Questa rassegna in http://pacs.unica.it/rassegna Indicizzata in http://pacs.unica.it/htdig/search.html Mailing list: medicina@pacs.unica.it RICERCA, PALESTRA DI DEMOCRAZIA - LA TANGENTOPOLI DELLA RICERCA SBARCA A GENOVA - IL MEDIOEVO CHE BLOCCA LA RICERCA - MONTEZEMOLO: «FINANZIAMO LA RICERCA, NON LA RIDUZIONE DELLE TASSE» - CON LA RIFORMA ADDIO AI MASTER PUBBLICI? - LA RIFORMA DELL’UNIVERSITÀ NON TUTTI LA CONOSCONO A FONDO - LA COMPETIZIONE MIGLIORA L’UNIVERSITÀ - LAUREA BREVE, STRADA IN SALITA - LAUREA BREVE PER ILLETTERATI - GUERZONI: LAUREE BONSAI PER EVITARE LA DISPERSIONE - CHE DISASTRO LE «LAUREE BREVI» - STUDENTI E QUALITÀ DEGLI ATENEI: "CONTA MOLTO IL LORO PARERE" - PER ESSERE MULTIETNICI BISOGNA ESSERE MONOCULTURALI (ANCHE A SCUOLA) - STEFANO, UN ARCHIMEDE MADE IN PAVIA - "SIAMO ECCELLENTI": I PROFESSORI ALL'ASSALTO DEL MERCATO - SORU e IL FUTURO DELL’APPARATO REGIONALE - ================================================================== L'ASSESSORE TORINESE ALLA SANITÀ RACCONTA LA SUA SFIDA - IL DISTRETTO TECNOLOGICO DI BIOMEDICINA È UNO SCIPPO ALL’UNIVERSITÀ - ESERCITO DI MEDICI I CAMICE ROSA - LAUREE SANITÀ, TETTO A 23MILA - SPECIALIZZANDI, ARRIVA IL CONTRATTO-FORMAZIONE - PSICOLOGI, IN SARDEGNA C’È ANCORA SPAZIO - L’ANIMA TECNOLOGICA DELLA SANITÀ - ALLA RICERCA DEL SÉ BIOLOGICO - VERONA:UN ROBOT CHIRURGICO CREA GRATTACAPI ALL’UNIVERSITÀ - PIU’ FRAGILI LE OSSA CON LE BIBITE ALLA COCA - DEPRESSIONE, LA MALATTIA DI CHI È PIÙ INTELLIGENTE - UN «VIAGGIO» DENTRO IL CERVELLO PER CURARE ANGIOMI E ANEURISMI - UN TOUR GUIDATO NEL CERVELLO - ANCHE A PARIGI ANGIOGENESI NEL MIRINO - ARACHIDI, IN PICCOLE DOSI FANNO BENE ALLA COLECISTI - SALE ECCO QUANTE BASTA PER RIDURRE I RISCHI ICTUS - IL RITORNO DELLA SANGUISUGA CURERÀ LE ARTRITI E LA CIRCOLAZIONE - NUOVA "SPIA" PER CANCRO VESCICA - PILLOLE ANTI-IMPOTENZA TOSCANA AL PRIMO POSTO - UN' INIEZIONE DI STAMINALI PER CURARE L' INFARTO - "CHI FUMA VIVE 10 ANNI DI MENO" - DUE PEPTIDI ARRESTANO L'APPETITO - UNA TOSSINA PROTEGGE I NEONATI DALL'ASMA - ================================================================== ______________________________________________________________ IL SOLE24ORE 4 lug. ’04 RICERCA, PALESTRA DI DEMOCRAZIA. La mentalità scientifica è il vero cardine di uno stato laico e dell'uso corretto delle istituzioni politiche DI EDOARDO BONCINELLI Ci sono tanti motivi per promuovere e sostenere lo sviluppo della scienza in un Paese moderno, dall'accumulazione di conoscenze al contributo di applicazioni pratiche che cambiano la nostra vita e che fanno girare l'economia. Capita però sempre più spesso di sentire criticare la scienza e di osservare anche in alcuni scienziati una sorta di complesso di inferiorità. Costoro tendono a "scusarsi" di essere solo scienziati, come se questo fosse poco o nulla, e ammettono più o meno esplicitamente la "superiorità" delle arti, della filosofia o della religione. Personalmente non sono d'accordo con una posizione del genere, ma esiste almeno una cosa della quale costoro non si dovrebbero comunque vergognare e semmai andare fieri: la mentalità scientifica e il ruolo che questa gioca nella società civile. La scienza è figlia ma anche madre e nutrice della mentalità scientifica che ha potentemente contribuito a diffondere, particolarmente in tempi recenti. Più che la scienza vera e propria è la mentalità scientifica il fondamento dello Stato laico come lo concepiamo oggi e del retto uso della democrazia. Perché? In primo luogo la mentalità scientifica insegna a difendere le proprie ragioni con argomenti razionali e possibilmente pacati e adducendo dati sperimentali. Le verità scientifiche non si impongono con le armi e neppure con l'abilità dialettica, almeno nel lungo periodo. In secondo luogo tutti possono dire la loro e magari mettere in crisi un famoso "esperto" del campo. Non esistono "principi", né "anziani". Tutti possono dire la loro e tutti possono produrre prove sperimentali di quello che affermano. E oggi più di sempre incredibile la velocità con la quale nuovi "astri" scientifici si affiancano o si sostituiscono a quelli già stabilmente affermati; come è incredibilmente precoce l'età alla quale ci si affaccia con successo alla ribalta scientifica. In terzo luogo, ogni produttore di conoscenza scientifica sa fin dai suoi primi passi che verrà giudicato da altri, anzi da un complesso di altri, che finiranno per avallare o criticare aspramente le sue affermazioni. Con questo non voglio dire che a ciascuno scienziato questo stato di cose piaccia. Spesso non piace e si sa che può mettere a repentaglio teorie e risultanze sperimentali alle quali si è particolarmente affezionati. Ma non è una questione di gradire o non gradire. È così e non può essere che così, piaccia o non piaccia. Chi intraprende una carriera scientifica sa che queste sono le regole del gioco. Se non gli vanno, non giochi. Questo non significa che il sistema di valutazione usato nel mondo scientifico sia perfetto. Non lo è, tanto è vero che si assiste ogni anno ad animate discussioni su quale potrebbe essere il procedimento ideale di valutazione della produzione scientifica o più modestamente sulla maniera di migliorare l'efficienza del sistema attuale. È nella natura dello scienziato il non essere mai contento ma, giudicato nel suo complesso, il sistema oggi adottato sembra funzionare abbastanza bene. Errori ne possono capitare, ma nei campi più vitali la vita media di un errore non raggiunge i cinque anni. In quarto luogo, non occorre essere degli "iniziati" e neppure essere stati iniziati, per poter fare delle affermazioni in campo scientifico, non occorre possedere doti specifiche o godere di privilegi particolari. Non occorre credere in un Dio piuttosto che in un altro, avere un inconscio sgombro, una vera coscienza di classe, né facoltà o "fluidi" fuori della media. Infine, non esistono verità a priori, indiscutibili e intoccabili. Qualcosa occorre ovviamente. assumere prima di partire, ma deve essere il minimo indispensabile e anche questo è soggetto a revisione con il passare del tempo. La parte argomentativa della scienza ritiene che sia utile, se non indispensabile, definire i termini che vengono usati, come pure esige che vengano rispettati i precetti elementari della logica, come il principio di non-contraddizione o quello del terzo escluso. So benissimo che alcuni non scienziati criticano anche questi assunti elementari e vagheggiano una scienza che ammetta nel suo seno la contraddizione, perché così sarebbe "più ricca". Proposte del genere non hanno però mai portato a nulla di costruttivo. Al di là di questi assunti di natura logica e metodologica, ogni epoca ha dato per scontate altre ipotesi più o meno "tacite". Newton suppose ad esempio che esistessero un tempo assoluto e indifferente e uno spazio assoluto. Sembrava un'assunzione più che ragionevole e infatti è stata sottintesa e ha mostrato la sua utilità per un paio di secoli, ma oggi neppure questo è dato per scontato. Tutto va discusso e soppesato. E anche quando questo ha passato il vaglio del ragionamento logico, deve poi avere l'avallo della sperimentazione pratica. Una conseguenza non secondaria di questo atteggiamento è, o dovrebbe essere, che anche il più acerrimo avversario ha il diritto di esporre le sue ragioni. Nessuno ha torto a priori e qualcosa di giusto può trovarsi nelle affermazioni di chiunque, anche di chi ha avuto quasi sempre torto. Al di là di queste ragioni di carattere generale, esistono anche espedienti spiccioli che la pratica scientifica ha dimostrato utili. O, per meglio dire, che si è appurato essere molto dannoso non seguire. Sono tantissimi, ma voglio menzionarne almeno uno: il ruolo vitale degli esperimenti o delle rilevazioni di controllo. Un esempio tipico: il 2% di coloro che sono andati nel posto X hanno contratto il morbo Y. Perché una tale affermazione abbia una qualche utilità occorre anche dire quante persone che non sono mai andate nel posto X hanno comunque contratto il morbo Y. Analogamente, perché l'affermazione «Il 25% di quelli che si sono sottoposti al trattamento A sono guariti dal disturbo B» ha senso solo se si dice anche quanti di quelli che non si sono sottoposti al trattamento A sono comunque guariti dal disturbo in questione. Sembrano ovvietà, ma quante volte si incorre, più o meno inconsapevolmente, in una fallacia del genere nel quadro di una discussione pubblica o decisamente politica? ______________________________________________________________ L’Unità 4 lug. ’04 LA TANGENTOPOLI DELLA RICERCA SBARCA A GENOVA DALL INVIATA Susanna Ripamonti GENOVA Che Genova fosse candidata a diventare la città simbolo della politica scientifica e culturale dell'era berlusconiana lo si era capito da un pezzo. Da quando ad esempio, nell'aprile di quest'anno, Lucio Luzzato, direttore dell'Ist (Istituto nazionale di ricerca sul cancro) era stato licenziato in tronco e senza giusta causa, con l'unica colpa di non essere un uomo di regime. Adesso l'Ist e di nuovo nell'occhio del ciclone per una squallidissima vicenda di imbrogli, estorsioni e ricatti che gira attorno al pluri blasonato docente di farmacologia Gennaro Schettini, da ieri l'altro agli arresti domiciliari con l'accusa di collussione. Schettini e un autentico boss della ricerca: e vicedirettore del dipartimento di oncologia, biologia e genetica dell'Università di Genova, responsabile del laboratorio di neurologia del Centro di biotecnologie avanzate, membro del comitato etico dell'ospedale pediatrico Gaslini e presidente dell'Associazione ligure per la lotta al Parkinson. Pizzo alla genovese Insomma e un personaggio collocato in una posizione chiave per il rastrellamento e la redistribuzione dei fondi per la ricerca, ma ha fatto un uso decisamente improprio di questo suo potere. I ricercatori dell'Ist ricevevano su sua indicazione borse di studio e finanzia menti per svolgere la loro attività, ma il professore pretendeva in cambio il pizzo - se ad esempio incassavano 1500 euro, dovevano restituirne 1000 a Schettini che si raccomandava: Solo pagamenti cash. E stato denunciato dal suo diretto superiore, Silvio Parodi, che non aveva nessun sospetto di questa faccenda, ma si era trovato tra le mani un'altro imbroglio: Schettini aveva chiesto il pagamento di una fattura di 9 mila euro per un lavoro di traduzione fatto da sua moglie. Aveva tentato di mascherare la parentela utilizzando il nome da nubile della consorte, ma una sua attenta segretaria se n'era accorta e il consiglio di dipartimento gli aveva ricordato che il regolamento dì Ateneo proibisce committenze nei confronti di parenti, fino al quarto grado. Mani in pasta L'indagine, avviata dal pm genovese Enrico Zucca e partita così, in punta di piedi, circa sei mesi fa. Ma in questi mesi i telefoni del professore e quelli dei suoi col laboratori sono stati sotto controllo. E così e saltato fuori che la 'notula' pagata sottobanco alla moglie era quasi un peccato veniale rispetto al resto. Si e allungata la lista degli indagati, sono emerse complicità all'interno dell'ateneo, di colleghi compiacenti disposti a reggere il gioco di Schettini. Dunque, siamo solo all'inizio di una specie di tangentopoli del la ricerca, dove in cambio di favori, prestigio, prospettive di carriera, girano quattrini. E indagata per truffa la moglie del professore, ma anche una delle sue figlie, professione hostess per convegni, e sotto inchiesta per prestazioni di lavoro fittizie. E ovviamente se ci sono pagamenti fatti per lavori mai svolti ci sono anche enti e responsabili di questi enti che hanno fornito queste coperture. La figlia del professore lavorava (o fingeva di lavorare) per il Gaslini. Il vaso di Pandora Schettini ha gia in parte ammesso le sue responsabilità, ma da quanto si è capito lascia intendere di non essere l'unica mela marcia della baronia della ricerca. La settimana prossima Zucca lo interrogherà e potrebbero squarciarsi molti veli se davvero deciderà di parlare. Ma l'aspetto più sconcertante della vicenda e la totale assenza di meccanismi di controllo. Il rettore Sandro Pontremoli, intervistato nei giorni scorsi dal Secolo XIX, oltre ad esprimere incredulità, stupore e imbarazzo, fa affermazioni che destano gli stessi sentimenti di incredulità, imbarazzo e stupore in chi legge. Il magnifico rettore spiega infatti che l'Ateneo non ha nessun dovere di verifica e che questa spetta alla committenza ovvero al ministero. In altri termini nessuno chiede conto allo Schettini di turno dell'uso che ha fatto dei miseri finanziamenti di cui dispone la ricerca. Quale ricerca Le baronie universitarie sono per definizione insindacabili e se i baroni abusano del proprio potere tutto rientra nella logica per cui un ricercatore è una cosa nelle mani del professore. E sorprendente infatti che nessuno dei futuri scienziati concussi abbia avuto quello scatto di dignità e di moralità che avrebbe dovuto portarli a sporgere denuncia. Che esiti hanno avuto ad esempio le ricerche, se i fondi destinati al loro lavoro sono finiti in tasca al professore? E su che base il prof ha accordato i finanziamenti: per la qualità dei progetti o per la remissività dei ricercatori? Proprio da Genova qualche mese fa era partita una raccolta di firme tra docenti universitari che si rivolgevano al ministro Tremonti con questa proposta: invece di lasciarci in busta paga i soldi derivanti dalla riduzione dell'Irpef, teneteveli e destinateli alla ricerca. Proposta generosa oltre che comprensibilmente polemica) ma che rischia di essere mal ricompensata se nessuno controlla dove vanno a finire questi quattrini. In manette il professor Gennaro Schettini barone di oncologia all'università ligure: pilotava borse di studio e finanziamenti in cambio di mazzette da capogiro Dopo lo scandalo del licenziamento di Lucio Luzzatto da parte del governo la Genova scientifica di nuovo alla ribalta: e la corruzione rischia di dilagare ______________________________________________________________ L’Unità 5 lug. ’04 IL MEDIOEVO CHE BLOCCA LA RICERCA Diritti Negati di Luigi Cancrini Noi ammalati di SLA (Sclerosi laterale amiotrofica) e i nostri parenti, vogliamo denunciare un fatto gravissimo e vergognoso che condanna alla morte oltre mille persone ogni anno. La Sla o "morbo di Lou Gehrig" è una terribile malattia neurodegenerativa che in pochissimo tempo blocca tutti i muscoli volontari (braccia, gambe, deglutizione, parola, respirazione) portando il malato alla morte. In questi ultimi anni, una équipe di Torino, ha tentato di curare la Sla con cellule staminali autologhe. Nonostante il risultato positivo alla richiesta di continuare la sperimentazione e l'autorizzazione dall'Istituto Superiore di Sanità quasi un anno fa, tutto è fermo perché Comitati Etici locali, adducendo cavilli e pretesti burocratici, bloccano l'inizio della sperimentazione. Franco Lombardi e altri La situazione che denunciate propone un problema impensabile fino a pochi anni fa. In estrema sintesi: quella con cui ci stiamo confrontando è la tendenza, sempre più evidente, a mettere sotto una tutela etica il cammino della ricerca scientifica. Come accadeva ai tempi di Galileo, quando erano i teologi a porre dei limiti al progresso della ricerca ma sostituendo ai tribunali della chiesa i comitati etici, locali e nazionali, nominati e sostenuti dalle autorità politiche, e composti da persone che svolgono, alla fine, una funzione essenzialmente politica. Come in questo caso, perché di cellule staminali si è discusso abbastanza in Parlamento da suscitare in quei comitati l'imbarazzo e le incertezze alla base di quelli che voi riportate come «cavilli e pretesti burocratici» che «bloccano di fatto l'inizio della sperimentazione». Il blocco, ne sono certo, verrà rimosso. Come del resto è già accaduto per analoghe richieste in tema di distrofia muscolare, sclerosi multipla, infarto, insufficienza acuta renale, parkinson, diabete ecc. Così come accadde per Galileo, il tentativo di fermare il progresso della ricerca cede, presto o tardi, di fronte al maturare, nell'opinione pubblica, di una posizione basata sul buonsenso. Teologi e comitati etico-politici sono forti solo finché riescono a tenere nascosti i luoghi e i motivi reali delle loro decisioni. Il problema aperto da questo tipo di situazioni, tuttavia, resta ed è terribilmente serio. Una prova drammatica della sua gravità è quella legata alla legge sulla procreazione assistita. La sentenza emessa a Catania "contro" due persone affette da un difetto genetico (la «talassemia minor») che diventa malattia solo nel 25% dei figli concepiti insieme vietando, nel rispetto di quella legge, lo studio genetico dell'embrione prima dell'impianto è una sentenza giustificata solo da un oscurantismo medioevale delle coscienze. Dei politici che l'hanno votata oltre che del giudice che l'ha applicata senza accettare neppure la richiesta di far discutere, nelle sedi opportune, l'eccezione sulla costituzionalità della norma. Politici e giudici che io punirei, se ne avessi la facoltà, facendo fare loro un anno di volontariato in un reparto di ematologia pediatrica. Tentando di rieducarli, cioè, con una tecnica simile a quella che si utilizza oggi con i minorenni che hanno commesso dei reati e permettendo loro di crescere, da un punto di vista etico, dopo essere entrati in contatto con la vita mai vissuta, con le sofferenze atroci e con la morte certa dei bambini e degli adolescenti affetti da quel morbo di Cooley che solo la diagnosi pre-impianto avrebbe potuto evitare. In termini più generali, del resto, un quesito sull'etica cui si ispirano i comitati etici nominati dai governi merita una discussione molto più approfondita di quella che ne ha preceduto l'istituzione. In un libro straordinario, «Etica come amor-proprio», Savater propone l'idea chiave del ragionamento da portare avanti. Sottolineando che etico è prima di tutto un comportamento che serve a mantenere la stima che ognuno di noi ha di sé, Savater sottolinea la necessità di riflettere seriamente sul fatto per cui autenticamente morale è il comportamento di chi si considera un essere umano, uno fra tanti esseri umani come lui, con i suoi stessi diritti e con le sue stesse aspirazioni. Di chi stima sé stesso, cioè, in rapporto alla sua capacità di rispettare l'altro, le sue idee e le sue scelte. Partendo dall'idea, alla base di ogni comportamento umano maturo, per cui nessuno dovrebbe mai imporre o proibire ad un altro un comportamento semplicemente perché è convinto del fatto che le sue scelte, la sua etica, sono superiori a quelle dell'altro. Laicità e democraticità di uno stato debbono fondarsi necessariamente sull'allargamento progressivo delle libertà di azione e di pensiero del singolo, compito del legislatore dovrebbe essere solo quello di evitare o regolare i conflitti. Il vero valore collettivo, penso, è quello di chi crede che una persona che sta male ha diritto di essere aiutata. Negare questo diritto è un sopruso indifendibile dal punto di vista etico. L'amarezza lasciata da una lettera come la vostra resta quella di chi sa che questo tipo di soprusi non è mai punito e che nessuno pagherà per quella centinaia o migliaia di malati che non faranno in tempo ad avvalersi dei progressi della ricerca per ragioni che attengono «ai cavilli e ai pretesti burocratici» dietro cui si sono nascosti i tutori di un'etica con la e minuscola. Chi volesse scrivere al professor Cancrini può farlo inviando una mail a centrostuditerapia@iibero.it ______________________________________________________________ L'Unità 6 lug. ’04 MONTEZEMOLO: «FINANZIAMO LA RICERCA, NON LA RIDUZIONE DELLE TASSE» MILANO «In qualunque Paese dietro alla ricerca ci deve essere lo Stato. Meglio qualche tassa in più, o non in meno, e qualche incremento o defiscalizzazione in funzione della ricerca, perchè un Paese che non investe fortemente in ricerca è un Paese che non pensa al suo domani». Lo ha detto il presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo, all'assemblea degli industriali del Trentino. «Le imprese devono pensare al domani - ha continuato - Bisogna aumentare il tasso di innovazione e spingere di più sulla ricerca. Quindi aumentare gli investimenti, non tagliare mai niente che riguardi la ricerca, anzi il contrario, e questo – ha concluso - è fondamentale per la competitività delle nostre imprese, visto che i Paesi concorrenti sono così avanzati in termini di innovazione e di ricerca». «I parametri del patto di stabilità sono importanti, ma credo abbia ragione Giuliano Amato quando dice che va allargato il tavolo non solo a Maastricht ma anche a Lisbona». «Oggi - ha detto Montezemolo -l’ Europa è vecchia, seduta, e, a differenza del dopoguerra, ha dei concorrenti con il coltello tra i denti. Per questo non dobbiamo parlare solo di parametri - ha chiarito il presidente di Confindustria - ma di sviluppo di un continente e del nostro Paese». ______________________________________________________________ Repubblica 5 lug. ’04 CON LA RIFORMA ADDIO AI MASTER PUBBLICI? I nuovi "percorsi" universitari non piacciono ai rettori, che contestano anche la "scomparsa" dei crediti formativi che arrivavano dai corsi post-laurea. E’l’ennesimo favore alle strutture private" LUCAPAGIVI Milano Il ministero dell'Istruzione lo dà per ,scontato: «Dopo la registrazione alla Corte dei Conti successiva alla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale - si legge nei documenti ufficiali - il provvedimento diventerà operativo e permetterà la rivisitazione delle attuali classi di laurea di primo e secondo livello». Ma nel mondo delle università, dai docenti di ogni ordine e grado alle associazioni degli studenti, di scontato non c'è proprio nulla. La riforma dei percorsi formativi dell'Università, dal 3+2 al 1+2+2, ha sollevato più di una protesta. E c'è chi parla di un provvedimento «confuso», «classista», «incompleto», con «refusi ed elementi mancanti». E si attendono lumi dal ministro. Il più in fretta possibile. Spiegazioni che riguardano anche un aspetto che - a prima vista -potrebbe sembrare secondario: i master universitari con valore legale e che quindi rilasciano crediti formativi. Corsi che sono stati inseriti soltanto quattro anni fa dalla precedente riforma dell'allora ministro Luigi Berlinguer e che hanno consentito alle Università di integrare le loro entrate economiche. E si capisce il perché: l'iscrizione a un master, soprattutto a quelli meglio organizzati e che offrono buone prospettive di ingresso nel mondo del lavoro, possono costare anche 8lOmila curo per studente. Secondo le . prime e contraddittorie notizie, la riforma introdotta dalla Moratti non consentirebbe ai master, sia di primo che di secondo livello, di rilasciare crediti formativi. Annullandone, quindi il valore legale e facendoli retrocedere alla situazione pre-riforma Berlinguer. Da qui la comprensibile reazione della conferenza dei rettori, guidati dal pisano Piero Tosi, che ha protestato duramente. Per motivi di sopravvivenza economica, ma non solo. In realtà, è il complesso della riforma universitaria che è incorsa nelle ire dei rettori. I quali, ancora i130 giugno scorso assieme alla Conferenza dei presidi di facoltà, hanno presentato un documento in cui stigmatizzano molte delle novità introdotte e chiedono un incontro urgente al ministro. Anche per sapere quale sarà il destino dei master. Ma di cosa si tratta? In sostanza, il ministero ha deciso di modificare la struttura dei corsi di laurea organizzati secondo i13+2 previsto dal la Berlinguer in un nuovo andamento sempre in cinque anni, ma secondo una formula 1+2+2,definito a Y. Negli ultimi quattro anni accademici il percorso degli studenti è stato diviso in due parti: i primi tre anni dedicati al conseguimento della cosiddetta laurea breve, cui si possono aggiungere altri due anni di master, ovvero di ulteriore specializzazione. La novità del progetto Moratti, invece, consiste in un ulteriore spezzatino del percorso formativo: ci sarà un primo anno in cui - secondo la definizione del ministero - si frequenteranno attività didattiche comuni, poi vi sarà la netta separazione tra il percorso professionalizzante che conduce alla triennale ed il percorso metodologico per gli studenti che dopo la laurea triennale intendono conseguire anche la laurea magistrale. Secondo le intenzioni del decreto già approvato da Camera e Senato, il ministro Moratti ha voluto individuare un nuovo modello che avvicini il prima possibile gli studenti al mondo del lavoro. É quello che negli atti ufficiali viene definito «un percorso professionalizzante». O meglio ancora «un percorso che porti a una laurea più chiaramente orientata all'inserimento nel mondo del lavoro rispetto all'attuale». Come si inseriscono i master nel nuovo disegno del governo? Con la riforma Berlinguer, l'iscrizione al master poteva avvenire sia dopo i tre anni della laurea breve, sia dopo i due della specialistica (che con la riforma Moratti prenderà il nome di «magistrale»). In entrambi i casi si potevano ottenere crediti formativi da aggiungere a quelli ottenuti dai corsi precedenti. Il che aveva permesso alle università pubbliche di mettersi sullo stesso livello dei privati che fino ad allora avevano avuto il monopolio dei master post laurea. Il che, secondo gli esperti di cose universitarie, ha migliorato sia l'autonomia delle università che le capacità di generare profitti. Anche se non tutta l'offerta formativa - composta da migliaia di corsi di cui non esistono ancora accurate statistiche - è stata omogenea: con corsi di buon livello accanto ad altri di minore qualità. Un mercato che ora le università non vogliono vedersi sottrarre. E c'è chi accusa apertamente la Moratti di voler favorire, anche con questa riforma, le strutture private: perché gli atenei pubblici, se venisse sottratto ai master la possibilità di concedere crediti, non avrebbero più interesse a organizzare questo tipo di corsi. Per evitare nuovi incidenti di percorso con i rettori, che contestano alla Moratti di voler insistere ad applicare la riforma fin dal prossimo anno accademico pur in assenza di regolamenti attuativi, non è escluso che si arrivi a un compromesso sulla questione dei master. Senza le relative entrate economiche agli atenei non resterebbe che bussare alla porta della Moratti per un aumento dei fondi governativi. Richiesta che, nell'attuale situazione delle casse dello Stato, non potrebbe di certo essere soddisfatta. I tempi perché la trattativa vada in porto non mancano: difficilmente la nuova formula a Y potrà andare in vigore già dal prossimo anno accademico. Con buona pace del ministro. ______________________________________________________________ La Stampa 4 lug. ’04 LA RIFORMA DELL’UNIVERSITÀ NON TUTTI LA CONOSCONO A FONDO È entrata in vigore già da due anni, ma non tutti ancora sanno quali sono i cambiamenti apportati dalla Riforma Universitaria. Oggi, lo studente che proviene dalla Scuola media superiore può iscriversi a un corso di laurea che prevede il conseguimento della laurea (detta triennale o di primo livello), questa fornisce una solida formazione di base in una certa area disciplinare. Con il conseguimento della laurea triennale è poi possibile l'inserimento nel mercato del lavoro o, in alternativa, la prosecuzione degli studi con la laurea specialistica (detta biennale, o di secondo livello) o ancora una formazione di tipo master di primo livello. La laurea specialistica, a cui può accedere solo lo studente in possesso della laurea triennale, è finalizzata all'approfondimento della formazione teorica. È inoltre un'opportunità per specializzarsi in settori o discipline aperte verso tematiche e sbocchi professionali di alto profilo. Dopo la laurea specialistica la formazione può ulteriormente proseguire con il master di secondo livello o con il dottorato di ricerca. La "nuova" Università offre quindi agli studenti percorsi di studio più brevi, e la possibilità di ottenere titoli che consentono di arrivare sul mercato del lavoro a 22-23 anni e di lavorare liberamente nell'Unione Europea. Il nuovo sistema universitario punta anche a ridurre gli abbandoni, a coniugare una preparazione metodologico-culturale, da sempre prerogativa della didattica universitaria, con una formazione professionalizzante e a promuovere attività formative e stage. La Riforma intende offrire, inoltre, competenze nel campo delle lingue e dell'informatica per tutti i corsi di studio e incentivare la possibilità di trascorrere periodi di studio all'estero. Fondamentale nel nuovo sistema universitario è il credito formativo. Il credito è l'unità di misura (in ore) per quantificare l'impegno richiesto allo studente per acquisire determinate conoscenze e competenze. Un credito equivale, convenzionalmente, a 25 ore di lavoro, calcolando le lezioni, i laboratori, i tirocini e lo studio individuale. I corsi di studio sono organizzati in crediti: 180 crediti sono previsti per il conseguimento della laurea e 120 per il conseguimento della laurea specialistica. Per ogni anno di studio, secondo quanto stabilito dalla Riforma, corrispondono mediamente 60 crediti e quindi, se un credito prevede un carico di lavoro di 25 ore, l'impegno annuo per uno studente è di circa 500 ore di lavoro e, quindi, mediamente di tre anni per la laurea e di due anni per la laurea specialistica. Un altro importante cambiamento introdotto dalla Riforma riguarda l'introduzione del concetto di "classe". La Riforma ha infatti istituito 42 classi di laurea e 104 classi di laurea specialistica, che raggruppano i corsi affini. Questo significa che corsi di laurea potranno avere denominazioni diverse a seconda dell'Ateneo di attivazione, ma il fatto di appartenere alla stessa classe li rende similari e affini in quanto agli obiettivi qualificanti e alle attività formative. La classe 17, per esempio, raggruppa le lauree in scienze dell'economia e della gestione aziendale e comprende il corso di laurea in Economia e diritto (a Trento), in Economia e professioni (a Bologna) e in Economia aziendale (a Verona): ma, in definitiva, tutti e tre i corsi avranno obiettivi e discipline fondamentali in comune, e il relativo titolo di laurea avrà lo stesso valore legale. Dal punto di vista dello studente questo può significare una più agevole procedura di riconoscimento dei crediti nel caso di passaggio da un corso di studio a un altro, all'interno della stessa classe. I crediti sono acquisiti dallo studente con il superamento dell'esame. Infine, la valutazione del grado di preparazione continua comunque a essere espressa in trentesimi, mentre il voto finale è sempre espresso in 110/110, con lode, per i più fortunati. ______________________________________________________________ La Stampa 6 lug. ’04 LA COMPETIZIONE MIGLIORA L’UNIVERSITÀ SE fosse attuata con rigore, la proposta dell'Associazione Treelle di introdurre la retribuzione degli insegnanti secondo il merito sarebbe una riforma salutare. Il principio è ineccepibile: anziché pagare gli insegnanti in base all'anzianità di servizio, pagarli secondo il merito. Secondo questo principio funzionano e prosperano le università americane più prestigiose. Ogni docente, di qualsiasi grado, riceve un salario annuo deciso in base ad una valutazione rigidamente individuale dell'attività scientifica e dell'insegnamento. Ogni anno, a dicembre, dobbiamo infatti presentare al direttore del dipartimento un resoconto delle nostre pubblicazioni, le recensioni, gli eventuali premi, l'elenco delle conferenze e dei convegni ai quali abbiamo partecipato e ogni altra informazione utile a determinare il valore del nostro lavoro di ricerca, oltre ovviamente alle valutazioni delle nostre lezioni che gli studenti hanno compilato. C ompletato il piccolo (o grande) dossier, non resta che aspettare fidenti aprile, quando arriva puntualmente la lettera del Consiglio di Amministrazione che t'informa di quanto il tuo salario annuo aumenterà nell'Anno Accademico successivo. Nessuna discussione, nessun negoziato, nessun sindacato: decide l'Università in base alla proposta del direttore del dipartimento. Le conseguenze di questo modo di procedere sono, in primo luogo, che nessuno conosce il salario degli altri colleghi (a meno che qualcuno decida di rivelarlo, cosa che non avviene quasi mai); in secondo luogo che due docenti con la medesima anzianità di servizio e il medesimo rango accademico possono avere trattamenti molto differenti. Ma la vera, e più importante, conseguenza è l'incentivo a continuare a produrre ricerca al più alto livello possibile e ad insegnare con impegno, con evidente beneficio sia per l'istituzione universitaria nel suo insieme, sia per gli studenti. Dubito che una riforma simile possa mai essere introdotta in Italia. Contro di essa si leverebbe tuonante la voce dei sindacati che impugnerebbero il principio dell'uguaglianza: tutti i docenti del medesimo rango ed età devono essere trattati in modo uguale, non importa se uno ha scritto e continua a scrivere libri importanti e l'altro ha pubblicato solo opere senza valore o ha smesso addirittura di far ricerca. Non credo neppure che sindacati e docenti sarebbero conquistati dall'argomento che la sinistra dovrebbe sempre tenere alta la bandiera della giustizia e che è invece somma ingiustizia trattare i diseguali in modo eguale (e chi è diseguale nel merito è certo diseguale). Ammesso che si volesse davvero introdurre nelle università il principio della retribuzione in base alla qualità del lavoro scientifico e didattico, resta il problema cruciale del chi decide e del come decidere. Nelle università americane, come ho messo in rilievo, a decidere dei salari sono il direttore del dipartimento, i vari amministratori, e in ultima istanza il consiglio di amministrazione sulla base di criteri certo opinabili, ma del tutto verificabili. Nelle università italiane deciderebbero presidi e rettori eletti dai professori. Si verrebbe così a determinare una situazione in cui presidi e rettori deciderebbero del salario di professori che hanno nelle loro mani l'arma del voto: neppure dei santi resisterebbero alla tentazione di remunerare gli amici e punire i nemici, con tanti saluti al merito. Nessuna via di scampo? No, la via esiste ed è quella di evitare le vie di mezzo: si istituiscano i salari individuali, la libera competizione fra le università, e soprattutto non si dia ai professori il potere di decidere dei salari. Sarebbe il modo per introdurre un po' di giustizia e per migliorare la ricerca e l' insegnamento. Sarebbe una vero programma di sinistra. viroli@princeton.edu ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 10 lug. ’04 LAUREA BREVE, STRADA IN SALITA I limiti del progetto per la riforma del 3+2 DI ALESSANDRO MONTI* La maggior parte dei triennalisti intende proseguire gli studi Le incongruenze della riforma degli studi universitari nota come 3+2 hanno creato disfunzioni negli atenei e messo in moto meccanismi perversi che si stanno traducendo in costi sociali rilevanti e destinati a crescere in assenza di drastici interventi. Tra questi spicca il circolo vizioso in atto nelle Facoltà di Lettere: smembramento modulare degli insegnamenti, riduzione dei programmi didattici, impoverimento dei contenuti e della qualità degli studi, demotivazione dei docenti fino alle di missioni dei più qualificati. I timori per il modesto livello di formazione ricevuta e per la conseguente svalutazione delle lauree che si apprestano a conseguire, manifestati sui giornali dagli studenti più avvertiti, sono destinati a incidere negativamente sulla considerazione che la società civile ha dell'istruzione universitaria. Si tratta di disagi circoscritti alle lauree umanistiche o di una débàcle generalizzata che investe tutto il sistema, anche se incompiutamente percepita? L'indagine ALmaLaurea sul "Profilo dei laureati nel 2003", che ha accertato come l’84°lo dei primi laureati triennali in corso (i più bravi) intendano proseguire gli studi, evidenzia la diffusa consapevolezza di un'insufficiente preparazione professionale e della necessità di doverla integrare. Il miraggio di studi facili e lauree a buon mercato, fatto intravedere dai promotori della riforma varata nella passata legislatura, e la competizione al ribasso avviata tra gli atenei statali lasciati senza risorse, se hanno dilatato i1 numero delle matricole hanno anche moltiplicato le cautele del mondo del lavoro pubblico e privato. Gli ordini professionali, ad esempio, hanno elevato barriere all'accesso dei laureati triennali agli Albi in termini di prove d'esame più dure e di ambiti di attività più circoscritti. Lo schema di decreto ministeriale che modifica l'attuale disciplina appare del tutto inadeguato ad arrestare il declino in atto e restituire piena funzionalità al sistema di formazione gravemente compromessa dalla cancellazione dei diplomi universitari e delle lauree a ciclo unico. Queste ultime sono ripristinate solo per i corsi di studio che danno accesso alle professioni legali, ma con più vincoli e allungate di un anno rispetto ai vecchi corsi quadriennali (1+4), mentre la generalità dei cicli formativi subisce ulteriori frantumazioni (dal 3+2 all' 1+2+2). Viene mantenuto il sistema dei crediti formativi che si è rivelato strumento più di rigidità didattica e di complicazione organizzativa che non incentivo alla mobilità interna ed esterna degli studenti. Non viene soppressa la fonte del crescente disorientamento degli studenti: la discrezionalità riconosciuta agli atenei di attribuire ai corsi di studio denominazioni diverse da quella della classe di appartenenza, responsabile della moltiplicazione di corsi (rispondenti più a interessi accademici che non alle reali esigenze del mondo del lavoro) e della loro disomogeneità curriculare. Restano, infine, tutte le ambiguità connesse da un lato alla conservazione del termine "laurea" per i corsi triennali, finora riservata a studi di più lunga durata (come in tutti i Paesi Ocse), e all'attribuzione della qualifica di "dottore" per i possessori del titolo finale, dall'altro alla mancata individuazione delle spese di attuazione del decreto e della relativa copertura finanziaria. Quanto alla contrarietà di rettori e presidi alle modifiche governative, appare riconducibile non tanto alla difesa ad oltranza del 3+2, quanto alla riluttanza a rimettere in discussione equilibri accademici e corporativi faticosamente raggiunti, per dare seguito ai previsti accorpa menti delle numerose classi delle lauree. Per uscire in modo trasparente dall'impasse che attraversa l'università italiana occorre mantenere (con lievi ritocchi) i nuovo modello di lauree spezzate, più facili ma meno apprezzate dal mercato o tornare alle sperimentate ma più impegnative lauree compatte. Si potrebbe pensare a un referendum per conoscere l'opinione dei diretti interessati: docenti studenti dei corsi di laurea vecchi e nuovi, in grado di valutare, meglio di chiunque altro, pregi e difetti dei due modelli *Unirersità di Camerino ______________________________________________________________ IL SOLE24ORE 4 lug. ’04 LAUREA BREVE PER ILLETTERATI FERMO POSTA Gentile Piero Boitani, ho letto il suo interessante intervento nel «Domenicale» del 20 giugno scorso sulla riforma universitaria, e condivido con lei la preoccupazione per il futuro della cultura umanistica. Veramente, negli ultimi decenni, la ricerca nell'ambito delle discipline letterarie e linguistiche, fuori e dentro le università, è stata intensissima. Non solo: le nuove idee sono state largamente diffuse dall'editoria scolastica e recepite nei nuovi programmi della scuola primaria e secondaria. Ma le nuove proposte, che mettevano al bando le vecchie tecniche d'analisi linguistica in uso nella scuola, erano purtroppo destinate a restare lettera morta, perché mancavano agli insegnanti i fondamenti epistemologici della pratica didattica a cui erano chiamati. Sarebbe toccato all'università provvedere preliminarmente alla preparazione istituzionale degli insegnanti, per fornire alla scuola nuove leve di docenti aggiornati e propositivi. Ma gli insegnanti furono abbandonati a se stessi e, indotti dai nuovi programmi a sbarazzarsi dell'impostazione tradizionale prima di disporre degli strumenti che la sostituissero, si trovarono a navigare senza bussola in un mare sconosciuto. Con la conseguenza che, nel giro di una generazione, è scomparsa dai banchi di scuola qualsiasi forma di riflessione sistematica e organica sul funzionamento della lingua. E così, mentre la riflessione teorica e la ricerca hanno continuato a dare risultati eccellenti, tanto che, a detta degli esperti, la nostra lingua è la meglio descritta del mondo, il livello medio della preparazione degli studenti che accedono alle facoltà umanistiche non è mai stato tanto basso: non si tratta solo di vuoti culturali, ma della mancanza assoluta degli strumenti logici e linguistici necessari per elaborare il pensiero e capire almeno il significato letterale dei testi. Ora, non pensa lei che la riforma dell'università dovrebbe provvedere non solo a potenziare le strutture di eccellenza, ma anche a istituire corsi di laurea in lettere che perseguano essenzialmente, fin dal triennio, la formazione di base dei futuri insegnanti, evitando di dissipare te energie in mille rivoli? Perché, data la situazione di partenza, l'operazione è difficile e richiede necessariamente tempi lunghi. Altro che laurea breve! ANNA BORDONI DI TRAPANI Gentile Anna Bordoni, la sua lettera mi offre l'occasione di precisare meglio quel che penso dell'educazione universitaria nel campo umanistico. Sorto d'accordo con la sua analisi della situazione nella scuola: professori di liceo e di università sanno fin troppo bene come gli studenti non posseggano spesso neppure i più rudimentali «strumenti logici e linguistici necessari per elaborare il pensiero e capire almeno il significato letterale dei testi». Ignorano spesso l'ortografia, la grammatica e la sintassi della lingua italiana, per non parlare di quelle straniere o addirittura delle cosiddette morte. Di tale desolazione dovrebbero farsi carico non le università, ma le scuole medie e superiori. E quindi sarebbe logico che le università formassero gli insegnanti che in quelle scuole andranno a operare. Se un corso di facoltà umanistica dura cinque anni (tre più due, o uno più due più due), una parte di questo percorso dovrebbe senza dubbio essere dedicato specificamente alla preparaione dei futuri docenti scolastici. L'università deve però riempire gli spaventosi vuoti culturali che lei stessa denuncia, e integrare agli insegnamenti in primo luogo attraverso il libero "esempio". Mi spiego: non occorre soltanto che si offrano agli .studenti i fondamenti epistemologici della pratica didattica, ma che i professori possano mostrare tali fondamenti insegnando le loro materie con la competenza, la raffinatezza e la passione che derivano dalla loro ricerca. Se un professore universitario tiene un corso su Dante. sarebbe bere che riversasse in esso tutto quel che sa, e che reputo necessario sapere, .sull'argomento, sul suo contesto culturale e linguistico. E sarebbe necessario che facesse leggere Dante, i suoi commentatori e interpreti, i poeti e filosofi che lo hanno ispirato o contro i quali ha combattuto. Leggere, e ancora leggere. In ogni direzione, in tutte le lingue e in tutti i linguaggi (quindi anche quelli delle arti vivine, della musica, dei media). La mancanza di quegli strumenti logici e linguistici spesso dipende dal fatto che i nostri figli e nipoti vivono in una cultura prevalentemente orale anziché scritta, Quando si trovano dinanzi alle "scritture", si perdono in abissi senza fondo. L'unica cura che li può guarire da tale malattia consiste in dosi massicce e prolungate di lettura. Altro che moduli di ventiquattro ore e 250 pagine di bibliografia! Ci vogliono corsi che diano agli studenti i «tempi lunghi» che arche lei reputa necessari, che faccian loro visitare chiese e musei, che esercitino lo loro passione e la loro intelligenza. Alla fine del Trecento, il poeta inglese Chaucer scriveva che «dai "libri" vecchi viene la scienza "nuova" che s'impara». Intendeva: dai libri che esistono. Credo sia il fondamento di ogni umanesimo, e ciò di cui hanno bisogno tutti i futuri insegnanti delle nostre discipline. Non so, francamente, quanta tutto questo sia possibile nelle università, "riformate" senza risorse, di oggi. In ogni caso, le strutture di eccellenza cui penso, e che dovrebbero coprire "tutta" la durata della formazione universitaria, dovrebbero accogliere i futuri insegnanti: se non divengono "eccellenti" loro, il Paese butta alle ortiche i suoi migliori talenti e non investe nulla nel futuro. PIERO BOITANI MIUR ______________________________________________________________ Italia Oggi 5 lug. ’04 GUERZONI: LAUREE BONSAI PER EVITARE LA DISPERSIONE Ora che il ciclo di studi universitari è più ristretto, lo sono anche i contenuti? In altre parole, è possibile mantenere elevato il livello di preparazione dei laureati italiani, pur in un'ottica di riformulazione concentrata delle materie di studio? A rispondere è Luciano Guerzoni, professore universitario ed ex sottosegretario con delega all'università dei governi che si sono succeduti dal 1996 Al2001, periodo durante il quale sono iniziati i lavori di riforma della didattica universitaria, secondo cui ì nuovi moduli sono a discapito dell'approfondimento. «La stortura risiede nel tentativo di compattare in tre anni conoscenze articolate su quattro o cinque anni. Questo ha determinato una distorsione in quello che è stata l'essenza della riforma. Se i saperi sono tagliati non viene fuori una nuova laurea coerente ma una laurea bonsai», spiega Guerzoni. A essere preso di mira è il mondo accademico. «Le logiche che portano a un appiattimento dell'asse culturale hanno a che fare non tanto con l'impianto normativo del1a riforma ma con la pretesa, da parte dei docenti, di impegnarsi più sulla quantità che sulla qualità cercando di salvare ogni disciplina nei tre anni. Ne è un esempio il fatto che in certi corsi è reso obbligatorio fuso solo di dispense o libri che non superino le 254 pagine. Non è stato fatto un vero e proprio ripensamento dei moduli didattici, fatto di selezione e valutazione su saperi che siano coerenti con il ridotto numero di anni di studio. Questo è un problema che si riflette in gran parte sulle materie umanistiche dove l'analisi approfondita degli argomenti é fondamentale. Anche per questo é molto alto il numero di ragazzi che vuole proseguire il ciclo di studi, indicativo del fatto che non si sentano pienamente gratificati del percorso compiuto». Un altro esempio è dato in riferimento alle discipline forensi: «Gli esami di istituzione di diritto civile e penale non hanno senso nella formazione dei primi tre anni», aggiunge Guerzoni, «valutato che non tutti vogliono, Al termine del percorso di studi, esercitare la professione. Sarebbe infatti più giusto dare una buona base giuridica a tutti e lasciare la scelta di specializzarsi in un settore a chi vuole continuare». Il professore sottolinea, inoltre, la diversità intrinseca dei vari atenei e facoltà sparsi per la penisola, laddove è scorretto parlare dì unità didattiche in un mondo disaggregato come quello universitario, dove ciascuno applica l'autonomia dei programmi. Il giudizio è comunque nel complesso positivo e incoraggiante, secondo Guerzoni, sui risultati provenienti dall’Osservatorio di Almalaurea rispetto agli obiettivi che la riforma universitaria si è proposta. «I lati positivi che sono già emersi risiedono nel fatto che si stanno sfornando laureati più giovani, che è ciò che chiede il mercato. Si riduce dunque il fenomeno dell'abbandono, l'età media di arrivo alla laurea e la massa enorme di fuori corso con la positiva conseguenza di allargare la platea di giovani che accedono all'università». ______________________________________________________________ Il Manifesto 8 lug. ’04 CHE DISASTRO LE «LAUREE BREVI» ANGELO BARACCA* Mi sembra importante avviare un ragionamento serio sulle facoltà scientifiche, senza il quale i temi roventi dei tagli agli investimenti nella ricerca e della crisi del Cnr rischiano di rimanere monchi. Insegnando proprio al primo anno di una facoltà scientifica, devo denunciare con forza il vero disastro delle «lauree brevi» e del cosiddetto «3+2», raccogliendo umori che mi sembrano largamente diffusi anche fra molti miei colleghi. Cominciamo dalle «lauree triennali». Non sarei contrario in linea di principio all'idea di formare in tempi brevi una categoria di tecnici intermedi, ma il modo in cui ciò è stato fatto mi sembra completamente assurdo e controproducente. In primo luogo, questa scelta avrebbe richiesto, soprattutto nel nostro paese, un intervento incisivo sul mercato del lavoro, sulla struttura delle aziende, sulle scelte (o non scelte) tecnologiche, nonché sul nostro sistema della ricerca ed educazione superiore: intervento che era quanto di più lontano dalle idee del nostro centro-sinistra, ormai abbagliato dai meccanismi liberisti del mercato. Soprattutto nelle facoltà scientifiche la scelta fatta mi pare rischi di creare nuovi disoccupati (differiti dai 3 anni almeno di «parcheggio» nelle aule universitarie) più che nuovi occupati: né le aziende, né le istituzioni mi sembrano strutturate per impiegare in modo idoneo tecnici di questo livello. Anche perché, a mio avviso, la loro preparazione è andata in senso opposto a quello che sarebbe stato opportuno: si è scelto infatti di comprimere proprio la preparazione di base. Oggigiorno le tecnologie cambiano con una tale velocità che solo una solida preparazione di base può consentire a un tecnico di aggiornarsi e riconvertirsi. Invece tocco con mano, ma è sotto gli occhi di tutti, come i corsi di base, formativi, siano stati ridotti e compressi. E non solo per la drastica riduzione del numero dei crediti assegnati (che in certi corsi di laurea erano già striminziti), ma per l'assurdo addensamento di corsi che si è generato: come si può pretendere che uno studente del primo anno assimili realmente i contenuti, ancorché quantitativamente ridotti, di ben dieci - dodici corsi in un anno? Ciascuna materia, soprattutto nell'impegnativo inizio degli studi universitari (e con una preparazione dalla scuola secondaria in caduta libera), richiede tempi fisiologici di assimilazione, riflessione, maturazione: altrimenti - come si sta infatti verificando - lo studente non potrà che concen trarsi su quattro nozioni appiccicate per l'esame, che si dissolveranno come neve al sole il giorno dopo, e non potranno fornire il necessario substrato si cui impiantare il corso successivo di studi. Gli studenti arrivano ad avere nove ore di lezioni al giorno: quando dovrebbero studiare? (si pensi ai pendolari!) E dov'è il tempo per lo svago, per non parlare dell'impegno sociale, entrambi requisiti fondamentali di una vera formazione all'altezza delle sfide di questo secolo? La scelta, quindi, a mio avviso avrebbe dovuto essere diametralmente opposta: formare una categoria di tecnici intermedi con una ancor più solida preparazione di base, capace di inserirsi consapevolmente in posizioni nuove, di controllare e gestire autonomamente e criticamente strumenti tecnici carichi certo di grandi potenzialità, ma anche di rischi inediti e anche allarmanti. E veniamo alla «laurea specialistica». Anche qui mi pare che le cose non vadano meglio, e che il livello di preparazione sia drammaticamente e inesorabilmente trascinato verso il basso. Colleghi che vi insegnano mi dicono come ai loro corsi, prima di alto livello, accedano ora studenti che provengono da diversi indirizzi triennali, con una scarsissima preparazione di base, imponendo così un drastico abbassamento del livello dei corsi, che spesso diventano a loro volta corsi generici di base. Un esempio: i nostri ingegneri erano apprezzati internazionalmente proprio per la loro solida preparazione di base, una dote che si rischia di disperdere. Queste in estrema sintesi le idee che mi sono fatto sul campo. In ogni caso i problemi mi sembrano piuttosto gravi, e mi sembra necessario avviare una discussione approfondita. Mi pare evidente che queste scelte si ispirano ad una concezione tutta quantitativa dello sviluppo, quando la gravità dei problemi attuali richiederebbe di puntare sulla qualità. Sul manifesto è stato scritto di recente che liberarci dall'eredità e dai guasti del berlusconismo sarà un processo lungo: la sinistra moderata attenuerà certamente certe brutalità della destra, ma purtroppo non ci porterà in una direzione diametralmente opposta. Questo vale anche per l'università e la ricerca, come già si era visto appunto dal precedente centro sinistra. E stato giustamente osservato che a qualcuno fa molto comodo che Berlusconi faccia il lavoro sporco. *Docente di fisica, università di Firenze ______________________________________________________________ Repubblica 5 lug. ’04 STUDENTI E QUALITÀ DEGLI ATENEI: "CONTA MOLTO IL LORO PARERE" Roma Anche all'estero si fanno classifiche, e vengono prese in grande considerazione dalla comunità accademica. In Germania, per esempio, quella pubblicata da Spiegel scatena ogni anno dibattiti. «In quel caso - spiega Angelo Pichierri, docente dell'Università di Torino e membro del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali -ci si basa molto sul parere degli studenti: una sorta di analisi della customer satisfaction». Così non è raro che piccole università di provincia con poche matricole, ben coccolate, scalino le parti alte della classifica. «Personalmente non sono affatto contrario ad assegnare importanza al giudizio degli studenti - aggiunge Pichierri - anche perché i giovani, a differenza di come si potrebbe supporre, non si lasciano trascinare da facili entusiasmi ma danno quasi sempre un giudizio molto equilibrato». Ciò che gli studenti non possono valutare è l'attività di ricerca condotta dall'università. «A questo riguardo, non mi sembra che le classifiche che circolano tengano conto di un presupposto fondamentale: la ricerca non la fanno le facoltà (alle quali spetta la responsabilità dell'attività didattica),ma i dipartimenti. Questo crea delle situazioni difficili da valutare: per esempio, nel nostro dipartimento di scienze sociali i progetti sono portati avanti da ricercatori dì quattro diverse facoltà. Mi domando come sia possibile attribuire in modo equilibrato i punteggi...». Inoltre, giudicare la qualità della ricerca è complicato: i parametri possono avvantaggiare alcune discipline e andare a discapito di altre. Il metro più utilizzato è il cosiddetto impact factor, che misura il numero delle Ulte che una determinato articolo viene pubblicato o citato nelle riviste internazionali. «E' naturale che l'interesse internazionale di un argomento, dipenda anche dall'oggetto di studio-spiega Pichierri - in Inghilterra, per esempio, dove le classifiche sono determinanti per la carriera dei professori e per i bilanci degli atenei, c'è stato un aspro confronto tra storici: quelli che si occupano di argomenti strettamente locali hanno ben poche possibilità di attirare I'attenzione di una rivista internazionale dì prestigio, a differenza di quelli che studiano, per esempio, la rivoluzione francese o l'antico Egitto. L'unica via di uscita è quella di moltiplicare i parametri utilizzati, cercando di non penalizzare nessuno». (c.a.p.) ________________________________________________________ IL FOGLIO 10 lug. ’04 PER ESSERE MULTIETNICI BISOGNA ESSERE MONOCULTURALI (ANCHE A SCUOLA) Roma. Scuole chiuse per festeggiare la fine del Ramadan e il Capodanno cinese? L'idea dell'assessore all'Istruzione della Regione Campania, Angela Bruffardi, che fa drizzare i capelli a Paolo Macry e ad Ernesto Galli della Loggia, non sorprende Roberto De Mattei, subcommissario del Centro nazionale delle Ricerche e consigliere di Gianfranco Fini per le questioni internazionali. Lo convince semmai sempre più dell'urgenza di denunciare l'equivoco in cui cadono i dogmatici del progressismo quando confondono società multietnica e multiculturale. "Accogliere gli immigrati significa far cadere ogni pregiudizio etnico o razzistico, non rinunciare alla nostra identità culturale. Tanto più una società sarà multietnica quanto più dovrà essere monoculturale e disporre di quadri di memoria e di valori comuni, per evitare di dissolversi". L’anno scorso, la nomina di De Mattei al Cnr suscitò polemiche. Preoccupati per la "matrice fondamentalista di alcune sue affermazioni" e il pregiudizio che ne poteva derivare per "la laicità dello Stato e il dialogo tra le culture" insorsero con un appello su Repubblica Gilmo Arnaldi e Massimo Firpo, Giuseppe Galasso e Paolo Matthiae, Adriano Prosperi e Mario Rosa, Giuseppe Talamo e Rosario Villari, seguiti da 275 illustrissimi colleghi. Adesso che sotto il suo impulso il Cnr ha varato un progetto di ricerca sull'identità italiana, stanziando 1,5 milioni di euro, De Mattei mette le mani avanti con un volumetto ("L'identità culturale come progetto di ricerca", Liberal edizioni) in cui dà conto del suo progetto strategico per ribadire che l'Europa senza identità spirituale non può avere una forza politica. "Pensiamo un po'. Non esiste società più universalistica e multietnica della Chiesa cattolica. Così dovrebbe essere per una società come la nostra che voglia conservare fermamente i propri valori". Ma non è un po' anacronistico invocare l'esempio della Chiesa, per società fondate sull'autonomia della volontà e la tutela dei diritti del singolo, e dunque insofferenti a dogma e tradizione? "Io ho citato la Chiesa non come modello", si schermisce il professore, "ma come esempio storico di conipresenza monocultura-multietnicità. Quanto alla società multiculturale, anche i laburisti inglesi di Tony Blair adesso, dopo anni di tolleranza, cominciano a ravvedersi". Più che l'empirismo, però, è la critica della ragione a offrirgli l'argomento deciso: "Accettare il principio della società multiculturale significa accettare il relativismo delle culture, rinunciare a giudicare una cultura diversa dalla nostra, e dunque abdicare all'esercizio della ragione. Non possiamo mettere sullo stesso piano società che praticano la tortura e società che l'hanno abolita. Vorrebbe dire rinunciare alla sovrana facoltà del giudizio e alla consapevolezza della nostra identità che ci consente di discernere e di giudicare". Non rischia di essere un pò esclusivo appellarsi alla memoria storica e ai valori della tradizione per scongiurare la frammentazione sociale, se il vero legame sociale è l'interesse? La comunione di simboli non pregiudica l'integrazione delle popolazioni immigrate? "Intendiamoci, è giusto permettere agli immigrati di conservare la loro identità" risponde De Mattei. "Per questo non sono affatto d'accordo col divieto del velo da parte di Jaques Chirac. Bisognerebbe lasciare la scelta nella sfera privata dei portatori di identità diverse. Ma sul piano pubblico, che poi si trasforma in memoria, in identità collettiva, stiamo attenti a non perdere i nostri quadri di riferimento. E' giusto permettere agli immigrati di conservare la propria identità, ma finché questo non pregiudica la nostra stessa identità collettiva di italiani. E' giusto che abbiano delle moschee per pregare, ma se nelle nostre scuole si insegnasse la loro religione allo stesso modo della nostra, finiremmo per instillare nei giovani che si formano l'idea dell'assoluta equivalenza delle culture. Ciò non è accaduto nemmeno con l'ebraismo, con cui invece abbiamo trovato una formula di convivenza culturale che garantisce le radici giudaico- cristiane della nostra civiltà". Difficile però negare l'inquietudine verso l'islam in uno storico che deplora l'assenza delle radici cristiane nella Costituzione, è contrario alla Turchia nella Ue, e sottolinea sempre come il termine "europeenses" fu coniato da Isidoro il Giovane vent'anni dopo la battaglia di Poitier (732) per definire le truppe di Carlo Martello che sconfissero gli Arabi. "Anch'io sono convinto che l'Europa sia un incrocio di culture in cui esiste anche l'apporto islamico. Ma l'identità collettiva si definisce attraverso il tempo e il lavoro della memoria, o attraverso un processo di differenziazione, che non è scontro, ma può diventarlo. Ed è innegabile che l'Europa abbia definito la sua identità difendendosi dall'aggressione dell'islam, a Lepanto, Vienna e Belgrado". Marina Valensise ______________________________________________________________ Libero 9 lug. ’04 STEFANO, UN ARCHIMEDE MADE IN PAVIA BIANCHINI HA 38 ANNI, UNA FIGLIA DI 8 MESI E LAVORA PER IL CNR Grazie ai suoi studi sulla fluidodinamica è l'unico ricercatore italiano che si è aggiudicato quest'anno il prestigioso premio della Società matematica europea Di BETTA CARBONE PAVIA - Stefano ha 34 anni, una bimba di 8 mesi, la passione per i cani, e un susseguirsi di riconoscimenti nazionali e internazionali. È il ritratto di un ricercatore italiano, uno di quelli che non ha bisogno di andare all'estero per portare avanti le sue intuizioni e i suoi studi. Stefano Bianchini è appena tornato nella sua Pavia da Stoccolma. La città dei Nobel, curiosa coincidenza, quest'anno è stata scelta dalla Società matematica europea per la cerimonia di conferimento dei premi ai dieci migliori giovani matematici degli ultimi quattro anni. Stefano Bianchini era l'unico italiano tra questi grazie ai suoi studi di matematica applicata all' equazioni della fluidodinamica. La sua storia dimostra che la ricerca italiana non è messa male. O è solo un'eccezione dottor Bianchini «La ricerca matematica non ha bisogno di molti fondi, dunque si può fare anche in Italia. La differenza la fa la qualità degli studenti, dei dottorandi che ti trovi a disposizione, la qualità del gruppo che si crea nell'istituto dove porti avanti le ricerche. Al Cnr di Roma, dove ho sviluppato le mie applicazioni matematiche negli ultimi quattro anni, l'ambiente è ottimo, un Paradiso». A cosa si deve? «AL fatto che finora il direttore ha avuto la libertà di scegliere come destinare i fondi e quali professori internazionali invitare per portare avanti le ricerche. Nella matematica ciò che conta sono lo scambio di idee. E poi, la qualità degli studenti. In Italia la preparazione universitaria nel ramo della matematica è piuttosto buona. E questo è fondamentale se poi quei dottorandi, diventano il tuo gruppo di lavoro. E all'estero? «Si parla spesso delle università americane. Ma lì gli studenti sono davvero maleducati. Invece per un paio di mesi ho insegnato a Pechino: tutti disciplinati ed educati». Oltre al riconoscimento della Società matematica europea ne ha ricevuti altri? «Sono stato insignito anche della medaglia dei Quaranta, il riconoscimento della Accademia italiana delle scienze. Poi ho vinto il posto alla Scuola superiore di Trieste. E ad ottobre è nata mia figlia». Come si concilia la ricerca con la famiglia? «Non c'è bisogno di essere in un luogo determinato per fare matematica. Per questo mi è sempre piaciuta. Al di là degli impegni accademici del Cnr; finora sono sempre stato libero di muovermi e viaggiare. Ma c'è differenza tra un matematico che ha figli e uno che non ne ha»: Quale differenza? «Non fosse altro che il matematico con i figli dà un peso molto meno importante al proprio lavoro. Ridimensiona un po' tutto. L'altro mette la ricerca al centro di tutto». Il viaggio a Stoccolma è stato una sorpresa, sapeva che sarebbe stato premiato? «Ufficialmente no, ma in realtà queste cerimonie sono formali. Anche i Nobel lo sanno un paio di settimane prima che riceveranno il premio. Stavolta io ufficialmente ero stato invitato per tenere un seminario». Ma in realtà in valigia aveva messo l'abito da cerimonia? «Si. Sapevo del riconoscimento da un paio di settimane. Anche se per fortuna i matematici sono piuttosto informali. Persino nell'abbigliamento ufficiale. Eravamo solo noi, i dieci premiati, a esserci portati l'abito buono». Matematici informali e, stando ai luoghi comuni, anche timidi e introversi, è vero? Ci sono diversi rami e diversi tipi , di matematici. Sostanzialmente è vero che per questo tipo, di'studi si hanno rapporti con poche persone, persone che generalmente fanno il tuo stesso tipo di ricerca», Una ricerca che ha quali tipi di conseguenze sulla vita pratica? - «Diciamo solo che i processi fisici sono talmente complessi che anche spiegare un solo, caso particolare è un passo avanti nell'ultra-semplificazione della realtà». ______________________________________________________________ Corriere della Sera 7 lug. ’04 "SIAMO ECCELLENTI": I PROFESSORI ALL'ASSALTO DEL MERCATO Nelle università si afferma una nuova élite, che sbandiera la propria superiorità per ottenere più finanziamenti e prestigio LE CAUSE Un tempo, un tempo assai lontano, sorse un movimento nel sindacato che si definì degli "autoconvocati". Ormai non se ne parla più. Affiora invece alla ribalta dell'Università italiana un altro genere di truppe d'assalto: gli "autoproclamati". Sono gruppi di docenti che, da soli o in concorso con altri, si propongono al "mercato" (e al ministero) come "eccellenti". Si sa, alcuni forse lo ricordano, che - quando c'era ancora la Costituente - Pietro Nenni fece passare una norma che abrogava il ridicolo epiteto di "Eccellenza", quello usato con ironia da Giuseppe Giusti ("Vostra Eccellenza che mi sta in cagnesco", etc.) e che straripava nel gergo ufficiale di epoca fascista ("la Eccellenza il Ministro Bottai" e così via). Naturalmente l'"eccellenza" di questi nuovi autoproclamati è d'altro tipo: sarebbero i bravissimi. È perciò tanto più risibile che siano essi stessi a dirselo, a proclamare la propria superiorità, che si traduce - o dovrebbe tradursi - in maggiori finanziamenti, maggiore "prestigio" (?) etc. Com'è sorta questa che all'apparenza sarebbe solo una malattia mentale? È nata sull'onda, o meglio come effetto, della progressiva liquidazione dell'Università di Stato. Era una conquista che nell'Europa continentale si fosse affermata - in contrasto con la mentalità di ancien régime - la parità a tutti gli effetti delle Università di Stato. Tutte tenute a fornire un buon livello di studi e di mezzi di studio, tutte tenute a praticare una selezione fondata sul merito, tutte tenute a garantire con serietà e senza demagogismi il "diritto allo studio". Quando, alla fine degli anni Sessanta, un moto storico di vaste proporzioni investì le università e la scuola, la grande istanza che si diceva lo animasse, volta ad estendere a tutti (senza selezioni classiste) un così importante servizio fu presto svilita e banalizzata: tra l'incoscienza demagogica di molti politici e il cinismo di non pochi universitari. E si produsse il più grande inganno, e insieme il più grande scacco che il movimento democratico abbia mai subìto. L'apertura a "tutti" delle porte della cittadella del sapere ricevette come contropartita l'abbassamento pauroso del livello degli studi. Ai nuovi ceti che si affacciavano finalmente a quella fonte di ricchezza intellettuale e civile veniva fornito, per malinteso democratismo misto a cinismo, un prodotto sempre più avariato. Dopo quasi un quarantennio, al termine di un ciclo della nostra storia, sta diventando senso comune che l'Università, essendo per "tutti", non può che essere una "scoletta" e che la "vera" Università dovrà risorgere nei cosiddetti punti di "eccellenza" (all'arrembaggio dei quali già si mobilitano i più lesti). Il danno è duplice. Quello insito nell'arbitrio dell'"autoproclamazione" è di immediata evidenza: può porvi rimedio ormai soltanto la auspicabile serietà ministeriale nel porre un "alt" a tale arrembaggio. Ma l'altro è talmente macroscopico che passa inosservato. Abbiamo invero assistito alla più spettacolare (e rattristante) conferma della veridicità di quella che Michels e altri chiamarono "ferrea legge dell'oligarchia". L'egualitarismo sessantottesco alla fine ha prodotto - negando se stesso - il costituirsi ancora una volta di una élite che tende ad avere un ruolo egemone, magari reclutata tra gli stessi che di quel moto storico furono promotori o partecipi. Un vero monumento alla disuguaglianza. Ma, se "élite" dev'essere, che si cancelli almeno l'orribile e clientelare pratica dell'autoproclamazione. Luciano Canfora ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 9 lug. ’04 IL FUTURO DELL’APPARATO REGIONALE Circolano da qualche giorno sulla nuova Regione di Soru "boatos" incontrollati Il presidente - si dice - entrando a Palazzo avrebbe chiesto chi fossero tutti quei signori in giro per i corridoi. Identificatili per impiegati, li avrebbe rispediti seduta stante nei rispettivi uffici. Il presidente - racconta un’altra voce incontrollata - avrebbe rimandato ai rispettivi enti di appartenenza alcuni dei più illustri "comandati" della burocrazia del Palazzo: cerimonieri, consiglieri per le questioni internazionali ecc.. Voci di corridoio, ma con una patina di veridicità. Chi ha avvicinato Renato Soru conosce anche quelle sue domande dirette, brucianti, a volte quasi brutali: "Lei, scusi, di cosa si occupa? Ma a cosa serve quello che fa?". Un modo molto aziendalistico, bocconiano direi, di accostarsi ai complessi problemi della gestione. Tutto il contrario di certe melliflue dialettiche che nel passato hanno caratterizzato il rapporto politica- burocrazia. Dico subito che questo metodo, questo peculiare stile di governo, a me non dispiace. A patto però di non dimenticare che le cose dell’amministrazione hanno una loro dimensione strutturale e che le inefficienze degli apparati sono solo in parte questione di uomini, di funzioni attribuite più o meno felicemente. Due problemi di fondo stanno di fronte a chi voglia oggi avviare con successo la riforma della macchina regionale sarda. Il primo è l’assetto interno degli assessorati, che ricalca ancora da vicino quello inutilmente gerarchico dei ministeri: procedure vecchie, tempi morti, rigidità. Il secondo è la cultura della burocrazia, i processi di selezione e formazione dei dipendenti, le modalità della loro carriera interna, insomma il governo quotidiano di quel collettivo di donne e uomini che materialmente fa andare avanti il meccanismo e che alla fine ne determina i successi e può causarne gli insuccessi. Sul primo punto bisognerà innanzitutto delegare il più possibile al livello più basso, quello degli enti locali, riducendo le funzioni e i poteri della Regione- apparato (per esempio disboscando l’inutile selva degli enti regionali). Molte cose si possono fare direttamente sul territorio, avvalendosi dei comuni. Una Regione più snella, con meno uffici e meno dipendenti, più decentrata, potrà concentrarsi meglio sulle funzioni di coordinamento e di indirizzo, o su quelle di supplenza quando gli enti locali non agiscano tempestivamente. Ci vorranno perciò moduli organizzativi più flessibili: strutture dipartimentali, link trasversali tra assessorati e con le autonomie minori, controlli dei tempi e dell’efficacia; e naturalmente una vera collegialità. Il secondo punto (la selezione e formazione) è delicatissimo ed implica fare subito due cose: riformare in radice le politiche, spesso clientelari, della formazione; e avviare un rapporto stabile con le due università sarde. Si parla di una scuola sarda per la formazione del personale amministrativo (non solo della Regione ma del sistema pubblico allargato): sarebbe il caso di pensarci seriamente e di spostare risorse finanziarie oggi altrimenti sprecate verso questa destinazione. Dopo di che, naturalmente, saremo solo alla metà dell’opera. Bisognerà infatti ancora fare la cosa più difficile di tutte: amministrare virtuosamente. Cioè (lo dico agli assessori, con la bella metafora cara a Sabino Cassese) operare giorno dopo giorno come fa il buon giardiniere: che un giorno espianta le erbacce, un giorno pota, un altro innaffia, un altro ancora innesta o mette a coltura nuove piante. Con pazienza, con competenza; senza mai scoraggiarsi. Guido Melis ================================================================== ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 6 lug. ’04 Non è Dirindinu, ma va bene così L'ASSESSORE TORINESE ALLA SANITÀ RACCONTA LA SUA SFIDA Perché da Torino a Cagliari? "Perché è una sfida. Perché la Sardegna può diventare un laboratorio per tutta l'Italia". Ambiziosa, decisa, idee chiare che per ora non svela, almeno nei dettagli. L'assessore alla Sanità, a dispetto dell'aspetto garbato, assicura che vuole lavorare, lavorare bene, portare a termine i suoi progetti. Una tritasassi, di qualunque sasso si tratti. E se non piegherà i tanti interessi che ruotano intorno alla sanità sarda? "Se non ci riuscissi me ne andrei subito". Molti sperano che si sbrighi a farlo, sa? "Sì, ma prima devono passare sul mio cadavere". Una delle sei donne della giunta, unica a venire dal continente, di nome fa Nerina e di cognome Dirindin, quasi uno scioglilingua. "Pigliaru - racconta il presidente Soru, presentandola ai giornalisti - diceva che forse avremmo potuto trasformarlo in "Dirindinu". Invece si chiama Dirindin e a noi va bene così". Nel suo tailleur panna, gonna sotto il ginocchio e manica corta, giacca ricamata tono su tono, sembra proprio una professoressa. Una di quelle esigenti e severe con sé per poi esserlo con gli studenti. Il piglio da "prof" ce l'ha: insegnava (ora è in aspettativa obbligatoria) agli studenti di Economia, a Torino. Ha 55 anni, segno zodiacale gemelli, sposata e madre di due figli. Si trasferirà in Sardegna? "Beh, sì. Per cinque giorni alla settimana, o sei, o sette, se serve. La famiglia è là ,a Torino, ma mio figlio mi ha detto: non preoccuparti, ti raggiungiamo noi". Qualcuno anticipa: potrebbe essere lei il peso massimo della giunta Soru. Curriculum eccellente, "competenza di alto livello - la descrive il presidente - che viene da fuori senza chiedere nulla, che se ne andrà solo con i grazie dei sardi". Si laurea a 24 anni tondi, comincia subito la carriera di ricercatrice, che culmina in uno scaffale di libri pubblicati (per Einaudi e Il Mulino, ad esempio) e in un ruolo da direttore generale del dipartimento programmazione del ministero della Sanità. Correva l'anno 1999, ministro Rosi Bindi. Cosa le ha detto quando ha saputo del suo incarico? Pausa lunga. Sorriso. "Mi ha incoraggiata". C'è molto altro da dire, ma rimane non detto. Non è la prima volta, comunque, che si occupa di sanità fuori porta. Piemonte a parte, che è la sua terra, ha studiato anche la situazione medici e pazienti in Emilia Romagna, oltre che conoscere cavillo su cavillo il piano sanitario nazionale: ha contribuito a scriverlo. E in Sardegna, da dove comincia? "Dal piano sanitario. Non averne uno da vent'anni è gravissimo". La Sardegna, dice, è l'unica regione in questa condizione. Nuovo piano per dicembre? Non promette nulla: "Ci proveremo". Comincerà con un giro per la realtà dell'isola. "So che ci sono operatori qualificati, ora mortificati. Ma questo succede dappertutto". Nelle pause non gioca mai con il filo di perle, o con gli occhialetti appesi al collo. Tiene i polsi stretti dietro la schiena. "Per me non è stata una scelta facile. Sono consapevole delle difficoltà legate alla mia estraneità a questa regione". Ma questo, crede, non sarà un problema. "Vengo a lavorare con i sardi, con la speranza di fare qualcosa per la Sardegna. Coinvolgendo tutti. Non credo ci saranno problemi: l'unico obiettivo è lavorare". Quale modello di sistema sanitario ha in mente? "Un sistema sanitario sobrio, per assistere tutti i cittadini sardi, ma rispettando i vincoli di bilancio. Prima di tutto, garantendo assistenza". Chiudendo i piccoli ospedali? "Chi ha parlato di piccoli ospedali?". Troppo lungo da spiegare. Intanto, per un sunto di come la pensa basta andare in libreria. Ha scritto e pubblicato Governare il federalismo, uscito nel gennaio del 2002 per Einaudi. Chi paga per la salute degli italiani?, del '96, pubblicato da Il Mulino. Ancora, ha curato la voce Sanità per l'Enciclopedia dell'economia De Agostini, e con colleghi vari ha scritto Elementi di economia sanitaria (Il Mulino). Un peso massimo della materia. Come studiosa e consulente, per ora. "Certo, agire da assessore è diverso. Ma sono abituata a fare le cose, in cui credo. C'è molto bisogno di lavorare", taglia corto da nordica verace. Ma i piani non servono solo a creare commissioni? "Quelli che ho fatto io no. Ne ho fatti, di piani, e sono tutti arrivati alla fine". Questo ha intenzione di fare in Sardegna: arrivare fino in fondo. Carica di energie. "Questa regione ha espresso un forte segnale di rinnovamento, morale, politico e tecnico". Una buona occasione per creare un laboratorio, "di politica, nel senso di policy". Ci si aspetterebbe che arrossisca, con tutte queste attenzioni, flash, telecamere, sull'unica "non sarda". Invece no. Rimane pallida, come si usa a Torino. Diana Zuncheddu ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 8 lug. ’04 IL DISTRETTO TECNOLOGICO DI BIOMEDICINA È UNO SCIPPO ALL’UNIVERSITÀ Pioggia di milioni a corsa finita Il giallo di un distretto tecnologico di biomedicina senza le facoltà di Biologia e di Medicina Concerto riservato all'assessorato programmazione Nella delibera Cipe c'era invece l'invito esplicito a coinvolgere il sistema universitario CAGLIARI. Non si fa, ma l'hanno fatto: la proposta di un distretto tecnologico di bio medicina finanziato attraverso il Cipe, pensato per le università, dove non ci sono la facoltà di biologia e tantomeno quella di medicina. E' successo la settimana scorsa all'assessorato regionale alla programmazione, col management piuttosto in scadenza, che ha radunato i responsabili di una quantità di enti tranne i delegati di biologia e medicina. Per la verità, un rappresentante dell'università di Cagliari c'era: inviato dal rettore Pasquale Mistretta, è andato all'incontro un professore di chimica. Finanziamento in ballo: 40 milioni di euro. Bocche più che cucite, l'incontro è stato rinviato a domani. Motivo: definire meglio il protocollo. Ma sembra che qualcuno dei convenuti, bene informato sulle direttrici del Cipe a proposito del finanziamento, abbia sollevato il problema del coinvolgimento mancato di due entità fondamentali: la biologia e la medicina, rappresentate dalle facoltà universitarie le quali, certo senza escludere altri enti che lavorano in questi campi, non possono essere tenute fuori da un'operazione del genere perché sono i presìdi istituzionali della ricerca, della didattica e della formazione. Il protocollo doveva essere firmato già nella riunione scorsa, ma le osservazioni sull'inopportunità dell'esclusione delle due facoltà che portano lo stesso nome del futuro distretto, ha suggerito lo slittamento di una settimana. In attesa di scoprire se alla fine, e magari con i denti un po' stretti, le due facoltà saranno state convocate, vale la pena di osservare che per Medicina l'esclusione da un finanziamento di 80 miliardi di vecchie lire è particolarmente pesante in un momento di difficoltà finanziaria provocato dalla mancata firma del protocollo d'intesa per l'azienda mista Università-Regione che doveva creare l'ospedale universitario. Tutte cose note, è utile ricordare che la Sardegna è l'unica regione a non avere ancora un protocollo che regoli i rapporti professionali, organizzativi e finanziari tra Università e Regione, la Sardegna probabilmente anche quest'anno non potrà tenere i corsi per le lauree brevi, negli ospedali sopravvivono i reparti convenzionati con l'Università, con disfuzioni del sistema e insoddisfazioni delle persone che vanno a svantaggio del paziente e che sono state mille volte denunciate dai sindacati di categoria, dagli ordini professionali, da sporadiche iniziative di consiglieri regionali. Le facoltà di Medicina della Sardegna sono ancora al di qua del guado europeo, il rischio è già stato denunciato: non riuscire a preparare tutte le figure professionali che servono, come già succede per gli infermieri, gli anestesisti ecc. Dunque i 40 milioni di euro dovevano essere distribuiti in un giorno: a chi e per fare che cosa? Società impegnate nel campo della ricerca, per gli scopi stabiliti in un protocollo finora molto riservato. Un distretto tecnologico di biomedicina ha varie competenze: inimmaginabile, almeno in Sardegna, terra che conta ancora pochi centri di ricerca avanzata, l'esclusione delle facoltà universitarie che insegnano e fanno ricerca sia nel campo della biologia che in quello della medicina. Un distretto tecnologico di biomedicina è una sorta di grande laboratorio dove si studia, si viaggia, si fa ricerca, si comprano macchine e prodotti per mandare avanti l'attività. Muove denaro e, se è ben gestito, può chiamare altro denaro. Naturalmente si dirà: la richiesta di finanziamento risale a tempi meno sospetti di quelli che correvano la settimana scorsa, ma perché escludere Medicina e Biologia? Alessandra Sallemi ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 5 lug. ’04 ESERCITO DI MEDICI I CAMICE ROSA Continua a crescere il totale (un dottore ogni 167 abitanti), le donne sono il 59% nella fascia 24-34 anni All'università record tra le laureate 2003: voti alti e tempi stretti Dottori d'Italia? No, in un tempo neppure tanto remoto ci si dovrà abituare alle "dottoresse d'Italia". Perché sono le donne il futuro della medicina italiana. Oggi sono il 32,3% degli iscritti alla Federazione degli Ordini dei medici (Fnomceo), ma già nel 2015 saranno il 43 per cento. E Nel giro di quindici anni saranno più della metà dei camici bianchi. Anche perché tra i laureati in medicina sono le donne ormai a spopolare. E sono le più brave: si laureano prima e con voti più alti dei colleghi maschi. È un identikit in rosa quello che arriva dall'ultimissimo censimento dei medici d'Italia realizzato dalla Federazione degli Ordini. Una foto "al femminile", ma non solo. Perché dall'universo dei camici bianchi arrivano altri segnali. Non esattamente positivi per la categoria. I dottori in medicina continuano a crescere di numero: a fine 2003 erano 343.409, il 5% in più rispetto al precedente censimento del 2000. E 4.311 in più del dato rilevato appena otto mesi prima, in occasione delle elezioni dei consigli degli Ordini. Un'autentica esplosione di medici: dal 1985 Al2003 sono cresciuti del 31 per cento. Più camici e, ovviamente, meno assistiti pro-capite: oggi c'è un medico ogni 167 abitanti. Rispetto al 2000 ogni dottore ha perso potenzialmente 7 assistiti. Con tutto ciò che ne potrà conseguire, anche sul piano dell'occupazione. Scenario in rosa. Analizzando i numeri della Fnomceo, si scopre che tra le fasce d'età più giovani dei neo-iscritti c'è un boom di donne. Tra i 24 e i 34 anni superano i colleghi maschi e raggiungono il 58,39% dei dottori italiani. Diversa la situazione nelle fasce d'età più avanzate: tra 35 e 64 anni le donne sono il 19%, mentre gli uomini l'80,9 per cento. Dopo i 65 anni, gli uomini superano il 94%, mentre le donne sono il 6 per cento. A crescere, quindi, sono proprio le fasce di medici in servizio e presto le dottoresse rappresenteranno la maggioranza. Per ora, comunque, la fascia d'età con il maggior numero di medici è quella tra i 45 e i 49 anni: 77.668 dottori, in maggioranza (51.149) uomini. AL secondo posto i medici tra 50 e 54 anni, sempre più uomini che donne, e al terzo posto la fascia tra 40 e 44 anni, dove però il rapporto uomini-donne comincia a riequilibrarsi: 29.678 dottori e 20.821 dottoresse. La situazione Ocse. L'aridamento al femminile è confermato anche dalle caratteristiche dei medici in servizio nell'Ocse: si va dal 32,6% di donne del Canada al 54% della Polonia. I maggiori Paesi Ue sono quasi tutti in questa fascia: in Germania e Regno Unito le dottoresse sono il 36,8%, in Francia il 37,2%, in Spagna il 40,4 per cento. L'Italia resta comunque il Paese che, in assoluto, insieme alla Grecia, registra il più elevato numero di medici ogni mille abitanti: 4,4 (in Grecia 4,5), rispetto a una media Ocse di 2,9. In Germania e Francia non si superano i 3,3 medici ogni mille abitanti e in Spagna i 2,9. Le più "brave". Le future donne medico sono anche più brave negli studi universitari. Una recentissima indagine di AlmaLaurea, il consorzio interuniversitario che verifica l'andamento degli studi, ha rilevato che tra i laureati in medicina nel 2003, le donne sono di più (54,2%), hanno un'età di laurea più bassa dei maschi (il loro iter di studi è, quindi, più veloce) e ottengono voti finali mediamente più alti di quasi tre punti. Chissà, magari ci cureranno meglio. PAOLO DEL BUFALO ROBERTO TURNO GLI ASSISTITI Numero di abitanti per medico 2000 174 2001 169 2002 167 Numero di medici chirurghi per sesso e fascia d'età Medici Chirurghi Fasce d'età Uomini Donne 24 19 33 25-29 5.463 8.825 30-34 10.073 12.971 35-39 15.990 15.023 40-44 29.678 20.821 45-49 51.149 26.519 50-54 49.265 16.669 55-59 24.248 4.614 60-64 11:366 1.819 65-69 9.341 1.227 70 1.784 223 >70 23.803 2.486 ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 10 lug. ’04 LAUREE SANITÀ, TETTO A 23MILA L'Istruzione ha fissato i posti disponibili ROMA m Questa volta ci siamo. Per l'anno accademico 2(X}4/2005 i corsi di laurea specialistica delle professioni sanitarie partiranno. Ieri, infatti, il ministro dell'Istruzione e università Letizia Moratti ha firmato il decreto che fissa le modalità e le materie delle prove di ammissione (consultabili sul sito www.miur.it) e, per la prima volta, prende atto del curriculum vitae del candidato. Laurea specialistica. «Sulla spinta delle categorie, ci siamo battuti affinché anche ì titoli accademici e professionali venissero a contare nella valutazione delle commissioni esaminatrici - commenta Angelo Mastrillo, segretario aggiunto della Conferenza nazionale corsi di laurea delle professioni sanitarie - la bilancia, però, continua a pesare a favore dell'esito della prova scritta in quanto nel punteggio finale il "merito" può ancora incidere solo nella misura del 20 per cento». L'offerta formativa da parte del Miur prevede in totale 1.334 posti ripartiti nelle quattro aree di interesse, previste dal decreto ministeriale 2 aprile 2001: infermieristica e ostetrica (505), riabilitazione (355), tecnica, diagnostica e assistenziale (340) e, infine, quella della prevenzione (134). Il test - ottanta quesiti a risposta multipla su argomenti di teoria e pratica ma anche sugli aspetti normativi delle professioni sanitarie dell'area specialistica di interesse e ancora di logica e cultura generale, statistica, informatica scienze umane e sociali - si terrà il giorno 6 ottobre 2004 presso tutte le sedi universitarie in cui verranno attivati i corsi e il tempo a disposizione sarà di due ore. Immatricolazioni. Ma non è tutto. Il ministro Moratti, con i decreti sottoscritti nei giorni 1 e 8 luglio, ha provveduto alla ripartizione dei posti disponibili per il prossimo anno accademico nei 39 atenei sedi dei corsi di laurea di Medicina e Chirurgia (7.466), ma anche alla stessa programmazione per i corsi in odontoiatria e protesi dentaria (931), medicina veterinaria (1426). Per quanto riguarda le lauree triennali delle professioni sanitarie - vale a dire, in particolare, il percorso di infermieristica, fisioterapia, logopedia, dietistica - i posti da assegnare a livello nazionale sono 23.157 (che salgono a 24.125 se si conteggiano anche quelli a disposizione degli studenti non comunitari residenti in Italia), 260 in più rispetto all'anno scorso., Ma - continua Mastrillo - «l'offerta è inferiore del 16% rispetto alla domanda delle Regioni, pari a 4.500 posti in meno e con uno scarto del 23%, quindi ancora più bassa, rispetto alle proposte delle categorie, ossia 7mila posti in meno». La carenza maggiore poi riguarderebbe il corso per infermiere, pari al 22%: i 12.311 posti disponibili (12.656 con quelli per i candidati extracomunitari) sono inferiori di 2.954 rispetto ai 15.295 richiesti dalle Regioni e dei 3.775 rispetto ai 16.086 reclamati dalla Federazione Ipasvi. Senza contare che delle 23.157 immatricolazioni su 453 corsi stabiliti, nessuna Università sembra essere in grado di avvia re tutte le 22 tipologie di corso. II numero massimo degli iter triennali è di 20 per Roma Sapienza I, seguita da Milano e Roma Cattolica con 19, Roma Tor Vergata con 18. Per le lauree triennali, inoltre, non sarà il ministero a predisporre il questionario in un unico testo, uguale su tutto il territorio nazionale, ma sarà ogni Università a preparare un proprio questionario. Architetti. Il terreno sanitario, tuttavia, non è stato l'unico preso nel mirino dal ministero dell'Università. Con decreto del 1 ° luglio il Miur ha sfiorato le 9mila matricole per i corsi di laurea in architettura. CHIARA CONTI ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 10 lug. ’04 SPECIALIZZANDI, ARRIVA IL CONTRATTO-FORMAZIONE ROMA Il miraggio di un contratto di formazione e lavoro sta per diventare realtà per i medici specializzandi dell'università di Siena. Infatti, la Regione Toscana, la facoltà di Medicina dell'ateneo di Siena e l'Azienda ospedaliera universitaria senese stanno lavorando per dare attuazione al decreto legislativo 368/99 che prevedeva il superamento del regime delle "borse di studio" ma che è rimasto sulla carta per difficoltà finanziarie e giuridiche. «Dopo due anni di lavoro - commenta Alberto Auteri, preside di Medicina - siamo vicini al traguardo di dare riconoscimento e tutela al lavoro svolto dai medici specializzandi». «La Regione Toscana - fa eco Jolanda Semplici, direttore generale dell'Azienda ospedaliera - ha avuto la determinazione per dare una risposta a chi la attendeva da tempo. Nel silenzio del Governo statale la Regione e l'università stipuleranno, cor l'accordo della categoria, il contratto di formazione e lavoro che doterà gli specializzandi dei diritti sociali quali tutela assicurativa, congedi per gravidanza e malattia e regolamenterà l'attività assistenziale». Il contratto - che fa tesoro delle censure della Corte di giustizia europea e delle direttive europee - prevede la frequenza alle attività didattiche frontali e assistenziali «funzionali all'acquisizione delle capacità professionali inerenti il titolo di specialista». La periodicità è annuale ed è rinnovabile per la durata legale del corso di specializzazione. Gli specializzandi percepiranno un corrispettivo annuale pari a 1ómila curo (il contributo regionale che va ad aggiungersi alla borsa di studio è di 4.800 euro). Resta aperto il problema di chi pagherà - tra Regione e università - il contributo previdenziale, mentre la copertura assicurativa Inail è a carico dell'azienda ospedaliera. ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 3 lug. ’04 PSICOLOGI, IN SARDEGNA C’È ANCORA SPAZIO Parla il presidente dell’Ordine, Garau Negli ultimi cinque anni sono passati da 400 a 1000. Tullio Garau, 50 anni, presidente dell’Ordine regionale degli psicologi dal 1999, spiega che l’esplosione è dovuta dell’apertura (fine anni Novanta) del corso di laurea a Cagliari. Un incremento che, secondo il rappresentante della categoria, dovrebbe combaciare con gli appetiti del mercato regionale. "L’importante è che non ci siano grandi infornate tutte d’un colpo. Se dovesse accadere, nel giro di un paio d’anni si creerebbe un tappo occupazionale difficilmente superabile". Avanti adagio, dunque, sembra essere il motto di Garau che, conti alla mano, spiega perché gli psicologi sardi possono guardare al futuro con una certa tranquillità. "Attualmente il mercato isolano è in grado di assorbirne circa 4 mila e gli studenti che aspirano al titolo sono 5 mila". Come dire: c’è posto per tutti. I NUMERIA livello nazionale ci sono 45 mila psicologi (50 mila gli studenti iscritti nei vari atenei), mentre sull’Isola il 75% è concentrato nel Cagliaritano: circa 200 sono dipendenti Asl e i restanti 800 svolgono la libera professione. "Una buona parte di noi lavora in convenzione con scuole, enti locali o cooperative. Sono infatti tantissimi i colleghi impegnati nei progetti comunali a tutela della famiglia, adolescenti e handicappati". Oggi gli obiettivi della categoria si stanno velocemente spostando dal filone clinico - e quindi dal servizio diretto alla persona - a quello del lavoro e dell’organizzazione, con particolare riguardo per aziende private e utenze istituzionali. Come per altre categorie, anche per gli psicologi le possibilità di assicurarsi un’assunzione a tempo indeterminato sono merce rara. "I concorsi pubblici sono pochissimi: in cinque anni, sull’Isola, si sono liberati soltanto 10-12 posti". ACCESSO ALLA PROFESSIONECon la laurea triennale si consegue il titolo di dottore in Scienze e tecniche psicologiche: sotto la supervisione di un professionista con laurea quinquennale, si possono svolgere tutte le mansioni, tranne l’insegnamento. Per diventare psicologo occorre frequentare il biennio di specializzazione e poi sostenere l’esame di Stato. Quest’anno, a Cagliari, è stato attivato quello in Psicologia dello sviluppo. Per tutti gli altri rami è necessario emigrare nelle università della Penisola: "Meglio se piccole ma bene organizzate". Secondo Garau, la molla che spinge un giovane a intraprendere la professione resta, ancora oggi, il mito del paziente disteso sul lettino. "Generalmente, però, il movente di base si dissolve nel giro di un anno. Comunque l’interesse per questo mestiere è dovuto ai corsi di laurea triennali che rendono psicologicamente più semplice l’approccio al mestiere. Insomma, prima della riforma universitaria era tutto più difficile". Emiliano Farina ______________________________________________________________ Italia Oggi 10 lug. ’04 L’ANIMA TECNOLOGICA DELLA SANITÀ Dalla telemedicina ai portali informativi il settore si trasforma Di GIANNI RUSCONT Il settore sanitario è da tempo una voce importante per í produttori di informatica e in modo particolare per chi offre soluzioni per la sicurezza di sistemi e infrastrutture, così come è altrettanto vero che internet, wireless e dispositivi mobili di nuova generazione stanno riscuotendo sempre più credito in questo ambiente. E anche in Italia gli esempi relativi all'utilizzo avanzato delle tecnologie It a supporto delle attività mediche, diagnostiche e di analisi non sono così rari come verrebbe da pensare. Di tecnologia applicata al campo della sanità e del well ness, dai progetti di telemedicina ai portali per l'accesso a informazìoni e servizi on-line, si è parlato per esempio con grande enfasi a Webbit 2004, la fiera sulle tecnologie informatiche. Itali@Oggi.it ha chiesto a Pierantonio Macola, presidente di Webbit, un commento circa i risultati raggiunti in questo settore, cominciando proprio dai riscontri emersi dalle ultime edizioni - svoltesi a Padova e a Milano. «I dati relativi ai partecipanti evidenziano un aumento molto considerevole degli iscritti provenienti dal mondo della sanità, che all'interesse per le tematiche strettamente correlate al loro mondo hanno aggiunto la volontà e il bisogno percepito di un aggiornamento personale sulle evoluzioni più recenti delle tecnologie informatiche, dall'e-learning alle soluzioni di mobile business. Ed è proprio a fronte di queste considerazioni che per il 2005 stiamo già programmando un'offerta di contenuti quasi raddoppiata in virtù dei previsti oltre 50 seminari formativi dedicati alle tecnologie informatiche legate alla sanità». In attesa di sbarcare a Bari portando ulteriori esempi di applicazione avanzata delle tecnologie in ambita sanitario e nella pratica medica, Webbit ha ospitato gli interventi. di due nomi noti per gli addetti ai lavori dell'Information technology, ribadendo di fatto la trasversalità di soluzioni comunemente pensate per il mondo aziendale tout court. Aethrà, per esempio, ha affrontato il tema delle soluzioni integrate per attività di tele monitoraggio, illustrando le potenzialità della videocomunicazione nell'assistenza sanitaria a distanza ed entrando nel merito di applicazioni in grado di integrare il teleconsulto e la rete del Sistema sanitario nazionale con strumenti idonei a rispondere alle sempre più rilevanti esigenze di supporto e monitoraggio domiciliare per soggetti cosiddetti «fragili». Ibm, invece, ha centrato il proprio intervento sul tema della telemedicina e sugli sviluppi tecnologici in tale direzione, con attenzione particolare all'area dei repository territoriali di immagini medicali. I progettì National digital mammography e Diamone, realizzati con lo stato americano della Pennsylvania e il governo inglese e citati da Leopoldo Frati, business area leader South Europe di Ibm, a Webbit sono eccellenti testimonianze di come sfruttare tecnologie innovative (nel caso di Big blue il Grid computing) per la condivisione dei dati e delle risorse di calcolo. Altrettanto degni di nota sono quindi i lavori in corso su Irma, una soluzione proprietaria per l'integrazione di diversi sistemi Pacs (Picture archiving communications system - Sistema di acquisizione delle immagini radiologiche), e la creazione di un unico data base territoriale di immagini mediche, e con Mayo clinic, per l'integrazione di dati clinici. Un altro intervento di rilevo, strettamente legato al servizio pubblico, è stato quindi quello di Christian Cotognini dell'ospedale pediatrico Bambino Gesù, che ha presentato le linee guida del portale sanitario pediatrico realizzato con l'obiettivo di «fare sanità» in maniera innovativa, mettendo a disposizione di medici, operatori sanitari e famiglie le proprie risorse cliniche, scientifiche e formative grazie a nuovi canali di comunicazione e interazione on-line. UNA DELLE VOCI DI E-EUROPE 2005 Itali@Oggi.it ha raccolto sul tema delle tecnologie It applicate alla sanità la testimonianza di Antonino Giannone dell'Aiim (Associazione italiana informatica medica), intervenuto a Webbit 2004 per presentare le ultime novità in proposito legate ai progetti di informatizzazione del piano e-Europe 2005, per cui lo sviluppo di servizi pubblici on-line per l’e-Health è una delle voci di riferimento. «In Italia la sanità rappresenta uno dei settori prioritari nell'ambito dell'area di intervento denominata Grandi sistemi pubblici in rete; per accelerarne il processo d'informatizzazione il ministro per l'Innovazione e le tecnologie, con il ministro della salute, ha raggiunto nel 2003 un impegno finanziario per progetti Ict pari allo 0,5% della spesa sanitaria». Fra le principali iniziative in fase di realizzazione vanno citate e-Oncology, una rete telematica per l’interconnessiong dei centri di eccellenza oncologici e alcune strutture sanitarie del Sud e delle isole minori per attività di telediagnosi e la gestione di protocolli terapeutici a distanza, e la rete degli ospedali italiani all'estero, una rete telematica tra gli ospedali italiani presenti nel Mediterraneo, in America latina, in Africa e Medio oriente per condividere soluzioni terapeutiche e di cura. A livello locale, infine, fra gli interventi di e-government legati alla sanità spicca, a detta di Giannone, quello in corso di realizzazione della regione Lombardia, «un progetto tra i primi in Europa per innovazione e completezza di integrazione dei servizi e delle risorse dedicate basato su un network che organizza le informazioni del servizio sanitario regionale e su una smart card per l'accesso ai servizi in rete. Su scala generale si può infine affermare che l'informatizzazione del sistema sanità partirà con la realizzazione della rete dei medici di famiglia, con i finanziamenti di progetti di Ict e telemedicina e con il riconoscimento economico delle prestazioni di teleconsulto specialistico on-line. L'AIUTO PER IL SETTORE FARMACEUTICO Si vanta di essere l'unica azienda in Europa a poter offrire una soluzione in grado di aiutare le case farmaceutiche a ottemperare agli adempimenti comunitari relativi alla farmacovigilanza, che obbligano queste ultime a trasmettere a EudraVigilance, il sistema-rete centrale europeo per la condivisione e il monitoraggio dei «safety report», i dati relativi alle reazioni individuali ai medicinali autorizzati all'interno dell'Unione. Il software in questione si chiama Ares (Adverse reactions reporting system), la società che l'ha sviluppato è Bassilichi, azienda fiorentina da-anni impegnata sul fronte dei sistemi per lo scambio di informazioni legate alla farmacologia. Nelle mani della casa italiana passano (fin dal 1999) anche le strutture di base, come il Database management system e il Medicinal product dictionary, e le attività di gestione di EudraVigilance, aggiornamenti compresi, mentre Ares si occupa dell'invio elettronico dei dati e dello scambio di informazioni con il sistema centrale di raccolta, archiviazione e consultazione dei report. Per saperne dì più abbiamo interpellato Leonardo Bassilichi, vicedirettore generale della società fiorentina, che ci ha spiegato come «Area è una soluzione Web-based scalabile e modulare che permette di operare indipendentemente dalla mede geografica e navigare nel sistema centrale in modo rapido grazie a un'interfaccia utente semplice, un manuale elettronico e un help on-line». Fra le modalità di fruizione del programma, per cui Bassilichi offre ai suo clienti (case farmaceutiche italiane ed estere) supporto tecnico e formazione per utenti e amministratori del sistema, c'è anche l’outsourcing. Quanto al livello di informatizzazione della sanità italiana in generale, Bassilichi ha confermato come «in base alla nostra esperienza, che ci vede impegnati nell'informatizzazione di processi relativi alla gestione documentale per interlocutori quali Asl, ospedali, farmacie e utenti, l'Italia viaggia a velocità diverse. Questo significa che, ricalcando la logica regionale tipica del Sistema sanitario nazionale, accanto a regioni tecnologicamente avanzate ve ne sono altre in cui il processo dì informatizzazione è ancora all'inizio ed è proprio in questi ambiti che il contributo di partner con competenze specifiche diventa determinante». NETWORKING E BUSINESS CONTINUITY IN OSPEDALE Parlare di infrastrutture It in campo sanitario è soprattutto parlare di reti e sistemi di sicurezza. Fra i numerosi esempi in tal senso due a livello di eccellenza riguardano due importanti ospedali romani, il San Camillo Forlanini e il Policlinico Gemelli, dove lavorano in veste di «operatori infornatici» 3Com e T-systems. Il primo ha scelto sin dal 2000 di aggiornare un sistema basato su reti Lan frammentate, applicazioni proprietarie e sistemi telefonici indipendenti passando prima a una standardizzazione a livello di campus attraverso una batteria di switch Fast ethernet e quindi sposando un progetto di rete integrata voce e dati in ambiente Gigabit ethernet per complessivi oltre 160 prodotti 3Com installati, fra cui gli Switch 7700 e il sistema SuperStack 3 NBX. Nello specifico, l'obiettivo raggiunto era quello di fornire una connessione a tutti gli utenti dell'azienda, integrando servizi e applicazioni come apparecchiature radiografiche, monitoraggio ambientale, servizi di vigilanza, terminazione di rete dei badge delle presenze, garantire massima flessibilità e velocità di esecuzione nelle operazioni quotidiane (conferenza telefoniche, gestione delle chiamate in ingresso, schedulazione appuntamenti su touchscreen)e assicurare prestazioni ai massimi livelli in fatto di ampiezza di banda per l'archiviazione e la distribuzione on demand di immagini di radiografia digitalízzata (sistemi Pacs) e documentazione medica in formato elettronico. Un altro fornitore Ict decisamente impegnato nell'area sanità è anche T-systems, al centro dell'esperienza di «disaster recovery» vissuta con il recente blackout dal Policlinico universitario Agostino Gemelli lo scorso settembre, quando l'operatività dei sistemi informativi venne mantenuta comunque garantendo la normale regolarità del servizio agli utenti dell'istituto. A Mariano Borghi, direttore generale di T-system,; Italia, abbiamo chiesto di ricordare l'episodio anche per capire il livello di efficienza informatica di una struttura «estesa» come quella romana. «L'ospedale Gemelli», dice Borghi, «può essere additato a caso di eccellenza, e non solo per l'intervento nella notte del blackout: la struttura gode infatti dì un monìtoraggio continuo delle varie unità e della presenza di personale con competenze tecniche molto elevate sotto il profilo della conoscenza dei sistemi informativi, virtù indispensabile per poter creare un'infrastruttura affidabile e completamente gestibile». La gestione del problema causato dal black out ha quindi confermato l'affidabilità del sistema di business continuity predisposto da T-systems: i dati critici dell'istituto erano (e sono tuttora) localizzati nel data center di Vicenza, mentre ai server presenti in loco, fermi all'esaurimento delle batterie tampone, hanno provveduto (come da contratto) i tecnici di T-systems del pronto intervento, che hanno riattivato in modalità stand by le macchine fino al momento del ripristino definitivo dell'alimentazione elettrica. Come del resto successo presso altri clienti della società, i sistemi informativi hanno quindi retto il blackout mentre i dati strategici sono stati classificati, ordinati e consolidati a livello di San attraverso una duplicazione fisica e remota degli stessi. Il Gemelli, come tutti gli altri utenti, ha quindi beneficiato e continuerà a beneficiare di un doppio livello di protezione: servizio in outsourcing per il data center e assistenza on site presso la sede del cliente, a fronte di soluzioni e servizi dedicati quali cold start, che prevedono il trasferimento e la conservazione di copie fisiche dei dati o funzioni di backup in rete geografica tra le diverse San, Warm start, e Hot start, che garantisce tramite tecnologie di mirroring remoto la ripartenza immediata senza perdita di dati. ______________________________________________________________ IL SOLE24ORE 4 lug. ’04 ALLA RICERCA DEL SÉ BIOLOGICO Le pratiche di immunizzare gli armenti o le persone introducendo attivamente nell'organismo un veleno o un agente contro cui si voleva indurre una protezione descritte in popolazioni cosiddette primitive dimostrano che l'uomo apprese del tutto inconsapevolmente dell'esistenza dell'immunità. Probabilmente il fenomeno e all'origine della generalizzazione magica per cui il simile curerebbe il simile. Un principio che l'immunologia ha spiegato nel caso delle vaccinazioni, ma che gli adepti dell'omeopatia continuano a coltivare nelle insensatezze tipiche di un pensiero poco sviluppato. Da quelle pratiche deriverà la cosiddetta variolazione, ovvero l'immunizzazione acquisita attivamente contro il vaiolo umano pratica inoculando direttamente la forma minor dello stesso vaiolo. Diffusa in Cina e nel Medio Oriente dal XII secolo, veniva introdotta in Europa agli inizi del Settecento anche grazie alla propaganda di Lady Wortley Montagne come ci ricorda anche Voltaire in una delle sue lettere filosofiche ma anche per il successo di un esperimento condotto nel 1721-22 su sei condannati a morte. Nel 1796 Edward Jenner confermava, inoculando un bambino con il pus tolto da una contadina affetta da vaiolo vaccino (cowpox). che era più sicuro utilizzare questa forma per immunizzare contro il vaiolo umano. Sin dall'antichità si sapeva anche che l'immunità poteva essere acquisita naturalmente. Durante le prime epidemie storiche si era osservato infatti che se un individuo riusciva a superare indenne le manifestazioni patologiche di un'infezione, non avrebbe più contratto la malattia. Troviamo tali descrizioni nella testimonianza di Tucidide della cosiddetta "peste dì Atene" del 431) a.C. certamente non era peste bubbonica e fu causata da un virus e in quella di Procopio della "peste di Giustiniano" del 542-43 quella era vera pesta. Inizialmente. però, non venne compreso che immunità acquista e specifica. Il primo a capirlo sembra sia stato Hieronimus Mercurialis, che, in un'opera del 1584, De Morbis Puerorim scriveva che l'immunità nei confronti del vaiolo non protegge dal contrarre la lebbra o il morbillo. L'approccio scientifico all'immunità, intesa come protezione dalle malattie infettive, trova le proprie basi concettuali e metodologiche nella rivoluzione microbiologica della seconda meta dell'Ottocento. Nel 1879, sfruttando alcuni esperimenti del suo collaboratore E. Roux, Pasteur scoprì la possibilità di utilizzare una varietà attenuata del virus del colera dei polli per "vaccinare" contro la forma letale dell'agente patogeno. Pasteur forniva una dimostrazione pubblica della potenza della vaccinazione con agenti attenuati artificialmente di grande efficacia attraverso la sperimentazione del vaccino anticarbonchioso condotto nel 1881 a Pouilly-le-Fort. Dal 1890 fino agli anni Trenta del novecento i fenomeni imniunitari erano visti come espressioni di un unico tipo dì interazione, quella fra anticorpo e antigene. Paul Ehrlich, Jules Bordet e Karl Landsieiner studiarono la natura di tale interazione, inquadrandone soprattutto la natura specifica e mettendola in relazione con le caratteristiche fisiche e chimiche di questi "reagenti". L'osservazione e lo stadio dei fenomeni associati all'acquisizione dell'immunità dalle infezioni porto sia allo sviluppo di nuovi strumenti tecnici e concettuali propri del nuovo dominio conoscitivo, sia alla constatazione che tali meccanismi, ritenuti dai batteriologi funzionalmente deputano alla difesa da agenti infettivi e da sostanze tossiche, potevano essere, a loro volta, responsabili dell'insorgenza di malattie dovute a reazioni allergiche. Diverse manifestazioni dell'individualità biologica, apparentemente prive di un significato adattativo. come il rigetto di tessuti estranei, si dimostrarono di natura immunitaria. A partire da tali evidenze di un substrato biologico, piuttosto che meramente biochimico, dei fenomeni immunitari, cioè di un sistema anatomo-funzionale, con articolate connotazioni filogenetiche e ontogenetiche. L'immunologia si è progressivamente costituita come un complesso disciplinare autonomo, che a livello fondamentale studia i meccanismi molecolari e cellulari preposti al riconoscimento dell'individualità biologica (self) come condizione per discriminare e reagire a ciò che è estraneo (not self). (G.C.) ______________________________________________________________ L’arena 5 lug. ’04 VERONA:UN ROBOT CHIRURGICO CREA GRATTACAPI ALL’UNIVERSITÀ Inchiesta di Corte dei Conti e Procura. Il direttore amministrativo: «É tutto in regola» di Giancarlo Beltrame C'è un robot che porta il nome del padre degli dei, Zeus, che da qualche tempo sta creando grattacapi all'Università di Verona. Crucci che nascono non da difetti della costosa macchina acquistata appena un anno fa, ma da due inchieste, una del sostituto procuratore della Corte dei Conti di Venezia Alberto Mingarelli e l'altra della Procura della Repubblica, che hanno preso le mosse da una campagna di stampa. L'ultimo dispiacere è arrivato ieri mattina con la richiesta da parte del pro curatore capo Guido Papalia di tutte le delibere relative all'acquisto del robot-chirurgo Zeus, di tutte le precedenti delibere che l'Università ha adotta to per documentare la necessità di dotarsi di questo tipo di strumento, coni prese le richieste presentati dai docenti universitari responsabili nonché futuri utilizzatori dello strumento, e di tutta la documentazione relativa alla gara bandita per il suo acquisto, comprese le lettere alle società con l'invito a partecipare. Una acquisizione di documenti a scopo conoscitivo (ricordiamo che l'azione penale è obbligatoria nel caso un magistrato venga a conoscenza di vicende che richiedono un controllo di legittimità), senza che fino a questo momento sia stata ufficialmente formulata alcuna ipotesi di reato. «Come abbiamo fatto con la Procura della Corte dei Conti», dice il direttore amministrativo Antonio Salvini, «abbiamo messo a disposizione della Procura di Verona tutta la documentazione richiesta. Siamo tranquilli e la nostra tranquillità nasce dalla convinzione di aver fatto le cose non solo secondo la legge, ma per bene». L'acquisto del robot chirurgo Zeus era stato fatto l'anno scorso, utilizzando un milione e trecentomila euro messi a disposizione dalla Fondazione Cariverona, dopo che il Consiglio di amministrazione dell'ateneo aveva accolto la richiesta del professore Claudio Cordiano, ordinario di chirurgia d'urgenza e direttore della Prima divisione clinicizzata di chirurgia generale e della scuola di specializzazione in chirurgia. La scelta era tra due robot concorrenti, entrambi americani, anzi californiani, lo Zeus, prodotto dalla Computer Motion Inc. di Goleta, e il Da Vinci della Intuitive Surgical Inc di Mountain View. La prima era rappresentata in Italia dalla Sic System di Roma, la seconda dalla AB Medica di Milano. Sia per motivi di costo, tanto iniziale che di gestione, sia per la maggiore flessibilità, sia per l'opportunità di poter utilizzare una più ampia gamma di strumenti (alcuni dei quali già in uso), sia anche per la possibilità, inibita alL'altro, di poterne «studiare» il funzionamento da parte del laboratorio di robotica del professor Paolo Fiorini del dipartimento di Informatica della facoltà di Scienze matematiche fisiche e naturali, sia soprattutto per le migliori potenzialità didattiche e di ricerca, alla fine la scelta era caduta sullo Zeus. Deliberato i130 maggio, il contratto d'acquisto era stato sottoscritto il 26 giugnio. Il 4 agosto successivo il robot chirurgico era stato consegnato, installato e attivato. E immediatamente collaudato dalla commissione. Nel frattempo, però il 30 giugno era avvenuta la fusione tra le due società concorrenti, Computer Motion e Intuitive Surgical. La seconda di fatto aveva incorporato la prima, decidendo di togliere alla Sic System la rappresentanza in Italia. «Su questo fatto», dice Salvini, «nel mese di maggio alcuni articoli giornalistici hanno ricamato sulla inutilizzabilità del robot Zeus, sostenendo che era finito fuori produzione e che non ci sarebbero più stati forniti il supporto tecnico, i materiali di consumo e i pezzi di ricambio. Abbiamo immediatamente chiesto delucidazioni a tutte le parti in causa, ossia la Intuitive Surgical, la AB Medica e la Sic System. E le risposte sono state tranquillizzanti». La risposta della Sic System è arrivata proprio ieri mattina. La società conferma la disdetta del contratto da parte della Intuitive Surgical, ma anche che «il materiale monouso fornito a corredo del sistema e ancora disponibile» non ha finora messo in difficoltà la chirurgia del professor Cordiano, anche per l'impegno di supporto tecnico e di addestramento fornito alla divisione. Ma soprattutto c'è stata la risposta al rettore uscente Elio Mosele della Intuitive, seguita addirittura da una visita a fine giugno del vice presidente per l'Europa della società californiana, con la conferma degli impegni assunti. Tre i punti confermati. Il primo, «la Intuitive continua a vedere ricambi e componenti monouso dello Zeus»; il secondo, che la Sic può vendere gli stessi prodotti; il terzo che, «nel caso la Sic, per qualsiasi motivo, non sia 'in grado di fornire ricambi o componenti per lo Zeus», provvederà a tornirli su richiesta dell'Università la stessa Intuitive. Nel frattempo lo Zeus ha già effettuato una ottantina di interventi. Cinque «veri», su altrettanti pazienti, e tutti gli altri virtuali, ossia con organi inseriti in manichini, a scopo formativo e didattico. In attesa di superare la verifica incrociata della Corte dei Conti e del procuratore Papalia. Antonio Salvini ______________________________________________________________ Libero 4 lug. ’04 PIU’ FRAGILI LE OSSA CON LE BIBITE ALLA COCA Contengono sostanze che riducono la capacità di assorbire il calcio STUDIO AMERICANO Attenzione a non esagerare con le bevande gassate a base di cola. Troppi bicchieri mettono a rischio la salute delle ossa. Alcune sostanze presenti in queste bibite, infatti, in particolare i carbonati, riducono la capacità dell'organismo di assorbire il calcio. Un pericolo soprattutto per i più piccoli che, esagerando, possono compromettere la normale crescita. E non è l'unico danno. Queste bibite - come ha ricordato l'American accademy of pediatrics - contengono anche molti zuccheri. Favoriscono quindi la carie dei denti e l'obesità dei ragazzi. ______________________________________________________________ Libero 5 lug. ’04 DEPRESSIONE, LA MALATTIA DI CHI È PIÙ INTELLIGENTE Nei pazienti colpiti da forme gravi il sistema cerebrale è ipersviluppato di GIANLUCA GROSSI DALLAS -Una zona del cervello più sviluppata delle alt. c, quindi con un numero maggiore di neuroni, è alla base delle forme più gravi di depressione. È la sorprendente conclusione di un team di ricercatori dell'università del Texas, resa nota in un articolo pubblicato sulle pagine dell’American Journal of Psychiatry". Gli studiosi sostengono che chi si ammala gravemente del cosiddetto "male oscuro" ha, a livello del talamo, una quantità di neuroni superiore rispetto alla norma del 31 %. Il talamo stesso è complessivamente più grande del 16%. I dati sono stati ottenuti analizzando cadaveri di individui che avevano sofferto della malattia. «È la prima volta - ha dichiarato Dwight German dell'università del Texas - che si trova un legame diretto tra un disturbo psichiatrico e l'aumento del numero di cellule totale in una regione del cervello». La scoperta potrebbe in futuro portare alla sperimentazione di nuove tecniche di intervento, che possano così sostituire quelle attuali, spesso inefficaci. Il talamo è la parte diencefalo, vistosa del diencefalo, cioè quella parte del cervello da cui dipendono importantissime funzioni della vita vegetativa come la raccolta degli impulsi provenienti dagli organi della vista e dell'udito. L'area cerebrale presa in considerazione dagli scienziati raccoglie le informazioni provenienti dalle altre zone del cervello per ritrasmetterle alla corteccia cerebrale. Per questo alcuni psichiatri hanno battezzato il talamo il "segretario" della corteccia. Secondo German c'è quindi una vera e propria base organicanelle forme più gravi di depressione che nulla ha a che vedere con eventuali altri traumi subiti nel corso della vita, o con la formazione del carattere. Gli scienziati hanno preso in considerazione anche cervelli di persone sane, o affette da altri disturbi psichiatrici, riscontrando che l'anomalia del talamo è presente solo nei soggetti colpiti dalla depressione. ______________________________________________________________ L’arena 5 lug. ’04 UN «VIAGGIO» DENTRO IL CERVELLO PER CURARE ANGIOMI E ANEURISMI Inaugurato al piano terra del Geriatrico il nuovo angiografo digitale Un piccolo catetere che dall'inguine, dall'arteria femorale, arriva piano piano fino al cervello, dove individua e distrugge il trombo 0l’angioma. La fantascienza a portata di mano, anzi di clic. Perché la novità in campo medico, ancora una volta, è legata allo sviluppo ormai vertiginoso della diagnostica per immagini, che adesso è digitale e tridimensionale. In questo caso parliamo di angiografia digitale, una tecnica di indagine radiologica che permette di evidenziare e documentare arterie e vene del cervello mediante l'iniezione, con un catetere, di mezzo di contrasto a base di iodio. Il piccolo occhio del "grande fratello", per chiarirci le idee, è oggi è in grado di scovare, nel reticolo del cervello umano, un'anomalia di un paio di milli metri. Tanto piccola quanto capace di creare danni disastrosi. Ma la novità più rilevante, giustamente messa in evidenza ieri mattina in occasione dell'inaugurazione della nuova apparecchiatura angiografica digitale Axiom al pian terreno del Geriatrico, il fatto che si possa contestualmente migrare dalla fase diagnostica a quella terapeutica, "sciogliendo" il trombo, l'aneurisma e l'angioma che potrebbero provocare danni irreversibili al cervello. L'angiografia digitale, come ha ricordato il primario della Neuroradiologia, dottor Alberto Beltramello, «non è una novità assoluta, in quanto da anni viene effettuata a Borgo Trento grazie al pioniere della neuroradiologia, professor Aldo Benati, già primario del reparto. La novità dell'apparecchiatura che inauguriamo oggi, l'Axiom, è data dal fatto che riduce sensibilmente i tempi di attuazione dell'esame (che è invasivo e non a rischio zero per il paziente) e garantisce una migliore qualità dell'immagine». Un limite della nuova apparecchiatura, se così vogliamo chiamarlo, è dato dal fatto che non verrà utilizzato per prevenire emorragie cerebrali provocate dalla rottura di aneurisma o angioma («se non in casi rarissimi elevatissima familiari tà», conferma il primario Beltramello), ma principalmente per andare a indagare nei minimi dettagli il cervello e il midollo spinale prima di effettuare qualunque intervento chirurgico o terapeutico. In un anno sono circa 3600 le angiografie effettuate nel servizio di Neuroradiologia: di queste un terzo a scopo terapeutico per l’embolizzazione di malformazioni artero-venose a livello cerebrale o midollare, di aneurismi endocranici, di fistole arterovenose e di tumori vascolarizzati craniovertebrali. Tra le altre attività espletate nel servizio, ridisegnato e colorato dall'architetto Giovanna Reni, ricordiamo il posizionamento di stent, ossia di endoprotesi vascolari a carico degli assi vascolari delle due carotidi e nelle vertrebe, l’embolizzazione pre operatoria di neoplasie cranio-spinali e infine la neuroradiologia interventistica spinale, che consiste in biopsie della colonna vertebrale e procedure di vertebroplastica o cifoplastica per rinforzare vertebre fratturate per cedimento osteoporotico o traumi. (P. Col.) ______________________________________________________________ L’arena 5 lug. ’04 UN TOUR GUIDATO NEL CERVELLO Costata quasi 3 milioni e mezzo di euro,la nuova apparecchiatura angiografica digitale biplanare Siemens Axiom consta di due tubi distinti con relatori amplificatori d'immagine in grado di operare su qualunque piano dello spazio, che consentono l'effettuazione di riprese sia angiografiche sia in radioscopia biplanari (anteroposteriori e laterali) in tempo reale. È provvista inoltre di doppia consolle operativa e di valutazione, schermi piatti, immagini in tridimensionale e iniettore automatico. La macchina è dotata inoltre del sistema "road map" biplanare simultaneo che permette di muovere il catetere angiografico all'interno dei vasi dell'organismo umano con la strada pre-figurata dalla preventiva iniezione di mezzo di contrasto, effettuando così un cateterismo più rapido e soprattutto più sicuro per il paziente. Uguali vantaggi in termini di operatività e di sicurezza offerti dall'esposizione biplanare radiografica o radioscopica vengono sfruttati inoltre nelle procedure terapeutiche per la colonna vertebrali, quali cifoplastica o vertebroplastica, ottenendo in tempo reale la visualizzazione degli strumenti impiegati nei due piani dello spazio. ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 8 lug. ’04 ANCHE A PARIGI ANGIOGENESI NEL MIRINO TERAPIA ANTI-CANCRO Si sta studiando una trappola per bloccare il Vessel endothelial growth factor (Vegf), fattore fondamentale per lo sviluppo del sistema vascolare che il tumore mette in atto autonomamente, e contro l'organismo ospite, al fine di assicurarsi il nutrimento. L'approccio terapeutico, che mira in ultima istanza al blocco dell'angiogenesi tumorale, fa parte della cosiddetta "Vegf trap". E rappresenta uno dei filoni dì studio del nuovo centro di ricerca Aventis di Vitry, nei pressi di Parigi. Le varie patologie. Oltre al trattamento anticancro, i 1.300 ricercatori della sezione Ricerca e sviluppo dell'azienda francese che occupa circa SOmila metri quadrati di laboratorio, si occupano di studiare nuove soluzioni terapeutiche per le patologie neurodegenerative, come la malattia di Alzheimer o il Parkinson. «Il farmaco trappola per il Vegf deve avere precise caratteristiche e agire sulle diverse tappe della via Vegf - ha spiegato a Vitry Jean Pierre Armand, direttore medico Igr and D, dei laboratori di Villejuif, in Francia. In termini ideali dovrebbe risultare angiostatico, ma non dare tossicità acuta o cronica, essere somministrabile per bocca e risultare facilmente combinabile sotto l'aspetto farmacologico e farmacocinetico con la chemioterapia tradizionale, per ottenere un'efficace complementarietà terapeutica». Per ottenere questi risultati, il Vegf rappresenta un target ottimale in quanto è mediatore chiave dell'angiogenesi. Solo che bisogna riuscire a operare sia sugli attivatori a monte della sintesi del fattore di crescita sia sulle vie di segnalazione a valle, mantenendo al centro del "mirino" la cellula endoteliale, che costituisce la porzione più interna della parete dei vasi sanguigni. Nella Pìpelìne di Aventis ci sono diversi principi attivi attualmente in fase di studio preclinica o al debutto nella sperimentazione umana. Il "farmaco trappola" che i ricercatori francesi ipotizzano deve avere precise caratteristiche, a partire dalla necessità di contenere componenti chimiche umane e di avere un'elevatissima attività picomolare che ne consenta un ottimale legame con Vegf. Infine, deve avere un'emivita elevata, di circa una settimana per l'uomo. Possibili risultati. Grazie a queste caratteristiche, la trappola per il fattore di crescita endoteliale dovrebbe superare i diversi principi attivi che si stanno sviluppando nell'anti-angiogenesi, tumorale e sono mirati a specifici target molecolare. Almeno sotto il profilo teorico. Rispetto ad anticorpi monocolonali come l’Anti-Vegf 165, infatti, questo approccio dovrebbe assicurare una maggior affinità per tutte le isoforme presenti del fattore di crescita, mentre rispetto agli anticorpi mirati verso il recettore anti-Vegf potrebbe consentire un'attività concreta su tutti i recettori. Infine, perché la trappola sia realmente efficace contro l'angiogenesi occorre superare i risultati ottenibili inibendo il recettore della tiroxina-chinasi di Vegf: in questo caso la speranza è che can questo approccio sia possibile una maggior specificità d'azione> per evitare un'inibizione delle tiroxina-chinasi non legate al Vegf. In ogni caso, a detta dei ricercatori di Aventis, il futuro dell'antiangiogenesi mira all'utilizzo di piccole molecole, anticorpi o antisensi che interferiscano con la formazione di nuovi vasi, e che possano trasformare il tumore in una patologia cronica, associandosi al meglio con gli altri approcci farmacologici e immunologici attualmente in studio nei laboratori di tutto il mondo. Federico Mereta ______________________________________________________________ Libero 9 lug. ’04 ARACHIDI, IN PICCOLE DOSI FANNO BENE ALLA COLECISTI Piccole quantità giornaliere di noccioline americane (arachidi), o di anacardi> oppure di burro di arachidi, riducono il rischio (del 25 %) di dover, un giorno o l’altro, sottoporsi a una colecistectomia. Lo hanno scoperto alla Harvard School of Public Health di Boston (effettuando una ampia ricerca su più di 83,000 infermiere e sulle loro abitudini per 16 anni). Oltre ad aver confermato che le noccioline, sempre se consumate in dosi minime o comunque moderate, non sono un cibo ipercalorico e nemico della dieta come per anni hanno sostenuto alcuni medici, anzi: i consumatori di arachidi tendono in media a pesare meno degli altri. Oltre ai ben noti effetti benefici dei grassi mono e poli-insaturi, altre componenti delle arachidi, degli anacardi e delle altre noci, quali le fibre e il magnesio sono altrettanto importanti per la nostra salute. Sono proprio le fibre contenute nelle noci che, alla lunga, proteggono la colecisti. La ricerca di Harvard é riportata sul American Journal of Clinical Nutrition. Ma, come al solito, attenti ad evitare che una nocciolina tiri l'altra. ______________________________________________________________ Libero 9 lug. ’04 SALE ECCO QUANTE BASTA PER RIDURRE I RISCHI ICTUS Come si fa a non superare i 6 grammi di sale al giorno, dato che quanto questo è il segreto per ridurre del 14% i rischi tY ictus e del 9% quelli di infarto? Pensare che se si riuscisse a limitare il sale a 3 grammi quotidiani si eviterebbe perfino l’ipertensione in tarda età. E allora, per prima cosa, bisogna sapere che il sale non è solo quello che si aggiunge nei cibi, ma bisogna contare anche qullo contenuto naturalmente negli alimenti e in quelli preparati in maniera industriale. Quindi i calcoli diventano più complicati. Il classico panino, arricchito da un salume, quanto sale contiene? Alcuni sandwich preconfezionati contengono fino 2 4 grammi di sale. Ma anche la pizza e piatti già pronti sono salatissimi quanto alcune acque minerali che contengono molto sodio Gli accorgimenti? Non accompagnare gli aperitivi con olive, salatini o pistacchi. Diminuire i salumi, i piatti precotti e formaggi. Evitare di metter, la saliera a tavola per non indurre in tentazione. Adoperare le erbe, le spezie, l'aceto aromatizzato per condire i cibi, limitare il sale da cucina ad un cucchiaino di te al giorno, preferire i prodotti freschi agli alimenti conservati. ______________________________________________________________ Repubblica 10 lug. ’04 IL RITORNO DELLA SANGUISUGA CURERÀ LE ARTRITI E LA CIRCOLAZIONE ELENA DUSI ROMA - La Food and Drug Administration, l'ente americano che regola l'uso di farmaci e apparecchi medicali, lo scorso 28 giugno ha dato il via libera all'uso delle sanguisughe per curare edemi, circolazione venosa stagnante o i postumi di un intervento di microchirurgia. Dopo il reimpianto di un dito o del lobo di un orecchio, per esempio, o nei casi in cui il sangue stenta a ritrovare il giusto corso, torna a far capolino una soluzione vecchia di duemila anni. I primi esemplari di Hirudo Medicinalis provenienti dalla Francia hanno rimesso piede negli ospedali americani, dopo un bando che durava dal 1976. Le sanguisughe, che nell'800 rappresentavano una panacea (presunta), oggi sono allevate da poche ditte specializzate. La loro riscoperta risale a una quarantina di anni fa, e l'impiego si aggira sui 20mila esemplari all'anno. Le sanguisughe di oggi però non hanno nulla a che vedere con i salassi. Di questi animali attirano le proprietà della saliva, che è un blando analgesico, un antinfiammatorio e un anticoagulante del sangue. Basta un morso per aiutare a riattivare la circolazione venosa dei capillari, sgonfiare piccoli edemi e tumefazioni e stimolare la crescita dei nuovi capillari. Alle sanguisughe alcuni studi recenti attribuiscono la proprietà di ridurrei dolori dell'artrite, al prezzo di un'ora di applicazione e 8 grammi di sangue in meno. «Si dice - racconta Giuseppe D'Onofrio, responsabile del centro trasfusionale del Policlinico Gemelli di Roma - che le sanguisughe abbiano fatto più morti di Napoleone. Le testimonianze sul loro uso prima della nascita dell'ematologia moderna sono impressionanti». Secondo le teorie della prima metà dell'800, per curare qualunque malattia bastava applicare una certa quantità di sanguisughe (l'inventario 1820-30 di un ospedale parigino ne prevede 30 per ciascun paziente) sulla zona dolente. Sulle tempie o dietro alle orecchie per il mal di testa. Sulle ginocchia per i dolori articolari. «E non c'era parte del corpo - prosegue D'Onofrio - che si salvasse. Sull'ano, sul collo dell'utero e sulle gengive. Si riferiva di sanguisughe perse nella faringe o nell'esofago». Pescare questi animali negli stagni era una delle occupazioni dei contadini. «E l’uso.era così massiccio che in Francia tra il 1820 e il 1823 se ne importarono 40 milioni all'anno, dall'Algeria e dall'Europa orientale». Unico problema: un pasto abbondante sazia le sanguisughe per mesi interi. «Ma bastava metterle in un bicchiere con acqua e vino per far loro rigettare il sangue ingerito, e renderle pronte per l'uso». Nell' 800 questi animaletti erano considerati una vera e propria panacea ______________________________________________________________ Libero 10 lug. ’04 NUOVA "SPIA" PER CANCRO VESCICA Scoperta a Singapore una nuova spia precoce del tumore alla vescica. Le cellule tumorali, infatti, nei fluidi corporei come l'urina brillano 10 volte più di quelle normali, già negli stadi iniziali della malattia. Ora i ricercatori stanno cercando di allargare lo studio ad altri tipi di tumore, concentrandosi sui fluidi delle mucose. Secondo Malini Olivo, uno degli studiosi, una nuova tecnica potrebbe produrre immagini tridimensionali dei tessuti colpiti, che così potrebbero essere "bombardati" con una luce ad hoc per misurare la fluorescenza naturale. Tutto è nato dal fatto che la luce emessa dalle cellule cambia quando queste iniziano a mutare. ______________________________________________________________ Corriere della Sera 10 lug. ’04 PILLOLE ANTI-IMPOTENZA TOSCANA AL PRIMO POSTO Identikit del consumatore: sposato, non pratica sport I dati del 2004: Pisa guida le vendite, ultime Nuoro e Potenza Ripamonti Luigi E' la Toscana la Regione in cui si consumano più farmaci contro l' impotenza maschile, seguita da Emilia-Romagna e Lazio. Gli italiani più freddi di fronte all' aiuto delle pillole «anti-defaillance» sono invece lucani, molisani e calabresi. Quadro confermato dalla classifica per province, che vede in testa Pisa, seguita da Pistoia, Firenze e Rimini, con Nuoro, Potenza, Enna e Matera in coda. Il dato è il risultato di una elaborazione del rapporto tra la popolazione maschile delle diverse zone geografiche del nostro Paese e le relative prescrizioni di sildenafil (Viagra), tadalafil (Cialis) e vardenafil (Levitra, Vivanza) durante i primi cinque mesi di quest' anno. E non è tutto. Del consumatore-tipo delle pillole in questione, oltre all' «indirizzo», ora si conoscono anche molti altri tratti caratteristici. Si tratta in genere di un uomo sposato (75 per cento dei casi), con in tasca un diploma di scuola media superiore (38 per cento) o una laurea (20 per cento), pigro (l' 81 per cento non pratica alcuno sport) e, in un caso su due (48 per cento), fumatore. A tracciare questo identikit è un' indagine appena conclusa, condotta su mille uomini in cura per disfunzione erettile da esperti dell' Università dell' Aquila. «Si è trattato di un sondaggio molto diverso da quelli che vengono praticati di solito in questi casi» spiega Emmanuele Jannini, professore di Sessuologia nell' ateneo abruzzese. «Infatti, invece di ricorrere ai tradizionali sondaggi telefonici a campione, abbiamo deciso di proporre ai pazienti un questionario dettagliato in busta chiusa con la collaborazione dei medici di base e degli specialisti, con garanzia assoluta di anonimato per le risposte». E quest' ultimo aspetto si è rivelato decisivo per diversi dei dati raccolti, che, infatti, spesso, si discostano parecchio da quelli dei precedenti studi di questo tipo. L' esempio più significativo è sicuramente quello relativo alla «presunta monogamia» degli utilizzatori. Se infatti è vero che tre quarti dei consumatori di questi preparati sono sposati, l' anonimato delle risposte ha permesso di scoprire che tra di essi il 30 per cento ammette relazioni extraconiugali. «Il che, in realtà, non sorprende - commenta Jannini - perché questi farmaci permettono in molti casi di superare il timore di "fallire", tipico soprattutto delle relazioni occasionali in uomini non più giovanissimi e, quindi, è ragionevole pensare che abbiano contribuito a incoraggiare qualche "scappatella" in più». Se è vero che la disponibilità di rimedi contro i deficit erettivi ha reso i maschi meno insicuri, rimane invece difficile da sradicare il retaggio di una relazione causa-effetto quasi univoca tra problemi psicologici ed efficienza sessuale. La ricerca dell' Università dell' Aquila, infatti, ha permesso di svelare che ben il 63 per cento dei pazienti interpellati, sebbene piuttosto colti e informati, ritiene ancora che l' origine del loro problema sia da rintracciare sempre e solo nello stress o, in una crisi di coppia (25 per cento) o, ancora, nei «tradizionali» problemi sul lavoro (23 per cento). «Non che questi fattori non abbiano potenzialmente una forte incidenza sulla virilità» puntualizza Jannini. «Ma le risposte rivelano che fa ancora molta fatica a passare il concetto che i disturbi relativi alla salute sessuale maschile, soprattutto quando non sono occasionali, più che a fattori psico-ambientali vanno ascritti a problemi organici, in particolare di natura cardiovascolare, legati in buona parte allo stile di vita, come del resto i dati sulla sedentarietà e sul fumo emersi da questa e da molte altre indagini confermano». «Consola comunque - conclude il sessuologo - un altro rilievo dello studio, che indica come, almeno, si stia progressivamente accorciando il tempo che trascorre tra l' insorgenza delle prime difficoltà e il momento in cui ci si rivolge al medico. Il che rende tutto più facile». Luigi Ripamonti CORRIERE SALUTE Disfunzioni e rimedi Sul Corriere Salute in edicola domani con il «Corriere della Sera», un ampio servizio è dedicato proprio ai farmaci contro la disfunzione erettile. A tre anni dall' arrivo del primo di questi preparati, infatti, gli uomini hanno ora diverse opzioni tra cui orientarsi. Gli esperti spiegano come scegliere il preparato che meglio risponde alle diverse esigenze e aspettative, in base alle caratteristiche di efficacia e tollerabilità verso il prodotto ______________________________________________________________ Corriere della Sera 9 lug. ’04 UN' INIEZIONE DI STAMINALI PER CURARE L' INFARTO In 40 casi ha già funzionato Ricerche in Germania e Stati Uniti Porciani Franca MILANO - Sarà l' iniezione di cellule staminali la terapia dell' infarto dell' immediato futuro? A giudicare dalle prove a suo favore totalizzate in questi mesi, la strada sembra aperta. Esce oggi sulla rivista Lancet una ricerca realizzata da Helmut Drexler dell' università di Friburgo ad Hannover su 30 persone colpite da infarto che dimostra un netto miglioramento della funzione cardiaca sei mesi dopo l' iniezione di queste cellule, prelevate dal midollo osseo dello stesso paziente, nelle coronarie, i vasi che nutrono il cuore. L' iniezione, come in altre precedenti esperienze tedesche è stata fatta direttamente nelle coronarie in contemporanea all' intervento di angioplastica, la dilatazione dell' arteria ostruita (la situazione che ha provocato l' infarto) con un palloncino, senza aprire il torace. Più invasivo il metodo utilizzato dalla Scuola di Medicina dell' università di Pittsburgh in Pennsylvania che ha iniettato cellule staminali, anche queste prelevate dal midollo osseo del malato, direttamente nel muscolo cardiaco di dieci persone in contemporanea all' intervento di by-pass, a torace aperto. I risultati, presentati a Toronto in aprile, sembrano eccellenti: a sei mesi di distanza, la forza di contrazione dei cuori nutriti con le staminali è arrivata al 46%, mentre nei malati che hanno fatto solo il by-pass si è attestata sul 37%. Tentativi di autotrapianto di cellule staminali con un metodo analogo sono stati fatti anche in Italia, all' Ospedale di Mirano (Venezia) nel 2001 e due anni fa a Padova dal cardiochirurgo Gino Gerosa. «Quest' ultima strada è più invasiva, la tedesca è più dolce, ma in sostanza questi esperimenti stanno dimostrando che le cellule staminali del midollo, opportunamente purificate, hanno un effetto benefico sul cuore - commenta Attilio Maseri, direttore del Dipartimento di cardiologia dell' Ospedale San Raffale di Milano -. A sei mesi di distanza, i pazienti stanno sensibilmente meglio. E' evidente che a questi studi seguiranno altri, su numeri più consistenti. Io, però, mi chiedo se ha senso continuare ad iniettare staminali del midollo quando abbiamo scoperto che il cuore, all' apice e negli atri, ospita le "sue" cellule staminali. Piero Anversa, al New York Medical College, ha dimostrato nel ratto che iniettando nel cuore certi fattori di crescita è possibile potenziare questa riserva intrinseca di staminali fino a migliorare la funzione cardiaca del 44%. Credo che sia questa oggi la grande scommessa: insieme ad Anversa, che sta già lavorando sul cane, e ai colleghi tedeschi, pensiamo a come trasferire queste scoperte, sensazionali, sul paziente. Abbiamo in programma al San Raffaele il primo studio pilota fra sei mesi». Sempre sul Lancet in uscita oggi, Vincenzo Silani, dell' Istituto Auxologico italiano di Milano, fa il punto sulle possibilità terapeutiche delle cellule staminali per una malattia «orfana» di cure, la sclerosi laterale amiotrofica. Franca Porciani ______________________________________________________________ La Repubblica 8 lug. ’04 "CHI FUMA VIVE 10 ANNI DI MENO" Studio del medico che scoprì la relazione tra sigarette e cancro Fumare raddoppia la mortalità, ma smettendo presto si recupera Lo dice una ricerca iniziata nel '51 Studio pubblicato dall'autorevole British Medical Journal LONDRA - Fumare accorcia la vita di 10 anni. E' il principale risultato di uno studio durato mezzo secolo, il più lungo mai condotto sugli effetti delle sigarette. Secondo la ricerca pluridecennale, portata avanti dallo stesso medico che nel 1954 per la prima volta evidenziò la relazione tra il fumo e il cancro, smettere di fumare entro i 30 anni azzera totalmente i danni del tabacco. E' la prima volta che uno studio riesce a evidenziare i danni del fumo su un'intera generazione. I risultati sono sconcertanti: tra gli uomini nati negli anni Venti, i primi a diventare fumatori accaniti a causa del prezzo politico del tabacco durante la Seconda guerra mondiale, due terzi sono morti per il vizio. Tra i 35 mila soggetti studiati da Doll, il tasso di sopravvivenza a 70 anni è risultato dell'88 per cento per i non fumatori e del 71 per cento per i fumatori. Ma soltanto il 32 per cento dei fumatori arriva ad 80 anni, contro il 65 per cento dei non fumatori. "Lo studio dimostra chiaramente che fumare molto raddoppia il tasso di mortalità tra gli adulti e gli anziani", osserva il dottor Richard Peto, assistente di Doll. "Ma mostra anche che mettere di fumare limita i danni in maniera significativa". Il professor Doll, che oggi ha 91 anni, abbandonò le sigarette a 37 anni, quando lesse i primi risultati delle sue ricerche. Se avesse continuato a fumare, forse non avrebbe potuto vedere l'esito del suo lavoro: "Gli studi lunghi cinquant'anni sono molto insoliti in medicina, ma è ancora più insolito che un autore sia vivo dall'inizio alla fine della ricerca", osserva Richard Smith, direttore del British Medical Journal, che ha pubblicato lo studio. * "Negli ultimi decenni, la prevenzione e il miglior trattamento delle malattie ha dimezzato il tasso di mortalità tra i non fumatori", spiega il dottor Doll. "Ma questi progressi sono stati completamente annullati dai danni che il tabacco ha causato tra i fumatori". Lo studio di Doll sul fumo doveva durare, in origine, solo cinque anni. Vista la rilevanza dei risultati, il medico britannico, professore alla Oxford University, ha pensato di farlo proseguire. Da quando Doll ha iniziato le sue ricerche, il fumo ha ucciso 100 milioni di persone nel mondo. Si ritiene che, con i ritmi attuali, alla fine di questo secolo un miliardo di persone morirà a causa delle sigarette. ______________________________________________________________ Le Scienze 8 lug. ’04 DUE PEPTIDI ARRESTANO L'APPETITO Alla ricerca dell'origine del senso di sazietà In contemporanea con l'attuale epidemia di obesità, ci sono state molte scoperte scientifiche sul modo in cui il corpo controlla l'appetito e l'assunzione di cibo. Molte di queste ricerche hanno permesso di identificare un rapporto stretto fra il sistema endocrino gastrointestinale e il cervello nella regolazione dell'alimentazione. In particolare, gli ormoni in circolazione nell'organismo recano informazioni sul cibo ingerito e sull'appetito ai processi cerebrali che controllano l'alimentazione. Un team di ricercatori dell'University Hospital di Basilea, in Svizzera, ha ora aggiunto una nuova tessera al mosaico, studiando la colecistochinina (CCK) e il glucagon-like-peptide-1 (GLP-1), due segnali che indicano quando l'appetito è soddisfatto (il senso di "sazietà"). Entrambi i peptidi sono classici ormoni gastrointestinali che vengono messi in circolazione in risposta al consumo di cibo. Ricerche precedenti avevano indicato che questi peptidi partecipano al controllo dell'appetito nei soggetti sani e anche nei pazienti che soffrono di obesità o di diabete di tipo II. Per esplorare ulteriormente le possibili interazioni dei due segnali, i ricercatori hanno esaminato gli effetti di CCK-33 e GLP-1 in uno studio pubblicato sulla rivista "American Journal of Physiology - Regulatory, Integrative and Comparative Physiology". I risultati mostrano che l'iniezione di dosi fisiologiche dei due peptidi nei volontari riduce il consumo di calorie, e che l'infusione intravenosa contemporanea di GLP-1 e CCK-33 può produrre marcati effetti di inibizione dell'appetito. ______________________________________________________________ Le Scienze 8 lug. ’04 UNA TOSSINA PROTEGGE I NEONATI DALL'ASMA Confermata la controversa ipotesi dell'igiene I bambini che abitano in case contenenti alti di livelli di endotossine, composti batterici che si trovano nella polvere depositata negli appartamenti, hanno meno probabilità di sviluppare eczema e allergie. Lo sostiene uno studio condotto dal pediatra e immunologo Wanda Phipatanakul del Children's Hospital di Boston e della Harvard Medical School. Lo studio, insieme ad altri lavori recenti, conferma la controversa "ipotesi dell'igiene", una teoria secondo cui l'esposizione ad agenti infettivi o infiammatori provoca cambiamenti nel sistema immunitario dei bambini che riducono il loro rischio di sviluppare in seguito condizioni legate alle allergie. Molti studi hanno preso in esame la relazione fra le endotossine e le allergie, ma questo è uno dei primi ad osservare gli effetti dell'esposizione alle endotossine sull'eczema, uno dei disturbi allergici più diffusi nell'infanzia. I ricercatori hanno seguito circa 500 neonati, dai 2 mesi in su, che vivono nell'area metropolitana di Boston. Hanno raccolto campioni di polvere dalle loro case e li hanno analizzati per individuare i livelli di endotossina, un componente delle pareti cellulari di diversi batteri. I risultati mostrano che più endotossina si trova in casa, meno probabilità hanno i bambini di essere diagnosticati con un eczema nel loro primo anno di vita. © 1999 - 2004