogni movimento. L'ambiente è efficiente e funzionale grazie alla progettazione di ogni dettaglio. II chirurgo che desidera un consulto con uno specialista residente anche in un Paese lontano invia le immagini dell'intervento in tempo reale sul computer e dialoga nelle migliori condizioni. La sala operatoria assolve anche la funzione didattica. Oltre ad avere immagini in diretta, la sala operatoria digitale offre l'opportunità di archiviare le immagini dell'intervento assieme alla cartella clinica elettronica, sommandoli a tutti i dati del paziente forniti dal laboratorio di analisi, da quello di radiologia. Dati che divengono di facile accessibilità a tutti i medici che possono accedere con una chiave elettronica a queste informazioni. L'ospedale, sotto il profilo informatico, diventa così un unico sistema integrato. ___________________________________________________ La Repubblica 29 Apr. ‘04 IPERTERMIA PER I TUMORI DELLA VESCICA L’ASSOCIAZIONE dell'ipertermia a radiofrequenza e chemioterapia locale si è dimostrata efficace nell'inibire la ricrescita dei tumori vescicali. Lo dice uno studio uscito su "UROLOGY” a firma di ricercatori israeliani. Cinquantadue soggetti con neoformazione vescicale superficiale, che non richiedeva trattamento radicale (cistectomia), sono stati sottoposti a ipertermia a radiofrequenza e chemioterapia endovescicale con mitomidna da 40 mg, se la vescica era libera da tumore (trattamento solo profilattico), 0 80 mg se c'era un residuo di malattia, riconosciuto con cistoscopia o confermato dalla biopsia (trattamento ablativo). Dopo 15 mesi di followup non c'è stata progressione della malattia e nessuna mortalità. Dopo 35 mesi 15/24 soggetti (62.5%) sottoposti a protocollo profilattico, erano liberi da recidiva e il tasso di conservazione della vescica era del 95.8%. Nel 75% dei sottoposti a trattamento ablativo, in 21J28 soggetti (folk»up 20 mesi) si è ottenuta la completa distruzione del tumore con conservazione vescicale 78.696. (aldo de rose) ___________________________________________________ Libero 6 Mag. ‘04 BAMBINI "PROGETTATI" PER DONARE SANGUE E MIDOLLO AI LORO FRATELLI Per guarire gravi patologie, sono stati impiantati nelle madri, solo gli embrioni sani generati in vitro dagli stessi genitori Di LUIGI SPARTI Polemiche in Usa per la nascita dei primi cinque "neonati-medicina" CHICAGO - Un team di medici Usa ha aiutato cinque coppie (mediante degli appositi test genetici) a mettere al mondo alcuni bambini "disegnati" su misura per fungere da donatori (di sangue e di midollo osseo) per i loro fratellini (già nati), affetti da alcune gravi patologie del sistema immunitario. A effettuare l'importante e controversa operazione sono stati Yury Verlinsky e i suoi colleghi dell'Istituto di genetica riproduttiva di Chicago, che hanno pubblicato uno studio sul giornale dell'Associazione medica americana. Gli studiosi sono considerati dei pionieri nel campo della diagnostica preimpiantatoria, cioè quell'insieme di procedure (basate su test genetici) che permettono di selezionare gli embrioni prodotti durante la fecondazione in vitro, in modo da escludere quelli che portano con sé difetti genetici di vario genere (un sistema che permette a genitori affetti da certe patologie congenite di avere figli del tutto sani). Nel caso delle suddette coppie la tecnica in questione è stata utilizzata per uno scopo diverso (e per l'appunto controverso), e cioè curare i loro figli già nati, tutti affetti da gravi malattie (come ad esempio alcune forme acute di leucemia). In pratica Verlinsky ha prelevato spermatozoi e ovuli dai volontari (e cioè nove coppie), effettuando la classica procedura di fecondazione in vitro e producendo numerosi embrioni. Fatto ciò lo studioso ha selezionato solo gli embrioni che da un punto di vista ematico erano compatibili con i bimbi già nati, impiantandoli poi nelle rispettive madri. In cinque casi la gravidanza è stata portata a termine felicemente. In un caso il sangue prelevato dal cordone ombelicale di un neonato ha già salvato la vita al fratello maggiore, mentre un altro bimbo malato è in attesa di un trapianto di midollo. ______________________________________________ Il Giornale 07-05-2004 AMNIOCENTESI ADDIO BASTERÀ UN PRELIEVO Amniocentesi addio: entro l'anno un prelievo di sangue basterà per fare la diagnosi prenatale, sostituendo analisi dolorose e invasive. la nuova tecnica, che per la prima volta permette di utilizzare le cellule fetali in circolazione nel sangue materno, è in via di validazione nelle università di Perugia, Milano e Torino, e viene presentata a Roma, nel congresso dell'Associazione mondiale di medicina della riproduzione. La nuova tecnica potrà essere disponibile in Italia dopo l'estate. II prelievo verrà effettuato tra la seconda e la terza settimana di gravidanza e costerà fra 200 e 300 euro. Si potranno così isolate le cellule staminali fetali nel sangue materno e moltiplicare grazie ad un cocktail di fattori di crescita. ___________________________________________________ Il Corriere della Sera 29 Apr. ’04 AMNIOCENTESI: MA IN UN CASO SU CINQUE PRESCRIVERLA È INUTILE Le critiche del genetista Dallapiccola alla diagnosi richiesta spesso anche da madri giovani. La difesa di Arduini: «Strumento eccezionale, l' unico che garantisce una gravidanza senza dubbi» LA SITUAZIONE De Bac Margherita ROMA - L' esame di per sé è poco più di una puntura. Un ago che, sotto la guida della sonda di un ecografo, buca la cute dell' addome, si introduce nella camera gestazionale e ne risucchia piccole quantità di un liquido speciale. Quello che circonda il bambino. Sostanza ricca di cellule viventi. Messe in coltura riveleranno il patrimonio genetico del piccolo, Sarà possibile scoprire se è sano oppure ha malattie genetiche. Amniocentesi, appuntamento rispettato ogni anno da circa 100.000 future mamme italiane, secondo l' indagine più aggiornata resa nota dall' Istituto Mendel. Un neonato su cinque viene monitorizzato con questo sistema mentre sonnecchia al calduccio del grembo materno. I RISCHI - Secondo il genetista Bruno Dallapiccola nel 20% dei casi l' indagine, ormai entrata nel vocabolario delle donne in procinto di fare un bebé, è inutile perché non sempre ci sono le indicazioni per prescriverla. «Se fatta bene e da mani esperte il prelievo del liquido amniotico diventa però un eccezionale strumento di diagnosi, capace di tranquillizzare la donna e di garantirle una gravidanza senza dubbi», cerca di dissipare le ombre create dalla storia di Sondrio il ginecologo Domenico Arduini, responsabile dell' unità operativa di medicina prenatale all' università romana di Tor Vergata. Per lo specialista «mani esperte» significa affidarsi a un medico o a un centro che abbiano effettuato migliaia di test. In queste circostanze i rischi per il feto si riducono ad una soglia sottilissima. In media, nel nostro Paese, il pericolo di mortalità del bimbo va dallo 0,5 all' 1%. Può accadere che l' ago colpisca zone vitali. Ma se il ginecologo è abile ed ha alle spalle una lunga pratica sul campo la percentuale scende allo 0,1%. E per la mamma c' è pericolo? «È molto raro - risponde Arduini -. Di solito può derivare dall' infiammazione del liquido amniotico provocata da germi molto aggressivi, che riescono a superare la membrana della placenta e colpire gli organi principali. Ma sono eventi davvero straordinari». 16 SETTIMANE - L' amniocentesi viene effettuata attorno alla 16ma settimana di gravidanza. È indicata quando in famiglia esiste un precedente di malattia cromosomica e se la donna ha più di 35 anni perché a quest' età aumenta il rischio di anomalie nei discendenti. Però se una mamma, anche molto giovane, è determinata e vuole sapere a tutti i costi se il suo bimbo è in buona salute nessuno le vieta di andare avanti. In questo caso però deve pagare di tasca sua perché il rimborso per l' amniocentesi da parte della Asl è previsto solo se sono presenti le indicazioni richieste. SINDROME DOWN - «Molte giovani donne mi chiedono di fare questa diagnosi prenatale - dice Arduini -. Le informo sui rischi e sui dati della letteratura scientifica. A 27 anni, ad esempio, il rischio di aspettare un figlio con sindrome Down è di 1 su 1.100. Un caso su 450 riguarda altre malattie cromosomiche ma 200 di queste non alterano la qualità della vita. Alle pazienti spiego che è un esame non necessario, ma non insisto. A scegliere devono essere loro». ALTRI TEST - L' amniocentesi è l' unica diagnosi prenatale senza margini di errore. L' alternativa è il test dei villi coriali, una sorta di «carotaggio» della placenta. Si effettua alla 12ma settimana ma il rischio per il feto sale all' 1,5-2%. Le indagini non invasive come il triplo test, il duo test o la ricerca del plico nucale non vanno poste sullo stesso piano delle due precedenti. Hanno semplice valore di screening, indicano cioè la probabilità che il bambino sia sano o malato. «Nessuna pratica è priva di incognite - ricorda Enrico Zupi, ginecologo di Tor Vergata -. Ma in 20 anni di attività non mi sono mai imbattuto in una storia drammatica come quella di Sondrio. Aspettiamo i particolari. In genere l' amniocentesi non mette a repentaglio la vita della madre». Margherita De Bac ___________________________________________________ Il Tempo 8 Mag. ‘04 SALUTE A RISCHIO PER I TURNISTI di GIOVANNI SCAFURO Una pennIchella ti salva la vita! Si, diciamo sul serio. Smettiamola subito di pensare ai luoghi comuni sul romani ed il loro lento «incedere metabolico». E' la scienza che sembra dimostrare, a tre millenni dì distanza, che í nostri antichi progenitori avessero colto In pieno le proprietà terapeutiche del riposino pomeridiano. Pausa a cui sempre più spesso rinunciamo per I frenetici ritmi della vita moderna. Ritmi che portano, frequentemente, l'insorgere dì uno stato patologico nelle persone. «Sindrome del turnista», la chiamano. Un autorevole studio del CNR, quello dell'Istituto dì bioimmagini e fisiologia molecolare (Ibfrn) in collaborazione con il Centro del sonno dell'Università di Genova e il Servizio sanitario della Polizia di stato, evidenzia come, in particolare, questa categoria di lavoratori soffra dl una serie di disturbi, tutti collegabili alla carenza di sonno, conseguente allo sfasamento dei ritmi quotidiani: si va dall'insonnia alla sonnolenza, dai disturbi gastro intestinalu ai problemi respiratori e cardiaci. «Difficilmente il turnista collega questi disturbi al suo lavoro» afferma Fabrizio De Carli dell'Ibfm-Cnr. «Se non ci si concede una pennichella pomeridiana di almeno un'ora - precisa - è dimostrato l'aumento del rischio di incidenti sul lavora». Una situazione di stress patologico che può portare anche a grossi rischi. «Il fatto è - continua il ricercatore - che Il turnista non sembra neanche rendersi conto del grado di stanchezza che gli causa la carenza di sonno e si espone inconsapevolmente a una serie dl pericoli». «Abbiamo constatato - prosegue De Carli - che Il rischio dl incidenti, legati soprattutto alla sonnolenza, è correlato al processo omeostatico, ossia alla quantità di sonno perduto che via via si accumula senza che Il lavoratore ne sia cosciente». I dati che ci porta sono effettivamente allarmanti:gli incidenti e gli infortuni sul lavoro diminuiscono se il turnista si concede un breve sonno, anche solo dì un'ora al pomeriggio, prima di prendere servizio. Al contrarlo, il rischio aumenta quando il lavoratore non solo salta «la pennica» ma addirittura Il pranzo. «Il sonnellino pomeridiano - spiega De Carli - è risultato un'efficace contromisura alla deprivazione di sonno, in grado di diminuire li livello di sonnolenza e migliorare le prestazioni dei lavoratori». ___________________________________________ Il Tempo 8 Apr. 04 PIÙ IGIENE NEGLI STUDI DENTISTICI Gli italiani si fidano dell'odontoiatra anche se temono le infezioni Sistemi di sterilizzazione per eliminare il rischio di epatite C ROMA - Gli italiani si fidano del proprio dentista e, anche se il 70% e consapevole che negli studi odontoiatrici ci potrebbe essere il rischio di infezione, è sicuro che il professionista metterà in atto gli accorgimenti necessari per evitarlo. Questo pericolo si annida nel «riunito», ossia nella temibile poltrona corredata da trapani, frese, turbina, siringhe dell'acqua e dell'aria. Un gruppo di ricercatori internazionali, guidati dal guru dell'odontoiatria italiana, Giovanni Dolci, ha studiato tre anni questo problema e lo ha risolto. Il progetto, costato 8 miliardi delle defunte lire, è stato sostenuto dal ministero Università e Ricerca, in collaborazione con gli atenei La Sapienza, "Tor Vergata, Bologna, Siena, Salonicco, Texas, Barcellona e Istman di Londra e con il principale produttori di «riuniti» dentali, Castellini SpA di Castel Maggiore. Professor Dolci, dal dentista più igiene che negli altri studi medici dopo l'avvento dell'Aids «Diciamo che uno studio odontoiatrico ha particolarità diverse da altri studi sanitari per la strumentazione complessa e per Fuso di spray che servono per raffreddare gli strumenti rotanti - spiega Giovanni Dolci, professore ordinario di malattie odonto-stomatologiche Med/28 de La Sapienza presidente del corso di laurea in odontoiatria nonche’ direttore dell'Istituto di clinica Odontoiatrica dell'università La Sapienza - però mentre il virus dell'Aids muore facilmente e si trasmettere con contatto diretto ed ematico, è piu preoccupante quello dell'epatite C perché molto più resistente ed unico rischio possibile. Anche se - insiste il prof. - dimostrare che il contagio è avvenuto dal dentista è difficile, visto che il periodo «finestra», dal contagio alla manifestazione della malattia, è lungo». E allora? «La trasmissione di malattie infettive può avvenire perché nel nostro riunito possono alloggiare e star bene una serie di virus e micro organismi che, attraverso gli strumenti, vengono restituiti all'esterno». Come evitarlo? «Possiamo evitarlo praticando un metodo di disinfezione e sterilizzazione interna dei circuiti idrici in discontinua: tra un paziente e l'altro si mette in circolo il disinfettante chimico che bonifica le condutture e distrugge virus, batteri e biofilm». Tecnologia avanzata alla portata dl tutti gli studi dentistici? «Quello che è costato è la ricerca, poi l'applicazione è - banale: sono strumentazioni che non costano più delle altre e che possono essere adottate modificando i vecchi riuniti. Tutti possono applicarlo e, comunque, se il nostro studio è giusto e tutti arriveranno ad adottarlo, perché non pensare a una rottamazione dei riuniti con possibili agevolazioni Lo studio è stato presentato dal prof. Garaci all'XI Congresso nazionale dei Collegio dei Docenti di Odontoiatria. Ora che succede, è «legge» per tutti? «C'è una norma cui ogni struttura ambulatoriale deve avere standard minimi di sicurezza igienica e due anni fa cominciammo a redigere un protocollo per requisiti minimi (dal pavimento lavabile all'autoclave di II livello ai ricicli dell'aria condizionata). Ma è tutto ferino perché la Conferenza Stato-Regioni non si mette d'accordo se a Roma c'è bisogno di questa sterilità, a Milano di un'altra e a Palermo un'altra ancora. Come se igiene e livello di didattica dipendessero dalle latitudini...» Il federalismo è un ostacolo? L'esasperazione della regionalizzazione è questa: esistono cose che non possono essere regionali e nemmeno nazionali, rna sono universali al di là di tutto. Comunque l'auspicio è che lo studio venga riconosciuto, considerato e soprattutto applicato». dl SARINA BIRAIiHI ___________________________________________________ La Stampa 5 mag. ’04 NUOVI MEZZI DI CONTRASTO UTILIZZATI NELL’IMAGING DIAGNOSTICO TRAMITE ECOGRAFIA, PET E RISONANZA NEL BIOINDUSTRY PARK DEL CANAVESE Trucchi per guardare dentro il corpo umano L’OBIETTIVO è, attraverso tecniche di indagine non invasive come l'ecografia e la risonanza magnetica, guardare sempre più nel dettaglio dentro il nostro corpo per capire come stanno le cose, per vedere ciò che va o non va. Questo obiettivo lo si raggiunge davvero se esistono mezzi di contrasto, molecole in grado di rendere visibile ogni più recondito e minuscolo anfratto dell'organismo per verificare, prevenire, decidere di curare. Prendiamo le patologie del sistema circolatorio, immaginiamo l'angiografia coronarica che oggi si esegue attraverso l'inserimento di una "sonda". Ebbene, immaginiamo che la stessa operazione possa essere eseguita semplicemente iniettando per endovena un mezzo di contrasto capace di far "vedere" le stesse cose con la risonanza magnetica. E strade simili si potrebbero seguire per indagini sempre più approfondite legate al fegato, alla mammella, al colon, alla prostata... Ciò che racconta Mario Uggeri, direttore del Centro Ricerche di Milano della Bracco è il futuro prossimo dell'imaging, la diagnostica per immagini, "l'insieme delle tecniche che sfruttano l'interazione di diversi tipi di energia con il corpo umano per produrre immagini diagnostiche". Un settore in cui il gruppo milanese è leader mondiale. Ma questo risultato di eccellenza lo ha raggiunto e lo conserva investendo nella ricerca ben il 15 per cento del proprio fatturato, allargando costantemente, come ha fatto negli ultimi quindici anni, un network di centri che si espandono nei laboratori di biologia molecolare presso il Parco Scientifico Biomedico San Raffaele, sempre a Milano, in quelli dello Science Park di Trieste e del distretto tecnologico di Napoli. Network al quale si sono ora aggiunti i nuovi Laboratori di Ricerca e gli Impianti Pilota nel Bioindustry Park Canavese a Colleretto Giacosa presso Ivrea. Un investimento di dieci milioni di euro, un team di addetti di 25 persone, «un investimento» spiega Diana Bracco, presidente e amministratore delegato del Gruppo, «finalizzato all'innovazione di processo e a quella di prodotto. Un incubatore per formare giovani a nuove competenze, dove selezionare idee e realizzare sperimentazioni. Ed anche un ponte ideale che congiunge il mondo dell'impresa a quello accademico permettendo l'attivazione di avanzati sistemi di ricerca dell'imaging diagnostico e la preparazione di nuove generazioni di ricercatori». Mondo accademico e mondo dell'impresa: fino a quando il primo non avrà compreso davvero l'importanza di una sinergia sempre più stretta con il secondo e non si sarà convinto che da questo matrimonio, se celebrato con intelligenza, nel rispetto della specificità delle rispettive missioni, possono venire le reali risorse, i problemi della ricerca in Italia non imboccheranno la strada di una soluzione. Problemi molto gravi se, come è emerso da una tavola rotonda che ha fatto da corollario all'inaugurazione dei Laboratori Bracco al Bioindustry Park del Canavese, va poi a finire che il 70 per cento di quel poco che nel nostro paese investe in ricerca, si spende per coprire le spese per il personale. Luciano Simonelli ___________________________________________________ La Repubblica 8 Mag. ’04 PRONTI A CLONARE L'UOMO MA SOLO PER CURARLO Ricercatori britannici ottengono cellule staminali da embrione Avviata la richiesta di autorizzazione alla commissione etica Sarà impiegata la tecnica del "trasferimento del nucleo" la stessa utilizzata da Wilmut per creare la pecora Dolly LONDRA - Pronti alla clonazione umana, entro la fine dell'anno, se arriverà il via libera dalla commissione etica che deve rilasciare l'autorizzazione. Questo l'annuncio di un gruppo di scienziati britannici guidato dalla professoressa Alison Murdoch, dell'Istituto di genetica umana di Newcastle. I ricercatori, impegnati in uno studio sulla cura del diabete, hanno ottenuto cellule staminali da embrione umano, ma hanno precisato che, una volta ottenuto l'embrione umano clonato, questo servirà soltanto per ricavarne cellule staminali utili alla cura di una serie di malattie. Il mese scorso il professor Ian Willmut, il creatore della pecora Dolly, aveva annunciato la decisione di chiedere l'autorizzazione a creare embrioni umani da cellule staminali per studiare le malattie neuro-motorie. Ma non aveva avviato la pratica presso lo "Human fertilisation and embryology authority", il comitato di bioetica. Ed è stato così battuto sul tempo dal Fertility Centre di Newcastle che si avvale di un'equipe di ricercatori guidata dal professor Miodrag Stojkovic, arrivato nel 2001 in Inghilterra dall'università tedesca di Monaco. La procedura prevede il trasferimento di tutto il materiale genetico, ottenuto dalla pelle di un diabetico, in un ovulo umano svuotato del materiale genetico originario. Dopo il trasferimento, l'ovulo sarà stimolato a svilupparsi in embrione. Quando sarà diventato una microscopica palla di alcune centinaia di cellule, queste saranno estratte e coltivate. Per lo studio, hanno precisato i ricercatori, saranno utilizzati ovuli non utilizzati in procedure di fertilizzazione e per farlo sarà chiesto il consenso alle donatrici. "Siamo appena all'inizio, ci vorranno minimo fra i cinque ed i dieci anni prima di cominciare a pensare di curare dei pazienti con questo metodo ", ha detto Alison Murdoch, precisando che la decisione dell'Autority è attesa per i prossimi mesi. ___________________________________________________ Le Scienze 6 Mag. ’04 MENO ISTRUZIONE, MENO STRESS Il ruolo sociale determina il tipo di stress a cui si è sottoposti ogni giorno Anche se le persone meno istruite sono soggette a meno giorni stressanti rispetto a quelle con maggiore cultura, il loro stress è più grave e ha maggior impatto sulla salute. È quanto sostengono alcuni ricercatori del Wake Forest University Baptist Medical Center, negli Stati Uniti, in uno studio pubblicato sulla rivista "Journal of Health and Social Behavior". Joseph Grzywacz e colleghi affermano che di solito gli studi sullo stress trascurano di prendere in considerazione i fattori di stress quotidiani e le piccole scocciature di ogni giorno, ben diverse dalle cause di stress più acute o croniche come gravi malattie o la perdita di una persona cara. "Ciò che rende unico il nostro studio - spiega Grzywacz - è l'aver chiesto ai soggetti, che fanno parte di un campione nazionale, cosa accade loro in ogni giorno dello studio". Il risultato principale è costituito dalla scoperta che le cause di stress non sono casuali: la propria posizione nella società determina i tipi di stress che si sperimentano quotidianamente. E anche se chi ha un maggior livello di istruzione è soggetto a più giorni di stress, ne viene però influenzato di meno. Lo studio pone particolare attenzione sugli effetti sulla salute. Ci sarebbe una disparità ben documentata, mediante dati sui decessi e sulle malattie, per quanto riguarda l'istruzione come misura dello stato socioeconomico. "Le persone meno istruite - sostiene Grzywacz - su base quotidiana hanno maggior probabilità di un peggioramento delle proprie condizioni fisiche. Questi peggioramenti sono associati con i fattori di stress giornalieri, che risultano pertanto più dannosi rispetto alle persone più istruite". ___________________________________________________ Le Scienze 6 Mag. ’04 VITAMINE E COLESTEROLO Gli antiossidanti hanno anche effetti negativi Tutti sanno che le vitamine possono proteggere il cuore. Ma alcuni ricercatori dell'Università di New York hanno scoperto che determinate vitamine, comprese la vitamina E, la C e il beta carotene, impediscono al fegato di distruggere un precursore del colesterolo cattivo. In un articolo pubblicato sulla rivista "Journal of Clinical Investigation", gli scienziati spiegano che la scoperta potrebbe rendere non opportuno in certi casi consigliare le vitamine. Le vitamine sono antiossidanti e sono ritenute benefiche in quanto attaccano i radicali liberi, prodotti quando il corpo combatte le infezioni, che infliggono danni ai tessuti dell'organismo. Ma il nuovo studio rivela che gli antiossidanti rendono meno efficace la lotta del corpo umano contro il colesterolo dannoso. Normalmente, le cellule del fegato disgregano una proteina chiave nelle lipoproteine dannose come le VLDL (lipoproteine a densità molto bassa), impedendo la loro conversione in una forma in grado di entrare nel flusso sanguigno. In esperimenti di laboratorio, però, gli scienziati hanno scoperto che le vitamine E e C e il beta carotene impediscono questo processo. Test ulteriori in fegati di topo hanno confermato che la vitamina E impedisce la disgregazione, facendo in modo che il fegato distrugga meno lipoproteine.