«IL FUTURO DELLA SARDEGNA È NELLA RICERCA» MA I LEADER SNOBBANO I PROFESSORI - DARWIN DAY L’APPELLO DEI DOCENTI DI SCIENZE - SUL MERCATO LA RICERCA DEGLI ATENEI - BIOLOGIA IN RIVOLTA PER IL NO DEL SENATO ACCADEMICO - L'ELETTRONICA PUNTA SUI MATERIALI ORGANICI - MEDICINA ALTERNATIVA, CHI LA PRATICA DEV’ESSERE LAUREATO - ================================================================== DA CAGLIARI L’ANNUNCIO: DALLA CIRROSI SI PUÒ GUARIRE - ORA LA CIRROSI EPATICA PUÒ ESSERE SCONFITTA - SCOPRIAMO IL MALATO COME UOMO - «PROSTATA, I VALORI D'ALLERTA DEI TEST DEL PSA VANNO ABBASSATI» - CRESCE LA SPESA SANITARIA NEGLI ULTIMI 5 ANNI - MEDICI DI FAMIGLIA È RINCORSA ALLA RETE - FUMO PASSIVO, DANNI IMMEDIATI - TABAGISTI IN LIEVE CALO IN ITALIA - RISCHI PER I FUMATORI DI PIPA - L'ESAME DELLE URINE SVELA IL TUMORE - STAMINALI IN ODONTOIATRIA I RICERCA DELL'UNIVERSITÀ DI BARI - I 10 NUOVI FARMACI CHE CAMBIERANNO LA VITA - STRATEGIE PER RIDURRE LE MACCHIE CUTANEE - COLPO DOPPIO CONTRO I VIRUS - TERAPIA GENICA PER LA SCLEROSI LATERALE AMIOTROFICA - LE MALATTIE MENTALI DIMENTICATE DAI SISTEMI SANITARI - ================================================================== ______________________________________________ L’Unione Sarda 5 giu. ’04 «IL FUTURO DELLA SARDEGNA È NELLA RICERCA» MA I LEADER SNOBBANO I PROFESSORI Molta scienza e poca politica al dibattito sullo stato della ricerca scientifica organizzato ieri a Cagliari dall’Ateneo cittadino. Quello che doveva essere un confronto tra i dieci presidi di altrettante facoltà e i cinque candidati alla presidenza della Regione, si è trasformato in un faccia a faccia tra docenti, presidi e ricercatori. Numerosi i consiglieri regionali uscenti e i rappresentanti delle varie forze politiche ma, degli aspiranti presidenti, neanche l’ombra. Soltanto a tarda sera, sul finire dei lavori, il leader del centrosinistra, Renato Soru, ha fatto la sua comparsa nella sala congressi dell’hotel Regina Margherita. «La ricerca è il cardine del nostro programma politico - ha detto - senza la conoscenza non ci possono essere né agricoltura né artigianato. Piuttosto occorre avere la capacità di non far fuggire le menti dall’Isola». Perse le speranze di assistere a un dibattito politico, è stato fatto il punto della situazione sullo stato della ricerca. Un settore che oggi registra un’età media dei docenti intorno ai 50-60 anni e che, a livello nazionale, riceve contributi soltanto dell’1,2 per cento del Pil contro il 3 per cento degli altri Paesi. Tanti gli appelli del mondo accademico alla classe politica. Tra questi, quello di «prendere maggior coscienza dell’importanza della ricerca perché l’Isola è capace di produrre cultura di qualità e di esportarla fuori dai propri confini. Ora più che mai - hanno detto in coro i presidi - sentiamo il bisogno di interfacciare la ricerca con chi governa l’Isola». (e. f.) ______________________________________________ La Stampa 2 giu. ’04 DARWIN DAY L’APPELLO DEI DOCENTI DI SCIENZE I soci dell'Associazione Insegnanti Scienze Naturali, riuniti in tutta Italia in occasione del «Darwin Day», in considerazione del carattere formativo delle Scienze naturali per scolari e studenti, e informativo per tutti i cittadini, chiamati sempre più frequentemente a pronunciarsi su problemi riguardanti la biologia e l’ambiente, in un loro documento hanno chiesto al ministro Letizia Moratti di: 1) inserire le Scienze Naturali nelle scuole di ogni ordine e grado di tutti gli indirizzi; 2) istituire obbligatoriamente in tutte le scuole un Laboratorio didattico di Scienze Naturali con relativo tecnico di laboratorio; 3) tener presenti i progetti dell’Associazione nel formulare i piani di studio per la riforma della scuola; 4) tener conto della disponibilità dell'Associazione per formare tecnici di Laboratorio; 5) tener conto dell'esperienza e della competenza dei soci per la formazione dei docenti in ingresso nella scuola e per la formazione continua degli insegnanti. ________________________________________________________________ ItaliaOggi 03-06-2004 SUL MERCATO LA RICERCA DEGLI ATENEI Analisi della Sapienza sulle università che investano. A Urbino il maggior numero di fondi privati Nascono nuove società per sfruttare i risultati dei ricercatori Sapienza di Roma, con la collaborazione di numerosi giovani. Ricerca che ha preso in esame anche il :numero delle pubblicazioni, in particolare quelle di rilevanza internazionale, e il numero dei brevetti registrati da 16 università italiane. È l'ateneo di Urbino a drenare il maggior numero di risorse non pubbliche: qui il 98% del capitale sociale dei tre spin-off DI MARIO LECCISOTTI* Stanno nascendo vere e proprie società pubblico-privato per l'utilizzo economico dei risultati della ricerca universitaria. Vengono definite spin-off accademici e consentono un più rapido sfruttamento della ricerca. Il fine è ottenere vantaggi dal punto di vista economico e sociale. A1 capitale sociale di queste società partecipano i ricercatori e, di solito, le università a cui questi appartengono. Nonché, eventualmente, imprenditori privati. Sono questi i risultati di una ricerca condotta dalla cattedra di scienza delle finanze dell'università. Le sedi universitarie da cui è nato il maggior numero di società costituite per lo sfruttamento economico della ricerca accademica sono, invece, Siena e la Statale di Milano. Ma non si è potuto appurare da dove provengano i fondi. Seguono l'università di Ancona (con cinque società controllate al 90% dai ricercatori, al 7% dall'ateneo e al 3% da capitali off accademici è costituito, infatti, da finanziamenti privati di cui solo il 2% proveniente da ricercatori e nulla dall'atene!o. Segue Roma Tor Vergata, dove c'è un solo spi.n-off finanziato al 75% dalle imprese, al 26% dall'università e in nulla dai ri privati esterni) e il Politecnico di Milano (con cinque spin-off, di cui non sono disponibili i dati) *Ordinario di scienza delle finanze università di Roma La Sapienza ______________________________________________ La Nuova Sardegna 29 Mag. ’04 BIOLOGIA IN RIVOLTA PER IL NO DEL SENATO ACCADEMICO Vogliamo le nuove lauree" CAGLIARI. Biologia sperimentale e biologia applicate, due lauree nuove e specialistiche, da aggiungere a biologia marina e neuropsicobiologia: quel che il mercato chiede e che gli studenti cercano. La richiesta è stata presentata a marzo, ma il senato accademico, composto come è noto dal rettore Pasquale Mistretta, dai presidi di facoltà e dai rappresentanti d’area, il 23 marzo scorso di fatto ha negato questa opportunità. Il motivo: siccome secondo il senato si poteva avere una laurea specialistica, massimo due, per classe, dato che biologia ha una sola classe, potevano essere attivate solo due lauree specialistiche, che ci sono e perciò devono bastare. La protesta corre tra docenti e studenti quasi in egual misura. "Da notare che l’anno scorso, durante l’anno accademico 2003-2004, lo stesso senato accademico, aveva istituito (sempre in biologia), quattro lauree specialistiche, - dice Giovanni Floris, presidente del consiglio di classe 12, scienze biologiche -, attivandone però solo due, neuropsicobiologia e biologia marina, perché biochimica non è mai stata attivata e la quarta, biologia sanitaria, è stata momentaneamente sospesa perché dovrebbe diventare di interfacoltà". "L’anno scorso - continua Roberto Crnjar, preside della facoltà di scienze -, lo stesso rettore, ha invitato le università a presentare progetti di lauree specialistiche. I biologi hanno proposto quattro lauree, mentre gli altri una o due. Il nostro progetto è stato guardato con perplessità. Il senato accademico, su quattro che ne avevamo proposto ne ha accettate solo due. Tutto ciò va a discapito degli studenti, che aumentano sempre di più, ma vedono diminuire le loro speranze lavorative. Il rettore - spiega il preside -, ha cercato di mediare tra il senato accademico e i biologi che si sentono penalizzati nella loro forma didattica, così ha proposto una terza laurea, biologia sperimentale e applicata, ma ieri il senato accademico ha bocciato anche questa idea, ribadendo che le lauree specialistiche rimanevano due. "A Torino le lauree specialistiche sono sei, a Parma quattro, il minimo di solito è tre, perché a noi ci devono mettere dei limiti?", conclude il preside. "È scandaloso porre limiti di questo genere alle università - ribadisce Nicola Pirastu, rappresentante del gruppo Università per gli Studenti -. Come al solito le esigenze della politica universitaria prevalgono sugli studenti. Siamo noi che ci dobbiamo adeguare alla norma e ciò non è giusto, né accettabile. Faremo di tutto - conclude Pirastu -, percorreremo tutte le vie possibili che saranno necessarie per ottenere ciò che vogliamo. Lunedì 31 maggio abbiamo organizzato un’assemblea all’interno della facoltà per decidere le azioni da intraprendere per ottenere il nostro obiettivo". (e. f.) _________________________________________________________ Il Sole24Ore 03 Giu 07 L'ELETTRONICA PUNTA SUI MATERIALI ORGANICI Prende il via in questi giorni il primo progetto integrato sulle nanotecnologie del VI Programma quadro: si chiama Naimo (Nanoscale integrated processing of self-organizing multifunctional organic materials) e ha lo scopo di sviluppare la piattaforma tecnologica per i nuovi materiali organici, settore nel quale l'Europa esprime un livello di eccellenza. Il progetto trae origine dall'esperienza combinata dell'Ismn (Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturati del Cnr di Bologna) e della Libera università di Bruxelles, due centri già da alcuni anni impegnati a esplorare l'innovativo terreno dell'elettronica organica. Questa tecnologia ha l'ambizione di capovolgere il tradizionale approccio "top down", che dal grande arriva al piccolo puntan do a realizzare, come recita la legge di Moore, microprocessori di sempre minor dimensione e maggior potenza. La nuova tecnologia "bottom up" adottata da Naimo parte invece dal piccolo, dalle molecole organiche di cui sfrutta le proprietà di autoassemblaggio e di autorganizzazione. Scopi. Lo scopo di queste ricerche è sviluppare nuovi metodi di fabbricazione con precisione nanometrica (un nanometro è un milionesimo di metro) basati su materiali organici "intelligenti", disegnati cioè per assemblarsi e connettersi tra loro così da svolgere una certa funzione e "dialogare" con il mondo esterno. Le tecnologie sviluppate con Naimo serviranno a realizzare una varietà di nuovi dispositivi elettronici e opto-elettronici, memorie, sensori e circuiti, che avranno costi di produzione più bassi e minor impatto ambientale, ma soprattutto saranno integrabili con materiali tradizionali (plastica, vetro, tessuti) a cui forniranno nuove funzioni. Sfide. Nelle nanotecnologie e nell'elettronica organica esiste già un ricco bagaglio di conoscenze scientifiche di base, ma la capacità di fabbricare dispositivi è ancora piuttosto limitata: Naimo intende ampliare questa conoscenza e tradurla in tecnologie di fabbricazione parallela (utile a una produzione su scala industriale), in grado di orientare le strategie produttive verso soluzioni altamente innovative. Spiega Fabio Biscarini dell'Ismn, promotore del progetto con Yves Geerts della Libera università di Bruxelles: «Oggi possediamo un know-how piuttosto limitato e ancora fortemente convenzionale per costruire dispositivi a base di materiali molecolari e polimerici. La sfida di Naimo è quella di far organizzare a comando i materiali nella forma, nella dimensione e nella posizione adatte a svolgere una certa funzione, sfruttandone la capacità di autorganizzazione e riconoscimento. In questo modo, possiamo arrivare a controllarne le proprietà attraverso la dimensione delle nanostrutture formate; e al tempo stesso fabbricare non uno o pochi dispositivi, ma centinaia o migliaia tutti insieme. Il progetto Naimo unisce la ricerca scientifica d'avanguardia con la migliore ricerca industriale per compiere insieme questo salto culturale e guardare molto più avanti, a una produzione di nuovi sistemi funzionali e dispositivi basata su materiali intelligenti, che sia semplice, economica e rispettosa dell'ambiente». Materiali organici. Le nanotecnologie permetteranno infatti all'industria dei futuro di utilizzare solo la quantità di materiale necessario al funzionamento di un dispositivo: si potranno costruire transistor con prestazioni elevate con meno di un miliardesimo di grammo di semiconduttore, abbattendo in modo significativo i costi del materiale come pure i tempi di lavorazione e la quantità di energia impiegata (per lavorare un lingotto di silicio occorrono temperature di migliaia di gradi, mentre materiali organici richiedono al massimo una temperatura di 100 gradi); inoltre, non sarà necessario ricorrere a solventi aggressivi o tossici e le operazioni di smaltimento o di riciclaggio saranno molto semplificate. Grazie alla piattaforma per i materiali organici sarà possibile realizzare prodotti che ancora non esistono sul mercato, come bottiglie capaci di avvisarci quando il loro contenuto si sta deteriorando, indumenti dotati di chip per monitorare le funzioni vitali, schermi flessibili che potremo arrotolare, piegare e trasportare senza problemi. Aggiunge infatti Biscarini: «Una gran parte dell'elettronica di consumo e portatile del futuro sarà basata sui materiali organici. Questo significa grande flessibilità e leggerezza, possibilità di utilizzare superfici curve, pieghevoli e sottili. Diversamente dall'elettronica di oggi, sarà facilmente integrabile con materiali convenzionali come tessuti, polimeri, carta». II progetto conta su un finanziamento di 15 milioni di euro distribuito in quattro anni e sulla partecipazione di 22 centri europei, tra i quali figurano i maggiori gruppi pubblici e privati di ricerca del settore: dall'università di Cambridge (dove lavora Richard Friend, uno dei pionieri dei dispositivi polimerici, vincitore del premio Descartes 2003), al Max Planck institute di Mainz, dal Consejo superior de investigaciones científicas (Barcellona-Madrid) all'Università di Wuerzburg, dalla Philips research labs di Eindhoven alle industrie chimiche Avecia e Merck. Tra i partner italiani, oltre all'Ismn, figurano l'Università di Bologna, la St Microelectronics di Catania e la Innova S.r.l. di Roma, incaricata di valutare gli aspetti di sostenibilità produttiva e ambientale. Elisabetta Durante ______________________________________________ L’Unione Sarda 3 giu. ’04 MEDICINA ALTERNATIVA, CHI LA PRATICA DEV’ESSERE LAUREATO Dopo la denuncia dei carabinieri del Nas, viaggio tra i 43 centri che propongono terapie diverse dalle solite Dall’agopuntura al massaggio zen, passando per la cristalloterapia, l’iridologia e la cura di molte malattie con tecniche per il riequilibrio energetico e l’assunzione di infusi di fiori di Bach. Dopo la denuncia dei Nas per abuso della professione medica a un maestro di kung-fu che, in una palestra del Cagliaritano, praticava la moxibustine (il riscaldamento di alcuni punti del corpo attraverso la combustione di bastoncini di ardesia), scatta l’allarme sui centri e gli ambulatori dove si praticano le cosiddette medicine alternative. «Sono pratiche sanitarie», spiegano dall’Ordine dei medici e confermano i militari del Nas, «per questo possono essere esercitate esclusivamente da professionisti laureati in medicina e chirurgia o da personale qualificato». Quello dei centri che praticano la medicina non convenzionale è un mondo ancora sconosciuto. Tecniche di cura attinte direttamente dalle millenarie tradizioni orientali, ma anche pratiche discutibili legate alla moderna dottrina new age. Ci sono discipline ormai riconosciute dal sistema sanitario (come ad esempio l’omeopatia e l’agopuntura) e altre ancora in fase di studio, ma non manca chi pratica la medicina alternativa senza avere in tasca una laurea in medicina. In città si contano ben 43 centri (compresi gli ambulatori), tutti regolarmente autorizzati, con oltre cento specialisti abilitati e iscritti nel registro speciale dei praticanti di medicina non convenzionale, istituito di recente dall’Ordine. Una sorta di albo di autotutela diviso in quattro sezioni: omeopatia, omotossicologia, antroposofia e agopuntura. Iscriversi non è facile, bisogna presentare un’adeguata certificazione. «Con la sola eccezione di alcune sentenze, in Italia non esiste legge che riconosca le medicine non convenzionali», spiega Alberto Puddu, vice-presidente dell’ordine dei medici e coordinatore della Commissione per le medicine alternative: «La Federazione, nel maggio di due anni fa, ha deliberato che le medicine non convenzionali costituiscono un atto medico in quanto presuppongono la formulazione di una diagnosi e la prescrizione di una terapia. Due passaggi che portano alla conseguenza che soltanto i laureati in medicina e chirurgia possono esercitare questo tipo di attività. L’Organizzazione mondiale della sanità riconosce soltanto nove categorie di medicina alternativa: l’agopuntura, la medicina tradizionale cinese, l’omeopatia, l’omotossicologia, l’antroposofia, la medicina ayurvedica e la fitoterapia. Infine le due pratiche manuali: l’osteopatia e la chyropratica». È necessario fare attenzione a chi pratica i trattamenti, anche perché possono rivelarsi molto pericolosi. «Alcuni tipi di massaggi, se non eseguiti con precisione», spiega Ennio Loi, fisioterapista, «rischiano di causare seri danni alla muscolatura e all’apparato scheletrico. Nel caso dell’agopuntura, poi, il rischio aumenta perché è possibile intaccare le terminazioni nervose». Ma a guardar bene la pubblicità e gli annunci su Internet, si scopre che in città esistono decine di centri: specialisti in iridologia (diagnosi attraverso l’analisi dell’iride dell’occhio), pranoterapia, training autogeno, agopuntura tradizionale cinese, medicina ayurveda (indiana), yoga, shiatsu, omeosiniatria (agopuntura più omeopatia), riflessologia plantare, digitopressione, reicki (crescita spirituale e guarigione naturale), biomesopuntura (praticata con un solo ago), biomesoterapia, chiropratica (manipolazione della colonna vertebrale con la compressine di un nervo o di una radice nervosa), fitoterapia, floroterapia di Bach, antroposofia e omotossicoligia oti e heel (potenziare il sistema immunitario con rimedi omeopatici). Una medicina parallela, insomma, che stando alle ultime indagini interesserebbe oltre tremila persone: e si va dal semplice mal di testa a patologie ben più serie. Francesco Pinna ================================================================== ______________________________________________ L’Unione Sarda 2 giu. ’04 DA CAGLIARI L’ANNUNCIO: DALLA CIRROSI SI PUÒ GUARIRE Il trattamento con l’interferone fa rinascere un fegato sano: dodici anni di test Rivoluzionaria scoperta della ricercatrice sarda Patrizia Farci Una scoperta storica che rivoluziona la considerazione che fino ad oggi si aveva della cirrosi epatica e inaugura nuovi e promettenti filoni di ricerca. «Di cirrosi epatica si può guarire» annuncia Patrizia Farci, professore ordinario di Medicina Interna dell’Università di Cagliari, medico e ricercatore di fama internazionale impegnata nella lotta contro i virus dell’epatite, autrice di uno studio che sarà pubblicato sul numero di giugno di Gastroenterology, una delle riviste scientifiche americane più importanti. Pioniere della terapia antivirale, già nel 1994 la docente aveva pubblicato uno studio sulla più autorevole rivista di medicina nel mondo, il New England Journal of Medicine, che dimostrava l’efficacia della terapia con interferone nell’epatite cronica delta. La cirrosi, esito naturale delle epatiti croniche, in particolare nell’85% dei casi di epatite cronica delta, può essere curata fino a scomparire completamente. Il risultato delle ricerche del noto epatologo cagliaritano rovescia un dogma della medicina per il quale la cirrosi è un processo irreversibile che conduce fatalmente alla morte. La possibilità di guarigione è legata all’interferone, un potente farmaco di origine naturale, e in particolare alla dose molto elevata (9 milioni di unità) che Patrizia Farci ha somministrato ai suoi pazienti. La scoperta regala una speranza di vita ai malati: la cirrosi è una patologia molto diffusa nell’Isola e una delle cause più importanti di mortalità nel mondo. La cirrosi inoltre provoca lo sviluppo del cancro del fegato, un tumore in aumento in tutto il mondo. La malattia, che consiste nella progressiva sostituzione delle cellule che compongono il fegato con un tessuto fibroso di tipo cicatriziale, compromette le funzioni fondamentali dell’organo, tra cui la sintesi di proteine vitali e l’eliminazione di sostanze nocive. Lo studio del medico cagliaritano è iniziato nel 1987 ed è stato appena presentato ai National Institutes of Health di Bethesda negli Stati Uniti. Sedici anni fa, per un anno, Patrizia Farci ha trattato14 pazienti tra i 30 e i 40 anni, ammalati per l’80 per cento di cirrosi epatica e per l’altro 20 per c Il dato più eclatante, tuttavia, è emerso dallo studio dall’analisi del fegato (biopsie epatiche): in alcuni pazienti guariti anche la cirrosi era scomparsa e si era rigenerato un fegato sano. Le implicazioni della scoperta sono tante e importanti, secondo l’epatologa: «Abbiamo dimostrato che l’interferone ad alte dosi può modificare la storia naturale della forma più grave di epatite cronica. Con questo studio si conferma una tendenza che ha iniziato ad emergere negli ultimi 3-4 anni sia in modelli sperimentali di cirrosi epatica che nei pazienti con epatite C. Questa scoperta cambia profondamente il nostro modo di vedere la cirrosi epatica e si aprono nuove prospettive di terapia applicabili a tutte le forme di cirrosi. Guarire la fibrosi è un passo avanti fondamentale per risolvere il problema delle malattie del fegato». Franca Rita Porcu __________________________________________________________ LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 02-06-2004 «ORA LA CIRROSI EPATICA PUÒ ESSERE SCONFITTA» CAGLIARI / Risultati positivi dalle cure con l'interferone Speranze da una ricerca italiana ROMA - Nasce una nuova speranza per gli ammalati di una forma grave e progressiva di cirrosi epatica dovuta all'epatite da virus delta, fino a ieri considerata una condanna senza appello: la malattia pub essere sconfitta grazie alle straordinarie proprietà di un farmaco dì origine naturale, I'interferone. La scoperta, che ribalta un dogma della medicina (secondo cui la cirrosi epatica è un processo irreversibile), si deve a Patrizia Farci, Professore di Medicina Interna e Direttore del Centro delle Malattie del Fegato dell'Università di Cagliari, impegnata in prima linea nella lotta contro i virus dell'epatite. Farcì è pioniere della terapia antivirale di questa malattia e già nel 1994 un suo studio (pubblicato sulla rivista più autorevole del mondo, il New.Journal of Medicine) aveva stabilito l'efficacia della terapia con interferone nell'epatite cronica delta Lo studio che viene ora pubblicato sulla prestigiosa rivista americana Gastroenterology, è stato condotto in 42 pazienti colpiti dalla forma più grave e rapidamente progressiva di epatite cronica, l'epatite delta. L'epatite delta è una forma molto particolare di epatite perché si può manifestare soltanto in soggetti che sono contemporaneamente infetti anche con un secondo virus: il virus dell'epatite B, il quale agisce da virus helper, aiutando il virus delta a replicarsi. Ed è forse a causa di questa sinergia tra due virus che l'epatite cronica delta ha spesso un decorso particolarmente aggressivo: l’85% dei pazienti infatti sviluppa la cirrosi, in alcuni casi dopo soli 2 anni dall'epatite acuta. La cirrosi epatica favorisce a sua volta lo sviluppo del cancro del fegato, un tumore in preoccupante aumento in tutto il mondo. La cirrosi epatica è sempre stata considerata come un processo irreversibile; sotto l'azione continua dei virus o di sostanze tossiche come l'alcool, il tessuto epatico viene progressivamente sostituito da un tessuto fibroso, di tipo cicatriziale, che è incapace di svolgere le funzioni vitali che sono proprie del fegato, come l'eliminazione di tossine e (armaci, e la produzione di fattori vitali (ad esempio l'albumina, i fattori della coagulazione, ecc.). Con la ricerca condotta da Farci e i suoi collaboratori, cambia radicalmente il modo dì vedere la cirrosi e, soprattutto, cambia la vita di chi fino a ieri viveva la propria malattia con l'angoscia del condannato. «Lo studio è iniziato nel 1987 -spiega Farci - su un gruppo di 42 pazienti con epatite cronica delta, la maggior parte dei quali(80 %) presentavano già un quadro di cirrosi epatica., Dopo un anno di trattamento con l’interferone, i pazienti che avevano ricevuto dosi elevate del farmaco (9 milioni di unità, MU) presentavano fin da subito un netto miglioramento degli indici di necrosi epatica, rispetto ai pazienti non trattati o a quelli che avevano ricevuto una dose inferiore (3 MU), accompagnata da una riduzione significativa dei livelli dì replicazione del virus. Le persone malate sono state seguite nel tempo, per 17 anni e lo studio lungo termine ha permesso di dimostrare che l’interferone ad alte dosi aveva modificato la storia naturale della forma più grave di epatite cronica: su 14 pazienti inizialmente trattali con 5 MU, ben 12 (86%) sono sopravvissuti fino ad oggi senza le complicazioni tipiche della cirrosi, mentre nel gruppo di controllo (non trattati) e nel gruppo trattato con 3 MU solo il :30° è sopravvissuto. Ma la scoperta più sensazionale è stata fatta quando i ricercatori cagliaritani hanno prelevato un frammento di fegato, con la biopsia epatica, a più di 10 anni dalla fine della terapia: in alcuni pazienti che avevano ricevuto,9 MU di interferone, la cirrosi epatica era completamente regredita, scomparsa, e si era rigenerato un fegato assolutamente indistinguibile da un fegato sano. _________________________________________________ Il Giornale 5-06-2004 SCOPRIAMO IL MALATO COME UOMO Chianciano la sofferenza del paziente ritorna in primo piana JIGI CUCCHI Si conclude oggi a Chianciano un convegno dedicato a: «La Medicina, il farmaco per una cura olistica della persona». Questo incontro è stato organizzato alle Terme di Chianciano e dall'Ufficio nazionale della Conferenza Episcopale Italiana (Cei) per la Pastorale della Sanità. Si è parlato di termalismo, di argilla, di radicali liberi, delle malattie che colpiscono il fegato, un organo dalle molteplici funzioni al punto da essere definito un autentico laboratorio chimico. Soprattutto si è discusso dell'uomo- malato, delle sue esigenze, della sua solitudine, di ciò che si può fare per la persona che soffre. La stesa medicina, dopo aver toccato le più alte ime del sapere e della tecnologia che hanno ampliato le conoscenze di ogni singolo organo, sta compiendo una grande rivalutazione del paziente visto nella sua individualità. L'alta specializzazione raggiunta da alcune aree della scienza medica ha evidenziato i limiti dell'eccessivo tecnicismo, facendo riscoprire l'importanza dell'analisi clinica del malato nel suo insieme. L'uomo è costituito da tanti organi che invecchiano, perdono la loro efficienza, si consumano, ma la capacità di reazione del malato alla malattia, la lunga strada verso la guarigione, è determinata dalla vitalità dell'intero organismo e non dalle risorse del singolo organo. Questa riscoperta di valori umani pone al centro dell'attenzione l'uomo con le sue sofferenze, sofferenze da sempre elemento fondamentale del patrimonio dei grandi vecchi medici oltre che degli uomini di fede per i quali il prossimo, l'ammalato bisognoso di cure, il derelitto, è la persona da amare. «Le limitate risorse economiche pongono anche in sanità il problema delle priorità di intervento e di cura, che non può essere risolto senza considerare nella sua globalità la dignità della persona», ha affermato a Chianciano monsignor Sergio Pintor, direttore dell'Ufficio nazionale per la Pastorale della sanità. «Molti interrogativi attendono ancora una risposta in sanità. Ci si deve chiedere - precisa padre Pintor - cosa è più importante e cosa lo è meno, quali sprechi e quali cattive gestioni sono da correggere e da eliminare. Vi è ancora troppa burocrazia e le attese, per visite ed analisi, sono troppo lunghe. Le Istituzioni sanitarie cattoliche si devono preparare a nuove importanti sfide». Nel mondo cattolico la sanità occupa uno spazio importante in Italia. Si traduce infatti nell'impegno di duecento delle 225 diocesi che svolgono attività sul fronte della prevenzione e della cura del malato. Ogni diocesi si occupa direttamente di alcune scelte strategiche in materia sanitaria e del coordinamento di decine di migliaia di volontari che fanno capo alle stesse Diocesi ed alle parrocchie. Quali sono le strutture sanitarie coordinate dalle diocesi? «È una rete articolata in tutta Italia - ricorda padre Pintor - costituita da sette Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, 26 ospedali, cento Case di cura, 167 Centri di riabilitazione, venti Residenze per anziani. Inoltre vi è tutta l'attività sul territorio dei volontari che all'interno delle parrocchie si occupano della cura del malato, del suo trasporto negli ospedali, della promozione di una cultura che favorisca l'umanizzazione della sanità. Negli ospedali svolgono inoltre attività di assistenza spirituale i cappellani, mentre sul territorio italiano da più di cinque secoli vi sono ordini come i Camilliani ed i Fatebenefratelli che hanno dedicato la loro esistenza al malato che soffre». L'aumento della popolazione con più di 65 anni sta creando alla sanità pubblica in tutti i Paesi occidentali grandi problemi di carattere finanziario, organizzativo, sociale. In Italia, Paese con il tasso più elevato di anziani, esploderanno le fragilità: le persone non autosufficienti aumenteranno in modo esponenziale. Questa società non favorisce il diffondersi di quella solidarietà che diventa elemento di coesione sociale. A1 benessere fisico si deve aggiungere quella serenità che lei consente di stare in pace con noi stessi. ___________________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 4-06-2004 «PROSTATA, I VALORI D'ALLERTA DEI TEST DEL PSA VANNO ABBASSATI» ROMA - Per la prima volta, dal '99 ad oggi, la mortalità per cancro alla prostata è diminuita negli Stati Uniti del 4% ogni anno. Di pari passo l'incidenza è aumentata, non perché la malattia abbia una maggiore diffusione ma in quanto è diagnosticata meglio e più precocemente. Secondo Vito Pansadoro, presidente del congresso di laparoscopia urologica che si conclude oggi a Roma, il merito dell'inversione di tendenza è del Psa, il test capace di rilevare nel sangue le tracce di un'infiammazione alla prostata. Psa sta per antigene prostatico specifico e segnala la presenza o meno di una glicoproteina presente solo nella prostata. Se c'è una patologia, non necessariamente un tumore, la proteina va nel circolo sanguigno e può essere misurata, con un semplice esame del sangue. «Il Psa non è un marker - chiarisce Pansadoro -. Quindi se è positivo non significa che il paziente ha un tumore. Oltre certi valori però bisogna andare a vedere, con - una biopsia, a cosa è dovuta l’alterazione». Negli Stati Uniti la biopsia è prescritta se il Psa supera i 2,5 nanogrammi, in Italia oltre i 4, a volte si aspettano gli 8. Per guarire dal cancro alla prostata la diagnosi precoce è essenziale. Quindi per gli urologi riuniti a Roma «è necessario rivedere í parametri del test». L'esame è raccomandato dopo í 50 anni, una volta l'anno, se ci sono precedenti in famiglia è bene anticipare a 40. Oggi, per gli. stadi iniziali, sono disponibili tecniche chirurgiche in laparoscopia. Il paziente dopo due giorni torna ?i casa. In Italia, ogni anno, 11 mila italiani sono colpiti da questo tumore. La mortalità è in leggero declino. M. D. B. __________________________________________________ l’Unità 04-06-2004 24 CRESCE LA SPESA SANITARIA NEGLI ULTIMI 5 ANNI Rapporto Ocse La spesa sanitaria dei paesi dell'Ocse è cresciuta enormemente negli ultimi cinque anni. Lo rivela il rapporto Ocse sulla spesa per la salute nei 30 paesi membri. Rispetto a una modesta crescita economica generale, la fetta di Prodotto interno lordo (Pii) destinata alla salute ha mostrato una crescita significativa, passando mediamente dal 7.8% del 1997 all'8.5% del 2002. Un tasso di crescita pari a 1.7 volte quello del Pii. Nel periodo 1992-1997, invece, questa percentuale era rimasta sostanzialmente costante. II dato più importante è però quello relativo agli Stati Uniti, dove la spesa sanitaria è cresciuta almeno di 2.3 volte la crescita del Pii. Secondo I'Ocse, i fattori responsabili dell'aumento complessivo della spesa sanitaria sono l'avanzamento della tecnologia medica, l'invecchiamento della popolazione e l'aumento delle aspettative dei pazienti rispetto alle possibilità delle cure. _________________________________________________________ Il Sole24Ore 01 Giu 07 MEDICI DI FAMIGLIA È RINCORSA ALLA RETE Negli ospedali iniziative isolate senza una strategia comune Finora si è puntato sul Pc per la gestione amministrativa Le cure elettroniche si affacciano sempre di più nelle corsie degli ospedali e bussano alla porta degli studi dei medici. La telemedicina (cure a distanza), il teleconsulto, la tele-diagnosi e il fascicolo personale sanitario, sono alcune delle frontiere dell'information and comunication technology (Ict) che promettono assistenza più efficace ai pazienti e anche risparmi sulla spesa. Ma sul fronte dell"'e-health" i camici bianchi e le strutture sanitarie italiane pagano i molti ritardi del passato e soprattutto le tante iniziative isolate che non comunicano tra loro. Mentre la Ue ha da poco annunciato una marcia a tappe forzate per portare le cure elettroniche in tutta Europa entro il2008. Medici di famiglia online. Sono circa il 60% quelli informatizzati, che utilizzano correntemente una cartella clinica su computer nella loro attività quotidiana. Solo il20% naviga in rete per il proprio aggiornamento, mentre il 40% accede a Internet solo occasionalmente. E appena la metà dei 47n-ila medici di famiglia possiede un indirizzo di posta elettronica. Queste stime, elaborate dalla Fimmg - il principale sindacato dei medici di famiglia -, tracciano l’identikit di un medico di base ancora troppo lontano da un utilizzo della rete adeguato. «Registriamo percentuali di sfruttamento della rete ancora piuttosto basse - conferma Bruno Palmas, vicesegretario nazionale della Fimmg -anche se decisamente elevate tra i medici di famiglia, se comparate al livello di informatizzazione delle strutture sanitarie pubbliche, non superiore a15 per cento». Il nodo principale è che le nuove tecnologie si utilizzano più per l'archiviazione dei dati che per una gestione online del paziente. «Il medico - continua Palmas - fino a oggi ha utilizzato la rete per rendere un servizio al proprio assitito e per facilitarsi il lavoro, ma con scarsi risultati sul fronte della trasferibilità e aggregabilità delle informazioni sanitarie». È per superare questa impasse tecnologica e gestionale che la Fimmg sta lavorando a un progetto per II coinvolgimento dei medici sulla raccolta dei dati e la trasmissione a distanza: è stato :perciò costituito, nel 2001, il Consorzio informatico per la medicina generale (Ci meg). La scommessa della Fimmg, anche se per il momento decisamente lontana, è quella di contribuire alla realizzazione di quel fascicolo sanitario del cittadino, che consentirà di mettere in rete tutte le informazioni sanitarie sui pazienti. L'Itc in corsia. Pochi investimenti, molte iniziative isolate e assenza di una strategia comune per tutti gli ospedali italiani e i tanti medici che ci lavorano. L'Ict nel settore sanitario procede a rilento, in parte per la dispersione delle esperienze e la mancanza di standard comuni e poi per una spesa ancora con il contagocce. Oggi l'Italia investe nell'Itc in Sanità appena l0 0,5% della spesa sanitaria pubblica e privata. Molto meno dell'Europa (2%) e degli Usa (2,5 per cento). Le soluzioni a portata dei medici sono tantissime: dalla ricetta digitale, alla cartella clinica elettronica, dalla telediagnostica all'assistenza domiciliare a distanza (Tele-homecare). «Negli ospedali - avverte Angelo Rossi Mori, ricercatore del Cnr all'istituto delle tecnologie biomedicali - si è puntato finora soprattutto sull'informatizzazione della gestione amministrativa. Sul fronte clinico si è, invece, proceduto per reparti. Quello che serve, oggi, è un progetto unico per l'ospedale in collegamento con il territorio. Mentre a livello nazionale dovrebbero essere fissati standard comuni per l'impiego di queste tecnologie». Marzio Bartoloni Barbara Gobbi ______________________________________ Avvenire 01-06-2004 FUMO PASSIVO, DANNI IMMEDIATI Il professor Balbarini: anche in soggetti sani concentrazioni moderatamente elevate di monossido di carbonio possono causare infarto o ictus DA RO:V1A GIOVANNI SCAFURO Bastano trenta minuti di esposizione al fumo passivo per aumentare del 3000% l'assorbimento di nicotina e di monossido di carbonio, fattori di rischio per malattie cardiocoronariche e le complicanze tumorali. Viene dall'Italia uno degli allarmi più preoccupanti per ricordare quanto sia importante combattere il tabagismo. Uri équipe del reparto cardiotoracico dell università di Pisa ha presentato i risultati di un monitoraggio sulla popolazione degli effetti tossici derivanti dal fumo passivo. Li anticipa il direttore del reparto, professor Alberto Balbarini: «Concentrazioni moderatamente elevate di monossido di carbonio prodotte in ambienti saturi di fumo possono determinare infarto miocardico o ictus cerebrale anche in soggetti sani». Due i dati più significativi: in soggetti non fumatori la concentrazione nel sangue di monossido di carbonio è risultata quasi il300% in più nei locali con fumo rispetto a quelli privi di fumo. Secondo: il flusso sanguigno in ambiente saturo di fumo diminuisce della metà. I due dati sono, per i ricercatori, «significativamente» correlati. IL fumo è uno principali responsabili di tutte le malattie cardiocoronariche e di molte forme tumorali. L'elemento che sembra incidere maggiormente nelle complicanze legate al ftimo passivo è quello legato alle alterazioni della parete arteriosa. Il fumo di sigaretta è oramai accertato essere uno dei predittori più potenti dell'ispessimento del le arterie (aterosclerosi): da qualche tempo è stato riscontrato anche tra i fumatori passivi. Il vantaggio della tecnica di misurazione adottata - afferma Aurelio Leone consulente del team-, è legato alla possibilità che possa essere utilizzata in maniera standard da tutti. Cioè che sia riproducibile in maniera oggettiva. È stata adottata una tecnica che consente di misurare lo spessore mio-intimale della parete arteriosa (Smi), importante indicatore di aterosclerosi». Sono stati selezionati 19 volontari non fumatori. I dati che emergono dagli studi italiani confermano la gravità del fenomeno del fumo passivo. Mentre i fumatori di sigaretta manifestano un incremento del 50% dello Smi; nei non fumatori, esposti al fumo, l'incremento è del 20%, con il rischio reale di lesioni profonde della parete arteriosa, anche in giovani adulti sani. «Abbiamo cercato - ci spiegano Danilo Giannini e Marco Nuti, esperti dell'università- di acquisire nuovi elementi scientifici sugli effetti del fumo passivo in soggetti giovani sani e di comprendere eventuali meccanismi nella lotta contro il fumo e l'inquinamento ambientale». Un problema grave che non è solo di natura medica. Esiste anche una correlazione inversa tra ricavi nel settore del tabacco e propensione alla spesa da parte dei fumatori, affermano i ricercatori pisani. «È stato stimato che una riduzione del 40% del consumo di sigarette, nel solo Regno Unito, porterebbe alla creazione di 155mila posti di lavoro». Purtroppo, la pubblicità del tabacco è notevole. Sponsorizzazioni rock e sportive, gadget sono facile esca per i giovani. Un affare, questo, di 756 milioni di dollari solo nel 1993. «Col risultato - spiegano i ricercatori-che il90% dei nuovi fumatori è costituito da adolescenti». La conclusione è sconvolgente: «Questi nuovi fumatori vanno a rimpiazzare quelli deceduti prematuramente a causa di patologie legate all'utilizzo del tabacco». Così si misura la dipendenza Un questionario messo a punto all'Università del Wisconsin (Stati Uniti) tenta di misurare la dipendenza dal tabacco. «Questa tecnica - afferma la ricercatrice Megan Piper - ci aiuta a comPrendere perché ]agente fuma e ci suggerisce strategie più personalizzate per i tabagisti».Tredici sono state le materie oggetto d'indagine. Si va dall'aspetto emotivo («le sigarette sono i miei migliori amici»), alla componente emulativa («la maggior parte della gente che frequento è fumatrice»), fino agli aspetti psicologici e psichici {«i) fumo mi fa tenere concentrato» oppure «fumo per rilassarmi»). I nuovi fumatori sembrano essere più influenzati dall'ambiente e dalle sensazioni: fumano soprattutto in ambienti fumosi, o per imitazione di altri. I fumatori incalliti, invece, sono più condizionati dall'abitudine o per migliorare la concentrazione o diminuire lo stress. (G.Sca.) ______________________________________ Avvenire 01-06-2004 TABAGISTI IN LIEVE CALO IN ITALIA DA ROMA LUCA LIVERANI Niente sfere di cristallo. Incrociando numero di sigarette, età, e sesso, chi fuma potrà sapere con esattezza quante probabilità ha di ammalarsi entro 10 anni di tumore ai polmoni o di broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco). Non c'è di che stare allegri, ma conoscere in anticipo i pericoli reali può aiutare a cambiare drasticamente abitudini o, quantomeno, a curarsi in tempo. Sono le prime "carte del rischio", presentate ieri a Roma all'Istituto superiore di Sanità (Iss), alla vigilia della Giornata mondiale contro il tabacco. Prodotte da una ricerca cooordinata dall'Iss, insieme all'Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa e al Dipartimento di epidemiologia dell’Asl Rme di Roma, sono una novità in tutta Europa. Spiega Enrico Garaci, presidente dell'Iss: «Questo nuovo strumento, costruito in linea con l'azione del Ministero della salute contro il tabagismo, rappresenta in Italia un'iniziativa unica nel suo genere e la sua importanza risulta evidente se solo si pensa che proprio il fumo è la principale causa evitabile di morbilità e mortalità in Italia, come in tutti i Paesi industrializzati». La Bpco poi, dice Garaci, «provoca nel nostro Paese 15 mila morti l'anno e, secondo l'Organizzazione Ma sono ancora troppi: 14 milioni. Fatto che comporta più di 80mila morti evitabili Presentate le prime carte del rischio mondiale della sanità entro il2020 potrebbe diventare la terza causa di morte». Assieme al tumore al polmone, con i suoi 300 mila decessi l'anno, è tra le patologie più insidiose correlate al fumo. Dalle carte del rischio del tumore polmonare si deduce che una donna che fuma tra le 15 e le 24 sigarette al giorno rischia di contrarre un tumore al polmone 5 volte di più rispetto ad una donna che non fuma. «Se le sigarette fumate, poi, sono più di 251e probabilità aumentano fino a 12 volte- afferma Piergiorgio Zuccaro, direttore dell'Osservatorio fumo, alcol e droga dell'Iss - e che per un fumatore il rischio di contrarre una neoplasia polmonare è doppia rispetto anche a un ex fumatore». Rischio che diminuisce a seconda dell'età in cui si smette di fumare. Qualche notizia più consolante c'è. Che nel complesso gli italiani che fumano sono in costante diminuzione: il 26,2% degli adulti contro il 27,6% del 2003 e il 29% del 2001, secondo le stime dell'indagine sulle abitudini al fumo commissionata dall'Istituto. «Non possiamo comunque essere felici-commenta il farmacologo Silvio Garattini, direttore dell'Istituto Mario Negri di Milano - perché sono ancora 14 milioni gli italiani che fumano, e ciò comporta un enorme numero di malattie e più di 80.000 morti evitabili». I tabacco dipendenti sono il30% degli uomini e il 22% delle donne, gli ex sono rispettivamente poco meno del 25% e poco più dell' 11 %. Faticoso smettere: ce la fa il 18%, ma sono 4 su 10 a provarci. Più fumatori al Sud (quasi il33%) che al Nord (26%), più fumatrici al Centro (25%, Nord 22%, Sud 21%). Calate dell' 1,3% le vendite di "bionde" nel 2003, la prima volta da 20 anni. Poco? Sono 1.350 tonnellate, 67 milioni e mezzo di pacchetti da 20. A smettere sono più gli uomini delle donne, 9 su 10 senza supporti farmacologici o psicologici. E i messaggi terribili sui pacchetti? Aiutano, se il 90% dei ragazzi che fuma (15-24 anni) ricorda la frase "il fumo uccide". Da qui a smettere, però, è un altro discorso. Le Carte del rischio, meglio se consultate col medico di famiglia, saranno a disposizione nei prossimi giorni sul sito dell'Istituto Superiore di Sanità (www.iss.it) o al numero verde antifumo 800.554088. ______________________________________________ Le Scienze 4 giu. ’04 RISCHI PER I FUMATORI DI PIPA Hanno maggior probabilità di sviluppare alcuni tipi di tumore Uno studio pubblicato sul numero del 2 giugno della rivista "Journal of the National Cancer Institute" sostiene che chi fuma esclusivamente la pipa corre un rischio di sviluppare malattie legate al tabacco approssimativamente uguale a quello di chi fuma il sigaro. Negli Stati Uniti, fra tutti i consumatori di tabacco quelli che usano la pipa sono la netta minoranza e il loro numero è in continuo calo, dal 14 per cento del 1965 al 2 per cento del 1991. Tuttavia i fumatori di pipa sono ancora molto comuni tra alcune popolazioni, come negli Indiani d'America, e dal 1999 la pipa è tornata di moda anche fra gli studenti delle scuole medie e delle superiori. Anche se i legami fra il fumo e i tumori o altre malattie sono ben studiati, poche ricerche si sono incentrate sulle persone che fumano esclusivamente la pipa. Per stimare meglio il rischio di questo tipo di consumo di tabacco, Jane Henley dell'American Cancer Society di Atlanta e colleghi hanno analizzato i dati raccolti nel corso di 18 anni sui 138.307 pazienti coinvolti nel Cancer Prevention Study II, 15.263 dei quali erano fumatori o ex fumatori di pipa. I ricercatori hanno determinato la probabilità di sviluppare nove tipi di tumore (della vescica, del colon, dell'esofago, dei reni, della laringe, dei polmoni, dell'orofaringe, del pancreas e dello stomaco) e altre malattie cardiache, cerebrovascolari e polmonari, per i fumatori di pipa rispetto ai non fumatori. I risultati indicano che il fumo di pipa risulta associato con un incremento del rischio per sei dei nove di tipi di tumore, oltre che per le altre malattie. Il maggior aumento di rischio è quello per il tumore della laringe, dei polmoni e dell'orofaringe. I rischi sono inferiori a quelli associati con il fumo di sigaretta, ma simili a quelli associati con il fumo di sigaro. __________________________________________________ IL SECOLO XIX 01 -06-2004 L'ESAME DELLE URINE SVELA IL TUMORE All'ospedale Galliera messa a punto una tecnica che riconosce le cellule malate della vescica Il nuovo test consente di guadagnare otto mesi sulla normale diagnosi Genova. Prima si arriva e meglio è. E' la regola d'oro nella lotta contro i tumori, perché una diagnosi precoce consente di rendere più efficace la terapia, e magari anche di eliminare completamente il cancro scoperto all'inizio, quando ancora non si è allargato all'organo colpito e non ha dato metastasi. Su questo fronte una buona notizia arriva dall'Ospedale Galliera di Genova, dove gli studiosi per primi in Liguria sono riusciti a disporre di una tecnica che permette di riconoscere le cellule di un tumore della vescica quando ancora non hanno assunto le caratteristiche maligne, ma sono sulla strada per diventare tali. Con un guadagno medio di otto mesi sul tempo della diagnosi, e tutto con un semplice esame delle urine, del tutto indolore, sfruttando al meglio le potenzialità offerte dalla biologia molecolare. 11 nuovo test, che verrà applicato nelle persone a rischio dl sviluppare questa forma tumorale come quanti hanno lavorato nell'industria chimica e nei fumatori, fa individuare le prime alterazioni cellulari non ancora tumorali, aprendo uno "squarcio" sul futuro biologico delle cellule stesse. «Con questo innovativo test è possibile individuare ed identificare in modo altamente sensibile le cellule vescicali tumorali con morfologia ancora "non atipica" (cioè non ancora "trasformate") che però esprimono un assetto genetico già "mutato" e che sono quindi destinate a trasformarsi in cellule tumorali spiega Roberto Bandelloni, primario del reparto di Anatomia patologica dell'ospedale Galliera di Genova. Non solo. La FISH permette di selezionare anche i casi che potranno avere una progressione più rapida rispetto alle forme a comportamento più blando, come i papillomi. Ma cosa cambia rispetto ad un normale esame delle urine mirato a ricercare cellule malate? La differenza c'è, eccome. Infatti con il test comunemente usato può risultare difficile trovare le cellule di un tumore all'inizio, perché queste possono essere troppo poche rispetto alla massa di unità cellulari valutate oppure perché non sono sufficientemente diverse rispetto a quelle normali. «II problema principale dei tumori vescicali è l'alto tasso di ricorrenza, visto che in circa I'80 per cento dei casi si ripresentano dopo il trattamento iniziale - afferma Massimo Maffezzini, primario di Urologia del Galliera». La tecnica, impiegata anche per la diagnosi di tumori alla mammella e alla prostata, utilizza dei "frammenti di Dna" per lo studio dell'instabilità genetica e delle variazioni nel numero di specifici cromosomi 3, 7, 17 e della perdita di un gene che protegge dal tumore nelle cellule. L'esame, tuttavia, costa molto e va eseguito solo in casi selezionati. Federico Mereta ________________________________________________________ LA GAZZETTA DEL METZOGIORNO 04-06-2004 STAMINALI IN ODONTOIATRIA I RICERCA DELL'UNIVERSITÀ DI BARI In un futuro non troppo lontano sarà possibile ricostruire tessuto osseo ed elementi dentari con l'utilizzo di cellule staminali- Queste cellule, se paragoniamo il nostro organismo ad un enorme puzzle, riescono a sostituire un tassello mancante adattandosi al nuovo tessuto. Un paio d'anni fa con microinfusiuni di staminali prelevate dallo stesso sangue di un paziente colpito da infarto, sì riuscì a ridare funzionalità ai tessuti del cuore salvandogli la vita. Il prelievo delle cellule non è facile, nel sangue ce n'è una piccola quantità. Se ne trovano di più nel midollo, ma qui bisogna adoperare tecniche invasive e spesso traumatiche per il paziente. Ecco perché si è pensato di prelevarle dalla polpa dentaria ed in particolare dai denti «da latte» che, comunque, si perdono durante la crescita. A questa ricerca e alle possibili utilizzazioni delle staminali in odontoiatria lavora un'équipe dell'Università di Bari diretta da Roberto Grassi titolate della cattedra di Parodontologia e Chirurgia Orale. Ecco le nuove frontiere della ricerca. La polpa dentaria come nuova fonte di cellule staminali? «Certo, lo studio di cellule staminali provenienti da polpa dentaria rappresenta una prospettiva interessante per le nuove frontiere della ricerca biomedica». E per ciò che concerne le implicazioni etiche? «In passato problemi erano sorti in merito alle implicazioni bioetiche relative alla coltura di cellule staminali, in quanto il veto del Comitato Nazionale dì Bioetica è posto per le cellule staminali derivanti da tessuti appartenenti alla vita prenatale, cioè embrioni e feti. La polpa dentaria è invece un tessuto che si sviluppa nell'epoca post natale, quindi senza alcuna implicazione etica». Ci sono altri studi della comunità scientifica internazionale in proposito? «Se ne è occupato un istituto americano il NIDCR (National lnstitute of Dental and Craniofacial Resean:h) i cui risultati hanno indirizzato la nostra attenzione sulla possibilità di poter "riprodurre" ed applicare questi protocolli anche in Italia». Quali le prospettive ? «Vi è una grande potenzialità per l'utilizzo terapeutico delle cellule staminali: potrebbero essere utilizzate per la rigenerazione ossea, parodontale o addirittura la genesi de novo di elementi dentari come ha recentemente mostrato una ricerca del prof. Sharpe del KìnK s College di Londra London pubblicata agli inizi di questo mese». _______________________________________________________ Personal 5 giu. ’04 I 10 NUOVI FARMACI CHE CAMBIERANNO LA VITA Ricerca Dopo aver superato le fasi di sperimentazione, una nuova generazione di medicinali è pronta a sbarcare in farmacia Genentech promette di uccidere le forme tumorali togliendo loro il nutrimento, Roche segna una svolta contro l'epatite C e Pfizer abbassa i rischi legati a ipertensione e ipercolesterolemia. E Aventis, con l'insulina in polvere, cancella le iniezioni per i diabetici «La, ricerca, fortunatamente, non si ferma. Anzi, fa passi da gigante». Ne è convinto Sergio Dompé, presidente di Assobiotec, che a margine di un recente convegno di Farmindustria ha spiegato che in Italia le aziende di biotecnologia stanno sviluppando un numero importante di nuovi farmaci, confermando una crescita del settore con tassi del 10% annui. E a dimostrazione di questi investimenti i colossi della farmaceutica stanno per lanciare sul mercato medicinali estremamente innovativi. È il caso della Genentech, azienda californiana del gruppo Roche operante nel settore delle biotecnologie, che ha di recente ottenuto l'approvazione e la certificazione da parte della Food and Drug adiffinistration per il primo farmaco che combatte il tumor «affamandolo», ossia privandolo del nutrimento dei vasi sanguigni Il rivoluzionario prodotto, detto bevacizumab, diventerà il trattamento di prima linea per coni battere la neoplasia metastatica del colon retto in associazione a chemioterapia, con un approccio totalmente nuovo rispetto alle cure tradizionali. II medicinale, in fatti, è in grado di bloccare il fattore di crescita endoteliale cioè il segnale biochimico che attiva l’angiogenesi, ossia il meccanismo di formazione dei vasi sanguigni che portano il mitrimento indispensabile alla crescita del tumore. L’inibizione dell'angiogenesi, quindi, indebolisce le cellule maligne, bloccandone la diffusione da una parte del corpo all'altra (metastasi), facilitando così l'accesso della chemioterapia all'interno del tumore stesso e facendo guadagnare al paziente cinque mesi di vita in più. Questo quanto è emerso, per il momento, dallo studio pilota di fase 3 condotto su 900 pazienti affetti da tumore metastatico del colon del retto. A oggi non esistono altre sperimentazioni cliniche di fase 3 che dimostrino una maggiore durata della sopravvivenza attribuibile all'aggiunta di una sola terapia «mirata» al regime convenzionale. «La rapidità con la quale la Fda ha rivisto e approvato il bevacizumab testimonia l’importanza dell'innovazione medico-scientifica che questo trattamento porterà ai pazienti affetti da tumore», afferma William M. Burns, responsabile di Roche pharmaceuticals division, che aggiunge: «La priorità del documento in Svizzera e in Canada è già stata garantita e si stanno prendendo decisioni analoghe anche per quanto concerne l'Unione europea e l’Australia. Stiamo lavorando a stretto contatto con le autorità regolatorie per fornire ai pazienti bevacizumab il prima possibile, soprattutto perché è il primo trattamento di questo tipo». Inoltre, considerato che il meccanismo d'azione di questo farmaco potrebbe essere rilevante per numerosi tipi di tumori solidi, Roche e Genentech ne stanno attualmente provando il potenziale beneficio clinico in altre forme di neoplasie metastatiche, incluse il cancro al polmone non a piccole cellule (che - secondo l’Oms è la causa di 1,1 - milioni di decessi ogni anno nel mondo), il carcinoma pancreatico, quello renale e quello al seno. Nuovi passi sono stati compiuti da Roche anche nella produzione di un nuovo farmaco contro l'epatite C e di uno contro la correlazione Hiv ed epatite C: il nuovissimo Interferone pegilato alfa 2a-40 kd. Raffaele Bruno, della Divisione Malattie Infettive e tropicali del Policlinico San Matteo di Pavia è una dei massimi esperti di coinfezione in Italia: «La coinfezione-Hiv-Epatite C (Hcv)», spiega Bruno, «è un problema di sanità pubblica, perché accelera la storia naturale della malattia da Epatite C. Non a caso, la cirrosi sta diventando una delle principali cause di morte nei pazienti Hiv positivi». Oggi le prospettive terapeutiche stanno cambiando, come è stato dimostrato dai risultati dello studio Apricot condotto da Roche: nel 40% dei pazienti totali coinfetti da Hiv e Hcv l'associazione di peginterferone alfa 2a e ribauirina ha fatto scomparire il virus dell'Epatite C (Hcv). Un farmaco rivoluzionario anche per la Pfizer che ha realizzato un prodotto innovativo chiamato Caduet, che in un'unica pillola permette il trattamento simultaneo di ipertensione e ipercolesterolemia, due significativi fattori di rischio delle malattie cardiovascolari. «Caduet rappresenta un grande progresso per i milioni di pazienti che soffrono contemporaneamente di due serie patologie, in quanto unisce due farmaci importanti, ciascuno dei quali con una provata esperienza a livello mondiale», afferma Joereczxo, presidente del woriamae Development di Pfìzer. E aggiunge: «nonostante l'elevato numero di terapie a oggi disponibili, milioni di pazienti continuano ad avere problemi di ipertensione e alti livelli di colesterolo. Grazie ai trattamento contemporaneo delle due patologie, è possibile ridurre il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari». Buone nuove anche per l’Aventis, che insieme a Pfizer ha da poco sottoposto alla commissione dell'Emea un nuovissimo tipo di insulina in polvere che, una volta approvata, andrà a sostituire le fastidiose iniezioni alle quali i diabetici devono costantemente sottoporsi. Innovazioni anche per la Novartis, che ha ottenuto l'approvazione da parte dell Vda per due nuovi farmaci presto in commercio. II Myfortic permette di ridurre il rischio di rigetto del, rene in seguito a un trapianto, mentre il Certican ha il medesimo scopo dopo un trapianto di rene o di cuore. ______________________________________________ La Stampa 2 giu. ’04 STRATEGIE PER RIDURRE LE MACCHIE CUTANEE ALCUNI TIPI COMPAIONO CON LA SENILITA’, ALTRI IN GRAVIDANZA OPPURE IN SEGUITO A CERTE TERAPIE PER RIDURLE, IL PRIMO PROVVEDIMENTO E’ UNA PROTEZIONE SOLARE. GLI EFFETTI DELLA PROCISTEINA I CANONI dell’estetica non sono identici nelle varie parti del mondo. Le donne orientali tendono a presentarsi con il viso bianco, color «porcellana» (le geishe sono disposte a spalmare sulla pelle anche sette diversi prodotti per ogni mattina). Nel mondo occidentale il colore dell’abbronzatura è ricercato con ogni mezzo (quando non c’è il sole si ricorre alle lampade e all’artificio della cosmesi: fondo tinta e polveri color terra). Il problema invece che accomuna donne e uomini senza confini geografici riguarda le macchie scure della cute che si manifestano dopo i cinquant’anni: nell'immaginario collettivo rappresentano un segnale del tempo che passa e della giovinezza che sfiorisce. Sono definite «lentigo senili». Altre macchie cutanee possono comparire durante la gravidanza (cloasma gravidico), in seguito ad irritazioni chimiche (dopo rasatura), ustioni, medicamenti. Secondo una ricerca europea condotta da IPSOS, le macchie cutanee sono al secondo posto tra le principali preoccupazioni relative alla pelle (54%), subito dopo il rilassamento cutaneo (65%). In considerazione del grande interesse che suscita questo problema e della presenza di rimedi poco risolutivi (coprenti, esfolianti), la ricerca dermatologica ha affinato le conoscenze. Oggi sappiamo che la struttura cutanea è identica per tutte le razze, ad eccezione del contenuto di melanina, il pigmento che dà colorazione alla pelle. Esistono 2 tipi di melanina: l’eumelanina che ha una colorazione marrone-nero (e che garantisce una protezione nei confronti dei raggi solari) tipica della razza africana e asiatica, e la feomelanina che ha una colorazione variabile tra il giallo e il rosso (non protegge dai raggi UV), tipica della razza caucasica. Le melanina viene sintetizzata a partire da un aminoacido, la tirosina in presenza di un enzima chiave (tirosinasi) che dà il via ad una serie di complesse reazioni biochimiche che portano alla produzione del pigmento nelle due forme suddette. Tuttavia il processo di formazione di melanina può essere alterato. Per esempio l’eccessiva esposizione ai raggi UV nelle zone del corpo più esposte (viso, braccia, decolleté, dorso delle mani) può portare all’eccessiva produzione di melanina e soprattutto ad una ripartizione non omogenea del pigmento. Le variazioni ormonali che si verificano durante la menopausa possono peggiorare la situazione: la superficie cutanea appare più sottile, per cui si nota più facilmente l’accumulo irregolare di melanina; la vascolarizzazione cutanea si riduce e il rinnovamento cellulare rallenta, per cui le macchie cutanee possono diventare più grandi, di colore più intenso, più difficili da rimuovere. I raggi UV inoltre favoriscono la produzione di monossido di azoto (che è un attivatore della melanogenesi) e la liberazione di sostanze infiammatorie (prostaglandine E2) che stimolano l’attività della tirosinasi. Per ridurre le macchie cutanee, il primo provvedimento consiste nel proteggere la pelle dalle radiazioni solari con filtri che abbiano uno spettro di assorbimento sia per i raggi UVB (che provocano eritema solare) che per gli UVA (che favoriscono l’iperpigmentazione). Oltre a questa protezione oggi si rivela utile una nuova molecola messa a punto dalla ricerca Oreal-Vichy: la procisteina. Questa sostanza inibisce la tirosinasi (l’enzima chiave della melanogenesi) normalizzando la produzione di melanina. Nei casi ribelli si può ricorre al dermatologo che può praticare trattamenti meno soft: il peeling, la dermoabrasione, la crioterapia, il laser che rompe i pigmenti delle macchie cutanee in tanti piccoli frammenti che vengono poi eliminati dall’organismo. ______________________________________________ Le Scienze 4 giu. ’04 COLPO DOPPIO CONTRO I VIRUS I nuovi vaccini antivirali sarebbero più efficaci se a doppio effetto Uno studio dei National Institutes of Health (NIH) degli Stati Uniti pubblicato sul numero del 28 maggio della rivista "Science", che rivela nuove informazioni su come le proteine virali si spostano dentro le cellule e mettono in allarme il sistema immunitario, suggerisce di adottare un approccio a "doppio attacco" nella progettazione dei vaccini in modo da renderli più efficaci. "Le nostre scoperte - spiega il biologo Christopher C. Norbury della Pennsylvania State University - sfidano la teoria oggi prevalente nello sviluppo di nuovi vaccini. Secondo noi, i vaccini dovrebbero avere come bersaglio entrambi i progessi che generano cellule T, le cellule che rappresentano la nostra migliore protezione contro i virus". Alcuni virus, come la varicella, viaggiano all'esterno delle cellule nel flusso sanguigno del corpo. Quando si introducono nell'organismo, innescano la risposta degli anticorpi, che li distrugge. Tuttavia altri virus, come l'HIV e il vaiolo, si spostano all'interno delle cellule dove gli anticorpi non possono penetrare. Questi virus vengono trasferiti da cellula a cellula e possono essere eliminati soltanto dalle cellule T specializzate. La maggior parte dei vaccini, pertanto, cerca di stimolare o migliorare la risposta al virus delle cellule T dell'organismo. Ci sono due processi con cui attivare le cellule T. Nel primo, il "direct printing", le cellule che presentano l'antigene (pAPC) generano sulla propria superficie piccoli frammenti delle proteine virali (peptidi). Nel secondo, il "cross-priming", c'è un trasferimento di alcuni tipi di proteine, simili ai peptidi, fino alle pAPC. Gli esperimenti di Norbury e colleghi con i vaccini del vaiolo e dell'influenza A mostrano che alcuni virus possono essere individuati solo tramite uno dei due processi e che pertanto è importante fabbricare vaccini che seguano entrambe le strade. ______________________________________________ Le Scienze 4 giu. ’04 TERAPIA GENICA PER LA SCLEROSI LATERALE AMIOTROFICA Un gene può estendere del 30 per cento l'aspettativa di vita Alcuni ricercatori britannici e belgi sarebbero riusciti a sviluppare un trattamento di terapia genica per la forma più comune di malattia del motoneurone (MND). Nei test di laboratorio condotti sui topi, la terapia ha rallentato l'insorgere e la progressione della sclerosi laterale amiotrofica (SLA), estendendo inoltre l'aspettativa di vita del 30 per cento. Lo studio, descritto in un articolo pubblicato sulla rivista "Nature", è però ancora nelle sue prime fasi precliniche. Le MND sono disturbi progressivi causati dalla morte dei motoneuroni, le cellule del cervello e del midollo spinale che controllano il movimento. Attualmente non è nota alcuna cura. La SLA è una forma della malattia che colpisce gli adulti e che nella maggior parte dei casi porta alla paralisi e alla morte entro cinque anni. Il nuovo trattamento, chiamato MoNuDin, consiste essenzialmente in un gene che innesca la produzione di una sostanza chimica chiamata fattore di crescita endoteliale vascolare (VEGF). Il gene viene iniettato nei muscoli, ma stimola la produzione di VEGF nelle cellule nervose della spina dorsale. Secondo gli scienziati della Oxford BioMedica, gli esperimenti mostrano che la nuova terapia produce un effetto benefico significativo e potrebbe costituire una cura per la SLA. __________________________________________________ l’Unità 04-06-2004 24 LE MALATTIE MENTALI DIMENTICATE DAI SISTEMI SANITARI Le malattie mentali hanno una forte incidenza in tutto il mondo, ma non per questo vengono trattate adeguatamente dai sistemi sanitari. Lo dimostra uno studio condotto da Ronald Kessler della Harvard Medicai School di Boston che ha pubblicato un articolo sulla rivista «Journal of the American Medicai Association». La ricerca ha analizzato lo stato di salute mentale degli adulti di 14 paesi e cioè Colombia, Messico, Usa, Belgio, Francia, Germania, Italia, Olanda, Spagna, Ucraina, Libano, Nigeria, Giappone e Cina. La probabilità di avere problemi mentali nell'anno precedente alla ricerca variava dal 4,3 per cento di Shangai al 26,4 per cento negli Usa. Una percentuale compresa tra il 35,5 per cento e il 50,3 per cento dei casi più seri nei paesi sviluppati non aveva ricevuto alcun trattamento. Percentuale che sale al 76,3- 85,4 per cento nei paesi meno sviluppati.