I SOGNI SPEZZATI DEI PROF - ATENEI TRA PROF «VERI» E «FALSI» - DEMAGOGIA ALL’UNIVERSITÀ - GARATTINI: UNIVERSITÀ PIÙ SPECIALIZZATE - UNA FONDAZIONE SALVA-ATENEI - ATENEI CHIUSI AI GIOVANI TALENTI - E POI DICONO AIUTIAMO LA RICERCA - AN: UNIVERSITÀ, NO ALLA SANATORIA - MORATTI AMERIKANA? NO, È UNA OPE LEGIS - L’UNIVERSITÀ DELLA MORATTI NON È «AMERICANA» - ARRIVA LA NUOVA LAUREA MA LE GRADUATORIE NON SCOMPARIRANNO - L'ITALIA PERDE 17 POSTI NELLA CORSA TECNOLOGICA - UNIVERSITÀ PREISCRIVERSI ON-LINE, È POSSIBILE - SCUOLE MEDICHE, 87 BORSE A SASSARI - CAGLIARI: SÌ ALLA NUOVA FACOLTÀ ARCHITETTURA - NUORO: UNA «ATENE SARDA» CON 1500 STUDENTI - QUEL SANTO PEZZENTE DI SOCRATIE - ======================================================= SARTORI: C' È VITA E VITA LO DICE ANCHE SAN TOMMASO - G.COSSU«L'EMBRIONE È VITA UMANA MA LA LEGGE VA SUBITO ABOLITA» - S.PISU «LA LEGGE NON BLOCCA LA RICERCA SCIENTIFICA» - T.SOLLAI «È UNA LEGGE CHE UMILIA LA RICERCA SCIENTIFICA» - OSPEDALI ON LINE: POLICLINICO UNIVERSITARIO, CAGLIARI - IN RETE I SERVIZI DEL BROTZU - SANITÀ: «SIAMO ALLO SFASCIO» - PER LA SANITA’ INGLESE IL MEDICO? ITALIANO E MASCHIO - CAGLIARI: MINI CLINICA VIRTUALE PER GLI ASPIRANTI MEDICI - F.MELONI: PRONTO AD ANDAR VIA MA SPERO DI RESTARE - CGIL «ALL'OSPEDALE BROTZU MANCA IL PERSONALE» - LA REGIONE BLOCCA L'APPALTO PER BUSINCO E MICROCITEMICO - CIAMPI PREMIA PATRIZIA FARCI - MACCHÉ VACCINI L’AUTISMO È ANTICO - AUTISMO: LA PAURA DEL CONTATTO VISIVO - UN VACCINO CONTRO IL TUMORE ALLA PROSTATA - NON FAI LA PRIMA COLAZIONE? ATTENTO AL COLESTEROLO ALTO - CANCRO E ICTUS, SI MUORE MENO - SCOPRIRE UN TUMORE DALLA SALIVA - SARÀ PADRE ANCHE CHI HA UN TUMORE AI GENITALI - CANCRO AL, SENO: È POLEMICA SULL'ASPORTAZIONE DEL MALE - SCLEROSI MULTIPLA ALLARME IN SARDEGNA - L'AMERICA SPERIMENTA LA MEDICINA PSICHEDELICA - RISOLTO IL REBUS DEI «BIMBI VECCHI» - LE AGILI DITA DEI CHIRURGHI SI ALLENANO COI VIDEOGIOCHI - COAGULAZIONE A POSTO IN 15 GIORNI. SENZA FUMO - LE NUOVE TERAPIE PER CURARE L'EMOFILIA - IL CARCIOFO ABBASSA IL COLESTEROLO - UN' ARMA CONTRO IL MIELOMA MULTIPLO - POLIZZE SULLA VITA PER SIEROPOSITIVI - QUANDO IL TITANIO DANNEGGIA LE ARTICOLAZIONI - ======================================================= _____________________________________________________ La Stampa 9 mar. ’05 I SOGNI SPEZZATI DEI PROF Rinviato il Ddl su stato giuridico dei docenti L'esame del disegno di legge che riforma lo stato giuridico della docenza è stato rinviato alla commissione competente. Soddisfatte le associazioni dei ricercatori che hanno sospeso la manifestazione di protesta programmata per il 15 marzo. Contro il Ddl nei mesi scorsi si era schierata anche la Crui. Approva il rinvio anche l'opposizione intenzionata a lavorare in Parlamento per definire uno stato giuridico dei docenti innovativo e adatto alle università moderne, con regole chiare sui doveri e diritti dei professori. Per il ministro e per il relatore il giudizio è arrivato ieri: «Rimandati al prossimo appello», ovvero si torna indietro dalla discussione in aula della Camera alla Commissione Cultura. Per le troppe versioni, le continue modifiche nello scritto; per le incertezze, gli ondeggiamenti nell'orale (aperture al dialogo seguite, secondo i loro critici, da blitz); ma, soprattutto, per i contenuti del loro progetto che non piace a Crui, Cnu, Adu, Andu, Apu, Cisal- università, Cisl-università, Firu, Snals, Sun, Ullpa-Ur, Coordinamento nazionale ricercatori, rete dei precari, e così via. Dietro queste sigle buona parte del mondo universitario italiano, dai Magnifici Rettori - giù giù - fino ai professori a contratto che devono campare con 1.280 euro netti all'anno; uniti - anche se per ben diversi motivi ideali e non - nel respingere la riforma. Rimandata quindi Letizia Moratti, milanese, laurea in scienze politiche, ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca, tecnico molto ammirato e altrettanto detestato che, dal febbraio 2004, mentre si avvicinano la fine della legislatura e le elezioni, ha portato in Parlamento un disegno di legge delega sul riordino dello stato giuridico e del reclutamento dei professori universitari. Fra le tante novità: la messa a esaurimento del ruolo di ricercatore (la fascia iniziale della docenza verrebbe sostituita da titolari di borse di studio più o meno lunghe); il conferimento su domanda del titolo (ma non del ruolo) di «professore aggregato» a quei ricercatori che da anni svolgono attività anche didattica; il ritorno ai concorsi nazionali per ordinari e associati con la presenza nelle commissioni di concorso anche di professori stranieri come avviene negli altri Paesi europei, ma non in Italia. E ancora: mai più posti a vita nell'università; e posti di professori «temporanei» (professionisti o altro) creati con finanziamenti di imprese e fondazioni. Un progetto tanto ambizioso quanto politicamente rischioso, visto i tanti interessi in gioco, quello di Moratti, che dice di voler rimodellare la nostra università per renderla non solo più flessibile, più meritocratica e più capace di aprire sbocchi sul mercato del lavoro, ma anche più in linea con il resto dell'Europa e con la «strategia di Lisbona». Rimandato con lei Mario Pepe, 54 anni, di Bellosguardo (Salerno), laurea in medicina, eletto nel collegio di Velletri nella lista «Abolizione scorporo» (dal 2001 in Fi) che, in questa arruffata vicenda, è il relatore di un disegno di legge composto da 4 soli articoli e molti commi. Nel continuo tentativo di mediare Pepe ha sfornato tanti e tali emendamenti da modificare la struttura originale del ddl (nell'ultima versione la legge delega è solo per il reclutamento e per lo status giuridico è prevista una legge ordinaria; ed è ritornata la distinzione per i professori tra tempo pieno e tempo definito che era stata eliminata in una prima versione). Confusione, caos, veleni. Approvato a luglio 2004 dalla commissione Cultura, il ddl era arrivato in aula il 21 febbraio. Tra queste due date, attorno all'insolita coppia Moratti-Pepe le pressioni, i cumuli di mozioni prodotti negli atenei, le proteste dei ricercatori (in autunno in molti si erano rifiutati di continuare a tenere lezioni bloccando così molti corsi). Come se non bastasse: i dubbi della Crui, la Conferenza dei rettori dell'università italiane. Risultato: già il 21 febbraio, alla Camera, Moratti e Pepe erano apparsi parecchio isolati, anche nella loro maggioranza. Irritati anche perché, in piena trattativa, il ministro Moratti ha varato un decreto legge (numero 7) che riduce tra 3 a un anno tempo giudicato troppo breve per una seria valutazione - il periodo di conferma per i nuovi ricercatori, alla fine i rettori hanno finito per schierarsi contro la riforma. Prima di tutto, dicono, per ragioni di metodo. «La Crui, fin dall'inizio e ripetutamente, ha ribadito la convinzione che era necessario coinvolgere in un confronto aperto le diverse componenti delle comunità accademiche per trovare soluzioni più condivise e capaci di garantire un effettivo miglioramento del sistema», spiega il professor Piero Tosi, rettore all'università di Siena, presidente della Crui. Moratti sostiene invece di aver «tenuto sempre il tavolo di discussione aperto». II 2 marzo, lo sciopero, la piazza, lo slogan: «Un solo esubero: Moratti». Via Web la mobilitazione; i ricercatori con camici da laboratorio e maschere in faccia. «Non siamo dei fantasmi. Con i professori ordinari e gli associati siamo la terza gamba su cui regge l'università», protesta Marco Menafina, romano, 45 anni, da 13 ricercatore al dipartimento di fisica, uno dei leader del Cnru, Coordinamento nazionale ricercatori universitari. Ma più che lo sciopero, più dei durissimi proclami dell’Andu, Associazione nazionale docenti universitari (ha definito il ddl Moratti «una legge mortale per l'università e dannosa per il Paese») la spallata finale agli ennesimi tentativi di mediazione l'hanno data proprio i rettori. «II dialogo avviato e perseguito nei mesi scorsi con vari contributi di proposta è ora compromesse e inevitabilmente interrotto dopo la proposta da parte del relatore di maggioranza di emendamenti che portano il disegno di legge in una direzione assolutamente non condivisibile neppure come base per successivi interventi e integrazioni», ha scritto al ministro, il 3 marzo, la Crui, dopo ennesimi emendamenti di Pepe. Toni ultimativi, inediti. Sono diventati antigovernativi anche i rettori? «No, nessun schieramento! Colossali problemi di merito hanno portato alla coesione un settore che non chiede aumenti salariali, ma risorse per funzionare meglio. Occorre riflettere di più, cercare soluzioni condivise», sostiene Guido Trombetti, rettore dell'Università degli Studi, Federico II, a Napoli e vicepresidente della Crui. Da Napoli a Torino; dall’università di massa a un ateneo d'eccellenza. «La posizione della Crui é giusta. Abbiamo bisogno di riforme condivise e d'investire di più sull'attività di ricerca e sui giovani», dice Gianni Del Tin, rettore del Politecnico di Torino che, grazie al mix innovazione-ricercarapporti con le imprese, si autofinanzia ormai al 50%. Distonie. L'università italiana dagli immensi problemi, con la docenza incardinata in un modello a cilindro (17.927 professori ordinari, 17.999 associati, 21.254 ricercatori) non può essere trattata come un malato terminale. C'è disinteresse nell'opinione pubblica? Tutti, dal ministro ai docenti, sottolineano come l'università non può fare notizia solo per gli scandali (ultimo episodio: le inchieste della magistratura su concorsi pilotati, esami venduti e l'incredibile Parentopoli» delle cattedre, all'università di Bari); o venir vissuta come un luogo sempre più degradato da dove i cervelli migliori e i giovani più promettenti fuggono. Al contrario deve essere avere un ruolo sempre più strategico. Essere un «fattore propulsore della crescita, protagonista nell'evoluzione della società e dell'economia», per usare le parole di Salvatore Settis, rettore della Normale Pisa cui In dedicato a questi temi il libro- intervista «Quale eccellenza?», edito da Laterza. Così il nostro viaggio nell' università in rivolta comincia - non a caso - dall'ostacolo più delicato e ingombrante sulla strada di qualsiasi riforma: i 22 mila ricercatori che lavorano nell'università con contratti a tempo indeterminato. Hanno dai 30 ai 58 anni (secondo i dati del ministero i più anziani, do zoccolo duro», sono ben 7 mila, guadagnano circa 55 mila euro lordi l'anno); lavorano soprattutto nella facoltà scientifiche e negli atenei più grandi, dalla Statale di Milano a Bologna alla Sapienza di Roma, a Napoli, Bari, Palermo. Tutto ha avuto inizio nel 1980. All'italiana con una sanatoria: la legge 38~ che abolì il ruolo degli assistenti trasformandoli, ope legis, in altrettanti associati. Sotto quei «beneficati» ha creato il ruolo di ricercatore. Doveva essere il primo gradino della carriera universitaria, ma molti di loro, per mancanza di concorsi da associati e non sempre per incapacità, sono diventati dei ricercatori a vita. Non solo. Altro che ricerca: vanno in aula, dietro la cattedra. Franco Quaranta, 48 anni, due lauree in ingegneria meccanica e navale, due corsi per 214 ore Fanno alla facoltà d'ingegneria, a Napoli, sposato con due figli («per fortuna mia moglie lavora e mio padre mi ha regalato la casa») guadagna 1.900 euro netti al mese. Racconta: «A parte i professori che non fanno un accidente o quei professori di medicina dal volto sconosciuto ai loro studenti, anche i professori più seri non reggerebbero senza di noi». Rossella Momme, 55 anni, laurea in lettere antiche a Roma, dal '74 ricercatrice all'università Arcavacata (Cosenza), 128 ore l'anno di lezioni solo per il corso di greco, 2.000 euro netti al mese, ha la tessera di Rifondazione ed è la «pasionaria» dei ricercatori. Spiega: «in Calabria la rivolta è iniziata nel 2003. Non è vero che vogliamo una sanatoria, ma neanche una presa in giro come un titolo senza un ruolo che, oltretutto, ci costringe a fare la didattica come prima senza riconosci menti nè un euro in più». Sostengono al Cnru che il 35% dei corsi (con punte del 45%) è sulle spalle dei ricercatori. Dati di parte? «I ricercatori hanno dato in questi anni molto di più di quanto dovevano. Di fatto hanno svolto un ruolo di docenza che ora non viene loro riconosciuto», conferma il professor Guido Trombetti e indica l'ultimo documento della Crui in cui si chiede d'introdurre per gli attuali ricercatori «un terzo livello di docenza come nel resto d'Europa». Domanda: ma voi che conoscevate da anni questa situazione scabrosa, perché non siete intervenuti prima? «Mia cara signora - risponde benevolo il rettore - tutti abbiamo commesso degli errori. Certo, visto che le università utilizzano denaro pubblico e rivendicano l'autonomia, è giusto ed auspicabile che s'introduca un controllo di qualità sull'uso delle risorse». Dice il ministro Moratti di aver più volte ripetuto inutilmente in questi anni ai rettori: «Siate più rigorosi!». E ora come si fa? Salvatore Settis (alla Normale ci sono solo 40 ricercatori) non sta nè con Moratti nè con i suoi colleghi. Teme concorsi «personalizzati», una replica di ciò che accadde nell'80, che «farebbero forse l'interesse dei singoli ricercatori non quello del Paese». Se la logica è quella del «Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori» il rischio è mettere un immenso tappo sulla testa dei più giovani, bloccando per anni le carriere nell'università. Ma c'è di più: sotto il cilindro che ha come base i ricercatori c'è l'immenso iceberg di circa 50 mila precari. «Tra questi, 32 mila, sono i professori a contratto creati negli ultimi anni con la riforma Berlinguer. La precarietà non l'ha creata la Moratti. Noi critichiamo severamente l'operato anche di altri governi, di altri ministri», dichiara un esponente della «Rete dei precari», Andrea Capocci, 31 anni, romano, laurea in fisica teorica, 3 anni all'estero e ora Co.Co alla Sapienza. Il 2 marzo Andrea era in piazza; racconta che nell'università si torna a far politica. Il suo futuro? «Vorrei restare, ma molti miei colleghi sono stati costretti a cercare posto in aziende private. Pur di sopravvivere hanno accettato anche contratti ben al di sotto del loro curriculum». Che rabbia, che tristezza; che spreco di giovani, dei loro entusiasmi, dei loro sogni. Si può andare avanti così? chiara.beriadiargentine@ lastampa.it _____________________________________________________ La Stampa 4 mar. ’05 ATENEI TRA PROF «VERI» E «FALSI» L’UNIVERSITÀ CAMBIA NATURA SE PASSA LA RIFORMA MORATTI IL cosiddetto Decreto Moratti - il disegno di legge che ristruttura la carriera dei professori universitari, - che circola in versioni varie da un anno, sin dal suo apparire ha intossicato la vita delle università in una misura che non si era mai vista. Le sue stesure si sono accavallate sommandosi a una tempesta di scombinati provvedimenti sull'università: un assurdo blocco dei concorsi in itinere, la richiesta di elaborare una pianificazione triennale nel giro di poche settimane… L'effetto di questa sconcertante gragnuola di disposizioni sta producendo disorientamento, sconcerto, e soprattutto un'insoddisfazione esplosiva. I giornali hanno segnalato sin dall'anno scorso le mille agitazioni, le proteste e l'irritazione che sono esplosi in risposta a questo modo di governare, in particolare in risposta al decreto. Per tutta risposta la maggioranza ha portato il testo dinanzi alle commissioni parlamentari. Lo sciopero totalitario che ha bloccato l'università il 2 marzo è la dura reazione del mondo accademico a quel testo, al quale intanto si è aggiunta a mo' di emendamenti una serie di toppe non meno indisponenti. La CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università), ricorrendo a un tono drammatico che usa di rado, ha espresso «la più netta contrarietà per il modo convulso e confuso con il quale sta procedendo l'iter parlamentare». In tutt'Italia sono state prodotte una miriade di mozioni, da parte di senati accademici, facoltà, atenei interi, associazioni. Non c'è, si direbbe, proprio nessuno che sostenga questo disegno di legge, salvo la maggioranza che lo spinge in parlamento. Ricordo che il decreto disegna una ristrutturazione totale del corpo docente, e, più alla radice, rimodella il concetto stesso di università. Scompaiono i ricercatori (la fascia iniziale di docenti), sostituiti da titolari di borse di studio più o meno lunghe. Le università scelgono i professori da una lista nazionale di idonei, creata in base al giudizio di una commissione. In questa lista si soggiorna alcuni anni, poi si decade e si ricomincia daccapo. Inoltre, il professore appena assunto non è stabile sin dall'inizio, ma riceve un incarico di tre anni rinnovabile una volta: alla fine dei sei anni, l'università decide se confermarlo o liberarsene. Molti gridano alla precarizzazione del lavoro: io invece non riesco a essere in disaccordo su questi punti, perché considero pericolosissimo rendere inamovibile sin dal primo momento una persona che potrebbe rivelarsi poco portata all'attività universitaria o dar prova di scarsa lealtà all'istituzione (come spesso accade). Ho scritto libri per dimostrare che la perennità dell'incarico dei professori è uno dei motivi del degrado della nostra università, e credo anzi che un sistema di verifica nel corso della carriera potrebbe essere anche più efficace. I veri, gravissimi, guai cominciano più avanti. Il testo prevede infatti che accanto ai professori «veri» entrino a sciami anche professori «falsi». Le università possono ingaggiare a contratto persone esterne (professionisti e simili); negli atenei statali questi professori-professionisti possono raggiungere il 50% del totale. Non basta: posti di professore «temporanei» possono essere creati mediante finanziamenti di imprese e fondazioni, creando così uno strato di docenti «ricchi», che ricevono, oltre allo stipendio, anche «integrazioni economiche». Entrano nell'università anche titolari di lauree specialistiche che possono insegnarvi per un massimo di dieci anni. Tutti i professori possono svolgere liberamente attività professionali e di consulenza, cioè far gli affari loro fuori dell'università. Se avete seguito finora questa lista, vi siete anche resi conto che l'università come siete abituati a immaginarla non esisterà più: di ricerca si parla poco, anche perché le università si riempirebbero di «esterni», in specie di professionisti, gente che non ha per mestiere la ricerca e l'insegnamento ma che esibendo titoli «professionali» può ricevere contratti brevi, semibrevi, lunghi e persino ingaggi permanenti. In pratica, negli atenei diventano il luogo di scarico degli interessi delle corporazioni professionali e dei privati. Trovate buono questo schema? Io no, anzi lo considero esecrabile e aberrante. Una delle infezioni più tossiche della nostra università è prodotta dalla fortissima presenza in diverse facoltà d'interessi professionali forti e fortissimi: chi ha affari da fare nel mondo esterno non ha certo tempo per insegnare (non parliamo di studiare, che è per taluni un'attività da compatire). L'università serve piuttosto a dare un badge variopinto che si può usare per fare affari. Lo scandaloso modello del professore-professionista, che vigoreggia quasi solo in Italia, sarebbe così enormemente consolidato invece che estirpato (come dovrebbe). In coda, il Decreto Moratti, contiene una sanatoria strisciante, dato che crea due concorsi riservati: con uno gli associati anziani possono diventare ordinari; con l'altro i ricercatori maturi diventano associati. In tal modo gli effettivi dell'università si intaseranno per anni, impedendo ai giovani bravi l'accesso al mondo della ricerca e stimolando ulteriori ondate di fuga di cervelli. Questo spirito benefico è stato rafforzato dalla girandola degli emendamenti. Questa ha, sì, aggiunto un solenne preambolo in cui si afferma che l'università è «sede della formazione e della trasmissione critica del sapere». Ma ha anche stabilito che i ricercatori che non siano riusciti a diventare associati vengano nominati «aggregati per la ricerca» e fatti, se non baroni, almeno valvassini. Contro simili decisioni si muove il mondo universitario. E giustamente, dato che questa maggioranza persegue, per frammenti coordinati, una ristrutturazione senza precedenti: creando le discutibili «università telematiche», istituendo il criticatissimo Istituto Italiano di Tecnologia, favorendo ogni sorta di circuito alternativo al sistema pubblico. Ultima mossa, il generoso finanziamento della Finanziaria a una università religiosa che fa capo al movimento dei Legionari di Cristo! Questo basta e avanza per capire i motivi della protesta che scuote l'università. Intanto circola insistente la voce di una generale sanatoria… ____________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 01 mar. ’05 DEMAGOGIA ALL’UNIVERSITÀ Lo scontra di oggi e le tante riforme fallite di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA E’ da molto tempo, credo, che delle faccende della scuola in genere e di quelle dell'università in particolare l'opinione pubblica ha smesso di interessarsi. Sostanzialmente per una rapane, anzi due. In primo luogo perché le è diventata sempre più difficile capirci qualcosa (intendo capire qualcosa dei dettagli, che poi dettagli non sono e sono anzi quasi la sala cosa che conta: gli ordinamenti, gli stati giuridici, il meccanismo dei concorsi, eccetera), e poi perché il continuo succedersi di progetti e di leggi, di leggi e di progetti, messi immediatamente da parte e scavalcati da altri, ha alla fine prodotto una stato generale di delusione e di stanchezza. Accade casi che anche -per la discussione che si apre oggi in Parlamento sul «riordino dello stato giuridico e il reclutamento dei professori universitari» il disinteresse, se non sbaglia, sia pressoché universale. Anche chi per avventura se ne interessa non può fare a meno di chiedersi perché mai, nonostante le continue riforme, l'università italiana da 40 anni non trovi pace. Gli da allora detto una buona volta che la causa fondamentale sta nel paradosso che, non da oggi, domina il funzionamento della struttura universitaria. Il paradosso è questo; soprattutto dopo l'autonomia concessa ai singoli atenei, l'università e sostanzialmente gestita dai professori che ci lavorano, i quali, però, non soia sono privi del potere di decidere il quadro finanziario e normativo generale (che rimane di competenza ministeriale), ma sono anche largamente esenti dalle conseguenze dei loro eventuali errori. Dall'altra parte c'è un ministero, che è si padrone dei finanziamenti e della normativa generale ma non ha quasi nessun potere nella gestione, essendo così in grado anch'esso di ritenersi esente da responsabilità per i propri eventuali errori. In questa moda l'università 'si trascina da tempo dibattendosi tra un autonomia gestionale che non ha potere di decisione, e un potere di decisione che ha limitatissime funzioni di gestione: l'una e l'altro, come se non bastasse, in condizioni di virtuale irresponsabilità. E nell'incertezza e nel vuoto creati da questa contraddizione che da decenni si è assisa sovrana la vera dominatrice della politica università italiana: la demagogia; alla quale sia il governo universitario dei professori sia il ministero puntualmente si appoggiano, ma di cm sano soprattutto i prigionieri e le vittime. Da un lato la stragrande maggioranza dei rettori, infatti, pur di no n avere fastidi, non sa fare di meglio che blandire i professori e i poteri locali, gli studenti e i docenti di primo livello, per esempio moltiplicando corsi dovunque e comunque, tenendo basse le rette di iscrizione e appoggiando la rivendicazione dei secondi per un ope legis che li veda passare tutti, di fatto, a livello superiore. Dall'altro lato il ministero accetta regolarmente che i propri provvedimenti, concepiti margine in base a qualche criterio logico e unitario, siano disarticolati e stravolti da voti parlamentari dove maggioranza e minoranza si danno la mano per affermare gli interessi corporativi cari a entrambe. Da qui dovrebbe prendere le mosse un ministro che volesse porre realmente su basi nuove la questione dell'università in Italia. Dovrebbe cercare di uscire dal pluridecennale ricatto demagogico, dalla morsa degli interessi particolari e avere una buona volta il coraggio di rivolgersi al Paese, all'opinione pubblica che in ultima analisi è quella i cui soldi mantengono l'università, e che e la sola a potersi assumere la difesa dell'interesse generale: farlo naturalmente con le parole giuste e invocando il senso comune, entrambi la base della democrazia. _____________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 9 mar. ’05 GARATTINI: UNIVERSITÀ PIÙ SPECIALIZZATE Pochi contatti fra teoria e laboratorio Dibattito sugli atenei ANGELO PROVASOLI DIANA BRACCO CARLO SALVATORI ENRICO DECLEVA Il direttore del Mario Negri: un' unica struttura non può formare infermieri, medici e ricercatori Ricercatore e docente Una formazione «appiattita». Una cultura generale «scarsa». Il professor Silvio Garattini chiede di non stupirsi, poi, «quando si scopre che, nell' elenco delle prime università del mondo, non ne compaiono di milanesi». Quanto ai molti atenei che convivono in città, «il problema è che sono troppo impermeabili e quindi non riescono a fare sistema tra di loro. Eppure, ce ne sarebbe molto bisogno». Silvio Garattini al mondo dell' università e della ricerca tiene davvero: oltre ad essere uno dei luminari del suo settore, Garattini è infatti direttore dell' Istituto di ricerche Mario Negri, che dal ' 63 a oggi ha cresciuto oltre 4 mila allievi, ha ospitato oltre 600 ricercatori stranieri, è riconosciuto fra le eccellenze nazionali e internazionali. Ed è, Garattini, tra gli estensori del manifesto del Gruppo 2003, presentato anche al presidente Ciampi: proposte e osservazioni per contribuire al rilancio della ricerca in Italia. Dunque, professore, un disastro? «Ogni anno ho colloqui con decine di laureati nelle varie discipline scientifiche. È l' impressione è sempre la stessa». Quale? «Malgrado da noi arrivi un campione di persone già motivate, c' è un evidente appiattimento nella formazione: la maggior parte di questi giovani non ha fatto tesi sperimentali e quindi manca nel loro inquadramento il rapporto fra teoria e laboratorio. Nè sono educati ad apprendere informazioni, mentre compito primario dell' università è quello di garantire un' apertura mentale in grado di rispondere al cambiamento di contenuti. Sono giovani che mediamente faticano ad esprimersi in un buon italiano, non sanno fare un riassunto, non sono in grado di sostenere una conversazione in lingua straniera». Nel mirino anche la scuola superiore? «Anche. Ma la situazione nelle università tende a peggiorare: l' università oggi tende ad espletare troppe funzioni che non fanno parte dello stesso mondo. Prendiamo medicina: formano infermieri, medici, specializzandi, dottori di ricerca e tutto con la stessa struttura». Ma la ricerca è un' altra cosa. «Ma anche nel programmare la ricerca, è necessario che si tenga conto del fatto che non tutto può essere concentrato sulle università. E poi...». E poi? «Oggi c' è troppa identificazione fra la formazione avanzata e le università. Invece esistono altre realtà che garantiscono questa formazione». Come il Mario Negri? «Abbiamo una scuola per tecnici, una per laureati di qualificazione professionale e, in collaborazione con la Open University di Londra, garantiamo il titolo di Ph.D (titolo comparabile al dottorato di ricerca, ndr) a studenti di livello, ciascuno seguito da un doppio tutor: giovani realmente in grado di produrre innovazione scientifica, cioè di firmare pubblicazioni e redarre una tesi in inglese». Stando a quello che lei vede, c' è differenza fra i laureati italiani e quelli stranieri? «I Ph.D esteri sono mediamente migliori dei nostri dottorati di ricerca». Milano è una città accogliente per chi vuole studiare? «No. Partiamo dalla questione della casa: per gli affitti si chiedono prezzi spaventosi, a fronte di borse di studio sempre più basse. Noi cerchiamo di fare la nostra parte: abbiamo un residence di fronte all' Istituto, con 80 posti letto e nel progetto di ampliamento del Mario Negri estenderemo anche questa disponibilità. Ma il problema è sociale e complessivo». La preoccupa la fuga dei cervelli? «Il problema è la circolazione: se tanti vanno, ma tanti vengono, si compensa e si cresce. Qui da noi arriva un po' poco e si cresce meno». I rettori si lamentano per la mancanza di fondi statali: condivide la protesta? «C' è anche un problema di fondi, indubbiamente. Ma è la struttura che va cambiata: bisogna abolire i concorsi, abolire il valore legale della laurea... C' è molto lavoro da fare». Il ruolo delle istituzioni? «Le nostre non hanno come priorità lo sviluppo di Milano come città universitaria e della ricerca. Ed è una costante dei governi locali e nazionali, di un colore o dell' altro: i politici non considerano abbastanza la ricerca e la cultura». Professore, non è eccessivamente pessimista? «Leggo i numeri. Una statistica recente dice che su 1000 lavoratori attivi in Italia abbiamo 2,7 ricercatori: la media mondiale è 5,1, con la Gran Bretagna che ne ha 6, gli Stati Uniti 8 e il Giappone 10. Questi sono problemi seri per il Paese: senza ricerca non si va avanti e non c' è un futuro». Vogliamo lanciare una proposta realizzabile? «Orientare i bravi, aiutare quelli che valgono sul serio a crescere dando loro una possibilità di carriera. Facciamo selezione sul merito, questo si può fare e anche subito: altrimenti non avremo valore aggiunto e, di conseguenza, non avremo mercato». Elisabetta Soglio Gaspare Barbiellini Amidei ha aperto il dibattito. Hanno risposto i rettori Angelo Provasoli, Giulio Ballio, Lorenzo Ornaghi, Giovanni Puglisi, Marcello Fontanesi, Enrico Decleva, Giancarlo Lombardi (Collegio di Milano), il finanziere Francesco Micheli, il presidente dei costruttori Claudio De Albertis, l' imprenditrice Diana Bracco, il presidente di Bpm Roberto Mazzotta e di Unicredit Carlo Salvatori Silvio Garattini è fondatore (nel 1963) e direttore dell' Istituto di Ricerche Farmacologiche «Mario Negri», che oggi ha 4 sedi in Italia. Autore di lavori scientifici pubblicati all' estero, Garattini è stato componente di vari organismi istituzionali e scientifici italiani ed esteri. Nella sua carriera ha ricevuto attestati e premi di ogni genere che lo hanno consacrato tra i luminari della nostra epoca. Servono più alloggi, spazi ricreativi e una buona rete di trasporti La qualità si abbassa. Il futuro? Le facoltà tecnologiche La qualità degli atenei è scaduta e Milano non attira più studenti Gli atenei sono strategici per rilanciare il sistema Paese Soglio Elisabetta _____________________________________________________ Il Sole24Ore 10 mar. ’05 UNA FONDAZIONE SALVA-ATENEI Piena autonomia decisionale e responsabilità finanziaria: solo cosi si creano le condizioni per conquistare una forte autorevolezza DI GIANNI TONIOLO Il mondo dell'università è "in agitazione": scioperi, qualche manifestazione, attivismo sindacale, comunicati della conferenza dei rettori, contro-comunicati ministeriali. II tutto è uno stanco déjà vu: il linguaggio burocratico incomprensibile ai più, le parole d'ordine scontale, la difesa a oltranza di piccoli privilegi, l'azzuffarsi sulla distribuzione di risorse ridicolmente inadeguate. Si è facili profeti dicendo che questa ennesima "battaglia" per l'università lascerà il tempo che trova. II tempo di un sistema che, con tutte le eccezioni e i punti di forza che conosciamo, è tra i meno vitali dell'Europa continentale, che pure in questo campo non brilla. Si darà all'università italiana una chance solo affrontando di petto la questione del governo degli atenei. Questi sono oggi gestiti dalla corporazione dei professori, alla quale peraltro è sottratto il controllo delle risorse in cambio di una totale deresponsabilizzazione circa le conseguenze delle proprie decisioni. I sistemi universitari che funzionano riconoscono che gli atenei sono organizzazioni complesse, il governo delle quali richiede un insieme d'incentivi ben disegnato, precise responsabilità e sanzioni. La piena autonomia delle singole università è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per un governo efficace delle stesse. Autonomia vera: nell'acquisizione e utilizzo delle risorse, nel reclutamento del personale docente e non docente (di quest'ultimo mai si parla ma ha un ruolo fondamentale), nell'organizzazione della didattica (incluso il curriculum degli studi) e della ricerca (inclusi i rapporti con le imprese). L'autonomia tuttavia non garantisce il buon governo se non si accompagna a una distribuzione di tutti i fondi pubblici agli atenei sulla base dei risultati raggiunti nella ricerca e nella didattica. Nei Paesi dove le università funzionano meglio, queste competono per accaparrarsi sia gli studiosi scientificamente più produttivi sia gli studenti più brillanti (soprattutto, ma non solo, ai livelli di laurea magistrale e di dottorato) ben sapendo che la qualità della formazione e della ricerca si riflette sulla reputazione di tutti e sulla quantità di risorse disponibile. A nessun Caligola è consentito di assumere il proprio cavallo perché il professore ha un impatto sulla vita, anche economica, di tutto l’ateneo, ne accresce o diminuisce il valore. Invece di spezzare stancamente il capello delle norme sullo "stato giuridico" (il concetto stesso sa di ancien régime) e di affinare schemi per i concorsi che nulla cambieranno perché mantengono tutti gli incentivi perversi della deresponsabilizazione, parlamento, governo, conferenza dei rettori, organizzazioni sindacali e, soprattutto, la comunità dei professori dovrebbero unire le forze per giungere alla rapida approvazione di una legge per la piena autonomia degli atenei, trasformati per esempio in fondazioni, e per la contestuale riallocazione di tutti i fondi pubblici sulla base di precisi criteri di performance. Non è idea né peregrina né provocatoria: così sono le università laddove queste funzionano bene (cominciano ad accorgersene perfino i tedeschi). Consapevoli delle resistenze sociali e culturali, prima ancora che politiche, a una soluzione radicale come quella dell'immediata introduzione della totale autonomia (con responsabilità finanziaria) degli atenei, con Nicola Rossi abbiamo tempo fa avanzato una proposta che dovrebbe sollevare assai meno obiezioni. Si tratta di questo: si consenta agli atenei che lo desiderano di trasformarsi in fondazioni acquisendo piena autonomia decisionale e tutta la responsabilità delle proprie scelte. Si stralcino, contemporaneamente, dal bilancio del ministero le risorse sino a oggi allocate alle università che facessero questa scelta, aggiungendovi qualcosa a mo' di incentivo, per distribuirle, da oggi in poi, tra le stesse sulla sola base di criteri di performance. Gli altri atenei continuerebbero come prima: finanziamenti a pioggia slegati dal merito, concorsi nazionali, curricula degli studi decisi burocraticamente piuttosto che rispetto alla domanda del marcato del lavoro internazionale, nazionale e locale. È possibile che nessuna università prenda in considerazione questa opportunità. In tale caso non ci resterebbe che continuare a discutere indefinitamente di stato giuridico e di concorsi con o senza "idoneità" nazionale. Se, viceversa, un gruppo anche piccolissimo di atenei accettasse questa sfida (alcuni rettori hanno privatamente indicato che la considererebbero seriamente) verrebbe piantato nel se no del nostro sistema un seme potenzialmente ricco di frutti. Nel tempo, i risultati raggiunti dalle nuove università-fondazione parlerebbero da soli. A poco a poco altri atenei si renderebbero conto delle possibilità enormi offerte dalla vera autonomia universitaria. I giovani migliori, quelli che conoscono, magari per esservisi formati, le buone università autonome del mondo, sarebbero i primi a spingere perché anche il loro ateneo si dotasse di autentiche possibilità di crescita e di competizione, non solo a livello nazionale. Occasione per dotare il sistema di strumenti in grado di competere anche in sede internazionale _____________________________________________________ Il Sole24Ore 01 mar. ’05 ATENEI CHIUSI AI GIOVANI TALENTI LE SFIDE DELLE UNIVERSITA’ Sopravvive nel sistema italiano un meccanismo di governance che deresponsabilizza i docenti. Il Blocco delle assunzioni ha acuito la crisi -La sorte dei ricercatori ostacola la strada della riforma DI SALVATORE SETTIS Pessima notizia: mentre si dispiega una vasta opposizione al disegno di legge delega sull'università in discussione al Parlamento (uno sciopero dei docenti è previsto per domani), il dibattito si svolge solo fra addetti ai lavori e non coinvolge se non in minima parte le forze vive del Paese che operano fuori dell'università. Le ragioni di quell'opposizione (alcune buone, altre cattive) non sono chiare ai cittadini, e finché restano tutte dentro l'università rischiano di essere, o di apparire, autoreferenziali; insomma, di nascere (e di creare aggregazioni) non nell'interesse del Paese e delle nuove generazioni, ma sul filo di rivendicazioni settoriali di categoria. Ma le ragioni della protesta che infiamma le università vanno giudicate sulla base di un solo criterio, quello dell'interesse pubblico e del futuro dell'alta formazione e della ricerca in Italia. Saranno "buone" le ragioni di protesta che rispondono a questo criterio, "cattive" le altre. Senso e missione dell'università è di essere fattore propulsore della crescita, protagonista nell'evoluzione della società e dell'economia. Se questa natura non è vastamente riconosciuta e condivisa dai cittadini, avremo un bel rivendicare (o anche ottenere) questo o quel provvedimento: l'università sarebbe condannata a emarginare progressivamente se stessa. Due sono i principali problemi (cronici) dell'università italiana: la scarsità di risorse economiche e la ridotta competitività a livello internazionale. Per fortuna il ministro Letizia Moratti, pur nel quadro di una Finanziaria sul filo del rasoio come l'ultima, è riuscita a strappare per l'università oltre 400 milioni d'incremento, ma, come lo stesso ministro sa benissimo, non bastano per la sopravvivenza dell'università, e meno ancora per l'ambizioso progetto di portarla agli stessi livelli dei Paesi comparabili al nostro per tradizione culturale e per livelli di reddito. Perciò dispiace la continua dispersione di risorse con la creazione, apparentemente inarrestabile, di nuove università, scuole, istituti di presunta eccellenza, spesso privati ma destinati comunque ad assorbire risorse pubbliche. La spesa per l'università e la ricerca va intesa non come un optional, ma come investimento sul futuro: e perciò è tanto più necessario, perché tale investimento venga richiesto a gran voce non dagli "universitari", ma da tutti i cittadini e dalle forze produttive, che l'università "funzioni" e produca per il Paese, con massima trasparenza, visibili benefici. Accade invece che la nostra università sia ingessata da un sistema di governance che, moltiplicando le istanze decisionali, di fatto deresponsabilizza i singoli; che la recente riforma abbia esasperato le barriere disciplinari che frazionano irragionevolmente conoscenze e tecnologie sempre più interdipendenti; che i meccanismi di reclutamento del corpo docente, in controtendenza con quanto avviene nei Paesi avanzati, siano fondati in prevalenza sul principio non scritto di garantire a tutti carriere "locali'. Anziché puntare sul merito, sulla qualità della ricerca, sul ricambio di energie e di culture, le università scelgono quasi sempre i propri candidati interni, ma così facendo perdono credito nella società che le circonda, e competitività nel quadro internazionale. Alcuni episodi di malcostume nei concorsi finiscono nelle aule dei Tribunali e sulle pagine dei giornali, e generano una diffusa sfiducia nel sistema, quasi che tutti i concorsi siano necessariamente corrotti. Così non è: ma quegli episodi sono pur sempre il sintomo di una patologia generale, a cui è tempo di porre rimedio. Il blocco delle assunzioni (ma non dei concorsi), che ha lasciato un pesante strascico di idonei in attesa di sistemazione, ha esasperato questo problema, che l'attuale disegno di legge cerca di risolvere passando da un regime locale di stampa ad uso esclusivo del destinatario, non concorsi a un regime nazionale. Meglio sarebbe stato affrontare prima l'annoso problema della governance, e passare allo stato giuridico dei docenti senza la troppo vasta platea degli scontenti in anticamera (i vincitori di concorso in attesa di collocazione). Ma il principio di delocalizzare i concorsi è difficilmente contestabile; e tuttavia, si sa, abbiamo tutti la tendenza di affezionarci alle nostre abitudini, anche alle peggiori. Perciò la discussione su questi temi è tanto confusa per i non addetti ai lavori: da un lato si reclama (giustamente) che la riforma dell'università avvenga in un quadro organico, e mediante una legge ordinaria piuttosto che una legge delega; dall'altro si diffonde l'impressione che si voglia bloccare tutto per mantenere un insostenibile status quo. Come alcuni hanno chiesto da tempo, la strada potrebbe essere un provvedimento-stralcio limitato a una nuova e migliore disciplina dei concorsi, rimandando tutto il resto a una legge ordinaria. Senza dimenticare che nel Ddl in discussione ci sono dei punti assai positivi, per esempio la presenza di studiosi stranieri nelle commissioni di concorso (come accade in tutti i Paesi salvo l'Italia). Ma il reclutamento dei docenti non è tutto. Ancor più importante è stabilire un meccanismo di turn over che inserisca subito nel mondo della ricerca le generazioni più giovani. Dev'essere, come nei Paesi avanzati, un inserimento precoce, ma controllato: è giusto (anche per evitare le "fughe dei cervelli") offrire ai venticinquenni dignitosi stipendi -e posti di lavoro nelle nostre università ma, a differenza che in altri comparti (come le Ferrovie o le Poste) le carriere universitarie devono essere concepite, come dappertutto, "a collo di bottiglia", con una serie di filtri successivi che consentano di scegliere i migliori, avviando chi abbia abbandonato la ricerca (o abbia fallito il bersaglio) ad altro lavoro. Viceversa, la legge 382/1980 abolisce, è vero, il ruolo degli assistenti (ma trasformandoli ope legis in altrettanti professori associati), ma lo sostituì con quello dei ricercatori, che restano tali a vita, anche se (puta caso) abbandonano la ricerca per decenni. Ora, l'incaglio principale sulla strada di qualsiasi riforma sembra oggi essere la sorte dei ricercatori in servizio, molti dei quali insegnano per affidamento (spesso, ma non sempre, per sopperire a reali necessità), pur senza esser passati alla "fascia" superiore (quella degli associati). Secondo molti (non tutti) la soluzione sarebbe di trasformare gli attuali ricercatori in una terza fascia di professori ("aggregati" o "aggiunti") mediante concorsi riservati ad personam, insomma ope legis. Si avrebbe in tal modo una ripetizione puntuale dello scenario della 382/1980, che mediante una valanga di "concorsi" ad personam trasformò in associati migliaia di assistenti e incaricati, bloccando per molti anni ogni possibilità di carriera per i giovani. Ora, che la creazione di una terza fascia docente con concorsi "personalizzati" sia nell'interesse dei singoli ricercatori, o della loro categoria, nessuno dubita. Che sia nell'interesse del Paese, sia lecito negarlo. A1 di là delle obiezioni tecniche (produrrebbe oneri impliciti non quantificabili, e dunque dovrebbe essere bloccata ai sensi dell'articolo 81 della Costituzione) il vero punto è che ogni meccanismo "concorsuale" ad personam non solo esalta e congela il deprecato localismo delle carriere; ma nega il principio stesso della competitività e del merito. Peggio ancora, ogni meccanismo di assunzione ope legis (l'esperienza della 382/1980 dovrebbe averlo insegnato) espelle per anni e anni dall'università le generazioni più giovani, costringendole a emigrare. Non è questa la strada da percorrere per accreditare l'università nel Paese. I cittadini devono esser certi che la cooptazione di nuovi docenti avviene sulla base esclusiva del merito scientifico dei candidati, e non per pregresse anzianità, principio giusto per altri mestieri ma devastante se applicato all'università e alla ricerca. Se non siamo abbastanza competitivi con gli altri Paesi per le risorse investite, cerchiamo almeno di non isolare l'Italia per l'adozione di meccanismi tesi a garantire tutti e non a favorire i migliori, secondo il principio (già applicato nel 1980) «chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori». Per accreditare l'università nel Paese, per garantirle quei rispetto che giustifica la richiesta di nuove risorse onde rispondere alle crescenti aspettative della società e del mondo produttivo, la trasparente e rigorosa applicazione di principi di qualità e di merito non è un'opzione, è un obbligo. ___________________________________________________ la Repubblica 10-03-2005 ,6 E POI DICONO AIUTIAMO LA RICERCA Prof. Massimo Tabaton Dipartimento di Neuroscienzee Genetica Università di Genova NEL 2002 abbiamo ottenuto un finanziamento dal Ministero della Salute per un progetto di ricerca sulla malattia di Alzheimer, della durata di due anni. Lo studio ha prodotto risultati chesono stati pubblicati nella rivista americana Neurology (un articolo pubblicato nel 2004; un altro in corso di pubblicazione). Il finanziamento prevedeva 3 fasi di erogazione, il 30% all'inizio del progetto, il 50% dopo un anno, e il 20% dopo il rendiconto scientifico ed economico finale. Abbiamo inviato quest'ultimo nell'agosto del 2004 al Ministero della Salute. Ci sono state contestate due volte imprecisioni nel rendiconto amministrativo, che abbiamo chiarito. A questo punto il Ministero della Salute ci comunica che i fondi (il 20% del totale) arriveranno fra un anno, per non meglio precisati problemi di bilancio. E' noto a tutti che in Italia i fondi per la ricerca biomedica sono sempre più scarsi, tanto che quest'anno sono appena l0 0,64% del Pil. La nostra esperienza però dimostra che le istituzioni sono addirittura in difficoltà a mantenere i pochi impegni finanziari preventivati e già nel bilancio dello Stato. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 7 mar. ’05 AN: UNIVERSITÀ, NO ALLA SANATORIA Si va affermando da più parti, relativamente alla politica universitaria, il principio della sanatoria. È un principio che è contrario al merito. Nelle università italiane ci sono 20mila ricercatori, il 70% circa insegna, alcuni da molti anni. Si pretende che questo dato di fatto legittimi il passaggio a un nuovo ruolo di professore. Sennonché l'attività del professore universitario non si caratterizza per il solo insegnamento, ma anche per la ricerca. Ora la ricerca non si fa stando seduti dietro a una cattedra o occupando un ruolo, ma producendo titoli. È giusto dunque che divengano professori solo coloro i cui titoli siano stati considerati idonei dalla comunità scientifica. Questo è il punto. Chi sostiene che per il fatto di aver svolto attività di insegnamento per un certo periodo, a prescindere da una adeguata valutazione della produzione scientifica, si sia legittimati a diventare professori grazie a un atto legislativo, confonde l'Accademia con la scuola media e rigetta il principio del merito in nome di un "diritto al posto". Tutto ciò a prescindere dal fatto che una Posizione quale quella favorevole a ope legis più o meno mascherate appare incostituzionale per violazione del principio del buon andamento della pubblica amministrazione e di quello che richiede un concorso per l'accesso agli impieghi pubblici. Tale posizione sarebbe inoltre fonte di spreco di risorse. Infine si paralizzerebbe l'accesso dei giovani alla carriera universitaria posto che si creerebbero 20mila nuovi professori inamovibili. Per queste ragioni An respinge come demagogiche e dannose le proposte di ope legis Anzi considera proprio il rifiuto di una ennesima sanatoria di massa una svolta culturale e politica per costruire un Paese più serio ed efficiente. Giuseppe Valdltara, senatore An _____________________________________________________ Il Riformista 03 mar. ’05 MORATTI AMERIKANA? NO, È UNA OPE LEGIS UNIVERSITÀ. RIFORMA E SINDACATI Sarà vero, come sostengono i promotori della protesta e degli scioperi nelle università, che il ministro Moratti vuole distruggere le università pubbliche e imporci un modello privatistico importato dall'America? Paradossalmente, sarebbe bello se fosse vero. Vorrebbe dire che c'è qualche coerenza nei progetti del ministro e che non dovremmo aspettarci da un momento all'altro colpi di mano sindacal-corporativi, che ripropongano le promozioni ope legis degli anni ottanta. Purtroppo non è così. II ministro non ha mai avuto un progetto, se non quello di fare qualcosa, ed è pronto a cadere nelle trappole tese dai sindacati universitari, esattamente come è caduta nelle trappole dei sindacati della ricerca,quando ha promosso la riforma del Consiglio nazionale delle ricerche. L'esito, nefasto per la ricerca e per la finanza pubblica, di quest'ultima riforma merita una trattazione a parte. Parliamo invece di quel che può ancora essere evitato, la «riforma Moratti- Cgil-Cisl-Uil» dell'università. Tutto è cominciato poco più di un anno fa, quando dagli uffici ministeriali è uscito, dopo lunga gestazione, un disegno di legge senza né capo né coda, e come osservarono gli uffici del Quirinale, senza copertura finanziaria. Tra proposte velleitarie, e vuote enunciazioni di principio, spiccava però una proposta concreta: il ruolo dei ricercatori universitari, che svolge nel nostro ordinamento le funzioni di primo gradino della carriera universitaria, sarebbe diventato un «ruolo a esaurimento», nessun concorso per questo ruolo sarebbe stato più bandito. Solo chi era già in ruolo vi sarebbe rimasto, in attesa del pensionamento o di una promozione. Che questa proposta fosse priva di senso era già stato notato dal ministero della Funzione pubblica, cui era stato chiesto di pronunciarsi prima del varo definitivo del disegno di legge. Che senso ha bloccare un ruolo cui appartengono ventimila persone, che si esaurirebbe, per pensionamento, solo tra quaranta anni? La risposta del ministero a queste obiezioni, già la diceva lunga sul futuro del progetto: saranno agevolate, si diceva, le promozioni ad altro ruolo. E infatti la messa a esaurimento del ruolo, come è già avvenuto per quello degli assistenti, non può che preludere allo "scivolamento" degli appartenenti al ruolo superiore, ope legis. Ci è voluto un anno perché questa disastrosa eventualità uscisse allo scoperto con gli emendamenti del relatore al disegno di legge, che propongono, nello stile delle sanatorie degli anni settanta, una «idoneità a numero aperto», che consentirebbe la generale promozione a professore associato degli attuali ricercatori. Ma perché aspettare un anno prima di uscire allo scoperto? Evidentemente si è aspettato che ci fossero i soldi. Ora ci sono 400 milioni in più dell'anno scorso destinati al sistema universitario. Siamo poi sotto elezioni. Quale migliore occasione per spenderli a favore delle clientele politiche e sindacali? Siamo quindi tornati alla politica universitaria degli anni settanta? Forse non ne siamo mai usciti, come testimoniano altre piccole operazioni di promozione ope legis deliberate all'unanimità nella passata legislatura, a poca distanza dalle elezioni. Ci sono però alcune novità di rilievo che forse contribuiranno a salvare il sistema universitario. Prima di tutto i beneficiari del proposto ope legis non sono affatto tutti d'accordo. I ricercatori universitari più giovani e attivi nella ricerca (che sono oltre la metà del totale) sono pressoché unanimi nel rifiutare questa carità pelosa. Chi si considera parte del sistema, altamente competitivo, della ricerca internazionale, vuole essere promosso per merito, non in forza di una legge. In secondo luogo, i rettori non vedono certo di buon occhio l'idea di impegnare i fondi aggiuntivi per l'università per queste promozioni ope legis. Infine decine di migliaia di giovani impegnati come studenti del dottorato e come titolari di "assegni di ricerca", si rendono ben conto degli effetti che avrà questa promozione di massa sul futuro reclutamento. Se, al di là degli inutili slogan sulla privatizzazione o sul modello americano dell'università, queste forze si unissero per spiegare al ministro quali perversi processi ha innescato un disegno di legge sconclusionato, come quello uscito dal suo ministero, forse si farebbe ancora in tempo a fermare il disastro. Le strade possibili sono molte. Ma si deve partire dalla situazione di fatto. II ruolo dei ricercatori universitari svolge in Italia la funzione che ha in Francia quello dei maitres de conference, e in Gran Bretagna la posizione di lecturer. Ad esso si accede ormai dopo un lungo tirocinio scientifico. Non c'è nessuna ragione di sopprimerlo, se non si vogliono creare le premesse per un indiscriminato ope legis. _____________________________________________________ La Stampa 4 mar. ’05 L’UNIVERSITÀ DELLA MORATTI NON È «AMERICANA» IL decreto Moratti che ridefinisce carriera e status dei docenti universitari, nonostante le dichiarazione d'intenti, allontana ancora di più l'università italiana dai migliori modelli internazionali. Alza la bandiera sacrosanta del merito e dell'eccellenza, ma ribadisce nei fatti la vecchia detestabile, invincibile, pratica dell'assistenzialismo e del privilegio. Ineccepibile, e da approvare senza riserve, è il principio è la fine della figura del ricercatore di ruolo, primo gradino della carriera universitaria, che può rimanere a vita nell'università. Quella figura nacque alla fine degli Anni 70 per effetto di una ondata di demagogia che reclamava a gran voce la fine del precariato (le borse di studio pluriennali) e il diritto dell'immissione in ruolo previo superamento di un bonario giudizio d'idoneità. In quell'«epica» battaglia per l'uguaglianza si distinguevano i militanti dell'estrema sinistra e taluni giunsero addirittura a sostenere che non dare ai giovani aspiranti ricercatori il ruolo voleva dire consegnare «un'intera generazione al terrorismo». Nelle migliori università del mondo vige esattamente il principio contrario. I giovani entrano con contratti a tempo determinato (sei o otto anni). Trascorso il termine prescritto, l'università decide se promuovere e confermare in ruolo il giovane o non promuovere e licenziare. Più l'università è prestigiosa più il giudizio è severo. Per esperienza diretta posso assicurare che la percentuale dei giovani ammessa al rango superiore e al ruolo è bassissima. In certi dipartimenti non arriva al dieci per cento. E’ giusto che sia così, a condizione che la valutazione sia equa, totalmente libera da condizionamenti clientelari e basata unicamente sugli scritti, sull'insegnamento e sulla serietà del giovane nell'assolvere i doveri di buon cittadino o buona cittadina del dipartimento e dell'università. Ma il principio è immediatamente contraddetto dalle norme del Decreto che attivano concorsi riservati per far diventare associati i ricercatori anziani e ordinari gli associati di lungo corso. Dove ancora una volta non si capisce come e perché la semplice anzianità di servizio costituisca un titolo preferenziale per l'avanzamento di carriera. Dovrebbe essere vero l'opposto: chi ha avuto più tempo per studiare e scrivere deve essere valutato con maggiore rigore, e il concorso deve essere sempre aperto a tutti e basato esclusivamente sul merito. Nelle università italiane lavorano fior di studiosi giovani e non giovani che svolgono ricerca e insegnano con serietà e competenza. L'ho potuto constatare di persona nei due anni che ho trascorso come visiting professor presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università del Molise e in occasione di lezioni e conferenze che ho tenuto in molte altri atenei. Chi ama davvero la ricerca e l'insegnamento non vuole né privilegi né demagogia, ma solo il riconoscimento del merito. In nome del medesimo principio non è accettabile che le università si riempiano di professionisti, per quanto qualificati, che non sono in primo luogo ricercatori e docenti. Per l'ovvia ragione che può insegnare bene solo chi svolge con regolarità ricerca ai più alti livelli. Avete mai ascoltato le lezioni di professori che non scrivono più libri da anni? Sanno di stantio e di logoro, e educano di fatto gli studenti alla pigrizia intellettuale. Ancora una volta il paragone con le migliori università è utile: prima viene la ricerca poi l'insegnamento. Al momento di promuovere al ruolo e al rango superiore si valuta soprattutto la ricerca svolta e le potenzialità per svolgere ulteriori ricerche. Ben vengano professionisti per tenere qualche seminario, o una conferenza, o un corso, ma il cuore delle università devono essere persone che hanno la vocazione per la ricerca. Come ha giustamente rilevato Raffaele Simone su questo giornale, il Decreto riconosce ai docenti piena libertà di svolgere attività professionali e di consulenza, e in questo modo non estirpa una piaga maligna ma addirittura la allarga. So che molti colleghi rideranno di questo, ma credo che ai lettori interesserà sapere che le più celebrate università americane richiedono ogni anno ai docenti di dichiarare quante ore dedicano ad attività di consulenza esterna all'università. C'è un limite ben definito, e chi vuole dedicare più tempo alle consulenze deve chiedere preventivo permesso, e per chi viola le regole le sanzioni sono severe e certe. Il modello delle università americane è tutt'altro che perfetto e sarebbe puerile volerlo applicare al contesto italiano. Ma è del tutto fuori luogo criticare il Decreto Moratti perché pretende di americanizzare le università italiane. Quel decreto va in realtà in direzione opposta. viroli@princeton.edu _____________________________________________________ Il Sole24Ore 7 mar. ’05 ARRIVA LA NUOVA LAUREA MA LE GRADUATORIE NON SCOMPARIRANNO Formazione / Lo schema di riforma Lo schema di decreto legislativo varato in prima lettura il 25 febbraio dal Consiglio dei ministri in tema di formazione iniziale e reclutamento degli insegnanti - insieme all'annuncio dato dal ministro Letizia Moratti dell'adozione di «misure che consentano di assorbire nei prossimi cinque anni tutto il precariato storico» - hanno fatto riaccendere timori e speranze tra i docenti non di ruolo. II sistema attuale. L'articolo 399 del Testo unico della pubblica istruzione (Dlgs 297/94) prevede l'accesso ai ruoli dei docenti tramite due canali: il 50% dei posti annualmente assegnabili viene conferito al concorso ordinario per esami e titoli, l'altro 50% alle graduatorie permanenti. Gli "idonei" del concorso ordinario - che ha anche valore abilitante - si trasformano in vincitori di concorso solo se la graduatoria viene scorsa fino alla loro posizione. Tuttavia essi possono far valere l'abilitazione per essere inseriti anche nella graduatoria permanente, che viene utilizzata sia per le assunzioni a tempo indeterminato che per quelle a tempo determinato (supplenze). La graduatoria permanente, nata nel 1999, oggi è suddivisa in tre fasce, di cui le prime due sono a esaurimento (e spesso sono veramente esaurite), mentre nella terza sono confluiti gli idonei del concorso ordinario del 2000, gli abilitati con le tre sessioni riservate del 1999-2000-2001, gli abilitati Ssis dal 2000 in poi. Nella terza fascia vengono inseriti "a pettine" (cioè in base al punteggio e non in coda) ogni anno i nuovi abilitati Ssis e, nel 2005, i nuovi abilitati della sessione riservata indetta con Dm 21 del 9 febbraio 2005. Il nuovo sistema. L'ultima versione del decreto legislativo - ora all'esame delle Camere -, a differenza delle precedenti, non prevede più che la graduatoria permanente sia a esaurimento, ma ipotizza semplicemente che il canale del cosiddetto "concorsone" aperto a tutti, sia ora sostituito dal nuovo percorso universitario a numero "chiusissimo", cui vengono destinati solo il 50% dei posti annualmente da coprire per turi over (circa 18.000), cioè 9.000 unità l'anno. In pratica, la laurea magistrale e il diploma accademico di secondo livello, con la discussione della tesi e il superamento di un esame di Stato, hanno a tutti gli effetti valore di prove concorsuali. I problemi aperti. Il testo licenziato attua la delega contenuta nell'articolo 5 della riforma Moratti (legge 53/2003), che in verità è relativa alla sola questione della formazione iniziale e non al reclutamento, tanto che si è già ipotizzata una incostituzionalità per «eccesso di delega». Ma le problematiche maggiori derivano dalla circostanza che qualunque modifica strutturale del sistema di reclutamento deve necessariamente essere accompagnata da una fase transitoria che colleghi il nuovo sistema con quello attuale, con particola re riferimento all'emergenza costituita dagli attuali insegnanti inseriti nelle graduatorie permanenti. Il riassorbimento dei precari. La posizione degli idonei nel concorso ordinario del 2000 è la più a rischio: infatti, con l'andata a regime del nuovo sistema, il 50% delle cattedre che sinora era destinato a loro passerà alla nuova procedura della laurea abilitante, mentre il 50% resterà alle graduatorie permanenti. In pratica, alle graduatorie regionali dei concorsi ordinari per esami e titoli si sostituiranno le graduatorie regionali degli abilitati con la laurea magistrale o con il diploma accademico di secondo livello. Norme transitorie dovrebbero essere previste anche per coloro che hanno appena concluso o sono attualmente nel percorso delle lauree specialistiche. Solo da pochi giorni i loro titoli sono stati rapportati alle classi di concorso, ma per ottenere l'abilitazione dovranno comunque frequentare altri due anni di Ssis, per un totale di sette anni di formazione, a differenza dei 5 anni di chi sarà ammesso ai nuovi percorsi abilitanti a carattere concorsuale. Certamente gli abilitati con il nuovo sistema - anche se fossero più di 9.000 l'anno - saranno comunque pochissimi a concorrere sul 50% dei posti che verranno assegnati in ruolo, rispetto alla pletora delle graduatorie permanenti che si spartirà l'altro 50%. Se prima non verranno assunti -come peraltro annunciato dal ministro - molti dei precari in graduatoria permanente, difficilmente il nuovo sistema garantirà insegnanti più giovani: sarà inevitabile, infatti, la concorrenza tra precari pluri abilitati e giovani neo-laureati. E anche questi ultimi, se non assunti, potranno poi accedere alle graduatorie permanenti. SIMITITUDINI Confronto tra attuale e nuovo sistema di reclutamento dei docenti laureati e diplomati ai sensi del nuovo Dlgs sono collocati I sulla base del voto conseguito nell'esame di Stato abilitante e a cura degli Uffici scolastici regionali, in apposite graduatorie regionali. Vengono poi assegnati alle scuole nell'ambito del contingente autorizzato per le assunzioni, nei momento in cui le assunzioni vengono autorizzate ed entro il numero autorizzato. Ciò significa, però - al di la dell'indubbia differenza di modalità - che essere risultati idonei e inseriti in graduatoria garantisce solo l'abilitazione e non anche l'assunzione. Come per il "concorsone" e come accade, del resto, anche a chi esce dalie Ssis. Anche l'articolo 5 della bozza di decreto, relativo all'accesso ai ruoli e al contratto di inserimento formativo a! lavoro, non appare distanziarsi molto dai meccanismi fin qui previsti dal Testo unico de! 1994. L'anno formativo sostituisce l'anno di prova, ma restano per il resto molte regole dettate per questo: !'esame da parte del Comitato di valutazione ai fini del definitivo passaggio in ruolo, validità dell'anno solo se si sono svolti 180 giorni di servizio effettivo, possibilità di ripetere l'anno dì applicazione, che è comunque valido a tutti gli effetti (in particolare per la ricostruzione di carriera). _____________________________________________________ Il Sole24Ore 10 mar. ’05 L'ITALIA PERDE 17 POSTI NELLA CORSA TECNOLOGICA Il Worid Economic Forum: terzi al mondo nei telefonini, ma troppa burocrazia e poca ricerca - Leadership di Singapore MILANO a Perde 17 posizioni l'Italia del futuro. Nella speciale classifica del World Economic Forum (Wef) di Ginevra, il think tank che misura il polso ai paesi sulle capacità di sviluppo e utilizzo delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione (Ict), l'Italia, 28°esima nel 2003, si ritrova 45° su 104 nel 2004. Un brutto colpo perché perdere posizioni in questa speciale classifica vuol dire arretrare sul fronte della competitività e produttività. Roma é preceduta da tutti i grandi Paesi industrializzati, dal gruppo dei nordici (Islanda, Finlandia, Danimarca e Svezia) ed è scavalcata perfino da paesi in via di sviluppo come Giordania (44), Tunisia (31) o Sudafrica (34) mentre precede di pochi posti paesi come la Giamaica (49) e il Botswana (50). Come è possibile? Su la pessima performance italiana pesano soprattutto la burocrazia (103, siamo penultimi al mondo!), le scarse infrastrutture, la carenza di aiuti pubblici in ricerca e sviluppo (48) e il basso livello di collaborazione tra industria e università (64) così che nemmeno il terzo posto al mondo per densità di telefonini e il 27% per la qualità dei siti internet delle amministrazioni pubbliche o lo sviluppo dei distretti tecnologici (5%) riescono a risollevare il magro bilancio. In vetta alla graduatoria resa nota ieri a Ginevra, nel quartier generale di Cologny, dal Wef - è per la prima volta Singapore, che scalza gli Usa, seguito dai Paesi nordici con Islanda, Finlandia, Danimarca e Svezia. La Norvegia investe i profitti del petrolio del Mare del Nord in tecnologie e non in sussidi ai suoi cittadini e così si piazza al 13°posto. Quinti si collocano gli Stati Uniti che, come ha ricordato spesso il governatore della Federal Reserve, Alan Greenspan, hanno fatto dei guadagni della produttività, grazie alla diffusione e all'uso delle tecnologie, il carburante di una crescita economica i cui effetti non cessano di farsi sentire. Ma mentre la discesa in classifica a "stelle e a strisce" di cinque gradini è dovuta ai buoni risultati degli altri Paesi in competizione - afferma il Wef fondato e diretto da Klaus Schwab - l'Italia mostra i segni di un «peggioramento» nei settore delle Ict. Quali le cause? «Un farraginoso clima normativo, un'infrastruttura relativamente povera e carenze in aree come la qualità del sistema scolastico, i bassi livelli di collaborazione tra settore industriale e mondo accademico, sono tra i principali fattori» che spiegano l'arretramento italiano nella graduatoria del "Global infonnation technology Report 2004-2005", afferma il Wef. La-Cina (con il 24° posto) ci batte in aiuti pubblici alle imprese, (l'Italia è al 48°), negli oneri amministrativi (18° a 113°) v nella collaborazione tra Università e industria (22° a 79°). Il peggiore voto - addirittura 103 su 104 - l'Italia lo ottiene per il «fardello amministrativo», il nostro consueto tallone di Achille. Pessima la pagella del Wef anche per la «qualità delle istituzioni di ricerca scientifica» in Italia (79, mentre Singapore è 13°, la Cina al 40°), per gli aiuti alla ricerca e sviluppo e per la priorità data alle lei dal governo. Gli italiani - nella classifica compilata in base a dati raccolti presso più fonti quali la Banca mondiale o l'Unione internazionale delle telecomunicazioni e a interviste ai protagonisti del mondo degli affari del Paese (ma il ministro per l'Innovazione e le tecnologie, Lucio Stanca, ha espresso perplessità sui risultati e sul metodo d'indagine) - ottengono un ottimo punteggio per l'uso dei cellulari e dello stato di sviluppo dei distretti tecnologici (5): al capitolo densità di telefonini, l'Italia è terza (Singapore è solo 15°). L'Italia è in buona posizione anche per la quota di utenti della telefonia fissa (9) e per i telefoni pubblici (6). Per la diffusione di Internet, l'Italia si colloca al 21° per numero di utenti ogni 10 abitanti. Discreti i servizi online del governo (27°). All'opposto dell'Italia - sottolinea lo studio - l'Islanda ha conseguito un netto miglioramento, il maggiore tra la parte alta della classifica, scalando otto posizioni dalla decima alla seconda. Oltre alle "tigri nordiche" e agli Stati Uniti, i vertici della classifica sono occupati da Hong Kong (7), Giappone (8), Svizzera (9) e Canada (10). Buona la performance della maggioranza dei Paesi europei che - con Gran Bretagna (12), Germania (14), Olanda (16), Lussemburgo (17), Austria (19) e Francia (20) - sono ben 12 tra i primi venti in classifica. Per gli autori del rapporto, fra cui Laurence Laemmell dell'Insead e Irene Mia del Wef, nessun continente al mondo evidenzia più «eloquentemente dell'Europa le benefiche sinergie tra la diffusione delle tecnologie dell'informazione e delle comunicazioni da una patte e l'aumento dei livelli di produttività e prosperità dall'altra». Per questo, «si può solo applaudire ai tentativi di dare nuova vita all'Agenda di Lisbona (per la verità in affanno) per far dell'Europa l'economia più competitiva del mondo. L'obiettivo, che probabilmente non potrà essere conseguito nel 2010, rimane pertinente e raggiungibile», afferma Augusto Lopez-Claros, Direttore del Programma di Competitività Globale al World economie forum. VITTORIO DA ROLD _____________________________________________________ L’Unione Sarda 8 mar. ’05 UNIVERSITÀ PREISCRIVERSI ON-LINE, È POSSIBILE Iscriversi all'Università diventa più semplice: ora è possibile fare on-line le preiscrizioni. Lo ha deciso il Ministero dell'istruzione, dando l'opportunità di ottenere informazioni compilando semplicemente un modulo telematico. Gli studenti dell'ultimo anno delle superiori sono invitati, fino a martedì 15 marzo, a entrare nel sito http://universo.miur.it dove potranno avere delucidazioni. Per agevolare gli studenti di Cagliari vicini alla maturità Modulo telematico per valutare i corsi di laurea Iscriversi all'Università diventa più semplice: è infatti possibile fare on-line le preiscrizioni. Lo ha deciso il Ministero dell'istruzione, università e ricerca, dando l'opportunità di ottenere informazioni sui corsi di laurea, le sedi e i corsi di istruzione superiore compilando semplicemente un modulo telematico. Prescrizioni Gli studenti dell'ultimo anno delle scuole secondarie superiori sono invitati, fino a martedì 15 marzo 2005, a entrare nel sito http://universo.miur.it dove potranno avere delucidazioni su Università, accademie di musica e conservatori. Lo studente potrà così venire a sapere in quali Atenei è stato attivato il corso di laurea prescelto. La preiscrizione on line ha carattere esclusivamente orientativo e non vincolante per lo studente che una volta superato lo scoglio dell'esame di maturità dovrà effettuare poi l'iscrizione ufficiale all'Università. Orientamento L'orientamento è la parola chiave dell'iniziativa del Miur che riguarderà anche le opportunità di tirocini formativi, le disponibilità delle strutture didattiche e dei servizi dedicati agli studenti, la preparazione iniziale richiesta per il corso prescelto e, se necessario, le modalità di verifica, le eventuali attività formative propedeutiche svolte in collaborazione con istituti di istruzione secondaria superiore nonché le possibilità di approfondimento personale e di gruppo e le connessioni con il mondo del lavoro. L'orientamento è il tema portante anche del programma operativo nazionale per le regioni a Obiettivo 1, tra cui vi è anche la Sardegna. Nell'ambito del progetto "Percorsi di Orientamento", l'Università di Cagliari organizzerà le Giornate di Orientamento 2005 durante le quali sarà presentata, agli studenti degli ultimi due anni delle superiori, l'offerta formativa del prossimo anno accademico 2005/06. L'iniziativa si terrà dal 15 al 19 marzo 2005 alla Cittadella Universitaria di Monserrato (strada statale 554 km. 4,500 bivio per Sestu), dalle 9 alle 14. Durante le giornate i docenti degli Atenei presenteranno i corsi di laurea di prossima attivazione. Inoltre, saranno a disposizione degli studenti anche i tutor che illustreranno le modalità di accesso ai corsi, sui percorsi formativi e sugli ambiti occupazionali previsti per i laureati nelle diverse classi di laurea e laurea specialistica. Nella postazione del Centro Orientamento d'Ateneo, gli studenti potranno acquisire tutte le informazioni anche grazie al servizio di Help Desk e a quello di Counselling psicologico e di sostegno. Modulo telematico Il modulo on-line contiene una prima parte informativa di carattere generale e la scheda di prescrizione che lo studente può compilare inserendo il codice fiscale e i propri dati anagrafici, la scuola di provenienza e il relativo indirizzo postale. Le preiscrizioni consentiranno di programmare per tempo le attività didattiche sulla base dei dati rilevati dal Ministero, ma lo studente potrà anche decidere di compiere scelte diverse da quelle espresse precedentemente. Informazioni Per chiarire eventuali dubbi o problemi di tipo tecnico sulle preiscrizioni on- line è possibile chiamare un numero verde 800.16.38.38 dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 17. Alessia Corbu _____________________________________________________ L’Unione Sarda 8 mar. ’05 SCUOLE MEDICHE, 87 BORSE A SASSARI 87 borse di studio saranno assegnate dall'Università di Sassari a coloro che intendano frequentare il primo anno delle scuole di specializzazione della facoltà di Medicina e Chirurgia. Sono ammessi al concorso i laureati in Medicina e Chirurgia in possesso dell'abilitazione professionale. ESAMIGli esami consistono in una prova scritta e una orale. La prova scritta si svolgerà il 19 aprile 2005 per le scuole di specializzazione dell'area medica; il 20 aprile 2005 per le scuole dell'area chirurgica e il 21 aprile 2005 per le scuole dell'area dei servizi. SCADENZALa domanda di ammissione (compilata su apposito modulo disponibile sul sito dell'Università) dovrà essere inviata, per raccomandata con ricevuta di ritorno, all'ufficio protocollo in piazza Università 21, 07100 Sassari entro il 21 marzo 2005, e dovrà avere la dicitura "Domanda di partecipazione al concorso di ammissione alle scuole di specializzazione mediche". INFORMAZIONIIl bando completo è disponibile sul sito www.ammin.uniss.it/scuole_specializzazione/. Informazioni anche alla Segreteria studenti (scuole di specializzazione-dottorati di ricerca), via Macao 32 a Sassari, il lunedì, mercoledì e venerdì dalle 10 alle 12,30 o alla e-mail n.macciocu@uniss.it. (r.f.) _____________________________________________________ L’Unione Sarda 5 mar. ’05 UNIVERSITÀ, SÌ ALLA NUOVA FACOLTÀ ARCHITETTURA Sindaco e associazioni: avanti con Architettura La facoltà di architettura fa un nuovo passo avanti: nella riunione del 2 marzo l'Università ha incassato una raffica di sì durante la consultazione con le parti sociali, uno dei passaggi previsti prima dell'attivazione della nuova laurea. Associazioni come Legambiente e Confindustria, rappresentanti degli ordini degli ingegneri e degli architetti, esponenti di Italia Nostra e amministratori come il sindaco di Cagliari Emilio Floris e l'assessore all'Urbanistica (e architetto) Gianni Campus: sono solo alcuni dei fan della nuova facoltà che si sono confrontati con il preside di Ingegneria Francesco Ginesu, che a sua volta è stato ben contento di registrare l'assenso generalizzato. Da arruolare d'ufficio, accanto ai molti che mercoledì hanno sostenuto l'opportunità di affiancare con una facoltà cagliaritana quella di Alghero, ci sono presumibilmente i mille giovani che ogni anno vanno oltretirreno per diventare architetti. Un dato - spiega il professor Ginesu, che con l'istituzione della nuova laurea "perderebbe" cinquanta tra docenti e ricercatori ma sembra tutt'altro che contrariato - che dimostra l'assoluta compatibilità tra il polo dell'Università di Sassari e quello del sud. «Non ne farei un discorso di campanile - spiega il preside - ma anzi immagino un lavoro sinergico: d'altra parte Alghero punta in modo particolare sui progetti ambientali, noi su quelli tecnologici», ma anche alla creazione di un'Architettura Mediterranea che diventi punto di riferimento di più di un Paese, secondo il suggerimento del sindaco. Ovviamente il via libera delle parti sociali non era l'ultimo passaggio da affrontare prima di avviare la facoltà. Nei prossimi giorni senato accademico e consiglio d'amministrazione dell'Università sottoporrà il dossier Architettura al nucleo di valutazione. Il test più importante - e quello dall'esito più aperto - resta quello della commissione di valutazione che riunisce i rettori dei due atenei sardi; un rappresentante degli studenti isolani e l'assessore all'Istruzione in rappresentanza del presidente della Regione. La commissione (che a parte il rettore Pasquale Mistretta è costituita da sassaresi) ha già esaminato la pratica, per poi decidere di riaggiornarsi di lì a tre settimane. _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 11 mar. ’05 NUORO: UNA «ATENE SARDA» CON 1500 STUDENTI Successo dell’università di Nuoro VIAGGIO ALL’INTERNO DELL’UNIVERSITA’ L’ATENEO NUORESE NUORO. Boom di iscrizioni all’università di Nuoro nonostante i tagli ai bilanci: il vecchio mito dell’Atene sarda resiste ancora. Sono infatti 1420 studenti, pendolari e residenti, distribuiti nei cinque corsi di laurea gemmati da Cagliari e Sassari, e guidati da circa 130 docenti, dieci dei quali strutturati nel sistema nato dieci anni fa. Rifiutano la condizione di sudditanza da Sassari e vorrebbero avere più visibilità «Non siamo da considerare di serie B» La maggior parte dei giovani arriva dagli altri centri della Sardegna «Possiamo vantare un’ottima preparazione nelle materie legate al territorio» NUORO. «Non siamo un’università di serie B»: gli studenti nuoresi non si stancano di ripeterlo. E’ un piccolo moto d’orgoglio in mezzo alle polemiche di questi giorni tra annunci di tagli e appelli per il terzo polo. «Non siamo un’università di serie B - continuano a dire - abbiamo ottimi professori e un’ottima preparazione. Per questo non siamo secondi a nessuno». Ma quel cartello all’ingresso di una delle due sedi, a Sa Terra Mala, racconta una storia diversa. «Università di Sassari» è scritto in grande, «sede di Nuoro» in piccolo. La condizione di sudditanza, insomma, come una spada di Damocle sui 359 studenti che frequentano i corsi di Scienze Ambientali e Forestali. Ben 270 di loro sono fuori sede. Arrivano dall’Oristanese, dalla zona di Cagliari e dalla provincia di Sassari. La maggior parte, dai centri dell’interno. Prendono casa in città oppure viaggiano tutti i giorni, spesso con grandi sacrifici. In tutto, tra i corsi attivati a Sa Terra mala e quelli della centrale, sono 1420 giovani. I primi dovrebbero essere le figure ideali per gestire parchi naturali, per progettare sistemi forestali, per valorizzare il patrimonio ambientale. Ma in pochi li conoscono, di conseguenza in pochi li cercano. «Il mercato del lavoro non sa della nostra esistenza. Siamo poco conosciuti nell’Isola e in tutta Italia, così capita spesso che i bandi di concorso ci snobbino» dicono Giampietro Carta, Francesca Gometz e Lucio Nieddu. Eppure loro, come molti altri colleghi, in questi corsi di laurea continuano a crederci. «I corsi che seguiamo sono di serie A - aggiunge Giampietro, 26 anni, di Olzai -. Stiamo parlando di territorio, di paesaggio, di ambiente. Non sono mica questioni di poco conto, soprattutto per la Sardegna”. Rincara la dose, Lucio di Siniscola: “La nostra è una figura professionale utile, adesso e in futuro, per lo sviluppo dell’Isola. Eppure, il tasto dolente è proprio lo sbocco nel mercato del lavoro. Il dottore forestale, ad esempio, non lo conosce nessuno e così nessuno lo cerca. Questa è la nostra grande preoccupazione». C’è poi il futuro della stessa università che li preoccupa. Oggi più di ieri, dopo i tagli ai bilanci dell’ateneo nuorese. «Si sente proprio che tira aria brutta» osserva a proposito anche Francesca, 26 anni, di Dorgali. Valeria Gianoglio L’INTERVISTA Maida: «Qui potrebbe nascere il terzo polo degli studi» Professor Maida, ma che succederà, con questi tagli, alla giovane università nuorese? «Diciamo che saremo costretti a contenere le spese e, quindi, anche l’offerta». La qualità è importante. Come difenderla? «Bisogna razionalizzare l’offerta. Se la Regione intende razionalizzarla con un sistema universitario regionale occorre poi fare un programma insieme ai consorzi, alle università e a tutti i soggetti». Stando alle ultime statistiche, sul piano della qualità, anche gli atenei di Cagliari e Sassari non sono ai primi posti. Che succede? «Bisogna dire che certe statistiche sono fatte su parametri che penalizzano gli atenei sardi. E’ difficile che gli studenti vengano in Sardegna a causa dell’insularità. E’ più facile uscire che entrare. Su questo parametro siamo svantaggiati. Poi altri servizi creano più difficoltà: le residenze agli studenti, per esempio, non incentivano. I punti deboli sono dunque due: insularità e residenze. Ma si può migliorare: innanzitutto c’è la scarsa produttività delle due università da innalzare. E con questo penso al numero dei laureati rispetto agli iscritti, agli abbandoni e ai fuoricorso. Questi tassi non ci pongono al livello delle migliori università italiane. Noi stiamo lavorando per superare lo scoglio, ma l’Ersu non gode di ottima salute». Questo naturalmente vale anche per l’Università nuorese. «A maggior ragione. A Nuoro non ci sono ancora residenze». Allora il Campus universitario nell’area della ex Artiglieria potrebbe essere la soluzione giusta? «Sì, ma all’interno di una razionalizzazione complessiva. Direi che anche a Nuoro esistono i presupposti per fare un terzo polo universitario. Dentro la città ci sono le strutture e parlo qui del possibile campus e delle risorse disponibili di 20 milioni di euro. In quest’area tutto può essere accorpato: mensa, alloggi, servizi, foresteria, laboratori, e impianti sportivi. La cittadella universitaria a Nuoro è realizzabile». Ma il Consorzio nuorese punta anche a una facoltà autonoma. Siete d’accordo? «Io la vedo bene, ma con diversi di corsi di lauera collegati. Già ce ne sono tre pronti: ambientale, forestale e fauna. Un bel nucleo da cui cominciare». Ed esistono anche le condizioni politiche? «All’inaugurazione delll’anno accademico di Sassari il presidente Soru si è mostrato sensibile a un sistema universitario regionale. In questo senso c’è da sperare. Se c’è l’accordo su questo, poi si potrà chiedere la facoltà al ministero. Per concludere credo che Nuoro possa contare su una sua specificità, quella dell’ambiente».(n.b.) LE PROFESSIONI NUORO. Dalla nascita ad oggi gli universitari barbaricini che hanno frequentato i corsi sono stati oltre duemila, 363 dei quali hanno già conseguito il titolo. Ma per fare cosa poi nella vita? Questa domanda pone il problema degli sbocchi professionali, che per quanto riguarda i corsi dell’ateneo nuorese si possono sintetizzare così. Scienze ambientali assicura titoli per impieghi negli enti pubblici e lavoro nei piani di risanamento ambientale. Scienze forestali oltre che nelle attività forestali anche nei servizi e nella gestione e programmazione del territorio rurale. Scienze dell’amministrazione poi punta a inserire i giovani nelle amministrazioni pubbliche e nelle imprese collegate.Scienze del servizio sociale punta invece, e soprattutto, sulle aziende sanitarie locali (Asl) e sugli istituti periferici dei ministeri Giustizia, Interni, e Welfare.Scienze delle produzioni animali, infine, guardano a sbocchi professionali in ambiti diversi e comunque legati al mondo dell’allevamento ovicaprino. Un mercato tutto sardo. I tagli non mettono in crisi le iscrizioni Gli studenti sono 1420 per cinque corsi di laurea NINO BANDINU NUORO. Nonostante i colpi e i tagli ai bilanci resiste forte il mito dell’Atene sarda. Un mito che oggi s’incarna nell’ateneo pubblico nuorese, con i suoi 1420 studenti, pendolari e residenti, distribuiti nei cinque corsi di laurea gemmati con Cagliari e Sassari, e guidati da circa 130 docenti, dieci dei quali strutturati nel sistema nato nel lontano 1995: quando cioè il Consorzio universitario (Comune e Provincia) istituì i primi corsi in città. Da allora è stato come una via crucis, una parabola di ascesa contorta e molto sofferta, tra rapide ascese e precipitose cadute, con risorse tagliate, scippate, e poi riacciuffate all’ultimo momento. Le idee forti, allora, comunque non mancavano, neppure una classe dirigente (nuorese e regionale) attenta alle questioni dello sviluppo nella Sardegna centrale. L’idea base di un ateneo a Nuoro, come molte per altre cose in Barbagia, era nata nei primi anni Settanta dalla storica inchiesta della Commissione Medici sul banditismo. Una scelta culturale mirata e ritenuta strategica anche sul piano sociale ed economico. Lo Stato amico, oltre che con le ciminiere della chimica di base a Ottana, qui doveva presentarsi col volto di una amministrazione moderna. E perchè no, anche con una università decentrata, anche per continuare il mito dell’Atene sarda. L’idea è rimasta a lungo ad incubare. Poi è riesplosa negli anni Ottanta. E nei Novanta è diventata progetto e realtà. Nel 1995 con i primi corsi gemmati alle due università sarde la risposta degli studenti barbaricini è stata forte e convinta. Le iscrizioni sono arrivate in massa, anno dopo anno, nonostante le difficoltà, sempre in crescita. Fino all’exploit dell’ultimo anno accademico con circa 1400 universitari, così distribuiti: 259 iscritti in Scienze forestali; 169 in Scienze ambientali; 28 in Protezione della fauna; 598 in Scienze dell’amministrazione; e 63 in Servizio sociale. Nel tempo i corsi decentrati dell’ateneo erano diventati cinque, ma in questo periodo cominciava a imporsi un «nucleo speciale», tutto centrato su ambiente e foreste. Sotto l’impulso dell’idea di un Parco nazionale nel Gennargentu, la piccola università nuorese aveva improvvisamente scoperto l’aggancio a un nuovo modello di sviluppo: quello ambientale e integrato, appunto. Le vecchie ciminiere di Ottana stavano declinando e si sentiva forte il bisogno di una sterzata. Quale migliore occasione, quindi, per legare l’università al territorio? E che territorio quello del Gennargentu. Scoperto e riscoperto a livello nazionale e mondiale e idealmente inserito nei grandi circuiti del flusso turistico internazionale. Il boom delle iscrizioni ai corsi di Scienze ambientale e forestale è stato immediato. Il nuovo modello, dunque, funzionava. Ma a questo punto scoppiò la guerra antiparco, una guerra tra fondamentalismi, che sconvolse tutto. La parabola ambiente e del nuovo modello di sviluppo cominciò a declinare. Proprio nel momento in cui le istituzioni e il movimento si stavano attrezzando per il salto di qualità verso l’autonomia dell’università (con la richiesta di una facoltà vera) il meccanismo si è improvvisamente inceppato. Tutto era pronto, allora, con i 40 miliardi di vecchie lire finanziati dalla Regione (centrosinistra) per fare un campus universitario nel cuore della città (ex caserma dell’Artiglieria) e con un territorio alle spallle, ideale per la ricerca sul campo, ma anche con la necessaria “forza politica” capace di convincere lo Stato a concedere una facoltà a Nuoro. E con la facoltà, l’agognata autonomia. La cittadella universitaria, insomma, sembrava a portata di mano. Invece la mannaia è calata pesante sui 40 miliardi del campus (scomparsi dal bilancio regionale del centrodestra) e sui contributi per la gestione. Un’altra fase convulsa e confusa, poi, quella più recente, tutta sprecata nel recupero dei soldi scomparsi. Infine, la fase attuale, con i nuovi tagli alla gestione dell’ateneo previsti anche nella finanziaria di Soru. Dopo un periodo di calma, insomma, il quadradante è tornato a segnare rosso, sia sul piano delle risorse che su quello politico. Resta in piedi, però, una colonna da cui ripartire: l’alto numero degli universitari iscritti (e che continuano a iscriversi) all’ateneo nuorese. Quasi una costante resistenziale, per tornare al mito, anche a quello dell’Atene sarda. Ma ciò che colpisce Bachisio Porru (presidente dell’ateneo nuorese) è quella che lui preferisce chiamare «una crisi di crescita». Crisi sì, ma dentro l’università che c’è. E con una domanda sempre più forte. Ma l’offerta, come sta l’offerta? Questo è il punto. «La qualità qui non manca, ma non basta» dice Porru, che ha una sua proprosta: «Le istituzioni programmino l’università in funzione dello sviluppo». Poi seguirà la ricerca e la didattica di qualità. «Con Scienze ambientale e forestale - sottolinea - la situazione qui è proprio ideale, manca solo la facoltà come unità funzionale». Anche se non c’è il parco? «Anche così, perchè resta il territorio». Il futuro dell’ateneo nuorese, dunque, ruota intorno all’ambiente. «Sia chiaro però che non si può costruire futuro senza risorse», conclude Porru, pensando a Soru. _____________________________________________________ L’Unità 06 mar. ’05 QUEL SANTO PEZZENTE DI SOCRATIE Da modello a monstrum: le alterne fortune del pensiero del filosofo greco Alessandro Stavru Socrate - lo confesso - mi e talmente vicino, che devo quasi sempre combattere contro di lui». Queste parole di Friedrich Nietzsche esprimono in modo emblematico il rapporto che lega la figura di Socrate al pensiero occidentale: ogni momento storico e culturale ha dovuto fare i conti con il filosofo ateniese, ora prendendone le distanze, ora rifacendosi à lui come modello di virtù e saggezza. Alle molteplici figure di Socrate, espressioni dei variegati aspetti della cultura occidentale, è dedicato il volume a cura di Ettore Lojacono Socrate in Occidente (Le Monnier, Firenze 2004). Vi sono raccolti interventi maturati nel corso del convegno La Sagesse contro l’ecole. I miti di Socrate (Lecce, 22-24 marzo 2001), cui si sono aggiunti saggi sulla ricezione del pensiero socratico nei secoli XIX-XX. La silloge affronta la questione, dei vari Socrate succedutisi nel corso delle diverse epoche storiche, filosofiche e artistiche, riprendendo un argomento recentemente tornato in voga tra gli specialisti. Punto di partenza è l’ormai celebre «Sancte Socrates ora pro nobis» pronunciato da Erasmo nel Convivium religiosum (I522), prima glorificazione della virtù religiosa del filosofo ateniese in epoca moderna. In ambito umanistico e rinascimentale, l’esemplum socratico trova larghissima fortuna, ispirandosi ora al paragone con Cristo (di matrice patristica), ora all'ideale di una virtù prettamente umana. Portavoce del platonismo e spesso in aperta contraddizione con le dottrine della tradizione atistiotelico-scolastica, Socrate assurge a modello di humanitas in autori come Giannozzo Manetti, Vlarsilio Ficino, Tommaso Campanella e Giordano Bruno. In controtendenza rispetto alla sua epoca si situa il De Socratis studio di Girolamo Cardano (1566), volto a mettere in luce l’inadeguatezza del sapere socratico rispetto alla mutevolezza dei mores crbnanri. L’Ateniese fu per Cardano condannato giustamente; in quanto responsabile di aver negato la volontà a vantaggio di una sapientia vacua e illusoria. Nella seconda metà del Seicento Giuseppe Valletta si rifà al Socrate modello di dignitas ed excellentia proposto da Manetti. In questo contesto vedono la luce le tre tele dedicate da Luca Giordano al filosofo ateniese (rispettivamente: Santippe versa l'acqua nel collo di Socrate, Socrate con Alcibiade e Santippe e Socrate), tutte incentrate sul contrasto tra l'immagine esteriore di Socrate «filosofo pezzente» e la sua intima essenza di «valentuomo» La fortuna di questa immagine si riverbera nella vastissima dossgrafia socratica sorta in res Umanesimminismo. Il mito del filosofo ateniese diventa oggetto filologico per eccellenza nel XVII secolo, dando luogo ad un vero e proprio «dialogo tra le fonti». I libertini vedono in Socrate il «padre della filosofia morale», il quale paga con la vita; le sue scelte di esprit fort. Simbolo dalla persecuzione del libero pensiero, egli è - altresì modello di religiosità, di quellà foi implicite su cúi si sofferma La Mothe Le Vayer. Socrate unifica nella propria persona logos e bios, dottrina e vita, incarnando in pieno l'ideale dell'honnéte homme teorizzato da Montaigne e Charron. Affrancato da ogni forma di pedantismo, l’uomo socratico pratica la filosofia tramite la conversazione: non impartisce dotte lezioni, ma si sforza di suscitare nell'interlocutore la capacita di scorgere autonomamente la verità. In Réné Descartes la figura del Socrate honnéte homme, veicolata dal tardo rinascimento francese, diventa pretesto per un percorso teoretico indirizzato verso mete lontane dal non-sapere dell'Ateniese. Nelle opere giovanili di Descartes il figlio di Sofranisco compare infatti nella veste di uno scettico radicale, convinto unicamente delle capacità maieutiche del proprio «demone». Una interpretazione analoga del «demone» ricorre in Diderot, il quale iscrive la sua vita intera sotto il segno di Socrate. La riflessione sul filosofo ateniese è per Diderot una ricerca della propria identità filosofica; per quanto enigmatico e irraggiungibile,l'exemplum del Socrate maestro di saggezza e virtù filosofica rimane il suo costante punto di riferimento, dal periodo della Enciclopédie agli anni turbolenti della lutte philosophique. Ad una «divulgazione» dell'ideale etico-ascetico di Socrate in epoca moderna è dedicato il manoscritto di Shaftesbury Design of a Socratick History. Composta negli anni 1703-1707 e tuttora inedita, quest'opera si ripropone di presentare un Socrate storico, ricostruito più dagli scritti di Senofonte che dal, l’opera platonica. La predilezione per Senofonte: caratterizza anche le molteplici figure di Socrate con cui si cimenta Nietzsche nelle diverse fasi del suo pensiero. Il padre del nichilismo muove infatti da una piena identificazione con il filosofo ateniese negli scritti giovanili, per giungere, con la Nascita della Tragedia e le opere della maturità, ad una violenta critica a Socrate. Se da un lato Socrate rappresenta a pieno titolo l'eccezione dell'episteme nel mondo greco per Nietzsche è proprio la pratica socratica del dialogo a spegnere l'istinto artistico degli antichi Greci, dando il via alla décadence nichilistica dell'Occidente. Da exemplum Socrate; «il primo Greco ad essere brutto», diventa così modello vivente di decadenza, monstrum di degenerazione e malattia. L'attualità della figura di Socrate nel pensiero contemporaneo è documentata dall'attenzione che gli dedica Michel Foucault in un corso. tenuto nel 1982 presso il Collége de France, intitolato L'herméneutique du sujet. Tema centrale di questa ripresa in chiave decostruttivista è la ricerca di un presupposto non teoretico del sapere, in grado di anticipare e orientare ogni manifestazione del soggetto. Foucault si rifà ai principi socratici del «conosci te stesso» e della «cura del sé» come modelli di un esercizio autonomo di costruzione del senso critico. La «morale etica» sottesa a questi principi rientra infatti in una concezione della politica tipicamente foucaultiana, tesa a sovraordinare la vita dell'individuo a quella dello Stato e della prassi giuridica. Le molteplici figure di Socrate che attraversano la cultura occidentale dipendono dunque in larga parte da quale parte la storia del pensiero ha di volta in volta scelto di adottare. Da sempre gli studiosi si sono interrogati su quali aspetti della letteratura socratica considerare più attendibili e dunque privilegiare rispetto ad altri. ======================================================= _____________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 4 mar. ’05 C' È VITA E VITA LO DICE ANCHE SAN TOMMASO Embrione, fede, ragione SAN TOMMASO Non capisco perché Rocco Buttiglione (Corriere del 2 marzo) si meravigli che io parli «di diritto alla vita in nome della ragione e come interprete della scienza». Perché non dovrei? Sono libero docente in Storia della filosofia moderna, materia che ho insegnato alla Università di Firenze tenendo corsi anche e proprio su Hegel (che sono agli atti e che il Nostro può reperire). Ho anche insegnato a lungo logica, filosofia e metodologia della scienza. Pertanto non mi sento per niente inabilitato a interloquire; e proprio la mia «infarinatura» filosofica mi consente di sfuggire alle trappole che mi tende il bravo Buttiglione. La prima è di travestirmi da hegeliano. No. Quando dichiaro che la vita umana è caratterizzata dalla autoconsapevolezza non mi riferisco a Hegel (tantovero che non dico «autocoscienza») ma al puro e semplice significato letterale del termine: l' essere consapevole di se stesso. Rispetto alla stratosfera hegeliana io volo raso terra, il che mi salva dalla obiezione «che non tutti gli uomini sono autocoscienti». Il Nostro illustra poi così: «E non solo non è autocosciente l' embrione, ma non è autocosciente neppure il feto». Bravissimo, grazie, sembra ovvio anche a me. Dopodiché continua, secondo me con sempre minore bravura, osservando che «non sono autocoscienti molti disabili, e che non siamo autocoscienti tutti noi almeno quando dormiamo». Questa poi. Io mi riferisco a una capacità, e se questa capacità dorme quando dormo, si risveglia quando mi sveglio. Una capacità non deve essere attiva ventiquattr' ore su ventiquattro; basta che sia attivabile. Buttiglione mi chiede anche - trappola filosofica numero due - di definire «quell' io di cui (del quale) dobbiamo essere coscienti per avere diritto alla vita». Ma proprio no. Se ci tiene, l' Io (meglio con la maiuscola) lo definisca lui. Per il mio discorso terra terra proprio non occorre. E me ne guardo bene, anche perché convengo con lui che «le categorie filosofiche hanno un potenziale esplosivo», che vanno maneggiate «con molta attenzione», e che nessuno di noi (ma il rimprovero è implicitamente rivolto a me) si deve arrogare «la rappresentanza esclusiva della ragione». Difatti io, sul punto, mi acquatto sotto la eminentissima tonaca di San Tommaso. Che passo a citare non a beneficio di Buttiglione, che certo lo ha letto, ma dell' altro mio contraddittore, Sandro Bondi, che invece dà mostra di masticare l' argomento con difficoltà. Nel mio editoriale notavo la stranezza di una Chiesa che nel definire la vita umana si dimentica dell' anima. Bondi mi salta addosso: è «stupefacente» affermare che l' anima «è un concetto dimenticato quando invece è essa uno dei fondamenti della fede». Certo che lo è. Proprio per questo sono io che trovo stupefacente che la Chiesa se ne dimentichi a proposito dell' embrione. E trovo anche stupefacente che Bondi non capisca il punto. Vediamo allora se ci arriva con l' aiuto di San Tommaso. Che passo, come annunziato, a citare. L' Aquinate distingue tre «forme» dell' anima. La prima è l' «anima vegetativa» nella quale «l' embrione vive la vita della pianta»; poi «le succede un' anima più perfetta che è insieme nutritiva e sensitiva, e allora l' embrione vive la vita dell' animale»; e la terza è «l' anima razionale che viene infusa dall' esterno» (vedi la Summa contra Gentiles, 1258-64, trad. it. Utet, Torino, 1997, p. 511, Libro II, capitolo LXXXXIX). Dunque l' anima presente nell' embrione sarebbe, per il nostro doctor angelicus, soltanto vegetale (vive la vita della pianta) mentre io, più generosamente, le riconosco già vita animale; con il che resta pur sempre fermo che l' anima che qualifica la vita umana è l' anima razionale che è infusa da Dio e che arriva tardi, quando il nascituro è formato (vedi, passim, la Summa Theologiae). E siccome il Tomismo è la struttura portante non solo della Scolastica ma di tutta la teologia cattolica, sull' embrione io mi sento teologicamente tranquillo. Così come mi sento tranquillo - passando all' argomento razionale che la vita umana comincia con il «rendersi conto» - nel resistere alla tesi bondiana che «se il feto reagisce agli stimoli, apprende, esprime emozioni (non so come Bondi lo sappia, ma tant' è) dichiarare che ciò non è vita è il vero arbitrio». Il Nostro continua a confondere, come si vede, vita con vita umana. Per l' ennesima volta gli preciso: vita ovviamente sì; vita umana ancora no. Anche se sono io che dico, bontà di Bondi, «una colossale sciocchezza», la sua è una notevolissima ottusità. Da ultimo l' intervento di ieri di Don Roberto Colombo, professore alla Università Cattolica di Milano. In verità, il suo intervento non mi riguarda più di tanto. Per esempio, io non penso nè ho mai detto che «i cattolici sono degli sprovveduti quanto alla ragione nè orfani del pensiero scientifico e filosofico». Penso però che se messo alle strette il cattolico dà la prevalenza alla sua fede, come è giusto che faccia. Infatti il messaggio del mio editoriale è che la ragione deve rispettare la fede così come, viceversa, la fede deve rispettare la ragione. Se poi al professor Colombo questa contrapposizione non piace, ne trovi pure un' altra. Ma una contrapposizione c' è, e la impone il principio della logica che il nostro non menziona tertium non datur. Alla fine, o fede o ragione. È il principio del terzo escluso. Quel che mi sconcerta nell' argomentare del professor Colombo è l' apparizione della categoria «vita individuale». Stiamo forse discutendo se la vita sia individuale o collettiva? Sicuramente no. E allora quale è la rilevanza teoretica di questa categoria? A me sembra un ennesimo depistaggio che annebbia il problema che stiamo discutendo. Ciò detto, torniamo alla logica. Premesso che apprezzo molto che il Nostro scenda su questo terreno, non riesco poi a seguirlo nel come la stiracchia. Cominciamo dal principio dell' identità: a=a. Qui il punto è che la logica non è diacronica, che non segue le metamorfosi di una entità nel tempo. È verissimo che il processo dello sviluppo da qualsiasi embrione a qualsiasi essere è continuo. Ma il principio di identità asserisce che a è a, non che a sarà a. La logica non consente di dichiarare che una pallina di caviale è uguale a uno storione. E dunque debbo insistere: l' argomento che un embrione è uguale a un essere umano, che è un individuo-persona perché sarà un individuo-persona, è logicamente assurdo. Attenzione: assurdo per la logica. Il che non «squalifica come assurdità ciò che la ragione del credente arriva a riconoscere attraverso la riflessione». Analogamente non posso accettare il modo nel quale il Nostro forza il principio di non-contraddizione. Ripetendo l' argomento di Buttiglione il professor Colombo mi vuol costringere ad asserire (altrimenti mi contraddirei) che «il paziente in anestesia...l' anziano demente, il cerebroleso» non sono da tutelare «in quanto considerati vita animale». Ma proprio no, caro collega. Come ho già spiegato, l' attributo della consapevolezza denota una capacità. Se questa capacità viene addormentata o si atrofizza, una persona umana che è già tale, tale resta. La logica è uno schema che di volta in volta si applica a dei concetti. E temo che qui sia la fede a indurre Don Colombo a distorcere il concetto che adopero. Una postilla in punto di onore. Io cerco di non scrivere a casaccio. Se nel mio editoriale ho scritto «alla Tertulliano» è perché sapevo benissimo che la formula credo quia absurdum è stata coniata da un autore ignoto. Però è un compendio che non tradisce lo spirito del tertullianismo. Ich abe auch teologie studiert, anch' io ho anche studiato teologia. Giovanni Sartori _____________________________________________________ L’Unione Sarda 8 mar. ’05 G.COSSU«L'EMBRIONE È VITA UMANA MA LA LEGGE VA SUBITO ABOLITA» Intervista al professor Giulio Cossu, ricercatore che dirige il Parco biomedico di Roma Limiti della ricerca e prospettive nelle riflessioni di un biologo Dal nostro inviato Giorgio Pisano Castel romanoE' diventato l'uomo-simbolo della battaglia referendaria contro la legge sulla fecondazione assistita. Ma è l'esatto contrario dell'arruffapopoli, lontano dallo stile e dai metodi che un certo venticello quaresimalista sta soffiando in ogni angolo d'Italia. Giulio Cossu, 52 anni, radici sassaresi, vanta il classico medagliere da primato: è direttore del Parco biomedico di Roma, ordinario di Istologia alla Sapienza, responsabile dell'istituto di ricerca sulle cellule staminali, di Biologia cellulare e ingegneria tissutale, membro del Comitato "Luca Coscioni". La sua postazione è la stanza a pareti mobili B29, dieci metri quadri circa, terzo piano di un complesso affogato in un mare verde infinito, una trentina di chilometri da Roma. «Niente paura, costiamo meno degli scarpini di Totti». Alle pareti un poster sui grandi rouges francesi, tutt'intorno un viavai di camici bianchi zavorrati di provette, il brusìo lieve di un lavoro che pure può fare il rumore di una bomba. Cossu si definisce agnostico e vien da pensare come faccia a sopravvivere al "San Raffaele", impero cattolico di don Luigi Verzè. «Lavoro in una condizione di assoluta libertà, piena autonomia e di questo sono estremamente grato». Qualcosa è tuttavia cambiato da quando si è apertamente esposto per il referendum. «Prima c'era un bel confronto con intellettuali cattolici, gesuiti molto preparati coi quali ci si misurava spesso e volentieri. Ora non mi invitano più. Peccato, hanno voluto rompere il dialogo, alzare un muro». Secondo il professor Cossu, decisioni come questa nascondono strategie a lunga gittata. «Loro negano ma io sono certo che la difesa a oltranza della legge sulla fecondazione assistita punterà, se va a segno, a rimettere in discussione l'aborto. E' lì che vogliono arrivare. E dopo l'aborto sarà la volta del divorzio e dopo ancora della contraccezione. Con tanti saluti alla laicità dello Stato». Lei è noto come meccanico del cuore, ripara cuori infartuati con le cellule staminali. «Siamo uno dei tanti centri del mondo che si occupano di questo problema. Abbiamo inserito cellule staminali in topolini che hanno avuto un infarto e si è potuto rilevare un netto miglioramento della funzione. Un certo vantaggio sulla concorrenza l'abbiamo sul fronte della distrofia muscolare. Stiamo verificando sui cani i risultati ottenuti su topolini distrofici. In questo campo siamo abbastanza competitivi». Lei lavora anche con cellule embrionali? «Personalmente no, lo fanno gruppi dell'istituto che dirigo al "San Raffaele" di Milano. Lavorano su staminali embrionali di topo. Non lavoriamo con cellule staminali umane perché di fatto, anche se non formalmente, è proibito dalla legge 40». Le staminali embrionali sono considerate insostituibili a differenza di quelle adulte: perché? «La polemica che si è creata ormai prescinde non solo dalle valutazioni scientifiche ma anche dal buonsenso. Un esempio: se per salire su una collina ci sono due viottoli che non conosco, dovrò esaminarli tutt'e due per capire quale sia il migliore. Ci sono casi in cui già si sa che le cellule staminali adulte funzionano (trapianto di midollo, rigenerazione della cornea, dell'epidermide). Per una serie di altre patologie invece oggi non sappiamo se funzionano meglio le cellule staminali adulte o quelle embrionali. L'unico modo per arrivare a un risultato è provare». Il biologo Vescovi propone di sprogrammare le adulte facendole tornare embrionali. «Si potrebbe. Userei il condizionale perché finora non ci è riuscito nessuno. La riprogrammazione di una cellula staminale adulta avviene con una frequenza talmente bassa che sotto il profilo terapeutico risulta totalmente inutile. Quando scopriremo i meccanismi della deprogrammazione, l'anno prossimo o fra venti, ne riparleremo». Perché la legge 40 va modificata? «Per quanto riguarda le staminali, la ricerca non può essere vincolata da leggi decise senza consultare i ricercatori, in modo completamente avulso dal contesto europeo, mondiale e di tutti i Paesi civili. In altre parole: bisogna poter lavorare con le cellule staminali umane perché queste cellule offrono prospettive importanti. I cattolici hanno ragione quando dicono che finora le staminali embrionali non hanno mai curato nessuno. E' altrettanto vero che se non possiamo studiarle, non potremmo mai sapere». Se la legge dovesse restare in vigore, ci sarà un oggettivo danno alla ricerca? «Per quanto riguarda le cellule staminali embrionali, sicuramente sì». Temi così delicati possono finire in un referendum? «L'argomento è complesso ma può essere spiegato a chiunque nel giro di dieci minuti. Da un lato basta avere voglia di informarsi e dall'altro ritenere che tutti possano capire». L'embrione è vita? «Sicuramente». È vita umana? «Certo che è vita umana. La domanda è mal posta. Anche una cellula della mia epidermide è vita umana. Se mi gratto, elimino delle cellule ma mica si può dire che ogni volta che mi gratto sto sacrificando vite umane. È questione di probabilità: anche un embrione concepito nell'ambito del matrimonio benedetto da Santa romana Chiesa, ha una probabilità su tre di nascere. Se invece che per vie naturali, viene prodotto per fecondazione in vitro, la probabilità scende a una su cinque. Lo spreco è una legge di natura e non uno sterminio come qualcuno vorrebbe attribuire alla ricerca scientifica». La legge vieta anche la diagnosi pre-impianto, che in Sardegna è un baluardo contro la talassemia. «E' assurdo obbligare il re-impianto di un embrione che si sa certamente malato. Si potrebbe, come è stato proposto, congelare tutti gli embrioni malati, tenerli in un limbo e liberarli solo quando sarà trovata una terapia. Un bimbo talassemico ha davvero tanti problemi: è una scelta esclusiva della donna decidere se avere un figlio sano o malato. Non ci può mettere bocca lo Stato e tantomeno il Vaticano. L'embrione di un mammifero non è come l'embrione di pesce, che si sviluppa nell'acqua. L'embrione di un mammifero non ha nessuna possibilità di svilupparsi se non trova un utero che l'accoglie. Dunque è la madre che deve decidere cosa fare di un embrione sano, malato o malatissimo. Nessun altro». Se il cardinal Ruini convince gli italiani ad andare al mare anziché votare, cosa accadrà? «Sul piano della ricerca è come se ritirassero l'Atalanta dal campionato di serie A: onestamente, il vertice non ne risentirebbe. In Italia non siamo all'avanguardia. Il danno più importante se la legge 40 sta in piedi, è che si tratta del primo passo verso altre controriforme». _____________________________________________________ L’Unione Sarda 3 mar. ’05 S.PISU «LA LEGGE NON BLOCCA LA RICERCA SCIENTIFICA» Un docente cattolico di Bioetica spiega perché bisogna far naufragare il referendum La legge sulla fecondazione assistita va difesa disertando le urne di un eventuale referendum. «È assurdo che sia un voto a decidere se l'embrione è persona oppure no». Ha una visione nitidissima del campo di battaglia Salvatore Pisu, docente di Bioetica all'università di Cagliari. Doppia laurea (Medicina e Filosofia), si è specializzato alla Cattolica di Roma e alla Georgetown university di Washington. Dice che chi si astiene «vuole semplicemente difendere l'embrione perché questo non è uno scontro culturale ma un'affermazione di principio in difesa della vita». Respinge anche il sospetto che la legge sia un omaggio della Casa delle Libertà al Vaticano, insomma il saldo di un debito elettorale. «Troppo semplicistico. Qui non si tratta di conti da saldare o di una questione di fede, tantomeno di contrapposizione tra laici e Chiesa. È in gioco qualcosa di molto più importante della mera libertà di scienza». Secondo il suo punto di vista, il nocciolo duro di quella che si annuncia come una guerra epocale (vedi divorzio o aborto) sta tutto in una riflessione: «Riconoscere l'embrione come essere umano è una frontiera significativa perché da lì si va a parare sul problema dell'esistenza. Che è notoriamente tabù». Dunque nessun dubbio, secondo Pisu, che l'embrione sia vita: «Lo è indiscutibilmente, altrimenti non crescerebbe. È vita umana perché contiene in sé le caratteristiche e le informazioni-chiave per il suo sviluppo». Alcuni ricercatori lo definiscono invece grumo di cellule e niente di più. «Lo so bene, ma questo non coincide con le basi della biologia. Più esattamente: ovvio che, da un certo punto di vista, sia un grumo di cellule. Ma è un grumo di cellule molto speciale perché si sviluppa come un organismo che sarà feto, poi neonato eccetera eccetera». Se è fondato questo ragionamento, è altrettanto vero che allora anche l'ovulo o lo spermatozoo siano vita. «Nient'affatto. Mentre nessuno di noi, io, lei, chiunque stia leggendo questo articolo, è stato uno spermatozoo o un ovocita, di sicuro è stato invece uno zigote, ossia il frutto dell'incontro tra uno spermatozoo e un ovocita. L'uno e l'altro, da soli, sono vita ma non vita umana perché ad ognuno manca l'altra metà. L'uno e l'altro hanno 23 cromosomi ciascuno: lo zigote, che li raccoglie entrambi, ne ha 46. Significa che ha il necessario corredo di requisiti per la sua evoluzione, per la sua crescita». L'idea-base, sostiene Pisu, dev'essere quella che l'embrione è vita. «E quindi va difesa a qualunque prezzo. La malattia non può essere un'obiezione al diritto alla vita». Questo per dire che la legge ha fatto bene a vietare anche la diagnosi pre-impianto, un test molto importante soprattutto in Sardegna per via della talassemia. «La diagnosi pre-impianto parte dal presupposto che l'embrione malato vada soppresso o comunque eliminato. Io mi schiero contro questo tipo di scelta: nessuno ha il diritto di negare una vita anche se imperfetta o segnata dalla sofferenza. Tanto più che alla diagnosi pre-impianto si può ovviare con una diagnosi sui gameti: perché non la eseguono?» Già, perché non la eseguono? «Non lo so e non riesco a comprenderlo. Molti esperti affermano che l'esame dei gameti è un'alternativa reale ed efficace alla diagnosi pre- impianto. Queste sono tuttavia sottilizzazioni intorno al vero problema, all'obiettivo reale del referendum: non riconoscere lo status di essere umano all'embrione». L'ovvia conclusione del discorso è che deve essere vietata qualunque tipo di ricerca sulle cellule embrionali. «Non in assoluto. Si potrà fare ricerca sulle cellule embrionali quando troveremo cellule pluripotenti senza uccidere l'embrione. È sempre lì che si torna. Il biologo Angelo Vescovi ha tra l'altro suggerito una via d'uscita: sprogrammare le cellule adulte e riportarle allo stato di pluripotenza. L'unico limite è che non venga in alcun modo leso l'embrione». Stessa linea a proposito della sperimentazione clinica sulle cellule staminali: «Aspetto che qualcuno ci porti evidenze per dimostrare che, per adesso, le cellule embrionali curino malattie umane. Si possono invece fare molti esempi sui risultati ottenuti con staminali adulte. Per esempio, sull'infarto, sulle fratture ossee, sulle malattie dei vasi e su altre patologie». Se la legge 40 resterà in piedi, ha ragione Giuliano Ferrara a dire che per aggirarla basterà un volo low cost a Barcellona? «Quella di Ferrara è solo una provocazione e come tale va presa. La legge 40, in realtà, non ferma la ricerca e non impone affatto fughe a Barcellona». Giorgio Pisano _____________________________________________________ L’Unione Sarda 3 mar. ’05 T.SOLLAI «È UNA LEGGE CHE UMILIA LA RICERCA SCIENTIFICA» Il presidente della Consulta sarda di Bioetica spiega perché è necessario andare al referendum La Chiesa ha paura del referendum perché potrebbe alterare l'anima della legge sulla fecondazione assistita. Lo dice Tonio Sollai, direttore del servizio di anestesia e rianimazione all'ospedale di San Gavino, coordinatore regionale della Consulta di Bioetica (e membro del direttivo nazionale). Lunga esperienza nella terapia antalgica per malati terminali, sostiene la rispettabilità della linea astensionista proposta dal cardinal Ruini «ma questo non impedisce di dire che siamo di fronte a norme profondamente restrittive nei confronti della donna e della coppia». La materia è complessa, viene da chiedersi se possa diventare carne di cannone, argomento da referendum insomma. «Senza dubbio. Il referendum è il male minore per modificare una legge che altrimenti andrebbe abrogata. È fatta male perfino sotto il profilo lessicale. Una legge dovrebbe essere laica per antonomasia, questa invece è quasi confessionale. Ha puntualmeente incassato precise indicazioni della Chiesa». È stata un omaggio al Papa della maggioranza parlamentare? «Non sarei così rigido, non riesco a vedere un brutale do ut des elettorale. Ma detto questo, non c'è dubbio che le posizioni vaticane siano state raccolte». Sotto la lente di Sollai, la legge 40 mostra «sfasature inaccettabili, limita pesantemente la ricerca, punisce in modo particolare la Sardegna vietando la diagnosi pre-impianto. Che è un esame basilare per la lotta alla talassemia, visto che aiuta a distinguere gli embrioni sani da quelli malati. Il Centro del Microcitemico di Cagliari è al top dell'eccellenza europea: disponiamo di grandi professionalità ma con le mani legate. È ammissibile tutto questo? Bisogna avere il coraggio di reagire, e opporsi», Passando al divieto sulla ricerca che utilizza cellule staminali embrionali, il giudizio appare ancora una volta netto e sottolinea la distanza tra le due trincee, la cattolica e quella laica. «Al momento le staminali embrionali sono necessarie per svolgere ricerche ad ampio raggio. A differenza delle staminali adulte (che vengono utilizzate con successo in alcune malattie importanti), le embrionali sono più vivaci, più reattive. Sono cellule che gli esperti definiscono totipotenti perché hanno la forza di rigenerare tessuti lesionati. Penso, per dirne una, all'infarto e alla loro capacità di ricostruire fibre muscolari cardiache in sostituzione di quelle danneggiate». Con le staminali adulte (che si prelevano da alcune parti del corpo umano), tutto questo non è possibile? «No. Le staminali adulte hanno altre funzioni, decisamente diverse. Eppoi, non sono cellule totipotenti». Al dunque, l'embrione è vita? «Sì, certo che è vita. Ma non vita umana. Diciamo che è un progetto di vita, il che è molto diverso. Tanto è vero che la Chiesa, nei suoi documenti ufficiali, si guarda bene dall'affermare che è persona». A voler essere precisi, la distinzione non è così marcata, tant'è che secondo alcuni teologi l'embrione non soltanto è persona ma ha addirittura l'anima. «Sì, ho letto di queste posizioni. Appartengono a singoli, che possono pure essere autorevoli come don Luigi Verzè (fondatore del San Raffaele a Milano) ma non rappresentano in alcun modo la linea vaticana sull'argomento. In ogni caso, sostenere che l'embrione è persona umana significa scivolare nel fondamentalismo, accettare un principio che non ha radici scientifiche. L'embrione, tra l'altro, è progetto di vita che può crollare da solo per aborto spontaneo oppure avere un futuro che porta ad un parto plurigemellare». Di conseguenza, apertura totale all'uso delle cellule embrionali, anche perché «in questa precisa stagione della ricerca hanno dato corpo a grandi speranze». Altra norma della legge che Sollai vorrebbe abrogare è quella che ha imposto il divieto della fecondazione eterologa (vale a dire con donatore esterno). «Bisogna reintrodurla quanto prima. È una questione di giustizia e di civiltà. Quando una coppia sterile arriva a una decisione del genere, ossia ricorre alla cellula d'un estraneo, vuol dire che il desiderio d'avere un figlio è profondo, vero, motivato. Occorre avere rispetto di chi fa scelte di questo genere». Pur essendo anti-referendum, il biologo Angelo Vescovi è d'accordo su questo punto: a patto però che il donatore non resti anonimo. Giusto o sbagliato? «È corretto che la volontà di ritrovare i genitori biologici trovi accoglienza. Dunque, nulla in contrario purché ad avere certe informazioni sia una persona motivata. Dev'essere il risultato di una riflessione equilibrata e serena». G. Pi. _____________________________________________________ Repubblica 10 mar. ’05 OSPEDALI ON LINE: POLICLINICO UNIVERSITARIO, CAGLIARI E più facile navigare se le icone del sito sono "intelligenti" Policlinico Universitario, Cagliari http://pacs.unica.it/policlinico/ aggiornamento *** completezza ** (la scala va da 0 a 5) Un sito di servizio, chiaro, ben strutturato e facilmente navigabile grazie anche all'aiuto di icone elaborate con intelligenza. Il Policlinico universitario di Cagliari - 280 posti letto - eroga prestazioni assistenziali specialistiche per un bacino d'utenza di circa 750.000 abitanti ed è sede della gran parte delle strutture cliniche della Facoltà di Medicina e di numerosi Centri di Ricerca. Ad esso fanno capo Classi di Laurea di I livello (Infermieri e Ostetrici, Tecnici di Radiologia, Igienisti dentali, Ortottisti, Fisioterapisti), Lauree specialistiche in Medicina e Chirurgia ed Odontoiatria e diverse Scuole di Specializzazione. Il sito consta di aree informative essenziali ma curate graficamente. Schematica ma esaustiva la sezione "Informazioni", divisa in quattro aree: Servizi e strumenti informativi, Assistenza in regime di ricovero, Assistenza specialistica ambulatoriale, Assistente religioso ed altri servizi. La Carta dei servizi può essere scaricata in formato pdf o visionata online per sezioni. (A cura de Il Pensiero Scientifico Editore- www.pensiero.it) _____________________________________________________ L’Unione Sarda 11 mar. ’05 IN RETE I SERVIZI DEL BROTZU Nuovo sito web È in rete, all'indirizzo www.aob.it, il nuovo sito dell'Azienda ospedaliera Brotzu. Rinnovato nella veste grafica offre un accesso diretto a tutte le informazioni ed ai servizi del presidio. Nella home page vengono messi in evidenza i numeri del Centro Unico di Prenotazione per le visite ambulatoriali e quello dell'Ufficio relazioni con il pubblico. Per la prima volta in Sardegna l'Ospedale San Michele si propone con uno scopo il quale consiste, secondo quanto si legge nelle pagine web, nel «fornire ai cittadini prestazioni sanitarie di alta qualità scientifica e professionale, in un contesto di imparzialità, nel rispetto della dignità e della privacy, creare un ambiente gradevole dove il cittadino venga assistito in una atmosfera di cortesia e umanità e favorire l'umanizzazione dei rapporti fra il personale e i cittadini che si rivolgono alla struttura». Tutti i serviziOltre all'individuazione dei reparti, dipartimenti e servizi offerti a carattere ambulatoriale e ospedaliero, la centralità dell'informazione viene data alla donazione di sangue, con notizie sulle modalità ed i requisiti psicofisici per l'idoneità, ed all'organizzazione e funzionamento del Centro Trapianti. Fra le novità sono state inserite la pianta dell'Ospedale oltre che gli orari delle visite e di apertura e chiusura di servizi principali quali l'Ufficio ticket, la Cappella, il bar, l'edicola e la banca. Sono state anche aggiunte alcune pagine, tuttora in costruzione, incentrate sull'educazione sanitaria, la prevenzione e sull'attività libero professionale svolta dai medici ospedalieri. ForumSondaggi, Forum e intranet per gli operatori rappresentano l'interazione con l'esterno fatta anche di newsletter. Per ora non è ancora possibile accedere, anche dopo la registrazione, ad un area protetta per richiedere documenti e certificazioni. Con il nuovo sito l'azienda ospedaliera cagliaritana continua la sua modernizzazione finalizzata alla trasparenza e al miglior contatto con il pubblico. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 9 mar. ’05 SANITÀ: «SIAMO ALLO SFASCIO» Sassari. Commissione regionale: l'ispezione si chiude con una debacle Il rettore guida la protesta dei camici bianchi Li aspettavano al varco: la commissione regionale Sanità visita le strutture ospedaliere di Sassari e i consiglieri, arrivati in veste di ispettori, finiscono sul banco degli imputati. Su di loro si riversano la rabbia e le richieste dell'Università sassarese, dal rettore Alessandro Maida, ai presidi delle facoltà di Medicina, Veterinaria e Farmacia. Soldi per la ricerca, per rafforzare gli organici, per attivare i corsi di formazione, per migliorare le strutture e i servizi: queste le rivendicazioni più pressanti dell'élite sanitaria dell'Ateneo. E poi le scelte politiche: l'Università di Sassari chiede di uscire dall'anonimato con cui viene trattata nelle stanze di mamma Regione. Stop con l'occhio di riguardo per le richieste che arrivano dalle Facoltà cagliaritane: anche a Sassari esiste Medicina, e ha bisogno di tutte le attenzioni dell'amministrazione regionale per continuare a funzionare. Adesso lo fa con immensa fatica proprio perché la politica sembra essersi dimenticata di lei. La giornata della commissione Sanità, guidata da Pierangelo Masia, inizia con l'incontro al palazzo rosa della Asl. I commissari si siedono attorno a un tavolo con i vertici dell'Azienda sanitaria sassarese, un incontro che in nome della trasparenza tanto sbandierata dal nuovo manager Bruno Zanaroli si svolge a porte chiuse, lontano da occhi e taccuini indiscreti. Ciò che filtra dell'incontro, filtra grazie alla benevolenza degli addetti stampa istituzionali ammessi a partecipare. La nuova dirigenza Asl mette subito le mani avanti illustrando alla commissione una situazione da brividi. 500 milioni di bilancio, con un buco di 75 milioni che chiude l'accesso a qualsiasi mutuo o prestito. Cinquemila dipendenti di cui mille sono dirigenti, rapporti pessimi con le organizzazioni sindacali interne all'azienda, rapporti praticamente inesistenti con i politici. Le soluzioni proposte dalla Asl sono un o Statuto dell'azienda, e per ridurre il deficit creare una sorta di macroazienda che leghi fra di loro le Asl del nord Sardegna. Altro grande progetto di Zanaroli, dare vita a un vera collaborazione con l'Università, oltre l'Azienda mista. Chiusi i discorsi, i manager accompagnano la commissione in un giro panoramico fra i reparti, quelli quasi immacolati. Gli altri restano sotto chiave. Il tour de force della commissione prosegue nel pomeriggio: nell'aula magna dell'Università c'è l'incontro con il Senato accademico. E questa volta le porte sono aperte a tutti. Il Magnifico Alessandro Maida chiede subito più attenzione per l'Ateneo sassarese: «C'è un evidente squilibrio fra la nostra Università e gli altri poli della Sardegna, dobbiamo recuperare. Se la commissione è venuta qua per annunciarci il suo aiuto, siamo contenti». Poi chiede di accelerare i tempi per la nascita delle Aziende miste Asl-Università: «Noi non sappiamo dove si va a parare, bisogna che la Regione decida che tipo di Azienda vuole realizzare». È un rimprovero molto diplomatico quello del rettore. A lasciare da parte ogni prudenza ci pensa Giulio Rosati, preside della facoltà di Medicina: «Noi viviamo da anni la sensazione di essere ignorati dai politici», si lamenta il primario della clinica Neurologica, «la medicina non vuole fare politica, chiediamo solo di essere messi in condizione di competere a livello europeo, è una questione di sopravvivenza». Vincenzo Garofalo _____________________________________________________ La Stampa 11 mar. ’05 PER LA SANITA’ INGLESE IL MEDICO? ITALIANO E MASCHIO IN Inghilterra mancano maschi laureati in medicina e si spera che emigrino dall'Italia. Per coprire il servizio sanitario serve che dietro lo stetoscopio ci siano uomini veri e senza tentennamenti. Sarà un detestabile luogo comune a insinuare che le donne in camice bianco, a quelle latitudini, passino più tempo a casa che in ambulatorio, è però un fatto reale che la Gran Bretagna stia importando d'urgenza medici italiani. Alla sede romana dell'Ambasciata, dove una funzionaria dagli occhi di un azzurro fulminante fa le selezioni, dicono che l'unica condizione indispensabile sia la perfetta conoscenza della lingua inglese, ma tra le righe fan capire che se in più sono maschi è ancora meglio. Chiaramente nessuna discriminazione trapela dal bando dell'ambizioso programma dell'International Recruitment Scheme che pianifica il reclutamento di specialisti e dottori di famiglia d'oltremanica. E' innegabile però che da un bel po' di tempo le università inglesi non riescano ad allettare aspiranti medici di sesso maschile, oltre il 70% di coloro che seguono la via d'Ippocrate sono donne e, oltre a essere già poche in assoluto rispetto alla richiesta, una volta laureate, hanno anche «la pretesa» di sposarsi e fare figli. Per le suddite della Regina in questo caso esistono leggi estremamente attente ai legittimi diritti di una lavoratrice in maternità. Molte delle donne che svolgono attualmente la professione di medico sono portate a scegliere il part time per dedicarsi più tranquillamente ai figli, scelta che peraltro è consigliata e supportata dalle politiche britanniche. A rendere ancor più critica questa situazione è la recente proposta del governo Blair di estendere da sei a nove mesi il congedo previsto in caso di maternità. Il risultato è che già l'anno passato una cinquantina di medici italiani sono «emigrati» aderendo al programma supportato dall'Ambasciata britannica (www.britain.it) in collaborazione con i ministeri della Salute, del Lavoro e l'Ordine dei Medici. L'obiettivo è di raddoppiare il numero dei reclutati quanto prima. Ne servono ogni anno centinaia, soprattutto medici di famiglia, ma anche specialisti come anestesisti, radiologi, cardiologi. Potrebbe sembrare singolare, ma al Bel Paese vengono persino richiesti medici psichiatri. I nostri connazionali che hanno già fatto questa scelta sono entusiasti, non solo per lo stipendio niente male (si inizia con 70.000 euro lordi al primo anno), ma anche e soprattutto perché laggiù si celebra la vera gloria del maschio latino affinché si senta al centro di un harem (professionale, s'intende) e questo sarà forse un vero sollievo per chi non si è voluto rassegnare a una gavetta lunga e umiliante fatta di guardie mediche e colleghi «sgomitoni». Ogni medico di famiglia importato avrà quindi una segretaria e un'infermiera in dotazione, tutte per lui. Non dovrà nemmeno scrivere le ricette o misurare la pressione, ma soprattutto ci sarà mai alcun dubbio su chi dovrà essere, in ambulatorio, a portare i pantaloni. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 12 mar. ’05 CAGLIARI: MINI CLINICA VIRTUALE PER GLI ASPIRANTI MEDICI Università. Nasce il primo centro di simulazione Una mini clinica virtuale con tanto di attrezzature mediche, aula didattica, sale operatorie e per la rianimazione Bls (Basic Life Support) e Asl (Advanced Life Support), controllate da sistemi elettronici. Non mancheranno neanche i pazienti, manichini (uomo, donna e bambino) che simulano tutte le patologie e le emergenze e metteranno a dura prova i riflessi e le tecniche d'intervento dei futuri medici degli ospedali sardi e non. Si chiamerà Cusma (Centro Universitario di Simulazione Medica Avanzata) ed è il primo centro didattico in Italia per la medicina d'urgenza che sarà realizzato dalla Facoltà di Medicina in una struttura dedicata all'interno della Cittadella Universitaria di Monserrato. Si tratta infatti di un progetto ambizioso dell'ateneo, primo in Italia a realizzare una struttura professionale e tecnologicamente avanzata come questa. Un centro simile esiste già a Bologna, ma si tratta di una struttura privata. «Se vogliamo che un medico sia veramente un medico capace professionalmente già al momento della laurea - dice Gavino Faa, preside di Medicina - la via obbligata è passare per l'istruzione all'interno di un centro come questo. Ogni facoltà di medicina - aggiunge - in un momento di competitività degli atenei deve caratterizzarsi per un aspetto. Noi puntiamo sulla medicina delle emergenze». Il progetto è ormai in uno stadio avanzato e si stima una spesa di 500 mila euro per le sole attrezzature a cui si aggiungerebbero i soldi per la creazione di una struttura a forma di croce medica nel cui centro troverebbe collocazione l'accettazione. Ai lati le cinque stanze ospiteranno un'aula didattica da 20 posti, una stanza per imparare e mettere in pratica sui manichini il Bls (basilare, pediatrico, traumatico e Bls- D con defibrillatore semiautomatico), un'altra per l'Asl divisa in monitoraggio ed intervento sul sistema respiratorio e sul sistema cardiocircolatorio. La struttura si completa con una stanza di degenza e una doppia sala operatoria per adulti e neonati. In quest'ultima verranno inserite telecamere e sensori controllati da una sala regia, in cui il docente simulerà peggioramenti delle condizioni del paziente-manichino. In un'altra sala attigua altri corsisti potranno assistere all'intervento e istruirsi ulteriolmente attraverso le registrazioni audiovideo che saranno riviste in un briefing finale. All'esterno della struttura, inoltre sosterà una ambulanza che verrà utilizzata per simulare interventi di emergenza all'interno di un mezzo di soccorso. Una attenzione particolare, in questo caso, viene data ai futuri operatori del 118. L'iniziativa, che non è rivolta solo agli studenti in medicina, ma anche a quelli di scienze infermieristiche, sta già riscuotendo consensi all'esterno, con un dialogo ancora aperto tra l'Università di Cagliari e la Questura. Dallo scorso anno, infatti, gli operatori delle Forze di Polizia, come anche quelli delle Associazioni di Volontariato sono autorizzati, dopo un corso preparatorio, all'utilizzo del defibrillatore semiautomatico. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 27 Feb. ’05 F.MELONI: PRONTO AD ANDAR VIA MA SPERO DI RESTARE «Voglio restare e spero di restare perché amo questa azienda, questo ospedale e il clima che si è creato. Ma non lo farò a dispetto dei santi. Credo nello spoil system e per questo ho già comunicato al presidente Soru la mia disponibilità ad andar via prima del tempo, se me lo chiederanno cortesemente». Franco Meloni, 57 anni, medico specializzato in Igiene e tecniche di laboratorio, sposato, due figli, dal 2000 direttore generale dell’Azienda ospedaliera Brotzu (circa 2000 dipendenti), non fa le barricate. Anzi. Ma non perché non sia innamorato della sua creatura, l’ospedale del quale è stato direttore sanitario per nove anni (1987 - 1996) prima di tornarci - dopo l’esperienza di numero uno del Policlinico e di consulente dell’assessore alla sanità - da direttore generale nel 2000. Collega di corso di laurea e amico sia di Efisio Aste che di Franco Trincas, direttori generali della Asl 8 e della Asl 6, Meloni sa che c’è la possibilità che i nove direttori generali vadano via prima del 20 novembre, data di scadenza del contratto quinquennale firmato con la giunta Floris. Sa che in consiglio regionale è stato presentato un emendamento alla Finanziaria che contiene la legge che prevede il loro licenziamento anticipato in cambio del 60% dello stipendio sino a scadenza. Non crede, però, che l’esperienza sanitaria degli ultimi anni sia tutta da buttar via. E che anzi dall’85, con le giunte di sinistra e di destra, «la sanità in Sardegna abbia fatto grandi passi avanti». Dottor Meloni, come sono i rapporti con il presidente e l’assessore? «Ottimi, anche se non ci vediamo spesso. Semmai c’è una sensazione di diffidenza da parte dei funzionari dell’assessorato». Perché? «Nel lavoro di tutti i giorni abbiamo l’impressione che ci considerino nemici». Quando ha incontrato il presidente le ha chiesto cortesemente di dimettersi? «Assolutamente no. Ha detto a tutti di continuare a lavorare e ci ha detto che ci avrebbero valutati sui risultati. Sono stato io a dirgli che sono pronto ad andar via senza pretendere nulla in cambio, se mi viene chiesto gentilmente». Le è stata mossa qualche contestazione? «No, anche se va detto che noi presenteremo il primo bilancio da quando loro sono al governo ad aprile». E com’è il bilancio? «I dati non sono ancora definitivi, ma credo che avremo un utile di 12 milioni di euro. Ma il bilancio è positivo sia sul piano economico che su quello sanitario». In che senso? «L’azienda Brotzu non ha mai prodotto tante prestazioni e di tanta qualità. Oggi, grazie ai Drg, possiamo calcolare con precisione il livello delle prestazioni: il peso della nostra produzione è cresciuto di oltre il 15% rispetto all’anno scorso». Che cosa avete migliorato in particolare? «Intanto il clima. In un’azienda con quasi 2000 dipendenti, tutti eccellenti, la tensione etica, l’attaccamento al lavoro, l’amore per gli altri, il sacrificarsi senza mai lamentarsi è una delle cose più importanti. Se poi dovessi parlare delle opere fatte...» Ne parli. «In quattro anni abbiamo chiuso 50 Cantieri e speso 20 milioni in apparecchiature, abbiamo nuove Tac, Pet, la nuova risonanza magnetica, abbiamo rifatto l’80% delle sale operatorie tutte potenzialmente in grado di essere usate per i trapianti, una torre da 14 piani con 4 ascensori per razionalizzare i percorsi. Quattro anni fa abbiamo fatto un programma concertato e condiviso e lo stiamo realizzando nel rispetto dei tempi». Un’isola felice. «Quattro anni fa ci avrei messo la firma». Condivide le critiche alla sanità sarda, cioè costa troppo per i servizi che offre? «No. Credo che in Sardegna ci sia un eccellente servizio sanitario. I dati ufficiali dimostrano che c’è un basso tasso di emigrazione sanitaria e che per le prestazioni spendiamo quanto il resto d’Italia. Con una differenza: da noi è più difficile perché abbiamo una densità di popolazione bassissima e a parità di popolazione servono molti più presìdi. Anche il 118 funziona bene e ci sono rarissimi casi di malasanità ». Tutto bene anche qui: lei è un super ottimista. «Forse ci sono strutture da trasformare, da riqualificare. E c’è da lavorare molto sulla terza età. Sa che cosa farei se fossi presidente della Regione?» No. «Proporrei ai sardi di lavorare un giorno di festa e di devolvere la giornata a un fondo per la terza età». E’ iscritto a un partito? «Non lo sono mai stato, anche se sono vicino idealmente a Massimo Fantola e ai Riformatori». Quando andrà in pensione? «Il primo aprile, dopo 35 anni e sei mesi, ma come direttore sanitario della Asl 8». E da direttore generale? «Malvolentieri e solo se me lo chiederanno gentilmente». E pensa che glielo chiederanno? «Onestamente credo di no». E’ vero che ai suoi ricorda sempre un suo motto? «Sì». E qual è? «Speriamo non abbiate bisogno di noi, ma è bello sapere che ci siamo». Anche lei ha inviato il curriculum per competere a un posto di direttore generale alla prossima tornata? «Sì _____________________________________________________ L’Unione Sarda 10 mar. ’05 CGIL «ALL'OSPEDALE BROTZU MANCA IL PERSONALE» «Lavorare al Brotzu è diventato impossibile». La denuncia si legge in un comunicato firmato dai sindacalisti della Cgil dell'ospedale Brotzu dove viene sottolineato che «il presidente della giunta regionale e l'assessore alla sanità devono conoscere la drammatica situazione che si è venuta a creare all'interno dell'ospedale più importante della Sardegna. Le manifestazioni di protesta portate avanti, con richieste scritte e verbali, dai capisala e dagli infermieri di numerosi reparti denunciano una situazione insostenibile per via della mancanza cronica nelle corsie di personale infermieristico professionale e ausiliario». «Questa situazione - spiegano i sindacalisti - ha trovato come sempre buon senso e alta responsabilità degli operatori, capisala compresi, nel ricercare nonostante la proibitiva situazione una sorta di organizzazione di turni e di lavoro ponendo a serio rischio la propria persona. L'organizzazione sindacale e gli operatori sanitari ritengono sconcertante le dichiarazioni apparse sulla stampa isolana in merito al buono stato di salute in cui versa il bilancio dell'ospedale Brotzu, come se fosse un'impresa privata di produzione di beni con tanto di profitti». _____________________________________________________ L’Unione Sarda 12 mar. ’05 LA REGIONE BLOCCA L'APPALTO DELLA ASL PER BUSINCO R MICROCITEMICO Clamorosa delibera della giunta: niente ristrutturazione di Businco e Microcitemico «Errori grossolani», ma anche l'assessorato ha sbagliato Che quell'appalto non li convincesse l'avevano già dichiarato. Ora Renato Soru e Nerina Dirindin sono andati oltre annullando, con una delibera approvata ieri, il project financing tra la Asl 8, Siemens e Tepor per la «concessione, costruzione e gestione dei lavori di ampliamento ed innovazioni tecnologiche dei presidi ospedalieri Microcitemico e Businco». Dunque il mega progetto da 210 milioni di euro, peraltro già avviato, è bloccato. Non si farà più. Perché - sostengono il presidente della Regione e l'assessore alla sanità - è «privo di una documentata ed approfondita valutazione comparativa, progettuale e di mercato», con il rischio di non poter garantire «con regolarità ai pazienti i servizi di diagnosi e cura contro i tumori». Che cosa era previstoIl progetto, il cui costo era stato quantificato in 60 milioni di euro, è stato aggiudicato a un'associazione temporanea di imprese tra Siemens, Siemens Building Tecnologie, Siemens Informatica e Tepor. L'impegno è di trent'anni e la spesa complessiva a carico del Servizio sanitario di oltre 210 milioni di euro. Sono previsti l'ampliamento dei reparti dei due ospedali (con lavori per 12 milioni 810 mila euro pagati dalla Regione) e l'installazione di macchine per la radioterapia da parte delle società con un investimento di 28 milioni 725 mila euro (60 milioni 609 mila euro con iva e spese generali). In cambio delle strutture tecnologiche, la Asl avrebbe corrisposto alla società un canone di 1 milione 988 mila euro per 15 anni. Per il servizio di aggiornamento e manutenzione delle strutture tecnologiche, la Asl avrebbe invece pagato per 29 anni (rinnovabili per altri 30) un secondo canone annuo di 4 milioni 946 mila euro (iva esclusa e indicizzato). Alle società private erano inoltre concessi i servizi bar, edicola, gestione utenze e parcheggio per trent'anni, nonché la gestione degli spazi pubblicitari all'interno degli ospedali e le sponsorizzazioni per dieci anni. I motivi della sospensioneBloccando il project financing, intanto, la Regione ha di fatto autoannullato un suo provvedimento perché era stato l'assessorato alla Sanità ad approvare il 16 dicembre 2002 il project financing ritenendolo «esente da vizi». Annullata anche la deliberazione di aggiudicazione da parte del direttore generale della Asl 8 datata 29 ottobre del 2002. Alla stessa Azienda, la giunta ordina di «provvedere immediatamente all'adozione dei conseguenti provvedimenti in ordine all'inefficacia e annullabilità del contratto, fatti salvi i diritti di credito maturati dai terzi». I lavori edilizi, infatti, sono già in fase avanzata e dovranno comunque essere pagati. Oltretutto, secondo la giunta regionale, quello stipulato con la Siemens non è un vero project financing perché «manca il requisito sostanziale del rischio dell'imprenditore in ordine al rientro dei costi dell'opera che caratterizza l'istituto della concessione di costruzione e gestione, cosicché appare trattarsi di una simulazione». Secondo la Giunta, la procedura intrapresa dalla Asl 8, «è caratterizzata da assoluta imprecisione, incuria ed approssimazione palesando altresì lacune per quanto riguarda il conto economico e la determinazione degli obblighi facenti capo al concessionario», cioè alle società private. Innanzitutto la Asl «non ha dimostrato che la procedura del project financing è più conveniente di quella tradizionale, ad esempio il ricorso ad un mutuo». Alla giunta non risulta peraltro che la Asl abbia cercato fonti di finanziamento alternative, affidandosi subito al project financing. «Errori grossolani»Non solo: i conti presentati dalla Asl, secondo cui il project financing avrebbe consentito un risparmio di quasi 82 milioni di euro, sarebbero viziati da «errori grossolani» e «vistose inesattezze», che risultano confermate in una relazione che il direttore generale della Asl 8 ha consegnato lo scorso 16 febbraio al presidente Soru e all'assessore Dirindin. Aste: «No comment»Il direttore generale della Asl 8 Efisio Aste per ora non commenta: «Aspetto che mi notifichino la delibera alla quale, se non ci sono illegittimità, mi atterrò. Ricordo solo che il nostro unico obiettivo era risolvere i gravi problemi della radioterapia». F. Ma. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 11 mar. ’05 CIAMPI PREMIA PATRIZIA FARCI «LE EPATITI VIRALI SI POSSONO VINCERE» Dopo il premio conferitole dal presidente Ciampi parla la ricercatrice cagliaritana Patrizia Farci: «Un onore lavorare con i grandi scienziati» Adesso è una vera star della ricerca internazionale. Patrizia Farci la conoscono addirittura in America come a Londra perché da anni collabora con i più prestigiosi specialisti e scienziati mondiali della Medicina. La sua intraprendenza le apre la porta del successo: il 50 per cento dei pazienti con epatite cronica C può guarire grazie alle terapie antivirali. Sono ancora suoi gli studi per arrivare allo sviluppo di un vaccino contro questo virus. Per l'epatite delta, una forma più rara ma molto più grave, scopre una terapia che può in alcuni pazienti portare ad una regressione completa della malattia. Cagliaritana, ricercatrice e professore ordinario di Medicina Interna dell'ateneo cittadino, è stata premiata l'altro giorno da Carlo Azeglio Ciampi con questa motivazione: «A lei è toccato il privilegio di essere scelta per la distinzione onorifica di Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana, in virtù dell'impegno che ha dedicato alla ricerca scientifica, contribuendo con il suo lavoro ad accrescere nel mondo il prestigio del nostro paese». Dal Quirinale è tornata a Cagliari aggiungendo al suo curriculum la prestigiosa onorificenza per i risultati eccellenti della sua attività innalzando la Sardegna a livello nazionale ed internazionale in campo medico. «È stato commovente e gratificante ricevere questo importante riconoscimento». Gratificazioni che non le sono piovute dal cielo ma conquistate grazie alla passione per il lavoro, alla tenacia e all'autocritica che porta sempre con sé ovunque vada. Notorietà assicurata perché è riuscita a varcare la soglia dei più nobili centri clinici e di ricerca del mondo. Merito di quella voglia di sapere che la rende uno spirito viaggiatore sempre in movimento a caccia di nuovi traguardi. Patrizia Farci da anni è impegnata nelle ricerche sulle malattie del fegato e ha conseguito importanti risultati pubblicati nelle riviste più autorevoli come il New England Journal of Medicine e Science. La sua figura di simbiosi tra medico e scienziato le ha permesso di sperimentare nuove terapie, alla ricerca di cure sempre più efficaci per le epatiti virali croniche, «molto diffuse in Sardegna e costituiscono una causa frequente di cirrosi e tumore del fegato». Infatti la scienziata dirige il Centro di studio delle malattie del fegato, all'avanguardia nella cure di queste patologie. Oggi, grazie ai nuovi protocolli terapeutici antivirali, il 50 per cento di malati colpiti di epatite cronica C puó guarire. «Purtroppo non esiste ancora un vaccino contro questo virus e la via di ricerca scientifica sará molto lunga e difficile a causa dell'abilitá di questo virus di trasformarsi continuamente». Non soddisfatta è assetata di novità scopre una terapia contro l'epatite delta, una forma più rara dell'epatite C ma anche molto più grave che conduce alla cirrosi nell'80 per cento dei casi. Il trattamento viene effettuato con l'interferone ad alte dosi. Alcuni pazienti hanno avuto una regressione completa della malattia a distanza di oltre 15 anni dal trattamento. «Lavoro per i miei pazienti, c'è un rapporto di completa fiducia che mi gratifica molto. Certo è molto difficile conciliare il ruolo di medico, di ricercatrice, di docente e di madre di un bambino. Ci vuole una grande forza d'animo e determinazione per andare avanti», dice. Va fiera di svolgere un'attività importante per la società. «La meritocrazia è giusto che venga riconosciuta a chi dedica al suo lavoro anima e corpo. Il presidente Ciampi, con la sua forza e la sua autorità, ci sta facendo sperare che i tempi stiano cambiando. Il suo messaggio è che l'eccellenza è un valore primario, che deve essere riconosciuto e valorizzato al massimo. Perché proprio sull'eccellenza si basa la rinascita del nostro paese e la sua affermazione nel mondo». Per Patrizia Farci la partecipazione ai congressi internazionali e la collaborazione con i Centri di ricerca più grossi del mondo sono il pane quotidiano che le permette di portare avanti anche il suo Centro di Studio universitario delle Malattie del fegato, ideato proprio da lei nel 1985, frequentato da 3mila pazienti provenienti non soltanto dalla Sardegna, ma anche dal resto d'Italia. «Mi sento una privilegiata per essere stata a Londra lavorando al fianco di Sheila Sherlock, la madre dell'epatologia moderna. Lì ho partecipato ai primi studi al mondo di terapia antivirale nei pazienti con epatite cronica virale». Poi il salto più lungo, attraverso l'Atlantico, per approdare al tempio della ricerca scientifica mondiale, il National Institutes of Health di Bethesda. «In America collaboro da anni con Robert Purcell, scopritore del virus dell'epatite A e realizzatore dei vaccini contro i virus epatitici». Il riconoscimento conferitole dal presidente Ciampi è motivo d'orgoglio personale, conclude Patrizia Farci, ma è anche importante per l'Università cittadina che continua ad imporsi all'attenzione nazionale per i risultati dei suoi ricercatori. Laila Di Naro _____________________________________________________ Libero 01 mar. ’05 MACCHÉ VACCINI L’AUTISMO È ANTICO I POPOLI PRIMITIVI SPIEGAVANO IL FENOMENO CON l'INTERVENTO Di FATE E FOLLETTI La moderna prevenzione non c'entra. Bimbi affetti dal male sono già presenti in molte favole celtiche, tedesche e scandinave di ROBERTO MANZOCCO SYDNEY - Gli antichi racconti di fate contengono riferimenti piuttosto espliciti al fenomeno dell'autismo, e ciò dimostra in modo indiretto che tale condizione patologica non può essere stata causata dai vaccini per il morbillo e per altre malattie infantili (come è stato invece sostenuto da alcuni recenti studi). Ad affermarlo sono Julie Leask e i suoi colleghi del National Center for Immunisation Research and Surveillance of Vaccine Preventable Diseases (a Sydney). L'autismo è una patologia neurologica relativamente poco diffusa (ne è colpita infatti una persona su mille) e la cui origine è ancora sconosciuta; in media i bambini autistici diventano tali all'età di tre anni. Fra i sintomi principali dell'autismo ricordiamo l'enorme difficoltà nelle interazioni sociali e l'incapacità di riconoscere o comprendere le emozioni altrui (oltre alla scarsità di immaginazione); spesso i bambini autistici non rispondono al proprio nome, evitano accuratamente lo sguardo delle altre persone e sono inconsapevoli dell'ambiente che li circonda. Come si è detto, secondo alcune ricerche effettuate nel recente passato l'autismo potrebbe essere collegato all'uso di alcuni vaccini infantili (e nella fattispecie quelli contro il morbillo, la rosolia e la parotite). Per Julie Leask però tale condizione patologica avrebbe accompagnato tutta la storia umana, tanto da influire sull'elaborazione di un gran numero di fiabe e leggende. La studiosa e il suo team hanno passato al setaccio un gran numero di favole britanniche, scandinave e tedesche (risalenti perlopiù a un'epoca pre- cristiana) relative alle fate e ai folletti; stando a queste antiche tradizioni tali creature sarebbero moralmente piuttosto ambigue, e una delle loro malefatte più comuni consisterebbe nel rapire i bambini molto piccoli, lasciando al loro posto dei "chamgeling", cioè dei sostituti non-umani (solo apparentemente simili all'originale); secondo le leggende questi "doppioni" tenderebbero a non mostrare alcuna emozione, a non rispondere adeguatamente agli stimoli esterni e a parlare raramente, tutte caratteristiche che ritroviamo negli odierni bambini autistici. In pratica secondo la studiosa australiana gli antichi sarebbero stati perfettamente consapevoli del fenomeno dell'autismo, e avrebbero cercato di spiegarlo facendo riferimento al proprio contesto culturale pre-scientifico. _____________________________________________________ Le Scienze 11 mar. ’05 AUTISMO: LA PAURA DEL CONTATTO VISIVO Studiata la correlazione fra movimenti dell'occhio e attività cerebrale nell'autismo Alcuni esperimenti sul cervello condotti all'Università del Wisconsin di Madison suggeriscono che i bambini autistici rifuggono dal contatto visivo perché percepiscono persino i volti più familiari come una minaccia. Lo studio approfondisce la comprensione del funzionamento del cervello autistico e potrebbe, un giorno, suggerire nuovi approcci per un trattamento o per aiutare gli insegnanti ad interagire con i loro studenti autistici. Individuando la correlazione fra i movimenti dell'occhio e l'attività cerebrale, i ricercatori hanno scoperto che, nei soggetti autistici, l'amigdala - un centro di emozioni nel cervello associato con i sentimenti negativi - si attiva in maniera anormale quando i pazienti guardano direttamente verso un volto non minaccioso. In un articolo pubblicato sul numero del 6 marzo della rivista "Nature Neuroscience", gli scienziati scrivono anche che, poiché i bambini autistici evitano il contatto visivo, il giro fusiforme del cervello - la regione fondamentale per la percezione dei volti - è meno attivo di quanto sarebbe nel caso di un bambino sviluppato normalmente. "Si tratta del primo studio - dichiara il principale autore Kim Dalton - che analizza il modo in cui gli individui che soffrono di autismo osservano i volti, monitorando contemporaneamente quali aree cerebrali sono attive". Dalton e colleghi hanno misurato i movimenti dell'occhio in congiunzione con la tecnologia della risonanza magnetica (MRI) che consente di "vedere" il cervello in azione. _____________________________________________________ La Repubblica 04 mar. ’05 UN VACCINO CONTRO IL TUMORE ALLA PROSTATA APCB815 E' questo il nome del vacano utilizzato per il tumore della prostata che, per la prima volta, ha consentito di aumentare del 18% la sopravvivenza degli ammalati con tumore prostatico non rispondente più alla terapia ormonale e metastatizzato, diffuso cioè ai linfonodi ma soprattutto alle ossa. La sperimentazione clinica è stata effettuata da Eric Small dell'Università della California, alla San Francisco School of Medicine ed è stata presentata al Simposio sul Cancro alla Prostata, svoltosi di recente ad Orlando. Il meccanismo però con cui è stato ottenuto il vaccino è simile a quello delle vaccinazioni tradizionali contro i virus e i batteri. Ma mentre in questo caso le difese immunitarie sono stimolate a prevenire la malattia nel corso della vita, in campo oncologico si spinge l'organismo ad aggredire il cancro quando è già sviluppato. II vaccino "APCB8115" è stato dunque ottenuta isolando le cellule immunitarie dei malati, addestrate poi a riconoscere ed attaccare il cancro: "I'addestramento" delle cellule killer è stato completato mostrando loro un antigene specifica dei tumore stesso, la proteina PAP (fosfatasi acida prostatica), presente sul 95% delle cellule malate. Il preparato così ottenuto è stato iniettato endovena nei pazienti in un periodo ravvicinato di solo due settimane. Sono stati studiati 127 soggetti con tumore prostatico in fase avanzata non rispondenti più ai farmaci convenzionali, duali per esempio gli antiandrogeni, progestinici o analoghi, e con metastasi anche a distanza dalla sede del tumore. 82 hanno ricevuto il vaccino "APC8815" solo materiale inerte (gruppo di controllo). L'iniezione del vaccino e del placebo è avvenuto can le stesse modalità: q punture endovenose nelle prime due settimane. A distanza di tre anni i risultati, per la prima volta. sono stati sorprendenti: nel gruppo trattato con il vaccino è sopravvissuto il triplo dei pazienti rispetto ai gruppo placebo. In particolare è stato osservato che mentre la sopravvivenza del gruppo trattato con il vaccino era del 26%, quello del placebo del 22% «Queste sperimentazioni di fase III», ha dichiarato Eric Small, «hanno dato risultati senza precedenti; di fatto APC815 rappresenta il primo trattamento immunologico non si può attribuire un vantaggio in termini di sopravvivenza per quel che riguarda il cancro alla prostata. Attualmente però i risultati supportano l'utilità di utilizzarlo su pazienti in stadio molto avanzato della malattia». E gli effetti collaterali sono stati nulli; solo due pazienti hanno riferito febbre regredita con antipiretici. Attualmente la terapia del carcinoma prostatico è costituita da farmaci che azzerano i livelli del PSA , antiandrogeni, analoghi e progestinici. Oltre ad essere molto costosi, determinano effetti collaterali caratterizzati da abbattimento della libido, vampate di calore dolore e ingrossamento delle mammelle. _____________________________________________________ Libero 01 mar. ’05 NON FAI LA PRIMA COLAZIONE? ATTENTO AL COLESTEROLO ALTO NOTHIGHAM - [g.g.] Una sana e calibrata prima colazione serve a tenere lontane le malattie cardiovascolari e il diabete. Lo afferma un team di scienziati dell'università di Nottingham che ha condotto uno studio su un campione vasto ed eterogeneo di persone. E i risultati parlano chiaro: chi si astiene dal pasto mattutino ha il colesterolo più alto, una diminuita sensibilità all'insulina, e accumula un maggiore numero di calorie. La ricerca ha inoltre evidenziato che l'obesità è indirettamente proporzionale all'abitudine di mangiare al mattino. Studi sui bambini hanno dimostrato che solo il 5% dei bimbi obesi saltala prima colazione, contro il2 3 % dei bambini over-size. Secondo gli scienziati la prima colazione dovrebbe fornire al nostro organismo il 25% delle calorie totali assunte nelle 24 ore. In particolare il digiuno obbliga l'organismo, di &onte a crescenti richieste di energia, a ricorrere a meccanismi di compensazione per ricavare e dai tessuti i composti necessari al funzionamento degli organi vitali. La ricerca è stata pubblicata dall’American Journal of Clinical Nutrition. _____________________________________________________ Libero 02 mar. ’05 CANCRO E ICTUS, SI MUORE MENO Aumenta invece la mortalità per Alzheimer e Parkinson Atlanta In occidente le aspettative di vita stanno crescendo notevolmente, e il miglioramento è dovuto principalmente al fatto che si muore meno di cancro, ictus e malattie cardiocircolatorie. Lo afferma uno studio Usa, condotto da un team dei Centers for Disease Control and Prevention (ad Atlanta) e diretto da Donna Hoyert. Le analisi di questi ricercatori riguardano gli Stati Uniti, ma possono essere estese a buona parte dei paesi del Primo Mondo. Secondo il team della Hoyert l’aspettativa media di vita degli americani ha raggiunto tra il 2002 e il 2003 i 77,6 anni, e tale risultato va ascritto soprattutto al fatto che il tasso di mortalità dovuto alle tre malattie in questione si è ridotto in modo notevole; nella fattispecie le morti per cancro sono scese del 2,2 per cento, quelle per problemi cardiaci del 3,6 per cento e quelle per ictus del 4,6 per cento. Tuttavia i decessi problemi cardiovascolari sarebbero destinati di nuovo a crescere, in quanto i paesi occidentali stanno attualmente conoscendo una vera e propria epidemia di obesità, che farà sentire i suoi effetti solo tra alcuni. anni. La speranza media di vita delle donne avrebbe toccato gli 80,1 anni, mentre quella degli uomini si attesterebbe sui 74,8 anni. Il divario tra maschi e femmine si starebbe progressivamente riducendo. . In controtendenza invece le malattie neurodegenerative: a detta infatti della Hoyert, di Parkinson e di Alzheimer (la mortalità dovuta a quest'ultima patologia é cresciuta del 5,9 per cento) _____________________________________________________ La Repubblica 03 mar. ’05 SCOPRIRE UN TUMORE DALLA SALIVA A volte sono proprio le "piccole ricerche", quelle che richiedono pochi soldi e puntano a scoprire soluzioni semplici, anch'esse molto economiche, a regalare i benefici maggiori all'essere umano. L'ultimo esempio arriva dalla scoperta che i primi segni della nascita di un tumore si possono cogliere con un semplice esame della saliva. Il nuovo test. assolutamente non invasivo, è stato sperimentato con successo dai ricercatori dell'università della California di Los Angeles. «Per ora abbiamo verificato un'accuratezza del test nello scoprire il tumore pari al 91 per cento, buona, ma non abbastanza per un uso di massa», spiegano su "Clinical Cancer Research" gli scienziati che hanno misurato l'efficacia su 32 malati di cancro a bocca, lingua e gola e altrettanti sani. «Stiamo iniziando una sperimentazione più ampia, con 20o pazienti. per verificare la possibilità di avvicinarci a un'accuratezza prossima al zoo per cento. E se il test scopre anche altre forme di tumore come quello al seno». L'analisi si basa sul rilevamento di una proteina "spia" della presenza di cellule cancerose. Riuscire a individuare i primi segnali del tumore attraverso modalità semplici. di facile esecuzione e soprattutto innocue e di basso costo dovrebbe essere un obbiettivo primario della ricerca medica per rendere veramente di massa la prevenzione. _____________________________________________________ Libero 05-03-2005 SARÀ PADRE ANCHE CHI HA UN TUMORE AI GENITALI I trattamenti chemioterapici e radioterapici, utilizzati negli uomini, per sconfiggere i tumori all'apparato genitale, non escludono la possibilità di diventare padri. E quanto emerge da uno studio danese condotto su 67 coppie che si sono sottoposte a fecondazione assistita. Nell'esperimento sono stati coinvolti soggetti che presentavano diagnosi di carcinoma testicolare e di linfomi che erano stati trattati, nel 90% dei casi, con chemioterapia e radioterapia __________________________________________________ Libero 05 mar. ’05 CANCRO AL, SENO: È POLEMICA SULL'ASPORTAZIONE DEL MALE perché potrebbe stimolare la formazione di metastasi LONDRA Gli interventi chirurgici per rimuovere i noduli al seno o asportarlo per intero potrebbero peggiorare la situazione anziché risolverla. Stando infatti à un nuovo ;é controverso studio britannico la chirurgia oncologica mammaria potrebbe stimolare o rendere più rapida la garanazia di nuove metastasi. Ad affermarlo sono Michael Baiun e i. suoi colleghi del Portland Hospital di Londra. In sostanza a detta di questi studiosi gli interventi chirurgici in questione potrebbero,rappresentare un calcio di inizio per lo sviluppo di micro-masse tumorali che altrimenti sarebbero rimaste per così dire "dormienti"; cio potrebbe essere dovuto all'angiagenesi (cioè la formazione di nuovi vasi sanguigni), un processo che si manifesta normalmente dopo ogni intervento chirurgico e che in questa caso fornirebbe alle suddette neoplasie svariate sostanze nutritive. Non solo; ma tale effetto varrebbe soprattutto per le pazienti più giovani. Le conclusioni di questo studia (pubblicato sull'ultimo numero dell'European Journal of Cancer) hanno sollevato violenti, dibattiti all'interno della comunità degli oncologi. Stando ad esempio a John Bayages, direttore del New Breast Cancer Institute di Sydney, è noto già da anni che gli interventi chirurgici effettuati su animali affetti da tumori mammari possono peggiorare la situazione di questi ultimi. Tuttavia ricerche analoghe realizzate sugli esseri umani negli ultimi quindici anni non hanno rivelato alcun tipo di correlazione tra chirurgia e sviluppo . delle metastasi. Secondo lo studiosa australiano- è comunque necessario studiare e prendere in considerazione le conclusioni di Baum, senza però cambiare (almeno per ora le linee guida attualmente accettate in materia di chirurgia mammaria. _____________________________________________________ Libero 05 mar. ’05 SCLEROSI MULTIPLA ALLARME IN SARDEGNA 2500 MALATI Allarme sclerosi multipla in Sardegna; secondo gli ultimi dati dei 2002, l'isola é la regione d'Italia più colpita dal fenomeno. Si registrano 150 casi per 100 mila abitanti, ossia 2500 persone ammalate. «C'è una propensione della popolazione sarda ad essere colpita da malattie autoimmuni», dice Maria Giovanna Marrosu, Direttrice dei Centro Sclerosi Multipla di Cagliari, «i sardi hanno dei geni predisposti a questo tipo di malattie, tra cui vi +é anche il diabete». _____________________________________________________ Libero 06 mar. ’05 L'AMERICA SPERIMENTA LA MEDICINA PSICHEDELICA Molti istituti e gruppi di ricerca studiano le proprietà curative delle droghe CAMBRIDGE[l.s.] Messa al bando per molti anni la medicina psichedelica sta ora riprendendo piede. Si stanno moltiplicando infatti negli Stati Uniti gli. studi che prendono in esame le proprietà terapeutiche e psichiatriche di un gran numero di sostanze fino ad ora utilizzate quasi esclusivamente per finalità "ricreative”; tra di esse ricordiamo l’Mdma (la celebre droga da discoteca nota come "ecstasy"), l’Lsd, la psilocibina, l’ibogaina e molte altre ancora. Ad esempio John Halpern, ricercatore dell'Università di Harvard (a Cambridge), é stato recentemente autorizzato dalla Food and Drug Administration (l’ente americano preposto al controllo dei farmaci) a sperimentare l’Mdma sui malati terminali di cancro, con il fine di sviluppare nuove e più potenti terapie del dolore. Lo studioso é inoltre intenzionato a testare l'efficacia dell'Lsd (il noto allucinogeno scoperto da Albert Hofmann) nella cura di una forma particolarmente dolorosa di emicrania, la cefalea a grappolo. Gli studi di Halprertl rappresentano da un certo punto di vista solo la punta dell'iceberg, in quanto molti altri istituti e gruppi di ricerca indipendenti stanno studiando le potenzialità mediche delle droghe. Ad esempio alcuni anni fa Charles Grob ha fondato a Santa Fe l’Heffter Institute, un centro di ricerca che studia le proprietà psichiatriche degli allucinogeni; una delle ricerche più importanti di questo studioso é certamente quella relativa alla psilocibina (un composto psicoattivo di origine vegetale), la quale ha mostrato di poter alleviare l’ansia della morte nei pazienti terminali. In sostanza pare che i composti psichedelici stiano uscendo definitivamente dal limbo in cui erano stati confinati dopo gli eccessi degli anni Sessanta. Si pensi per esempio al celebre psicologo di Harvard-Tixuathy Leary, che studiò a lungo tali sostanze e giunse a sostenere che esse erano molto utili per promuovere l’auto realizzazione spirituale {un'affermazione che gli costò la reputazione e la carriera). _____________________________________________________ Il Sole24Ore 8 mar. ’05 RISOLTO IL REBUS DEI «BIMBI VECCHI» La storia / Paola Scaffidi Da una milanese negli Usa un cerotto molecolare contro l'anomalia genetica MILANO a Un sano culto del lavoro, com'è nella migliore tradizione lombarda, quello di Paola Scaffidi, biologa molecolare specializzata al National cancer institute (Nei) statunitense. «Un lavoro che mi piace molto, in cui sto investendo tanta parte della mia vita», dice la trentunenne milanese che ha firmato, con il responsabile della ricerca Toni Misteli, un articolo scientifico pubblicato domenica su «Nature medicine online». Una ricerca da cui viene lanciato un messaggio incoraggiante: è reversibile la mutazione responsabile dell'invecchiamento precoce detto "progeria", una rara malattia ereditaria che colpisce la popolazione infantile a partire dai due anni di vita, conducendo a morte prematura, nella maggior parte dei casi intorno ai tredici anni. II metodo usato per raggiungere in vitro questo risultato potrebbe essere adottato come strategia terapeutica. Affascinata dalla biologia molecolare fin dagli anni del liceo, Scaffidi ha coltivato la sua passione all'Università di Milano e nel laboratorio dell'Ospedale San Raffaele, in cui ha preparato per due anni la tesi di laurea e per quattro il dottorato di ricerca. «Uno dei laboratori più avanzati del settore in Italia, finanziato dall'Associazione italiana per la ricerca sul cancro, oltre che dallo Stato e dall'Unione europea», precisa la giovane ricercatrice. Durante il dottorato, una grande occasione: collaborare con il gruppo di ricerca dell'Nci guidato da Toni Misteli. «Uno scienziato di assoluto livello mondiale e un ottimo maestro - afferma Scaffidi -. Anche da noi esistono grandi scienziati e ottimi maestri, come Marco Bianchi, il mio relatore di tesi, ma gli Stati Uniti hanno, in più, risorse finanziarie inimmaginabili nel nostro Paese, distribuite con criteri meritocratici. Risorse che rendono molto più facile e produttivo il lavoro, più frequenti le pubblicazioni. Perciò, dopo il dottorato, sono tornata negli Usa per chiedere una borsa di studio che mi consentisse di lavorare con lo stesso gruppo e l'ho ottenuta. Erogata dal National institute of health, di cui l’Nci fa parte, ha una durata di cinque anni, di cui tre sono già trascorsi». All'Nci, oltre a studi sui tumori, si fa anche ricerca di base. Nel laboratorio di Misteli si studia il nucleo cellulare e meno di due anni fa è stata individuata la mutazione responsabile della progeria. In quanto causa di un punto di rottura anomalo nell'Rna che produce la proteina denominata Lamina A, una delle principali del nucleo, la mutazione ha come conseguenza la produzione di una forma atipica di tale proteina, tossica per le cellule. L'articolo appena, pubblicato su «Nature» descrive come un frammento di Dna modificato possa funzionare da "cerotto molecolare". «Questo cerotto ha un effetto entusiasmante - spiega Scaffidi : non solo elimina la proteina mutata provocando l'immediata scomparsa delle anomalie morfologiche e funzionali delle cellule dei bambini affetti da progeria, ma impedisce che venga prodotta di nuovo. Ora il passo successivo consiste nel vedere se l'approccio, che funziona sulla cellula, agisca anche in un modello animale. Stiamo lavorando all'interno dell'istituto per generare un topo adatto al caso. Il problema riguarda la terapia: come trasferire efficacemente il frammento di Dna nelle cellule in vivo. In questo senso, risultati incoraggianti provengono da sperimentazioni cliniche per il trattamento di altre malattie con basi molecolari simili a quelle in gioco». Non si può ancora prevedere se la stessa terapia possa funzionare anche in persone anziane, perché ancora non si sa se le basi molecolari dell'invecchiamento fisiologico siano simili a quelle dell'invecchiamento precoce dei bambini. Scaffidi dovrebbe arrivare ad avere una risposta in proposito prima che scada la sua borsa di studio. Un momento in cui dovrà prendere una decisione molto importante: rimanere negli Stati Uniti o tornare in Italia. «Io mi sento molto italiana - dice -. Del nostro Paese mi attraggono tanti aspetti: la cultura, l'arte, il gusto della vita, gli affetti della mia famiglia, il calore delle amicizie lasciate. Ma, sul piano del lavoro, gli Stati Uniti offrono un livello così alto che bisogna riflettere bene prima di tornare. Tornerei se potessi avere un gruppo mio all'interno di un istituto di ricerca come il San Raffaele o l'Istituto europeo di oncologia di Milano». E chissà che il sogno, fra due anni, non diventi realtà e che questo giovane "cervello" porti a Milano il know-how costruito in America. ROSANNA MAMELI Paola Scaffidi nel suo laboratorio a Bethesda, negli Stati Uniti ____________________________________________________ La Repubblica 9 mar. ’05 LE AGILI DITA DEI CHIRURGHI SI ALLENANO COI VIDEOGIOCHI di MICHEL MARRIOTT NEW YORK - La battuta che perseguita amichevolmente l'esuberante dottor James Clarence Rosser Jr. quando si preparare adoperare al Beth Israel Medical Center di New York, è che ha delle mani troppo grandi per poter praticare la chirurgia tradizionale. Il dottor Rosser preferisce la chirurgia laparoscopica, una tecnica basata su una microscopica telecamera che lo aiuta a manipolare strumenti lunghi e sottili, inseriti nei pazienti tramite piccole incisioni. Come dice lui, sovrastando dall'alto dei suoi imponenti 210 centimetri di altezza un simulatore chirurgico e usando strumenti da lui stesso progettati, la laparoscopia è un approccio efficiente ed elegante alla riparazione del corpo umano. "Nel nuovo reame della chirurgia laparoscopica, non devi più aprire la gente e ficcarci le mani dentro", dice, dando una dimostrazione della sua coordinazione occhio-mano e della sua acuta capacità di percezione, allacciando con delicatezza minuscoli nodi con un pezzo di filo di sutura, una procedura che secondo lui equivale ad "allacciarsi le scarpe con delle bacchette lunghe un metro" guardando il tutto su uno schermo tv. Da un po' di tempo a questa parte, però, il dottor Rosser mette l'accento su un paragone che considera più appropriato: i videogiochi. La complessa abilità manuale necessaria per essere un campione di videogiochi e un chirurgo mini invasivo sono sorprendentemente simili, sostiene Rosser, primario del reparto di chirurgia mini-invasiva e direttore dell'Istituto di tecnologia medica avanzata dell'ospedale. E la cosa più significativa è che Rosser usa i videogiochi per creare e addestrare una nuova generazione di chirurghi che potrebbero, senza volerlo, aver acquisito una predisposizione per la chirurgia laparoscopica passando migliaia di ore a giocare davanti al computer. "Potrei venire qui, sedermi e prendere in mano questi affari", dice Rosser alludendo agli strumenti con manopole a sfioramento, che assomigliano a dei grilletti, "e trovare familiare guardare lo schermo e fare qualcosa con le mani". È qualcosa che chiunque abbia mai giocato regolarmente a un videogioco fa per divertimento. Rosser, 50 anni, pratica quel che predica. Vicino alla sala operatoria ha sistemato una Xbox, una PlayStation 2 e un GameCube per potersi riscaldare prima di un'operazione. L'anno scorso Rosser, insieme ad altri, ha realizzato uno studio che è giunto alla conclusione che i chirurghi che giocano al computer per almeno tre ore a settimana sono il27 per cento più veloci e fanno il37 per cento di errori in meno rispetto agli altri. Mentre dirige il suo Rosser Top Gun Laparoscopic Skills and Suturing Program, che, fra le altre cose, introduce i videogiochi nel processo di apprendistato medico, Rosser raccoglie dati sul rendimento dei suoi studenti. Almomento, dice, ha un database che valuta le performance reali di oltre 5.000 chirurghi. Rosser dice di essere convinto che un miglior addestramento condurrebbe a cure migliori per i pazienti e che i videogiochi possano servire, sotto molti aspetti, come simulatori chirurgici a basso costo. Recentemente il dottor Rosser ha cominciato a collaborare con gli esperti di effetti visuali di Hollywood nell'applicazione delle tecnologie di motion capture - utilizzate nella creazione di personaggi virtuali per film e videogiochi che diano un'impressione di realismo per produrre nuovi tipi di tecniche e apparecchi di addestramento chirurgici. "Credo sostanzialmente che il dottor Rosser abbia idee brillanti", dice Alberto Menache, supervisore degli effetti digitali di The Polar Express, il film creato al computer dell'anno scorso. "Potremmo catturare tutti i movimenti di chirurghi esperti, creare un programma e dire agli studenti dove stanno sbagliando", dice Menache illustrando le potenzialità del progetto. _______________________________________________ Repubblica 10-03-2005 COAGULAZIONE A POSTO IN 15 GIORNI. SENZA FUMO Scoperta in Giappone una nuova motivazione medica che, si spera, dovrebbe indurre i fumatori a dire addio definitivamente alla sigaretta. Un team di ricercatori nipponici della Kurtrme University School of Medicine ha, infatti, dimostrato che smettere di fumare porta a un miglioramento quasi immediato della funzione piastrinica. E quindi della coagulazione del sangue. I risultati sono stati pubblicati recentemente sul Journal of the American College of Cardiology. Dopo due settimane senza sigaretta, é stato registrato un sensibile miglioramento della funzione piastrinica. Una delle ipotesi avanzate dai ricercatori è che sia l'effetto della riduzione dello stress ossidativo indotto dal fumo. I risultati dovrebbero dunque infondere coraggio ai fumatori, a caccia di tiri motivo scientifico più che psicologico per abbandonare le sigarette. ,,Nonostante le compagne di prevenzione siano intense. in poche viene data la giusta importanza ai rischi», spie Hirohi Morita, leader del team di ricercatori. «La ragione di questa sottovalutazione da parte dei fumatori è che questi non riescono a percepire gli immediati benefici di un nuovo stile di cita». Per dimostrare in quanto tempo pub migliorare la funzione piastrinica. tiorita e i suoi colleghi hanno testato 2 pazienti sani che avevano fumato almeno 15 sigarette al giorno per più di 5 anni. t soggetti sono stati divisi in due gruppi: il primo (24 persone) ha smesso di fumare per 28 giorni, il secondo (r; persone) per r.~ giorni. In entrambi i gruppi i miglioramenti sono stati evidenti giorno dopo giorno. Nel gruppo che ha ripreso a fumare dopo 14 giorni la situazione è tornata velocemente allo stato di partenza. «Questi risultati provano che smettere di fumare ha un effetto immediato sui metabolismo dello stress ossidativo e porta importanti benefici anche ai fumatori incalliti. Ulteriori studi», conclude Morita. «sono però necessari per analizzare la situazione con patologie cardiovascolari o aterosclerosi». Ritaglio stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproducibile. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 6 mar. ’05 LE NUOVE TERAPIE PER CURARE L'EMOFILIA La Sardegna è all'avanguardia nella cura delle malattie emofiliche. Cagliari, così come Oxford, segue le terapie dell'ultima scommessa della scienza moderna: non più trasfusioni di sangue, ma infusioni di sostanze ricombinanti che evitano ai malati rischiosi contagi come l'Aids, l'epatite e il morbo della mucca pazza. All'hotel Mediterraneo, medici specialisti europei, italiani e sardi si sono confrontati ieri al convegno "Emostasi e Trombosi, patologie legate alla coagulazione e alle emorragie", per offrire una maggiore efficacia delle cure e una miglior qualità di vita del paziente. L'emofilia è una delle malattie emorragiche congenite più importanti, è rara e poco conosciuta, ma molto frequente nella nostra Isola: ne soffre un sardo ogni ottomila e se ne contano circa 200 (sono cifre che seguono la media nazionale), 500 sono invece quelli che dichiarano disturbi ereditari. Sopraggiunge già fin dai primi giorni di vita e richiede competenze specifiche molto precise per la diagnosi e per la terapia mirata. Oggi il trattamento del paziente emofiliaco si fonda essenzialmente sull'infusione del fattore della coagulazione, che deve essere iniettato per tre volte la settimana. «Questo metodo - spiega Paul Giangrande, direttore del Centro emofilia e malattie emorragiche di Oxford - in Inghilterra viene adoperato da dieci anni. La Sardegna presenta un eccellente modello di studio e registra una grandissima partecipazione da parte dei colleghi». Numeri da capogiro sono anche quelli dei pazienti emofiliaci inglesi, che denunciano valori di incidenza poco superiori a quelli sardi: circa 250, e 200 sono quelli che si sottopongono a cure non regolari. «Il nostro futuro - auspica Paul Giangrande - prevede uno studio di un farmaco specifico, che permetterà al paziente di dover somministrare solo una volta la settimana le infusioni di prodotti ricombinanti». Per la trombosi si riscontra invece un'incidenza ben più alta fra la popolazione: circa 4.500 sardi sono colpiti da questa patologia. È' l'occlusione, parziale o totale, di una o più vene da parte di un coagulo di sangue, detto trombo. Colpisce prevalentemente le vene degli arti inferiori, ma può manifestarsi anche in altre parti del corpo. Le conseguenze minori sono le flebiti, quelle più preoccupanti infarto o ictus. Le cause sono molteplici come l'abuso di sigarette, stress, inquinamento, diete "fai da te". Colpisce soprattutto gli adulti over 50. «Al Policlinico - spiega Francesco Marongiu, docente di Medicina interna nell'Università cittadina - frequentano circa 700 pazienti colpiti da questa affezione. In Italia ci sono 300 centri specializzati per questi malati: Cagliari ne conta 5, uno a Sassari, Olbia, Lanusei, Nuoro e Oristano. Tutti adoperano le terapie moderne: gli anticoagulanti orali per combattere la trombosi delle vene e le malattie cardiologiche. Bisogna sottoporsi a controlli per prevenirle». Soddisfatto è Roberto Targhetta, direttore del Centro emofilia e patologie della coagulazione al Microcitemico e organizzatore del convegno nazionale: «Le terapie emorragiche e trombotiche non devono rimanere retaggio di soli esperti, ma anche di medici, biologi, e infermieri. Questo è lo spirito di una buona sanità». Laila Di Naro _____________________________________________________ La Stampa 9 mar. ’05 IL CARCIOFO ABBASSA IL COLESTEROLO CONTIENE INULINA, SOSTANZA CHE AGISCE ANCHE SU TRIGLICERIDI E GLICEMIA IN CORSO MOLTE RICERCHE PER MIGLIORARE QUESTO «ALIMENTO FUNZIONALE» IL carciofo in questi ultimi anni è stato al centro di importanti progetti di ricerca, a cominciare da quello finanziato dal ministero per le Politiche agrarie e forestali, che ha interessato 15 unità operative, coinvolgendo Università, Cnr, regioni, enti privati e istituti dello stesso ministero. Tanta attenzione si spiega con il posto di rilievo che questo ortaggio dovrebbe avere nella nostra dieta essendo un prodotto tipicamente mediterraneo e con proprietà nutrizionali e salutistiche di rilievo. Numerosi sono i temi affrontati nel progetto e interessanti i risultati ottenuti, spiega Francesco Saccardo (saccardo@unitus.it), dell'Università della Tuscia (Viterbo). Poiché in Italia sono stati segnalati, fino ad oggi, una quindicina di virus responsabili di danni gravi al carciofo, attraverso la coltura di apici vegetativi (in vitro) si è ottenuto germoplasma (piante madri) sano per i più importanti ecotipi di carciofo, come il Romanesco. Inoltre grazie alla tecnica molecolare è stato possibile selezionare le piantine esenti da virus già durante il loro allevamento in vitro. Un problema analogo si è studiato anche sul carciofo Brindisino. Tra i costituenti del carciofo le sostanze fenoliche, e un polisaccaride, l'insulina, hanno particolare interesse dal punto di vista nutrizionale e tecnologico. Oltre alle proprietà epatoprotettive ben note del carciofo, esistono studi recenti di Niness comparsi sul «Journal of Nutrition» da cui è emerso che l'inulina è in grado di ridurre il tasso di colesterolo e di trigliceridi del sangue e di contrastare l'aumento della glicemia, tanto che il carciofo è stato definito «alimento funzionale». Per questo nell'ambito del progetto si è effettuata la caratterizzazione biochimica di una quindicina di cultivar per fornire informazioni utili nella scelta delle stesse in funzione della destinazione d'uso (consumo fresco, prodotti di IV gamma, surgelazione). La parte edule (il cuore), costituita dalle brattee interne e dal ricettacolo del capolino, contiene acido clorogenico (CA), un antiossidante naturale preventivo contro le patologie arteriosclerotiche e cardiovascolari. Al riguardo l'ingegneria genetica sta valutando la possibilità di ottenere piante di pomodoro con alti livelli di CA. Poiché il contenuto in CA è un fattore importante nella qualità nutrizionale dei prodotti orticoli freschi e per la valorizzazione commerciale, sono state analizzate varietà di carciofo precoci e tardive ottenendo dati interessanti. L'apparato radicale della maggior parte delle piante in natura presenta simbiosi con i funghi micorritici del terreno che agevolano la pianta mediante un migliore assorbimento degli elementi minerali, in particolare se presenti in basse concentrazioni o poco mobili come il fosforo. Sulle piante di carciofo della tipologia precoce provenienti da vitro, la simbiosi micorrizica ha effetti positivi sia sulla crescita, sia sulla produzione anche in presenza di quantità ridotte di concime, dato molto positivo nell'ottica di una agricoltura sostenibile. La ricerca ha poi affrontato i temi del germoplasma, del miglioramento genetico e delle biotecnologie, ottenendo nuove cultivar più adatte ai diversi ambienti, la caratterizzazione bio- morfologica e molecolare delle popolazioni in coltivazione, l'induzione di variabilità attraverso l'irraggiamento. Un'attenzione particolare è stata rivolta al vivaismo con la messa a punto di tecniche di moltiplicazione per il risanamento da patogeni e per assicurare una produzione commerciale geneticamente stabile. Infine, numerose ricerche hanno riguardato le tecnologie post-raccolta e il marketing con caratterizzazione della qualità nutrizionale del prodotto e la messa a punto di appropriati processi di condizionamento, trasformazione e confezionamento. [TSCOPY](*)Università di Torino[/TSCOPY] _____________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 11 mar. ’05 UN' ARMA CONTRO IL MIELOMA MULTIPLO Nuovo farmaco intelligente ferma il tumore «mina-ossa» Fondamentale la diagnosi precoce: all' inizio si può scambiare con il mal di schiena Un farmaco intelligente contro il mieloma multiplo, tumore in ascesa, incurabile fino a 10-15 anni fa, che oltre agli anziani oggi comincia a colpire anche i giovani (già a 30-35 anni). Più gli uomini delle donne. Il medicinale è autorizzato in Italia da fine febbraio e arriva ora nelle farmacie. Negli Stati Uniti è in vendita dal 2003, in quasi tutta Europa da fine aprile 2004. Perché intelligente? Perché rientra tra gli antitumorali di ultima concezione: non «veleni» che uccidono tutto quanto incontrano, ma farmaci che interferiscono con l' attecchimento del male. Il limite: non si possono prendere per sempre. La molecola, il bortezomib, agisce prima che il mieloma multiplo (è un tumore dei linfociti, cellule delle difese immunitarie, che crea focolai - o mielomi - nelle ossa rendendole fragili e molli) riesca a «parassitare» le cellule sane. Come? Bloccando, come un tappo, una sorta di tritarifiuti che si trova all' interno di ogni cellula: il proteosoma. Il tumore fa sì che i suoi nemici, le difese cellulari, vengano scambiati per «rifiuti» ed eliminati. Il mieloma multiplo, disattivati i nemici, «inquina» il genoma della cellula e comincia a moltiplicarsi. «E' un farmaco con un bersaglio talmente specifico che fa impressione», dice Mario Boccadoro, ematologo dell' università di Torino. Il proteosoma, però, non può restare inattivo a lungo. Infatti è un meccanismo vitale per la cellula e i danni potrebbero essere nel tempo letali. Quindi la cura, endovena, deve essere a cicli con pause prestabilite. Altre medicine, con meccanismi d' azione diversi, possono essere usate. «La terapia è quindi un insieme di strategie - spiega Boccadoro -. Dal trapianto di midollo autologo, che già di per sé ha successo in una percentuale alta di pazienti, al talidomide, al bortezomib. I risultati: si è passati da 28 mesi di sopravvivenza media a 60 mesi e oltre. Nel 75% dei casi. La malattia non è più letale, ma diventa cronica. Oggi un malato di mieloma multiplo può tranquillamente riprendere le sue attività di lavoro o sociali senza doverne risentire». Ovviamente la diagnosi precoce è importante: il mieloma mina le ossa e la prima volta che un malato si rivolge al medico è per un forte mal di schiena o per dolori di tipo artrosico, anche in giovane età. In questi casi il male ha già «eroso» l' organismo e spesso non subito si pensa al mieloma multiplo. Perdendo tempo prezioso. Mario Pappagallo Pappagallo Mario _____________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 10 mar. ’05 POLIZZE SULLA VITA PER SIEROPOSITIVI LE ASSICURAZIONI SI FIDANO DELLA CURA Aids, per la prima volta a costi contenuti come per chi è sano Polizze sulla vita a costi contenuti anche per le persone con il virus dell' Aids: a offrire per la prima volta questa nuova opportunità, pur con qualche limite, è un gruppo di compagnie di assicurazione olandesi, che hanno annunciato ieri l' iniziativa. Finora soltanto in Gran Bretagna, in Francia e negli Stati Uniti è stato possibile, per i sieropositivi, assicurarsi contro il rischio di morte, ma in pochi casi, a costi elevati e per tempi molto limitati. Adesso la svolta, determinata anche dal fatto che l' infezione da Hiv, grazie alle terapie farmacologiche, si sta trasformando in una malattia cronica. «Avere l' Hiv - ha dichiarato Hennie Zoontjes, portavoce dell' unione delle sei più grandi compagnie assicurative olandesi che complessivamente rappresentano l' 80 per cento del mercato nazionale - costituisce un rischio per la vita paragonabile a quello dei grandi obesi o dei diabetici». Commenta Rosaria Iardino, presidente del Network italiano delle persone sieropositive e membro della Commissione Aids: «Non soltanto è una iniziativa importante per noi, ma è anche intelligente per chi la propone: oggi chi si infetta con il virus può aspettarsi di vivere almeno vent' anni, grazie ai nuovi antiretrovirali e, probabilmente, le aspettative di vita aumenteranno sempre più, se si riuscirà a mettere a punto un vaccino terapeutico efficace. È un passo avanti verso la "normalizzazione" dell' Hiv ed è anche un aiuto psicologico per le persone». La Iardino stessa, sieropositiva da molti anni, ha già tentato, senza successo, di stipulare una polizza in Italia. Gli olandesi pongono però alcune limitazioni: l' offerta si rivolge a persone con il virus Hiv che rispondono positivamente ai trattamenti farmacologici, che non hanno altre complicanze mediche e che non hanno usato droghe iniettabili. In altre parole, oggi come oggi, potrebbero stipulare polizze all' incirca un quarto dei sieropositivi d' Olanda, il cui numero complessivo si aggira attorno ai diecimila. Attualmente, però, i medici non prescrivono il trattamento a tutti coloro che scoprono di essere stati infettati dal virus: in alcuni casi aspettano e stanno a vedere come evolve l' infezione, per non intraprendere troppo presto un trattamento che continuerà per tutta la vita e che può comportare vari effetti collaterali. «In Italia - commenta Massimo Galli, direttore dell' Istituto di malattie infettive dell' Università di Milano - si calcola che il numero complessivo di sieropositivi oscilli fra i 90 mila e i 110 mila: la metà circa è in terapia, ma la stima è derivata non tanto da un' anagrafe dei pazienti, quanto da un' estrapolazione dalle vendite dei farmaci antiretrovirali. I sieropositivi che sanno di esserlo e sono seguiti dai centri, ma non assumono farmaci, perché non ne hanno bisogno, si aggirano fra i 7 e i 10 mila». A suggerire l' opportunità di trattare o meno con i farmaci sono le linee guida di terapia che sono state messe a punto da gruppi di esperti in ogni singolo Paese. Generalmente sono abbastanza omogenee e prevedono di cominciare il trattamento soltanto quando il numero dei linfociti (cellule del sistema di difesa immunitario) precipita sotto una precisa soglia o la carica di virus, presente nel sangue, supera certi limiti predefiniti. «Ai fini della sopravvivenza - spiega Galli - fra una persona sieropositiva nota, che non prende farmaci perché non ne ha bisogno, e una persona sieropositiva che invece è trattata con successo, non ci dovrebbero essere differenze». Se questo è vero da un punto di vista medico, sarebbe allora auspicabile che le assicurazioni estendessero le polizze anche a coloro che non assumono farmaci, perché possono farne a meno per un certo tempo. Adriana Bazzi Bazzi Adriana _____________________________________________________ Le Scienze 8 mar. ’05 QUANDO IL TITANIO DANNEGGIA LE ARTICOLAZIONI Le particelle hanno un effetto deleterio sugli osteoblasti In uno studio pubblicato sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences", i ricercatori dell'Università della California di San Diego affermano che microscopiche particelle di titanio possono indebolire le saldature della giuntura femorale, del ginocchio e di altre articolazioni artificiali. Gli impianti di titanio sono perfettamente sicuri in blocchi di grandi dimensioni, ma a livello microscopico l'usura e la rottura possono generare particelle di dimensioni micrometriche. Paul Sung e colleghi hanno studiato l'effetto di particelle di titanio di differenti dimensioni sugli osteoblasti (le cellule che costruiscono nuovi tessuti ossei) e sugli osteoclasti (quelle che li distruggono), e hanno misurato come queste particelle influenzano la forza della saldatura di perni impiantati in femori di ratto. In presenza delle particelle di titanio, i perni uscivano fuori più facilmente: l'indebolimento maggiore era causato dalle particelle più piccole e da quelle più grandi. Le osservazioni al microscopio hanno rivelato che gli osteoblasti non davano origine a un'appropriata adesione, e che le particelle di titanio di piccole e medie dimensioni erano concentrate all'interno delle cellule. L'aumento di produzione della proteina RANKL da parte degli osteoblasti favoriva l'attivazione di osteoclasti presso i siti di inserimento, indebolendo ulteriormente l'osso. Le particelle più grandi, inoltre, attivavano la metalloproteinasi che distrugge la matrice extracellulare che tiene insieme le cellule. Poiché le articolazioni artificiali stanno diffondendosi sempre di più con l'invecchiamento della popolazione, i risultati di questo studio potrebbero aiutare a comprendere meglio i motivi del malfunzionamento di questi dispositivi e suggerire metodi per migliorarli. Moon G. Choi, Hae S. Koh, Daniel Kluess, Daniel O'Connor, Anshu Mathur, George A. Truskey, Janet Rubin, David X. F. Zhou, K.-L. Paul Sung, "Effects of titanium particle size on osteoblast functions in vitro and in vivo". Proceedings of the National Academy of Sciences (2005). © 1999 - 2004 Le Scienze S.p.A.