RICERCATORI SUL PIEDE DI GUERRA CONTRO LA RIFORMA DELLA DOCENZA - "NUOVE REGOLE PER I CONCORSI" - DOCENTI E RETTORI: CONCORSI, GIUSTO CAMBIARE LE REGOLE - "L'UNIVERSITÀ SOFFRE UNA CRISI DI CREDIBILITÀ - UNIVERSITÀ, QUANTE ILLUSIONI: LACCHÈ, FIGHETTE E DOTTORANDI - IL CONTRATTO ELASTICO FA FELICE IL RICERCATORE - NELLE UNIVERSITÀ DOCENTI SEMPRE PIÙ ANZIANI - «LA RICERCA NON VA COSTRUITA SULLA GARANZIA DEL POSTO FISSO» - IL LAUREATO TRIENNALE? NON PUÒ CHIAMARSI “DOTTORE” - ITALIA AVARA DI LAUREATI SCIENTIFICI - SCUOLA, PIÙ SPESE SENZA QUALITÀ - FUGA DALL'UNIVERSITÀ SENZA LAUREA SEI SU DIECI - ESAMI TROPPO FACILI? LA LEZIONE INGLESE - KAELEY: I FONDI PUBBLICI* ROVINANO LA RICERCA - I RICERCATORI: UNITI SI VINCE - ================================================================== SANITÀ, SÌ ALL’INTESA TRA REGIONE E UNIVERSITÀ: PARTONO ALLE LAUREE SANITARIE - SANITÀ, APPROVATA L’INTESA REGIONE-UNIVERSITÀ - AZIENDA MISTA: UNIVERSITÀ E ASL PRESTO SPOSI (2006) - I PRIMARI SARDI BOCCIANO IL DOCUMENTO REGIONE-UNIVERSITÀ - GRADUATORIE DISPONIBILI SU INTERNET - PUBBLICATE LE GRADUATORIE PER IL CORSO DI ODONTOIATRIA - MEDICINA, ASSEDIO ALLA FACOLTÀ - QUEI MEDICI IN CONFLITTO (DI INTERESSI) - INFERMIERI: POCHI SOLDI E POCO PRESTIGIO - BORSE DI STUDIO PER MEDICI, C’È IL VIA LIBERA - SCOPERTA UNA MOLECOLA NEL CERVELLO CHE «INDUCE» IPERTENSIONE E DIABETE - DAI GATTI BIRMANI LA CURA PER IL DIABETE DI TIPO 2 - SAN RAFFAELE: UN PAZIENTE VIRTUALE PER ADDESTRARE I CHIRURGHI - ARTRITE KO SENZA FARMACI - ATOMI: ECCO LA STRUTTURA PERFETTA - DIVAMPA LA POLEMICA SUL VACCINO CONTRO LA «LINGUA BLU» DEGLI OVINI - LA BOCCA SANA FA BENE AL CUORE - DIABETE E PRESSIONE SANGUIGNA - TOGLIERE LE TONSILLE SERVE A POCO - L'AMALGAMA DENTALE NON È NOCIVO - ___________________________________________ Il Messaggero 12 Sett.04 RICERCATORI SUL PIEDE DI GUERRA CONTRO LA RIFORMA DELLA DOCENZA LA LEGIGE IN AULA ALLA CAMERA di LUIGI PASQUINELLI ROMA - L'università italiana rischia la paralisi. 1 ricercatori sono di nuovo sul piede di guerra contro la riforma della docenza c stanno cercando di impedire la ripresa delle lezioni prevista in tutta Italia per il 4 ottobre. Sano 2 1 mila, tanti e arrabbiati, costituiscono il 40 per cento circa dei prof, gran parte della docenza è affidata a loro. Se decideranno di incrociare le braccia l'attività didattica negli atenei avrà tante di quelle falle da rischiare la fine del Titanic. La si trascina da mesi. Da quando il ministro Moratti annunciò una riforma dello stato giuridico dei docenti universitari e nuovi modi di accesso alla professione accademica. Il provvedimento nella scorsa primavera scatenò scioperi generali del settore, cortei nelle strade, sit-in davanti al ministero, assemblee, incontri e raduni dì tutti i tipi, compresi gli esami in piazza, a due passi da Palazzo Chigi. Senza ottenere grandi risultati. Il disegno di legge è stato infatti approvato l'ultimo giorno di luglio dalla commissione cultura della Camera e sta ora per approdare in aula. «Tutti i punti da noi contestati sono passati, gli emendamenti delle opposizioni respinti», dice Marco Merafina, a capo del coordinamento nazionale dei ricercatori. Se la riforma Moratti diventerà legge la figura attuale del ricercatore sparirà, i numerosi soggetti della categoria verranno messi "a esaurimento". Al loro posto le università potranno ingaggiare laureati con contratti a termine quinquennali rinnovabili. Anche le carriere dei prof associati e ordinari diventeranno più precarie, con periodi di prova di tre o sei anni, prima dell'agognata assunzione definitiva. I ricercatori che, essendo i più penalizzati dalla riforma sono diventati l'avanguardia della rivolta, hanno deciso quindi di non fare più da tappabuchi sostituendo i professori mancanti con affidamenti e supplenze. Se l'adesione alla protesta sarà compatta molti corsi accademici non potranno partire. «I docenti ordinari e associati - dice Marafina - non bastano per tutti i corsi_ Così ogni anno le università emettono dei bandì, indirizzati a noi ricercatori, per le cattedre vacanti. Noi abbiamo chiesto a tutti i colleghi di non rispondere ai bandi. l'adesione all'università di Pisa è stata del cento per cento. Attività bloccata anche a Palermo, Parma. Da noi, alla Sapienza di Roma hanno aderito Scienze, Ingegneria, le quattro facoltà di Lettere, le due di Psicologia, Architettura. Abbiamo più difficoltà a convincere le facoltà economico-giuridiche». Basterà un mese di "sciopero bianco" per mandare in tilt l'anno accademico. «Lo studente - spiega Maurizio Trebbi del coordinamento dei ricercatori - è obbligato a frequentare i due terzi delle lezioni. Ogni modulo dura un mese. Se nel suo piano di studi c'è una materia che salta dovrà aspettare l'anno successivo per recuperare i crediti perduti. Le università si bloccheranno per forza, sballerà tutto. Noi ci atterremo, strettamente, a quello che la legge ci prescrive». Non sono isolati, i ricercatori. Hanno ricevuto la solidarietà di studenti e professori. «II senato accademico - di:e Gianni Orlandi, pro-rettore della Sapienza - ha appena approvato all'unanimità una mozione di critica al Ddl della Moratti e di appoggio ai ricercatori. Tanti corsi rimarranno scoperti, gran parte del sistema si regge grazie alla loro attività». Il Fronte della protesta ha indetto per il 20 settembre un incontro al Rettorato della Sapienza, l'Università che guida l'opposizione alla riforma, per spiegare i motivi dell'agitazione. II giorno do)o la Conferenza dei Rettori, la Crui, presenterà all'Auditorium di Roma la relazione annuale sullo stato dell'Università. «Pronti a bloccare l’apertura dell'anno accademico» ________________________________________________________ Corriere della Sera 14 Sett.04 "NUOVE REGOLE PER I CONCORSI" "Episodi di malcostume nella selezione dei professori universitari: bisogna cambiare le regole dei concorsi e riportarli a livello nazionale". È l'appello di scienziati, rettori e docenti per arginare la "crisi di credibilità" dell'università italiana. ROMA. Premi Nobel, scienziati, rettori, docenti lanciano un appello al governo: i concorsi universitari invece di selezionare i migliori studiosi stanno coprendo di discredito il nostro sistema per i ripetuti episodi di corruzione. Bisogna cambiare le regole prima che sia troppo tardi con un'apposita iniziativa legislativa, stralciando la materia dei concorsi dal testo delle grandi riforme sull'università la cui discussione non potrà necessariamente esaurirsi in tempi brevi. "È urgente che i concorsi siano fatti a livello nazionale - dichiara il professor Sabino Cassese - e con un solo vincitore". La selezione del personale docente non funziona o funziona molto male, spiegano i firmatari dell'appello, perché è demandata alle singole università. Ai concorsi locali, introdotti nel 1998 dall'ex ministro Luigi Berlinguer come rimedio alle lungaggini delle selezioni nazionali (tra il 1980 e il 1999 ce ne sono stati 6 invece dei 18 previsti) si è accompagnata una caduta nel controllo etico da parte delle singole comunità accademiche. In buona sostanza la dimensione locale e il conseguente calo di trasparenza delle procedure ha fatto sì che gli interessi dei singoli atenei prevalessero sull'interesse generale, ossia una selezione fondata sul merito scientifico. Riccardo Varaldo, direttore della Scuola superiore Sant'Anna di Pisa ci spiega gli effetti perversi del localismo: "La facoltà indica le caratteristiche del candidato. Lo scopo è quello di giustificare la chiamata di un esperto locale che non sarebbe mai in grado di vincere un concorso. La commissione, che rappresenta il potere della disciplina oggetto della selezione, giudica in base alle esigenze locali e il gioco è fatto". "Con le regole attualmente in vigore - aggiunge il direttore della Sant'Anna - i vincitori sono due: la commissione garantisce il primo alla facoltà e si riserva la scelta del secondo. Alla fine tutto si risolve in uno scambio". "Il meccanismo del concorso unito alle difficoltà economiche in cui le università si dibattono - dice Salvatore Settis, direttore della Normale di Pisa - inducono fatalmente a scegliere il candidato locale, prescindendo dalla qualità, perché il candidato locale costa meno in quanto percepisce già uno stipendio e tutto si riduce a un aumento. Questo però è l'esatto contrario di una sana competitività". Giulio Benedetti ________________________________________________________ Corriere della Sera 15 Sett.04 DOCENTI E RETTORI: CONCORSI, GIUSTO CAMBIARE LE REGOLE Il mondo accademico risponde all’appello di scienziati e premi Nobel pubblicato ieri dal "Corriere della Sera" Anche An insiste sulla necessità di nuove norme. Moratti: tempi brevi per la riforma dell’università ROMA - Incontra un vasto consenso l’appello per cambiare le attuali regole dei concorsi universitari che gettano discredito sugli atenei perché non selezionano i docenti migliori. Personalità accademiche come Rita Levi Montalcini, Sabino Cassese, Adriano De Maio, Carlo Secchi, Salvatore Settis, Riccardo Varaldo e altri ancora hanno chiesto al ministro Moratti di stralciare dalla riforma dello stato giuridico dei docenti universitari approvata dal governo lo scorso gennaio e ora all’esame del Parlamento la parte relativa alla selezione. Letizia Moratti ha risposto all’appello indirettamente, incontrando i presidenti e i membri della maggioranza delle commissioni Cultura. Il ministro ha chiesto che il provvedimento sia discusso in tempi brevi. I parlamentari hanno messo a punto le ultime modifiche. Non ci sarà una leggina sui concorsi, come chiedeva l’appello, ma tutto il provvedimento subirà un’accelerazione. Un risultato, nella sostanza, non molto diverso dal contenuto dell’appello se i tempi chiesti dal ministro verranno rispettati. La Camera potrebbe approvare la riforma e quindi anche le nuove regole sui concorsi entro ottobre, prima della Finanziaria, ed entro la primavera potrebbe farlo il Senato. La richiesta resta però pressante. Gli attuali meccanismi, sostengono i firmatari della proposta, consentendo di ritagliare le selezioni su misura del candidato locale, impediscono il prevalere dell’interesse generale, ossia il reclutamento fondato sul merito scientifico. Anche per i rettori la via maestra è quella di una nuova legge sui concorsi. "Abbiamo sempre sostenuto l’opportunità di uno stralcio sui concorsi - dice Mario Tosi, presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui) - . Nella proposta sullo stato giuridico ci sono diversi aspetti che non ci convincono. Approviamo le nuove regole sulla selezione dei docenti. Per quanto riguarda gli altri aspetti, rimeditandoli con calma, troveremo delle soluzioni accettabili". La necessità di un cambiamento delle regole dei concorsi è sostenuto anche da due tra i più rappresentativi sindacati dei docenti universitari, il Cipur e l’Uspur. "Siamo sempre stati dell’idea del concorso nazionale - afferma Paolo Manzini, segretario nazionale del Cipur - . Dobbiamo evitare che possano arrivare da dritta e manca persone non qualificate". Nella maggioranza, An sta esercitando una pressione per un’approvazione rapida della riforma dei concorsi. "Ci siano sempre battuti per le selezioni nazionali - dichiara il senatore Giuseppe Valditara, responsabile scuola e università di An -. I concorsi gestiti localmente hanno causato un ulteriore degrado del sistema universitario. Il localismo, infatti, ha finito per accentuare la logica di scambio e spesso ha premiato i peggiori". Il ministro Moratti ha chiesto alla sua maggioranza di approvare rapidamente la riforma dello stato giuridico dei docenti universitari. Un tema delicatissimo che in passato ha visto naufragare più di una proposta. Proprio questa consapevolezza ha indotto i firmatari dell’appello a puntare sullo stralcio. "L’urgenza è lagata al fatto che non ci possiamo più permettere una situazione concorsuale come quella attuale - spiega il professor Adriano De Maio, rettore della Luiss ed ex coordinatore della commissione di consulenza al ministro sulle riforme universitarie -. Se è lecito estrapolare dall’esperienza passata, la discussione in aula porterà a tempi non brevissimi". "Se il ministro ha già stralciato dalla riforma sullo stato giuridico alcune importanti norme sul Cun - conclude Di Maio - potrebbe farlo anche per i concorsi". G. Ben. ________________________________________________________ Corriere della Sera 14 Sett.04 "L'UNIVERSITÀ SOFFRE UNA CRISI DI CREDIBILITÀ È necessario un forte rilancio dell'etica" "Ripristinare criteri di valutazione obiettiva Superare gli interessi di sede o di corporazione" Nessun Paese è migliore della sua università e nulla può sostituire l'università nel compito di formare la classe dirigente di domani e produrre conoscenza. Nonostante le sue grandi tradizioni e alcune sue esemplari realtà, l'università italiana rischia però seriamente di non rispondere più a questi ruoli, a causa di meccanismi locali e fortemente settorializzati di selezione del corpo docente, controllabili da ristrette corporazioni. In tutto il mondo il reclutamento dei docenti si basa sulla cooptazione, ma questo principio funziona solo se libero da condizionamenti e incentrato esclusivamente sul merito scientifico dei candidati, sulla qualità delle ricerche e sulla loro rispondenza a un disegno complessivo. Essenziale è che la trasparente e rigorosa applicazione di tale principio venga percepita e riconosciuta nel Paese, perché l'università possa meritare quel rispetto e considerazione che giustifica la richiesta di una più ampia dotazione di risorse. Siamo consapevoli, oltre che delle difficoltà e dei ritardi che condizionano l'università italiana, anche della crisi di credibilità di cui essa soffre. Gli attuali meccanismi concorsuali, oltre a consentire forme irragionevoli di frazionamento del sapere e degli insegnamenti, favoriscono anche episodi di malcostume come quelli recentemente venuti alla pubblica attenzione. È necessario ritrovare un forte slancio nell'etica della vita universitaria, ripristinando l'assoluta priorità dei criteri di valutazione obiettiva dei meriti scientifici e didattici, rispetto alle esigenze e interessi di sede o corporazione. Non solo vanno ripristinati i concorsi nazionali - sapendo che essi stessi sono già locali in rapporto alla realtà europea e alla natura del sapere, che è universale - ma devono anche essere reintrodotti correttivi alle tentazioni corporative. Per questi motivi proponiamo al governo di farsi promotore con urgenza di una iniziativa legislativa per la modifica della vigente disciplina dei concorsi universitari. Anche attraverso quest'atto passa la difficile strada di una università in crescita al servizio del Paese. ___________________________________________ L’Indipendente Sett.04 UNIVERSITÀ, QUANTE ILLUSIONI: LACCHÈ, FIGHETTE E DOTTORANDI Sognare la carriera accademica. Le difficoltà dell'aspirante ricercatore diventano un libro, tra portaborse, raccomandazioni e commissioni che preferiscono il sesso "debole" È ANCORA - chissà perché - qualche giovanotto di belle speranze che, presasi la laurea, coltiva il sogno della carriera universitaria. Basterebbe fargli notare che non conviene: qualche anno di umiliante gregariato al servizio del potente di turno non glielo toglie nessuno e prima di arrivare al concorso da ricercatore, ne passano di anni, impastoiato nella più triste e avvilente terra di nessuno, negli interstizi non riconosciuti dei dipartimenti accademici. D'altronde, a meno che non si abbiano potentissimi santi in paradiso, all'agognata meta ci si arriva solo coi capelli bianchi e con due-tre figli a carico. E dopo che per secoli si è sbarcato il lunario alla meno peggio, raccattando finanziamenti e borse di studio sempre più esigue. IL mito del dottorato Prima il dottorato (un tempo, almeno, il milioncino e mezzo lo intascavi di sicuro; adesso, si rischia di farlo pure gratis et amore Dei), poi, raschiando il fondo del barile, l'inevitabile trafila di post dottorato, assegni di ricerca e qualche provvidenziale collaborazione a istituzioni e case editrici che ti ricompensano con tanti ringraziamenti e qualche briciola. Questo passa il convento. Eppure, nonostante i poco esaltanti orizzonti dello studioso in erba, la tentazione rimane. Fammi vedere se un posticino nell'agognata cittadella universitaria lo riservano anche a me, che ho passioni sincere, ambizioni culturali e il desiderio di non finire intruppato negli anonimi anfratti delle burocrazie aziendali. È questo il sogno che coltiva il protagonista del romanzo di esordio di Maurizio Makovec, Lacchè, fighette e dottorandi (Clinamen, euro 14,70): un giovane laureato con una tesi controcorrente su Céline, già osteggiato durante il suo periglioso iter studentesco per i suoi gusti anticonformisti, non si rassegna a farsi da parte e continua a carezzare le sue aspirazioni. Belle intenzioni. Belle e totalmente velleitarie. Ostinatamente determinato a combattere la sua donchisciottesca battaglia contro i mulini a vento, Fernando inizia così la sua sciagurata tenzone senza speranza contro l'edificio inespugnabile dell'università italiana, dove se non si dispone di belle tette e un'innata disposizione - da lacchè, appunto - all'adorazione ossequiosa dei baroni locali, di carriera se ne fa davvero poca. L'avventura del povero cristo non può che finire male: cornuto e mazziato, esposto al divertito ludibrio da una commissione di dottorato, che ha già designato le tre elette privilegiate - naturalmente avvenenti e palesemente disponibili - e che si accanisce con cinica e sadica tracotanza sull'ingenuo candidato. Alla fine, al malcapitato, condannato mestamente all'umiliazione e alla sconfitta, non rimane che la rabbiosa speranza di farsi giustizia da solo, di fare "un bel servizietto" ai Sapor rosa, ai Cinghialini (come non riconoscere in queste rinominazioni due campioni dell'italianistica?) e a tutti i baroni, detentori di un potere illimitato e arrogante, spocchioso e insolente. Attraverso le picaresche acrobazie del suo protagonista, Makovec esprime la sua talentuosa scorrettezza politica, denunciando il malcostume imperante nelle università italiane. Col suo stile celiniano e irriverente, tutto nervi e oralità, la sua testimonianza biliosa e dissacrante diverte e apre gli occhi su una realtà che tutti o quasi conoscono, ma che nessuno aveva avuto il coraggio di raccontare. È un romanzo che, in realtà, è un saggio.GIUSEPPE IANNACCONE ___________________________________________ Corriere della sera 13 Sett.04 IL CONTRATTO ELASTICO FA FELICE IL RICERCATORE SCIENZA E BUROCRAZIA Regole nuove per far fronte a budget ristretti Pochi soldi? L'Infm di Genova offre laboratori sempre aperti e seminari. Burocrazia e scienza non sono mai andate molto d'accordo. Ma in molte istituzioni pubbliche e private la ricerca scientifica è più produttiva quando si sposa a una filosofia manageriale efficace. Nel giro di una quindicina d'anni, l'Istituto nazionale per la fisica della materia di Genova - creato nel 1987 come consorzio interuniversitario, convertito in istituto nazionale nel 1994 e oggi in corso di integrazione nell'ambito del Cnr - è diventato un doppio laboratorio. Mentre i suoi ricercatori, ripartiti in una quarantina di gruppi, esplorano i segreti della materia su scale infinitesimali, la direttrice generale Manuela Arata e i suoi collaboratori cercano di far quadrare il cerchio della gestione «aziendalista» dei cervelli. Dimostrando che una burocrazia creativa e umana può essere compatibile con la felicità -e la produttività - dello scienziato. «Una rete di ricerca come la nostra non viene semplicemente "diretta" - spiega Arata riferendosi a una struttura distribuita sull'intero territorio nazionale, con due laboratori di Ricerca e Sviluppo (quello di Trieste e il distaccamento presso STmicroelectronics di Milano), e sette laboratori regionali, per un totale di 2.900 persone nelle varie università collegate più i 300 ricercatori interni e oltre 350 dipendenti. «Deve piuttosto essere aiutata ad auto- organizzarsi. Nei primi tempi, ai convegni di organizzazione aziendale ero solita presentarmi come "esperta di disorganizzazione"». AL posto delle rigide strutture gerarchiche delle grandi organizzazioni, l'Infm offre ai suoi scienziati giovani e meno giovani il supporto di un amorevole affiancamento. «Per la prima volta-afferma la direttrice generale - si sono sentiti coccolati». Purtroppo, nella patria di tante intelligenze brillanti (e così spesso costrette a scegliere la strada dell'esilio), non è facile trovare gli strumenti amministrativi giusti. «Come in altre nazioni, la ricerca deve poter contare su due leve: l'inquadramento e la retribuzione». Di fronte alle vistose carenze su entrambi i fronti, a Genova hanno sperimentato regole nuove. Insieme a un bilancio di tipo aziendalistico-ne11987 il budget annuale del consorzio era di due miliardi e mezzo, nel 2003 il giro d'affari dell'Istituto è dell'ordine dei cento milioni di euro - l’organizzazione applica una tipologia diversificata di contratti, cercando ove possibile di imitare i passaggi carrieristici («tenure track») del modello americano. Se le retribuzioni sono insufficienti, si cercano formule di incentivazione alternative, per esempio aiutando il ricercatore a frequentare corsi e importanti convegni all'estero. Un elemento chiave è un processo di gestione delle risorse umane ben calibrato affidato, guarda caso, a una direttrice altrettanto dinamica e motivata. «Gestire la risorsa umana, tanto più in un contesto come questo, non significa certo amministrare una serie di costi-sottolinea Laura Strazzeri -. Qui i cervelli sono la vera fonte di creazione del valore e la conoscenza, le idee, non si possono forzare. AL massimo possiamo cercare di stimolarle». I1 management della ricerca scientifica diventa insomma un aspetto, per nulla scontato, della gestione della conoscenza. Un controllo reso ancora più difficile dalla struttura reticolare di un Istituto che ha una molteplicità di sedi e articolazioni. «La distanza-prosegue Strazzeri - rende ancora più complicato gestire le informazioni. I nostri ricercatori lavorano via email, accedono alle strutture fuori orario, partecipano ai seminari all'estero». Ugualmente complessa e dinamica è la procedura per la valutazione del rendimento, il catalogo continuamente aggiornato dell'output degli scienziati. Per affrontare questa sfida, il dipartimento guidato da Strazzeri ha sviluppato una strategia innovativa, anche adottando strumenti software come quello messo a punto con la stretta collaborazione della torinese Byte, specializzata in piattaforme Erp e in soluzioni per il personale («Uomo, lavoro tecnologia» è il titolo del convegno che Byte organizzerà a Milano il prossimo 14 ottobre, sui principali temi della competitività del sistema Italia). I numeri dell'Istituto danno ragione alle due materne signore della ricerca, diventate tra l'altro protagoniste in ambito formativo. Gli scienziati dell'Infm hanno pubblicato nel 2002 oltre 2.500 articoli su riviste internazionali, firmando nel complesso 75 brevetti. Dal 1998 a oggi si contano trenta società nate da spin-offe i rapporti con l'industria privata sono molto intensi. Elevata è la percentuale di giovani (il 40% degli associati ha meno di 35 anni) e di donne. E si attesta sul 18% la percentuale di ricercatori italiani provenienti dall'estero. Non mancano, infine, le iniziative per la promozione delle attività scientifiche all'esterno dell'Istituto, con una serie di mostre ed eventi che dal 1996 hanno attirato 140 mila visitatori. Il prossimo 28 ottobre, a Genova, apriranno i battenti della seconda edizione del Festival della Scienza, la fiera-spettacolo della divulgazione ideata e avviata da questa fucina di cervelli sapientemente gestiti. Andrea Lawendel ___________________________________________ Il sole 24Ore 13 Sett.04 ITALIA AVARA DI LAUREATI SCIENTIFICI UNIVERSTÀ Siamo penultimi per numero di dottori – Neiel Governo «bonus» per gli studenti Nonostante il raddoppio degli ingegneri, i titoli tecnici scendono al22;8% del totale, il 10% in meno rispetto al '99 Incentivi fiscali e prestiti d'onore per chi si iscrive alle facoltà «strategiche». Sono queste le misure, già attivate singolarmente da alcuni atenei grazie anche a un finanziamento di tre milioni di curo stanziato can un decreto dell'ottobre scorso (si vedano le schede in pagina), che il ministro dell'Economia, Domenico Siniscalco, ha inserito nelle linee guida della Finanziaria 2005 per recuperare il ritardo italiano in alcuni settori chiave per lo sviluppo. Come leggere i dati. La strada da compiere è molta, e i dati elaborati dallo European Innovatian Scoreboard, l'organismo istituito dalla Ue dopo il Consiglio d'Europa di Lisbona del 2000, lo mostrano in modo evidente. Il nostro Paese si colloca al penultimo posto nella classifica sulla «densità» dei giovani scienziati, seguito solo dal piccolo Lussemburgo e lontano dalla media europea e dai Paesi più «virtuosi». Gli ultimi anni hanno registrato un crollo delle lauree scientifiche, che nel '99 rappresentavano il 32,6% del totale e oggi vedono la loro quota assottigliarsi al 22,8%. La crisi si concentra nelle scienze pure perché i laureati in ingegneria, compresi nel calcolo totale, negli stessi anni sono quasi raddoppiati, passando dai 10mila del '99 agli oltre 30mila del 2003. «I dati statistici europei - spiega Enrico Predazzi, presidente della conferenza dei presidi delle facoltà scientifiche e preside di scienze a Torino - vanno letti con molta cautela, perché confrontano percorsi di studio diversi fra loro. Mentre alcuni Paesi risalgono la classifica grazie alle lauree brevi; in Italia i titoli triennali sono apparsi solo recentemente. Se limitiamo il raffronto ai curricula più lunghi; infatti, il nostro Paese recupera posizioni in graduatoria». Le dimensioni delle aziende. Tuttavia, Predazzi riconosce che «i limiti della realtà italiana sono evidenti; í ricercatori sano troppo pochi, È mancata una reale politica industriale a lungo termine, e lo dimostrano operazioni autolesioniste come la distruzione di un'industria nucleare che era all'avanguardia, il tracollo di un fiorente comparto chimico e le difficoltà del settore meccanico. In questo modo - conclude - l’italia è tagliata fuori da tutti i settori più avanzati». La ritirata della grande industria nazionale da molti comparti strategici è il primo freno allo sviluppo delle lauree scientifiche anche per Mario D'Ambrosia, presidente dell'Associazione italiana dei direttori del personale (Aidp), che mette l'accento anche sulla «ridotta vocazione internazionale dei nostri studenti. Non è un caso - aggiunge - che la globalizzazione in questi settori stia favorendo tutti i Paesi in cui l'inglese è una lingua parlata comunemente, a partire dall'India». Il presidente dei responsabili delle risorse umane sottolinea anche il ruolo delle aziende, che «devono creare centri di eccellenza in stretto collegamento con le università. Per raggiungere questo scopo, però, gli atenei devono abbandonare un po' del loro purismo accademico, e creare risultati utilizzabili dalle imprese». Pachi docenti. Chi ha scelto questa strada, come l'Università beneventana del Sannio (capofila del Centro regionale di competenza sulle lct che opera a stretto contatto con più di 40 imprese), rileva però anche altri problemi. «Un freno decisivo - sottolinea il rettore Aniello Cimitile - è la ridotta capacità di offerta didattica, perché in alcuni settori cruciali per l'innovazione docenti e ricercatori sono pochi. Un corso di laurea scientifico comporta costi maggiori alla media, e non è sorretto da un'adeguata strategia a livello ministeriale nell'assegnazione dei fondi». Il risultato è paradossale e non si verifica solo al Nord perché, a detta dì Cimidle, «anche in Campania molte aziende sono alla disperata ricerca di ingegneri informatici che non riescono a trovare». DAVIDE CIONFRINI GIANNI TROVATI ________________________________________________________ Il Messaggero 15 Sett.04 NELLE UNIVERSITÀ DOCENTI SEMPRE PIÙ ANZIANI entro dieci anni quasi metà andrà in pensione ROMA - Può sembrare curioso, visto che Darwin nella scuola è stato messo in ombra, ma il piano del governo si apre con una sua citazione. Eccola, tradotta: «Non è il più forte che sopravvive, nè il più intelligente, ma chi è più pronto al cambiamento». Il «cambiamento» è l’idea sottesa al piano, che rimanda ad un altro problema: quello del «capitale umano» e del suo «utilizzo». Partiamo dalle cifre: «Attualmente i ricercatori in Italia (inclusi i docenti universitari, dati Istat 2001) - pagina 14 del piano - sono complessivamente, per il settore pubblico e quello privato, 66.702, di cui 40.152 nel settore pubblico e 26.550 in quello privato. Anche in questo caso - continua il testo - parallelamente a quanto risulta per i finanziamenti esiste un’ampia sproporzione a favore del settore pubblico». E giù confronti con l’Europa, gli Usa e il Giappone. Oltre alla «sproporzione» del numero di ricercatori «nel pubblico» l’altro dato che viene sottolineato è quello dell’«età» considerata «scienficamente produttiva». «Per quanto attiene - il brano inizia a pag 14 e prosegue sulla 15 - al personale docente e ricercatore delle Università italiane, i dati disponibili indicano un progressivo invecchiamento dei docenti di ruolo. Nel 2001 solo il 5% aveva un’età compresa fra i 24 e i 34 anni, a fronte del 13% di quindici anni prima quando oltre il 60% dei docenti universitari si collocava nella fascia di età considerata scientificamente produttiva, vale a dire quella compresa fra i 24 e i 44 anni», percentuale scesa al 29% nel 2001. Poi, si parla del grande esodo: «Entro il 2017 raggiungeranno l’età della pensione circa 25.000 docenti universitari, il che rappresenta oltre il 45% del totale dell’attuale corpo docente». E si parla del «ricambio generazionale» che avverrà con una «nuova e più flessibile organizzazione del lavoro» e un «processo di ridistribuzione delle risorse umane». Il capitolo età si conclude con un’altra considerazione: «Situazione analoga negli Enti di ricerca. Il corpus dei ricercatori del Cnr ha un’età media di 46 anni, e, considerando il solo personale di ruolo, arriva a 48,7 anni». Dati del ’99, da allora sono trascorsi altri cinque anni. A. Ser. ________________________________________________________ Il Messaggero 12 Sett.04 «LA RICERCA NON VA COSTRUITA SULLA GARANZIA DEL POSTO FISSO» di LUIGI PASQUINELLI ROMA L’università italiana rischia la paralisi. I ricercatori sono di nuovo sul piede di guerra contro la riforma della docenza e stanno cercando di impedire la ripresa delle lezioni prevista in tutta Italia per il 4 ottobre. Sono 21 mila, tanti e arrabbiati, costituiscono il 40 per cento circa dei prof, gran parte della docenza è affidata a loro. Se decideranno di incrociare le braccia l’attività didattica negli atenei avrà tante di quelle falle da rischiare la fine del Titanic. La protesta si trascina da mesi. Da quando il ministro Moratti annunciò una riforma dello stato giuridico dei docenti universitari e nuovi modi di accesso alla professione accademica. Il provvedimento nella scorsa primavera scatenò scioperi generali del settore, cortei nelle strade, sit-in davanti al ministero, assemblee, incontri e raduni di tutti i tipi, compresi gli esami in piazza, a due passi da Palazzo Chigi. Senza ottenere grandi risultati. Il disegno di legge è stato infatti approvato l’ultimo giorno di luglio dalla commissione cultura della Camera e sta ora per approdare in aula. «Tutti i punti da noi contestati sono passati, gli emendamenti delle opposizioni respinti», dice Marco Merafina, a capo del coordinamento nazionale dei ricercatori. Se la rifoma Moratti diventerà legge la figura attuale del ricercatore sparirà, i numerosi soggetti della categoria verranno messi ”a esaurimento”. Al loro posto le università potranno ingaggiare laureati con contratti a termine quinquennali rinnovabili. Anche le carriere dei prof associati e ordinari diventeranno più precarie, con periodi di prova di tre o sei anni, prima dell’agognata assunzione definitiva. I ricercatori che, essendo i più penalizzati dalla riforma sono diventati l’avanguardia della rivolta, hanno deciso quindi di non fare più da tappabuchi sostituendo i professori mancanti con affidamenti e supplenze. Se l’adesione alla protesta sarà compatta molti corsi accademici non potranno partire. «I docenti ordinari e associati dice Marafina non bastano per tutti i corsi. Così ogni anno le università emettono dei bandi, indirizzati a noi ricercatori, per le cattedre vacanti. Noi abbiamo chiesto a tutti i colleghi di non rispondere ai bandi. L’adesione all’università di Pisa è stata del cento per cento. Attività bloccata anche a Palermo, Parma. Da noi, alla Sapienza di Roma hanno aderito Scienze, Ingegneria, le quattro facoltà di Lettere, le due di Psicologia, Architettura. Abbiamo più difficoltà a convincere le facoltà economico-giuridiche». Basterà un mese di ”sciopero bianco” per mandare in tilt l’anno accademico. «Lo studente spiega Maurizio Trebbi del coordinamento dei ricercatori è obbligato a frequentare i due terzi delle lezioni. Ogni modulo dura un mese. Se nel suo piano di studi c’è una materia che salta dovrà aspettare l’anno successivo per recuperare i crediti perduti. Le università si bloccheranno per forza, sballerà tutto. Noi ci atterremo, strettamente, a quello che la legge ci prescrive». Non sono isolati, i ricercatori. Hanno ricevuto la solidarietà di studenti e professori. «Il senato accademico dice Gianni Orlandi, pro-rettore della Sapienza ha appena approvato all’unanimità una mozione di critica al Ddl della Moratti e di appoggio ai ricercatori. Tanti corsi rimarranno scoperti, gran parte del sistema si regge grazie alla loro attività». Il fronte della protesta ha indetto per il 20 settembre un incontro al Rettorato della Sapienza, l’Università che guida l’opposizione alla riforma, per spiegare i motivi dell’agitazione. Il giorno dopo la Conferenza dei Rettori, la Crui, presenterà all’Auditorium di Roma la relazione annuale sullo stato dell’Università. ________________________________________________________ Il Messaggero 12 Sett.04 IL LAUREATO TRIENNALE? NON PUÒ CHIAMARSI “DOTTORE” Bocciato il decreto Moratti di modifica del sistema delle lauree. Il rettore di Tor Vergata Finazzi: nel mondo anglosassone non ci sono titoli intermedi La Corte dei conti: ne ha diritto soltanto chi ha ottenuto il diploma quinquennale di ANNA MARIA SERSALE ROMA - L’Italia dei “dottori”, quelli veri e quelli presunti, è percorsa da un brivido. I laureati triennali non potranno chiamarsi dottore. Avranno diritto al titolo solo i laureati quinquennali. Lo dice la Corte dei conti, che pochi giorni fa ha bocciato il decreto di riforma universitaria presentato dalla Moratti all’inizio dell’estate. La questione del titolo riesplode. Dopo che, nel 2001, venne scomodata l’Accademia della Crusca per risolvere il rebus. Allora si convenne che i laureati di primo livello sarebbero stati dottori iunior (alla latina) e gli altri, quelli che avrebbero completato il quinquennio, senior. L’Europa ha sempre guardato con sufficienza la nostra «indulgente superficialità» nell’assegnare agli iunior un titolo che all’estero è riservato solo a chi raggiunge le vette del dottorato. «Nel mondo anglosassone - sottolinea il rettore di Tor Vergata, Alessandro Finazzi Agrò - nessuno si sognerebbe di attribuire il titolo a chi si ferma ai gradi intermedi». Dottorini? Dottoroni? C’è anche chi, nel parlare quotidiano, ha ribattezzato ironicamente “triennalisti” e “specialisti del quinquennio”. E ora, alla ripresa dell’attività accademica, al compimento del primo ciclo di laurea “breve”, con almeno 175.000 laureati a luglio (dei 335.106 iscritti), si riapre la ferita. Ma gli iunior hanno diritto o no a scrivere dott. sul loro biglietto da visita? La Corte dei Conti non entra nel merito. «Contesta l’attribuzione del titolo - prosegue il rettore Finazzi Agrò - poiché questo verrebbe dato a due laureati molto diversi tra loro. Probabilmente la soluzione può essere quella di chiamare “laureato” chi si ferma al triennio, punto e basta». Del resto le lauree sono cambiate. Ci sono livelli, differenze, che prima non c’erano. Il titolo non può essere lo stesso per tutti. Lo sostengono anche molti Ordini professionali, che non hanno mai visto di buon occhio l’ingresso degli iunior. Dopo accese polemiche si pensò di creare due Albi paralleli, per iunior e senior. Questo, probabilmente, resterà immutato. Ma ciò che sta a cuore ai professionisti affermati, e a chi punta alla laurea quinquennale, è l’attribuzione del titolo da spendere sul mercato. Se chiamiamo tutti dottori come si fa a distinguere tra ingegneri iunior e senior? Ai livelli di laurea corrispondono competenze precise, dal progetto per la costruzione di una casa alla direzione di un cantiere, alla consulenza per avviare una vertenza legale, nel caso uno abbia la laurea in giurisprudenza. Due esempi, ma se ne possono fare infiniti. Ma qual è il decreto bloccato dalla magistratura? Quello emanato dal ministro Moratti all’inizio dell’estate, per riformare il sistema delle lauree e affiancare al ”3+2” il modello a ”Y”, ovvero l’“1+2+2”. La Moratti sperava di introdurre l’innovazione fin dal prossimo anno accademico, rendendo più flessibili i percorsi universitari. Invece, dovrà attendere e cercare una soluzione per il titolo dal momento che i giudici amministrativi respingono gli atti e impongono di «rivedere la materia». La più immediata conseguenza dello stop, dunque, è lo slittamento della riforma. E il Ministero? Minimizza: «Si tratta di rilievi tecnici, che non compromettono la riforma». Il problema del titolo, però, non è di facile soluzione. «Neppure la Conferenza dei rettori, interpellata a suo tempo, riuscì a indicare una soluzione», osserva Finazzi. Del problema si occupò poi la Commissione De Maio, per incarico del ministro Moratti, proponendo di distinguere tre livelli: laureato triennale, laureato magistrale (cinque anni) e laureato dottorale (con l’aggiunta di ulteriori 3 o 4 anni). Secondo la commissione De Maio soltanto gli ultimi due avrebbero avuto “diritto” al titolo. Per Lucio Barbera, preside della facoltà di architettura “Ludovico Quaroni” della Sapienza, siamo vittime dei nominalismi, delle etichette, insomma delle apparenze. «Il titolo lo darei soltanto a chi raggiunge il terzo stadio dell’istruzione universitaria. A chi completa il dottorato, tornando a dare pienezza di significato al titolo. Dottore significa dotto, sapiente. Negli Usa viene riconosciuto a chi ha frequentato il master, che non a caso è la contrazione di magister. All’estero i nostri titoli non trovano parallelismi. Nelle altre culture per essere dottori ci vuole una formazione teorica alta. Noi, invece, abbiamo abusato. Non mi sembra una cattiva idea ridare giusta dignità alle parole». Il freno della Corte dei conti costringerà l’Italia a ridiscutere la delicata questione. I ministri che introdussero il “3+2” (Zecchino e Berlinguer) non vollero privare gli iunior del piacere di chiamarsi dottore, temendo che questo avrebbe ingenerato sfiducia nei giovani, nelle famiglie e nelle aziende che questi laureati dovranno utilizzare. Ma forse ora i tempi sono maturi per chiamare ciascuno con il “giusto” appellativo. ___________________________________________ Il sole 24Ore 15 Sett.04 SCUOLA, PIÙ SPESE SENZA QUALITÀ ISTRUZIONE SOTTO ESAME Dal rapporto annuale dell'Ocse sui sistemi educativi emerge l'anomalia italiana – Investimenti cresciuti più dei Pil, ma assorbiti dagli stipendi - Molti iscritti all'università, ancora pochi i laureati ROMA a Cresce la spesa italiana per l'istruzione. Dal 1995 a oggi, gli investimenti del nostro Paese nell'educazione sono aumentati, ma la ripartizione delle risorse non è stata sempre efficace. Nonostante gli incrementi, infatti, gli stipendi dei docenti sono ancora bassi. Resta alto, poi, il tasso di abbandono degli studi universitari: quasi il 60% degli immatricolati non arriva alla laurea. È un ritratto a luci e ombre quello scattato dall'Ocse in Education at glance 2004, l’annuale rapporto sui sistemi di istruzione dei 30 Paesi aderenti all' Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, presentato ieri a Berlino. Secondo i dati, la percentuale di insegnanti italiani è la più alta dell'area e nelle nostre scuole si fa lezione per un monte ore che supera di gran lunga quello degli altri Paesi. Spesa in aumento. Tra il 1995 e il 2001, gli investimenti italiani in educazione sono cresciuti in termini reali del 12% nell'istruzione primaria e secondaria (a fronte di una media Ocse del 21%) e del 20% nel ciclo terziario, quello, cioè, di livello universitario, contro un valore medio dei Paesi dell'area pari al 30 per cento. Secondo i dati, inoltre, l'Italia fa parte di quel gruppo di nove Paesi Ocse nei quali la spesa pubblica per il sistema di istruzione è cresciuta più del Pil, passando dal 4,7% del 1995 al 4,9% del 2001. Nella scuola primaria e secondaria, però, la maggior parte delle risorse è assorbita dalle spese correnti, rappresentate soprattutto dalle retribuzioni del personale docente (che impegnano il 64% delle spese correnti) e non docente (17%). Quello che resta, poi, serve all'acquisto di materiali didattici e al finanziamento di servizi agli studenti. Scendendo nel dettaglio, nel ciclo di istruzione primaria l'Italia spende 6.783 dollari per studente, contro una media Ocse di 4.850 dollari. Queste risorse, però, sono investite in un sistema dove il rapporto alunno-insegnante è decisamente basso (10,6 contro una media Ocse del 16,6). Ma, nonostante questi incrementi di spesa, gli stipendi dei docenti italiani restano ancora lontani dalla media Ocse: un insegnante della scuola primaria con 15 anni di esperienza guadagna 27.726 dollari, contro i 31.366 della media Ocse. Il rapporto, però, rileva che, in parte, questa differenza è compensata dal minor carico di lavoro sostenuto annualmente dai nostri professori (748 ore a fronte di una media Ocse pari a 803). Nella scuola secondaria la situazione è pressoché identica. L'Italia spende più della media Ocse (8.258 dollari per studente contro i 6.510 della media degli altri Paesi), ma anche qui i salari dei docenti restano bassi (con un carico di lavoro che resta, comunque, inferiore alla media), così come il rapporto alunno-docente. Ma nel ciclo secondario risulta più evidente il problema dell'utilizzo poco efficiente delle risorse: secondo il rapporto, infatti, le performance dei 15enni italiani nella lettura, nella matematica e nelle scienze sono molto inferiori a quelle dei loro colleghi stranieri, nonostante il numero di ore di lezione dedicate a queste materie sia nelle nostre classi decisamente alto (fra il 35 e i143% del totale delle lezioni). Fiore all'occhiello dell'Italia è la scuola dell'infanzia, che può contare su una quota di investimenti pari a 5.972 dollari per bambino. Un valore che pone l'Italia al quarto posto nella classifica dei più "ricchi", dietro gli Stati Uniti, la Norvegia e il Regno Unito. Il nostro Paese, poi, vanta uno dei più alti tassi di partecipazione dei bambini di 3-4 anni all'istruzione infantile. Livelli di istruzione più alti. In generale, in quasi tutti i Paesi è cresciuto il tasso di istruzione, ma non in modo omogeneo. Metà dei giovani residenti nei Paesi considerati frequenta l'università e in media il 32% arriva alla laurea di primo livello (il 23% in Italia). Quest'ultimo dato, però, varia dal 20% di Austria e Germania al45% di Australia e Finlandia. In Italia resta alto l'allarme abbandono: il 60% degli immatricolati esce dall'università senza un titolo, anche se, dice l’Ocse, con i nuovi corsi triennali la situazione sta migliorando. Ma nei Paesi Ocse c'è ancora un 20% di 20-24enni che possiede solo la licenza media e non frequenta alcun corso di formazione: questo valore è altissimo in Messico (70%), preoccupante in Italia (25%). Nel nostro Paese, però, dal 1991 a oggi la quota di 25-64enni diplomati è passata dal 6 al 10 per cento. «In questo quadro - fa notare l’Ocse - esiste per i Paesi in ritardo il pericolo di non riuscire a tenere il passo del progresso economico e sociale». Studiare conviene. Il titolo di studio più alto garantisce buste paga più pesanti: in Italia, un laureato guadagna il 38% in più di un diplomato. Ma le donne continuano a percepire stipendi più bassi degli uomini a prescindere dal livello di istruzione, spesso molto qualificato , visto che il nostro Paese è l'unico con una percentuale di laureate in informatica e matematica uguale a quella degli uomini. Livelli di istruzione elevati determinano anche, secondo l’Ocse, aumenti della produttività: in Italia sono stati pari a 0,58 punti percentuali in più, dal '99 al 2000. Il caso tedesco. La Germania esce malconcia dall'esame dell'Ocse e scoppia la polemica. Secondo i dati, il sistema è sottofinanziato, le scuole vecchie e le riforme tardano ad arrivare, anche se gli stipendi dei "prof' sono tra i più alti dell'area. Il cancelliere Gerhard Schróder ha invitato i Lander a seguire l'esempio del Governo, «che - dice - ha sempre aumentato gli investimenti in istruzione», mentre i sindacati accusano del declino i ministri della cultura regionali. ALESSIA TRIPODI ____________________________________________________ LA STAMPA 15-09-2004 FUGA DALL'UNIVERSITÀ SENZA LAUREA SEI SU DIECI IL RAPPORTO OCSE ANALIZZATO DALL'ASSOCIAZIONE TREELL ROMA Un grande sforzo non adeguatamente ripagato. E' quello che sta facendo il nostro sistema di istruzione, secondo il rapporto Ocse, presentato ieri a Roma con un'analisi approfondita dell'Associazione Treelle. L'Italia - secondo l’Ocse - è uno dei nove Paesi (su 30) che hanno incrementato la spesa per l'istruzione dal '95 a oggi più di quanto non sia cresciuto il pil (dal 4,7 al 4,9%), ma spende ancora poco per la scuola in assoluto: i15,3% del pil rispetto a una media del 5,6%. Soprattutto, però, commenta Treelle, l'Italia spende male, perché il 95% del bilancio dell'Istruzione viene assorbito dagli stipendi del personale e appena il 5,3% va in investimenti sulla qualità della scuola (contro l'8,l0 della media Ocse). Inoltre abbiamo il più basso rapporto del mondo sviluppato, tra alunni e docenti: un professore ogni 9 allievi, contro una media di 1 a 15. Quindi troppi insegnanti - è l'analisi di Treelle - e peraltro malpagati (il 10% in meno della media Ocse). Drammatica anche la redditività del sistema universitario. Quasi il 60% di quelli che si iscrivono non completa gli studi: è la più alta percentuale di abbandoni in area Ocse, dove la media è del 30%. Eppure i dati dimostrano che il miglioramento dei livelli di istruzione ha un buon ritorno dal punto di vista lavorativo: anche in Italia i laureati hanno guadagni più alti in media del 38% rispetto a chi ha solo un titolo di istruzione secondaria. E aumentano anche le opportunità di trovare lavoro: in Italia l’88% degli uomini e il 77% delle donne con un titolo universitario hanno un lavoro (in media con l'ocse) contro il 79% degli uomini e il 39% delle donne che hanno solo il titolo di istruzione secondaria. E i buoni ritorni di un'istruzione avanzata non sono solo per i singoli, ma anche per il sistema Paese: si stima che nei Paesi Ocse un anno in più di istruzione migliora l’output economico del 3-6%. In Italia tra il 1990 e il 2000 il miglioramento dei livelli di istruzione ha determinato un aumento di produttività del lavoro che è stato il più significativo dopo Portogallo e Regno Unito. Contro il fenomeno degli abbandoni precoci degli studi l'Italia ha ancora molto da imparare. Può invece esibire una percentuale di lauree «rosa» di tutto rispetto. Se infatti, in 21 dei 27 Paesi Ocse il numero di donne che consegue la laurea è uguale o superiore al numero di uomini, in Italia la percentuale è addirittura del 61%, la più alta del mondo sviluppato. Qual è dunque la scuola migliore? Secondo Andreas Schleicher dell'Ocse, potrebbe essere quella finlandese: «Alle scuole è lasciata molto discrezionalità e si investe sul personale non docente come psicologi, assistenti sociali, operatori». [r.r.] NUMERI (Fonte: Ocse) 8% E' stata la crescita degli iscritti all'università dal '95 a aggi Contro il 20% di Germania, Francia, Austria, Inghilterra Altri Paesi (Grecia, Ungheria, Repubblica Ceca) sono a +50% ________________________________________________________ Corriere della Sera 8 Sett.04 ESAMI TROPPO FACILI? LA LEZIONE INGLESE Salvati Michele A metà agosto vengono pubblicati in Gran Bretagna i risultati degli esami che corrispondono alla nostra maturità: gli esami dell' A Level (livello avanzato), come si chiama l' ultimo segmento della loro scuola media superiore, quello che può dare accesso all' università. Da noi i giornali, a metà luglio, riportano i risultati della maturità e per un paio di giorni li commentano. Ma il dibattito si sgonfia rapidamente. Nel periodo degli esami le pagine sono piene di note di colore e di fotografie di ragazze e ragazzi intenti alle prove. I temi o i problemi sono riportati in esteso, con qualche osservazione sulla loro difficoltà. Quando le commissioni rendono noti i risultati, è raro che questi meritino un commento in prima pagina: tutto finisce di nuovo nelle pagine interne e in queste ci si limita a qualche geremiade su com' era la maturità una volta e com' è adesso. In Gran Bretagna il dibattito divampa per tutta la seconda metà del mese d' agosto e si ricollega, in questi giorni, alle riflessioni che accompagnano l' avvio del nuovo anno scolastico. Il problema della selettività dell' esame è ovviamente il problema centrale: anche qui le promozioni crescono in percentuale ogni anno (hanno superato il 96%) e cresce la proporzione di coloro che le ricevono con i massimi voti. Poiché le ammissioni alle diverse università si basano sui risultati di questi esami - le università sono libere di scegliere gli studenti, e le università migliori scelgono gli studenti migliori - nasce un problema. Vent' anni fa solo il 15% dei diciottenni anni faceva l' esame di A level e una proporzione piuttosto bassa di costoro, il 10%, otteneva il voto massimo: ciò voleva dire che lo studente che l' aveva ottenuto si collocava nell' 1,5% superiore della sua fascia d' età. Quest' anno gli esami dell' A level sono stati fatti dal 36% della fascia d' età corrispondente e più di un quinto ha ottenuto un voto massimo: il che significa che questi studenti stanno ora nell' 8% superiore della loro fascia d' età e sono ormai un numero assoluto molto elevato. Oxford e Cambridge fanno fatica a scegliere i loro studenti e avrebbero bisogno di una graduazione più fine, che consentisse loro di discriminare tra bravi e bravissimi. Dei problemi che incontrano le commissioni d' ammissione di Oxbridge ci si può disinteressare: se gli studenti bravissimi sono cresciuti tanto, le università migliori dovrebbero aumentare la loro capacità di accoglienza. Oltretutto, se solo il 36% dei diciottenni sostiene un esame che apre loro le porte dell' università, questa è una delle percentuali più basse tra i Paesi progrediti e dovrebbe solo aumentare. Ma sono veramente cresciuti tanto, gli studenti bravissimi? Oppure gli esami sono diventati più facili? Se è così, è giusto introdurre una graduazione più fine? E chi sono gli studenti che passano con voti alti? Come si distribuiscono tra famiglie di diverso reddito e professione? E se, come sembra, la percentuale di bravissimi provenienti da famiglie di reddito modesto è bassa e non è aumentata molto, come fare a tenere insieme promozione sociale, qualità degli studi e selezione dei più capaci? Questi sono i problemi dibattuti sulla stampa seria, dal Financial Times al Guardian, dal Times al Daily Telegraph, in dozzine di articoli approfonditi, ricchi di analisi e di dati. E sono problemi al centro dell' attenzione del governo e del Parlamento. Il governo ha creato un apposito ministero per la Qualità dell' istruzione (school standards) e l' ha affidato a uno dei più brillanti seguaci di Blair, il giovanissimo David Miliband. Le commissioni di studio sulla revisione dei curricula e dell' organizzazione scolastica si moltiplicano: a ottobre è dovuta la relazione finale della commissione Tomlinson sulla scuola media superiore. Sembra di vivere in un altro mondo. Non tanto per i risultati: la scuola britannica ha molti difetti, sia d' origine che sopravvenuti, e un paragone con la nostra è molto difficile, anche perché è diversa la società di quel Paese, con aree di disagio sociale forse più acuto che in Italia. Ma per la serietà e l' appassionato interesse con cui vengono affrontati i problemi di un sistema scolastico di massa in una democrazia avanzata e in un' economia sempre più basata sulla conoscenza. Le finalità che prima ricordavamo - qualità degli studi, eguaglianza di opportunità, selezione dei più capaci - sono riconosciute con franchezza e tutti sanno che il compromesso è difficile. I pesi da attribuire a quelle finalità sono ovviamente diversi a seconda dei diversi orientamenti politici, ma la discussione si svolge in modo razionale e documentato, con una ricchezza di informazioni e di analisi che non ha paragone nel nostro Paese. Michele Salvati ___________________________________________ Corriere della sera 13 Sett.04 KAELEY: I FONDI PUBBLICI* ROVINANO LA RICERCA INTERVISTA Parla Terence Kealey, vice-rettore dell'Università di Buckingham È la tesi, controcorrente, di un economista che rimpiange la Thatcher. «Solo la concorrenza tra aziende e istituzioni favorisce l'innovazione» n Italia si invocano maggiori contributi statali per i ricercatori e si saluta con soddisfazione la nascita dell'Istituto Italiano di Tecnologia, finanziato con forti dosi di denaro pubblico. All'estero invece c'è chi non condivide le aspirazioni e gli entusiasmi della scienza nostrana. «I finanziamenti di Stato alla ricerca fanno male: soffocano l'iniziativa privata e sono poco produttivi». Oltre, naturalmente, a pesare sulle tasche dei contribuenti. È quanto sostiene Terence Kealey, vice rettore dell'università inglese di Buckingham, che attacca senza mezzi termini l'università di Stato, le sovvenzioni pubbliche a scienza e tecnologia e tanti altri punti fermi della nostra epoca. Vuol dire che aiutare la ricerca fa male all' economia? «Sì, se è lo Stato a intervenire. Perché sono gli investimenti privati in R&S (ricerca e sviluppo) a incidere sulla crescita economica, non quelli pubblici. Finalmente lo ha riconosciuto anche l’Ocse, nella sua pubblicazione The sources of economic growth in Oecd countries (Le fonti della crescita economica nei Paesi dell'Ocse), pubblicato nel 2003. A dimostrarlo ci sono tanti esempi, come Semantech, il programma lanciato anni fa dal governo americano per sovvenzionare la ricerca informatica. Tante aziende sono state coinvolte, e tanti soldi spesi, ma nessuna di queste ha saputo minimamente eguagliare i progressi ottenuti dalla Microsoft di Bill Gates o da Oracle di Larry Ellison, che camminano esclusivamente sulle proprie gambe. E che oggi spendono miliardi di dollari in R&S. Ma le sorprese non finiscono qui: gli investimenti in R&S sono più consistenti in Giappone e Svizzera, dove il governo ne finanzia solo un quinto, rispetto ad altri Paesi come Australia e Nuova Zelanda, in cui i sussidi statali arrivano a coprire l’80% degli impieghi totali». Meno Stato, quindi, significherebbe più ricerca? «Sì, com'è successo anche in Gran Bretagna negli anni'80, quando Margaret Thatcher tagliò i sussidi alle università suscitando un coro di critiche da parte degli addetti ai lavori. Eppure, già nel 1991, uno dei più alti comitati accademici del Paese fu costretto a riconoscere che "l’aumento dei fondi erogati da aziende e fondazioni ha più che compensato il calo dei finanziamenti pubblici". Nella stessa direzione va un'inchiesta dell'Institute of Scientific Information, che ha individuato le sette organizzazioni che si sono guadagnate il maggior numero di citazioni nelle pubblicazioni specializzate in biologia. Di queste sette, due sono aziende, quattro sono fondazioni private e solo una è un istituto pubblico». Annullando l'intervento dello Stato, non si corre il rischio di lasciare un settore delicato come la ricerca scientifica esclusivamente nelle mani, poco controllabili, dei grandi capitali privati? «No. Anzi, la concorrenza tra tante aziende, fondazioni e istituti permetterebbe di creare un sistema di pesi contrapposti in grado di garantire controlli reciproci a garanzia del progresso e del rispetto dell'individuo. Le istituzioni pubbliche, invece, non sempre lavorano nell'interesse della società. Per esempio, la Royal Society inglese, pesantemente finanziata dal governo, promuove l'utilizzo degli Ogni (Organismi geneticamente modificati), anche se i timori degli ambientalisti sul tema non sono infondati». Privatizzare la scienza significa anche privatizzare le università? «Certamente. Molti governi infatti sembrano aver dimenticato che il proprio ruolo è aiutare gli studenti a scegliere l'istruzione più appropriata e non gli apparati universitari a prosperare sui contributi pubblici. Oggi gli atenei si fanno concorrenza fra di loro a suon di pubblicazioni e finanziamenti statali, tralasciando la loro missione originaria, l'insegnamento. Mentre le alte figure accademiche cercano la gloria, in aula a insegnare vanno giovani assistenti senza sufficiente esperienza. Tagliando i sussidi pubblici, gli atenei sarebbero costretti a pensare di più ai propri clienti, gli studenti, cercando di fornire un servizio migliore». Ma come si potrebbe così garantire il diritto allo studio di chi non ha i mezzi per pagarsi una retta universitaria? «L'esempio americano insegna: ogni grande università, da Harvard a Yale, fino a Stanford e a Chicago, offre borse di studio ai più capaci e meno abbienti. Grazie ai consistenti fondi raccolti in decenni di elargizioni da parte di privati: una pratica molto più diffusa negli Stati Uniti rispetto all'Europa e soprattutto all'Italia». Se grandi aziende come Microsoft e Oracle riescono a prosperare senza aiuti esterni, la stessa cosa è più difficile per le piccole e medie imprese, che spesso non hanno le risorse per investire in ricerca... «Non è vero: le aziende di dimensioni più ridotte possono fare ricorso al mercato del venture capital, dove ci sono molti investitori pronti a scommettere su realtà piccole e sconosciute, in cambio della promessa di consistenti ritorni. Il venture capital è uno strumento molto diffuso in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, ma, purtroppo, relativamente poco sviluppato in Paesi come l'Italia, dove l'intervento pubblico nella ricerca scoraggia le iniziative imprenditoriali di stampo scientifico». In che senso? «Nel Bel Paese i migliori cervelli, se non emigrano all'estero, puntano alla carriera universitaria, dove la ricerca è pesantemente sovvenzionata dallo Stato. È difficile trovare uno scienziato che voglia mettersi in proprio, fondare un'azienda e sviluppare in autonomia le proprie idee e scoperte. Se ci fossero tanti casi del genere, ci sarebbero anche più incentivi allo sviluppo del venture capital, come succede, appunto, Oltremanica e Oltreatlantico». Giovanni Stringa Un sistema competitivo di contrappesi sarebbe più efficiente, gioverebbe ai contribuenti e garantirebbe il progresso e il rispetto dell'individuo. Con meno finanziamenti, poi, gli atenei sarebbero costretti a occuparsi di più degli studenti e di meno dei baroni ___________________________________________ Il sole 24Ore 17 Sett.04 I RICERCATORI: UNITI SI VINCE Le associazioni di categoria italiane studiano azioni comuni PERUGIA Per chi si occupa di intelligenza artificiale in Italia, la Conferenza italiana sui sistemi intelligenti che si conclude oggi a Perugia ha costituito un appuntamento imperdibile. Soprattutto perché, per la prima volta, si sono seduti ufficialmente allo stesso tavolo i presidenti delle tre associazioni nazionali di riferimento nel settore: Marco Gori, dell'Associazione italiana intelligenza artificiale (Aiia); Bruno Apolloni, della Società italiana reti neuroniche (Siren) e Luigi Cordella, del Gruppo italiano ricercatori in pattern recogniction (Girpr). Un avvicinamento che ha avuto il sapore del messaggio visto che, come spiega Bruno Apolloni, «le imprese italiane investono troppo poco sull'intelligenza artificiale, come se non capissero che questo è uno dei settori più promettenti dell'informatica, che può avere ricadute anche sui prodotti commerciali». Una pillola difficile da mandare giù per le centinaia di studenti presenti alla manifestazione. «La ricerca italiana in materia di AI non sfigura affatto nel panorama internazionale - spiega Marco Gori -. Dobbiamo imparare a sedere tutti intorno a un tavolo e a dialogare con le aziende, avvicinandoci al mercato con umiltà». In effetti, i ricercatori italiani del settore sono parecchi. Le tre associazioni raccolgono più di 650 membri e partecipano attivamente alla ricerca internazionale del settore. «L'applicazione concreta dell'intelligenza artificiale - dice Gori - richiede l'integrazione di tutte le competenze disponibili, anche al fine di facilitare il dialogo con il Governo». Secondo Luigi Cordella «in passato le difficoltà connesse con l'intelligenza artificiale sono state sottovalutate, e questo ha generato qualche diffidenza da parte del mercato. Oggi però la ricerca ha fatto notevoli passi in avanti e le applicazioni pratiche possibili sono ormai moltissime». Le aziende italiane che investono in questo settore non sono molte. Alenia, ST Microelectronics, Enea ed Elsag Bailey hanno fatto da apripista. Ma anche Fiat svolge ricerche in quest'ambito. «Ma la vera scommessa riguarda le imprese di piccole e medie dimensioni - spiega Marco Gori -. Esempi come quello di Google negli Stati Uniti dimostrano che sviluppare soluzioni all'avanguardia nell'ambito dell'intelligenza artificiale non richiede grandi investimenti, ma soprattutto intelligenza e fiducia nel futuro». P.CON. ================================================================== __________________________________________________ L’Unione Sarda 17 Sett.04 SANITÀ, SÌ ALL’INTESA TRA REGIONE E UNIVERSITÀ Sbloccati i corsi universitari. Aggiornata entro sei mesi la rete ospedaliera Via libera definitivo al protocollo d’intesa Regione-Università sulla sanità: la Giunta Soru ha approvato ieri pomeriggio l’accordo che istituisce le aziende miste di Cagliari e Sassari e sblocca i corsi universitari per le professioni sanitarie. "Tutti i soggetti interessati si sono confrontati orientando ogni sforzo al miglioramento dell’assistenza sanitaria", afferma l’assessore regionale alla Sanità Nerina Dirindin: "Da parte nostra, abbiamo ha tenuto fede all’impegno di approvare il protocollo per sbloccare in tempi rapidi i corsi di laurea per le professioni sanitarie". Il protocollo d’intesa ha avuto il via libera dei consigli di facoltà di Medicina delle Università di Cagliari e Sassari e dai due Senati accademici. Favorevole anche il giudizio dei sindacati confederali e dell’Intersindacale medica, che riunisce le categorie ospedaliere. "Il protocollo è una cornice di metodo", osserva l’assessore: "La nascita delle aziende miste è solo una delle componenti del nuovo sistema ospedaliero che troverà una compiuta riorganizzazione nel nuovo piano sanitario". Solo il Piano, che dovrà essere approvato dal Consiglio regionale, potrà infatti definire in maniera puntuale con quanti posti letto e con quali reparti opereranno i presidi ospedalieri, le aziende ospedaliere e le aziende miste. La Regione si impegna, comunque, entro 180 giorni, ad approvare un provvedimento di aggiornamento e integrazione della razionalizzazione della rete ospedaliera. La collaborazione tra servizio sanitario regionale e le Università si realizza attraverso la creazione di due aziende ospedaliero-universitarie: Cagliari (che comprenderà le strutture assistenziali del Policlinico universitario, quelle convenzionate con l’Azienda Usl 8 e le altre eventualmente individuate in sede di programmazione sanitaria regionale) e Sassari (che comprenderà il Policlinico universitario, le strutture convenzionate con l’Azienda Usl 1 e le altre individuate dal piano sanitario regionale). A capo delle aziende miste ci sarà un direttore generale (nominato con decreto del presidente della Regione, con l’intesa del rettore dell’Università interessata), che sarà affiancato da un organo di indirizzo nel quale saranno presenti i presidi delle due facoltà di Medicina. _______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 17 Sett.04 SANITÀ, APPROVATA L’INTESA REGIONE-UNIVERSITÀ Aziende miste a Cagliari e Sassari. "Sbloccate le lauree per le professioni sanitarie CAGLIARI. La giunta ha approvato ieri pomeriggio il protocollo d’intesa Regione-Università. "Si tratta - è detto in una nota dell’assessorato alla Sanità - di un atto atteso da anni, che segna una svolta nella sanità isolana. Il protocollo istituisce infatti le aziende miste di Cagliari e Sassari, sblocca i corsi universitari per le professioni sanitarie ma soprattutto segna l’avvio di una proficua collaborazione tra servizio sanitario, aziende ospedaliere, Università, sindacati e commissione Sanità in vista della presentazione del Piano sanitario Regionale". L’assessore Nerina Dirindin ha manifestato grande soddisfazione. L’assessore Dirindin ha dichiarato che "tutti i soggetti interessati si sono confrontati orientando ogni sforzo al miglioramento dell’assistenza sanitaria. Da parte nostra, abbiamo ha tenuto fede all’impegno di approvare il protocollo per sbloccare in tempi rapidi i corsi di laurea per le professioni sanitarie". Per l’assessore "solo lavorando tutti assieme si può iniziare un percorso capace di garantire una migliore sanità". Con il protocollo "è stato messo a punto un metodo di confronto che sarà certamente seguito anche in futuro, quando la Regione dovrà dotarsi finalmente di un Piano sanitario e affrontare la questione del riordino della rete ospedaliera". Il protocollo d’intesa ha avuto il via libera da parte dei consigli di facoltà di Medicina delle Università di Cagliari e Sassari e dai Senati accademici dei due atenei. Favorevole anche il giudizio dei sindacati confederali e dell’Intersindacale medica, il tavolo che riunisce le categorie ospedaliere. "Il protocollo - ha spiegato l’assessore - è una cornice di metodo. La nascita delle azienda miste è solo una delle componenti del nuovo sistema ospedaliero che troverà una compiuta riorganizzazione nel nuovo Piano sanitario". Solo il Piano, che dovrà essere approvato dal consiglio regionale, potrà infatti definire in maniera puntuale con quanti posti letto e con quali reparti opereranno i presidi ospedalieri, le aziende ospedaliere e le aziende miste. Il protocollo d’intesa è finalizzato a promuovere e disciplinare l’integrazione dell’attività assistenziale formativa e di ricerca tra il Servizio sanitario regionale e le Università di Cagliari e Sassari, definendo inoltre le linee generali della partecipazione degli atenei alla programmazione sanitaria regionale. La collaborazione tra Servizio sanitario regionale e le Università si realizza attraverso la creazione di due aziende ospedaliero-universitarie, a Cagliari e Sassari. L’Azienda mista di Cagliari comprenderà le strutture assistenziali del Policlinico universitario, quelle attualmente convenzionate con l’Azienda Usl 8 e le altre strutture che saranno eventualmente individuate in sede di programmazione sanitaria regionale con l’adozione del Piano sanitario regionale. Allo stesso modo, l’Azienda mista di Sassari comprenderà le strutture assistenziali del Policlinico universitario, quelle attualmente convenzionate con l’Azienda Usl 1 e le altre strutture che saranno eventualmente individuate dal Piano sanitario regionale. In attesa della definitiva adozione del Piano sanitario, la Regione si impegna, comunque, entro il termine di 180 giorni dalla stipula del protocollo, ad approvare un provvedimento di aggiornamento e di integrazione della razionalizzazione della rete ospedaliera isolana. A capo delle aziende miste ci sarà un direttore generale (nominato con decreto del presidente della Regione, acquisita l’intesa con il rettore dell’Università interessata), che sarà affiancato da un organo di indirizzo nel quale saranno presenti i presidi delle due facoltà di Medicina. Ferma restando l’autonomia dei rispettivi ordinamenti, il protocollo d’intesa disciplina inoltre l’istituzione e attivazione dei corsi di laurea e dei corsi di laurea specialistica relativi alle professioni sanitarie. L’attuazione del protocollo sarà monitorata da una commissione permanente composta da un presidente (nominato dall’assessore d’intesa con i rettori), quattro componenti designati dall’assessore (di cui due scelti tra dirigenti ospedalieri), i due presidi di Medicina e due componenti designati dalle Università. ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 16 Sett.04 AZIENDA MISTA: UNIVERSITÀ E ASL PRESTO SPOSI Il protocollo d'intesa con la Regione approvato all'unanimità dal cda dell'ateneo SASSARI. Il fidanzamento è stato lungo, lunghissimo, estenuante. In questi casi si comincia a temere che diventi eterno, e che al matrimonio non si arrivi mai. Ma ora ogni incertezza è superata: Università di Sassari e Asl nº1, presto sposi, daranno vita all'Azienda ospedaliera mista. Il rettore Alessandro Maida è raggiante. Da tempo l'ateneo trattava con la giunta regionale: prima con quella di centrodestra, poi con quella attuale di centrosinistra. La Sardegna era l'unica Regione italiana a non aver varato i protocolli d'intesa con le università per la costituzione delle aziende miste. Il testo proposto dall'assessore alla Sanità, Nerina Dirindin, è stato approvato martedì sera all'unanimità dal consiglio di amministrazione dell'Università. In precedenza c'erano stati i voti favorevoli (anch'essi all'unanimità) del Consiglio della facoltà di Medicina, il 3 settembre, e del Senato accademico, il 9. Nel mezzo, lunedì 13, anche la presentazione del protocollo d'intesa ai sindacati. - Come si è arrivati alla formulazione del testo votato dal consiglio di amministrazione? "L'assessore Dirindin ha lavorato sul testo predisposto dalla commissione mista insediata dal precedente assessore alla Sanità, Capelli, testo che nella precedente legislatura non si era fatto in tempo ad approvare. Su questa base di lavoro sono stati apportati alcuni ritocchi. Assessorato e Università hanno avuto rapporti diretti e costanti, e c'è da dire che anche il presidente Renato Soru ha seguito con particolare attenzione la vicenda". - Che cosa è cambiato rispetto alla versione precedente? "Il punto che ha subìto maggiori ritocchi è l'articolo 7, quello che prevedeva la configurazione dell'Azienda ospedaliera mista. Il precedente testo indicava per Sassari un'azienda composta dal policlinico universitario, dalle strutture universitarie convenzionate con l'Asl e dai due ospedali di Alghero. Ora invece il testo indica dimensioni e parametri dell'Azienda mista, ma non le strutture che ne faranno parte insieme a quelle universitarie. La stessa cosa è accaduta per l'Azienda mista di Cagliari". - Quanto sarà grande la nuova azienda? "Avrà in ogni caso dimensioni strutturali compatibili con l'esigenza di garantire economicità ed efficienza gestionale". - In pratica? "Diciamo 600/700 posti letto". - E quanti di questi posti rientreranno nelle strutture conferite dall'Università? "I parametri sono chiari. Ci saranno tre posti letto per ciascun iscritto al primo anno del corso di laurea in Medicina e Chirurgia (quindi trecentotrenta posti letto). Uno per ciascun iscritto alle scuole di specializzazione clinica (poco più di cento). Un certo numero di posti per le esigenze formative delle lauree triennali, da definire al tavolo tecnico paritetico. Venticinque poltrone odontoiatriche (una per ciascun iscritto al corso di laurea in Odontoiatria). Restano all'incirca cento/duecento posti letto per le strutture conferite dall'Asl". - Che cosa cambierà nella sanità sassarese? "Le aziende miste rientrano nella riorganizzazione della rete ospedaliera sarda attraverso il piano sanitario che dovrà essere approvato dal consiglio regionale. In generale, le aziende ospedaliere risolvono una serie di problemi gestionali. Le Asl oggi devono occuparsi di tutto, dall'assistenza ospedaliera ai servizi territoriali, su un territorio vastissimo. E non ce la possono fare. Con gli ospedali scorporati dalle Asl, si torna praticamente alla situazione che esisteva prima della riforma sanitaria del 1978. Anzi, l'autonomia è ancora maggiore". - Quando potrà andare a regime l'azienda mista? "Ragionevolmente il 1º gennaio 2006. Dopo l'approvazione del piano sanitario ci sarà infatti da stipulare l'atto aziendale tra Servizio sanitario e Università". - Ma se il piano sanitario regionale non entra in vigore in tempi ragionevoli? "Nel protocollo d'intesa è inserita una clausola di salvaguardia: se entro sei mesi non viene formulato il piano sanitario regionale e non vengono individuate le aziende ospedaliere, la Regione si impegna a fare uno stralcio per l'azienda mista". - Da quanti anni aspettavate questo benedetto protocollo d'intesa? "Le intese Regione-Università si potevano fare già dal 1992, e dal 1999 nell'attuale configurazione". - Perché si è perso tanto tempo? "Questo lo dovrebbe chiedere giù a Cagliari". - Quali sono le particolarità dell'azienda mista? "Si tratta di una realtà nuova che fa parte a tutti gli effetti del Servizio sanitario ed è inserita nella rete ospedaliera regionale. Il Servizio sanitario regionale e l'Università mantengono la proprietà delle loro strutture, che conferiscono in uso alla nuova azienda, così come si instaura una collaborazione tra le figure professionali ospedaliere e quelle universitarie. Va detto che nel caso di Sassari l'Università dà moltissimo in termini di strutture, perché quelle in cui operiamo sono quasi tutte nostre". - Quale sarà l'inquadramento del personale universitario? "I nostri dipendenti che svolgono attività assistenziale continueranno a ricevere lo stipendio universitario, eventualmente integrato con la differenza rispetto alle analoghe figure del servizio sanitario. Forse non tutti lo sanno, ma gli stipendi ospedalieri sono più alti dei nostri". - Quali saranno i vantaggi per l'Università? "Direi essenzialmente tre. Primo: svolgere attività assistenziale a pieno titolo e non più in convenzione. Secondo: operare in un'azienda di alta qualificazione in cui si fa anche formazione e ricerca e in cui le tariffe per i ricoveri sono commisurate alla fascia più alta. Terzo: disporre finalmente di una struttura che è indispensabile per il riconoscimento del titolo conferito dalle lauree triennali. Qui c'è un grande vantaggio anche per il personale ospedaliero, che potrà partecipare all'attività formativa". - E la ricerca? "La ricerca potrà essere svolta sia nell'Azienda mista sia nelle altre strutture dell'Università". - Chi comanderà nell'azienda mista? "Che domanda: il direttore generale". - E chi avrà il potere di sceglierlo? "Sarà nominato dalla Regione d'intesa con il rettore dell'Università". - Verrà scelto dall'elenco degli idonei attualmente in corso di preparazione per le Asl? "È un'ipotesi". - Quanto resterà in carica? "Il mandato è di cinque anni. Rinnovabile. In genere, se questi manager fanno bene c'è tutto l'interesse a riconfermarli". - Che cosa significa fare bene? "L'auspicio è che l'azienda che si va a costituire dia una qualità migliore dell'assistenza. Il rispetto delle regole di efficienza gestionale si tramuta in un miglioramento dei servizi. Abbattere i costi di degenza, fare gli esami rapidamente, operare evitando complicazioni, tutto questo consente di risparmiare perché i ricoveri durano di meno. E i risparmi vengono reinvestiti migliorando la qualità: manutenzione e miglioramento delle strutture, acquisto di nuovi apparecchi..." - Che cosa succederà a Sassari con due ospedali in concorrenza? "La concorrenza è sempre stimolante ai fini di una maggiore qualità. Ma teniamo presente che azienda mista e altra azienda ospedaliera sono strutture pubbliche, che operano senza fini di lucro. Ci si deve aspettare una competitività rispettosa, anche con rapporti di collaborazione nei settori di maggiore impegno economico". - Ma non esiste il rischio di duplicazioni inutili? "È interesse di tutti sopprimere le duplicazioni quando sono improduttive. Ma questo può riguardare i settori di alta specializzazione, non i servizi per i quali la domanda è più forte. Per chiarirci: non ha senso avere due cardiochirurgie, ma è impensabile che una delle due strutture non abbia un reparto di medicina generale o di chirurgia". Pier Luigi Rubattu ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 11 Sett.04 I PRIMARI SARDI BOCCIANO IL DOCUMENTO REGIONE-UNIVERSITÀ Quella bozza non è neutrale" SASSARI. Rispetto alle scelte finali, il protocollo presto all’esame della giunta regionale non sarebbe neutrale come sembra. Lo spiega Gianfranco Cossu, vicepresidente Anpo regionale, a nome dell’intersindacale medici di Sassari. "Peccato, perché l’esordio dell’Assessore Dirindin era piaciuto: protocolli d’intesa Regione-Università allineati con le necessità formative delle nostre facoltà e con le norme d’indirizzo nazionali..." Si trattava di indirizzi "del tutto generici per quanto riguarda gli aspetti strutturali delle costituende Aziende, demandando all’Aula Consiliare la definizione strutturale delle Aziende. Così vorrebbero le norme vigenti e così da tempo chiedevamo che fosse. Ci è stata invece presentata la stessa vecchia bozza che avevamo contestato all’allora Assessore Cappelli - scrive il vicepresidente dei primari sardi -, con un’unica differenza: stavolta i posti letto sarebbero stati determinati secondo le linee guida nazionali, ma solo apparentemente! L’immissione nel calcolo degli iscritti a odontostomatologia, alla pari con gli iscritti in Medicina e di un non meglio definito pool di posti letto per le professioni sanitarie (entrambe invenzioni di questi protocolli in quanto inesistenti nelle linee guida) tendono infatti a pletorizzare inutilmente i posti letto delle istituende Aziende ed a sottrarre posti letto ai restanti presidi ospedalieri ed eventuali future aziende ospedaliere (la Sardegna dovrà tagliare un certo numero di posti letto per acuti, attualmente in esubero)". Poi: "In una Nazione con il più alto numero di medici d’Europa, la Sardegna è la Regione che detiene il primato... Abbiamo calcolato che se si dimezzasse il numero degli iscritti al 1º anno di Medicina negli Atenei Sardi, occorreranno almeno dieci anni per portare in Sardegna il numero dei medici ai livelli nazionali. Sul versante specializzazioni, sarebbe opportuno meditare sul fatto che (esclusi gli specialisti in Anestesia e in Radiologia) oltre il 50% degli specializzati nelle nostre Facoltà non trova occupazione nella sua specialità dopo cinque anni dalla specializzazione. Nonostante questi dati siano alla portata di tutti, l’Assessorato propone il dimensionamento delle costituende aziende ospedaliero-universitarie con un numero di posti letto addirittura superiore a quanto previsto dalle linee guida nazionali. Se, come la norma vuole ed è giusto che sia, la Regione deve contribuire all’onere della formazione e della didattica delle facoltà di medicina, che tutto questo avvenga in accordo con le reali necessità regionali, anche per evitare sprechi di pubblico denaro. I medici ospedalieri e gli operatori sanitari non si oppongono certo alla stipula dei protocolli, ma chiedono di lavorare con regole giuste ed equilibrate fra le componenti universitarie e ospedaliere, in un sistema sanitario che veda nella sana concorrenza fra le Aziende gli stimoli a migliorare la qualità delle prestazioni". __________________________________________________ L’Unione Sarda 12 Sett.04 GRADUATORIE DISPONIBILI SU INTERNET CAGLIARI. Sono pronte le graduatorie per l’accesso alla facoltà di Medicina e alle lauree sanitarie (igienista dentale, fisioterapista, ostetrica, Infermiere, Ortottista, tecnico di radiologia medica e tecnico di laboratorio medico). Si possono consultare nella facoltà, al Policlinico, o nei siti http://pacs.unica.it/graduatorie/medicina04.htm (graduatoria di Medicina, 175 sposti su 861 questionari validi) e http://pacs.unica.it/graduatorie/sanitaria04.htm, dove sono presenti quelle per le sette lauree sanitarie. Nei prossimi giorni saranno disponibili, anche sul web, le graduatorie di Odontoiatria e Scienze motorie. (d.ca.) ______________________________________________________ L’Unione Sarda 16 Sett.04 PUBBLICATE LE GRADUATORIE PER IL CORSO DI ODONTOIATRIA Sono pronte le graduatorie degli ammessi al corso di laurea in Odontoiatria e protesi dentaria per l'anno accademico 2004/2005. L'elenco è stato pubblicato nella bacheca della segreteria della facoltà di Medicina, alla cittadella universitaria di Monserrato, ed è consultabile anche sul sito Internet http://pacs.unica.it/graduatorie/odonto04.htm. Alla preselezione, che si è tenuta lo scorso 7 settembre, si sono presentati in 382 su 506 domande arrivate, una delle cifre più alte degli ultimi anni accademici. I posti disponibili sono appena soltanto venti. Chi ha passato la selezione, entro il 22 settembre, dovrà presentare alla segreteria studenti di Medicina (o spedire per posta) la domanda di immatricolazione o di passaggio se proveniente da altre facoltà. La stessa scadenza vale per chi si deve immatricolare in Medicina. Chi non rispetterà questa data verrà escluso e il suo posto verrà sostituito da chi segue nelle graduatorie. Il giorno dopo, sempre nella bacheca, verranno comunicati gli eventuali posti vacanti. Le iscrizioni di chi subentra dovranno essere regolarizzate entro il 30 settembre. Altre informazioni al numero di telefono 070/6754665. D. Ca. ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 9 Sett.04 MEDICINA, ASSEDIO ALLA FACOLTÀ Faa: "Forse comincia a essere un corso moderno" Nonostante il numero chiuso, quasi mille ragazzi hanno presentato domanda per fare il test CAGLIARI. Non ci credevano nella segreteria della facoltà di Medicina: una pioggia di domande per diventare medico, per fare il fisioterapista o il tecnico di laboratorio, per qualificarsi dentista. Quest'anno quasi mille ragazzi (979) si sono presentati al test di ammissione per Medicina, altri 783 hanno chiesto di entrare in una dei corsi che sboccano nelle lauree sanitarie, 500 a Odontoiatria. Eppure, i numeri delle matricole ammesse sono rimasti invariati: 170 per Medicina, 130 in tutto per le lauree sanitarie e appena 17 per Odontoiatria. "Di passione vera si tratta", commenta il preside di Medicina Gavino Faa, perché i ragazzi lo sanno benissimo che i soldi si fanno in campi ben diversi da questi. Secondo il preside per la facoltà questo è un premio: "Tante richieste sembrano dimostrare che c'è fiducia nella facoltà. I giovani sono informati delle difficoltà del mondo del lavoro, cercano corsi in grado di qualificarli, ci incoraggia moltissimo sulla strada presa il fatto che tanti giovani facciano domanda per entrare nei nostri corsi: vuole dire che li ritengono credibili". La "strada presa" è l'imponente cambio di registro impresso alla facoltà negli ultimi anni. Non c'era scampo: le università sarde non si sono mai trovate ai primi posti in Italia per una serie di parametri sempre più importanti nel mercato europeo. Come la possibilità di laurearsi entro il termine del corso di studi o l'opportunità di affrontare il mondo del lavoro con la capacità di immergersi subito nella pratica professionale. Se la facoltà di Medicina cagliaritana voleva restare a galla nel mondo della formazione scientifica, doveva svecchiarsi. Ha cominciato da qualche stagione a questa parte e sembra avviata verso "un discreto successo". Forse i ragazzi delle scuole superiori l'hanno saputo: non è più un miracolo laurearsi in sei anni (magari a giugno, nella prima sessione, come è successo quest'anno a 27 studenti), non è più una grazia sollecitata per chissà quanto incontrare un paziente vero, non è più un rarissimo optional conoscere con precisione il programma sul quale si verrà esaminati. Riassumendo, il preside spiega: "Si sta lavorando per mettere lo studente al centro dell'attività universitaria". Cosa vuol dire? "Che si fanno lezioni compatte, che si organizzano lezioni per piccoli gruppi, che l'attività dei tutor è quotidiana e costante", risponde Faa. Insomma, è finito il tempo delle lezioni in un grande cinema e poi ciao studente il quale, d'altronde, doveva correre chissà dove per l'insegnamento successivo e caricarsi di libri per studiare nei buchi visto che gli orari non tenevano conto di niente e di nessuno (che fosse uno studente, s'intende). "All'inizio del corso - continua Faa - tutti i professori danno il programma. Ma l'aspetto che probabilmente ha riscosso il maggior consenso è la divisione in semestri dell'anno di studi. A ottobre si comincia, a marzo si possono dare gli esami e quando si avviano le lezioni del semestre successivo non ci sono strascichi". I risultati (gli esami superati dagli studenti) sembrerebbero incoraggianti: "Studiare ciò che si sente a lezione - commenta Faa - e non materie lasciate mesi prima è sempre di grande aiuto per lo studente. Naturalmente dobbiamo tenere elevato il livello della selezione...". Insomma, studiare bisogna. "Ma debbo dire che gli studenti ormai si aiutano molto da soli: sono sempre più motivati - nota il preside - mi ha colpito constatare con quale impegno i ragazzi freschi di maturità si sono buttati a studiare per i quiz. E su questo debbo dire che sono stati bravi gli studenti del terzo, quarto anno di Medicina che hanno tenuto un corso ben strutturato per i nuovi, i ragazzi che avrebbero dovuto affrontare il test. Io sul tutoraggio conto parecchio: il tutor è una figura fondamentale per la buona progressione degli studi, risolve molti problemi incontrati dai più giovani. E la facoltà adesso punta alla ricerca di finanziamenti per riconoscere la validità dell'azione dei tutor con una remunerazione". Ancora sulla "strada presa": resta sempre molto da fare. "Dobbiamo impegnarci per affinare i nostri strumenti didattici - va avanti il preside - anche con piccole iniziative come, per esempio, quella di riuscire ad allestire una sala con dieci postazioni internet da tenere a disposizione degli studenti. Mi sono rivolto a una fondazione, siamo ottimisti...". (a. s.) ________________________________________________________ La Stampa 15 Sett.04 QUEI MEDICI IN CONFLITTO (DI INTERESSI) I sono alcune cose che tutti i pazienti - tutti i cittadini - dovrebbero sapere, e non riguardano la medicina ma la sua etica. Per esempio, quando prendiamo un appuntamento per una visita, dovremmo sapere che ogni medico italiano in media viene a sua volta visitato quasi ogni giorno da un informatore farmaceutico. Lo dice un semplice calcolo: gli informatori - emissari delle industrie con il compito di far conoscere le mirabili qualità dei loro prodotti - sono 30 mila e ognuno incontra quotidianamente una decina di medici; totale: 300 mila visite giornaliere su una popolazione di 400 mila medici. Spesso con l’informatore arriva anche un piccolo omaggio: una penna, un termometro, un fermacarte. Il costo annuo di questa macchina per la comunicazione porta a porta è sui duemila miliardi di lire: cioè 2.500 euro all’anno per ogni medico. Somma che da un lato graverà sul prezzo dei farmaci, e dall’altro punta ad aumentarne il consumo. Chi va da un clinico più o meno noto, dovrebbe sapere che probabilmente è autore di pubblicazioni, e che queste spesso derivano da ricerche finanziate da industrie farmaceutiche per comprovare l’efficacia dei propri farmaci; dovrebbe anche sapere che spesso lo studio, se non conferma le virtù desiderate, non verrà pubblicato, perché il finanziatore si considera proprietario dei dati raccolti. Chi va da uno specialista che racconta al paziente le ultime novità su una certa malattia comunicate in un congresso internazionale che si è appena svolto a Miami, a Parigi o anche soltanto a Capri, dovrebbe sapere che viaggi, alberghi a cinque stelle, intrattenimenti etc. per migliaia di medici sono stati pagati da multinazionali farmaceutiche. Le stesse che finanziano le società scientifiche nelle quali i vari specialisti (cardiologi, diabetologi, neuorologi, oncologi...) si aggregano. Quanto è libero di prescrivere un farmaco anziché un altro il medico che ha appena ricevuto la visita di un informatore farmaceutico, se il 90 per cento del suo aggiornamento professionale passa per quella via? E se l’illustre clinico ha diretto una sperimentazione su una valvola cardiaca o su un nuovo test per misurare la glicemia finanziata dalle relative industrie, non gli verrà spontaneo favorire quei prodotti, visto che, tra l’altro, li conosce particolarmente bene? L’oculista che vola gratis da Milano a Miami in business class ed è ospite in un albergo con piscina, sauna e tennis per un convegno sulle lenti a contatto, rimuoverà davvero il marchio del suo mecenate? E che dire di quei giornalisti che accettano da multinazionali farmaceutiche le stesse cortesie riservate ai clinici? Tutte queste cose hanno un nome: conflitto di interessi. Non sono confitti gravi come quelli di chi governa un paese e si trova a fare leggi che riguardano le proprie aziende o i propri contenziosi con la magistratura. Siamo in una zona grigia, dove non c’è reato perseguibile, non c’è corruzione esplicita. Tuttavia sempre di conflitto di interessi si tratta. Bene: chi vuole saperne di più, legga «Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza» di Marco Bobbio (Einaudi, 284 pagine, 15 euro). E completi il quadro con «In buona salute» di Paolo Vineis e Nerina Dirindin (Einaudi, 125 pagine, 12 euro). Per fortuna, come Bobbio e Vineis testimoniano, la classe medica ha i suoi (rari) anticorpi. E anche quella giornalistica. Malati e lettori, kantianamente, devono sempre essere visti come fini, mai come mezzi. Piero Bianucci ________________________________________________________ Corriere della Sera 5 Sett.04 INFERMIERI: POCHI SOLDI E POCO PRESTIGIO PENSA ALLA SALUTE Renzi Riccardo A i pazienti di tutti gli ospedali pubblici italiani dovrebbe essere consegnato, alla fine della degenza, un questionario di valutazione dell' assistenza ricevuta, una sorta di pagella con la quale si possa dare il voto alla struttura di cura. Così dovrebbe essere secondo una legge di due anni fa, ma per ora poche regioni (tra queste la Lombardia) hanno attivato di recente questo servizio (vedi a pagina 34). Non ci sono ancora pertanto i risultati, né generali né parziali, di queste valutazioni. Ma sicuramente queste "pagelle" saranno importanti per valutare soprattutto l' assistenza infermieristica, per il semplice motivo che sono gli infermieri quelli che hanno il contatto diretto con il paziente. Dalla loro capacità dipenderà insomma in gran parte il buon risultato di questa valutazione. Mi confessa un primario di un grande ospedale milanese: "La qualità di un reparto dipende certamente dai buoni medici, ma, per quel che riguarda organizzazione ed assistenza, soprattutto da buoni infermieri. Eppure ci sono dei colleghi che fanno di tutto per schiacciare il loro ruolo, qualche volta per umiliarli ". Quel che succede in alcuni reparti, succede in generale nel Paese. Tutti sono convinti del ruolo chiave della professione di infermiere, del fatto insomma che sono loro a mandare aventi gli ospedali. Eppure oggi quella dell' infermiere è una professione in crisi, è considerato un lavoro ingrato, che nessuno vuole più fare e che sempre più viene svolto da extracomunitari. E non soltanto per motivi economici. "Non assumiamo tanti extracomunitari soltanto per necessità". A "confessare" questa volta è un direttore sanitario. "Ma anche perché spesso sono bravi e motivati. Soprattutto quelli dell' Est europeo sono ben preparati e considerano quello dell' infermiere un lavoro importante. Nei loro Paesi questo professione ha molto più prestigio che da noi." Ecco forse il problema sta qui. Come è accaduto per gli insegnanti, quella dell' infermiere è oggi considerata una professione non soltanto malpagata, ma di scarso prestigio sociale. Da anni i rappresentanti degli infermieri chiedono soprattutto due cose: una migliore formazione e una migliore qualificazione delle loro mansioni, del loro lavoro. Il risultato è stato una soluzione "all' italiana": adesso per fare gli infermieri ci vuole l' università, il famoso "pezzo di carta". Ma anche con la laurea il loro ruolo negli ospedali è cambiato ben poco. E chi ha voglia di sobbarcarsi anni di studi universitari per essere considerati poco più che "portantini"? ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 15 Sett.04 BORSE DI STUDIO PER MEDICI, C’È IL VIA LIBERA CAGLIARI. La commissione Sanità del consiglio regionale, presieduta da Pierangelo Masia (Sdi), ha approvato il programma della giunta regionale che prevede la concessione di contributi alle Università sarde per l’istituzione di borse di studio per la frequenza delle scuole di specializzazione delle facoltà di medicina e chirurgia. Il provvedimento - è detto in una nota dell’ufficio stampa del consiglio - è particolarmente atteso dai giovani medici che seguono i corsi di specializzazione istituiti dalle università dell’isola. "Un programma che - hanno fatto notare Masia e tutti i componenti della commissione Sanità - era stato trasmesso con eccessivo ritardo e che ha fatto preoccupare i giovani medici sardi che frequentano le scuole di specializzazione e che, tra l’altro, sopperiscono con il loro impegno alle carenze degli organici". La commissione presieduta da Masia ha auspicato che, in futuro, il programma di intervento che dà pratica attuazione alla legge regionale in materia "venga trasmesso tempestivamente, possibilmente nei primi mesi di ogni anno, e che le eventuali variazioni siano comunicate alla stessa commissione che, su di esse, si deve esprimere". Le borse finanziate per l’anno 2004 sono complessivamente 126, delle quali 72 sono destinate alla facoltà di medicina dell’ateneo di Cagliari e 54 alla facoltà di medicina dell’ateneo di Sassari. L’importo delle singole borse, come precisato dal ministero per l’Università e la Ricerca scientifica, è di 11.603,50 euro, per una spesa complessiva, quindi, di 1.462.041 euro. ___________________________________________ Avvenire 14 Sett.04 SCOPERTA UNA MOLECOLA NEL CERVELLO CHE «INDUCE» IPERTENSIONE E DIABETE Parte tutto dal cervello. È lì, secondo le ultime ricerche, che potrebbe nascondersi la molecola che provoca l'ipertensione e il diabete. Lo affermano gli scienziati della Mount Sinai School of Medicine sulla rivista americana «Proceedings of the National Academy of Sciences»: esperimenti sui topi hanno dimostrato che questa molecola (il cui nome è ribotide-acido aceticoimidazolo- 4), se presente in eccesso, sovraeccita le cellule nervose scatenando un duplice effetto; costringe i vasi sanguigni, facendo aumentare la pressione arteriosa, e agisce su cervello e pancreas, impedendo il rilascio di insulina e provocando il diabete. Dopo anni di studio, sarebbe stato cosi individuato l'anello mancante per spiegare la relazione tra le disfunzioni. Che !a causa dell'ipertensione fosse da ricercare nei meccanismi che regolano il funzionamento delle cellule cerebrali era un fatto già noto agli scienziati. Adesso, però; la ricerca si restringe a un bersaglio preciso, e questo dovrebbe portare a un importante risultato: farmaci più mirati e dunque privi di effetti collaterali. ___________________________________________ LIBERO 15 Sett.04 DAI GATTI BIRMANI LA CURA PER IL DIABETE DI TIPO 2 IMPORTANTI RISULTATI DI UNO STUDIO AUSTRALIANO Lo studio della fisiologia di questi felini potrebbe aprire la strada a nuove terapie e farmaci preventivi dl GIANWCA QROS81 WÉEMSLAND - Combattere il diabete studiando la fisiologia dei gatti birmani. È Ia proposta degli scienziati dell'università del Queensland, in Australia. Essi affermano, in particolare, che sarà possibile curare il diabete di tipo 2, avvero quello più comune, che riguarda oltre il 90 per cento dei pazienti diabetici e che generalmente colpisce dopo una certa età; l’altro e il diabete insulino-dipendente, detto anche diabete giovanile. I ricercatori hanno visto che i gatti birmani vengono colpiti dalla malattia proprio come l'uomo, e che per questo potrebbe essere possibile risalire ad alcune caratteristiche della loro fisiologia patologica per poi ricondurle appunto alla nostra specie: l'incidenza della malattia nei felini riguarda in media un decimo degli animali dagli otto mesi di età in su. Secondo la dottoressa Jacquie Rand, a capo dello studio, si potranno ottenere nuove terapie di intervento, nei casi ín,cui il male è già consolidato, così come nuovi preparati farmaceutici che possano addirittura impedire che la malattia si manifesti soprattutto in soggetti geneticamente predisposti. Il gatto birmano è noto in Europa da poco tempo: per l'esattezza dal 1925, nel Momento in cui è stato messo in mostra per la prima volta in Francia. Si tratta di un gatto longilineo, muscoloso, con un pelo lungo, un po' meno folto di quello del persiano, di colore beige, con muso orecchie e zampe marroni. Mentre il colore dei suoi occhi in genere è chiaro. È una animale che soffre il freddo, essendo sprovvista di sottopelo, caratterizzato da un bel temperamento dolce e tranquillo. Il suo peso oscilla in media tra i 4 e i 6 chili e vive per circa 13 - 14 anni. (Durante la Seconda Guerra Mondiale la razza rischiò quasi l'estinzione e solo dopo parecchi anni tornò a ripopolare i salotti e i giardini europei). Non è la prima volta che gli scienziati studiano animali geneticamente inclini al diabete per riuscire a trovare delle cure innovative anche per l'uomo. Recentemente, per fare un esempio, Lewis Lanier del Dipartimento di Microbiologia ed Immunologia della California a San Francisco, è riuscito nell'intento di prevenire il diabete giovanile in topi destinati ad ammalarsi. Lo scienziata statunitense ha concentrato i suoi studi sui linfociti CD8+T e sulla molecola NKG2D esposta alla superficie delle cellule immunitarie, e di regola implicata direttamente nella genesi del morbo. Mentre è di poche settimane fa la notizia che sarebbe addirittura possibile curare il diabete sfruttando nientemeno che la saliva di un rettile, della lucertola Gila Monster, che vive nel Texas e nel New Mexico. Si è scoperto che l'animale ha un metabolismo molto lento (si ciba appena tre volte in un anno) e che la sua digestione è regolata dall'enzima exendin-4: quest'ultimo viene rilasciato dalle ghiandole salivari e presenta alcune caratteristiche riconducibili a quelle dell'enzima umano Glp-1, fondamentale per il controllo degli zuccheri. Gli studiosi grazie a tale scoperta hanno in sostanza potuto creare in laboratorio una molecola simile al peptide attivo nell'uomo, che potrebbe pertanto diventare fondamentale nella cura della malattia del pancreas. Il diabete, infine, è una delle malattie sociali più diffuse del pianeta. Oggi in Italia sono almeno tre milioni le persone che soffrono di tale patologia, e si stima che nel 2025 si arriverà a 5 milioni di casi. La malattia rappresenta la quarta causa di morte nei paesi sviluppati e provoca 4 milioni di decessi ogni anno. Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità se oggi si contano 194 milioni di malati al mondo, questa cifra salirà nel 2025 a 333 milioni. Ad aumentare sarà soprattutto il diabete di tipo 2, in cui il pancreas produce insulina ma l'organismo non riesce a usarla in modo efficiente per trasformare gli zuccheri in energia. ___________________________________________ La Stampa 15 Sett.04 SAN RAFFAELE: UN PAZIENTE VIRTUALE PER ADDESTRARE I CHIRURGHI Un nuova tecnica di apprendimento «virtuale», ideata dalla Dies Group, per chirurghi: è quella che sarà sperimentata nel corso teorico-pratico che si svolge in questi giorni al S. Raffaele di Milano, che utilizza il TED, «Training endovasculardevise», simulatore per la chirurgia endovascolare. L'intervento si svolge in un ambiente che ricostruisce la sala emodinamica: il paziente artificiale, che riproduce l'anatomia e la fisiologia cardiovascolare, giace su un tavolo provvisto di pedali e joystick per regolare proiezioni, zoom e contrasto delle immagini. Dietro al tavolo tre schermi permettono di monitorare lo stato dell'operazione e parametri vitali del paziente. Durante l'intervento sul malato virtuale il medico utilizza strumenti reali e riscontra le sensazioni tattili e le complicanze proprie della chirurgia vascolare mini-invasiva Il TED, «Training endovascular devise», simula paziente e sala operatoria ___________________________________________ MF 15 Sett.04 ARTRITE KO. SENZA FARMACI Salute Arriva dal Giappone una tecnica che elimina dal sangue le cellule infiammatorie Già praticato all'Ospedale San Raffaele di Milano, non presenta effetti collaterali di Annika Abbateianni L’ artrite reumatoide è una malattia infiammatoria cronica che , colpisce prevalentemente le articolazioni. La vera causa di questa patologia è ancora ignota, ma è conosciuto il procedimento che porta alla comparsa delle lesioni da essa provocate. Si tratta di una sorta di «auto-aggressione» che il sistema immunitario del paziente esercita verso se stesso (è quello che si verifica nelle cosiddette malattie autoimmumi). Di fatto, per ragioni sconosciute, i meccanismi immunitari del malato iniziano a produrre sostanze e cellule che normalmente hanno una funzione di difesa nei confronti degli agenti nocivi esterni, ma che in questo caso aggrediscono alcuni componenti dell'articolazione, causando rossore, ingrossamento, dolore, rigidità e limitazione dei movimenti, solitamente intorno alle articolazioni di mani, piedi, gomiti, ginocchia e collo. Sebbene sia possibile la sua comparsa in età pediatrica (artrite giovanile), l'artrite reumatoide, che colpisce oltre 6 milioni di persone nel mondo, si manifesta per lo più tra i 35 e i 50 anni di età, con frequenza quattro volte superiore nel sesso femminile. Per quanto riguarda ,le terapie, quella farmacologica si basa sull'impiego di antinfiammatori non steroidei (Fans) e cortisonici. Di recente, i ricercatori di Basilea della casa farmaceutica Roche, in collaborazione con gll immunologi dellTianard medical school di Boston, hanno scoperto una piccola proteina naturale capace di influenzare la risposta immunitaria, evento che fa ben sperare nella messa a punto di nuove strategie terapeutiche. «Quando il paziente non risponde più ai farmaci tradizionali, vengono utilizzati gli immunosoppressori, ossia molecole molto potenti che bloccano il processo infiammatorio, ma che hanno l'effetto collaterale di diminuire sensibilmente la capacità del sistema immunitario di reagire contro gli agenti nocivi esterni», spiega il professor Alberto Beretta, della Clinica delle malattie infettive dell'Ospedale San Raffaele di Milano. «Ecco perché da tempo si studia per mettere a punto soluzioni che abbiano la stessa efficacia dei farmaci immunosoppressori, senza le conseguenze negative. Fra queste, l'innovativa terapia Myp (Myeloid cells purging, o Eliminazione delle cellule mieloidi), sviluppata in Giappone, permette di eliminare dal sangue le cellule infiammatorie, senza intaccare la normale risposta del sistema immunitario», spiega il professore. Classificata come presidio medico terapeutico e registrata dalla Comunità europea, la tecnica è piuttosto semplice, come illustra Beretta «AL paziente, fatto accomodare su una poltrona, viene effettuato un prelievo dalla vena sinistra mediante il quale il sangue è spinto, da una pompa peristatica, su un apposito filtro sul quale vengono depositate solo le cellule infiammatorie; una volta pulito, il sangue viene fatto rientrare in circolo dalla vena destra}>. La seduta, della durata di un'ora, è preceduta da un emocromo di controllo, finalizzato a constatare che il livello di emoglobina di chi deve sottoporsi al trattamento sia accettabile: di fatto, i pazienti anemici non possono beneficiare della Myp, durante la quale si perde un po' di sangue. Se non ci sono problemi di questo genere, la seduta è tollerata molto bene, lasciando solo in alcuni casi un po' di stanchezza successiva Il ciclo consiste in una seduta una volta alla settimana per cinque o sei settimane, a seconda della gravità della patologia; si attendono poi uno o due mesi per un eventuale richiamo di una o due sedute. La Myp è già disponibile al San Raffaele di Milano a livello sperimentale e, privatamente, presso le sedi del Centro diagnostico italiano. ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 13 Sett.04 ATOMI: ECCO LA STRUTTURA PERFETTA In mano ai fisici italiani la chiave per costruire i materiali del futuro ROMA. Materiali leggeri e robustissimi, incredibilmente resistenti, praticamente indeformabili: non esistono ancora, ma adesso ottenerli sarà più facile grazie alla scoperta, italiana, di una nuova struttura di atomi così stabile, perfetta e simmetrica che gli stessi fisici la definiscono "magica". Strutture come questa, descritta sulla rivista internazionale Physical Review Letters, sono i veri e propri mattoni di quelli che saranno i materiali del futuro. La scoperta si deve a un gruppo di fisici teorici dell'unità dell'Istituto nazionale di fisica della materia (Infm) presso l'università di Genova, in collaborazione con il Centro internazionale di fisica teorica (Ictp) di Trieste, l'Istituto per lo studio delle macromolecole (Ismac) del Cnr a Milano, l'Istituto per i processi fisico-chimici (Ipcf) del Cnr a Ghezzano (Pisa) e un gruppo francese del Cnrs di Marsiglia. "Gli sviluppi che questa ricerca potrà avere sono imprevedibili", ha osservato il coordinatore dello studio, Riccardo Ferrando, dell'unità dell'Infm presso l'università di Genova, uno dei quattro gruppi di ricerca al mondo specializzati nella caccia alle nanostrutture magiche: gli altri tre gruppi lavorano negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Messico. Strutture magiche come quella ottenuta a Genova "potrebbero portare, ad esempio, ad ottenere materiali composti da tre o quattro metalli", ha aggiunto, ma potranno anche permettere di comprendere come sono fatti i nuovi materiali finora ottenuti. - La nanostruttura magica: per i fisici sono "magici" gli aggregati particolarmente stabili e che, in più, hanno anche una grande simmetria, tanto da essere esteticamente gradevoli. "Sono aggregati che si possono ottenere solo con un numero specifico di atomi", ha detto Ferrando. L'aggregato magico appena ottenuto, per esempio, è formato da 27 atomi di argento e da 7 atomi di nichel. Per il momento è ancora una struttura teorica, ma i ricercatori sono convinti che potrà avere sviluppi pratici imprevedibili. La caccia alle strutture magiche dura da anni, ma recentemente ha trovato nel computer un potente alleato: all'inizio vengono inserite nel computer strutture decisamente brutte. Quindi speciali algoritmi selezionano solo le migliori. "Procedendo in questo modo - ha detto Ferrando - abbiamo ottenuto famiglie di strutture che si sono evolute progressivamente, acquisendo ad ogni generazione delle nuove caratteristiche, migliori delle precedenti". La struttura magica ottenuta alla fine è stata quindi il risultato di un processo di evoluzione molto simile a quella biologica. Ci sono voluti due anni di lavoro e sono state analizzate centinaia di strutture prima di selezionare la più stabile. Il prossimo obiettivo è studiare le proprietà della struttura magica e verificare se compaiono in strutture simili ottenute da altri elementi. Poi la sfida sarà costruire questi aggregati nella realtà. ________________________________________________________ La Stampa 15 Sett.04 DIVAMPA LA POLEMICA SUL VACCINO CONTRO LA «LINGUA BLU» DEGLI OVINI L’IMPIEGO DI PREPARATI BI- E TRIVALENTI SCATENA UNA QUANTITA’ DI INCONVENIENTI DOPO LA PROFILASSI. PROBLEMATICA ANCHE LA LOTTA AGLI INSETTI CHE LA CAUSANO LA febbre catarrale degli ovini, malattia presente da oltre un secolo in Africa, Asia, Nord America e Europa meridionale, è più nota come blue tongue (lingua blu), per uno dei sintomi caratteristici che può provocare nelle pecore, la cianosi della lingua. Comparsa per la prima volta in provincia di Cagliari nell'agosto del 2000, l'infezione è rapidamente dilagata in tutta l'isola creando danni gravissimi alla pastorizia sarda, settore portante di una zootecnia che conta oltre 3 milioni di pecore. Successivamente il morbo si è esteso in Sicilia e Calabria, per poi diffondersi nelle altre regioni del centro sud. Sono stati diagnosticati focolai anche in Toscana, fino a lambire il confine meridionale della Liguria. La velocità di propagazione della blue tongue si spiega con le caratteristiche della malattia, sostenuta da un virus (orbivirus, famiglia Reoviridae) trasmesso da insetti vettori del genere Culicoides. Si tratta di minute zanzare, molto aggressive, che entrano in azione al tramonto attaccando gli animali durante il riposo notturno. I Culicoides, di dimensioni così ridotte da superare anche le normali reti antizanzare, dopo aver succhiato il sangue da un animale infetto pungono i capi sani, inoculando il virus. Se il clima è favorevole gli insetti, sfruttando il vento ed i mezzi di trasporto del bestiame, sono in grado di trasmettere l'infezione anche a notevole distanza. La blue tongue ha un periodo di incubazione breve (5-10 giorni) ed inizia con febbre elevata, respirazione affannosa, inappetenza e depressione. Rapidamente si manifestano poi fenomeni congestizi all'apparato buccale, con ulcere, erosioni, gonfiori e formazione di croste nasali. Non sono rare le zoppie per lesioni agli unghielli, l'alopecia per distacco del vello e le complicazioni polmonari. La mortalità può falcidiare fino ad un terzo del gregge ma le perdite più elevate si registrano negli agnelli. Del virus della blue tongue sono stati identificati 24 sierotipi. Nel nostro Paese è stato inizialmente isolato il sierotipo 2; successivamente sono comparsi il 4, il 9 ed il 16. Il virus, che non si trasmette all'uomo, oltre ai ruminanti selvatici, di scarso rilievo nella diffusione, può infettare anche bovini e capre. Queste specie di solito non manifestano sintomi evidenti di malattia ma rappresentano tuttavia pericolosi serbatoi di infezione. Contro la febbre catarrale degli ovini non esistono terapie ed anche i farmaci sintomatici hanno scarsa efficacia. Complessa anche la lotta agli insetti vettori che si avvale, con alterni successi comunque limitati, alla riduzione temporanea dei Culicoides, dei piretroidi naturali o di sintesi. L'arma della vaccinazione, adottata con successo in Sardegna nel 2002 per proteggere ovini e bovini, ha successivamente scatenato dure e tuttora non sopite polemiche. Infatti il vaccino, prodotto con virus attenuato, immunizza solo nei confronti del sierotipo contenuto nel presidio utilizzato. In altre parole non si ha immunità crociata. Ora, mentre nella prima fase era stato impiegato un vaccino monovalente, la comparsa di altri sierotipi ha costretto ad allestire preparati bi e trivalenti. L'utilizzo di questi vaccini composti ha provocato veementi proteste degli allevatori che denunciano numerosi inconvenienti post-profilassi: febbre alta, perdita di latte, infertilità, aborti e vistosi cali di peso. Inoltre, allo stato attuale, i laboratori non sono sempre in grado di differenziare le positività sierologiche vaccinali da quelle da virus di strada. Possono così scattare pesanti provvedimenti restrittivi sulla movimentazione animale senza certezza di effettiva presenza di un focolaio. Per questo l'ultima campagna vaccinale, terminata a maggio 2004, è stata un pesante fallimento. I nuovi orientamenti profilattici dovranno prevedere più attenti controlli sull'innocuità dei vaccini ed un loro utilizzo mirato alle zone dove la presenza endemica del virus giustifica un intervento di massa. Mario Valpreda ________________________________________________________ Corriere della Sera 12 Sett.04 LA BOCCA SANA FA BENE AL CUORE Sempre più studi segnalano un possibile collegamento tra l' infiammazione causata dalle malattie parodontali e le patologie cardiovascolari. Un fattore di rischio che può essere combattuto con una scrupolosa igiene orale. Sparvoli Antonella Sempre più ricerche segnalano un collegamento tra malattie parodontali e salute dell' organismo in generale. Alcuni ricercatori dell' University College di Londra, capitanati da Maurizio Tonetti, italiano trapiantato in Inghilterra, hanno pubblicato alcuni studi che danno indicazioni importanti sulla possibilità che l' infiammazione cronica, causata da una malattia parodontale grave, possa costituire un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari. CONTROLLI PERIODICI Un' accurata e programmata «manutenzione» delle gengive prima e durante la gestazione può contribuire a mentenere basso il livello di infiammazione generale dell' organismo I n uno studio appena pubblicato, esperti dell' University College di Londra hanno cercato di chiarire se una cura (non chirurgica) della malattia parodontale potesse influenzare i livelli nel sangue della proteina C reattiva, una sostanza che da molto tempo è ritenuta un "indicatore" dello stato infiammatorio generale dell' organismo, ma che da qualche anno è considerata anche una «cartina di tornasole» del rischio cardiovascolare. Così, a 94 pazienti sani, eccetto che per una parodontite grave generalizzata, è stato praticato un trattamento basato unicamente sulla rimozione dei batteri dalla superficie dei denti. Successivamente agli stessi malati sono stati controllati alcuni parametri infiammatori, tra cui, appunto, la proteina C reattiva, per confrontarli con quelli di un gruppo di pazienti che non aveva ricevuto alcun trattamento. Risultati «La terapia ha ridotto notevolmente i valori di proteina C reattiva. Non solo, il trattamento parodontale ha abbassato il livello della proteina in misura tale da potere essere paragonato a quello che si ottiene con una terapia a base di statine (farmaco anti-colesterolo)» segnala Antonio Carrassi, presidente della Società italiana di parodontologia e professore ordinario di malattie odontostomatologiche all' Università di Milano. Questi dati vanno, comunque, presi con grande cautela e attenzione, perché la proteina C reattiva è un indice di infiammazione cronica, non legato unicamente alle malattie cardiovascolari o parodontali. «Quanto emerso da questo studio merita tuttavia di essere ulteriormente indagato, soprattutto se si considera che è sempre più evidente un legame tra meccanismi infiammatori cronici e processo arteriosclerotico» puntualizza l' esperto. «Occorrerà ora pianificare studi su grandi numeri per verificare se i batteri che si associano alla parodontite, in grado di arrivare fino al torrente sanguigno, possano in effetti dare avvio a uno stato di infiammazione generalizzata in grado di contribuire all' instaurarsi della malattia cardiovascolare» sostiene Carrassi. Prevenzione Abitudini salutari: dallo spazzolino alla dieta In genere si tende erroneamente a identificare la malattia parodontale con la cosiddetta piorrea. Ma quest' ultima indica solo un sintomo che è poco frequentemente associato alla parodontite. «Quella parodontale è una malattia di tipo cronico, legata a numerosi fattori, provocata dai batteri che popolano la bocca. Colpisce in forma lieve la maggior parte delle persone e in forma grave un buon 10-20% della popolazione» segnala il professor Carrassi. Se non curata, può avere conseguenze molto spiacevoli, come la perdita di denti. «Spazzolino, dentifricio e filo interdentale sono strumenti indispensabili. E' poi molto importante lo stile di vita: abolizione del fumo, alimentazione bilanciata, attività fisica regolare, limitazione del consumo di alcolici sono provvedimenti che vanno nella direzione di una buona salute orale e non solo» riferisce l' esperto. Le altre possibili conseguenze negative Infezioni respiratorie e parti pre-termine Le associazioni tra malattie parodontali e malattie sistemiche sono state trovate a vari livelli. Tra le malattie, per cui è stata ipotizzata un' associazione, ci sono, oltre a quelle cardiovascolari, le polmoniti batteriche, le infezioni respiratorie nosocomiali (ossia contratte all' interno di ospedali o case di cura), la broncopneumopatia cronica e i parti pre-termine. «L' associazione con le polmoniti batteriche è abbastanza spiegabile. Il soggetto, infatti, aspirando le secrezioni orali, può aspirare anche batteri presenti nella bocca che, una volta giunti nell' albero broncopolmonare, potrebbero provocare infiammazione a questo livello» osserva Carrassi. Per quanto riguarda, invece, le infezioni respiratorie nosocomiali è stata fatta un' altra osservazione interessante. «In pratica, si è visto che negli individui, che risiedono in case di cura, fare degli sciacqui con una sostanza antibatterica, la clorexidina, riduce notevolmente la prevalenza di infezioni respiratorie» segnala l' esperto. Infine, studi recenti hanno evidenziato che nelle future mamme, con malattia parodontale grave, il rischio di parto pre-termine è sette volte maggiore rispetto alle donne senza problemi orali. Un collegamento che - secondo Carrassi - necessita di essere chiarito e confermato. ________________________________________________________ Le Scienze 16 Sett.04 DIABETE E PRESSIONE SANGUIGNA Esiste un legame molecolare fra ipertensione e diabete Uno studio pubblicato sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences" ha identificato la molecola che si lega a un recettore nel cervello noto per regolare la pressione del sangue e il rilascio di insulina. Inoltre, i ricercatori hanno scoperto che questa molecola agisce come un neurotrasmettitore, ovvero trasporta messaggi da una regione del cervello all'altra. "Sapevamo già da tempo - spiega George Prell della Mount Sinai School of Medicine, primo autore dello studio - che quando un particolare recettore nel cervello viene iperstimolato, i vasi sanguigni si restringono e la pressione del sangue cresce. Quello che ignoravamo era quale molecola si legasse a questo recettore per innescare la reazione. Ora che abbiamo identificato questa sostanza, possiamo cominciare a studiare un modo per interrompere la sua azione. Abbiamo anche scoperto che un accumulo eccessivo di questa molecola nel pancreas impedisce il rilascio di insulina, e dunque è possibile che possa trattarsi del legame, da tempo cercato, fra questi due disturbi". Gli scienziati hanno scoperto che la molecola, imidazol-4-acido acetico- ribotide, si lega a recettori diffusi in tutto il cervello ma soprattutto nelle aree importanti per la regolazione della pressione sanguigna. Quando la molecola si lega al recettore, la pressione sanguigna cresce. Se invece è presente un antagonista (un'altra molecola che blocca l'azione della prima), gli effetti risultano inibiti. ________________________________________________________ Le Scienze 16 Sett.04 TOGLIERE LE TONSILLE SERVE A POCO La rimozione chirurgica ha benefici limitati Secondo uno studio pubblicato sulla rivista "British Medical Journal", la rimozione chirurgica di tonsille e adenoidi (adenotonsillectomia) nei bambini con lievi sintomi di infezione alla gola o tonsille e adenoidi ingrossate non presenta grandi benefici. L'adenotonsillectomia è una procedura molto diffusa nei paesi occidentali, eppure non ci sono prove che sia utile ai bambini con sintomi leggeri. Un team di ricercatori dell'University Medical Center di Utrecht, in Olanda, ha monitorato 300 bambini, di età compresa fra 2 e 8 anni, con infezioni ricorrenti della gola o con tonsille e adenoidi ingrossate. Metà è stata sottoposta a intervento chirurgico, l'altra metà no. Tutti i bambini sono stati seguiti per un periodo di due anni. Durante i primi sei mesi, la chirurgia ha ridotto marginalmente il numero di episodi di febbre, infezioni della gola e del tratto respiratorio superiore. Ma dai sei ai ventiquattro mesi, non c'è stata alcuna differenza fra i due gruppi. Gli autori concludono pertanto che l'adenotonsillectomia non ha grandi benefici clinici. ________________________________________________________ Le Scienze 14 Sett.04 L'AMALGAMA DENTALE NON È NOCIVO L'impasto contiene mercurio e altri metalli Il Life Sciences Research Office (LSRO) di Bethesda, negli Stati Uniti, ha pubblicato un rapporto secondo il quale l'analisi di tutti gli studi pubblicati nella letteratura scientifica dal 1996 non fornisce prove sufficienti per sostenere che l'amalgama dentale usato per le otturazioni abbia effetti nocivi sulla salute umana, tranne che per una piccola percentuale di individui che esibiscono una particolare ipersensibilità al mercurio e ad altri metalli presenti nell'impasto. Il LSRO ha analizzato più di 950 pubblicazioni mediche e scientifiche sull'argomento apparse fra il gennaio 1996 e il dicembre 2003. I risultati sono il frutto di consultazioni con esperti di immunotossicologia, immulogia, allergia, neurotossicologia, pediatria ed epidemiologia. L'amalgama dentale è un materiale usato diffusamente dai dentisti e introdotto per la prima volta oltre 150 anni fa. Spesso consiste in una lega di mercurio elementale con altri metalli (argento, stagno, rame e zinco). Gli esperimenti hanno dimostrato che dall'impasto viene liberato vapore di mercurio che viene poi assorbito dal corpo umano. Ma nonostante numerose indagini scientifiche, non esiste la prova che il mercurio assorbito abbia effetti dannosi sulla salute umana.