UN PERCORSO A Y SOSTITUIRÀ IL "3+2" - LA VII COMMISSIONE BOCCIA IL PERCORSO A Y - UNIVERSITÀ, SÌ AL PERCORSO A Y - UNIVERSITÀ, RESTYLING AL «3+2» - LA LAUREA CAMBIA, IL MASTER RESTA - ECCO IL DECALOGO PER RINNOVARE L'UNIVERSITÀ - LA PILLOLA CHE CANCELLA LE IDEOLOGIE - VOGLIAMO UNA RICERCA SCIENTIFICA DA PAESE NORMALE - PIÙ CONCRETEZZA NELL’INNOVAZIONE - PRESENTATO DA “ALMALAUREA” L’IDENTIKIT DEI LAUREATI NEL CORSO DEL 2003 - LAUREATI, SOLO 1 SU 7 NON È FUORI CORSO - TRA I RETTORI E LA MORATTI SIGLATO UN PATTO DI COLLABORAZIONE - SOGNANDO UN CAMPUS AMERICANO - IL MODELLO USA DEI CAMPUS? DIFFICILE COPIARLO IN ITALIA - UNIVERSITA’ LA CHIAVE DELLA RICERCA - CONCORSI TRUCCATI, ARRESTATI 5 CARDIOLOGI - RICERCA SULL'UOMO, NUOVE REGOLE PER LA PRIVACY - ================================================================== TROPPE DONNE A MEDICINA ALLARME IN EUROPA - LAUREE SANITARIE, CGIL A MASALA: IL MINISTERO NON PENALIZZI L'ISOLA - IL COMPUTER NON VA IN CORSIA - SERVONO OSPEDALI DI QUALITÀ - MEDICINA, MEDICI E CIARLATANI - MEDICI SENZA MORALE - LE PAROLE DELLA GENETICA CONOSCERLE PER EVITARE ABBAGLI - L'EUROPA SCENDE IN CAMPO CONTRO I TUMORI DEL SANGUE - EMORROIDI / INFLUENZANO ANCHE LA PSICHE E IL COMPORTAMENTO SOCIALE - SHOCK ANAFILATTICO ADDIO - CANCRO, IL 64 PER CENTO DEI MALATI SOPRAVVIVE - ENDOMETRIOSI UNA MALATTIA SOTTOVALUTATA - TEST PRENATALI, ORA SI POSSONO SCOPRIRE 200 MALATTIE - SALVATE I NERVI DELL'EREZIONE - I DISTURBI DELLA FUNZIONE ERETTILE SEGNALE D'ALLARME PER INFARTI E ICTUS - DIABETE, NUOVA STRATEGIA - ================================================================== ______________________________________ Roma, 16 giugno 2004 UN PERCORSO A Y SOSTITUIRÀ IL "3+2" Il Ministro Moratti: "Nuove lauree di maggiore qualità e più rispondenti alle esigenze del mercato del lavoro" (Roma, 16 giugno 2004) Con il parere espresso oggi dalla Camera dei Deputati, si chiude l'iter parlamentare del Decreto che modificherà l'ordinamento didattico universitario con l'introduzione del percorso a Y (1+2+2) in sostituzione del 3+2. Dopo la registrazione alla Corte dei Conti e la successiva pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, il provvedimento diventerà operativo e permetterà la rivisitazione delle attuali classi di laurea di primo e secondo livello. "Con la revisione del Decreto che ha istituito il 3+2", ha commentato il Ministro Letizia Moratti, "sarà garantita una maggiore flessibilità alla progettazione formativa e saranno, al tempo stesso, riqualificate le lauree in modo da potenziare il raccordo con il mondo del lavoro e consentire più opportunità di sbocchi professionali. Ringrazio il Parlamento che, in tempi brevi, ha espresso il parere e la senatrice Maria Grazia Siliquini per averne seguito l'iter parlamentare. L'Università italiana", ha concluso il Ministro, "ha ora gli strumenti per assicurare ai nostri giovani titoli maggiormente spendibili sul mercato del lavoro e più rispondenti alle esigenze di una società in rapida trasformazione". In sostituzione del rigido "3+2" viene introdotto un percorso a "Y" con due percorsi paralleli e distinti, adeguatamente progettati. Dopo un primo anno, dove si frequenteranno attività didattiche comuni, vi sarà la netta separazione tra il percorso professionalizzante che conduce alla laurea triennale (1+2) ed il percorso metodologico per gli studenti che dopo la laurea triennale intendano conseguire anche la laurea magistrale (1+2+2). In particolare, dopo un primo anno comune, pari a 60 crediti, a forte contenuto di base, il percorso formativo si "biforca" e lo studente, conscio delle proprie capacità e sulla base delle attitudini dimostrate potrà, dunque, proseguire per altri due anni, per un numero complessivo di 180 crediti: * in un percorso professionalizzante e, quindi, entrare nel mercato del lavoro con una preparazione adeguata. In sostanza, un percorso triennale "razionalizzato" che porterà ad una laurea più chiaramente orientata all'inserimento nel mondo del lavoro rispetto all'attuale. Il percorso di laurea sarà maggiormente caratterizzato dalla presenza di stages e attività di tirocinio; * in un biennio "metodologico-formativo" (120 crediti), che non fornisce una preparazione specifica per il lavoro perché è finalizzato al conseguimento di una solida preparazione metodologica di base più consigliabile a coloro che intendano proseguire gli studi in un successivo ed ulteriore biennio (120 crediti), al cui termine si conseguirà la Laurea Magistrale (nuova denominazione della "Specialistica"). Si svolgerà, quindi, complessivamente un ciclo di studi quinquennale, che condurrà ad ottenere un titolo di peso specifico più elevato rispetto all'attuale. Con la revisione del "3+2" gli atenei godranno di maggiore autonomia e flessibilità per quanto riguarda la determinazione dei crediti. Infatti i crediti vincolati a livello nazionale scenderanno per i percorsi triennali dall'attuale 66 per cento al 50 per cento e per il biennio magistrale al 40 per cento e soltanto per le discipline di base e caratterizzanti. Da sottolineare inoltre che si passa da una concezione "verticale" dei percorsi formativi a un modello trasversale: in pratica, adottando un criterio multidisciplinare della formazione si potrà conseguire una laurea triennale umanistica e proseguire in un biennio "magistrale" nel settore scientifico e viceversa, ovviamente dopo una verifica, da parte dell'ateneo, della preparazione e degli eventuali debiti formativi da colmare. Molto importante è la modifica dei percorsi finalizzati alle professioni legali di magistrato, avvocato e notaio. Ciò consentirà di costruire un modello a "ciclo unico" (in sostanza "1+4") che garantirà maggiore organicità, unitarietà, completezza e qualità nella formazione. Rimarrà comunque un percorso triennale per quanto riguarda la classe di laurea di scienze giuridiche. Specifiche disposizioni transitorie prevederanno che la nuova normativa si applichi dopo la ridefinizione delle classi di laurea, con la possibilità di una fase di sperimentazione che consenta agli atenei che lo vorranno di applicare l'ordinamento didattico a "Y" fin dall'anno accademico 2004-2005. ___________________________________ LA VII COMMISSIONE BOCCIA IL PERCORSO A Y Parere sull’atto del Governo n. 361 La VII Commissione permanente della Camera, in sede di esame - per il prescritto parere - dello schema di decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca (atto del Governo n. 361), concernente “Modifiche al regolamento recante norme concernenti l’autonomia didattica degli atenei, approvato con decreto del Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica 3 novembre 1999, n. 509”, considerato, in via preliminare, che: a) il provvedimento appare viziato da rilevanti profili di incoerenza e contraddittorietà, in quanto, mentre enuncia (nel titolo) e apporta (nel testo) “modifiche” a singole disposizioni del decreto n. 509 del 1999, contestualmente dispone - nell’ articolo unico - la sua totale sostituzione, senza tuttavia provvedere né al necessario raccordo normativo tra gli articoli modificati e quelli letteralmente riprodotti dal testo originario, né all’indicazione delle altrettanto indispensabili disposizioni transitorie per disciplinare il passaggio dall’uno all’altro ordinamento, posto che l’art. 13 dello schema di decreto sostanzialmente riproduce, in maniera incongrua, la disciplina transitoria a suo tempo fissata per il precedente passaggio di ordinamento; b) gli indicati profili di incoerenza e contraddittorietà determinano una situazione di oggettiva incertezza del diritto nel delicatissimo campo dell’ordinamento dei corsi di studio e dell’efficacia legale dei relativi titoli, tale da produrre, in sede applicativa, sicuri effetti di ingestibilità da parte degli atenei,; c) l’articolo unico dello schema di decreto viene inoltre a mutare la natura giuridica e la portata politica del provvedimento, in difformità con la volontà politica pubblicamente espressa dal Ministro e con la stessa forma con cui è stato richiesto il prescritto parere degli organismi consultivi, limitandolo alle “modifiche” del decreto n. 509 del 1999, rendendo conseguentemente indeterminato l’oggetto stesso del parere parlamentare: se debba cioè vertere sulle sole modifiche del decreto n. 509 del 1999 o sull’intero provvedimento sostitutivo, comprensivo delle parti non modificate, vale a dire sul complesso della riforma degli studi universitari; la differenza non è di poco conto e non è priva di effetti in ordine sia alla correttezza dei rapporti tra Governo e Parlamento, sia alla legittimità stessa del provvedimento in esame; d) il parere espresso ai sensi dell’art. 96/ter, comma 3, del regolamento, dal Comitato per la legislazione, in data 18 maggio 2004, il quale ritiene che debba essere riformulata l’articolazione dello schema di decreto ministeriale; considerato, nel metodo, che: e) gli organismi consultivi interpellati per il prescritto parere (Cun, Crui, Cnsu, Cnvsu e Consiglio di Stato) hanno espresso - come risulta dalla documentazione allegata allo schema di decreto - articolate e motivate riserve, osservazioni e preoccupazioni sia sull’opportunità del provvedimento, sia sul merito delle modifiche proposte, così da rendere evidente, sia pure nella diversità dei ruoli e delle accentuazioni, la sostanziale contrarietà al provvedimento stesso tanto da parte delle rappresentanze istituzionali del mondo universitario, quanto da parte degli organi tecnico-consultivi; f) l’indicata posizione è stata ribadita e ulteriormente argomentata nelle audizioni del Cun e della Crui, disposte dalla Commissione, com’è attestato anche dalla puntuale memoria consegnata alla Commissione dalla presidenza della Conferenza dei Rettori al termine dell’audizione; g) tali riserve, osservazioni e preoccupazioni non risultano essere state prese adeguatamente in considerazione nel formulare lo schema di decreto, come osservato anche dal Consiglio di Stato e contrariamente a quanto affermato nella relazione illustrativa, per altro tardivamente trasmessa dal Governo in data 6/5/04, tant’è che il complesso delle modifiche appare sostanzialmente invariato rispetto a quello reso noto dalla stampa più di un anno fa e poi sottoposto al parere degli organismi consultivi; h) in particolare, non trova alcun riscontro nello schema di decreto la rassicurazione formalmente data dal Ministro, anche in sede di chiarimenti ai rilievi formulati dal Consiglio di Stato, circa la facoltatività per gli atenei delle proposte modifiche al vigente ordinamento degli studi, in quanto - come inequivocabilmente risulta dal testo del provvedimento - le modifiche stesse risultano tutte vincolanti; formula, nel merito, le seguenti osservazioni: 1. intempestività del provvedimento: si interviene sul nuovo modello formativo universitario, introdotto dal decreto n. 509 del 1999, quando sono trascorsi meno di quattro anni dall'inizio della sua applicazione, avvenuta in base ai decreti ministeriali 4 agosto 2000, 28 novembre 2000 e 2 aprile 2001(per non citare quelli, ancora successivi, sui corsi di studio per le discipline della sicurezza), e si è concluso, salvo pochissime eccezioni, un solo ciclo delle nuove lauree e nessun ciclo delle nuove lauree specialistiche, quindi senza avere avuto la possibilità di una valutazione ponderata sui punti di forza e di debolezza del nuovo modello e sulle difficoltà applicative effettivamente incontrate dagli atenei; 2. perturbazione della vita universitaria ed incoerenza politica: l'obbligo per le università di provvedere entro diciotto mesi ad adeguare gli ordinamenti didattici dei propri corsi di studio alle disposizioni del nuovo regolamento e dei relativi decreti applicativi, previsto dall'art. 13, comma 1, dello schema di decreto, è destinato a perturbare pesantemente la vita universitaria dopo un periodo di enorme impegno e di intenso sforzo adattativo al nuovo modello didattico universitario, aggravati peraltro dalle ben note e serie difficoltà finanziarie; inoltre tale obbligatorietà si pone in evidente contrasto con la volontà politica, espressa dal Ministro in più sedi ufficiali, di dare alle nuove norme un carattere di facoltatività, nel rispetto dell'autonomia delle università e in attesa di più cogenti valutazioni dei risultati; 3. impatto sociale gravemente negativo - sugli studenti, sulle famiglie, sul mondo del lavoro e sul sistema universitario nazionale - per effetto del nuovo e profondo cambiamento del sistema e della denominazione dei titoli di studio, quando ancora il precedente, che pure ha avuto un notevole successo tra gli studenti e nel mondo del lavoro, non è stato ancora pienamente metabolizzato dalla società; con le conseguenze: a) di un danno certo per i giovani, il cui titolo di studio in corso di conseguimento rischia una completa dequalificazione, risultando schiacciato tra quelli del vecchio ordinamento e quelli del “nuovissimo” che si verrebbe ad attuare con il provvedimento in esame; b) di un caotico e pesante aggravio per le università, tenute a organizzare e gestire contemporaneamente e in parallelo tre diversi sistemi didattici; 4. regressione culturale, dovuta alla previsione di un anno di formazione comune, inevitabilmente rigida e collegata a tradizionali quanto antiquate visioni disciplinari del sapere, per tutti i corsi di laurea della medesima classe, mentre è in atto un processo di riorganizzazione dei saperi e di trasversalità delle conoscenze di portata storica; 5. limitazione dell’autonomia degli atenei: l’autonomia didattica delle università, che pure è l'oggetto del regolamento, è fortemente intaccata dalla norma (art. 10, c. 2) che fissa al 50% il "minimo" dei crediti fissati a livello nazionale, a fronte del precedente 45%, e, soprattutto, non fissa alcun "massimo", a fronte del precedente 66%, con la conseguenza che, almeno in linea di principio, l'intero ammontare dei crediti di un corso di laurea potrebbe essere stabilito a livello nazionale, senza lasciare alcuna possibilità di scelte autonome da parte dell'ateneo; lo stesso può ripetersi per le "lauree magistrali", per le quali il “minimo” è fissato al 40% (art. 10, c. 4) e non vi è, come per le lauree, alcun massimo; 6. eliminazione dei master universitari: l'autonomia didattica delle università è intaccata altresì dall'eliminazione dei master universitari annuali, di primo e di secondo livello (ex art. 3, c. 8, e art. 7, c. 4, ora soppressi), perché ne indebolisce la capacità di competere in una società della conoscenza che vede in forte sviluppo la domanda di alta formazione integrativa e di formazione permanente lungo tutto l'arco della vita; 7. rigidità del modello formativo: l'ampia flessibilità nei tempi e nei modi della formazione universitaria - garantita attualmente dal sistema delle classi e dall’articolazione dei livelli e dei relativi titoli di studio (lauree, lauree specialistiche, master universitari di primo e di secondo livello, dottorati di ricerca) - risulta fortemente indebolita nello schema di decreto, a causa: o dell'eliminazione dei master universitari (ex art. 3, c. 8, e art. 7, c. 4, ora soppressi), o dell'obbligo di un primo anno comune tra i corsi di laurea della medesima classe (art. 11, c. 7, lett. a), o della struttura ad Y obbligata per tutti i corsi di laurea della stessa classe, senza alcuna chiarezza nè sulla possibilità di chi consegua il titolo di studio sul percorso più professionalizzante di proseguire comunque gli studi in un corso di laurea magistrale, nè sulle condizioni per tale proseguimento (art. 11, c. 7, lett. a); o della cancellazione dell'obbligo per gli atenei di destinare almeno il 15% di ciascun curriculum ad attività formative a scelta autonoma dello studente, a quelle di preparazione della prova finale e di conoscenza di una lingua straniera, a quelle infine di tipo trasversale e relazionale per il miglior inserimento del laureato nel mondo del lavoro (ex art. 10, c. 2, lett. d), e), f), ora soppresse), tutte attività formative che miravano a rendere più flessibile ed adeguata alla domanda l'offerta didattica universitaria; o dell'irrigidimento settoriale monodisciplinare dei corsi di laurea e di laurea magistrale, derivante dall'eliminazione della quota obbligatoria di formazione destinata alle discipline affini, alle culture di contesto, alla formazione interdisciplinare (ex art. 10, c. 2, lett. c), ora soppressa); 8. rischio di una lunga e pericolosa vacatio legis, con riferimento agli attuali titoli di studio universitari (laurea, laurea specialistica, master universitario di primo e di secondo livello), in quanto la scelta di sostituire per intero il decreto n. 509 del 1999, senza opportune norme transitorie, sollecitate inutilmente anche dal Consiglio di Stato, priva di normativa di riferimento l'intera attività didattica universitaria corrente, che peraltro dovrà necessariamente continuare senza modifiche fino all'emanazione dei decreti ministeriali sulle classi, applicativi del nuovo regolamento, in sostituzione di quelli del 4 agosto e 28 novembre 2000 e del 2 aprile 2001; 9. incertezza nell’accesso alle professioni: ulteriori riflessi sociali negativi deriveranno dall'incertezza creata dal nuovo modello formativo sul sistema delle professioni regolamentate, anch'esso in corso di profonda riforma, a seguito del decreto n. 509 del 1999 e dei relativi decreti applicativi, mediante il decreto del Presidente della Repubblica n. 328 del 2001 ed i successivi provvedimenti; 10. caoticità e approssimatività del provvedimento: non mancano nello schema di decreto errori, lacune e refusi tra cui, a solo titolo esemplificativo, si citano i casi seguenti: o la relazione illustrativa si diffonde esplicitamente su norme degli articoli 9 e 10 che in realtà sono state cassate (pasticcio cui è stato posto riparo con il tardivo invio di una nuova relazione datata 06.05.2004!); o all’art. 9, in contraddizione con la relazione, si elimina il vincolo della presenza dei due livelli di laurea nello stesso ateneo o in atenei convenzionati; o vi è una difformità tra l’art. 1, c. 1, lett. l), dove i crediti formativi universitari sono, come nella normativa europea, una misura del lavoro di apprendimento dello studente, e l’art. 5, c. 1, in cui le parole “lavoro di apprendimento” sono sostituite dalle meno chiare “impegno complessivo”; o non è chiaro quale sia il corso di studio finalizzato all’accesso alle professioni legali (art. 6, c. 3) e quale ne sia la durata, visto che la laurea magistrale corrisponde a 120 crediti e cioè a due anni; lo stesso vale per i corsi di studio regolati da normative dell’Unione Europea (ad esempio, medicina e chirurgia); o non è chiaro in che cosa la fattispecie di tirocini formativi prevista dall’art. 10, c. 5, lett. e) sia diversa da quella prevista dalla precedente lettera d); o non si comprende perché sia stato eliminato l’obbligo di informazione agli studenti sugli ordinamenti didattici mediante strumenti informatici e telematici (ex art. 11, c. 2, ora soppresso in parte); o gli studi condotti per conseguire un diploma universitario sono da valutare in crediti per il conseguimento di una laurea (art. 13, c. 3) mentre il diploma stesso dà direttamente accesso alle lauree magistrali (art. 6, c. 2); o viene stabilita una “qualifica accademica” per chi ha conseguito un dottorato di ricerca ma non per chi ha conseguito una laurea o una laurea magistrale; o si riserva l’uso della denominazione “Master” alle università, in quanto ritenuto sinonimo di “laurea magistrale”, senza tener conto che la parola “Master” è d’uso comune internazionale e largamente diffusa in Italia anche per qualificare alcuni titoli formativi professionali non universitari o, comunque, privi di valore legale; invita il Ministro a ritirare il provvedimento, per il riesame dell’intera materia e per la riformulazione dello schema di decreto, tenendo conto delle esposte considerazioni ed osservazioni; e, in particolare, dell’opportunità di: · operare in modo che le eventuali modifiche al decreto ministeriale n. 509 del 1999 vadano nella direzione di attuare gli impegni assunti in ambito europeo per la realizzazione dello “Spazio europeo dell’istruzione superiore”, sostenendo il “processo di Bologna” e gli atenei che meglio lo applicano; · correggere gli eventuali errori e difficoltà applicative del decreto n. 509 del 1999, effettivamente evidenziati dall’esperienza, e di adeguare le norme risultate maggiormente controverse in sede applicativa; · dare dimensione sistemica e facilità comunicativa e applicativa all’intervento di modifica, prevedendo e assicurando la contestualità delle modifiche al decreto ministeriale n. 509 del 1999 con quelle dei decreti applicativi sulle classi delle lauree e delle lauree specialistiche; · studiare e introdurre forme di monitoraggio degli attuali ordinamenti didattici universitari, rendendo obbligatorie eventuali modifiche solo dopo una congrua e rigorosa valutazione dei risultati; · valutare attentamente le migliori strategie per eliminare o ridurre il costo sociale pagato dagli studenti, dalle famiglie e dal mondo del lavoro, nonché l’aggravio dell’impegno organizzativo e gestionale per gli atenei, a causa di un nuovo repentino cambiamento dell’architettura generale degli studi universitari; · evitare, in ogni modo, qualsiasi vuoto o confusione normativa su un tema così delicato come i corsi e i titoli di studio universitari; · scegliere comunque la direzione della flessibilità e non dell’irrigidimento, sia dell’architettura generale degli studi, sia dei singoli curricula dei titoli di studio universitari; · fornire nuovo impulso e nuovi spazi all’autonomia universitaria e alla responsabilità didattica degli atenei, unite alla necessaria e stringente valutazione continua dei risultati per innalzarne il livello qualitativo. esprime, pertanto, parere contrario al provvedimento. Martella – Bimbi – Grignaffini – Colasio – Tocci – Sasso – Capitelli – Chiaromonte – Carli – Giulietti – Lolli – Buffo – Carra – Volpini – Gambale – Rus _____________________________________________________________________ Italia Oggi 17 giu. ’04 UNIVERSITÀ, SÌ AL PERCORSO A Y Anche la commissione cultura della camera promuove la riforma Moratti In vista l'1+2+2 dal prossimo anno accademico DI GINEVRA SOTIROVIC Il parlamento promuove la riforma Moratti dell'università. Seppure con alcune modifiche, per camera e senato il decreto sull'autonomia didattica degli atenei, che sostituisce il 3+2 con il cosiddetto percorso a Y, soddisfa le esigenze di modernizzazione e di efficienza dei corsi universitari e può essere sperimentato già dal prossimo anno accademico. Adesso il decreto dovrà passare al vaglio della Corte dei conti e poi potrà essere firmato definitivamente dal ministro dell'istruzione, università e ricerca, Letizia Moratti. A favore della riforma dell'università, la seconda in soli cinque anni, si è espressa ieri la commissione cultura della camera che, a distanza di due settimane dal parere del senato, ha concluso l’iter parlamentare del decreto del Miur. Rispetto alle osservazioni di palazzo Madama, che avevano ricalcato quelle avanzate qualche mese prima dai giudici del Consiglio di stato, la camera è meno severa e sembra promuovere con meno riserve il progetto licenziato ormai quest'inverno da una commissione ministeriale di esperti, guidati dall'attuale commissario del Cnr, Adriano De Maio. Secondo Montecitorio, infatti, la nuova riforma, con un anno di base per tutti e due bienni a seconda del tipo di titolo accademico che si vuole conseguire (laurea triennale o laurea magistrale di cinque anni) ha il pregio di correggere quella precedente, avviata, si legge nel parere stilato da Ferdinando Adornato (Fi), «con un'eccessiva accelerazione, nell'intento di dare immediata attuazione agli accordi di Bologna, senza una fase di sperimentazione e conseguente monitoraggio». Il ripensamento della struttura dei corsi, infatti, a detta della commissione è l'unica soluzione per restituire alle università «qualità della formazione metodologica e di base dei corsi di primo livello compresi quelli professionalizzanti». Il passo successivo all'approvazione del decreto sarà, infatti, l'individuazione delle nuove classi di _ laurea, alla quale sta già lavorando il sottosegretario Maria Grazia Siliquini, che ha avviato tavoli di studio e commissioni tecniche che si stanno occupando, insieme a esponenti del mondo universitario e delle professioni, di delineare un nuovo percorso di accesso alle attività professionali. Non a caso è proprio dalla Siliquini che arrivano i primi commenti favorevoli sul decreto Moratti, appena dopo il sì della commissione di Montecitorio. «Il 3+2 non sarà eliminato, né sovvertito, ma riarticolato e migliorato», spiega la senatrice di An, aggiungendo che «le modifiche si sono rese necessarie per garantire una maggiore flessibilità alla progettazione formativa, per riqualificare le lauree italiane e per potenziare il raccordo con il mondo del lavoro». Queste d'altronde sono anche le linee guida seguite dalla commissione per la riforma dell'accesso alle professioni legali, che, nella riunione di ieri, ha messo a punto uno schema di massima del nuovo corso di laurea in giurisprudenza, almeno per quanto riguarda la laurea magistrale. Questa si articolerà in un corso unico di cinque anni (1+2+2), strada obbligatoria per iscriversi agli albi delle professioni giuridiche, al quale poi dovrà essere affiancato un corso triennale, ancora tutto da individuare nei contenuti. _____________________________________________________________________ Il Sole24Ore 17 giu. ’04 UNIVERSITÀ, RESTYLING AL «3+2» Arriva il «sì» alla riforma dalla commissione Cultura della Camera ROMA a Via libera della Camera alla proposta Miur di revisione del "3+2". Ieri la commissione Cultura di Montecitorio ha espresso parere favorevole sullo schema di decreto ministeriale che modifica l'assetto degli ordinamenti universitari previsto dal Dm 509/99. Con l'ok della Camera - successivo a quello formulato dal Senato meno di un mese fa - si chiude l’ iter parlamentare del provvedimento. Ora il ministero dell'Istruzione dovrà recepire le indicazioni di modifica e licenziare il testo definitivo. Lo schema di revisione del "3+2" prevede l'introduzione del cosiddetto modello "a Y". Dopo un primo anno comune a tutti, gli studenti potranno scegliere tra un percorso "professionalizzante", della durata di due anni, che conduce alla laurea triennale (cioè "1+2"), o un percorso "metodologico", con il quale si arriva a conseguire la laurea magistrale (" 1+2+2"). Le nuove norme, inoltre, attribuiscono agli atenei maggiore autonomia nella determinazione dei crediti. «Con la revisione del decreto che ha istituito il 3+2 - ha commentato il Ministro Letizia Moratti - saranno riqualificate le lauree, in modo da consentire più opportunità di sbocchi professionali». Ma il parere presentato ieri in commissione cultura della Camera dal relatore Paolo Santulli (Fi) ritiene «opportuno prevedere che le modifiche, a regime, degli ordinamenti didattici vigenti vengano apportate dalle università entro un termine definito dai decreti ministeriali con cui saranno modificate le attuali classi dei corsi di studio» e considera «necessario garantire agli studenti attualmente iscritti» la facoltà «di optare per il passaggio ai nuovi corsi quando saranno attivati». Secondo la Commissione cultura, poi, la nuova denominazione della laurea specialistica - che diventa "laurea magistrale master" - crea confusione e toglie valore ai master universitari attualmente esistenti, che hanno dato risultati positivi «soprattutto - dice il parere - in termini di rapporto con il tessuto imprenditoriale locale». «Con queste modifiche - ha detto Santulli - si risolvono i punti maggiormente contestati da Cun, Crui e dalla minoranza e si introducono i necessari elementi di flessibilità». ALESSIA TRIPODI ______________________________________________________ Corriere della Sera 23 Giu. 04 ECCO IL DECALOGO PER RINNOVARE L' UNIVERSITÀ Il documento presentato da Galli della Loggia e Schiavone Moratti: impegno a lavorare insieme LA PROPOSTA ROMA - Un patto per l' università, un accordo per rilanciare il dialogo tra ministero e autonomie universitarie messo in crisi dai vari progetti di riforma: dallo stato giuridico al percorso a «y» che dovrebbe archiviare il 3+2, cambiamenti importanti che in pochi anni hanno investito l' università destando incertezza tra insegnanti e studenti. Ci hanno provato e, a quanto pare, ci sono riusciti, il professor Ernesto Galli della Loggia e il professor Aldo Schiavone. Il patto è stato presentato nella storica cornice dell' Accademia dei Lincei, a conclusione di un seminario che ha avuto come relatori, tra gli altri, Paolo Mieli e Angelo Panebianco. Il punto di partenza è un decalogo che, se condiviso, potrebbe ridare vigore al nostro sistema universitario «dilaniato e ingrigito - sono parole di Galli della Loggia - da troppi decenni di guerra ideologica tra innovatori e conservatori. Una guerra dove nessuno aveva ragione, oggi lo capiamo, in assoluto». La svolta è delineata nei principi ispiratori del documento. L' università è pubblica. Viene finanziata con fondi pubblici distribuiti sulla base di un sistema condiviso di valutazione nazionale gestito da un ente terzo. E' soggetta a regole che riproducono condizioni di competitività. Si autogoverna nel quadro degli indirizzi fissati dallo Stato. L' idoneità scientifica dei docenti discende da procedure unificate a carattere nazionale. Nella fase preparatoria il docente può avere un rapporto di lavoro flessibile. Sono promosse e incoraggiate iniziative tendenti alla creazione di poli universitari di eccellenza, dedicati alla ricerca e all' alta formazione. Il decalogo è piaciuto al ministro Moratti e al professor Tosi, presidente della Conferenza dei Rettori (Crui), espressione delle autonomie accademiche. Il ministro punta su un' università «in grado di affrontare il nuovo». Il presidente della Crui vuole garanzie per quanto riguarda l' autonomia degli atenei, il ruolo guida dei professori nei processi di riforma, la tutela della tradizione accademica. Il dialogo comunque è stato riavviato. «Punti critici ancora permangono - ha dichiarato Tosi - ma ci siamo riconosciuti in alcuni punti guida fondamentali nella costruzione di quella che sarà l' università di domani. Viviamo in un cantiere aperto da diversi anni e avere qualche certezza è già molto importante». «C' è - ha assicurato il ministro - un rinnovato impegno a lavorare insieme su principi e strumenti che consentono all' università di svolgere sempre meglio la sua funzione sociale». ______________________________________________________ Il Giornale 27 Giu. 04 LA PILLOLA CHE CANCELLA LE IDEOLOGIE STEFANO ZECCHI La ricerca biologica ci ha ormai abituati a scoperte così sensazionali che, paradossalmente, proprio per la loro sensazionalità, non fanno più notizia. Leggiamo di esperimenti portati avanti da raffinate tecniche di ingegneria genetica, e almeno per un momento qualcuno di noi prova meraviglia; poi come se la cosa non lo riguardasse - non riguardasse il genere umano - passa ad un'altra notizia. Recentemente alcuni ricercatori italiani hanno individuato, attraverso esperimenti sul cervello dei topi, una proteina la cui presenza elimina la memoria dei ricordi. La scoperta è stata ovviamente riportata dai giornali; qualche commento, poi punto e a capo. Come dire: «Mamma mia che cose straordinarie scoprono! Chissà cos'altro saranno capaci di trovare». E infatti siamo tutti convinti che passerà solo poco tempo per riavere qualche altra notizia sensazionale sul funzionamento del cervello e sul modo di modificarlo. Insomma, forse non ci accorgiamo che stiamo vivendo una profonda rivoluzione culturale, assolutamente simmetrica al crollo del Muro di Berlino. E in quel crollo erano sprofondate le ideologie ci w avevano acceso confronti e innescato conflitti per quasi 200 anni. La ricerca biologica, con il suo inesorabile legame alle tecniche di ingegneria genetica, sta cambiando radicalmente la nostra cultura «umanistica», sociologica, filosofica. Probabilmente è l'apparente lentezza con cui procede la scienza, che di tanto in tanto ci fa sapere, aggiungendo un pezzetto del grande mosaico, chi sia l'uomo e che cosa si possa fare di lui, a non renderci pienamente consapevoli di questa rivoluzione culturale. Oggi gli scienziati ci dicono che la paura, l'ansia, l'angoscia legate ai ricordi potranno essere inibite mandando giù con un bicchier d'acqua una semplice pillola. E siamo già a conoscenza che certi stati d'animo, che alcune reazioni psichiche, ché particolari comportamenti dell'uomo dipendono da caratteristiche genetiche sulle quali è possibile - talvolta è anche facile - intervenire ingegneristicamente per cambiarle. E evidente che tutta una cultura «politica» relativa al modo di pensare l'uomo e la società va in frantumi. Sarebbe sufficiente scorrere i titoli dei libri di saggistica pubblicati da editori come Feltrinelli o Einaudi, a partire dalla metà degli anni Sessanta, per ricordare come la cultura di sinistra prosperasse attraverso psicanalisi e sociologie. Queste, mettendo sotto accusa il capitalismo e i suoi modelli di vita, elaboravano grandiose strategie per restituire al mondo un uomo nuovo, liberato dalle angosce dei suoi complessi edipici e dalle frustrazioni provocate dalle ingiustizie nel sistema di produzione capitalistico. Adesso gli scienziati ci dicono che basta una pillola per essere felici come una Pasqua: niente ansie, niente ricordi angosciosi... Siamo passati da un eccesso all'altro. Vorrei sapere cosa accadrà a chi viene inibita la memoria del dolore: cosa imparerà dalle esperienze passate, dai suoi errori, dai dispiaceri per i propri fallimenti? Ma questo sarà lo scenario su cui si metteranno alla prova l'etica e la psicologia del futuro prossimo. Oggi, intanto, è sceso il sipario su quella cultura dell'illusione che aveva cementato per tanti anni l'ideologia della sinistra con la sua pretesa di cambiare il mondo annullando le differenze tra le persone, modificando le relazioni sociali, i rapporti economici, le situazioni ambientali, intervenendo sul misterioso inconscio dell'individuo. Questa era la generosa utopia della cultura di sinistra: sappiamo che, dove la politica aveva trasformato l'utopia in realtà, quella cultura si era trasformata in vera tragedia. Ma nell'Occidente europeo il comunismo era rimasto al margine della democrazia, così il progetto dell'uomo nuovo, libero dallo sfruttamento dei suoi simili, uguale tra gli uguali, era rimasto incontrastato, invadendo - per fortuna - soltanto le pagine dei libri di qualche editore importante. Oggi di quell'uomo nuovo rimangono solo le tonnellate di idiozie dei suoi teorici che si stanno abilmente riciclando nei comitati etici che dovrebbero sorvegliare il corretto sviluppo delle tecniche di ingegneria genetica. Come dire: tramonti pure l'idea dell'uomo comunista, ma non l'idea di egemonia culturale che deve rimanere saldamente nelle nostre mani. Dunque, se non si può fare la rivoluzione che trasforma l'uomo, si può sempre presiedere i comitati che devono decidere se e quando somministrare la pillola a qualche malcapitato per cambiargli i connotati. Stefano Zecchi _____________________________________________________________________ Il Sole24Ore 18 giu. ’04 LA LAUREA CAMBIA, IL MASTER RESTA Il passaggio dal «3+2» al nuovo percorso «a Y» - Non potrà però essere attivato dal Il sistema attuale si è rivelato, alla prova dei fatti, troppo rigido - Possibili da ottobre sperimentazioni di ateneo ROMA a «Salvi» gli attuali master universitari, che non saranno costretti a cambiare nome. Il ministero dell'Istruzione, infatti, intende accogliere l'obiezione sollevata dal Parlamento e non aggiungerà alla laurea magistralis - il nuovo titolo quinquennale - anche la denominazione "master", prevista dalla prima versione della proposta Moratti che rivede il "3+2". I tempi di applicazione del nuovo percorso "a Y", poi, saranno definiti dal Miur d'intesa con la Crui, la Conferenze dei rettori delle università italiane. Sono le ultime novità in arrivo del decreto di riforma del "3+2" che, dopo il via libera del Parlamento, passa ora all'esame della Corte dei conti. Il provvedimento dovrebbe giungere in Consiglio dei ministri per l'ok finale tra la fine di luglio e la ripresa dopo la pausa estiva. Entro il 2004 - fa sapere il Miur - saranno ultimati i processi di rivisitazione e accorpamento delle attuali classi di laurea di primo e secondo livello. Le innovazioni, dunque, non potranno partire dal prossimo anno accademico, anche se non si può escludere che già dal prossimo ottobre qualche ateneo sperimenterà il nuovo percorso "a Y". Un sistema troppo rigido. Il "3+2", introdotto con il Dm 509/99 dall'allora ministro dell'Università, Ortensio Zecchino, non ha funzionato a dovere: è questa l'opinione piuttosto diffusa nel mondo accademico, e non solo. Non sarebbe stato raggiunto l'obiettivo di rendere il sistema più flessibile, visto che lo schema introdotto da Zecchino non prevede differenziazioni di percorsi da una facoltà all'altra. L'Italia, inoltre, è l'unico Paese dell'Unione europea in cui il "3+2" è stato applicato in modo massiccio. In Germania, per esempio, vige ancora un modello unico e il sistema a doppio ciclo (non coincidente con il nostro) è stato introdotto in modo parziale, lasciando alle università la libertà di scegliere se adottare modelli unitari o in sequenza. Il "3+2", inoltre> ha determinato una proliferazione dei corsi di laurea: a ottobre del 2003 nelle università italiane erano stati attivati 3.150 corsi di primo livello, contro gli 850 della Germania. Sembra, poi, che la riforma Zecchino non sia riuscita a velocizzare effettivamente l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Anche se va precisato che, per quanto riguarda gli effetti del "3+2" sul tasso di successo negli studi, non sono ancora disponibili dati sufficientemente aggiornati e attendibili. Le innovazioni previste dal Dm 509, infatti, sono andate a regime a pattire dall'anno accademico 2001-2002, mentre i dati statistici più recenti sui laureati sono aggiornati al 2002 e comprendono, dunque, solo gli studenti che hanno conseguito la laurea triennale con- - vertendo i crediti maturati nei percorsi del vecchio ordinamento, precedenti all'introduzione del "3+2". II percorso "a Y". Il decreto del Miur trasforma il "3+2" nel cosiddetto percorso "a Y". Lo schema attualmente in vigore prevede una laurea triennale di primo livello e una specialistica di secondo livello, di durata biennale. Con il nuovo assetto, invece, dopo un primo anno comune, pari a 60 crediti formativi, gli studenti possono scegliere tra due opzioni. Un percorso biennale "professionalizzante" (120 crediti) che conduce alla laurea triennale (cioè "1+2"), o un percorso "metodologico" (120 crediti) di preparazione a un ulteriore biennio (120 crediti), che porta al conseguimento della laurea magistrale (" 1+2+2"). Per chi sceglie la seconda opzione, le università avranno la possibilità di definire meccanismi di verifica per il passaggio dal primo anno al biennio e da questo agli ultimi due anni di studi. Per la facoltà di Giurisprudenza, invece, viene istituito un modello a ciclo unico ("1+4") per le professioni di magistrato, avvocato e notaio. In questo senso, una commissione guidata dal sottosegretario Maria Grazia Siliquini sta già esaminando le classi di laurea giuridiche per ridisegnare l'accesso alle professioni legali. Le novità. La versione definitiva del testo di revisione del "3+2" dovrebbe accogliere l'osservazione dal Parlamento sull'opportunità di non affiancare la denominazione "master" al titolo di laurea magistrale. Questa modifica, come evidenziato da più parti, avrebbe tolto valore agli attuali master universitari. Il Miur dovrebbe, poi, definire d'intesa con la Crui i termini entro i quali gli atenei dovranno adeguarsi al nuovo schema: non un'applicazione secondo le decisioni delle singole facoltà - come ha chiesto la conferenza dei rettori - ma un termine obbligatorio per tutti, concordato comunque tra Crui e Miur. «Vengono introdotte importanti novità - ha detto Giuseppe Valditara, responsabile scuola e università di An - come la possibilità di diversificare i percorsi e di introdurre criteri di selezione, e il ciclo unico per Giurisprudenza. Così - ha continuato - si rende il sistema flessibile e capace di garantire una preparazione di alto livello». Contrario Enrico Panini (Cgil): «Questa volontà di riformare in peggio l'università si accompagna a una crisi economica sempre più preoccupante degli atenei». ALESSIA TRIPODI _____________________________________________________________________ L’Unità 14 giu. ’04 VOGLIAMO UNA RICERCA SCIENTIFICA DA PAESE NORMALE» ROMA Quarantasei scienziati che vivono e lavorano in Italia lanciano un appello alla «normalità»: un manifesto in 10 punti «per una rinascita della ricerca scientifica», che ha trovato già spazio, ieri, sulle pagine del «Sole 24 Ore». Gli estensor: di questo manifesto, tra cui Pier Mannuccio Mannucci, Alberto Mantovani, Tommaso Maccacaro, Luigi Nicolais e Silvio Garattini, figurano per il 2003 negli elenchi degli scienziati più citati al mondo compilati per le diverse discipline dall'Institute for scientific information (Isi) di Philadelphia. Ad accomunarli, si legge nel documento che precede il decalogo, è «una profonda insoddisfazione e preoccupazione per lo stato della ricerca scientifica in Italia», da cui deriva «L'esigenza morale di promuovere una riflessione sugli elementi portanti di un sistema di ricerca moderno». Gli scienziati chiedono «normalità rispetto agli altri paesi industrializzati, dei meccanismi di reclutamento, di valutazione, di promozione e di finanziamento del sistema di ricerca». «Ci rivolgiamo - scrive il Gruppo 2003 - in particolare ai responsabili del potere politico, presenti e futuri, ritenendo che su questi temi di interesse strategico sia possibile ed auspicabile un accordo, al di sopra degli schieramenti politici». Quello che vogliono gli scienziati è «una riforma radicale del sistema», che passi per maggiori investimenti nella ricerca pubblica, migliori retribuzioni per i ricercatori, incentivi fiscali all'industria che intende investire in ricerca. «Se dovessimo riassumere - scrivono - le aspirazioni di chi fa ricerca di buon livello nel nostro Paese ci sembra che queste possano essere racchiuse in una parola chiave: normalità». ______________________________________________________ Il Sole24Ore 24 Giu. 04 PIÙ CONCRETEZZA NELL’INNOVAZIONE Cambia la strategia dei laboratori dei grandi gruppi che puntano anche su progetti intersettoriali on è più tempo di rimpianti. Chi lavora o amministra i laboratori di ricerca della grande industria non ha l'abitudine di guardare al passato, quando negli anni '901a produzione di brevetti e idee in Italia aveva un'altro passo rispetto a quello attuale. Oggi troppe cose sono cambiate: le grandi iniziative dello Stato sono in crisi, i finanziamenti sono bloccati e la ricerca industriale è diventata un patrimonio di pochissimi grandi gruppi sopravvissuti. «La ricerca industriale vive dei corsi e ricorsi storici. Attualmente - spiega Roberto Saracco responsabile comunicazione scientifica di Telecom Italia Lab - siamo in un periodo di transizione. La differenza rispetto a 10 anni fa è che ora c'è più concretezza. Prima la ricerca era considerata un "male necessario", un'attività che si doveva svolgere più per questioni di etichetta che per dare valore. Oggi si portano avanti i progetti che possono dare ritorni immediati. In altre parole, ci si concentra di più sul core business dell'azienda perché i centri di ricerca - e questo è un bene - sono parte integrante delle società e hanno la responsabilità di creare ritorni». Il rischio di essere più concreti, di concentrarsi su soluzioni e tecnologie che il mercato si aspetta, è che alla fine si inventa poco. Per molti però si tratta di un luogo comune corroborato dal basso numero di brevetti ottenuti in Italia rispetto agli altri Paesi. «Siemens mobile communications nel mondo registra media mente tre brevetti al giorno, frutto del lavoro dei centri di ricerca italiani e di quelli che hanno sede in Germania e in Austria. Tra tutti i ricercatori - osserva però Luigi De Vecchis, amministratore delegato e direttore generale di Siemens mobile communications in Italia - quelli italiani sono i più attivi». La creatività. Ma spesso non è solo una questione di tirar fuori le idee. «Noi italiani - spiega Saracco - di inventiva ne abbiamo. Basti vedere i settori del design e della moda. In questo segmento siamo a livelli di eccellenza. Tuttavia, stiamo parlando di un mercato in cui il ciclo di vita dell'idea è breve. Si produce l'idea, la si commercializza in tempi strettissimi e poi si passa subito ad altro. Più difficile è invece costruire su un'idea». Come per esempio nel caso dei servizi sulle reti fisso-mobili. «In questo caso - spiega Enrico Bagnasco, responsabile di Services and platform innovation del Tilab - occorre fare presto per trovare nuovi servizi. Non c'è ancora un'idea chiara di come la gente utilizzerà le nuove reti. Per questo bisogna accelerare anche perché spesso il modello di business e quindi il successo di un servizio lo si scopre solo dopo averlo realizzato». Dello stesso parere Carlo Michellone amministratore delegato del Centro Ricerche Fíat: «Le idee ci sono. La sfida però è quella di portarle sul mercato. Un'operazione questa che significa sostenere progetti con alti margini di rischio. Certo, i soldi sono pochi ma in molti casi la cura dimagrante imposta dalla mancanza di finanziamenti ha spinto i centri di ricerca a cercare soldi e spunti al di fuori del proprio core business». La ricerca trasversale. Si punta ai grandi progetti di ricerca europei ma anche alla collaborazione tra le imprese per la realizzazione di soluzioni tecnologiche avanzate. «Ora è tutto più trasversale, il settore delle auto - osserva Michellone - sta implementando soluzioni dell'elettronica di consumo. Non solo, in certi casi alcune nostre applicazioni hanno trovato sbocco in altri settori come nel caso del Salvalavista TV Beghelli, (un diffusore elettronico luminoso a luce calibrata, che riduce l'affaticamento visivo e migliora la visione delle immagini televisive ndr)». La ricerca non corre da sola. Oltre che intersettoriale, la ricerca industriale ha imparato anche a stringere alleanze fino a pochi anni fa impensabili. Se infatti negli anni '90 i laboratori portavano avanti progetti a compartimenti stagni, oggi si punta più a stringere collaborazioni per accorciare i tempi. «A livello di centri di ricerca si è capito - spiega Bruno Murari direttore dei laboratori di ricerca e sviluppo di Cornaredo (Milano) di St Microelectronics - che unire le competenze permette di accorciare i tempi della ricerca. Alle volte persino con la concorrenza, anche perché correre da soli non sempre è la strada più efficiente». Luca Tremolada ______________________________________________________ IL Messaggero 24 Giu. 04 PRESENTATO DA “ALMALAUREA” L’IDENTIKIT DEI LAUREATI NEL CORSO DEL 2003 di LUIGI PASQUINELLI ROMA Sempre più medici, sempre più donne, sempre più fuoricorso, un pizzico più anglofoni ma restii ad arricchire la propria formazione all’estero. Moderatamente soddisfatti dall’esperienza appena terminata, determinati a proseguire gli studi ma lenti come tartarughe nel finire gli esami. Sono alcuni tratti del profilo dei laureati messo a punto per la sesta volta dal consorzio Almalaurea su un campione di centomila ”neo-dott” del 2003. Una categoria che, per la prima volta, presenta due anime: quella vecchia , preriforma (con 74mila unità rappresenta i due terzi del campione) e quella post (lauree triennali, specialistiche a ciclo unico, specialistiche biennali: totale 20 mila unità). «Confrontare le due realtà dice Andrea Cammelli, direttore del Consorzio è azzardato, i percorsi non sono omogenei, a cominciare dalla durata. Ma dal paragone tra le due classi di studenti, laureati in età e tempi canonici, emerge che i voti di laurea più alti appartengono alla vecchia guardia (108/110 contro 105) la quale è anche espressione di classi più agiate (il 40 per cento appartiene alla borghesia contro il 35 dei laureati triennali), meno propensa a frequentare le lezioni (87 contro 92) ma complessivamente più soddisfatta del proprio percorso (78 su cento contro 74)». Dalla ricerca, condotta su 27 delle 38 università aderenti ad Almalaurea (in totale gli atenei italiani sono 77), emerge che uno degli handicap più diffusi degli studenti universitari italiani è la lentezza. L’età media dei vecchi laureati è 27,9 anni (praticamente uguale al ’98), dei nuovi 26,7. Solo il 13,8 per cento riesce a terminare l’iter nei tempi regolamentari (una élite comunque raddoppiata rispetto a cinque anni fa quando raccoglieva solo il 7,6 per cento). Il ritardo medio accumulato è pari a circa tre anni. Un quadro sconfortante che allontana l’Italia dagli altri paesi avanzati le cui università, c’è anche da dire, non permettono agli studenti di bivaccare all’infinito lungo il corso di studi. I 20 mila laureati triennali . Prediligono il gruppo medico (19,3 per cento), seguito dall’economico-statistico (16,5), dall’ingegneristico (16,4), dal politico sociale (13,7). I maschi rappresentano, secondo una consolidata tradizione, percentuali limitate nel raggruppamento insegnamento, linguistico, psicologico. Le femmine sono più disponibili al lavoro part-time, agli stage, ai contratti di formazione e lavoro. Tra i laureati triennali che hanno rispettato i tempi previsti dal piano di studi è forte l’aspirazione a proseguire il loro percorso formativo: 84 su cento intendono tentare la laurea specialistica, la scuola di specializzazione, il master e il corso di perfezionamento). I 74 mila laureati pre-riforma. Le donne sono sempre più numerose (59 per cento) e tendono, più dei colleghi, a trovare un’occupazione nel settore pubblico. Sono meno attratte dal lavoro in proprio anche se, in attesa di quello definitivo, si dichiarano maggiormente disponibili a impegni part-time. La maturità scientifica, conseguita da 38 su cento, è il diploma più diffuso tra i laureati, seguono quella tecnica (25) e quella classica (18). Diminuisce il numero di chi arriva alla laurea senza alcuna esperienza lavorativa alle spalle: 35 su 100, contro i 41 del ’98. Tra i lavoratori-studenti quasi la metà si laurea con un ritardo medio di 5 anni dovuto non solo al doppio impegno ma anche al contesto familiare meno avvezzo allo studio. Il famoso ”pezzo di carta” viene conquistato con un rendimento leggermente inferiore rispetto a sei anni fa: il voto medio del 2003 è stato 102,8/110, nel ’98 fu 103,2. Cresciuto sensibilmente il numero di chi frequenta le lezioni. Erano 49 su cento nel 98, 62 l’anno scorso, con una netta prevalenza degli aspiranti medici. Nonostante i programmi Erasmus, Socrates, eccetera, oltre l’80 per cento degli studenti italiani si presenta alla sessione di laurea senza alcuna esperienza di formazione all’estero. Risulta più diffusa la conoscenza di inglese e spagnolo, in compenso regrediscono francese e tedesco. Si dichiarano moderatamente soddisfatti della qualità dei docenti e delle biblioteche 63 dottori su 100. Più critici i giudizi relativi all’adeguatezza delle aule che, sul versante positivo, raccolgono solo la metà dei neolaureati. ______________________________________________________ IL Messaggero 24 Giu. 04 LAUREATI, SOLO 1 SU 7 NON È FUORI CORSO di ANTONIO GOLINI PERIODO di grandi analisi e dibattiti sull’Università. Il fatto è che certamente la nostra Università ha presentato difetti e diseconomie crescenti, ma altrettanto certamente è una delle poche ancore di salvezza per il Paese. Fra le diseconomie più forti c’è quella, denunciata ancora una volta dalla indagine AlmaLaurea, dell’età media alla laurea, 28 anni per coloro che hanno frequentato i corsi tradizionali, un valore intollerabilmente elevato, che diventa 29 anni per Architettura e poco meno, 27 anni, per il gruppo economico- statistico. In sostanza solo 1 laureato su 7 riesce a laurearsi in corso. Gravi colpe, in questo campo, anche dei professori che non hanno saputo, e non sanno, graduare adeguatamente l’impegno richiesto agli studenti per la preparazione degli esami, non di rado troppo gravosa, e per la preparazione alla tesi di laurea, non di rado troppo onerosa. Forse proprio a causa di questi gravami e della forte attrattiva della laurea per motivi sociali e per motivi professionali, si può comprendere il successo di centri studi universitari privati, alcuni dei quali hanno riscosso tanto successo da permettersi una rete di sedi, diffusa e articolata sull’intero territorio nazionale, e campagne pubblicitarie milionarie. Con la necessaria riforma, si è passati a una laurea breve della durata di 3 anni seguita, eventualmente, da una specializzazione di 2. Qui, di nuovo, nel gestire la riforma si ritrovano colpe non piccole dei professori: hanno attivato, con uno sforzo di fantasia che ha dell’incredibile, 3.150 corsi per la laurea triennale, con una frammentazione che lascia sconcertati e che mette in gravi difficoltà i ragazzi, e le loro famiglie, nello scegliere un corso di laurea. Per di più, riguardo alla durata degli studi, le cose, come dimostra l’indagine, sono migliorate di poco. L’età media dei laureati di primo livello è scesa a 27 anni, un’età ancora molto elevata. E adesso si profila una nuova riforma, detta a Y, nel senso che dopo un primo anno comune si può scegliere se proseguire con un altro biennio che porta alla laurea professionalizzante o per un quadriennio, che porta alla laurea specialistica. C’è da augurarsi che questa riforma venga gestita meglio dai professori e, nella loro autonomia, dalle Università. Che si crei innanzitutto un grande e forte collegamento con il mondo produttivo, rispetto al quale spesso l’Università si è sentita orgogliosamente estranea. Università e imprese dovranno imparare a ”lavorare insieme” sul fronte della ricerca e su quello dell’innovazione. Ieri Michele Perini presidente degli industriali milanesi ricordava come una impresa milanese su quattro compete e vince sui mercati mondiali grazie alla continua proposta di prodotti innovativi; e che in Lombardia la disoccupazione è bassissima. Sul piano politico sarà quindi da seguire la Francia, spingendo a fondo sulla ricerca dell’innovazione tecnologica in poli in cui raggruppare e concentrare lo svilupo. Considerare incentivi e sgravi fiscali a favore delle imprese che fanno ricerca e che decidono di concentrare la loro attività all’interno dei distretti specializzati. C’è in questo campo una forte necessità da parte delle aziende e dei distretti industriali e una straordinaria, positiva disponibilità dei giovani laureati, che hanno attribuito un voto di 8 su 10 al loro interesse a lavorare nel settore della ricerca e sviluppo, interesse che risulta al primo posto; che hanno attribuito, nella ricerca del lavoro, il voto di 9 su 10 (primo posto) alla acquisizione di professionalità e il voto di 6 (ultimo posto) alla ricerca di tempo libero. Approfittiamo di tali disponibilità, di questo grande capitale umano, nell’interesse dei ragazzi e dell’intero Paese. ______________________________________________________ IL Messaggero 23 Giu. 04 TRA I RETTORI E LA MORATTI SIGLATO UN PATTO DI COLLABORAZIONE ROMA - L'università è alimentata da fondi pubblici distribuiti sulla base di un sistema condiviso di valutazione nazionale: è uno dei punti-chiave del Patto che rilancia il dialogo tra la Conferenza dei rettori e il ministro Moratti. Emerso a conclusione di un tavola rotonda sulla riforma dell'università organizzata all'Accademia dei Lincei, il Patto fissa in 10 punti alcuni paletti che hanno incassato ieri sia l'assenso del Presidente dei rettori, Piero Tosi, sia del ministro dell'Istruzione, Letizia Moratti. Viene ribadito il carattere pubblico del sistema universitario; un sistema aperto a forme di integrazione con iniziative di imprese e privati, nel quale ricerca e didattica siano un binomio inscindibile e che assicuri a tutti l'accesso allo studio. Cruciale il passaggio relativo alla ricerca che deve avere nell'università la sua sede primaria. Ufficialmente sdoganato il principio della valutazione: posto che l'università è alimentata da fondi pubblici è ormai idea condivisa che le risorse vengano distribuite in base a un sistema di valutazione nazionale che preveda incentivi e disincentivi. Strettamente legata al finanziamento è la questione della competitività: maggiori risorse saranno indirizzate verso quegli atenei che riusciranno a realizzare, a parità di condizioni, risultati migliori. Un passaggio del Decalogo è riservato ai docenti. Per quanto riguarda la loro carriera, il Patto prevede che la loro idoneità sia accertata sulla base di procedure unificate a carattere nazionale e che vengano sottoposti a una selezione ricorrente. La loro remunerazione deve essere allineata agli standard internazionali prevedendo incentivi per ulteriori impegni nell'ambito accademico. Nella fase pre-docenza potranno essere adottati rapporti di lavoro flessibile, di durata determinata, ma dovranno essere adeguatamente retribuiti e consentire una reale possibilità di ingresso nei ruoli. ______________________________________________________ Corriere della Sera 26 Giu. 04 SOGNANDO UN CAMPUS AMERICANO Università, come cambiare Piattelli Palmarini Massimo La progettata privatizzazione di fatto delle università italiane, con un carico fiscale sulle spalle delle imprese e la detassazione di possibili contributi volontari addizionali, sembra ispirarsi a un modello statunitense. Mi permetto di sollevare forti dubbi su questa similitudine e sulle possibilità di successo, in assenza di un colossale sovvertimento alla base. I contrasti tra alcune parole chiave mi sembrano ricapitolare tutta la diversità nella vocazione profonda delle università italiane, rispetto a quelle statunitensi. Per quanto riguarda i docenti, la nostra parola è «sistemare», la loro «appoint» (cioè nominare, a seguito di un' attenta ricerca, il miglior candidato). Per quanto riguarda gli studenti, la nostra è «iscriversi», la loro «apply» (cioè far domanda di iscrizione, sulla base delle proprie capacità e inclinazioni, e di ciò che si pensa quella particolare università possa offrire, a differenza di tutte le altre). Mi colpì, qualche anno fa, una statistica sull' Università di Como (si noti bene, Como, a un tiro di schioppo da Milano): oltre l' ottanta per cento degli studenti l' avevano scelta solo perché era vicino a casa. Andatelo a dire allo studente del Wyoming che fa domanda alla Columbia University di New York perché ha la miglior scuola di giornalismo, o alla studentessa del Massachusetts che fa domanda a una delle università della California perché ha il miglior dipartimento di informatica. Per quanto riguarda, infine, la logistica, la nostra parola è «sede», la loro (che oggi diventa di grande attualità anche in Italia) «campus». Ma il tipico campus universitario americano raccoglie e armonizza non solo istituti, aule, biblioteche e uffici, ma anche dormitori per decine di migliaia di studenti, musei, campi sportivi, teatri, cinematografi, caffetterie, mense, ristoranti e negozi, entro un vasto perimetro, solcato senza posa da navette gratuite. L' idea di replicare in Italia una simile organizzazione mi sembra, purtroppo, utopistica. La sola spesa per costruire e gestire un volume adeguato di spazi in dormitori (con due occupanti per stanza al massimo) appare esorbitante. Ovviamente, alla rivoluzione logistica, rappresentata dal campus, dovrebbero poi anche corrisponderne altre, nei modi, i contenuti e lo stile degli studi. È irresistibile, allora, evocare le parole del filosofo inglese Francesco Bacone, scritte quasi quattro secoli or sono: «Su certe tavolette non si può scrivere il nuovo, se non si è prima cancellato il vecchio». L' università italiana è una di queste tavolette e il compito appare davvero immane. Giustamente, imprenditori, forze politiche e opinione pubblica avvertono un forte iato tra la pochezza delle nostre università e il posto eminente che l' Italia, invece, occupa nel mondo, per la sua storia, il suo patrimonio artistico e culturale, alcuni dei suoi prodotti industriali, spesso imitati ma mai uguagliati, e per il suo stile di vita. Si cerca, in buona fede, di porvi rimedio, suggerendo riforme e tentando di far rientrare i cosiddetti cervelli «fuggiti». Purtroppo, la grigia palude delle università statali italiane assorbe e digerisce con i propri antichi succhi ogni tentativo di riforma. Per una volta, non dobbiamo colpevolizzare solo la classe politica, dell' una o dell' altra tendenza, la quale, nel corso degli anni, ha avanzato alcune riforme che erano giuste come concezione e come formulazione, ma che sono finite in niente nella pratica. Bastino due esempi, tra tanti. I professori a contratto erano stati istituiti (il testo della legge lo diceva a chiare lettere) per immettere negli insegnamenti universitari, in modo agile e temporaneo, competenze esterne di speciale attualità, dal mondo dell' industria, della finanza, del design, dell' informatica. Subito diventò uno stratagemma per sistemare alla meglio, almeno per un paio di anni, gli immancabili postulanti interni. Secondo esempio: le facilitazioni per il rientro di studiosi che avessero trascorso almeno tre anni in una università all' estero, sacrosante in astratto, spronarono i soliti baroni a inviare i loro protetti, a singhiozzo (per segmenti di pochi mesi alla volta), or qua or là, al fine di far loro cumulare i crediti richiesti. Quindi, la vera, immensa, riforma dovrebbe partire dalla base, sovvertendo queste vecchissime pratiche e introducendo nuovi valori. Se adesso chiediamo all' industria di contribuire in modo massiccio all' università dovremmo anche dare agli imprenditori il potere di controllarne la gestione, con un occhio costante e impietoso all' eccellenza, la competitività e la differenziazione tra le offerte delle diverse sedi. Tutti sanno che l' aver trasformato le università in «imprese» (sic) ha, fino a oggi, incoraggiato avanzamenti di carriera esclusivamente interni. Questa ulteriore riforma, se accompagnata da una vera, sana rivoluzione alle radici, potrebbe non farci tornare in mente, una volta di più, il proverbio sulle buone intenzioni e il lastricato dell' inferno. Massimo Piattelli Palmarini ______________________________________________________ Corriere della Sera 26 Giu. 04 IL MODELLO USA DEI CAMPUS? DIFFICILE COPIARLO IN ITALIA Canuto (Columbia University): le borse di studio sono pagate dagli enti di ricerca pubblica L' INTERVISTA Foresta Martin Franco ROMA - Se l' università italiana adottasse il modello americano? Privatizzazione, ricorso spregiudicato ai finanziamenti esterni: la nostra ricerca sarebbe più competitiva e funzionale allo sviluppo? Il professor Vittorio Canuto, oceanografo, torinese di nascita, da 35 anni alla privata Columbia University, nel cuore di Manhattan, è un entusiasta dell' organizzazione degli studi superiori made in Usa, ma dubita che possa essere importata in Italia. La carta vincente del modello americano? «Una lotta darwiniana, che io adoro, in cui la ricerca di qualità è premiata. Non ti puoi permettere di invecchiare, altrimenti la selezione naturale ti taglia fuori. Devi sempre dare il meglio». In una università privata come la Columbia chi paga? «Innanzitutto gli studenti che possono permetterselo. Tasse da 35 mila dollari all' anno. Dopo il master, più o meno corrispondente alla laurea italiana, chi vuole continuare con il dottorato di ricerca deve affidarsi al suo insegnante-tutor: spetta a lui prenderselo in carico e procurargli lo stipendio: altri 35 mila dollari l' anno per tre anni». Dove trova i fondi per i suoi dottorandi? «Passo un terzo del mio tempo a scrivere proposals ai grandi enti di ricerca e ai dipartimenti statali. Il 70% viene respinto. Ma con il resto garantisco la continuità degli studi ai laureati più bravi, ai futuri ricercatori». E' importabile in Italia un sistema analogo? «Bisognerebbe cambiare mentalità. In Usa la maggior parte delle borse di studio sono pagate dagli enti di ricerca pubblica e dai grandi Departments: Salute, Atmosfera e Oceani, eccetera. Lei ce li vede gli equivalenti italiani di queste organizzazioni, Cnr, l' Enea, ministero per la Salute o quello per l' Agricoltura, prendersi in carico i dottorandi? Giusto il ministero dell' Ambiente, grazie al dinamismo di un direttore generale come Corrado Clini, sta facendo molto in questa direzione». E le aziende private, le grandi industrie, magari con l' incentivo di detassazioni? «Ne dubito. In Italia non portano avanti nemmeno la giusta dose di ricerca applicata». Franco Foresta Martin _____________________________________________________________________ Il Sole24Ore 16 giu. ’04 UNIVERSITA’ LA CHIAVE DELLA RICERCA Il modello americano non è esportabile in blocco: negli Usa gli Atenei hanno una densità altissima, ma solo pochi raggiungano livelli davvero elevati - Prima tappa: abolire il valore legale dei titoli Riportiamo uno stralcio dell'intervento tenuto ieri all'Università Statale di Milano da Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, in occasione della cerimonia di consegna dei diplomi ai dottori di ricerca. Sappiamo bene che la recente riforma universitaria (infelicemente etichettata come "3+2") ha innescato un processo largamente incontrollato di trasformazione dell'università, che rischia non solo di ridurre progressivamente il ruolo della ricerca, ma anche di marginalizzarne l'importanza nei processi di formazione. È in questo contesto che vengono sviluppandosi interventi e polemiche, che spesso assumono due forme estreme: da un lato c'è chi, condannando in blocco la recente riforma, si limita a rimpiangere l'università della propria giovinezza, forse dimenticando che essa era riservata a un ristrettissimo numero di studenti, e che l'università di oggi, per un processo inarrestabile (e non solo italiano) è diventata di massa, e con questa sua nuova fisionomia deve fare i conti. Dall'altro lato c'è chi difende, in modo noti acritico, la recente riforma così com'è stata messa in atto, rifiutandosi di denunciarne le contraddizioni e le perversioni, e imputandone le linee-guida a un preteso "adeguamento all'Europa". Sempre più spesso, i difensori della riforma propugnano tuttavia la creazione di "scuole d'eccellenza", riservate a pochi, che avrebbero la funzione di bilanciare il progressivo svuotamento culturale delle università "riformate", presentato come inevitabile. In queste due concezioni del tutto onnoste, che s scontrano fra loro con grande e giustificata vis polemica, si riscontra facilmente un tema comune, quello del rapporto fra università d'élite e università di massa. I laudarores temporis acti rimpiangono l'università d'élite di un tempo, e di solito non additano soluzioni per mantenerne il livello nell'università di massa con cui oggi siamo obbligati a misurarci. Ma questa attrazione fatale verso l'università d'élite è evidentemente condivisa anche da chi difende la riforma persino nei suoi aspetti più discutibili: quello che essi vorrebbero, infatti, è un processo che via via venga distinguendo le università italiane in due grandi blocchi, quelle "di massa" e quelle "d'élite"; o, se vogliamo adottare la terminologia americana, fra teaehing uuiversities e research urtiver.sities. Su questa visione, e su queste contrapposizioni, ho forti riserve. Non saprei fare una valutazione complessiva dei successi e insuccessi del sistema dei crediti, importato passivamente da altri sistemi nella nostra università. Il principio di rendere "esportabile" il lavoro fatto dallo studente, cambiando università non solo in Italia ma anche fuori, è ovviamente più che giusto, ma il meccanismo dei crediti è stato immaginato e applicato in modo quanto meno improprio. Non può che essere negativo e mortificante un meccanismo di "calmierazione" della qualità, che non prescriva il minimo da sapere per passare un esame, bensì i) massimo. Eppure, in numerose facoltà italiane la legge viene interpretata proprio così. II risultato non può che essere lo scadimento della qualità. Anche la distinzione fra teaching universities e research universitie.s non è affatto una conseguenza fatale della riforma. Come ho già ricordato, questa dicotomia viene talvolta invocata in nome del modello americano. Ma prima di additare dei modelli, bisognerebbe conoscerli. Negli Usa ci sono circa 3.800 università (una per ogni 70mila abitanti), in Italia circa 80. Fatte le proporzioni col numero di abitanti dei due Paesi, per avere la stessa densità di insediamenti universitari l’Italia dovrebbe avere non 80 università, ma più di 800. II sistema universitario americano è formato di una serie di istituzioni tutte chiamate università, molte delle quali pubbliche, che non appartengono però allo Stato federale, bensì ai singoli Stati. La parola università, tuttavia, se da noi designa una realtà che ha una certa valenza giuridica e si suppone debba rispondere a determinati standard (tanto è vero che c'è un "valore legale" della laurea, sempre uguale chiunque la rilasci), negli Usa è un termine definito meno rigorosamente, che indica un certo tipo di istruzione successiva alla scuola media superiore. Perciò sono sorte università anche in piccole e piccolissime città, spesso dotate di attrezzature solo sommarie, dove la maggior parte dei professori non fa ricerca e può anche non avere mai pubblicato nulla o quasi. È così che si è creato il sistema che abbiamo brevemente descritto. Ma è un sistema in cui fortissimamente differenziati sono anche i filtri di accesso (accedere a Harvard è molto più difficile che accedere a un college di provincia), le tuition fees, gli standard di accoglienza e d'insegnamento; e in cui ogni università sceglie in piena autonomia i propri docenti, e contratta individualmente le retribuzioni. Come si vede, un sistema inconfrontabile con quello italiano. Chi propugna per il sistema italiano un'evoluzione in questo senso dovrebbe dire chiaramente che le prime cose da fare sarebbero abolire il valore legale delle lauree e differenziare nettamente le modalità di reclutamento degli insegnanti a seconda del livello delle università; dovrebbe inoltre spiegare perché mai un gran numero di docenti, che sono stati reclutati, si spera, sulla base delle loro capacità e successi nella ricerca, dovrebbero vedersi recapitati d'improvviso in un contesto dove si fa didattica e non ricerca. A mio avviso, un'evoluzione come questa non è desiderabile, né lo sarebbe la moltiplicazione delle università, per arrivare in pochi anni da 80 a 800. A quel che credo, al contrario, una distinzione netta fra research universities e teaching universities è del tutto estranea alla forma istituzionale dell'università italiana. Il modello italiano di università non solo prevede, ma richiede una presenza della ricerca equamente distribuita in tutti gli atenei. All'interno di questo modello, il punto non è di contrapporre università in cui si fa ricerca ad altre in cui non la si fa, ma di modificare, a seconda dei vari livelli, degli obiettivi e delle forme di reclutamento degli studenti, il "tasso di ricerca" presente nelle diverse istituzioni: creando quindi uno spettro a intensità crescente dal meno al più, ma non certo due mondi contrapposti. Tra un estremo e l'altro non può esserci un baratro, ma un continuum. La riforma del «3+2» va corretta per rendere costante la ricerca della qualità Troppe facoltà hanno applicato in modo miope le norme di legge DI SALVATORE SETTIS * ______________________________________________________ Corriere della Sera 25 Giu. 04 CONCORSI TRUCCATI, ARRESTATI 5 CARDIOLOGI I medici accusati di corruzione e associazione a delinquere, altri due indagati Bari, nel mirino posti per cattedre in diversi atenei. Fra gli accademici il primario Dei Cas: «Non c' entro» Vulpio Carlo, Bruno Giovanna DAL NOSTRO INVIATO BARI - «Il meccanismo» avrebbe funzionato più o meno così: nelle riunioni plenarie del Collegio unico, composto da 32 professori universitari di Cardiologia, alcuni di essi avrebbero avuto le idee più chiare degli altri su chi nominare membro delle commissioni di concorso che poi dovevano selezionare i nuovi professori universitari. «Il meccanismo», a questo punto, avrebbe permesso al membro della commissione di concorso di scegliere come nuovi docenti quelli graditi, o meglio, segnalati dai componenti più solerti del Collegio unico, che proprio per raggiungere questo scopo avevano «combattuto» per fare in modo che fossero nominati quei commissari e non altri. E' su questo «meccanismo», oltre che sul «malcostume diffuso nel sistema universitario», che insiste il gip di Bari, Giuseppe De Benedictis, nella sua ordinanza di 330 pagine, che ha portato all' arresto (domiciliare) di cinque cardiologi di chiara fama, che assieme ad altri colleghi avrebbero truccato una decina di concorsi universitari per docente di cardiologia ordinario e associato nelle università di Bari, Firenze e Pisa. Concorsi che alla fine, sostiene l' accusa, avrebbero selezionato cardiologi un po' più cardiologi degli altri, in quanto amanti, figli, nipoti e allievi dei loro numi tutelari. Con le accuse di associazione a delinquere, corruzione reciproca, tentata estorsione e falso sono dunque stati arrestati Livio Dei Cas, 62 anni, docente universitario e primario cardiologo dell' ospedale civile di Brescia, Paolo Rizzon, 72 anni, fondatore della scuola di cardiologia dell' università di Bari, Mario Mariani, 68 anni, direttore del dipartimento cardiotoracico dell' università di Pisa, Maurizio Guazzi, 69 anni, cardiologo dell' università di Milano, e il professor Luigi Padeletti, 57 anni, di Firenze. Liberi, ma indagati per concorso in tentata estorsione, altri due noti cardiologi, Mario Lepera e Giovanni Modica. Scrive il gip, accogliendo l' ipotesi accusatoria dei pm Angelillis, Dinapoli e De Maria, che i cinque arrestati non agivano da soli, ma si erano «associati con altri per predeterminare, con carattere di sistematicità e di stabilità, l' esito delle procedure di valutazione comparativa indette dalle università italiane per il reclutamento del personale docente del settore scientifico disciplinare Med 11 (cioè, cardiologia, ndr)». Insomma, pare di capire che la vicenda non sia circoscritta a cinque o a sette docenti, o a una decina di concorsi, ma riguardi invece diversi altri concorsi - oltre a quelli di Bari, Pisa e Firenze - e possa presto coinvolgere altri membri (secondo alcune indiscrezioni, quasi tutti) del Collegio unico dei 32 cardiologi. Tra i quali però vi sarebbe stato anche qualche «dissidente», che non solo non si sarebbe fatto «pilotare» dai cinque principali imputati, ma avrebbe inviato i verbali delle prove al ministero dell' Università. Il professor Dei Cas si chiama fuori. «Roba da matti - dice -, io con quelle commissioni non c' entro nulla». Mentre per il professore Rizzon parla il suo avvocato, Achille Lombardo Pijola, che definisce «normale la tendenza a favorire i candidati della propria scuola e spesso parossistica la reazione di chi, a torto o a ragione, si sente danneggiato». E conclude: «In questo caso, la reazione è sfociata in una denuncia. Ma è inusuale il credito che in quest' occasione l' autorità giudiziaria ha dato a vicende usuali e prive di rilievo penale. Chiederemo il riesame al tribunale della libertà». La puzza di bruciato di una presunta combine, tuttavia, non è venuta fuori soltanto dai verbali sospetti inviati al ministero, ma anche dalle denunce di diversi concorrenti esclusi. Uno di loro riuscì persino a indovinare con largo anticipo il nome di chi avrebbe vinto il concorso di ottobre 2002 e i criteri che avrebbero orientato la scelta. Secondo l' accusa, quelle indicazioni avrebbero poi trovato conferma anche nelle intercettazioni ambientali, telefoniche e telematiche seguite alla denuncia. Va detto però che quel concorso non si è mai concluso, e che successivamente gli indagati avrebbero cambiato idea circa il «cavallo» sul quale puntare. Carlo Vulpio (ha collaborato Giovanna Bruno) GLI ABUSI Le università Una decina i concorsi in Cardiologia «truccati» negli atenei di Bari, Pisa e Firenze GLI ARRESTI I medici Ieri è scattato l' arresto di 5 noti cardiologi, cui sono stati concessi i domiciliari L' ACCUSA L' ipotesi Gli accusati avrebbero «pilotato» i concorsi per far vincere candidati a loro graditi ______________________________________________________ Repubblica 24 Giu. 04 RICERCA SULL'UOMO, NUOVE REGOLE PER LA PRIVACY I dati personali raccolti per scopi statistici o scientifici non possono essere utilizzati per prendere decisioni o provvedimenti relativamente all'interessato, né per qualsiasi altro scopo. Questo, in sintesi, uno dei cardini del codice deontologico per la tutela della privacy di chi si offre come soggetto per sperimentazioni scientifiche. Le regole entreranno in vigore dal primo ottobre prossimo. Tutelare la privacy delle "cavie" da una parte ma dall'altra garantire un facile accesso alle banche dati per chi si occupa di studi scientifici è un problema di non facile soluzione. Esiste infatti un concreto rischio che informazioni personali e riservate finiscano nelle mani sbagliate. È il caso, ad esempio, di una compagnia di assicurazioni che entri in possesso di dati sullo stato di salute di un cliente o di predisposizioni genetiche a sviluppare certe malattie: l'assicurazione difficilmente stipulerà con lui una polizza sulla vita o una sanitaria. Casi simili sono già stati scoperti negli Stati Uniti. Come non sono mancate le denunce di discriminazioni sul lavoro basate proprio sul possesso di informazioni mediche riservate. Eppure nella ricerca medica è fondamentale poter disporre di un gran numero di informazioni personali, per poter esaminare tutte le possibili variabili che condizionano lo comparsa e lo sviluppo di una determinata malattia o per valutare l'efficacia di una nuova cura. Per questo il codice stabilisce regole che conciliano la completezza di dati necessari allo svolgimento dell'indagine con la tutela della privacy dei soggetti che si sono offerti per la sperimentazione. Fortemente voluto dalla comunità scientifica, in particolare dal Css (Consiglio italiano per le scienze sociali), il documento è stato varato dopo sei anni di confronto tra un gruppo di lavoro composto da dieci società scientifiche e coordinato dal Css insieme alla Conferenza dei rettori delle università italiane, e l'Autorità garante della privacy. Per Ugo Trivellato, docente di statistica economica a Padova e presidente del gruppo di lavoro, la stesura del codice insieme all'entrata in vigore nel gennaio scorso del testo unico sul trattamento dei dati personali, facilita l'utilizzo delle banche dati prodotte dalle sperimentazioni superando le difficoltà che la legge sulla privacy del 1996 aveva creato alla ricerca. (carla etzo) ================================================================== ________________________________________________ LA STAMPA 23-06-2004 TROPPE DONNE A MEDICINA ALLARME IN EUROPA Sirchia: la svolta è positiva, ma i pazienti anziani sono imbarazzati C'è anche chi propone «quote riservate» ai maschi nelle facoltà Giacomo Galeazzi ROMA FEMMINILIZZAZIONE» della medicina. In alcuni paesi d'Europa è scattato l'allarme: nelle facoltà il rapporto tra studenti e studentesse è sbilanciato a favore delle seconde. E la cosa comincia a creare imbarazzo in alcuni pazienti, specie se anziani, restii a farsi visitare da un'urologa o da un'androloga sia pure preparatissima. Il problema, dice il ministro Girolamo Sirchia, esiste anche in Italia: «Ma è indispensabile un salto culturale, altrimenti si resta schiavi di stereotipi». Ministro Sirchia, esistono branche della medicina in cui le donne devono ancora affrontare resistenze? «Se entrando in un laboratorio di andrologia o di urologia maschile i pazienti trovano un medico uomo o donna non cambia ovviamente nulla dal punto di vista sanitario. Le statistiche ci dicono che sempre più neolaureate in medicina scelgono questo tipo di specializzazione. branche. Dobbiamo rallegrarcene e considerarlo un eccellente passo in avanti, cui deve necessariamente corrispondere un progresso nella mentalità della popolazione. Capisco anche, però, che qualcuno, specie se avanti con gli anni, possa avere problemi a parlare di sintomi e questioni intime ad una dottoressa o a sottoporsi a visite o test particolarmente delicati. E' una questione di rispetto delle differenti sensibilità, da risolvere nelle strutture sanitarie affidandosi al buon senso. Per esempio, gli ambulatori possono lasciare a chi va a visitarsi la scelta fra una specialista o un suo collega uomo ». Esiste un «maschilismo» dei pazienti? «Sono sicuro che nessuno tra i pazienti "in difficoltà", davanti ai camici bianchi donne, mette in dubbio la validità della diagnosi o dell'assistenza specialistica. Semplicemente, non riescono a svincolarsi da pudicizie sorpassate e irrazionali. Con un po' di garbo e di rispetto della privacy negli ospedali, quasi sempre è possibile superare questo blocco. Per confidare sintomi imbarazzanti ad un'urologa alcuni anziani hanno bisogno solo di essere aiutati ad andare oltre le resistenze iniziali. Poi prevale il lato tecnico- professionale, subentra la fiducia ed è come se avessero di fronte un uomo. Molte volte è sufficiente ricreare nelle strutture sanitarie ambienti e condizioni rispettose delle diverse sensibilità e pudori» Resta lo «squilibrio» nelle università tra studenti e studentesse. Tra i suoi colleghi europei c'è chi lo ritiene un problema. Lei che ne pensa? «Lo trovo un dato estremamente positivo, perché le donne spesso hanno un'operatività superiore, sono più attente al dettaglio, alla fattualità, mentre gli uomini in genere hanno maggiore visione d'insieme. Sono due modi di operare che si compenetrano efficacemente e si integrano a vicenda. Pur se fondata su basi scientifiche, la medicina è per lo più un lavoro artigiano e la precisione e l'abilità tecnica delle donne comporta vantaggi notevoli e fa progredire la qualità complessiva delle prestazioni sanitarie». Resta, però, l'imbarazzo di una parte della popolazione maschile. Perché? «E' indispensabile un adeguamento culturale su larga scala, anche perché le statistiche, oltre che una professione medica sempre più al femminile, fotografano una popolazione italiana che invecchia rapidamente. Lo studio e la pratica di determinate discipline, come appunto l'urologia maschile e l’andrologia, sono state a lungo appannaggio esclusivo degli uomini. E' ovvio, quindi, che certe classi d'età siano solite a farsi visitare l'apparato genitale soltanto dal dottore. Le stesse difficoltà le trovano nel parlare a un medico donna di patologie veneree o pratiche sessuali. Per una serie di retaggi culturali e convinzioni legate a una mentalità superata, ci sono tuttora uomini che non si sentono a proprio agio se devono spogliarsi in un ambulatorio davanti a una dottoressa». All'estero c'è chi parla di «quote» da riservare ai maschi nelle università... «Penso che sia meglio lavorare sulla privacy dei pazienti e sulla formazione dei medici. Di tutti i medici, uomini e donne. Abbiamo approvato misure "ad hoc" che tengono conto pure delle nuove dinamiche demografiche che fanno dell'Italia uno dei Paesi più longevi al mondo. E' chiaro che con i pazienti più anziani occorre tenere conto di una mentalità spesso differente e adeguare le situazioni in cui hanno luogo visito- e accertamenti diagnostici. inoltre stiamo rilanciando il rapporto medico-paziente con la formazione post-universitaria e il potenziamento dell'educazione continua. Il principio fondamentale è che i camici bianchi devono garantire informazioni agli assistiti e collocare al centro della loro attività le istanze del paziente come persona». Le studentesse che scelgono di specializzarsi in andrologia o urologia sono sempre di più Questo può creare problemi di privacy Le dottoresse sono attente ai dettagli, gli uomini hanno una migliore visione d'insieme Sono due modi d'operare che si completano - a vicenda ______________________________________________________ La Nuova Sardegna 25 Giu. 04 LAUREE SANITARIE, CGIL A MASALA: IL MINISTERO NON PENALIZZI L'ISOLA CAGLIARI. La segreteria regionale della Cgil-Fp ha scritto al presidente della Regione, Italo Masala, segnalando l'assoluta necessità di un intervento presso il ministero dell'Istruzione, università e ricerca per la individuazione dei fabbisogni della Sardegna che negli anni scorsi è stata esclusa da alcune specializzazioni come assistente sanitario, tecnico ortopedico, infermiere pediatrico, tecnico della riabilitazione psichiatrica. Nelle prossime settimane il ministero, infatti, emanerà il decreto di determinazione dei posti per l'accesso ai corsi di laurea delle professioni sanitarie per l'anno accademico 2004-2005. Nella lettera a Masala, il segretario generale della Cgil-Fp, Giovanni Pinna, ha espresso una forte preoccupazione per il rischio che anche nel prossimo anno accademico i giovani studenti sardi si vedano costretti a frequentare i corsi in altre università della penisola, a causa della mancata definizione dei protocolli d'intesa tra la Regione e le Università di Cagliari e Sassari. ______________________________________________________ Il Sole24Ore 25 Giu. 04 SERVONO OSPEDALI DI QUALITÀ MILANO a «Oggi bisognerebbe chiudere la metà degli ospedali italiani»: questa, secondo Umberto Veronesi, direttore dell'Istituto europeo di Oncologia, la soluzione per rispondere all'«eccesso di ospedali che costituisce un pericolo non solo dal punto di vista economico ma anche della qualità, perché si rischia di fornire terapie che non sono adeguate». Secondo Veronesi, intervenuto ieri a Milano nell'ambito del convegno sulla qualità nella sanità organizzato dal Crisp (centro di ricerca interuniversitario sui servizi di pubblica utilità alla persona) «è inutile costruire grandi cattedrali che domani verranno sicuramente abbandonate. Serve piuttosto -ha continuato - creare una rete di ospedali molto avanzati che possano concentrare strumenti e tecnologie costosi. Occorre dividere la diagnostica dalle attività terapeutiche una strategia generale per la sanità del domani: agli ospedali solo il compito di fare la terapia, mentre la diagnostica va distribuita a livello territoriale». Per Giorgio Vittadini, professore di statistica presso l'Università Bicocca e direttore scientifico del Crisp, bisogna partire da accurati studi sull'efficacia delle strutture per poi «riqualificarle a seconda del loro ruolo». In campo farmaceutico, ha detto invece Silvio Garattini, direttore dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, «il servizio sanitario nazionale non fa abbastanza informazione indipendente che controbilanci quella delle industrie». L'esperienza della Lombardia nel settore della sanità è stata sintetizzata dal presidente della Regione Roberto Formigoni: «È la prima Regione italiana, e tutt'ora l'unica, a sottoporre i suoi ospedali al giudizio della Joint Commission (L'ente che accredita gli ospedali americani), ottenendo ottimi risultati: 5 nostri ospedali, su 17 in tutta Europa, sono infatti stati classificati come eccellenti e siamo secondi solo alla Germania». _____________________________________________________________________ Il Sole24Ore 17 giu. ’04 IL COMPUTER NON VA IN CORSIA L'80% dei camici spende poco in informatica, si usano meno del dovuto i computer, si perde tempo e produttività. Parole spesso già sentite riguardo alla scarsa competitività delle aziende italiane. Questa volta però il quadro riguarda non il mondo degli affari, ma la Sanità italiana. Un settore particolare, perché i suoi costi e i suoi "ricavi" (in termini di efficienza e qualità delle prestazioni) ricadono direttamente su tutti i cittadini. L'analisi è stata effettuata dall'Aica, Associazione italiana per l'informatica e il calcolo automatico, in collaborazione con la Sda Bocconi. Lo studio - che verrà presentato domani a Milano e che @lfa Il Sole-24 Ore è in grado di anticipare - mette in evidenza i costi nella Sanità italiana della cosiddetta «ignoranza informatica». «II nostro obiettivo - spiega il direttore generale dell'Aica, Giulio Occhini - era quello di mostrare come in un settore così rilevante come quello della Sanità esistano costi e sprechi nascosti e sottovalutati». In Italia. In un comparto che dà lavoro a circa 1,3 milioni di persone e che assorbe l’8% del Pil, la spesa informatica ammonta a oltre 600 milioni di euro. lo 0,59% del totale dei costi connessi alla salute. Non molto, se paragonato ai livelli dei Paesi europei più forti e degli Stati Uniti, che si attestano intorno al 2 per cento. Nelle grandi strutture pubbliche e private, gli addetti che utilizzano l'informatica per il loro lavoro sono circa 340mila. Altri 250mila hanno accesso o usano un computer per varie mansioni. Si tratta di soggetti concentrati soprattutto nel personale amministrativo (49 per cento). La restante parte è costituita, in egual misura, da tecnici e infermieri (24%) e medici (25 per cento). Chi usa il pc. Dall'indagine a campione sui medici di base risulta poi che il 76% di questi ultimi usa strumenti informatici per la propria professione, mentre un volenteroso 7% dichiara che lo farà quanto prima. Qui il problema, però, non è tanto costituito da "quanto" si usa il pc, piuttosto da "come" lo si usa. L'80% degli intervistati infatti non conosce i database e più della metà non usa, neppure saltuariamente, i fogli elettronici. Il che significa perdere la possibilità di organizzare le esperienze, di fare statistiche, di passare insomma dai dati alle informazioni. Cosa rimane? Ben poco, come la scrittura delle prestazioni mediche e dei fogli da archiviare nelle cartelle cliniche, oltre a un po' di navigazione sul Web. «Purtroppo i database e più della metà non usa i fogli elettronici - dice ancora Occhini - i medici escono dalle università senza competenze specifiche nell'informatica. E sono molto restii ad assimilarle successivamente, soprattutto chi è intorno ai 50 anni». Perdite di tempo. Ma il fenomeno che più colpisce è la perdita di tempo, confessata dai medici stessi, sia quelli di base che il personale ospedaliero, e dagli infermieri. Tempo perso per scarsa familiarità con gli strumenti informatici. Improduttività che costerebbero al sistema circa 850 milioni di curo l'anno, addirittura più dell'intera spesa Il della sanità. La stima è comunque, viste le peculiarità del settore in questione, da prendere con le pinze. Ma il fenomeno c'è. E potrebbe acuirsi, visto che la diffusione delle tecnologie digitali cresce con tassi superiori a quelli dell'alfabetizzazione informatica. Il rischio è che questa «ignoranza informatica» possa pregiudicare la riuscita di tutti quei progetti in cantiere ; per migliorare il rapporto tra cittadino e Sanità. L'esperimento. Un esperimento di formazione del personale ' medico sanitario è stato realizzato all'Ospedale di Legnano (Milano). Un gruppo di 28 medici è stato sottoposto a un corso propedeutico all'esame per conseguire la patente europea del computer (Ecdl). Analizzando le capacità informatiche dei medici prima e dopo il corso, i miglioramenti ottenuti sono stati giudicati piuttosto positivi. Le conoscenze sono infatti cresciute mediamente dell’88% rispetto al livello iniziale. Con la conseguenza che ora i partecipanti riescono a fare lavori che prima non erano in grado di svolgere e far meglio ciò che prima eseguivano in modo insoddisfacente. E i tempi si sono ridotti in media del 10 per cento. Cosa fare. Partendo da questi risultati l'indagine di Aica fa una stima prudente dei possibili effetti della formazione informatica su tutti i soggetti potenzialmente interessati in ambito sanitario. L'incremento di produttività potrebbe aggirarsi intorno al valore di 1,9 miliardi di euro, oltre a una ~ riduzione di 250 milioni di euro ~ all'anno dovuta a minori costi per recupero di tempo. «Certamente - commenta Giulio Occhini - non si può valutare questo ritorno solo in termini strettamente monetari. Ma l'indagine rappresenta - comunque uno spunto utile per iniziare a lavorare. Anche perché bisogna tenere conto che la formazione informatica del personale sanitario non sarebbe nemmeno molto costosa, qualche centinaio di euro pro capite. E i risultati si potrebbero vedere già nel brevissimo periodo». Roberto Tallei L'IDENTIKIT Chi sono gli addetti delle Asl e degli ospedali che usano il pc (in % sul totale) Altre figure professionali 2 Personale medico 25 Personale tecnico e infermieristico 24 Personale amministrativo 49 Fonte: Aica ______________________________________________________ l’Unità 27 Giu. 04 MEDICINA, MEDICI E CIARLATANI LUIGI MANCONI ANDREA BORASCHI Sono molte le persone serie, ma sono troppi i ciarlatani». « I ciarlatani». La vede così Cinzia Caporale, membro del Comitato nazionale per la bioetica, a proposito della questione delle medicine non convenzionali e della mozione votata all'unanimità dallo stesso Comitato, un mese fa. In essa viene bocciata qualsiasi apertura, di carattere normativo, nei confronti delle pratiche terapeutiche alternative alla medicina tradizionale. Lo spunto per il testo del Comitato viene da un disegno di legge in discussione alla commissione Affari sociali della Camera, che intende, per la prima volta, dare sistemazione organica e riconoscimento giuridico a una serie di terapie (agopuntura> fitoterapia, omeopatia, motossicologia, medicina antroposofica, farmacoterapia tradizionale cinese, farmacoterapia ayurvedica e medicina manuale), rimaste ai margini, finora, della medicina istituzionale. Per alcuni versi, Cinzia Caporale ha ragione: esistono terapeuti seri, come esistono bolsi fricchettoni e stregoni in carriera (e in tivù), schizzati cultori di filosofie olistiche e sciamani di quartiere, muniti di piramidi, cristalli ed essenze "miracolose". Medici e ciarlatani. Proprio come - ahinoi - nella medicina allopatica e tradizionale; e come in tutti gli altri ambiti dell'agire e del sapere umano. Qui si vuole ammettere, in via ipotetica, persino qualcosa di più: ovvero che nella medicina ufficiale il rapporto tra seri professionisti e pericolosi incompetenti sia, ad oggi, relativamente più rassicurante di quello rilevabile nella medicina "alternativa". Il perché è presto detto: mancano corsi di formazione universitari in medicine e pratiche non convenzionali: come pure non esistono le relative materie di insegnamento nei corsi di laurea in medicina, odontoiatria, farmacia, veterinaria, scienze biologiche e chimica; inoltre, le società e le associazioni di riferimento delle professioni sanitarie non convenzionali non possono essere, ad oggi, riconosciute come organismi scientifici; e non vi sono rappresentanti di queste pratiche nel Consiglio Superiore della Sanità. La medicina "alternativa", in altre parole, manca in Italia di rappresentanza istituzionale: e, di conseguenza, non dispone di adeguati strumenti per la ricerca scientifica, la formazione, l'aggiornamento e la qualificazione professionale. Tutte cose che servirebbero, giustappunto, a discernere tra medici e ciarlatani. Tutte cose alle quali il Comitato nazionale di bioetica, finora, si è opposto fermamente. "La motivazione alla base del testo - ci spiega ancora Cinzia Caporale - è che secondo il Cnb tali pratiche non sono validate da metodologia scientifica". In altre parole, quelle pratiche - per ricorrere a Popper - non sarebbero falsificabili. Ci troveremmo davanti, dunque, ad approcci terapeutici che, per loro natura, non sopportano il vaglio - diciamo così - del metodo cartesiano. Non sarebbero scienza: al più ideologia, se non magia. La questione, come si dice, è complessa: ma, proprio per questa ragione, non si possono ignorare due ordini di problemi. Da un lato, il fatto che nel nostro paese operano molti medici che, pur formatisi nella medicina convenzionale, adottano da tempo, a integrazione o a parziale sostituzione di essa, terapie "altre", di varia origine, impostazione ed efficacia; e operano molti medici di formazione interamente alternativa. Entrambi i gruppi di professionisti incontrano grandissime difficoltà: ma a essi, ogni anno, si rivolgono - ecco l'altro lato della questione - nove milioni di italiani. Che vorrebbero poter contare su una certificazione della competenza e della preparazione di chi presta loro cura; e che invece, spinti spesso dal fallimento (vero o presunto) delle cure convenzionali, si muovono in una condizione di incertezza e di approssimazione. Una legge in materia potrebbe garantire molti pazienti, e aiutarli nella loro scelta terapeutica. Ci sono interessanti evidenze scientifiche che accreditano molte terapie non convenzionali e riconoscono i loro effetti positivi per determinate patologie. Un buon esempio ci viene dalla ricerca condotta nel 2001 da un gruppo di studiosi del San Raffaele, dell'Università Bicocca e del CNR di Milano: in essa viene dimostrata la validità scientifica dell'effetto analgesico dell'agopuntura. Ed è solo un piccolissimo esempio. Di evidenze come questa è ricca la letteratura scientifica, e il Comitato nazionale per la bioetica e il Parlamento dovrebbero occuparsene con maggiore attenzione. Intanto, c'è stato un primo segnale positivo: lo stesso Comitato, che non più di un mese fa ha prodotto la mozione di cui si è detto, ha ricevuto in audizione il Comitato permanente di consenso e coordinamento per le medicine non convenzionali. Si è aperto un confronto, sin qui difficile e, per lo più, accuratamente evitato: staremo a vedere. Sullo sfondo c'è un enorme problema, che lo stesso Comitato nazionale per la bioetica dovrà affrontare, ci auguriamo, con spirito libero e razionale. Stiamo parlando di discipline e terapie il cui statuto scientifico è diverso da quello tradizionale. Nessuno intende sostituire un approccio scientifico totalizzante a un altro. Si vuole, piuttosto, affermare la possibilità di considerare altri statuti scientifici, che prevedono diversi protocolli e diversi criteri di validazione: affinché differenti paradigmi medici siano messi nelle condizioni di misurarsi con l'esperienza terapeutica e le metodiche scientifiche. Insomma, perché dovremmo avere paura di più libertà? Scrivere a: abuoudiritto@abubndírítto.it _____________________________________________________________________ La Repubblica 16 giu. ’04 MEDICI SENZA MORALE Il libro si intitola "Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza" L'ha scritto Marco Bobbio, cardiologo alle Molinette di Torino UMBERTO La salute è un diritto? Dipende da dove vivi: se nel primo o nel terzo mondo. Dipende dall'età che hai: se sei giovane o se sei vecchio. Dipende dal budget a disposizione dell'ospedale in cui ti ricoveri. Dipende da quanti soldi hai per permetterti gli accertamenti e gli interventi consigliabili e, per ragioni di contenimento della spesa, non prescrivibili dalle strutture pubbliche. Insomma: dipende. E gli esami a cui mi sottopongono, le medicine che mi prescrivono, gli interventi che mi consigliano sono davvero necessari? Rispondono esclusivamente all'interesse del paziente o questo interesse deve anche combinarsi con gli interessi dell'industria farmaceutica che deve far profitti per promuovere la ricerca, vistala latitanza, in questo settore, dell'amministrazione pubblica? Sono queste alcune domande che si pone Marco Bobbio, cardiologo alle Molinette di Torino, nel suo documentatissimo libro che ha per sottotitolo «Medicina e Industria» e per titolo l'attacco del giuramento di Ippocrate: Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza (Einaudi, pagg. 290, euro 15). Giurare è facile. Mantenere i giuramenti è molto più difficile, non perché i medici siano particolarmente corrotti, ma perché, come scrive Guido Rossi nel suo bel libro Il conflitto epidemico (Adelphi), oggi noi viviamo in un conflitto di interessi che non dipende solo dall'immoralità dei singoli operatori economici, ma piuttosto dalla forma che ha assunto il capitalismo moderno quando, da industriale e commerciale, è divenuto finanziario. Questo male oscuro, che mina l'economia mondiale, sovverte a tal punto i meccanismi di autoregolamentazione che avevano fin qui reso possibile il controllo del sistema, da renderci tutti, se non soggettivamente, oggettivamente meno etici. Non è un reato se un medico, dopo aver ricevuto dall'informatore farmaceutico un costoso libro d'arte o un sofisticato cdrom utile al suo lavoro, prescrive un farmaco piuttosto che un altro, che ha lo stesso principio attivo e lo stesso effetto terapeutico. Non è reato, ma quel medico non è più davvero libero e indipendente. Così come non lo è il medico ospedaliero che, per inserire un certo farmaco nel prontuario del proprio ospedale allega la documentazione stilata dall'ufficio marketing dell'industria farmaceutica, che avrà tutto l'interesse a descriverei vantaggi e a sottacere gli effetti indesiderati del prodotto. Che dire poi della libertà del clinico illustre che a un importante congresso internazionale relaziona positivamente sulla sperimentazione di un farmaco prodotto dall'industria che gli ha finanziato con borse di studio, acquisto di strumentazioni, trasferte all'estero per partecipare a congressi con viaggio in business class, cene e camera d'albergo tutto compreso? Che dire sull'attendibilità scientifica della sua relazione, frutto di un gruppo di ricerca ai cui membri l'industria farmaceutica ha corrisposto per anni un regolare stipendio? E il giornalista scientifico, che scrive regolarmente sugli inserti salute dei vari quotidiani, che libertà ha se, per raccogliere le sue informazioni, partecipa a congressi, pagato dalle industrie farmaceutiche che gli forniscono anche la relazione, a partire dalla quale il giornalista preparerà il suo articolo divulgativo? Gli esempi qui riportati non sono reati di comparaggio, truffa, corruzione, concussione. No, nulla di tutto questo. Sono semplici "slittamenti etici", non perseguibili, che però fanno perdere indipendenza e libertà di giudizio, quando addirittura non incidono sull'attendibilità scientifica delle relazioni che accompagnano l'immissione di farmaci sul mercato e la relativa pubblicizzazione. Essendo la ricerca scientifica promossa quasi esclusivamente dall'industria farmaceutica, i rapporti tra medici, istituzioni pubbliche, associazioni scientifiche da un lato e industria farmaceutica dall'altro sono essenziali per tutte le componenti, che devono mantenere tra loro uno stretto collegamento. Ma questo "slittamento etico" che passa inosservato e che, lo ripetiamo, non è "reato", ma faremmo fatica a non chiamarlo almeno "favoreggiamento", quanto inverte il rapporto mezzi-fine? È una domanda che ci dobbiamo porre per non accorgerci poi con troppo ritardo che il fine delle cure non è più la salute, ma il profitto. O se non vogliamo essere troppo radicali, il fine continua a essere la salute, ma solo per quegli strati di popolazione o per quelle aree geografiche dove la cura delle malattie produce profitto. Ne è una dimostrazione lampante la condizione sanitaria del terzo mondo dove, non essendoci soldi, non ci sono neanche medicine, strumenti diagnostici, personale medico, possibilità di intervento. E se tutto ciò è vero, come testimonia Rony Brauman, presidente di Medici senza frontiere, nonché premio Nobel per la pace nel 1999, nel suo bellissimo libro Utopie sanitarie. Umanità e disumanità della medicina (Feltrinelli, pagg. 208, euro 25), se tutto ciò è vero, allora la salute è un diritto di pochi, dei pochi che su questa terra hanno denaro con cui è possibile creare profitto a chi in questo settore fa ricerca. Una ricerca costretta a servire due finalità: la cura della malattia e il business, che non sempre coincidono, come la cultura liberista vorrebbe far credere. E quando le finalità non coincidono inevitabilmente una deve subordinarsi all'altra. E non è certo il profitto a retrocedere di fronte alla satute. Viene allora il sospetto che forse il diritto alla vita e la sua difesa devono incominciare proprio da qui, e non dove si affollano le animate discussioni sugli ovociti o sugli embrioni congelati e abbandonati. Perché quando il diritto alla salute è subordinato al profitto, allora è lo stesso valore della vita che abbiamo degradato, e degradato a tal punto che lo consideriamo un valore solo se concorre a quello che ormai, nella nostra cultura, appare il valore dei valori: il denaro. _________________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 27-06-2004 LE PAROLE DELLA GENETICA CONOSCERLE PER EVITARE ABBAGLI Anche le discussioni tra esperti contengono errori fuorvianti di VITTORIO SGARAMELLA Anche i fisici a volte peccano d'ingenuità e imprudenza: ad esempio quando sostengono che la genetica è più pericolosa del nucleare. Grazie alla loro reputazione simili leggende diventano dogmi. Ora si dà il caso che il peggiore disastro genetico porterebbe «solo» a mutazioni della biosfera ma la vita continuerebbe. Se invece esplodessero le armi e le centrali nucleari sparse per il mondo, l'intera biosfera sparirebbe. Tullio Regge è un ottimo fisico e un arguto commentatore, ma anche lui è caduto nella trappola dei significati. A proposito degli Ogm si sdegna perché (lo cito) «quando qualche scriteriato come lui ricorda che un ottimo grano duro è un mutante prodotto da raggi gamma, «gli ambientalisti cambiano discorso, ma continuano a mangiarlo». Spesso sfugge la differenza tra organismi mutati naturalmente (lo siamo tutti), organismi che di proposito mutagenizziamo con reagenti, radiazioni etc., e organismi che manipoliamo geneticamente trapiantandovi geni. La sigla Ogm andrebbe riservata a questi ultimi. Negli Ogm noi trapiantiamo Dna estraneo, con operazioni in natura non impossibili, ma certo rare: per trasferire geni di un pesce degli abissi in un muschio d'alta montagna, in natura ci vorrebbero ere; in laboratorio, ore. Delle eventuali «chimere» sappiamo poco: è probabile che saranno tanto meno vitali quanto maggiori sono il numero di Organismi mutati in natura o in laboratorio geni trapiantati e la distanza evolutiva tra i partner; e che non saranno necessariamente pericolose. È invece probabile che incauti rilasci possano alterare ecosistemi millenari. Il «golden rice» è un riso nel quale sono stati trapiantati i geni per precursori della vitamina A derivati dal giacinto (il giallo è dovuto al beta-carotene) e da batteri. Giusto dire che si tratta di un Ogm utile ai paesi emergenti. Meno giusto dire che «l'assenza di questa vitamina nel riso normale è causa di morte e cecità nell' Estremo Oriente»: visto che il riso normale manca dei geni per tanti farmaci, non addossiamo la colpa di molte patologie al divieto delle manipolazioni che potrebbero trasferirveli. Tutti gli organismi vanno controllati prima dell' uso, specie se ampio, in base a protocolli condivisi da esperti. Se i controlli sono rassicuranti, si proceda, ma l'origine resti riconoscibile almeno sino a quando non sia garantita una buona affidabilità. Il trapianto di interi blocchi di geni estranei è nuovo e i suoi effetti sull'ospite e sulla biosfera in generale sono ancora oscuri: alla fine potremmo anche non trovare differenze di rilievo tra organismi mutati, mutagenizzati, manipolati. Intanto però ricordiamo che a oggi i danni li hanno fatti i primi, prodotti inevitabili di una millenaria evoluzione. Per capirli, prevenirli e contenerli possiamo/dobbiamo usare i secondi e i terzi, prodotti opzionali della nostra cultura. ______________________________________________________ Il Sole24Ore 19 Giu. 04 L'EUROPA SCENDE IN CAMPO CONTRO I TUMORI DEL SANGUE Leucemie e linfomi / La settimana delf'Ail Spingere ancora più avanti le prospettive di guarigione: è questo l'obiettivo di medici e ricercatori impegnati nel settore dei tumori del sangue. Si aprono oggi sempre più ampi spiragli nella lotta a leucemie, linfomi e mieloma multiplo, malattie neoplastiche in gran parte dei casi considerate inguaribili fino a solo pochi anni fa. E sotto il segno di un rinnovato ottimismo, alimentato dalla disponibilità di nuovi farmaci e dal prossimo arrivo di ulteriori opzioni terapeutiche, si svolgerà dal 21 al 28 giugno la settimana dell'Ail - l'Associazione italiana contro le leucemie, linfomi e mieloma - (che per l'occasione potenzierà il suo numero verde 800-226524), - da pochi giorni presieduta dal noto emato-oncologo Franco Mandelli: «Stiamo vivendo un momento incredibilmente favorevole - commenta lo specialista, professore di Ematologia all'Università "La Sapienza" di Roma - sia per le attuali possibilità di guarire i malati o di consentire loro una più lunga sopravvivenza, che nella sperimentazione di nuove terapie». Il fermento è tale che oggi appare più corto l'elenco delle neoplasie del sangue ancora non guaribili: «Sono soprattutto - precisa Mandelli - le leucemie acute che insorgono in pazienti molto anziani (di età superiore a 70 anni) e le leucemie linfatiche acute dell'adulto». Per le altre forme, terapie "biologiche" e mirate, trapianti di midollo osseo e cellule staminali sono già una realtà clinica ed assicurano remissioni addirittura spettacolari. Leucemie. Sono due le forme leucemiche nelle quali è già possibile ottenere, come dice Mandelli, «risultati eccezionali». Una è la leucemia acuta promielocitica: «Negli ultimi anni - conferma l'ematologo - siamo arrivati a percentuali di guarigione del 70-80% con chémioterapia e derivati della vitamina A (acido retinoico)». L'altra è la leucemia mieloide cronica: l’imatinib (più noto come Gleevec) è il primo esempio di farmaco "disegnato" su un'alterazione genica tumorale ed entrato nella pratica clinica: «In questa forma leucemica - dice Mandelli - rispetto al passato il trapianto di midollo è diventato molto meno frequente». Il Gleevec, usato anche da solo, dimostra infatti una notevole efficacia («c'è una remissione citogenetica e molecolare», aggiunge l'esperto, riferendosi alla scomparsa delle alterazioni cromosomiali delle cellule) accoppiata alla quasi assenza di effetti collaterali. Siccome il farmaco è impiegato da pochi anni, il periodo di controllo (follow-up) dei pazienti trattati e mandati in remissione risulta però ancora breve. Linfomi. Anche questo gruppo di malattie ematologiche viene oggi curato con farmaci "mirati": anticorpi monoclonali come il rituximab, associati alla chemioterapia, e autotrapianto di midollo osseo. Ma sono allo studio, tra l'altro, anche anticorpi coniugati con radioisotopi che promettono grandi risultati. Mieloma multiplo. Per questo tumore che si sviluppa da cellule presenti nel midollo osseo e che si manifesta con tipiche lesioni delle ossa, avverte Mandelli, ancora non è possibile parlare di guarigione, ma solo di aumentata sopravvivenza. E questo si deve alla talidomide, farmaco tristemente noto per i suoi effetti teratogeni (che causa malformazioni nel feto) in gravidanza, ma che sta fornendo risultati lusinghieri nel trattamento di questi pazienti sia nelle forme che si dimostrano resistenti verso i protocolli terapeutici tradizionali sia come terapia di prima scelta. «E poi c'è la possibilità di ricorrere a infusioni di cellule staminali e a trapianti autologhi che possono anche essere ripetuti». C'è ancora per alcuni di questi farmaci un problema di disponibilità: «Mentre infatti - sottolinea Mandelli - siamo stati fra i primi al mondo ad avere il Gleevec, grazie all'opera svolta da ematologi italiani (i professori Tura e Baccarani), e abbiamo a disposizione anche il rituximab; più difficile è procurarsi la talidomide, che non è anco ra in commercio. Ma che può essere preparata in modo galenico in farmacia su prescrizione dell'oncologo». Del resto, oltre al finanziamento delle ricerche sulle neoplasie del sangue, tra le attività dell'Ail che puntano a migliorare la qualità della vita dei malati c'è appunto la collaborazione alla realizzazione di laboratori di ricerca e di unità assistenziali, con l'acquisto di apparecchiature ad alta tecnologia e di farmaci non ancora disponibili. EDOARDO ALTOMARE ______________________________________________________ La Gazzetta del Mezzogiorno 20 Giu. 04 EMORROIDI / INFLUENZANO ANCHE LA PSICHE E IL COMPORTAMENTO SOCIALE NAPOLI - Anche le emorroidi influenzano il comportamento sociale c di vita. Problemi di «basso» ma anche di «sopra» perché intestino c cervello si parlano, si influenzano, concordarlo i comportamenti. Nervosismo, facile irritabilità, insicurezza, timore di crisi acuta determinano il modo di fare di chi è affetto da emorroidi. Tre volte su cinque non parla della propria affezione, Napoleone subì la disfatta di Waterloo perché, durante la fase finale della battaglia, ne soffriva. Un soggetto su quattro over 30 anni, nei Paesi industrializzati, ne è colpito. Le emorroidi sono dei rigonfiamenti venosi, una specie di varici del sistema venoso emmorroidiario. Si suddividono in interne ed esterne a seconda che fuoriescano o meno dall'orifizio anale. Causano perdite di sangue (russo) che, quando esse sono molto voluminose e gonfie, possono essere consistenti. Ereditarietà, età, sesso, alimentazione sono fattori predisponenti" Secondo alcuni studiosi, l'abbandono della posizione «alla turca» per espletare il bisogno quotidiano sarebbe stato deleterio. Molte le tecniche- usale per la terapia. Dalle erbe per tisane e semicupi, alla chirurgia, a scleroterapia, raffreddamento, laser, corrente elettrica, ecc. «Tutte - ha detto il prof. Antonio Longo, presidente onorario della società italiana di colonproctologia e primario della divisione relativa dell’ospedale St. Elisabeth di Vienna - si rivolgono agli effetti, mentre le emorroidi sono la conseguenza di un prolasso della mucosa rettale che cura la radice del problema. Per questo abbiamo ideato un intervento rivoluzionario. Un nuovo ìntervento chirurgico conservativo ______________________________________________________ Libero 27 Giu. 04 SHOCK ANAFILATTICO ADDIO Sperimentato un semplice e rapido test per l'analisi degli alimenti I di LUIGI SPARTI MIAMI - Come tutti sappiamo, il22 maggio scorso Beatrice Geronimi, una bimba di undici anni residente a Chiavenna, è morta dopo aver ingerito un boccone di torta: il dolce conteneva infatti nocciole, un alimento al quale la piccola era allergica e che le ha provocato uno shock anafilattico fatale (cioè una violentissima e improvvisa reazione allergica che causa l’arresto cardiaco). Simili luttuosi episodi sono destinati però a non ripetersi mai più: ricercatori Usa hanno infatti messo a punto un nuovo tipo di test in grado di rivelare rapidamente la presenza nel cibo di quantità anche molto piccole di nocciole o di prodotti derivati. A sviluppare il nuovo metodo (basato su semplici analisi chimiche) sono stati Shridhar 5athe e i suoi colleghi della Florida State University e della University of California. Gli studiosi americani sono giunti a sviluppare il test in modo casuale, mentre stavano cercando di realizzare una tecnica (basata sull'irradiamento mediante radiazioni gamma per rendere innocue le sostanze allergiche contenute nelle noccioline (un esperimento che tra l'altro non è riuscito). Sathe e colleghi si sono così accorti che alcune proteine contenute in questi frutti (così come nelle mandorle ,e in molti alimenti analoghi) erano facilmente isolabili e identificabili attraverso semplici procedure chimiche. Il nuovo metodo permetterà alle industrie alimentari di capire rapidamente se i loro prodotti sono stati contaminati casualmente da additivi (come, ad esempio, il burro di noccioline provenienti da altre linee di produzione provenienti (un fenomeno più diffuso di quanto si creda reso ancora più pericoloso dal fatto che le etichette apposte sulle confezioni non menzionano questa possibilità) . Non si tratta di una preoccupazione inutile: l'Occidente, sta conoscendo infatti negli ultimi anni un'enorme diffusione di questo tipo di allergie, ed è quindi necessario prendere misure adeguate. ______________________________________________________ Libero 27 Giu. 04 CANCRO, IL 64 PER CENTO DEI MALATI SOPRAVVIVE Trent'anni fa se ne salvava solo la metà. La confortante cifra rilevata in Usa dal N.C.I. NEW YORK - [Ls.] Il cancro fa meno paura: stando infatti a una recente ricerca Usa, negli Stati Uniti (ma tali conclusioni possono essere applicate a tutti i Paesi occidentali) il tasso di sopravvivenza dei malati di tumore è aumentato notevolmente, tanto da passare negli ultimi trent'anni da un iniziale cinquanta per cento all'attuale sessantaquattro per cento. E le stime si fanno ancora più ottimistiche se prendiamo in considerazione il fatto che, con l'allungarsi della durata media della vita, è aumentata anche la percentuale della popolazione che si ammala di tumore: da questo punto di vista il numero di coloro che sono riusciti a rimettersi dal "male del secolo" è passato dai tre milioni registrati nel 1971 ai quasi dieci milioni registrati nel 2001 (tali cifre vengono calcolate in base alla sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi). Stando agli autori dello studio, Julia Rowland e il suo team e il suo team del National Cancer Institute (a Rockville),l’aumento, del tasso di sopravvivenza sarebbe dovuto sostanzialmente a due fattori (entrambi collegati alla ricerca scientifica), e cioè lo sviluppo di nuove e più efficaci forme di trattamento e la messa a punto di metodologie di diagnosi più precise e tempestive. Inoltre, le statistiche raccolte dalla Rowland dimostrano che la percentuale dei sopravvissuti e cresciuta notevolmente anche nel caso dei tumori infantili (passando da un cinquanta per cento all'ottanta per cento). E, stando al National Cancer Institute, il prossimo obiettivo della politica sanitaria Usa è quello di portare il suddetto tasso al settanta per cento entro il 2010, puntando in un certo senso a trasformare (quando sia possibile) il tumore in una malattia cronica (cioè a decorso sempre più lento). Sempre secondo la Rowland è necessario perseguire un ulteriore obiettivo, questa volta relativo alla salute psicologica dei pazienti, e cioè quello di aiutarli a convivere con la paura di una ricaduta. Negli Stati Uniti ci sono attualmente quasi dieci milioni di sopravvissuti al cancro (soprattutto al seno, alla prostata e al colon) pari al 3,5 percento della popolazione. E il numero cresce in continuazione. Le statistiche sono state pubblicate sull'ultimo numero della rivista "Morbidity and Mortality Weekly Report". ______________________________________________________ La Stampa 23 Giu. 04 ENDOMETRIOSI UNA MALATTIA SOTTOVALUTATA NON è una malattia rara, perché interessa circa il dieci per cento delle donne in età fertile. Non è banale, perché può incidere profondamente sulla qualità della vita. Eppure dell'endometriosi si parla poco. Questa sottovalutazione è inspiegabile, se non forse con l'atavico concetto che aver cicli mestruali dolorosi (dismenorrea), dolori lancinanti nel periodo dell'ovulazione o rapporti sessuali dolorosi (dispareunia) è considerato da molte donne quasi fisiologico e si ha pudore a lamentarsene. Così il più delle volte tale patologia viene vissuta in solitudine dalle donne, nell'errata convinzione che non vi sia alcun rimedio. Questo è uno dei motivi per cui la diagnosi viene fatta spesso con molto in ritardo, in media dopo dieci anni dall'inizio dei sintomi. La sottostima del problema ha indotto alcune donne capeggiate da Jacqueline Veit ad istituire nel 1999 l'Associazione Italiana Endometriosi (AIE), collegata all'International Endometriosis Association, il cui scopo è di ottenere un maggior riconoscimento della malattia, di stimolare la ricerca e di fornire sostegno a chi ne affetta (www.gb-tech.it/assoc; e-mail: assoc@gb-tech.it). L'endometriosi è la presenza in sede extrauterina di endometrio, cioè della mucosa che normalmente riveste la cavità dell’utero e che mensilmente si sfalda per essere eliminata col flusso mestruale. Le sedi improprie più frequenti sono organi vicini: ovaie, tube, vescica, intestino, peritoneo. Eccezionalmente, penetrando le cellule endometriali nei vasi sanguigni e linfatici, queste possono essere trasportate molto lontano, come nel polmone e nel cervello. Una donna che tutti i mesi aveva un'epistassi, in realtà aveva una endometriosi a livello della mucosa nasale. Poiché anche i focolai endometriosici in sede anomala vanno incontro, sotto l'azione degli ormoni sessuali femminili ad un ciclico sviluppo, sfaldamento e sanguinamento senza che vi sia una via di efflusso, capita che il materiale sfaldato che resta "in loco", non potendo essere neutralizzato totalmente dai macrofagi (le «cellule spazzino» del sistema immunitario), provochi infiammazioni, cicatrici, cisti ripiene di sangue, aderenze fra tessuti circostanti, con varietà di sintomi e la difficoltà di ricondurli alla causa effettiva. Una delle più gravi conseguenze dell'endometriosi è l'infertilità, che colpisce il 30-40% delle donne affette, per danneggiamento diretto del tessuto ovario o per processi aderenziali che possono alterare i rapporti tra le tube e l'ovaio oppure che possono determinare l'occlusione delle tube stesse. I sintomi più comuni che dovrebbero far sospettare l'endometriosi sono i dolori intensi e puntuali ad ogni mestruazione, i dolori peri-ovulatori e quelli durante i rapporti sessuali. Altri possono essere stanchezza, dolori lombari, diarrea e/o stipsi, disturbi vescicali. Il sospetto può essere confermato con l'ecografia, ma la certezza si raggiunge soltanto con la laparoscopia, procedura mininvasiva che con l'introduzione in addome di uno strumento a fibre ottiche permette la visualizzazione degli organi pelvici (utero, tube, ovaio) e la biopsia del tessuto sospetto. La causa dell'endometriosi non è nota. Secondo la teoria della mestruazione retrograda una certa quantità di materiale di sfaldamento, risalendo le tube, penetra nel cavo peritoneale e qui si impianta. Secondo la teoria genetica vi sarebbe predisposizione familiare. Secondo la teoria embrionaria la causa sarebbe la presenza di residui di tessuto embrionario, mentre per la teoria chirurgica durante interventi sarebbe il bisturi a trasportare in addome cellule di endometrio. Mancando la certezza etiologica manca ovviamente la possibilità di una terapia causale e risolutiva. La terapia medica attuale si indirizza a ridurre il livello degli estrogeni, ormoni che hanno effetto stimolante sulla mucosa uterina, ovunque essa sia, riducendo in questo modo di molto la sintomatologia. Ciò può essere ottenuto in diversi modi: con la normale pillola anticoncezionale estro-progestinica, il solo progesterone, il danazolo (derivato del testosterone), i GnRH agonisti (Gonadotropin Releasing Hormone) che determinano una pseudo-menopausa, reversibile. L’eventuale gravidanza sarebbe una cura ormonale fisiologica. Per rimuovere cisti, noduli o placche, eliminare aderenze e ridare la fertilità è spesso necessario agire chirurgicamente: prevalentemente attraverso "laparoscopia operativa", a volte attraverso la "laparotomia". La rimozione dell’utero, come avveniva in passato, non risolve, poiché gli impianti di endometrio in altre zone rimangono attivi e sanguinano sotto lo stimolo degli ormoni femminili. In casi più lievi e meno dolorosi si può avere semplicemente un atteggiamento di controllo. Antonio Tripodina ______________________________________________________ Corriere della Sera 21 Giu. 04 TEST PRENATALI, ORA SI POSSONO SCOPRIRE 200 MALATTIE In aumento gli esami nella prima fase della gravidanza. Il genetista: in futuro la carta d' identità del feto De Bac Margherita La stanza di Bruno Dallapiccola, genetista dell' università La Sapienza, è tappezzata di foto di bimbi bellissimi, con malattie dei cromosomi sessuali. Sindrome del triplo x, della doppia y, dell' xxy. Regali dei genitori. Sapendo di essere portatori di anomalie, speravano di non trasmetterle ai figli e, durante la gravidanza, hanno chiesto la diagnosi prenatale. Una volta scoperto che i bimbi sarebbero nati con quel difetto, li hanno accettati, felici, scartando l' ipotesi di un aborto. Dilemmi che attanagliano sempre più spesso madri e padri nell' era dei test prenatali. Del figlio che verrà è possibile predire quasi tutto grazie ad ecografie e indagini cromosomiche o genetiche. Di fronte a risposte infauste scegliere diventa una prova lacerante: tenerlo o non tenerlo? «Fra dieci anni potremo avere la carta d' identità completa del nascituro», dipinge il futuro Dallapiccola. Già oggi i genitori possono avere accesso a un ampio archivio di informazioni sul bimbetto che si sta formando nella pancia della mamma. L' impiego di test prenatali, come rileva in un articolo pubblicato ieri dal New York Times, è particolarmente frenetico negli Stati Uniti, terra degli eccessi. E anche da noi il settore è in grande espansione, man mano che sul mercato si rendono disponibili i nuovi kit. Già prima dello scoccare del terzo mese di gravidanza il bimbo viene scrutato da apparecchi ecografici ad alta definizione che permettono di misurarne i lineamenti, di controllare certi rapporti. Ad esempio, la distanza tra padiglione auricolare e sopracciglio, o lo spessore di una minuscola zona dietro la nuca. Un parametro al di fuori della norma può indicare l' aumento di rischio per la mamma di partorire un piccolo Down. Informazione che, comunque, deve essere nel caso corroborata da esami ormonali. «Attenzione, stiamo parlando di screening prenatali e non di diagnosi - spiega la differenza basilare Domenico Arduini, responsabile del centro di medicina prenatale all' università di Tor Vergata -. Con esami come il tri-test, dual-test o quello della translucenza nucale possiamo calcolare una maggiore probabilità di rischio. Non dicono se il feto è sano o malato, ma semplicemente che percentuale ha di sviluppare un' anomalia. Per la risposta definitiva bisogna affidarsi alla villocentesi o all' amniocentesi». Un piccolo campione di placenta (villocentesi) o di liquido amniotico (amniocentesi) prelevati con un ago vengono utilizzati come materiale per indagini cromosomiche e genetiche. Oggi si riesce a diagnosticare oltre 200 malattie cromosomiche. Secondo i dati raccolti dall' Agenzia di sanità pubblica del Lazio, nel 2000, su 49 mila partorienti il 21% si erano sottoposte alla prova del liquido amniotico con percentuali che variano per età. Tra i 35 (limite oltre il quale l' esame viene raccomandato) e i 39 erano il 40%, oltre i 40 anni salivano al 54%. Le diagnosi genetiche sono invece mirate, vengono prescritte in base alla storia familiare, quando uno dei due genitori o ambedue sono portatori sani e possono trasmettere il difetto al figlio. Le più frequenti riguardano fibrosi cistica, talassemia e distrofie. «Notiamo nelle coppie un atteggiamento molto coscienzioso anche quando si trovano di fronte a verità che non avrebbero voluto ricevere - dice Arduini -. Il compito del medico è trasmettere informazioni corrette. Purtroppo, non sempre succede e i genitori vengono lasciati soli di fronte a decisioni sconvolgenti». Insiste Dallapiccola: «A volte, i genitori preferiscono non sapere e accettare il destino pur di non dover riflettere sull' eventualità di rinunciare con l' interruzione di gravidanza a un figlio handicappato o di attenderlo già sapendo che ha dei problemi». Così si spiega lo scarso successo di test per malattie geniche abbastanza diffuse. Come la sordità. Margherita De Bac mdebaccorriere.it ______________________________________________________ Repubblica 24 Giu. 04 Piccole scosse ischemiche Microembolie cerebrali più frequenti in questa stagione. Cosa fare di Annamaria Messa Colpa della lunga stagione fredda, della variabilità del tempo, quest'anno si sono moltiplicati i casi di TIA (Attacco Ischemico Transitorio), temporanea ischemia a livello cerebrale per la chiusura di piccoli vasi. Colpisce all'improvviso, con sintomi molto diversi. "In genere si tratta di microembolia cerebrale o di piccole trombosi. Un campanello d'allarme, la scossetta che prelude al terremoto, da cogliere per approfondire la situazione", conferma Alessandro Boccanelli, presidente dei Cardiologi Ospedalieri (Anmco). Se il medico riesce a intervenire subito la diagnosi non è difficile: "Il vasospasmo si verifica di regola su placche aterosclerotiche anche non importanti e non ostruenti che riescono ad alterare la motilità della parete arteriosa. Un meccanismo favorito da condizioni stressanti, fumo, sedentarietà", aggiunge Francesco Dario Labate, cardiologo a Roma con un'ampia casistica tra pubblico e privato. "Se ho un'onda d'urto di pressione a 220 e l'arteria è rigida non riesce ad assorbire l'urto, a volte si rompe e comunque c'è una sofferenza ischemica", spiega Boccanelli. "È importante mantenere la pressione nei livelli consigliati dall'Oms ma non basta: bisogna verificare il proprio profilo di rischio cardiovascolare globale, tenere il sangue più sciolto eventualmente con antiaggreganti. La carta italiana del rischio cardiovascolare (www.iss.it) è ora anche carta del rischio per ictus", ricorda il presidente Anmco. Primo obiettivo ridurre la pressione, ribadisce Giuseppe Mancia, direttore Medicina all'università Milano Bicocca. "Chi ha avuto un Tia ha rischio ictus 5-6 volte superiore. Sotto i 130-80 si riduce il rischio del 30\40%. Ogni farmaco è efficace solo in un certo numero di pazienti ma quel che conta è abbassare i valori". Il dibattito sui medicinali giusti per abbassare la pressione è tutto aperto. "Ci sono interessi enormi, occorre adattare la terapia al paziente", commenta Boccanelli. I betabloccanti sono farmaci a basso costo e alta efficacia, secondo ricerche americane riducono la pressione come i calcioantagonisti e gli ace inibitori, leggermente più costosi. La diatriba è se conviene abbassare la pressione e basta o è meglio abbassarla con farmaci più protettivi a livello cardiovascolare o senza certi effetti collaterali. La regola è di dosi minime efficaci, magari più farmaci in associazione per evitare certi effetti collaterali. I betabloccanti portano in particolare depressione, impotenza; i calcioantagonisti un po' di gonfiore delle caviglie specie d'estate e come vasodilatatori possono portare un leggero mal di testa; con gli ace inibitori ci può essere un po' di tosse. Il British Medical Research Council Trial negli anziani (Xagena 2002) suggerisce di non impiegare betabloccanti nei casi di ipertensione non complicata. Così in caso di cardiopatia ischemica associata a ipertensione In ogni caso, specie dopo un Tia, per tenere sotto controllo colesterolo e pressione, ricorda Labate, "l'esperienza pluriennale conferma che serve un antivasospastico che fa regredire subito l'attacco ischemico e riduce notevolmente i valori pressori. In associazione una cura "pulisci-arterie" con cicli di citicolina ad alto dosaggio che scioglie le placche di colesterolo". ______________________________________________________ Repubblica 24 Giu. 04 SALVATE I NERVI DELL'EREZIONE Monito ai medici: dopo l'intervento per tumore troppi deficit sessuali di Aldo Franco De Rose * MINZIONE in più tempi, frequente stimolo ad urinare, sensazione di svuotamento incompleto, sveglie di notte per urinare, paura del tumore. La prostata non è solo questo. Se si vuole migliorare la qualità di vita dell'ultracinquantenne bisogna ricercare e guarire an-che i disturbi sessuali. E' la conclusione del recente workshop napoletano su "patologie prostatiche e sessualità". "Oggi", spiega il professor Tullio Lotti, Urologo dell'università campana, "curare solo la patologia prostatica non è sufficiente poichè vi si associano spesso disturbi da deficit erettivo, riduzione dell'eiaculato, diminuzione del desiderio; nella maggior parte dei casi, i disturbi sessuali non vengono riferiti e nemmeno ricercati". Nella Ipertrofia prostatica benigna (IPB) si raccomanda maggiore attenzione ai disturbi sessuali la cui incidenza può superare anche il 50%, specialmente quando i disturbi minzionali sono medio-gravi. Un recente studio, "Multinational Survey of Aging Male", ha evidenzia-to che il 48,7 % di 12815 uomini con IPB aveva difficoltà a raggiungere l'erezione con incremento significativo fino al 51,1% tra i 60-69 anni e 77,6% tra i 70-80 anni. Il 46% degli uomini con erezione hanno lamentato invece riduzione quantitativa dell'eiaculato e il 5% assenza completa. I meccanismi attraverso i quali i disturbi minzionali delle basse vie urinarie interferiscano con la funzione sessuale non sono chiari. E' stato ipotizzato un aumento del tono adrenergico, escludendo fattori legati a età o malattie. A Napoli è stata "richiesta" più attenzione del medico nel recupero della sessualità dopo chirurgia per tumore. Alla conservazione dei nervi dell'erezione è stata consigliata una precoce terapia riabilitativa e, in caso di risposta insufficiente, l'im-pianto di protesi peniene. * Urologo e Andrologo, Clinica Urolologica Osp. San Martino, Genova _____________________________________________________________________ Il SECOLO XIX 15 giu. ’04 I DISTURBI DELLA FUNZIONE ERETTILE SEGNALE D'ALLARME PER INFARTI E ICTUS Milano. La disfunzione erettile può essere un ' segnale di futuri incidenti vascolari, come infarti e ictus. Questo è tanto vero che l'Ospedale San Paolo di Milano ha attivato un progetto sanitario di prevenzione e cura dei problemi vascolari, partendo appunto dalla diagnosi di disfunzione erettile nei pazienti che giungono agli ambulatori dell'Unità Operativa di Andrologia. Tutti i pazienti che giungeranno in ospedale lamentando problemi di erezione e di impotenza sessuale saranno quindi avviati ad un percorso diagnostico- terapeutico inteqrato che partendo dallo specialista andrologo, coinvolgerà angiologo ed angiochirurgo, potendo arrivare ad interessare, in caso di necessità, altri , diversi specialisti (cardiologo, ipertensivologo, oculista, diabetologo). Questo progetto - ha affermato in particolare Giovanni Colpi, responsabile del Servizio di Andrologia del San Paolo, nel corso di una conferenza stampa - pone l'Ospedale all'avanguardia nella cura della patologia cardiovascolare, prima causa di morte in Italia, e potrebbe rappresentare un modello di riferimento anche per altri paesi, in cui prevale al contrario un modello di gestione medica del deficit erettile basato in larga misura sulla sola prescrizione al paziente di un farmaco efficace. La disfunzione erettile (DE) è una patologia di massa che arriva ad interessare dal 30 al 70% della popolazione maschile. (in assenza di fattori di rischio o di patologie preesistenti colpisce solo il 6% della popolazione generale. «Ma - è stato fatto notare - la frequenza di questo disturbo nel soggetto diabetico varia tra il 27% e il 62%, ed il rischio di DE è più elevato quando il diabete è presente da molto tempo e non compensato. Lo stesso problema interessa il ' 49% dei coronaropatici e il 46% dei pazienti con ipertensione arteriosa». «È un fatto - conclude Colpi - che molti pazienti colpiti da infarto riferiscono un deficit ' erettile insorto 2-3 anni prima dell'accidente cardiaco». _____________________________________________________________________ LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 14 giu. ’04 DIABETE, NUOVA STRATEGIA MEDICINA /Alcune decine di pazienti dopo l'intervento non sono piú insulino- dipendenti II trapianto di cellule del pancreas riesce in 8 casi su 10 ROMA - Hanno la forma di un lampone e misurano solo qualche decina di millimetri: sono le cellule pancreatiche note come «isole di Langerhans», adibite alla secrezione dell'insulina. Ad oggi, il trapianto di cellule pancreatiche é stato sperimentato in Italia su alcune decine di pazienti affetti da gravi forme di diabete, ed i risultati sono molto incoraggianti: ad un anno dall'intervento, infatti, II pazienti su 10 sono finalmente «insulino indipendenti». L’immunologo e chirurgo dei trapianti Mariano Ferraresso, dal Policlinico di Milano, non ha dubbi: la strada della «terapia cellulare» sarà, per il futuro, una nuova arma vincente contro il diabete. Dal 2000, quando è stato messo a punto in Canada un nuovo protocollo di svolta per questo tipo di intervento, ha sottolineato l'esperto, «in Italia sono state eseguite, al San Raffaele di Milano, alcune decine di trapianti di cellule pancreatiche, ed i primi dati raccolti dimostrano che il trapianto funziona nell'80% dei casi: 8 pazienti su 10 infatti, a distanza di un anno - ha affermato - non hanno più bisogno di assumere insulina». La terapia cellulare, dunque, promette di essere un'alleata vincente per combattere il diabete, e questo nonostante la penuria di organi a causa delle donazioni insufficienti. Attualmente, infatti, le isole di Langerhans vengono prelevate dal pancreas dì donatori cadaveri, ma «in un futuro molto vicino - ha spiegato Ferraresso - saremo in grado di coltivare tali cellule in laboratorio. In questo modo, potremo avere delle riserve illimitate di cellule pancreatiche da trapiantare, ovviando al problema della scarsità degli organi». La «terapia cellulare», cioè, potrà rappresentare la via maestra contro il diabete e sono sempre di più le equipe che si stanno specializzando in tale settore. Lo scorso anno, un primo trapianto di cellule pancreatiche è stato eseguito anche in Francia, a Lille, su un uomo di 43 anni malato di una forma grave di diabete da oltre 30 anni, dall'equipe del professor Francois Vattou. Dalla messa a punto del protocollo canadese, la terapia cellulare ha dunque cominciato a rappresentare una speranza per i tanti pazienti in tutto il mondo affetti dà diabete di tipo 1 (una forma grave che determina la distruzione irreversibile delle cellule produttrici di insulina e colpisce soprattutto bambini e giovani adulti). La procedura è semplice: le isole di Langerhans sono prelevate dal pancreas di un donatore cadavere e, nelle successive 15 ore, vengono trapiantate nel fegato del ricevente utilizzando un piccolo catetere. E infatti impossibile trapiantare le cellule direttamente nel pancreas, data l'estrema fragilità di questo organo- Perché l'intervento abbia successo è però necessario che il paziente riceva da 500.000 a 1 milione di cellule pancreatiche; un volume notevole che costringe, a volte, ad effettuare un secondo trapianto. Ad oggi, in attesa che la possibilità di coltivare le cellule pancreatiche in laboratorio diventi realtà, due restano i maggiori ostacoli allo sviluppo della terapia cellulare: la penuria di organi e il rischio di rigetto, anche se, sottolineato gli esperti, al momento non si c registrato alcun decesso tra i pazienti trapiantati con cellule di Langerhans. Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il diabete è una malattia sempre più diffusa: nel 113&5 i malati di diabete in tutto il mondo erano infatti 30 milioni; nel '95 erano 13.5 milioni, mentre nel 2011 se ne registrano circa 177 milioni. In Italia soffre di diabete il 4,5% della popolazione e una persona su tre sopra i 40 anni è a rischio dì contrarre la malattia. L'Oms ha inoltre calcolato (:li(- nel nostro Paese nel 2030 i malati di diabete saranno 5 milioni c 400 mila- I dati, dunque, sono allarmanti, se sì considera che ogni 24 ore muoiono 1.000 pazienti diabetici, mentre 1.200 sono i nuovi casi registrali ogni giorno, Nella lotta al diabete speranze dai trapianti di cellule del pancreas