AL CAPEZZALE DELL'UNIVERSITÀ - RICERCA J'ACCUSE DEI LINCEI - ORIENTARSI TRA I CORSI CON LA GUIDA DEGLI ATENEI - NELL'ANAGRAFE NAZIONALE L'IDENTIA’ DEI LAUREATI - AL SAN RAFFAELE LA RICERCA DI PUNTA - DEL BUE:LA SIGNORA DELLA RICERCA APPLICATA - SAPIENZA, LA CARICA DEI FINTI POVERI - L' ESTATE DEGLI ESAMI COMPRATI A 1.500 EURO - QUESTA SCUOLA PRONTO CASSA - L'INFORMATICA DIVENTA «BIO» - SARDEGNA SOLUZIONE ALL'ARSENICO - IL DECRETO SUL "P2P" È LEGGE MA NON PIACE A NESSUNO - =========================================================== CAGLIARI: FACOLTÀ DI MEDICINA AL TOP IN ITALIA - CAGLIARI: LA FACOLTÀ DI MEDICINA METTE IN MOSTRA I GIOIELLI - L'ISOLA DEVE FORMARE 328 PARAMEDICI L'ANNO: IMPOSSIBILE - NASCE IL CENTRO SARDO PER I TRAPIANTI DI FEGATO - DIFFICILE ANDARE IN MEDICINA... - SANITÀ, SPESE FOLLI PER OSPEDALI E FARMACI - MEDICI, ABOLITA L' ESCLUSIVA MA GLI SCIOPERI RESTANO - NUOVI DOTTORI IN BILICO TRA CONTRATTO E BUDGET IN ROSSO - L' EFFICACIA DEI FARMACI - IN ITALIA RADIOLOGIA CON MACCHINE VECCHIE - MARIJUANA PER CURARE LA SCLEROSI A PLACCHE - SALUTE BASTERÀ UN TEST PER IL CHECK-UP - BULIMIA, QUANTO PESANO I GENI - L'OMEOPATIA SI INCANALA NELL'AMBITO UNIVERSITARIO - LA SCIENZA TRADITA AL BIVIO TRA IL MALE E IL BENE - LA LATERIZZAZIONE IMMUNOLOGICA DEL CERVELLO - POVERTÀ E TUMORI - =========================================================== ______________________________________________ IL FOGLIO 19 mag. ’04 DIALOGARE CON LA MORATTI? QUI SI DICE CHE SI PUÒ AL CAPEZZALE DELL'UNIVERSITÀ Il documento delle Commissione cultura della Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui) sul governo del sistema universitario, riafferma alcuni principi generali e avanza proposte concrete, come, per esempio, il rafforzamento del ruolo dei rettori. Ne discutiamo con due dei promotori, Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone, con Adriano De Maio, rettore della Luiss, e con Marco Mancini, rettore dell'Università della Tuscia. ADRIANO DE MAIO, rettore al Politecnico di Milano dal 1994 al2002, è rettore della Luiss di Roma e coordinatore della Commissione di consulenza sull'università del ministro Moratti. Il Foglio – Il documento della Commissione cultura della Crui ha sollevato consensi e polemiche, ed era prevedibile, nell'attuale fase di discussione sulla riforma dell'università. Sembra evidente, comunque, la sua funzione di riapertura di dialogo tra mondo accademico e ministero. Con quali obiettivi? Galli della Loggia – Quel documento parte dal presupposto che la struttura tradizionale dell'università italiana ha molto di buono da conservare, ma tiene conto del fatto che la rappresentatività democratica degli organi di governo è oggi sottoposta a una fortissima tensione, dato il nuovo contesto di competizione in cui l'università deve operare, che mal si adatta alla forma iperconsensualistica che caratterizzava la vecchia governance. Ecco perché pensiamo che l'attuale governo dell'università, pur restando fermissimo il suo carattere di rappresentatività democratica, debba essere dotato di maggiore incisività dei poteri, con adeguata crescita dei controlli. Il documento parla di rafforzamento del ruolo del rettore, pur mantenendone la rappresentatività democratica, mentre il consiglio d'amministrazione vede ridotti i propri poteri, e mentre aumentano i poteri di controllo del Senato accademico. Vogliamo uscire da quella cattiva forma di democrazia, finora imperante nell'università, che è la cosiddetta "cogestione". Il Senato, cioè la rappresentanza delle facoltà e dei dipartimenti, degli studenti e degli amministrativi, deve essere radicato in una funzione di controllo, non di cogestione. Nell'università, finora, gli organi di gestione vedono la rappresentanza dei docenti per categorie e per aree scientifiche. Per cui in sostanza dentro gli organi si riproducono automaticamente le esigenze corporative dei ricercatori, deggli associati, degli ordinari e poi dell'area scientifica, umanistica eccetera. Una modalità di rappresentanza d'interessi che rende difficilissimo il perseguimento di strategie generali. Oggi il nuovo contesto universitario implica e chiede esattamente l'opposto, e cioè la focalizzazione di strategie complessive. Così credo che sia giusto rivedere le modalità dell'accesso alle carriere universitarie e del loro sviluppo all'interno dell'università stessa. Da qui si spiega l'esigenza di introdurre la figura del professore d'eccellenza. Cioè l'idea che con una maggioranza di due terzi del Senato accademico (procedura molto garantista rispetto a eventuali personalismi clientelari) l'università possa indicare, su proposta dei presidi, professori sui quali intende investire, anche per servirsene come biglietto da visita all'esterno. Schiavone – Nei principi generali del documento c'è, da un lato, la riaffermazione dell'università come sistema a forte prevalenza pubblica, dall'altro parliamo di autonomia e di competitività. I fautori della competitività sono, generalmente, anche per una privatizzazione del sistema. Noi proponiamo una strada diversa, che vuole tenere insieme un aumento della competitività e il permanere della struttura pubblica. Come ottenerlo? Una bella osservazione è emersa durante i lavori della commissione: all'interno di una struttura che rimane sostanzialmente pubblica, possiamo simulare, attraverso meccanismi rigorosi di valutazione, le differenziazioni che, in un sistema privatistico, sono indotte dal mercato. Significa introdurre meccanismi di auto ed etero valutazione, capaci di dare premi e penalità. Oggi questo non esiste. In molte situazioni universitarie esistono già meccanismi di valutazione (da parte degli studenti, da parte di nuclei di valutazione locali e nazionali). Ma queste valutazioni quasi sempre non hanno conseguenze. Se invece introduciamo premi e penalità, apriamo delle differenziazioni: nelle università, nelle carriere dei docenti. Certo, così tocchiamo il mostro sacro del vecchio sistema, l'egualitarismo diffuso a tutti i livelli (egualitarismo formale tra università, egualitarismo all'interno del corpo docente e così via). Mancini – Sono a mia volta convinto che lo snodo fondamentale, se vogliamo che ci sia competizione e al tempo stesso si mantenga l'assetto pubblico dell'università, sia quello della valutazione. Spesso mal effettuata, anche perché sappiamo come vanno le cose, quando i professori valutano altri professori. L'esempio classico è quello dei concorsi, come quelli di straordinariato, il più delle volte mere ratifiche di attività praticamente nulle. Ma gli strumenti, in teoria, già esistono. Ho visto con particolare favore l'idea di distribuire una quota, pari a circa un terzo del fondo di finanziamento ordinario, sulla base della valutazione della ricerca. Una riforma dei sistemi di assegnazione delle risorse all'università può essere una buona strada da percorrere. Su altri aspetti del documento della Commissione cultura della Crui ho qualche perplessità. Torno a una delle parole più evocate, la competizione. Che cosa significa? Sicuramente c'è stata un'idea sbagliata, che ha preso piede negli ultimi anni, basata sulla presunzione di efficacia didattica correlata al numero degli studenti. Ma pensare che la competizione si basi unicamente su come avere più studenti è un errore, eppure i meccanismi di valutazione in vigore fino a quest'anno ci inducono a pensarlo. Quindi, ben venga l'idea che si valutino gli iscritti e non gli immatricolati, perché è più importante conservarli, gli studenti, piuttosto che attirarli all'inizio. In un sistema pubblico la competizione dovrebbe significare espressione dell'eccellenza della ricerca del sistema stesso, piuttosto che nel reperimento delle risorse. Per essere più brutali: oggi le risorse non pubbliche, che cioè non vengono dal fondo di finanziamento ordinario distribuito dal Miur e a sua volta dal Tesoro, ci servono per fare ricerca ma non per pagare gli stipendi. Le gabbie e i vincoli sull'economia delle università fanno si che l'idea della competizione in autonomia sia un artificio. Con le tasse degli studenti, per esempio, ci sono cose che per legge, non possono essere finanziate. I fondi arrivano sempre "etichettati", con la prescrizione di usarli per determinate cose non altre. Insomma: se dobbiamo fare competizione in autonomia, allora vogliamo che l'autonomia sia effettiva. Altrimenti ha poco senso qualsiasi discorso sul governo dell'autonomia stessa. Un'ultima osservazione: è logico che il nodo nevralgico sia quello dello stato giuridico dei professori. Se il professore ,non è soggetto a una vera valutazione e non rischia di essere veramente penalizzato, fa quello che gli pare. Sulla governance vera e propria: sono d'accordo con il fatto che negli organi pesano troppo le categorie e vedo con favore la presenza dei direttori di dipartimento all'interno degli organi. Ma vedo con ancor più favore l'idea che ci sia un bilanciamento, non necessariamente tra il rettore e il Senato accademico o, eventualmente, il consiglio d'amministrazione. Non credo che, di per sé, un maggior potere del rettore sia "la" risposta. Perché poi rischiamo di cadere nell'errore di pensare che il rettore debba essere un manager e non più un professore. De Maio – Una considerazione prima di tutto: oggi l'università è eccessivamente protetta. Dobbiamo fare dei passi, magari piccoli e graduali, per ridurre questa protezione, che copre tutti i possibili aspetti: la competizione che non c'è, gli studenti che di fatto non possono scegliere, perché manca il diritto allo studio. Solo quelli ricchi, possono, eventualmente, scegliere di trasferirsi da Palermo a Milano e viceversa, gli altri no. Non è un problema di tasse: chiunque abbia avuto dei figli all'università, sa che le tasse sono una percentuale ridottissima del costo di un figlio che studia. Vogliamo aumentare la competitività? Allora dobbiamo far si che, secondo un vecchio detto, gli studenti votino con i piedi, e quindi vadano dove ritengano che ci sia il posto migliore. Questo è possibile soltanto se, in una politica seria di diritto allo studio, i migliori possono avere sovvenzioni per andare dove vogliono. Solo questo fatto costituirebbe una valutazione indiretta, ma autorevolissima, dell'università. Rispetto al problema dell'autonomia, sono un estremista: ciascuna università si dia le proprie regole di autogoverno. Ma la parte privata, le famiglie, devono essere in grado di andare dove meglio credono, e i soldi pubblici devono essere erogati in base a una valutazione. E non dimentichiamo che all'università oggi si chiede quello che la scuola media superiore non dà più. Il triennio, nelle scuole di ingegneria o nelle facoltà scientifiche, deve per esempio fornire quelle competenze di base che un tempo arrivavano dalla media superiore. Ci sarà bisogno di questi istituti di formazione (chiamiamoli ancora università) post scuola superiore. E poi ci saranno le università di eccellenza, da valutare sulla formazione superiore e sulla ricerca. Nel triennio c'è bisogno di una ricerca "di mantenimento", di un aggiornamento (ci sono matricole di economia che non sanno fare la somma di frazioni). Il ministero, infine, dovrebbe avere un ruolo di verifica e di tutela e pressoché scomparire. Valuta ex post e aggiorna, dà un inquadramento generale, assolve a una sorta di grande coordinamento. Sono anche per la netta separazione tra Senato accademico e consiglio d'amministrazione, senza duplicazioni. Il primo deve essere rappresentativo della comunità scientifica e definisce la strategia didattica e di ricerca. Il consiglio d'amministrazione amministra, non può giudicare se il programma di un corso è corretto o non è corretto. Ma ora Senato e Cda sono doppioni. E mi si deve spiegare che cosa c'entrano gli studenti nel Senato, mentre sono fondamentali nel consiglio d'amministrazione, e lo stesso vale per i rappresentanti del personale non docente. L'istruzione universitaria, nel mondo, propone migliaia di sistemi diversi e io ancora non so quale sia il migliore. E non è detto che le regole che possono valere per la Sapienza debbano essere assolutamente uguali a quelle migliori per il Politecnico di Milano o di Torino. Diverse le storie, le culture, l'ambiente, le comunità accademiche. Ripeto, ciascuno si dia le proprie regole per essere più competitivo. Il Foglio – Competitività significa sostanzialmente capacità di assicurare, ai propri laureati, migliori e sicuri sbocchi professionali. A questo, dovrebbe far riscontro la possibilità di scelta, effettiva e non virtuale, da parte di studenti e famiglie. Entra in gioco, allora, il problema del valore legale del titolo di studio, sul quale il documento della Commissione cultura della Crui non prende posizione. Galli della Loggia- Finché il sistema universitario deve funzionare perlopiù con finanziamenti pubblici, è giusto che ci siano direttive emanate da chi, in base ai principi della nostra Costituzione, dei soldi pubblici è responsabile, e cioè il governo. Deve continuare a esserci una politica nazionale dell'università. L'obiettivo utopico "ognuno faccia come vuole" non si può realizzare finché tutti gli "ognuno" marciano con i soldi di tutti. II ministero deve almeno dare direttive che orientino gli obiettivi del sistema universitario nazionale. Il guaio è che oggi i soldi pubblici dedicati allo studio, e al diritto allo studio, vengono dalle regioni. Ed è soprattutto questo a impedire che, come dice il professor De Maio, si voti con i piedi. Perché l'assessore all'istruzione dell'Umbria non ha alcun interesse a dare dei soldi a gente che poi vota in Calabria o in Puglia, perché amministrare soldi pubblici serve anche a ottenere consenso. Con la bufera federalista che spira, non vorrei si ratificasse questa impossibilità delle singole sedi universitarie a operare in modo competitivo, avvalendosi di uno strumento fondamentale, che va restituito alle università. Rispetto all'abolizione del valore legale del titolo di studio, dobbiamo rimanere su un piano di realismo: non è possibile, perché i politici non potranno mai approvarla e perché significa spezzare il legame, ormai fondato nella mentalità collettiva, tra mobilità sociale, miglioramento del reddito e istruzione. Si vuole avere la garanzia legale che far andare il proprio figlio in quell'università gli consentirà di acquisire il titolo legale di studio che, a sua volta, gli permetterà di accedere a fasce di lavoro e di reddito superiore. E poi, abolire il valore legale del titolo di studio significherebbe introdurre brutalmente una gerarchia in cui tutte le università meridionali sarebbero, allo stato dei fatti, destinate a occupare gli ultimi posti. Non è il caso di Catania, Bari o Napoli, ma molte altre precipiterebbero in serie zeta. Perché, piuttosto, non pensare a liberalizzare le tasse? Dare alle università la possibilità di fissare autonomamente l'importo delle tasse universitarie sarebbe una forma cospicua di liberalizzazione. E' giusto dire: rendiamo reale la valutazione, penalizziamo i professori che se lo meritano, ma non è realistico pensare che il tacchino decida di anticipare il Natale. E' molto meglio premiare i meritevoli, anche come forma indiretta di "punizione" per chi meritevole non è. Premiare i bravi, dare alle singole università la possibilità di aumentare le tasse, togliere alle regioni il diritto allo studio e anche le cose di cui parlava De Maio, eliminare il dualismo tra consiglio d'amministrazione e Senato accademico. Intorno a questi obiettivi realistici credo sia possibile, oggi, costruire nell'università un consenso maggioritario. E su questo obiettivo chi opera nella politica deve impegnarsi. Oggi l'ambiente universitario deve entrare in un'ottica di realismo, di dialogo con l’attuale ministro, che ha un orientamento responsabile e che può essere un vero interfaccia. Basta con l'attesa della grande riforma, del grande toccasana che sistemerà tutto. Basta con lo scagliarci contro tutto ciò che non incarna perfettamente i nostri ideali. Schiavone – E' vero quello che dice De Maio. Siamo in un sistema iper protetto e alcune protezioni vanno smantellate. Non totalmente, però, e il punto delicato è sapere dove fermarsi. Perché una parte (magari anche piccola) di queste tocca quello che noi chiamiamo "principio della libertà d'insegnamento". La parte dello statuto dei docenti che tocca la loro inamovibilità politica, e quindi una parte di questo sistema di protezioni, in un insieme pubblico come il nostro riguarda alcune garanzie fondamentali e irrinunciabili. Dobbiamo capire fino a che punto, su alcune protezioni sacrosante, frutto di grande fatica storica e teorica, si sono sovrapposte incrostazioni di tutela corporativa, rendite di posizione e parassitismo pubblico. E dobbiamo incidere fin dove non si tocca la carne viva delle libertà fondamentali. Un dubbio su quanto detto dal professor De Maio a proposito del triennio, e delle lauree che sarebbero in qualche modo "licealizzate", oltre che del tutto sganciate dalle lauree specialistiche, dai dottorati e dai post dottorati. In linea di massima sono d'accordo sulla distinzione: distinguere i percorsi era, d'altra parte, l'ispirazione fondamentale della riforma Berlinguer-Zecchino. Ma dobbiamo mantenere dei momenti di unità del sistema. Se questo vuol dire creare un'università in cui il rapporto tra didattica e ricerca non deve esistere più, ho molte perplessità. Il problema è di capire fin dove la distinzione sia positiva e vada accolta. Non possiamo pensare, per il triennio, allo stesso rapporto didattica-ricerca che vale per il dottorato, è ovvio, ma immaginare che i professori debbano essere buoni ripetitori e divulgatori, mentre la ricerca si farà solo dopo, mi pare una forzatura. Sulle regole: sono d'accordo, quando De Maio dice che dobbiamo guardarci dalla prescrittività ossessiva, altrimenti l'autonomia va a farsi benedire. Ma credo, visto che ho firmato il documento da cui abbiamo preso spunto per questa discussione, che in un sistema in cui il finanziamento pubblico rimane la parte dominante alcune regole bisogna pur darle. Per fare un esempio, non credo che la Sapienza possa avere un rettore nominato da un board mentre a Firenze lo elegge l'intero corpo docente. Mancini – Ma noi le regole di governance ce le avremmo già. Principi molto generali erano già contenuti nella legge 168. Dobbiamo chiederci se vogliamo cambiare alcuni di questi principi generali. Per esempio la divisione delle funzioni degli organi di governo, come Senato accademico e consiglio d'amministrazione, è una cosa che si può tranquillamente realizzare. Ma anch'io penso che vada raccolto il richiamo al realismo, nel senso che dobbiamo pensare a interventi utili ma chirurgici, che non sconvolgano l'impianto generale. Per fare questo ci vuole consenso, quantomeno maggioritario, e per ottenerlo bisogna essere gradualisti, anche se De Maio, che pure si dice tale, non mi pare lo sia molto. Perché abbiamo avuto tanti annunci, alcuni passati dal Consiglio dei ministri, di provvedimenti che sconvolgono la struttura del mondo universitario? Penso agli annunci sulla governance, e in particolare a quelli sullo stato giuridico dei docenti. Annunciare provvedimenti generali che vorrebbero rivedere in toto la struttura del mondo universitario è, secondo me, un errore politico, perché significa scatenare la rivolta (sia essa giustificata o meno). Dobbiamo allora lavorare sui punti critici e su quelli cominciare a intervenire. Favoriamo la competizione. ma ricordiamoci della missione pubblica dell'università, peraltro ribadita nei principi generali del documento della Commissione della Crui. La missione è quella di fornire un sapere critico a tutti. In questo senso, nella proposizione del sapere pubblico, un certo egualitarismo ci deve essere. Galli della Loggia – La commissione parla di "capaci e meritevoli", non di un generico "tutti". Mancini – Ma io credo che le università debbano essere in grado di fornire, almeno sul triennio, un sapere con certe caratteristiche. Sono d'accordo, devono esserci due percorsi. Ma per il primo chiedo una garanzia di egualitarismo, almeno in partenza. Certo, se poi lo studente non è né capace né meritevole, sarà penalizzato. Cosi come è chiaro che la ricerca è un fatto qualitativo, e che possa e debba comportare differenziazioni, anche sul piano dell'incentivazione e anche tra le diverse università. Sappiamo che i professori non sono tutti in grado di fare ricerca, ed è fatale che le università non siano tutte uguali. Le regole devono essere però abbastanza diffuse tra tutti gli atenei, e questi devono essere subordinati a una programmazione. De Maio – Devo aver chiaro l'obiettivo a cui tendere, perché altrimenti non posso neanche ragionare sui passi immediati. Il mio obiettivo è che non esista più il valore legale del titolo di studio, e che ci sia la più ampia autonomia effettiva delle università, con la possibilità di valutazione dei risultati. Per avere il bollo sul nuovo corso di laurea impieghiamo un anno e mezzo, e dopo la decisione dell'ateneo passa al vaglio del Cun e di altre sigle, e alla fine c'è l’imprimatur: guai a non presentare la cosa in termini perfetti, normati, disciplinati. Ma che ci siano risultati non interessa a nessuno. Si fa ma non si dice, si dice ma non si fa: è il motto dell'università italiana. Anch'io so che sarebbe irrealistico, oggi, proporre l'attuazione immediata di certe misure radicali, ma se l'obiettivo di cui parlavo poco fa è condiviso, possono esserci mille modi di perseguirlo: la discussione è aperta. Tornando alla governance, molti ricevono soldi dallo Stato e non sono obbligati a sistemi di governance: pensiamo a come è sovvenzionata la cosiddetta ricerca privata. Attualmente la nostra università è tutta incentrata sull'autorizzazione a fare. Io vedo piuttosto un'università che è orientata alla valutazione dei risultati. Dare la possibilità alle singole università di aumentare le tasse? Si può fare subito, se si vuole. Ho proposto di far pagare quello che si vuole agli studenti, per cui se uno è ricco mi faccio pagare tanto. E se in questo modo arrivo al cinquanta per cento dei fondi provenienti dalle tasse, e cioè ben sopra l'attuale venti per cento obbligatorio, il trenta in più lo posso utilizzare per il diritto allo studio. Il Foglio – Quali sono le resistenze a questa proposta? De Maio – Si dice che ne sarebbero penalizzate le università del sud, perché li non ci sono ricchi ai quali far pagare di più e non si possono aumentare le tasse, neanche allo scopo di utilizzarle per i più poveri e meritevoli. Ma anche dando per buona questa obiezione, non ha senso bloccare il meccanismo per tutti. Si potrebbero, semmai, pensare compensazioni per le università particolarmente disagiate. Dobbiamo ragionare per rimuovere i vincoli, non per vincolare tutti. So anch'io che ora la liberalizzazione assoluta è impossibile, ma nel futuro a quella dobbiamo tendere. Mancini – La realtà è che negli ultimi mesi abbiamo avuto segnali contraddittori, e proprio sull'aspetto dell'autonomia. Lo stesso disegno sullo stato giuridico contiene elementi pericolosamente centralistici. Vogliamo parlare del fatto che i decreti sono fatti dal Miur, sentiti la Funzione pubblica e il ministero dell'Economia, quando prima li facevano i rettori? E chi è che fa la valutazione del controllo giuridico dei concorsi? II Cun, mentre oggi è competenza delle università. E l'infame normativa sulle deroghe? cosa c'è di più centralistico? Oggi facciamo assunzioni non sulla base dei nostri finanziamenti ma sulla base di finanziamenti elargiti dal ministero delle Finanze in quote predeterminate. Quindi faccio un concorso, lo bandisco, emano il decreto, va sulla Gazzetta, si svolge il concorso, vengono proclamati i vincitori e poi non li assumo io, che ho i soldi per farlo, nella mia autonomia, ma li assume il ministero dell'Economia, quando lo ritiene opportuno. Questo non è centralismo? Capisco i problemi economici, ma allora bloccate le assunzioni. Basta dire: assumi se hai i soldi per farlo. Schiavone – Ancora una notazione sul discorso dell'eccellenza, che preferisco chiamare alta e altissima formazione e sull'istituzione dei cosiddetti "professori d'eccellenza", una nostra proposta che è stata molto fraintesa. Tutti sostengono di condividere l'obiettivo strategico di costruire in Italia un livello accademico e organizzativo dedicato all'alta e altissima formazione. Ma come? Il problema è non dare l'impressione, dal punto di vista delle strategie comunicative del Ministero, di legare questa attenzione a una trascuratezza nei confronti delle lauree di base. Il problema è quello di far nascere quel livello in un sistema generale in cui si parte dalla scuola elementare e in cui le lauree triennali abbiano un'importanza strategica, anche dal punto di vista della circolazione dei docenti. In America, i grandi professori universitari, durante il semestre al college, magari spiegano alle matricole come funziona la biblioteca (cosa che noi faremmo fare all'ultimo dei nostri ricercatori e che ho visto fare a grandissimi professori di Princeton). Si possono seguire due strade diverse: o scavalcare l'università e far nascere tutto dall'esterno o passare dall'interno delle università. In linea di principio preferisco il secondo sistema, sebbene sappia, per esperienza personale, quanto sia faticoso e complesso. Per quanto riguarda i professori di eccellenza, che qualcuno ha definito "baroni vip": sciocchezze. Abbiamo una massa enorme di energie, di disponibilità; di risorse, in questo momento penalizzate dalla mancanza di prospettive che obbliga a carriere "improprie", cioè alla ricerca di gratificazioni e di segnali di riconoscimento fuori dall'università, nel rapporto con i grandi giornali, con le grandi case editrici, con i circuiti internazionali di ricerca. Dobbiamo ricondurre (nell'interesse di tutti), queste carriere all'interno della nostra università, trovando meccanismi di gratificazione a cui tutti possano accedere, sulla base del merito. Galli della Loggia – Vorrei attirare l'attenzione su un altro aspetto. L'enfasi posta sulle regole, sulla competizione, sull'autonomia e sulla necessità che le università trovino finanziamenti in proprio (enfasi che tutti siamo pronti a sottoscrivere) sta creando tuttavia una forte penalizzazione delle facoltà umanistiche. Nell'università italiana si sta pericolosamente accentuando una differenza di status fra facoltà scientifiche e umanistiche. Molto pericolosa, perché sono convinto che lo status culturale e l'immagine culturale dell'università siano legati intimamente, per ragioni storiche, alla cifra umanistica, non a quella scientifica. Ma oggi le facoltà umanistiche sono quelle che con maggiore difficoltà riescono ad adeguarsi alla ricerca di finanziamenti. E reagiscono attraverso un pericoloso snaturamento: l'incidenza dei corsi di scienze della comunicazione, per esempio, è uno dei sintomi più preoccupanti di questo fenomeno. Per dimostrare che anche le facoltà umanistiche possono raccogliere tante iscrizioni, si attirano ragazzi che vengono illusi. Ci sono corsi di scienze della comunicazione in cui non c'è neanche un professore ordinario, ma solo docenti a contratto, pagati una miseria. Autonomia, allora, significa anche immaginare diversificazione di percorsi e di status fra le diverse università. Se non è più possibile pensare a una regolamentazione nazionale che vada bene per tutte le sedi, forse non è più possibile nemmeno una regolamentazione identica, nelle singole sedi, per facoltà scientifiche e facoltà umanistiche. Un altro punto molto inquietante è che i nuovi iscritti, nelle facoltà scientifiche, diminuiscono sempre di più. De Maio – La diminuzione di iscrizioni nelle facoltà scientifiche non è un fenomeno solo italiano, ma europeo. La mia idea è che dipenda dalla mancanza di preparazione scientifica dei professori preuniversitari. Non abbiamo più nessuno che sia laureato in chimica e che vada a insegnare chimica, e tra un po' nessun laureato in matematica insegnerà matematica. A parte i santi, chi può desiderare di insegnare matematica in un liceo? E come può, un ragazzo, essere incentivato a iscriversi a matematica, a fisica, a chimica, quando ha avuto una preparazione di bassissimo livello? Riguardo allo stato giuridico, ho coordinato la commissione che se ne è occupata, e alcune sue conclusioni possono essere corrette. Ma l'obiettivo è di dare la possibilità all'università di negoziare con il singolo professore. Qualcosa che non riguarda solo il "superbarone", ma la possibilità di chiedere, per esempio, a un docente che mi sembra adatto, di curare per due anni il sistema bibliotecario, non con l'ottica del bibliotecario ma del docente, offrendogli un contributo ad hoc. In giro per il mondo le migliori università si comportano cosi. C'è una base minima di diritti e di doveri, e poi c'è il negoziato: su un progetto, è chiaro. Anche questo è migliorare la competitività. Mancini – Ma mentre noi stiamo, giustamente, ragionando a medio e lungo termine, stiamo anche governando l'università. Tutti i problemi che abbiamo denunciato si stanno aggravando: centralismo, finanziamenti, non valutazione dei docenti e così via. Vorrei che pensassimo ad alcuni interventi settoriali, da realizzare rapidamente. Uno per tutti: il federalismo. Per la nostra legge il diritto allo studio è competenza delle regioni. Vorrei un ripensamento su questo, prima che sia troppo tardi. Se le università non riescono a entrare in un sistema di programmazione delle risorse, se su questo non hanno voce in capitolo, rischiamo di vederci a nostra volta eterodiretti dalle regioni. Con buona pace dei sogni di autonomia. Schiavone - Vogliamo un sistema che tenga insieme l'aumento della competitività e il permanere della struttura pubblica De Maio - Atenei troppo protetti, abolire il valrn e legale del titolo di studio e permettere aggli studenti dì "votare con i piedi" Mancini - La legge dice che il diritto allo studio è competenza delle regioni, se non la cambiamo addio all'autonomia degli atenei Galli della Loggia - Abolire il valore legale delle lauree è irrealistico e vuol dire condannare le università del meridione ______________________________________________ Repubblica 20 mag. ’04 RICERCA J'ACCUSE DEI LINCEI UN DOCUMENTO PER IL MINISTRO MORATTI. PARLA GIORGIO CARERI SIMONETTA FIORI Roma Era da molto tempo che l’Accademia dei Licei, massima istituzione culturale del paese, non registrava tale consonanza di pareri e umori. È accaduto in questi giorni per un documento-denunzia sulla ricerca, approvato il 14 aprile con voto unanime e presentato ieri sera al ministro Letizia Moratti. L'appello, che investe vari problemi - l'accesso dei giovani nelle Università e il ruolo della ricerca "spontanea", ossia quella svolta senza preventivi scopi applicativi – porta la firma della Commissione Lincea per la ricerca, presieduta da Giorgio Careri e composta da studiosi della statura di Salvatore Califano, Gianfranco Chiarotti, Umberto Colombo, Giorgio Parisi e Giorgio Salvini. «Lo scopo del nostro documento», spiega il professor Careri, illustre fisico di esperienza internazionale, «è quello di contrastare alcune posizioni del governo che potrebbero essere lesive per la cultura del nostro paese». Careri è prossimo agli 82 anni, ha studiato con Edoardo Amaldi, ha avuto rapporti di amicizia e affinità scientifica come personaggi come Lars Onsager elierbert Fribhlich. La sua attività di ricerca s'è svolta nel campo della struttura della materia. Per anni è stato direttore dell'Istituto di Fisica a Roma, dove ancora opera in qualità di professore emerito. Se gli domandi qual è il senso della sua ricerca, ti risponde con un verso di Emily Dickinson, che più o meno recita "uno più uno non fa due ma sempre uno". Poi ti mostrai meravigliosi e innumerevoli tronchi che intaglia da una trentina di anni. L'ultimo è un cedro libanese che inonda la sua elegante casa d'un denso profumo d'Oriente. Dice il professor Careri: «Proprio pochi giorni fa abbiamo preso visione del Piano Nazionale della Ricerca 2004-2006. È un documento ricco di elementi, su cui ancora dobbiamo riflettere. Ciò che ci divide dal ministro è la diversa considerazione della ricerca nello sviluppo culturale del paese. Nel piano viene detto che l'attività di Ricerca e Sviluppo (R&S) è "determinante perla competitività del sistema economico e quindi fattore fondamentale per la generazione di ricerca, posti di lavoro, coesione sociale". Perché non è stato aggiunto che Ricerca e Sviluppo sono determinanti anche per la maturazione culturale del paese? E, ancora, il "capitale umano" -dizione già assai infelice - viene definito solo come "l’insieme delle conoscenze, capacità, competenze, prerogative degli individui che agevola la creazione del benessere personale, sociale ed economico". Perché non viene riconosciuto anche il contributo umano alla crescita di cultura del paese?». Cos'altro non la convince? «In tutto il Piano si insiste su un punto: che la funzione della ricerca è quella di contribuire alla competitività del paese, con processi e prodotti competitivi sul mercato globale. È questa visione riduttiva della ricerca che noi non possiamo accettare». Da qui nasce l'esigenza di promuovere il documento linceo? «Si, il documento è stato approvato in forma unanime dalle classi riunite: un fatto insolito per l'Accademia dei Lincei. È nato anche dal nostro profondo disagio di vedere tanti bravi giovani senza un futuro nel campo della ricerca. Ieri sera l'abbiamo presentato al ministro Moratti». Cosa sostenete in sostanza «La nostra riflessione si articola intorno a tre punti. Forse il più importante è l'accesso alla ricerca dei più giovani, che poi rappresentano la futura cultura. Un dato del Piano Nazionale della Ricerca dovrebbe far riflettere: negli ultimi tre anni i professori di prima fascia (gli ordinari) sono aumentati del 40 per cento, mentre i ricercatori (terza fascia) sono aumentati del 6 per cento. Una crescita alla rovescia rispetto a uno sviluppo sano». Bisognerebbe correggere le proporzioni. «Si, bisognerebbe allargare la base della piramide, sostenendo la categoria più debole. I dati ufficiali del 2000 disegnano una struttura nella quale figurano 16.600 professori ordinari, 17.637 associati e 19.806 ricercatori. Il rapporto non è equilibrato». Cosa suggerite in sostegno dei ricercatori? «Una soluzione potrebbe essere quella di usare il cinquanta percento del budget ricavato dai pensionamenti: in questo modo si potrebbe ottenere in dieci anni un raddoppio della base dei ricercatori. Un altro modo, più rapido, è quello di immettere nel sistema finanziamenti riservati a questo scopo: L'attuale scarsità di fondi può produrre effetti nefasti. La vita della cultura deve essere alimentata senza interruzioni, non con finanziamenti straordinari, come purtroppo accade oggi». Nel documento insistete molto sul valore della "ricerca spontanea". Cosa intendete con questa formula? «Per "ricerca spontanea" intendiamo la ricerca libera da preventivi scopi applicativi, rivolta unicamente al progredire della conoscenza. Le risposte possono essere imprevedibili. In sostanza, la ricerca spontanea rappresenta la matrice culturale di un paese. Può vivere con poco, ma non può vivere di nulla». II nuovo Piano Nazionale della Ricerca non dice nulla a proposito? «Fortunatamente prevede che la ricerca libera sia garantita nelle università con una nuova legge di attribuzione dei fondi Miur (Ministero dell'Istruzione e Ricerca) e altrove tramite una nuova Agenzia del Cnr. Speriamo che la pratica realizzazione di queste lodevoli iniziative non comporti un eccessivo aggravio burocratico per i ricercatori». Cos'è che non la persuade allora? «Esiste un legame profondo tra ricerca spontanea e cultura. Purtroppo, nell'impostazione che ha dato il ministro Moratti, la libera ricerca viene valutata quasi esclusivamente per le sue ricadute economiche. Non le viene riconosciuto un ruolo nello sviluppo civile del paese». Cosa intende? «Prendiamo le facoltà di Lettere, che sembrano le più lontane dalle applicazioni e tesi di laurea vertono sempre su nuovi argomenti, i laureati diventano professori di liceo e gli studenti liceali cittadini con una nuova cultura. Questo processo di drenaggio dalla ricerca alla cultura viene potenziato con i corsi di aggiornamento che gli insegnati seguono all'Università. Altrettanto può dirsi per la ricerca svolta nelle cliniche universitarie, i cui risultati vengono trasferiti negli ospedali e da questi alle Asl e a tutto il paese. Nell'ingegneria succede lo stesso: si ha - meglio, si dovrebbe avere - un trasferimento capillare di conoscenze verso le industrie. La ricerca è un fattore fondamentale nella crescita civile del paese. Altra cosa è lo sviluppo immaginato da ideologie che puntano su benessere materiale e potere». In Francia l'hanno spuntata i paladini della ricerca. «Si, la discussione è cominciata quasi contemporaneamente a quella svolta nella nostra Accademia. Il comitato Salviamo la ricerca, presieduta da Francois Jacob, premio Nobel per la Biologia, ha recentemente annunciato con soddisfazione il raggiungimento di alcuni traguardi: l'erogazione di finanziamenti che erano stati bloccati, mille nuovi posti di ricercatore per i12004, e altro ancora. Mi auguro che l'Italia al confronto non resti indietro». "Alcune scelte del governo possono essere lesive per la cultura del nostro paese - spiega il fisico. "È dominante una visione riduttiva che non possiamo accettare » Negli ultimi anni sono cresciuti molto di più i professori ordinari dei giovani ricercatori ______________________________________________ Il Sole24Ore 17 mag. ’04 ORIENTARSI TRA I CORSI CON LA GUIDA DEGLI ATENEI Strutture ad hoc nel 95% dei poli E’ meglio scegliere un corso di laurea in scienze e tecnologie della comunicazione oppure in scienze della comunicazione pubblica e politica? E un aspirante architetto troverà più vantaggioso scegliere progettazione architettonica o gestione del progetto complesso di architettura? La riforma del «3+2» ha dato vita a una ricchissima serie di corsi di laurea, magari diversi solo nel nome, dei quali è spesso difficile individuare differenze e peculiarità. Proprio per questa ragione è cresciuta l'importanza delle attività di orientamento svolte dalle università. Atenei attenti. Una ricerca appena pubblicata dalla Conferenza dei rettori (Crui) è piuttosto incoraggiante. Secondo l'indagine, infatti, «l'impegno profuso dalle università» e «la pluralità delle iniziative» messe in campo rappresentano i punti di forza delle iniziative di orientamento promosse dagli atenei, e i numeri sembrano giustificare questo giudizio. Il 95% delle università ha una struttura di orientamento, in genere (94%) finanziata con le risorse proprie dell'ateneo e spesso (63,5%) con una storia quinquennale alle spalle. Le, soluzioni più adottate, presenti quasi in ogni polo, sono le "giornate dell'orientamento" nelle sedi degli atenei e le iniziative nelle scuole superiori, che in molti casi (59%) coinvolgono anche istituti fuori dalla Regione di appartenenza, mentre si stanno diffondendo anche progetti più sistematici per la formazione di "esperti dell'orientamento" fra gli insegnanti delle superiori. La didattica, innanzitutto. Ma quali sono gli interrogativi più ricorrenti fra le giovani aspiranti matricole? «Contrariamente a quanto si pensa di solito - testimonia Patrizia Vardanega, responsabile del Centro per l'orientamento alla Statale di Milano - gli studenti sono in genere poco interessati agli sbocchi occupazionali, e puntano la loro attenzione su cosa si studia e su quali sono gli aspetti caratterizzanti dei diversi curricula». Un ateneo grande come la Statale squaderna alle future matricole un'offerta formativa fatta di 75 corsi di laurea, e «ih genere gli studenti non conoscono nemmeno la struttura didattica disegnata dalla riforma, per cui le nostre spiegazioni devono partire dall'inizio». Cambiano le cose se si parla di orientamento per le lauree specialistiche. «In questo caso i ragazzi hanno già un'esperienza dell'università - spiega la responsabile all'orientamento della Bocconi, Stefania Bianchi - e il loro primario interesse è verificare le possibilità di iscriversi al biennio senza ritrovarsi con un numero eccessivo di debiti formativi». «Per questo oltre all'open day dedicato alle specialistiche che si svolgerà in Bocconi il 22 maggio e che permetterà agli studenti di confrontarsi con i docenti sui piani formativi - prosegue Bianchi - abbiamo predisposto sul sito un software che permette ai laureati di primo livello di verificare l'opportunità di scegliere un corso piuttosto che un altro alla luce dei debiti formativi che dovranno poi recuperare». Il ruolo della scuola. Roma La Sapienza, il più grande ateneo d'Europa, accanto alle classiche forme di orientamento tradizionale, come le giornate «Porte aperte», ha avviato diversi progetti sperimentali che coinvolgono le scuole: dal primo master (rivolto agli insegnanti) per «mediatore per l'orientamento», ai gruppi di riflessione tra studenti, psicologi e psicoterapeuti. «Un esperimento che ha dato ottimi risultati è quello che abbiamo chiamato "La cascata dell'orientamento" - racconta Marisa D'Alessio, responsabile all'orientamento dell'ateneo capitolino - dove i ragazzi degli studi più elevati spiegano a quelli più giovani cosa li aspetta e quali scelte dovranno e potranno fare nel loro percorso di formazione». A CURA DI FEDERICA MICARDI GIANNI TROVATI ______________________________________________ Il Sole24Ore 17 mag. ’04 NELL'ANAGRAFE NAZIONALE L'IDENTIA’ DEI LAUREATI A 18 anni non tutti ci pensano, ma un'analisi degli sbocchi occupazionali può essere una bussola utile per scegliere il corso di laurea. Anche a questa esigenza risponde l'Anagrafe nazionale degli studenti e dei laureati delle università italiane, appena varata dal Miur. Una volta a regime la banca dati conterrà tutti i dati sulle carriere degli studenti e sulla situazione occupazionale dei laureati, monitorando anche il tempo di attesa in vista della prima occupazione. «L'anagrafe - spiega Guido Fiegna, del Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario - è uno strumento indispensabile per misurare il funzionamento del sistema e l'efficacia dei percorsi formativi, utilizzando criteri certi e omogenei su tutto il territorio nazionale che influiranno anche sulla valutazione di qualità degli atenei, e dunque sulla ripartizione delle risorse finanziarie». Valutazione "in tempo reale" della carriera universitaria degli studenti e uniformità di criteri nel censimento dei laureati sono le due novità più significative dell'Anagrafe. Secondo l'indagine Crui sull'orientamento, infatti, una banca dati dei laureati esiste nell'81,8% degli atenei e quasi 12mila aziende le hanno utilizzato per reclutare nuovo personale, ma sottolinea ancora Fiegna, «questo è un servizio di job placement con caratteristiche diverse in ogni ateneo, e non può essere utilizzato per una valutazione di sistema». L'anagrafe più avanzata è oggi quella di AlmaLaurea, il consorzio che raccoglie 37 atenei e 410mila curricula di laureati. «Anche in virtù della nostra esperienza ormai decennale - spiega il direttore Andrea Cammelli - pensiamo che la banca dati di ALmaLaurea possa costituire la base su cui costruire l'Anagrafe nazionale, e sono già in corso contatti con il ministero per definire la collaborazione». ______________________________________________ Repubblica 17 mag. ’04 AL SAN RAFFAELE LA RICERCA DI PUNTA II centro di Milano nacque negli anni 70 proprio con le sperimentazioni sulla malattia Polo d'eccellenza Il Dipartimento di Biomedica del San Raffaele di Milano: inaugurato nel 1993, ora sta raddoppiando lo spazio per i laboratori; sopra, Emanuele Bosi, coordinatore delle ricerche sul diabete Milano Tutto è cominciato dal diabete. Proprio le ricerche sulle possibili cure per questa malattia permisero nel 1972 al San Raffaele, che allora era soltanto un ospedale fondato nel 1969 da don Luigi Verzé, di avere il riconoscimento di "istituto di ricovero e cura a carattere scientifico". II resto è storia: alle ricerche sul diabete si aggiunsero quelle sul cancro, sulle malattie neurovegetative, sui trapianti, che hanno dato all'istituzione milanese prestigio e fama mondiali. Il Dibit, dipartimento di biometecnologie, è una delle strutture scientifiche più accreditate d'Europa, e qui si sviluppano ricerche di base e cliniche nella terapia genica, nelle malattie da immunodeficienza, della genomica, della neurobiologia, nella biologia molecolare. Vi lavorano 250 ricercatori e tecnici, e 100 borsisti, che nel solo 2003 hanno pubblicato 534 lavori su riviste quali Science e Nature. La settimana scorsa il presidente del consiglio Berlusconi, affiancato da cinque ministri, ha dato il via ai lavori per l'ampliamento dell'area scientifica con altri 70milametri quadrati, il doppio degli attuali. A fianco, nel grande comprensorio della zona di Lambrate, è sempre operativo l'ospedale, con 3.400 dipendenti e 1.350 posti. Infine, dal 1996 esiste l'Università Vita-Salute, con le facoltà di medicina, biotecnologie, psicologia e dal 2002 anche filosofia. Le ricerche sul diabete oggi sono sostanzialmente organizzate in due tronconi. Un gruppo coordinato da Emanuele Bosi, l'allievo del professor Guido Pozza che era stato il precursore delle ricerche del San Raffaele, realizza studi su farmaci e terapie. Un altro, diretto da Antonio Secchi, si sta concentrando sul trapianto delle "isole pancreatiche", responsabili della produzione di insulina. II tutto in collegamento continuo con altri centri d'eccellenza, da Harvard al Center for diabetes di Miami, dove lavora in particolare Camillo Ricordi, uno dei luminari del settore, formatosi proprio al San Raffaele. Spiega Bosi: «Ora stiamo conducendo uno studio sul nuovo farmaco della Bristol-Myers e della Merck, che agisce come insulino-sensibilizzante: valorizza quel minimo di insulina di cui i pazienti dispongono, per ridurre il numero di chi evolve verso una terapia insulinica vera e propria». II farmaco va oltre: «Agisce anche come regolatore del quadro lipidico, sempre alterato nei diabetici, abbassando i trigliceridi e il colesterolo e alzando quello "buono", I'Hdl. Siamo già nella fase 3, l'ultima delle sperimentazioni cliniche, in cui il farmaco viene testato su migliaia di malati in tutto il mondo. Fra Poco cominceremo poi a sperimentare il nuovo farmaco della Novartis, identificato per ora come Daf,che si trova Invece nella fase Z, in cui la sperimentazione è ristretta ad un limitato numero di volontari. Questo farmaco invece agisce sul glp-l, un ormone gastroenterico, prodotto cioè nell'intestino, che agisce sul pancreas stimolando l'insulina. E' anch'esso un farmaco molto interessante». Le fasi di sperimentazione di un farmaco sono quattro: la prima è la ricerca in vitro e in vivo inizialmente sugli animali e poi sull'uomo, quindi si passa alle fasi 2 e 3 già citate, dopodiché, ovviamente se l’iter non è stato sospeso per tossicità, inutilità o altri problemi, si portano i dossier alle autorità per l'autorizzazione. La fase quattro avviene col farmaco in commercio: si affinano le prescrizioni e si valuta l'eventuale estensione ad altre patologie. Per il diabete, «come Qer tante altre malattie» come dice Bosy II futuro sta anche nelle cellule staminali, e nella possibilità di indirizzarle con precisione proprio nella zona del pancreas "addetta" alla produzione di insulina. Riproducendosi poi in gran quantità, queste cellule aumentano i "fabbricatori" del prezioso ormone. Nei laboratori del San Raffaele ci sta lavorando un terzo gruppo interno, guidato da Ezio Bonifacio, un ricercatore di base che coordina anche altri studi sul pancreas. II problema per le staminali è però soprattutto il quadro normativo. Quando sarà chiarito, avremo anche in Italia una ricerca già molto avanzata. (e. o.) ______________________________________________ Repubblica 17 mag. ’04 LA SIGNORA DELLA RICERCA APPLICATA Agli scienziati manca il raccordo col business Nel settore della ricerca industriale la scienza va per conta proprio. Non si può scegliere in maniera arbitraria quello che si vuole fare, ci deve essere un legame con la strategia dell'impresa». Marina Del Bue, 47 anni, direttore generale della società Biotech Molmed, una laurea in biologia alla Sapienza - anche, ma solo perché la vita non e tutta lavoro, un diploma da sommelier - ha iniziato la sua carriera come ricercatrice, ha arricchito il suo curriculum con un master in business administration alla Bocconi e ha le idee molto - chiare. «La mia più grande ambizione - dice -sareùbc; accoppiare l'aspetto scientifico con le competenze manageriali per una missione etica e portare sul mercato una terapia innovativa, un prodotto che salvi vite umane»: Sognava, da piccola, di diventare come Màrie Curie. E anche oggi, che si sente una donna d'azienda, più manager che ricercatrice, lo fa pensando à Madame e all'influenza che hanno avuto su di lei gli studi, fino al liceo ' classico, in una scuola privata di suore.' Marina è minutissima, di grande ha solo una massa di riccioli, anche la voce è sottile. Però ha sempre bruciato le tappe: nata a Roma, una gemella e un fratello più grande soltanto di un anno, papà commercialista, è andata a scuola un anno prima e della sua infanzia ha un ricordo bellissimo. «Una grande casa sempre aperta agli amici, come fosse una festa continua». Scegliere biologia per gli studi universitari è stato il suo strappo verso l'autonomia: «Mi piaceva l'idea di fare qualcosa per gli altri e anche quella di fare qualcosa di diverso dai miei fratelli». Finisce gli esami in tre anni, a 22 è biologa e vince una borsa di studio dell'Istituto Superiore di Sanità. È specializzata in biologia molecolare, un settore che comincia a fare tendenza, e presto finisce all'Eni Ricerche che da Milano, dove si è trasferita, la spedisce a studiare a New York sull'ormone della crescita che sarà poi uno dei primi brevetti italiani in ingegneria genetica. In Italia la vita dei ricercatore è difficile, Marina vira decisamente verso l'industria c allora decide di completare le sue competenze con la Sda Bocconi. «Due anni - ricorda - faticosissimi ma anche fantastici. Sarà che io non disperdo mai niente, ma i i miei compagni di allora, come anche quelli dell'Eni, sono ancora miei grandi amici». Rafforza una tendenza che già aveva: ottenere risultati e nel minor tempo possibile. Il primo impiego della nuova vita professionale è alla Masbiotec, marketing e business development manager; poi alla Tecnogen come responsabile pianificazione strategica e relazioni esterne; nel '90 entra alla Menarini. Marina comincia a occuparsi degli aspetti economici legati alla ricerca: Menarini è la prima azienda italiana farmaceutica che avvia il processo di internazionalizzazione; acquista centri in Germania e Spagna, lei passa i suoi dieci anni in quell'azienda, che ha sedi a Firenze e Roma, sui treni e sugli aerei. «Ho avuto modo-racconta - di seguire tutte le tappe di un farmaco: dalla ricerca tino al lancio sul mercato». Se ne va quando Claudio Bordignon, il pioniere della terapia genica e cellulare, direttore scientifico dell'istituto Scientifico San Raffaele, le propone di trasformare quella che era un'azienda di servizi interna all'ospedale in una biotech company. «Il San Raffaele - dice Marina - è davvero un grande brand. E l'occasione di costruire qualcosa dall'inizio era irripetibile». Si trasferisce di nuovo a Milano, anche se a Roma mantiene la sua casa, i suoi amici delle partite di bridge, i suoi nipoti che la appassionano e che raggiunge sempre per il fine settimana. «La scienza - ragiona - corre a una velocità folle, molto di più dell'economia. Ma quando la scienza rimane scienza, non abbiamo fatto grandi passi avanti; quando diventa terapia, allora si che abbiamo salvato il mondo». La mission della società è la cura di malattie ad alto impatto sociale, cancro e Aids, attraverso le tecniche molecolari. Marina: «Noi siamo il link tra la società e il mercato, il nostro fine è quello di far diventare farmaco una scoperta scientifica. Le statistiche dicono che a oggi si possono curare il 50 per cento dei tumori, e questo è un dato che ha evidenziato grandi progressi. Per l'altro 50 per cento la strada è ancora lunga. La cura in futuro dovrà essere sempre più personalizzata perché le ragioni che scatenano la malattia sono molteplici e sempre diverse». II suo piccolo ufficio è nel complesso del San Raffaele, là dove lavorano oltre 4.000 professionisti nella ricerca e nella cura della salute. In bella vista Marina tiene lo spazzolino da denti elettrico e il bollitore per le tisane; la sua porta è sempre aperta. «Credo molto nella condivisione e nel coinvolgimento di tutti. L'orario di lavoro non esiste, né, quando ci sono degli obiettivi da raggiungere, esistono il sabato e la domenica. Con me lavora gente che ha sposato una missione unica, c'è un senso forte di appartenenza. Qui non studiamo patatine, lavoriamo per produrre prodotti che possono salvare la gente. Questo posto riassume tutto di me in maniera perfetta». Marina Del Bue ______________________________________________ Corriere della Sera 20 mag. ’04 LA SAPIENZA: DENUNCIATI 606 FINTI POVERI Inchiesta sugli studenti che falsificando le autocertificazioni ottenevano benefici e sconti Al setaccio della Guardia di finanza 4.000 assegni (su 12.000) erogati dall' Azienda regionale per il diritto all' istruzione Di Gianvito Lavinia C' era chi aveva tre appartamenti. E chi girava in fuoristrada. Ad altri il papà imprenditore non faceva mancare nulla, dalle vacanze in barca agli abiti con la griffe. Sono 606 gli studenti della Sapienza che, fingendosi poveri, hanno vinto le borse di studio destinate ai colleghi meno abbienti. Per incassare gli assegni è bastata una semplice autocertificazione, come prevede la legge sulla semplificazione amministrativa. Ma il Nucleo speciale ispettivo Funzione pubblica della Guardia di finanza, diretto dal colonnello Maurizio Massarini, ha scoperto il raggiro e ha denunciato gli studenti per falso ideologico e truffa aggravata. Nei prossimi giorni il pm Maria Bice Barborini, che coordina le indagini, invierà i primi avvisi di garanzia. Le Fiamme gialle hanno esaminato l' anno accademico 2001-2002. Su 12 mila borse di studio erogate dall' Adisu (Azienda regionale per il diritto allo studio universitario), ne hanno scelte quattromila a campione. Gli studenti che avevano dichiarato un reddito familiare di zero euro e quelli che avevano asserito di non possedere neppure la prima casa sono stati i primi a incuriosire i finanzieri del capitano Massimo Chiappetta. Incrociando le informazioni fornite dai 606 denunciati e quelle contenute in diverse banche dati, è emerso che nelle autocertificazioni sono stati nascosti redditi da fabbricati, da terreni, d' impresa e da capitale. Insomma, a credere ai vincitori delle borse di studio, i loro genitori avrebbero incassato soltanto salari e stipendi. Mai un euro in più. Alcuni hanno «dimenticato» anche le consulenze prestate nel pomeriggio dal papà con il doppio lavoro. L' inchiesta è iniziata con la denuncia di uno studente che, pur avendone i requisiti, non ha ottenuto l' assegno. A differenza di figli di imprenditori e professionisti. La Guardia di finanza ha scoperto i truffatori annidati in tutte le facoltà della Sapienza e residenti non solo a Roma: circa la metà proviene dalla Calabria, dalla Puglia e dalla Sicilia. Ognuno ha ricevuto da 1.800 e 3.500 euro, la borsa di studio prevista per i fuorisede. Qualcuno ha rinunciato ai contanti e preferito un alloggio alla casa dello studente: così ha risparmiato il costo di una stanza in affitto, non meno di 500-600 euro al mese. Nessuno ha pagato le tasse universitarie, da 400 a 1.300 euro secondo la fascia di reddito e la facoltà. Secondo le Fiamme gialle, l' Adisu ci ha rimesso un milione e mezzo di euro. Recupererà molto di più, il triplo, cioè quattro milioni e mezzo di euro: in base alla legge 390 del ' 91, lo studente colto in fallo deve restituire il maltolto e, in più, pagare una multa pari al doppio dell' assegno incassato. Lavinia Di Gianvito 1.800 EURO È la borsa di studio minima (può arrivare anche a 3.500 euro) percepita dagli studenti fuorisede. Alcuni hanno preferito rinunciare all' assegno ottenendo in cambio un alloggio nella Casa dello studente 1,5 MILIONI DI EURO È la perdita subita dall' Azienda per il diritto allo studio, secondo una stima degli investigatori. L' Azienda potrebbe però recuperare il triplo: lo studente scoperto deve restituire il maltolto e pagare una multa pari al doppio L' INTERVISTA «Restituite le borse di studio» Il commissario dell' Adisu: «La posizione dei ragazzi diventerebbe più leggera» «Alleggerite la vostra posizione processuale restituendo le borse di studio. Il ravvedimento operoso vi aiuterà». Il messaggio di Maurizio Tenenbaum, commissario dell' Adisu, è diretto ai 606 studenti denunciati dalle Fiamme gialle. E chissà se qualcuno ne terrà conto. Altrimenti, professore? «Appena avrò i nominativi, aprirò il procedimento amministrativo previsto dalla legge 390 del ' 91. Gli studenti riceveranno una lettera e avranno 30 giorni per le controdeduzioni. Chi non potrà documentare la sua estraneità alle contestazioni, dovrà restituire la borsa di studio e pagare una sanzione pari al doppio del suo importo. Ma potrà ricorrere al Tar». Perchè l' Adisu non aveva mai accertato la veridicità delle autocertificazioni? «Questo non è vero, i controlli sono previsti dalla legge e ci sono sempre stati. Ma erano limitati al venti per cento degli assegni. Invece per l' anno accademico 2001-2002 la verifica è stata estesa e il campione è stato selezionato in base a criteri precisi. Per esempio, insieme alla Guardia di finanza abbiamo incluso gli studenti che non hanno dichiarato nemmeno una casa o nemmeno un euro di reddito». Chi sono, in genere, i vincitori delle borse di studio? «Metà romani e pendolari, l' altra metà fuorisede». Secondo lei, quanti sono gli iscritti che hanno fornito dai falsi? «Non credo che ce ne siano più dei 606 denunciati, proprio perchè il campione è stato scelto in modo mirato. Se è così, la truffa riguarda il cinque per cento degli assegni erogati, in linea con le statistiche internazionali sulle autocertificazioni». L' Adisu si costituirà parte civile? «Certo, e se lo riterrà opportuno potrà farlo anche La Sapienza: anche le tasse universitarie non sono state pagate». L. D. G. ______________________________________________ Corriere della Sera 20 mag. ’04 L' ESTATE DEGLI ESAMI COMPRATI A 1.500 EURO Nell' estate dello scorso anno l' università La Sapienza viene scossa dall' inchiesta sulla presunta compravendita di esami alla facoltà di Giurisprudenza. La prima segnalazione - che dà il via all' indagine della Procura - era arrivata l' 8 novembre 2000 dal docente di Diritto commerciale Bernardino Libonati, che aveva scoperto la falsificazione di due sue firme sui verbali d' esame del 13 novembre ' 99. Il pm Vincenzo Barba affida le indagini ai carabinieri del Nas. Alcuni militari si infiltrano nella facoltà di Giurisprudenza travestiti da studenti e addetti alle pulizie; nello stesso tempo scattano le intercettazioni telefoniche, che finiranno per riempire oltre cinquemila pagine del fascicolo processuale. Le ordinanze di custodia cautelare scattano a luglio: 18 dipendenti, assistenti e studenti finiscono agli arresti domiciliari. Altre 17 persone sono indagate. Secondo la Procura, a capo dell' organizzazione c' è l' impiegato dell' Istituto di procedura penale Nicola Circosta, 42 anni. L' uomo è affiancato da Civita Ribaudi, 67 anni, e da Matilde Mariani, 54 anni, la prima bibliotecaria, la seconda segretaria dell' Istituto di diritto pubblico. I tre sono accusati di associazione per delinquere. L' accusa ipotizza anche il prezzo degli esami comprati: da 1.500 a tremila euro. Nelle perquisizioni il Nas trova documenti relativi alle prove sostenute dagli studenti e un timbro usato per falsificare gli statini. Iniziano intanto gli interrogatori, e davanti al gip Mariagiulia De Marco sfilano nomi noti in città: i fratelli Gabriele e Daniele Pulcini, figli del costruttore Antonio, e Andrea Infantino, con gioielleria di famiglia ai Parioli. Ad agosto però l' inchiesta subisce una battuta d' arresto: il Tribunale della libertà annulla la maggior parte delle ordinanze che avevano condotto agli arresti. Il pm ricorre in Cassazione e vince, ma le manette non possono più scattare: ormai il trascorrere dei mesi ha cancellato le esigenze di custodia cautelare. ______________________________________________ Corriere della Sera 20 mag. ’04 QUESTA SCUOLA PRONTO CASSA La compravendita di titoli Magrelli Valerio Due notizie di ieri gettano lunghe ombre sul futuro della scuola italiana. La prima riguarda 600 studenti della Sapienza denunciati dalla Guardia di finanza per aver presentato all' Adisu (Azienda per il diritto allo studio universitario) delle autocertificazioni false in modo da ottenere contributi e agevolazioni. Ancora più grave il secondo caso, relativo alla compravendita di diplomi scoperta in vari istituti privati parificati, e culminata in ben 15 arresti. Questi istituti, autentici vascelli fantasma, andavano a gonfie vele. In uno di essi, a Pomezia, pare che, durante una visita dell' ispettorato, fossero state addirittura ingaggiate delle comparse per recitare il ruolo di discenti, docenti, bidelli e segretari. Più che altro un centro di recitazione. Sono piccole cose, se si pensa a quanto si svolge intorno a noi, eppure cariche di conseguenze, gravide, anzi, nel senso letterale del termine: come se, grazie ad esse, potessimo osservare in trasparenza ciò che lentamente si prepara all' interno di un uovo di serpente. L' uovo del serpente era appunto il titolo di un film di Ingmar Bergman che descriveva gli esperimenti di un folle scienziato prenazista. Per fortuna siamo lontani da quell' atmosfera, eppure il senso di muta maturazione, di silenziosa incubazione, di minaccioso sfacelo civile, sembra per certi versi preoccupantemente prossimo. Le truffe per ottenere una borsa di studio, gli inganni per comperare un esame o una laurea, sono sempre esistiti. Quel che è cambiato, però, è il quadro in cui tutto avviene e si dilata. Lo stesso reato, cioè, assume un senso nuovo, in pericolosa sintonia con lo spirito dei tempi. Detto in breve: abbandonando il suo ideale formativo, la scuola si trasforma in supermarket. Se a questo si aggiunge il progressivo smantellamento dell' insegnamento pubblico, da sempre sottoposto a attenti controlli, si capisce perché tanti ragazzi preferiscano ritirare il titolo di studio alla cassa, anziché guadagnarselo. Il vero problema, però, è che tutto ciò avrà ingenti costi non solo per il singolo, ma per l' intera comunità. Non serve indignarsi per quanto è avvenuto ora, ma per quel che accadrà nel prossimo futuro. Chi compera un diploma oggi, domani diventerà la segretaria incompetente, l' uomo-radar irresponsabile, il manager incapace, o nel caso migliore uno fra i tanti designer che costellano il mondo di oggetti difettosi. Acquistare un diploma, infatti, equivale a rubarlo, e forse si dovrebbe riflettere su questa singolare equivalenza fra due verbi che in genere si contrappongono. Dietro un gesto simile, si nasconde una doppia questione: da un lato tecnica (il rifiuto di acquisire competenze professionali), dall' altro deontologica (la rinuncia a condividere un percorso formativo collettivo). Siamo all' apoteosi della scorciatoia, il che, d' altronde, è alquanto comprensibile in seno a una cultura politica che avanza a colpi di condoni tombali. Per ora c' è il condono. La tomba verrà poi. ______________________________________________ Il Sole24Ore 19 mag. ’04 L'INFORMATICA DIVENTA «BIO» La nuova frontiera della ricerca farmaceutica riduce tempi e spese ROMA a Di qui a tre anni potrebbe essere la bioinformatica a salvare le sorti della ricerca farmaceutica, riducendo del 28% i tempi di scoperta e del 32% i costi per un nuovo farmaco: il mercato mondiale del settore dovrebbe toccare i 30 miliardi di dollari nel 2006. Dati e scenari sull'It applicata alla ricerca biomedica, al centro del convegno organizzato ieri a Roma dall'Istituto Isimm e dalla Farmindustria, hanno riaperto il dibattito sulle difficoltà della R&S nazionale rischia di soccombere. Secondo il presidente Farmindustria, Federico Nazzari, l'Italia può ancora cogliere l'opportunità della bioinformatica solo se alla «desertificazione» degli investimenti sarà contrapposta una politica basata su agevolazioni fiscali, sburocratizzazione, incentivi al venture-capital. E soprattutto se sarà chiusa la lunga stagione degli «interventi spot sui prezzi dei farmaci». Pronta la replica del sottosegretario all'Economia, Giuseppe Vegas: «Ci sono stati troppi interventi episodici e d'urgenza sui prezzi» - ha convenuto. Ma un intervento di consolidamento del settore sarà possibile, secondo Vegas, solo quando non si -rischieranno nuove esplosioni della spesa farmaceutica. Una speranza in tal senso - ha concluso - «dovrebbe venire dall'Agenzia italiana del farmaco» ma la vera via d'uscita sarà rappresentata «dai finanziamenti privati». Convinti invece della necessità di un'inversione di rotta in tema di risorse il presidente della commissione Istruzione del Senato, Franco Asciutti (Fi) («Meglio tagliare nel settore della P.A.») e il presidente della Commissione Finanze della Camera, Nicola Rossi (Ds), che ha tuttavia definito la R&S nazionale «Un secchio bucato: rischioso finanziarlo senza modificarlo». Tutti d'accordo quindi sulla scelta di una «azione di sistema» come indicato da Luciano Criscuoli (Ricerca), che affronti non solo l'aspetto economico ma anche il tema della qualità su progetti di partnership pubblico-privato. SARA TODARO ______________________________________________ La Nuova Sardegna 20 mag. ’04 SARDEGNA SOLUZIONE ALL'ARSENICO SASSARI. Comincerà domani alle 18,30 dall'ex Consorzio agrario di Olmedo, dove sosterà sino a lunedi, la mostra sulla lotta alle cavallette condotta in Sardegna nei primi 50 anni del secolo scorso. È la prima tappa di un giro che toccherà subito dopo Siligo, Ovodda, Baradili e Arbus. E che avrà un seguito estivo in località turistiche e trasmigrerà in autunno verso alcuni centri della Penisola. Un'iniziativa adottata non tanto perché, nonostante ripetuti allarmi, esistano nuovi pericoli di invasione dei voracissimi insetti, quanto per ricordare le quantità industriali di arsenico utilizzato come antidoto, l'unico allora disponibile. II percorso, che vuole essere prevalentemente una lezione di storia, è stato illustrato da Roberto Pantaleoni, docente di Entomologia applicata nella facoltà di Agraria di Sassari. Rivolta al grande pubblico, la rassegna non nasconde tuttavia anche un intento educativo a beneficio di generazioni forse all'oscuro di quella stagione che ha segnato in maniera pesante l'ambiente e l'uomo: se il fuoco è devastante, non lo è da meno l'arsenico che, pare ormai certo, quando non conduce alla morte, marchia in maniera irreversibile l'organismo umano. Nella gerarchia Usa degli elementi pericolosi l'arsenico ha soppiantato al primo posto il piombo. Spiega il docente: «Posso capire l'allarme per la presenza di arsenico nel Salto di Quirra, ma non si dimentichi che l'isola ne è stata inondata dagli Anni 30 in poi, con il picco massimo nel 1946 quando ci fu la più grossa invasione di locuste della storia sarda, dovuta probabilmente all'abbandono delle terre durante gli anni più intensi della guerra. Abbiamo accertato che in 20 anni sono stati utilizzati oltre 20 mila quintali di arsenito di sodio. L'effetto è sicuro, ma l'insetto muore a distanza anche di giorni. Ciò induceva gli operatori ad aumentarne la concentrazione causando cosi la morte anche di bovini e ovini. Più delle cavallette, oggi preoccupa la presenza dell'arsenico perché sembra che possa essere collegato alle neuropatie periferiche. Abbiamo trovato indicazioni in proposito e sappiamo che l'isola è una delle cime europee della sclerosi multipla». La mostra consiste in 25 pannelli: uno di introduzione, 12 di biologia e notizie attuali e altrettanti di carattere storico. Non mancano la riproduzione di un bronzetto nuragico ormai smarrito che raffigura una cavalletta che divora un proprio simile e quella del manifesto con cui il 24 febbraio 1946 il sindaco di Sassari Candido Mura annunciava la mobilitazione. La ricerca di documentazione fotografica e notizie è opera di due giovani curatori, Carlo Cesaroni e Alessandro Molinu, dell'Istituto per lo studio degli ecosistemi del Cnr, sezione di Sassari. «Vogliamo ricordare - dice Roberto Pantaleoni - che la lotta agli insetti è stata un fenomeno importante che ha interessato tutta la società: la gente chiedeva di partecipare. Coinvolti anche i veterinari Si ricorda Evraldo Piola di Samugheo: un suo studio è stato trovato nella Biblioteca nazionale di Roma. Allegata alla mostra, una raccolta delle pubblicazioni sulla lotta alle locuste, 640 pagine destinate a essere raccolte in volume e trasferite in un Cd che verrà dato alle biblioteche». Nei primi anni, il bestiame moriva avvelenato perché l'arsenico, reperibile anche nel Sarrabus, veniva utilizzato in soluzione acquosa. Non si dissolve ed è difficile che se ne modifichi la capacità di nuocere. La ricerca conferma la sua consistente presenza in una collinetta vicino a Bolotana e nei pressi di Orotelli. ______________________________________________ Repubblica 19 mag. ’04 IL DECRETO SUL "P2P" È LEGGE MA NON PIACE A NESSUNO Approvate le nuove norme sulla pirateria online volute da Urbani Maggioranza e opposizione d'accordo: "Vanno modificate" Il testo varato per non far cadere le misure a favore del cinema Il ministro Urbani ROMA - Il Senato ha approvato il decreto Urbani sulla pirateria. Diventa dunque legge il contestato provvedimento che introduce sanzioni amministrative e penali per chi scambia file protetti da copyright attraverso servizi peer-to-peer come KaZaA o WinMX. Una legge della quale tutti (il ministro proponente, la maggioranza, l'opposizione) riconoscono i limiti e che un senatore di Forza Italia definisce addirittura "deleteria per il Paese". Il decreto Urbani, varato a marzo in Consiglio dei ministri, arriva all'approvazione quasi fuori tempo massimo. Per questo, ieri il ministro dei Beni Culturali si è presentato in Senato chiedendo l'approvazione del testo senza modifiche e promettendo rimaneggiamenti futuri. "Chiedo al Senato il sacrificio di legiferare in modo normalmente ritenuto non opportuno, cioè attraverso lo strumento della decretazione d'urgenza", ha detto Urbani. Il testo licenziato dal Senato mescola in un unico calderone provvedimenti contro la pirateria e misure d'urgenza a sostegno dell'industria cinematografica. Il Governo ha fatto leva su queste ultime per ottenere l'approvazione della legge, promettendo che la parte riguardante la pirateria sarà riesaminata. "Ci troviamo a chiudere un provvedimento con un articolo, il primo, che è deleterio per il Paese", ha dichiarato Franco Asciutti, senatore di Forza Italia. "Non abbiamo risolto i problemi perché non c'è tempo di rimandare il decreto alla Camera". La vecchia legge sul diritto d'autore del 1941 prevedeva sanzioni penali per chi diffondesse materiale protetto "a fini di lucro". Il decreto Urbani modifica questa dicitura in "per trane profitto", una definizione che, secondo molte interpretazioni di giurisprudenza, include anche chi non ottiene un diretto guadagno pecuniario dallo scambio di file. In altri termini, gli utenti di KaZaA rischiano il carcere, mentre chi si scarica un brano protetto da copyright può ricevere una multa che va da 154 a 1.032 euro. Asciutti e i senatori dell'opposizione puntano il dito contro questo punto della legge e anche contro la previsione di un bollino Siae per i file scambiati su Internet e di una nuova tassa sui masterizzatori. La necessità di varare le misure a sostegno del cinema ha convinto anche l'opposizione a ritirare tutti i suoi emendamenti, sostituendoli con ordini del giorno nei quali si sollecita il Governo a modificare in tempi brevi la parte di legge riguardante lo scambio di file via Internet. Al momento del voto, i partiti della lista Prodi si sono astenuti, mentre Verdi e Comunisti italiani hanno votato contro. "Il nostro giudizio sul decreto Urbani è un giudizio doppio per un provvedimento doppio", ha spiegato il senatore ds Luciano Modica. "L'articolo sui reati di pirateria è completamente sbagliato". "Il decreto contro la pirateria è sbagliato nel metodo e nel merito", ha dichiarato il senatore verde Fiorello Cortiana. "Oggi finalmente abbiamo convinto anche il ministro Urbani, che in aula si è impegnato a presentare le necessarie correzioni. Abbiamo vinto una prima tappa, ma il nostro intento è vincere la corsa contro l'ignoranza sui temi di Internet e della società dell'Informazione". =========================================================== ______________________________________________ La Nuova Sardegna 20 mag. ’04 FACOLTÀ DI MEDICINA AL TOP IN ITALIA Rapporto sulla ricerca scientifica CAGLIARI. Medicina presenta un rapporto sulla ricerca scientifica. Lo scopo è anche farsi conoscere dai futuri studenti. La facoltà è tra le prime dieci in Italia per la ricerca e ha il minor numero di studenti fuori corso fra le facoltà cagliaritane. Medicina dà i numeri della produzione CLASSIFICA DEL CENSIS L'ateneo di Cagliari al sesto posto per il valore della sua ricerca CAGLIARI. Sesta in Italia per valore della ricerca secondo l'ultima classifica del Censis, la facoltà di medicina dell'ateneo di Cagliari divulgherà venerdì mattina il risultati della produzione dei suoi ricercatori, durante una manifestazione nell'Aula magna della Cittadella universitaria di Monserrato. Per iniziativa del preside Gavino Faa, sarà distribuito in 400 copie l'Annuario della ricerca della facoltà, una fotografia dei settori di eccellenza, fra i quali spiccano farmacologia, genetica medica, pediatria e biologia molecolare. Sono stati invitati, oltre ai docenti della facoltà, medici e direttori di dipartimento, i presidi delle scuole superiori, perché la giornata - ha sottolineato il preside - sia un'occasione di orientamento per gli studenti delle ultime classi che si apprestano a iscriversi all'università. Il 75% degli studenti in Medicina a Cagliari si laurea in corso, assegnando alla facoltà la migliore performance dell'ateneo. ______________________________________ L’Unione Sarda 22 mag. ’04 CAGLIARI: LA FACOLTÀ DI MEDICINA METTE IN MOSTRA I GIOIELLI «Abbiamo novanta progetti riconosciuti dalla comunità internazionale e centinaia di pubblicazioni su riviste La ricerca, innanzitutto. La facoltà di Medicina mette in mostra i gioielli. «Novanta progetti riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale», annota il preside Gavino Faa. Tra i padiglioni di vetro e acciaio della cittadella universitaria l’atmosfera ricorda i campus americani. Frotte di studenti attraversano le sale tappezzate di poster che sintetizzano i progetti, in mano il testo sacro della facoltà - La ricerca in Medicina - fresco di stampa. Centosessantaquattro pagine fitte di dati, nomi e cifre per dimostrare che questo pezzetto di università gode ottima salute. «È uno strumento di lavoro che permette di sapere qual è la nostra produzione scientifica». Ci sono punte di eccellenza? «Cinque, ma la cosa più importante sono tutte le altre realtà in crescita. Al di là delle torri che danno lustro e immagine restano tante ragioni per essere ottimisti, i nostri piccoli laboratori lavorano egregiamente in competizione con la comunità internazionale. Chi investe nella ricerca garantisce un futuro agli ospedali e ai pazienti. Abbiamo 210 ricercatori: dieci famosi, altri duecento bravissimi e sconosciuti. Il Censis ci mette al sesto posto in Italia, Tor Vergata è all’ottavo, Pisa al nono, Firenze al decimo. Qualunque Regione direbbe: ora dobbiamo aiutarli a diventare primi e invece niente. Non sono stati firmati i protocolli d’intesa per creare alcune figure professionali che mancano, c’è disattenzione. Cosa vogliono fare per il sistema sanitario regionale? Ce lo devono dire. Portare l’università sul territorio va benissimo, ma serve la programmazione. È più utile farli studiare a Nuoro o far conoscere agli studenti un’altra realtà per tre anni? Se si sceglie Cagliari, allora servono posti letto, mense, locali dove gli studenti possano incontrarsi. Per adesso la Sardegna è l’unica regione a non aver firmato i protocolli d’intesa. Faccio l’esempio degli infermieri: se non se ne creano di nuovi nel giro di qualche anno gli ospedali smetteranno di funzionare». Chi finanzia la ricerca? «Gli assessorati regionali a Pubblica Istruzione, Sanità e Programmazione, la Fondazione Banco di Sardegna. I fondi dell’ateneo sono in continuo calo, resistono quelli ministeriali. Per il resto, ciascun ricercatore si arrangia». Quanto pesa lavorare in un’isola? «Tanto. Ci vuole la continuità territoriale per i nostri ricercatori. Da Milano a Bruxelles, per un convegno, si può andare con l’auto. Noi dobbiamo partire il giorno prima, pagare l’albergo e il resto». Come giudica la didattica? «Il bravo ricercatore sa come insegnare, in che modo far passare il messaggio. Così si mettono le basi per far funzionare gli ospedali della nostra isola creando la ricchezza di tutti, non dei baroni. Formiamo bravi medici che andranno nel poliambulatorio di San Nicolò Gerrei, e quando qualcuno avrà problemi di salute sarà curato bene». Il libro sulla facoltà è uno spot pubblicitario. «Perché devo parlarne solo quando va male qualcosa? I poster sui progetti possono essere esposti in qualunque convegno internazionale, vuol dire che facciamo qualcosa di buono. È giusto farlo sapere. Sono contro un’idea elitaria della ricerca che purtroppo è diffusa. Mi sto impegnando perché questo lavoro non sia riservato solo ai figli di qualcuno. Alla presentazione del libro c’era anche il sindaco che ha detto una cosa importante: Cagliari ha bisogno di una solida facoltà di Medicina. Non sono tanti i politici che lo dicono in pubblico. Per esempio, nessuno dei candidati parla dei protocolli d’intesa non firmati, pochino anche di università». Anche da giornali e tv l’argomento snobbato. «Forse non abbiamo promosso abbastanza il nostro lavoro; siamo in tempo per cambiare strada». La ricerca ha ricadute economiche immediate? «Sì, ovviamente. Ci sono tumori che resistono alla chemioterapia. Si stanno scoprendo quali sono le molecole che fanno da scudo. A Cagliari sono stati fatti importanti studi sul Parkinson, la diagnosi prenatale della thalassemia». Il professor Gessa si butta in politica. Quale può essere il ruolo di uno scienziato? «Creare un’agenzia per la ricerca. Gessa può dare la sua immagine, la credibilità e i contatti a un’isola che ne ha tremendamente bisogno. Nel campo dello sport abbiamo una sensibilità unica, pensiamo a Zola. Perché non fare lo stesso discorso per Gessa?». Paolo Paolini ______________________________________________ La Nuova Sardegna 20 mag. ’04 Facoltà di Medicina nella top ten della ricerca L'università cagliaritana è al sesto posto e domani presenta il rapporto su tutti gli studi ora in corso CAGLIARI. Gavino Faa ordinario di anatomia patologica scoprì a Lovanio durante un congresso internazionale che, a Cagliari, una ricercatrice della sua stessa facoltà, aveva concluso uno studio dai risultati per lui interessantissimi. Oggi che è preside ha deciso di rimediare a questa incomunicabilità singolare visto che colpisce chi è abituato a illustrare il prodotto del suo lavoro su riviste diffuse fino all'altro capo della terra. Domani alla cittadella di Monserrato la facoltà di Medicina presenterà se stessa con una pubblicazione: "La ricerca in Medicina, monitoraggio della produzione scientifica". Manuale a uso interno ed esterno, di fatto è un rapporto che svela lo stato di salute dell'attività scientifica nostrana e permette un travaso di conoscenze immediato tra i settori. Domani sono invitati anche gli studenti delle scuole medie superiori. Ieri, nella sede dell'istituto di anatomia patologica, a casa sua, insomma, Faa ha tenuto una breve conferenza stampa per illustrare la giornata dedicata alla ricerca. Non l'ha detto, ma si è capito: domani, Medicina presenta la svolta verso una nuova concezione dello studio, della ricerca, della didattica, ma soprattutto delle relazioni umane dentro e fuori la facoltà. "Vogliamo presentare ciò che fa la facoltà di Medicina - ha detto il preside -. Fuori c'è una maggiore attenzione della comunità verso l'università in generale e Medicina in particolare. Ogni anno, su 170 posti di matricola che Cagliari offre, 500, 600 ragazzi chiedono di iscriversi: noi ci chiediamo che cosa sappiano della facoltà e domani è l'occasione per rappresentare le varie complessità di questo corso di studi". Lo schema della giornata ricalca il congresso scientifico: ci saranno infatti i poster (180) che sono le schede appese al muro dove ogni gruppo di ricerca racconta cosa fa e quali risultati ha ottenuto. Cominciamo dai risultati: nella classifica Censis delle facoltà di Medicina Cagliari, a proposito della ricerca scientifica, s'è guadagnata il sesto posto. La precedono Genova, Torino, Brescia, Udine, Padona, le stanno dietro Trieste, Roma Tor Vergata, Pisa, Verona, Firenze. Il monitoraggio che verrà presentato domani darà conto di questo risultato "di grande rilievo", spiegava Faa: "Il monitoraggio è stato fatto da una commissione presieduta da Amedeo Columbano. Sono partiti dalla banca dati Pub Med dove risulta il numero di pubblicazioni su riviste scientifiche per ciascuna facoltà e il numero di docenti, così si è ricavato il rapporto medio docente/pubblicazioni. Si è passati poi alla valutazione della qualità dei lavori scientifici, il parametro è il cosiddetto fattore di impatto (tiene conto dell'importanza delle riviste, delle copie vendute ecc.): si è scoperto che è elevato, i nostri lavori vengono pubblicati nelle migliori riviste del mondo. In tutto in questo momento ci sono 90 progetti e un progetto di ricerca per essere definito tale deve avere una serie di requisiti molto seri". Siccome Medicina è anche didattica, ecco qualche dato sullo stato di salute della facoltà. Negli ultimi quattro anni sono aumentati di numero gli studenti che si laureano nella prima sessione del sesto anno. Ormai, uno studente su tre "ce la fa" in sei anni ("e sono anche molto bravi", aggiungeva Faa ieri). Altro dato: nel 2002-2003, il più alto numero degli studenti in corso (il 73 per cento) fra tutte le facoltà ce l'ha proprio Medicina. Non si tratta di risultati casuali. Da alcuni anni vengono presi sul serio alcuni strumenti di valutazione, come il questionario degli studenti "che ci sta aiutando - spiegava Faa - perché attraverso le risposte in vari casi sono state modificate le tecniche di insegnamento. Naturalmente non si è trattato di incidere sulla libertà di insegnamento, i docenti sono stati i protagonisti di questi cambiamenti". Dalle schede degli studenti emergeva che il 10 per cento degli esami, corrispondenti a 20 cattedre, costituiva un blocco nella progressione degli studi. "Abbiamo lavorato sul concetto di "insegnare bene" - semplificava ieri il preside Faa - che significa tenere alto il livello di attenzione, saper comunicare". E' il grande tema della formazione dei formatori: un superargomento per la prossima volenterosa raccolta di dati? Alessandra Sallemi ______________________________________________ La Nuova Sardegna 20 mag. ’04 L'ISOLA DEVE FORMARE 328 PARAMEDICI L'ANNO: IMPOSSIBILE Il preside Gavino Faa spiega dell'urgenza di programmare su docenti, aule, servizi CAGLIARI. Ieri non si poteva non parlare del protocollo d'intesa per l'azienda mista che era pronto, piaceva, ma non si farà lo stesso. Riassunto della vicenda: una commissione (di cui facevano parte anche i due presidi delle facoltà sarde) elabora il protocollo per l'ospedale universitario, il documento finisce sul Sole 24 Ore che elogia l'equilibrio trovato tra universitari e ospedalieri, il documento viene presentato a tutte le parti in causa, gli ultimi ritocchi chiesti dagli ospedalieri non vengono accolti dall'assessore, quelli degli universitari sì. Si ribellano gli ospedalieri che temono il giogo imposto dai soliti "baroni" in camice bianco. La ribellione raggiunge il mondo politico che non si preoccupa minimamente di trovare un'intesa seppure a tappe forzate e lascia morire il documento nel cassetto. Neppure gli ospedalieri sono stati contenti di questo (la situazione attuale dei rapporti con gli universitari è giudicata molto pesante) e ieri Faa, sollecitato dalle domande, non ha nascosto che la vicenda è grave. "Io credo che si dovrebbe fare uno sforzo per superare il blocco - commenta Faa, che è stato ospedaliero per dieci anni e conosce bene un mondo e anche l'altro -, ciò che non è stato inteso fino in fondo, forse, è che il protocollo d'intesa non doveva essere un documento finale ma l'inizio, finalmente, di un dialogo. Doveva essere l'inizio di un processo. Dopo la stipula dei protocolli c'erano due passi fondamentali da compiere: la nomina del direttore generale, da fare congiuntamente tra Regione e Università e soprattutto l'atto aziendale, che è la vera cornice di riferimento dei rapporti tra mondo ospedaliero e mondo universitario". Insomma, anche se gli universitari, secondo gli ospedalieri, alla fine ci hanno messo lo zampino per tenersi qualche privilegio, c'è chi pensa che valesse la pena di lasciar fare pur di arrivare al momento del protocollo, ponte verso gli atti dove la partita dell'equilibrio si poteva giocare, invece, fino in fondo. Per il funzionamento della facoltà di Medicina l'intesa con la Regione è indispensabile. Ieri il preside ha mostrato una tabella dove risultano i fabbisogni di personale paramedico regione per regione, elaborati sulle richieste presentate nella conferenza Stato-Regioni: la Sardegna dovrebbe formare ogni anno 328 paramedici. Cagliari, l'anno scorso, con le lauree brevi bloccate, ha grattato un po' di risorse interne ed è riuscita a diplomare appena 30 infermieri. "La facoltà di Medicina di Cagliari è chiamata dalla legge a immatricolare ogni anno 170 aspiranti medici e 200 aspiranti tra infermieri, dietisti, tecnici ortopedici, fisioterapisti ecc. E' un enorme problema di programmazione del lavoro della facoltà: servono i professori, le aule, i servizi. La Regione deve aiutare a programmare, non a gestire. Se mi viene chiesto che l'università vada nel territorio, devo mandare i docenti a Nuoro, li devo togliere dal ruolo a Cagliari. Se facciamo venire gli studenti bisogna creare mense, aule, strutture, luoghi dove stare tra una lezione e l'altra: ecco a cosa serve la programmazione, ecco cosa deve mettere in moto il protocollo d'intesa". (a. s.) ______________________________________________ La Nuova Sardegna 21 mag. ’04 NASCE IL CENTRO SARDO PER I TRAPIANTI DI FEGATO Autorizzati gli interventi in una struttura bipolare che coinvolge Sassari e Cagliari SASSARI. La giunta regionale, su proposta dell'assessore alla Sanità Roberto Capelli, ha istituito il Centro per i trapianti di fegato. Sarà articolato in due poli: uno individuato al Brotzu di Cagliari e l'altro a Sassari, dove agiranno in simbiosi il reparto di Chirurgia d'Urgenza del Santissima Annunziata guidato da Nicola D'Ovidio e la Clinica Chirurgica universitaria diretta da Giuseppe Dettori. Adesso a Sassari prenderà il via l'iter per la verifica dell'idoneità dei locali mentre si stanno predisponendo le liste di attesa. Il primo trapianto dovrebbe potersi eseguire in autunno. Via anche ai trapianti di fegato La giunta regionale ha deliberato La decisione prevede l'istituzione di un centro operativo e due poli: uno all'ospedale Brotzu di Cagliari l'altro sorgerà al "Santissima Annunziata" di Sassari SASSARI. Per i malati sardi una speranza in più. Ieri la giunta regionale ha autorizzato i trapianti di fegato in Sardegna con l'istituzione di un centro operativo e due poli: uno individuato al Brotzu di Cagliari e l'altro a Sassari. Quest'ultimo verrà condiviso dal reparto di Chirurgia d'Urgenza del Ss Annunziata e dalla Clinica Chirurgica dell'Università. Una conquista per la sanità isolana, che dovrebbe mettere fine al sacrificio dei pazienti costretti a spostarsi nel continente o all'estero. Ma anche un notevole ammortamento di costi per le aziende sanitarie, che potranno investire quei fondi nel funzionamento ad alto livello dei due poli. "La notizia mi è stata data dagli assessori alla Pubblica Istruzione Tonino Falchi e da quello alla Sanità Roberto Capelli - commenta Nicola D'Ovidio, primario del reparto di Chirurgia dell'ospedale civile cittadino - e la apprendiamo con grande soddisfazione. Si tratta di una decisione che aspettavamo da tempo e che, credo, fosse doverosa. In realtà ci stiamo già mettendo al lavoro: la nostra equipe è in training all'università La Sapienza proprio perchè si possa partire con gli interventi appena possibile". La delibera dunque è di ieri ma i tempi tecnici per rendere operativo il centro non consentono di fare programmi a brevissima scadenza. Secondo i medici responsabili delle strutture l'attività potrà decollare in autunno. C'è infatti da verificare, prima, l'idoneità dei locali candidati ai trapianti e apportare modifiche se necessario. Come era già avvenuto per i trapianti di rene che a Sassari si fanno da diversi anni (a oggi ne sono stati portati a compimento circa 150 al Santissima Annunziata), un tecnico visiterà le sale, le strutture e i macchinari per la degenza post-operatoria e se sarà necessario dovranno essere fatti gli adeguamenti del caso. "Esprimo grande soddisfazione - dice il direttore della Clinica Chirurgica Giuseppe Dettori - per un provvedimento che gioverà all'utenza. Certo, siamo in ritardo rispetto a Cagliari ma il fatto che si cominci prima al Brotzu ci consente di fare tutto con calma. Intanto stiamo già predisponendo le liste di attesa. Ora la palla passa alla direzione della Asl che si deve attivare per l'adeguamento dei locali". Una innovazione, quella dei due poli per i trapianti, quantomai auspicabile in Sardegna. Soprattutto perchè la nostra figura fra le regioni italiane dove è maggiore l'incidenza di epatite B e C, malattie dalle quali deriva frequentemente la cirrosi epatica, patologia che, insieme ai tumori del fegato, rappresenta l'indicazione prioritaria per il trapianto. Secondo le stime fornite dagli operatori sono circa 25 i pazienti che ogni anno in Sardegna entrano in una lista d'attesa nazionale di 1500 nomi e sono altrettanti i donatori che nella nostra isola manifestano nello stesso periodo la loro disponibilità. È facile quindi intuire che, essendo reale la possibilità di trapiantare in Sardegna, gli organi donati rimarrebbero nel nostro territorio. Un economia di tempo non indifferente, ma anche un risparmio enorme. Si pensi che le aziende sanitarie locali sono tenute a rimborsare una media di 80 mila euro per ogni intervento, sempre che non ci siano complicazioni, e che il trapianto sia eseguito dentro i confini nazionali. In più sono da considerare le spese di viaggio per due persone e di soggiorno per l'accompagnatore, soggiorno che può andare da 15 giorni a tre mesi. Si tratta di fondi che potrebbero essere impiegati dal sistema sanitario per far funzionare al meglio i centri isolani. "Ritengo che a Sassari abbiamo le forze necessarie, fatte di strutture e di competenze professionali per portare avanti questa attività - aggiunge Nicola D'Ovidio -. L'autorizzazione c'è, non resta che gettare le basi per realizzare quello che per la sanità sarda è un traguardo importante". E non si può non ricordare la polemicha che nel marzo scorso accompagnò l'esecuzione di un trapianto di fegato al Brotzu, in un centro non autorizzato. Intervento realizzato, tra l'altro, a pochi giorni dalla tragedia aerea dei Sette Fratelli nella quale persero la vita il cardiochirurgo Alessandro Ricchi e i suoi collaboratori. Tutto ciò mentre da tempo a Sassari si attendeva la delibera delle giunta regionale che consentisse di far decollare il centro trapianti. Da allora la sanità sarda ha attraversato momenti molto difficili, compreso il terremoto causato dalla morte di un paziente nel reparto cittadino di Cardiochirurgia. Adesso la delibera c'è, e sembra un buon punto da cui ricominciare. Gabriella Grimaldi ______________________________________________ La Nuova Sardegna 21 mag. ’04 DIFFICILE ANDARE IN MEDICINA... TEMPIO. La bestia nera sono sicuramente medicina e odontoiatria. Sono questi i due corsi di laurea che, con i loro test d'ammissione, mietono il maggior numero di vittime. Sono anche, insieme a veterinaria, due facoltà che propongono prove di accesso decise direttamente dal ministero su base nazionale. Si pensa che i corsi di laurea a numero programmato siano destinati ad aumentare e che "isole felici" (le facoltà di indirizzo umanistico, ad esempio) possano introdurre nei prossimi anni prove di ingresso non più soltanto di tipo attitudinale. Il test, considerato da molti docenti come un'"americanata" poco in linea con la tradizione didattica italiana, è del resto un tipo di prova che si sta facendo strada anche nelle scuole superiori. Basterebbe pensare alla terza prova scritta dell'esame di Stato e all'uso crescente che ne fanno gli insegnanti di tante materie. G.Pu. ______________________________________________ Repubblica 21 mag. ’04 SANITÀ, SPESE FOLLI PER OSPEDALI E FARMACI Consulenze d'oro, bollette record. Sirchia: stretta in arrivo Il ministro contro l'industria: "Non rispetta i tetti" di MAURIZIO PAGANELLI ROMA - Se nella sanità laziale un intervento sul cristallino viene remunerato fino a 2.928 euro, in Emilia l'identica operazione ha un costo massimo di 665 euro. Ancora: analizzando i 606 reparti di chiurgia generale italiani si scopre che la degenza media pre-operatoria è di 3,5 giorni, mentre nell'ospedale di Montegranaro (Ascoli Piceno) o nel presidio ospedaliero unificato di Sanremo come a Castelnuovo di Garfagnana si oscilla tra i sette e i nove giorni di attesa. Parliamo di spese? La media nazionale per giornate di degenza nelle aziende ospedaliere alla voce "acquisto di prodotti sanitari" (dai medicinali ai materiali diagnostici, chirurgici o protesici) è di 138 euro, ma al siciliano Civico Di Cristina la spesa supera i 161 euro, ed oltre i 150 c'è il San Carlo in Basilicata o il Sant'Anna di Como, mentre al Morelli di Sondalo (Lombardia) si spendono 56 euro e 86 alla genovese Villa Scassi. "Anomalie, possibili gravi fenomeni distorsivi", è la diagnosi del rapporto curato da Raffaele Costa e Gianfranco Cassissa, ai quali il ministro della Salute, Girolamo Sirchia, ha affidato l'incarico di scoprire sprechi e anomalie nella spesa sanitaria. É una corposa indagine su 572 bilanci del 2002 di Asl e aziende ospedaliere. Il ministro, durante la presentazione del rapporto, ha preferito concentrarsi sulla spesa farmaceutica e lo ha fatto in modo particolarmente duro: "Le aziende farmaceutiche non collaborano nel mantenimento dei tetti di spese, dunque dovremo attuare interventi correttivi di fronte a una politica dell'industria irresponsabile". Si parla di un più stretto monitoraggio sui medici e di misure per favorire i farmaci generici mentre Sirchia è contrario al passaggio all'assistenza indiretta per le regioni inadempienti. Ma torniamo al dossier. Fidandosi delle cifre dei bilanci di Asl e ospedali, si fanno curiose scoperte. Per esempio: l'attività libero professionale entro le mura ospedaliera (intramoenia) è in passivo in 40 aziende, cioè i proventi pagati dal cittadino per visite ed esami in regime "privatistico" sono assai inferiori (e in 4 casi inesistenti!) rispetto ai soldi erogati per la "compartecipazione al personale". Le consulenze esterne? Nonostante un organico sanitario che sfiora le 650 mila unità il ricorso alle consulenze tra il 2001 e il 2002 è aumentato del 15% (da 441 milioni di euro a 506 milioni), con costi per posto letto che viaggiano anche oltre i 7 mila euro. Un fenomeno diffuso soprattutto nelle aziende ospedaliere lombarde. Vogliamo parlare dei costi del telefono? Una media di 800 euro annui a posto letto contro i 653 del 2001. Sotto osservazione anche l'uso improprio del ricovero rispetto al day hospital od un'allegra gestione in termini di rimborsi per interventi chirurgici complessi giocando sui giorni di ricovero. Poi il rapporto medici/infermieri: una media di 2,65 infermieri ogni medico ma si arriva in 13 strutture ad un rapporto inverso (77 medici e 32 infermieri all'ospedale campano dell'Annunziata; 41 medici e 18 infermieri nel lombardo Moriggia Pelascini di Gravedona). Né va meglio tra il personale amministrativo con un numero di direttori sproporzionato in Puglia, Campania, Sicilia e Calabria. L'utilizzo dei posti letto è un problema storico: quello minimo dovrebbe attestarsi al 75%, la curva dell'utilizzo è invece in diminuzione. Sul fronte farmaceutico si spezza una lancia a favore dei medicinali generici (i fuori brevetto con costi assai più bassi) e si conferma una spesa maggiore nei capoluoghi. Una curiosità è legata all'uso della penicilllina. In Liguria vengono prescritte 9,5 dosi al giorno ogni millle abitanti (media 14,8) in Campania si arriva a 25,7 dosi. "Su tutto questo occorrerà indagare e controllare, individuando le migliori pratiche", ha concluso Sirchia. ______________________________________________ Corriere della Sera 20 mag. ’04 MEDICI, ABOLITA L' ESCLUSIVA MA GLI SCIOPERI RESTANO La controriforma non blocca le proteste per il rinnovo del contratto Ogni anno, entro il 20 novembre, dovranno comunicare all' azienda se intendono lavorare in regime di intramoenia o no Saranno liberi di scegliere la libera professione senza rinunciare alla carriera De Bac Margherita ROMA - «Ora però bisogna trovare il modo di evitare lo sciopero». Confabulavano ieri mattina il ministro Girolamo Sirchia, il presidente della Commissione sanità alla Camera Giuseppe Palumbo e alcuni rappresentanti dei sindacati medici. L' assemblea di Montecitorio stava per approvare il decreto che, tra l' altro, modifica il rapporto di lavoro dei dipendenti ospedalieri col servizio sanitario. Decade il principio dell' esclusività a vita. Ogni anno, entro il 20 novembre, i camici bianchi comunicheranno all' azienda se intendono lavorare in regime di intramoenia (libera professione svolta in ospedale, in cambio di un' indennità) oppure in extramoenia (libera professione esterna). Prende forma, con un atto concreto, la reversibilità, vecchia promessa del centrodestra. RINNOVO DEL CONTRATTO - Soddisfatta una parte del mondo medico, mugugna l' altra metà. Ma gli uni e gli altri, uniti, pensano al «vero» ed impellente problema: il rinnovo del contratto scaduto da oltre due anni. È stato proclamato un nuovo sciopero per il 3 e 4 giugno da tutte e 50 le sigle sindacali. Parlavano di questa scadenza, ieri mattina, Sirchia e una serie di personaggi incontrati al convegno sui rapporti tra Servizio sanitario e università organizzato a Roma. Il governo lavora per scongiurarla, per offrire alla controparte una soluzione capace di indurla ad accettare l' armistizio. Sono in corso dei contatti, coinvolte ovviamente le Regioni che in materia di sanità hanno ormai il coltello dalla parte del manico. Il vicepremier Gianfranco Fini si sta occupando in prima persona della faccenda. IRREVERSIBILITA' - Lo scardinamento dell' irreversibilità del rapporto di lavoro tra medici e servizio sanitario è una spallata violenta alla riforma impostata 4 anni fa dall' ex ministro Rosy Bindi, oggi deputato della Margherita. Prende avvio quel processo di «debindizzazione», accelerato dal premier Silvio Berlusconi dopo una lunga fase di stallo. Dopo una cinquantina di tentativi falliti (bozze di proposte di legge), la promessa della Casa delle Libertà è nero su bianco. È stato necessario però un emendamento inserito in un decreto legge più generale, sulle emergenze sanitarie. Non solo. Per non rischiare nuove sorprese il governo ha chiesto e ottenuto la fiducia martedì. Ieri il voto finale. NUOVE SCADENZE - Il provvedimento, che ripercorre il testo firmato da Alberta Casellati, Forza Italia, era già passato in Senato. Non manca che la firma del presidente della Repubblica Ciampi e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Si parte già quest' anno con le nuove regole. Entro il 20 di novembre i medici comunicheranno all' azienda quale tipo di rapporto vogliono portare avanti a partire dal 1° gennaio del 2005. E così ogni anno, con le stesse scadenze. Chi opta per l' extramoenia riacquista il diritto a ricoprire i «ruoli apicali»: primariati di strutture semplici o complesse. Con l' attuale sistema, era costretto a rinunciare alla carriera. L' indennità, 750 euro al mese di media, spetta solo a chi mantiene (e sono il 95% dei camici bianchi) o abbraccia per la prima volta la libera professione nel pubblico. Resta in vigore fino al nuovo contratto di lavoro il tempo definito, categoria già in fase di estinzione naturale. REAZIONI - «È la fine di un' ingiustizia durata troppo a lungo. Abbiamo rispettato i patti. Adesso pensiamo al contratto. L' atto di indirizzo (il documento necessario all' agenzia Aran per cominciare la tessitura, ndr) deve essere modificato, sono in corso incontri tecnici. Il vicepremier Fini si sta dando da fare perché gli impegni vengano rispettati», si dice sicuro di un secondo goal il sottosegretario alla Salute, Cesare Cursi. Mugugnano le Regioni. Ritengono che l' indennità di esclusiva non dovrebbe più essere garantita dalle loro casse visto che è nata per risarcire i medici di un diritto perduto, ora restituito. Secondo Rosy Bindi «il voto della Camera calpesta il servizio sanitario nazionale ossia il diritto alla salute. Ha vinto la sanità del mercato, del denaro, dei baroni». Livia Turco, Democratici di sinistra, giudica «una beffa e un danno» la risposta della maggioranza. Soddisfatta «Intesa medica» il cartello che riunisce le sigle Anpo, Cimo e Cisl («le Regioni non hanno alibi devono fare l' atto di indirizzo per il contratto»). Critica l' Anaao: «Eccesso di deregolamentazione», per la Cgil parla il leader Guglielmo Epifani: «Un non senso». SCIOPERI - Lo sciopero del 3 e 4 sarebbe l' ultimo di una serie avviata a febbraio. I motivi: oltre al mancato rinnovo del contratto, i timori sullo smantellamento del servizio pubblico. In stato di agitazione anche i medici di famiglia che aspettano di rinnovare la convenzione. «Deludenti» sono state definite le prime mosse della trattativa. Margherita De Bac COM' E' OGGI 1 Vige il principio dell' esclusività a vita, introdotto dall' ex ministro Bindi: i dipendenti ospedalieri sono tenuti a scegliere se lavorare in intramoenia o extramoenia, senza poter tornare indietro 2 I dipendenti ospedalieri che scelgono di svolgere la libera professione nello studio privato (cioè il rapporto extramoenia) devono rinunciare alla carriera all' interno dell' ospedale. Non possono diventare primari I dipendenti che scelgono il rapporto di lavoro in intramoenia, cioè la possibilità di svolgere in ospedale la libera professione, ricevono un' indennità pari a 750 euro al mese di media 3 I medici hanno proclamato per il 3- 4 giugno uno sciopero a cui parteciperanno le 50 sigle sindacali. Chiedono il rinnovo del contratto di lavoro e garanzie contro il presunto smantellamento del servizio sanitario L' indennità spetta solo a chi mantiene il rapporto di lavoro intramoenia o sceglie di rientrarvi dopo aver optato per l' extramoenia. Oggi il 95% dei medici lavora in intramoenia e in futuro dovrebbe cambiare poco COSA CAMBIA Viene introdotta la reversibilità dell' esclusiva: ogni 20 di novembre i medici comunicheranno all' azienda quale tipo di rapporto vogliono applicare per l' anno successivo, se intramoenia o extramoenia Chi sceglie l' extramoenia, cioè la possibilità di svolgere delle visite nello studio privato, riacquista il diritto ad ottenere i cosiddetti «posti apicali» in ospedale: primariati di strutture semplici o complesse In cambio dell' annullamento dello sciopero, i medici chiedono che il governo metta subito mano all' atto di indirizzo per il rinnovo del contratto. La reversibilità dell' esclusiva, dicono, non è sufficiente ______________________________________________ Repubblica 21 mag. ’04 NUOVI DOTTORI IN BILICO TRA CONTRATTO E BUDGET IN ROSSO A rafforzare il disagio anche l'assalto al Servizio sanitario "Noi peones senza potere schiacciati dalla burocrazia" Declino di una professione, dai fasti degli anni '60 alla dipendenza dai direttori Asl sotto i 55 anni di GIULIO ANSELMI MILANO - Negli anni Sessanta il sogno dei genitori italiani era avere il figlio Dottore. Cioè medico, non semplicemente laureato per il biglietto da visita o per guadagnare qualche scatto di carriera con anni fuori corso a legge o scienze politiche. E' stato un sogno perseguito con tenace determinazione. "E oggi i medici sono 330 mila, guadagnano poco e prendono ordini dagli impiegati", dice Eolo Parodi, santone della professione, gran capo per un'eternità dell'Ordine, ora presidente dell'Enpam, il ricchissimo ente previdenziale della categoria. Mettere i medici tra i nuovi poveri sarebbe evidentemente un assurdo. Ma i vecchi baroni che sembrano usciti da film di Alberto Sordi, con ville in Sardegna e a Cortina e un sicuro piglio mondano, sono percentualmente un numero molto basso. La gran parte della categoria, circa il 70%, vive di solo stipendio, da 1600 fino a 3500-4000 euro netti al mese. Somme certo non disprezzabili, ma lontane dalla ricchezza: soprattutto se si considera che al 25% dei "dottori", che aggiungono alla retribuzione altri diecimila euro lordi all'anno, si contrappongono circa 80 mila semioccupati che tirano avanti alla meno peggio, tra contratti precari e terapie alternative. "Dall'inizio degli anni Novanta abbiamo subito una netta perdita di potere d'acquisto. Facciamo contratti in ritardo e non portiamo a casa nemmeno il recupero dell'inflazione: solo con estrema fatica, un mese e mezzo fa, siamo riusciti a ottenere che ci pagassero la differenza tra inflazione reale e programmata per il 2001", dice Stefano Biasioli, primario nefrologo a Legnago (Vicenza) e leader del Cimo, organizzazione dei medici ospedalieri di centrodestra. "Appena laureato, negli anni Sessanta", esemplifica Marco Perelli Ercolini, chirurgo milanese, "con uno stipendio ho comprato la Cinquecento. Ora, per una macchina analoga, ci vogliono due mensilità e mezzo o tre". Con l'eccezione di poche star, non è più una carriera brillante, dicono clinici e praticoni. E citano come prova il fatto che tra i peones siano sempre più numerose le donne, con gli uomini pronti a spalancare le porte dei settori non più tanto convenienti: infatti molti medici di famiglia, ma pochi dentisti, sono donne. Oggi, secondo i dati Enpam, un terzo della medicina è al femminile, e addirittura la metà dei nuovi ingressi nella professione. "E' inutile lamentarsi tanto: siamo troppi, molti più che in Francia, Germania, Inghilterra", logico che si guadagni di meno, dice Perelli. Al di fuori della categoria, non lo si sa: l'Italia ha cominciato a esportare medici che non trovano impiego in patria. Venti sono appena andati in Gran Bretagna. Ma, prima che economico, il problema è di status, oggi avvertito "al minimo". I medici sentono di non contare come prima. Intanto, non comandano più. "Ho cominciato nel '63. Allora, col camice, indossavamo l'aura che ne derivava, avevamo potere e prestigio", ricorda Serafino Zucchelli, primario (ora si dice "direttore") del dipartimento di emergenza-urgenza a Modena e leader dell'Anaao, il sindacato più grosso di medici dirigenti (i vecchi aiuti e assistenti), circa 18 mila iscritti di orientamento riformista. "Negli ospedali non c'erano grandi apparati burocratici, noi dottori eravamo tutto, non dovevamo rendere conto a nessuno. Prendevamo stipendi bassissimi, ma c'era la libera professione". Poi la partitocrazia è entrata nella sanità e le ha assestato un colpo mortale, le Usl (ora Asl) sono state valutate come fonte di voti, un medico di famiglia con 1500 assistiti è apparso un ottimo veicolo di propaganda, sono arrivati gli uomini degli sportelli, dei timbri, dei certificati. "I partiti hanno cominciato a mettere a posto i medici-strumenti. Noi, frustrati, abbiamo abbassato la testa", ammette onestamente Parodi. La guerra alla burocratizzazione della professione, che si traduce in dipendenza dai direttori generali della Asl, funzionari di stretta obbedienza politica e sistemano i direttori a loro piacimento, con assoluta indifferenza per meriti e concorsi, è uno degli elementi del disagio che ha portato tutti i medici a fare sciopero e 25 mila di loro a sfilare in corteo a Roma: gli altri sono il mancato rinnovo del contratto e l'attacco concentrico al Servizio sanitario nazionale. Quello del Ssn, per quasi tutti i camici bianchi italiani, è un totem, simbolo dei risultati raggiunti dalla categoria e linea del Piave dell'efficienza. Tutto il resto - intramoenia, extramoenia, reversibilità (parole un po' misteriose che stanno a significare molte ragioni di scontro, come vedremo), è discutibile, ma le classifiche internazionali e vari parametri, dall'allungamento della vita alla caduta della mortalità infantile, dimostrano che i medici di casa nostra, malgrado le minori risorse, forniscono un servizio che è considerato il secondo al mondo, dopo quello francese. E vogliono continuare a farlo. Anche perché, dice l'assoluta maggioranza, la professione si può esercitare meglio nel pubblico che nel privato, che piega tutto alle esigenze economiche. C'è, però, un pericolo imminente di crollo: le Regioni, anche le più virtuose, come Piemonte, Emilia, Veneto, sono al collasso e tutte, governate dal centrodestra o dal centrosinistra, in urto aperto col governo, che nega i trasferimenti richiesti e impedisce loro una propria imposizione fiscale. Per di più incombe la devoluzione di Bossi, con la sua "competenza esclusiva" in materia sanitaria e altissimi costi. "Il 2004 è l'anno del grande buco, ha detto il presidente piemontese Ghigo, "il prossimo sarà l'anno di non ritorno". Se continua così crolla tutto. "Mentre noi vogliamo salvare il sistema, il suo finanziamento e la sua unità", dice Zucchelli. "Il governo fa una proposta indecente: non rinnovare i contratti per trovare i soldi necessari agli sgravi fiscali e, in cambio, consentirci di lavorare dentro o fuori dagli ospedali senza penalizzazioni e con possibilità di ripensamenti. Un bel vantaggio per chi vuole decidere dove e quanto lavorare (faccio poco in ospedale e poi divento Mandrake in clinica), avere prezzi incontrollati e non pagare le tasse". Il cambiamento previsto dal centrodestra, e già approvato in Parlamento, si chiama reversibilità. Rappresenta una rivoluzione ideologica a 360 gradi rispetto al modello Bindi: tanto, riferiscono alcuni medici presenti all'incontro col ministro Sirchia, che sulla cartellina del progetto governativo stava scritto "Proposta di debindizzazione della sanità italiana". Verità o leggende, la pugnace democristiana spacca ancora nettamente la categoria. Anche prima c'erano state riforme (Mariotti) e controriforme (De Lorenzo), ma mai un ministro aveva scatenato tante approvazioni e tanti odi. Dice Biasioli, che nella primavera del '99 bruciò una sua statua in cartongesso: "La Bindi partiva dal concetto che il dipendente pubblico dovesse una dedizione integrale all'ospedale: chi voleva fare la libera professione fuori, cioè l'extramoenia, era escluso dalla carriera e non poteva essere primario. In cambio mise sul piatto un po' di soldi, 750 euro per i direttori e 550 per gli altri medici disposti a restare". Meno del cinque per cento scelsero di uscire e ben pochi, si calcola meno del dieci, sarebbero disposti a rientrare, per non rinunciare al milione circa d'indennità di esclusiva. Ma "cancellare la Bindi" (che, va detto, ebbe qualche asprezza e qualche toscanità di troppo nel suo scontro con i vecchi poteri) è per il centrodestra un fatto di bandiera. Anzi, dicono, "di libertà". Potrebbe sembrare un affare di corporazione. Ma dietro, secondo la maggioranza dei camici bianchi, c'è un'ostilità di fondo per tutto ciò che è pubblico. Così, alla volontà di favorire cliniche e istituzioni private, ispirate da una logica mercantile, denunciata, tra gli altri, da Mario Viganò, primario cardiochirurgo a Pavia, si saldano le distorsioni dell'intramoenia, che offrono corsie preferenziali a chi paga. "Vogliono riabituare i cittadini a pagare di tasca propria", dice Mario Falconi, presidente dell'Ordine di Roma, il più grande d'Europa con 35 mila iscritti e segretario generale del Fimmg, il sindacato dei medici di famiglia. "Non vorrei che la solidarietà facesse un passo indietro, nel nome, anche qui, del mercato". Lo scontento per uno stato sociale che si avverte sempre più patrigno si scarica in primo luogo sui medici. I malati, suggestionati anche da giornali e tv, sono sempre meno "pazienti". I sanitari devono cumulare più ruoli, quello sanitario e quello manageriale, un occhio al budget l'altro alla malattia, spesso impossibilitati a soddisfare i bisogni, veri o presunti, dei cittadini. Vengono sottoposti a valutazioni triennali o quinquennali. E spesso sono, e si sentono, inadeguati. Molti hanno ancora la testa rivolta al passato, parlano di ars medica, rifiutano di far di conto e dimenticano le fatture, si rifugiano in un'arroganza castale che rende difficile ottenere giustizia a un cittadino che si rivolge all'Ordine (col reciproco aumento delle cause civili e penali). Ma la maggioranza dei dottori capisce che non si possono moltiplicare gli esami, che i ricoveri non devono essere disposti in base alla disponibilità a pagare o alla paura di complicazioni ma per urgenze reali, in modo da non sottrarre risorse a chi potrebbe averne bisogno. In sintesi, far convivere gli interessi della categoria con quelli generali della collettività. I più attenti si sono convinti che tutto il sistema ospedalocentrico va cambiato, mentre, con l'invecchiamento della popolazione, muta la domanda di salute. "Se non ci si sente apprezzati, bisogna essere capaci di fare la diagnosi", dice Falconi. "Siamo tecnicamente tra i migliori del mondo, ma non basta. Forse curiamo, ma non ci prendiamo cura". Dal paese arriva un segno che ferisce ciò che resta dell'autostima dei medici: nove milioni di italiani ricorrono alle terapie alternative. Accanto al mito di Ippocrate giganteggia il fantasma del guaritore Di Bella. ______________________________________________ Corriere della Sera 21 mag. ’04 L' EFFICACIA DEI FARMACI I costi della sanità pubblica Remuzzi Giuseppe C' è un libro (bellissimo) di Daniel Callahan «What price better health?» sarebbe «Star bene, ma a che prezzo?». E' un po' quello che sta succedendo in questi giorni, con i farmaci. E non solo in Lombardia, ma dappertutto. L' anno scorso il mondo ha speso di farmaci 317 miliardi di dollari. Nei Paesi industrializzati la gente prende così tanti farmaci che ci si comincia a preoccupare dell' effetto sull' ambiente. I farmaci vanno nel sangue e vengono eliminati con le urine. Così finiscono nell' acqua. Nel ' 54 il profitto della Johnson and Johnson era 204 milioni, oggi sono 36 miliardi (di dollari, all' anno). E la Merck Sharp and Dohme nel ' 54 vendeva per 1,5 milioni, nel 2002 sono stati 52 miliardi (di dollari). Ma, nonostante qualche scoperta straordinaria, i farmaci davvero innovativi negli ultimi anni sono stati relativamente pochi: la ciclosporina (che ha cambiato la storia del trapianto), certi farmaci per diminuire le secrezioni acide dello stomaco (che hanno praticamente eliminato la chirurgia dell' ulcera), almeno tre farmaci per la pressione alta. E, poi, i farmaci per il colesterolo. Ci sono anche molecole nuovissime: certi antinfiammatori, per esempio. E i farmaci per l' Aids e contro altri virus. Per i tumori c' è molto meno, anche se si cominciano a intravedere delle novità. Cosa fare per limitare una spesa che, se no, minaccia di mettere in crisi il sistema sanitario pubblico? Una delle cose che si possono fare - e in Lombardia è stato fatto - è far partecipare i cittadini alla spesa. E' un peccato perché i farmaci li prescrivono i medici e, per risparmiare, basterebbe dare solo quello che serve davvero. Ma i medici, anche loro, sono sottoposti a pressioni, che vengono anche dagli ammalati. Tutti vorrebbero l' ultimo ritrovato, con l' idea che nuovo è bello. Un' altra cosa che si può fare è avviare davvero il mercato dei generici, che costano meno dei farmaci di marca, ma che oggi rappresentano solo una piccola parte della spesa. Andrebbe fatto ogni sforzo per aiutare il pubblico a capire che non c' è alcuna differenza in termini di efficacia tra il generico e il farmaco di marca che contiene lo stesso principio attivo. Ancora più importante, forse, è che ci sia per i farmaci abbastanza ricerca pubblica indipendente. Dieci anni fa, l' 80% degli studi clinici che si facevano in tutto il mondo erano «accademici» fatti cioè da ricercatori che operano in istituti di ricerca o università, oggi non si arriva nemmeno al 30%. Gli altri sono fatti dall' industria. Ma, dal momento che portare un farmaco dalla sintesi al banco del farmacista costa moltissimo, se uno studio è fatto tutto dall' industria sarà sempre presentato in modo favorevole al farmaco nuovo (quello vecchio, intanto, va fuori brevetto e all' industria non interessa più). C' era in questi giorni a Boston il congresso della società americana dei trapianti. La stampa laica ne ha parlato molto. S' è scritto (in riferimento a due farmaci di una grande multinazionale) «per i trapianti ci sono due grosse novità». Vero? Non tanto: uno è un farmaco uguale a un altro che c' è già, molto interessante come meccanismo d' azione ma per il rigetto è solo un piccolo passo avanti. L' altro è la copia di uno in commercio. Ogni confezione costa 198 euro. Che però sia meglio di un vecchio farmaco che si è cominciato a usare 50 anni fa, all' epoca dei primi trapianti e che costa 15 volte di meno nessuno l' ha ancora dimostrato. ______________________________________________ Il Sole24Ore 17 mag. ’04 RADIOLOGIA CON MACCHINE VECCHIE SANITÀ • Le attrezzature del servizio pubblico hanno un'età troppo elevata: Tac e raggi X anche oltre i 10 anni La situazione comporta qualche rischio per i pazienti e soprattutto impedisce ai medici di avere esami di qualità Pare facile dire a un paziente: «Vada a fare una Tac». Il parco macchine della sanità pubblica italiana si presenta come un'accozzaglia di ferrivecchi ché gli stessi specialisti considerano nella gran parte dei casi poco affidabili. E di cui denunciano una obsolescenza che ha ormai da tempo superato la soglia del non ritorno. Tomografie computerizzate con un'età media di 6-10 anni, quando macchine del genere sono considerate superate già dopo 5; angiografi digitali che "vantano" in media 14 anni di più o meno onorato servizio. E ortopantomografi (radiografie della bocca) che seguono a ruota, con 13,3 anni di duro lavoro alle spalle. Risultato? Qualche rischio in più per i pazienti e l'incertezza per i medici di poter disporre di indagini di qualità sufficiente. L'ultima di una lunga serie di denunce in materia (la più autorevole l'aveva formulata sui dati del 2000 lo stesso ministero della Salute, invitando le aziende a darsi da fare) è arrivata qualche giorno fa dal Congresso nazionale della Società italiana di radiologia medica (Sirm) a Palermo. Sotto i riflettori i dati di un'analisi della messa a punto dal dipartimento di Scienze radiologiche del Policlinico universitario del capoluogo siciliano, su un campione di 150 strutture, da Nord a Sud Italia. II bilancio che ne emerge non è davvero rassicurante: tra i 2000 e i12004 sembra non essere cambiato nulla. Gli investimenti con il contagocce non hanno consentito alla radiologia pubblica italiana di mantenersi al passo con i tempi: i165% del parco macchine analizzato supera abbondantemente la soglia dei fatidici cinque anni d'età «con ricadute non trascurabili - avvertono gli autori dello studio - in termini di efficienza operativa, di qualità della prestazione e di sicurezza dei pazienti». «Il rischio per i cittadini non va drammatizzato», ci tiene però a puntualizzare Roberto Lagalla, direttore del dipartimento palermitano che effettuato rilevamenti e stime. «Il problema vero - spiega - è la qualità degli esami: le nuove attrezzature sono più efficaci e forniscono più informazioni, di cui troppo spesso i medici della sanità pubblica sono costretti a fare a meno». Il fronte di crisi si evidenzia non appena si parla di quattrini. Per garantirsi un parco macchine nuovo fiammante «un reparto ospedaliero dovrebbe spendere in media 1,5 milioni di euro ogni cinque anni». Cifre da capogiro anche per strutture (e sono rare) coi conti in regola. Per questo Lagalla suggerisce la strada delle attrezzature in affitto già percorsa da alcuni ospedali: «In questo modo - conclude - basterebbe pagare un canone annuale comprensivo di manutenzione, invece di scontrarsi con grandi investimenti iniziali quasi sempre proibitivi». Acquisto o locazione che sia, la soluzione va trovata in fretta. Se la sofferenza è generalizzata, l'urgenza di "svecchiare" riguarda soprattutto le apparecchiature tradizionali, utilizzate nel 40% dell'attività radiologica di routine. Basti pensare che i normali apparecchi a raggi X telecomandati hanno un'età media di 10,1 anni e superano i cinque anni d'età nel 76% dei casi. Ma si arriva subito all'80% nei piccoli ospedali fino a 120 posti letto. Per apparecchiature di questo tipo, infatti, l'essere dislocate nelle sezioni diagnostiche di strutture minori rappresenta inevitabilmente una aggravante. Non a caso, secondo lo studio palermitano, la totalità dei telecomandati e degli ortopantomografi installati -nei piccoli ospedali supera i cinque anni d'età, contro valori del 75% e dell'89% registrati per le stesse attrezzature negli ospedali di taglia mediogrande. Le distanze tra strutture smatl e large si rivelano significative anche sul fronte dei mammografi: il 75% delle apparecchiature dei piccoli nosocomi è "stravecchio", contro il 57% di quelli delle grandi strutture. Ma il dato forse più drammatico è quello relativo alle Tac: nei piccoli ospedali primeggiano le apparecchiature di tipo tradizionale, che nel 92% dei casi superano abbondantemente la soglia dei cinque anni (l'età media è di 10). Solo le strutture medio-grandi hanno avuto la forza di intraprendere la corsa alla sostituzione con apparecchiature più moderne che oggi superano i cinque anni d'età solo nel 25% dei casi. TAC (tomografia computerizzata). Consente di analizzare sezioni trasversali del corpo molto sottili, tramite dati ottenuti con i Raggi X ed elaborati al computer. ANGIOGRAFIA DIGITALE. Consente di evidenziare arterie, vene e cavità cardiache iniettando un mezzo di contrasto per mezzo di un catetere. RISONANZA MAGNETICA. Basata sull'uso di onde radio a campi magneiicí: produce immagini di sezioni del corpo che tramite un computer vengono visualizzate su un monitor: Creando una visione tridimensionale virtuate. ORTOPANTOMOGRAFIA. Radiografia panoramica delle arcate dentarie: produce l'immagine dei denti, delle arcate dentarie, delle ossa mascellari e mandibolari su un'unica pellicola. MAMMOGRAFIA. Particolare radiografia delle mammelle che impiega bassissima dose di raggi X. • ECOGRAFIA. Produce immagini del corpo umano utilizzando gli ultrasuoni che vengono riflessi dai tessuti: si basa sugli stessi principi del radar e del sonar. TELECOMANDATI. Sono apparecchi comandati a distanza per radioscopie e radiografie convenzionali e contrastograflche • DIAGNOSTICA RADIOLOGICA. Sono tutte le radiografie convenzionali. * Tac di nuova generazione (spirale monostrato e multistrato) ** Tac convenzionali Nota: Campione esaminato: 150 sez'wni'diagnostiche Fonte: Sirm, Società ftaliana scienze radiologiche, 2004 ______________________________________________ Libero 15 mag. ’04 MARIJUANA PER CURARE LA SCLEROSI A PLACCHE Un medicinale a base di marijuana per alleggerire i sintomi della sclerosi a placche potrebbe entrare in commercio in Canada se le autorità sanitarie locali accetteranno la domanda presentata dal colosso farmaceutico Bayer. Per sapere se la richiesta verrà accettata, bisognerà attendere circa 18 mesi, il tempo che il dipartimento impiega solitamente a evadere questo genere di pratiche. Il prodotto, un polverizzatore che si somministra per via orale, dovrebbe attenuare i dolori e i movimenti spastici di cui soffrono tutti quei pazienti affetti dalla sclerosi a placche. ______________________________________________ MF Personal 19 mag. ’04 SALUTE BASTERÀ UN TEST PER IL CHECK-UP La diagnosi universale con l'esame del sangue Nonostante i progressi compiuti nei più diversi campi della medicina, realizzare una diagnosi sicura non è ancora un compito facile. Lo dimostra, per esempio, il classico caso dell'appendicite, malanno che i medici trovano molto difficile da diagnosticare, tanto è vero che, in questa incertezza, un'appendicectomia su cinque risulta praticata inutilmente. Di recente però gli scienziati hanno cominciato a occuparsi di come identificare la presenza di specifiche malattie esaminando l'esatto cocktail di proteine che si crea nel sangue quando ci si ammala L’obiettivo finale di questa ricerca è un test diagnostico universale e semplice per la scoperta di una vasta gamma di malattie. ______________________________________________ Il Sole24Ore 20 mag. ’04 BULIMIA, QUANTO PESANO I GENI Studi sui cromosomi e rilettura dei risvolti psicologici aprono nuove frontiere alla comprensione dei disturbi alimentari Biologia e ambiente. Ancora una volta è la sinergia tra predisposizione genetica e storia di vita ad aprire nuove finestre sulla comprensione di una malattia mentale. Il convegno internazionale dell' Academy for eating disorders, che si è svolto a Orlando, ha incorniciato, infatti, i disturbi del comportamento alimentare (come anoressia e bulimia) tra importanti e nuove scoperte che arrivano dalla genetica e una attenta rilettura dei risvolti psicologici della malattia. La genetica. «La genetica ha cambiato totalmente il modo di pensare ai disturbi del comportamento alimentare perché, fino a poco tempo fa, si pensava che l'anoressia o la bulimia fossero il risultato di specifiche condizioni culturali o sociali», spiega Cynthia Bulik, professore all'Università del Nord Carolina, Chapel Hill e uno dei maggiori esperti al mondo negli studi genetici dei Dea. La comunità scientifica punta molto sulla genetica tant'è che negli Usa, l'Istituto nazionale per la salute ha già finanziato uno studio che coinvolge diversi Paesi del•mondo. Dal 1996 a oggi sono stati analizzati i corredi biologici di circa 1.300 famiglie. «È stato dimostrato - continua Bulik - grazie a studi linkage, cioè quegli studi che identificano parti del genoma dove si trovano i geni legati a una determinata malattia, che il cromosoma 1 è determinante per l'anoressia, mentre il 10 per la bulimia e non solo: pare che il cromosoma 10 sia anche responsabile per l'obesità segnalando un legame biologico importante tra bulimia e obesità». Lo studio sui gemelli. Nonostante lo studio sui geni sia ancora agli albori, è stata dunque raggiunta una meta importante, che si aggiunge e meglio spiega ricerche precedenti sui gemelli «grazie alle quali si capi che i geni - spiega Bulik - sono responsabili al 50-80% dell'insorgenza della malattia».L'identificazione dei cromosomi ha permesso «di pensare all'ambiente - continua Bulik - e al contest( famigliare in modo diverso; prima si credeva che chi si ammalava di anoressia, per esempio, ricorresse alla dieta per ridurre l'ansia e che poi, cascasse in questa tremenda spirale. Oggi si sa che la predisposizione genetica gioca un ruolo importante, anche se non deve sostituire la psicoterapia, ma interagire con questo tipo di cura». Aver scoperto che i disturbi del comportamento alimentare sono, in qualche modo, legati al Dna «ha creato - conclude Bulik - un senso di colpa nei genitori che si sentono responsabili per aver "trasmesso" la malattia ai figli; noi stiamo lavorando molto su questo mostrandone la parte positiva: conoscere le cause genetiche aiuta a costruire una protezione e una migliore cura per i propri figli». Parlare di corredo biologico non vuole senz'altro dire mettere da parte la comprensione profonda delle emozioni e dei pensieri di chi si ammala di bulimia o anoressia. E, dunque, anche psicologia e psichiatria hanno fatto passi avanti. «Molto spesso, le ragazze anoressiche o bulimiche - spiega Sandra Sassaroli, psicoterapeuta e direttore di Studi cognitivi, scuola di psicoterapia cognitiva e centro di ricerca - sono coinvolte in tensioni familiari dove le idee e le emozioni che queste ragazze hanno di se stesse, degli altri, del mondo favoriscono l'insorgenza della malattia; e la ricerca e la psicoterapia si stanno muovendo verso una maggiore comprensione di queste "visioni della mente"». Il genitore, è una persona, di solito, dagli alti ideali, molto generoso e attento, che vive le scelte diverse dei figli come un "tradimento". «Alcune ragazze che si ammalano di anoressia o bulimia – continua Sassaroli - spesso vivono la vita come un tentativo di assomigliare sempre più al proprio genitore, per farlo contento e non commettere errori e questo ha due effetti: da una parte sono adolescenti insicure e confuse sui loro progetti di vita, dall'altra di fronte a un forte stress hanno una percezione di non potercela fare e di non avere più controllo sul loro futuro. Qui si innesta la malattia: si smette di mangiare perchè avere controllo sul cibo sembra essere più facile che non affrontare ciò che verrà». Poi, ovviamente, si innestano dei meccanismi di mantenimento del disturbo - biologici o sociali - che invece non sono per nulla controllabili dalla ragazza e, dunque «la malattia si mantiene - continua Sassaroli - per recuperare la padronanza sul peso, un'ambizione troppo alta e difficile destinata al fallimento». La paura di sbagliare. Un altro elemento importante è il timore di sbagliare. «Molto spesso - spiega Sassaroli - alcuni genitori, che fanno fatica a leggere i pensieri dei figli o li amano troppo, li vorrebbero "perfetti", li criticano in modo esagerato e, a loro volta, i figli imparano, in qualche modo, che ogni sbaglio è un fallimento. Il dominio sul corpo attraverso il cibo è di conseguenza una surrogato per dimostrare di essere in grado di riuscire a controllare almeno una cosa nella vita, entrando cosi in uno mondo astratto fatto di progetti costruiti solo nella mente difficilmente realizzabili». Tali riflessioni sono lo specchio di un profondo cambiamento nel modo di vedere i disturbi del comportamento alimentare; negli anni Novanta, psicologi e psichiatri si concentravano sui pensieri che le ammalate sviluppavano rispetto al cibo; oggi si dà sempre più importanza al mondo interno, ai pensieri su di sé e sugli altri che portano alcune ragazze a usare il cibo come strumento per uscire dai propri disagi. Vittoria Ardino ______________________________________________ Il Giornale di Napole 20 mag. ’04 L'OMEOPATIA SI INCANALA NELL'AMBITO UNIVERSITARIO Scompare il termine "medicina alternativa", le cure sono "complementari" Non chiamatela medicina alternativa. L'omeopatia? Meglio chiamarla complementare. E questo il messaggio che l'Apo (Associazione senza scopi di lucro che si propone di divulgare i principi della medicina omeopatica e l'Ordine dei medici Chirurghi e Odontoiatri hanno valuto lanciare ieri all'interno di un convegno svoltosi nella sede dell'Ordine. Sono circa 10 milioni gli italiani che abitualmente ricorrono alle cure omeopatiche c il 78% di essi si dichiara soddisfatto, in Europa, invece sono 50Mila coloro che utilizzano la medicina omeopatica C nel mondo oltre 150Mila. In Italia attualmente i farmaci omeopatici sono presenti in quasi tutte le 16mila farmacie anche se soltanto 8mila di queste hanno un reparto in grado di soddisfare subito le richieste dei clienti. «La scientificità o meno delle, medicine convenzionali deve essere illustrata anche sui dati raccolti da milioni di persone che le utilizzano - afferma Giuseppe del Beuone , Presidente della Federazione. Nazionale degli Ordini dei Medici - è assurdo buttare nel mare 10 milioni di italiani che li utilizzano o sono tutti pazzi oppure vuol dire chi- è comunque dimostrato che la medicina non convenzionale ed in particolare l’0meopatia funzionano». I farmaci omeopatici sono medicinali a tutti gli effetti e in Italia sono regolamentati dal decreto legislativo 185 del 1995 che recepisce una specifica direttiva europea e inoltre i prodotti omeopatici sono iscritti nella farmacopea ufficiale da un decennio e da circa 40 anni in quel1F1 francese e tedesca. «Pochi mesi fa ha partecipato ad una riunione con tutti i presidenti dei corsi di laurea in medicina - continua Del Barone - ai ragazzi verrà consegnato il codice deontologica dove è stato giustamente modificato il termine di medicina alternativa con quello di medicina non convenzionale e attualmente io credo che il termine migliore. Finalmente si sta risvegliando un argomento che interessa universitariamente, una strada che riguarda le pratiche mediche antiche, perché sicuramente non si può affermare che l'omeopatia non sia efficace». Salute e malattia allora diventano due concetti da rivedere? Probabilmente si, dato cha in omeopatia si parla si squilibrio al posto di malattia c di armonia al posto di salute. MARIANNA VARRIALE ______________________________________________ Il Messaggero 19 mag. ’04 LA SCIENZA TRADITA AL BIVIO TRA IL MALE E IL BENE Idee/ Le implicazioni etiche della ricerca e la difficoltà di misurarsi con valori validi per tutti di LUCIANO CAGLIOTI PIU’ la scienza si avvicina alle problematiche ed alla chimica della vita, più aumenta nel cittadino quel senso di preoccupazione che da sempre accompagna lo sviluppo della conoscenza. Attesa positiva di nuove disponibilità (farmaci, strumenti ecc...) ma anche timore: della catastrofe, dell’apprendista stregone. Inoltre, si stanno intensificando considerazioni etiche, man mano che si sviluppano nuove conoscenze sulle cellule staminali ed embrionali, sugli esami del feto eccetera. Ma si affrontano i problemi senza che ci si possa riferire a parametri certi e condivisi da tutti. Siamo nell’ambito dei valori, ed ognuno ha il suo. I religiosi il loro, disaggregato nei diversi credo, i laici il loro, in genere libero da vincoli, altre scuole di pensiero il loro. Facciamo un esempio, che chiarisca le difficoltà di dare pareri univoci: l’allungamento della vita media che si sta registrando nei paesi sviluppati, ed anche nel terzo mondo. Perché aumenta la vita media? Perché ci nutriamo meglio, ci curiamo meglio, l’igiene migliora, ci vestiamo meglio, ci difendiamo meglio dal freddo e dalle catastrofi naturali. Ecco che una serie di fattori tutti condivisibili - maggiore igiene, migliore alimentazione, migliori cure ecc. - sta fortemente contribuendo all’aumento della popolazione mondiale, ed anche ad un cambiamento della distribuzione delle età: i paesi poveri hanno pochi vecchi e molti bambini, i paesi ricchi molti vecchi (molto vecchi), un corpo centrale di media età e pochi bambini. Sorge una domanda: che tipo di umanità è auspicabile? Pochi bambini e molti vecchi, una importante frazione dei quali in preda a malattie degenerative? E’ etico un mondo con una distribuzione delle età quale si registrava prima della rivoluzione industriale (molti bambini e pochi vecchi) o un mondo senza giovani? L’etica non è una professione, nel senso che, proprio in quanto si riferisce a valori generali, è patrimonio di tutti. Semmai, il pericolo è che questo incerto e difficile territorio divenga appannaggio di speciali categorie, religiosi, filosofi, sociologi che si cooptano a vicenda fino a costituire una sorta di “gruppo di pressione” autoreferenziale che giudica, boccia, promuove, influenza. Il territorio principe delle polemiche riguarda gli studi sulle cellule animali ed umane. L’Inghilterra guida il gruppo dei paesi favorevoli, altri vietano anche le fasi di ricerca, altri ancora brancolano fra mezzi divieti e mezze libertà. Sorgono problemi soprattutto nella Ue, dove stati diversi hanno opinioni, e spesso norme, diverse. Se un paese considera illegale una produzione, accettata da altri paesi, come si deve comportare? Se dovesse risultare che le ricerche su (citiamo Cinzia Caporale, 24 ore ) «embrioni crioconservati soprannumerari il cui destino biologico, va ricordato, non ha alternative rispetto alla loro distruzione» potrebbero portare alla cura di qualche seria malattia, cosa si deve fare? Chi affronta questi temi ha due interlocutori limite: l’oltranzista-negativo, che nega a priori la possibilità di svolgere ricerche, ed il liberista assoluto, che ritiene che la ricerca debba essere totalmente libera. In mezzo i malati che vorrebbero essere curati e che si tenesse conto non solo dell’eticità o meno del “fare”, ma anche dell’eticità del “non fare”. E’ etico prendere alcune cellule “crioconservate” e lavorarci sopra per mettere a punto la cura di una malattia mortale o degenerativa? E come ci si deve comportare nei confronti della possibilità di uso di farmaci fondamentali derivanti da ricerche che un paese considera “non etiche”e che altri paesi hanno effettuato? Con un’altra, non marginale considerazione. Ci comportiamo tutti come se il mondo fosse unicamente nelle mani dei civili. Non è così. Accanto a chi opera nelle università, nelle industrie, c’è chi opera nei laboratori militari. Le nostre polemiche, i nostri principi etici non varcano le solide porte dei laboratori riservati nei quali lo sviluppo delle conoscenze viene applicato alla costruzione di ordigni bellici. Non entriamo nel merito del se, del ma, del perché e del percome. Ma è un fatto che le armi biologiche sono un argomento reale. E non vorremmo che si ripetesse il paradosso che registriamo col nucleare. La fissione nucleare, scoperta della mente umana, ha due applicazioni: le centrali per produrre energia e le bombe. Le centrali sono proibite (in Italia) e non incoraggiate (altrove). Depositi di bombe, o sommergibili nucleari, sono presenti in quantità. Come se le centrali fossero fatte per scoppiare e le bombe per non scoppiare. In altri termini, di ogni progresso della scienza abbiamo certamente la parte negativa, mentre quella positiva viene spesso discussa ed ostacolata. Il male è certo, il bene è solo possibile. ______________________________________________ Le Scienze 20 mag. ’04 LA LATERIZZAZIONE IMMUNOLOGICA DEL CERVELLO I due emisferi cerebrali gestiscono in maniera diversa la risposta immunitaria Una grande differenza immunologica fra le due metà del cervello umano è stata confermata da uno studio pubblicato sull'edizione online del 24 maggio 2004 della rivista "Annals of Neurology". I ricercatori hanno scoperto che un danno o un intervento chirurgico alla metà sinistra del cervello può rendere una persona destrorsa più suscettibile a problemi di tipo immunitario. I risultati contribuiscono a spiegare alcune scoperte precedenti, secondo le quali i pazienti che subivano un ictus alla parte sinistra del cervello diventavano più suscettibili alle infezioni. "Questa scoperta - spiega Kimford J. Meador del Georgetown University Hospital di Washington D.C., direttore dello studio - aumenta la possibilità che i medici debbano proteggere maggiormente i pazienti dalle infezioni dopo un ictus o un intervento chirurgico al lato sinistro del cervello". Studi precedenti sugli animali avevano mostrato precise differenze nel modo in cui i due emisferi cerebrali sono collegati al sistema immunitario. Alcuni anni fa, Meador e colleghi avevano scoperto tracce di differenze simili anche negli esseri umani. Ora i ricercatori hanno esaminato come il sistema immunitario risponde dopo interventi chirurgici sui due lati del cervello, seguendo il progresso di 22 pazienti epilettici cui era stata rimossa parte del cervello nel tentativo di controllare gli attacchi più debilitanti. La maggior parte dei pazienti che erano stati operati all'emisfero sinistro hanno sperimentato cali significativi delle funzioni immunitarie, e il loro sistema immunitario ha visto una diminuzione dei linfociti e delle cellule T. Al contrario, i pazienti operati al lato destro del cervello hanno sperimentato un incremento dei livelli di queste cellule immunitarie. ______________________________________________ Le Scienze 20 mag. ’04 POVERTÀ E TUMORI Un reddito basso sembra essere un fattore di rischio per i tumori cerebrali Secondo uno studio pubblicato sul numero del 25 maggio della rivista "Neurology", le persone con redditi bassi hanno maggior probabilità di sviluppare un tumore del cervello. I ricercatori, guidati da Paula Sherwood della Michigan State University, hanno confrontato il tasso di tumori del cervello fra le persone che guadagnano di meno (ovvero quelle iscritte negli elenchi di Medicaid, un programma governativo che fornisce assistenza medica ai cittadini con un reddito basso) con quello generale dello stato del Michigan. La ricerca è stata condotta identificando tutti i nuovi casi di tumore del cervello che si sono verificati nel corso di un periodo di due anni nello stato del Michigan, escludendo quelli che riguardavano pazienti sotto i 25 anni e sopra gli 84 anni. In totale sono stati studiati 1.006 casi. Il tasso generale di tumori del cervello è stato di 8,1 casi ogni 100.000 persone. Fra i lavoratori con reddito basso, si sono verificati 14,2 casi ogni 100.000 persone, contro soli 7,5 casi ogni 100.000 persone per tutti gli altri. La differenza è risultata maggiore fra i giovani. Gli uomini con reddito basso sotto i 44 anni di età sarebbero almeno quattro volte più a rischio di sviluppare un tumore rispetto a quelli con stipendi più elevati. Per le donne, il rischio è superiore di 2,6 volte. Le ragioni di questi risultati non sono chiare, anche se i ricercatori sospettano che la povertà possa accelerare l'insorgere di tumori nelle persone già biologicamente predisposte a svilupparli. "Uno stato sociale di basso livello - spiega Sherwood - è anche associato a fattori ambientali come l'esposizione alle tossine o la qualità della nutrizione".