DDL MORATTI: IL TESTO APPROVATO - IL DDL MORATTI: CONTRATTI, CONCORSI - SUL DDL CARRIERE UN CORO DI NO - UNIVERSITÀ SENZA PRINCIPI - QUALCUNO FERMI LA MORATTI - TOSI: BASTA RIFORME SI ALLA VALUTAZIONE - IL RICAMBIO NEGLI ATENEI - COME CINQUE UNIVERSITÀ PRIVATE POSSONO CAMBIARE IL NOSTRO - QUESTE LAUREE CON TROPPO ONORE - L'INFLAZIONE DI LAUREE «AD HONOREM» - RICERCHE TRUCCATE SU PRESSIONE DEGLI SPONSOR - SENZA LA RICERCA L'ITALIA IN LENTO DECLINO RISCHIA IL POSTO AL G-7 - L’80% DEI GIOVANI TROVA LAVORO GRAZIE ALLE AMICIZIE GIUSTE - UNIVERSITÀ: L'ITALIA NON AIUTA I MIGLIORI - MORATTI: IN CRESCITA BREVETTI E PUBBLICAZIONI SCIENTIFICHE» - GIUGNI: CONCORSI COMBINATI NEGLI ATENEI - GIUGNI: NEGLI ATENEI UNA GUERRA PER BANDE - CONCORSI COMBINATI: CORO DI SI A GIUGNI - LAVORO: ANCHE I BOCCONIANI PIANGONO - SCIENZE POLITICHE, RAFFAELE PACI FA IL BIS - ======================================================= DIRINDIN TROVA 107 MILIONI A ROMA - ASL 8. GUMIRATO DENUNCIA UN BUCO DI 116 MILIONI - SALERNO:VIA LIBERA ALLA FACOLTÀ DI MEDICINA - SANITÀ: PROGETTI DI RICERCA IN SCADENZA, IN 80 RISCHIANO IL POSTO - LOTTA ALLA TALASSEMIA, CRONACA DI UN SUCCESSO - BOLOTANA. TRE GIORNI DI CONGRESSO MEDICO INTERNAZIONALE - LA CARRIERA DEL SELENIO - L’ESAME DELLA RETINA? E’ FACILE COME PESARSI - ZANZARE E MALARIA SI VINCONO COSÌ... - PROPRIETÀ TERAPEUTICHE DELLA TOSSINA DEL TETANO - ======================================================= __________________________________________ DDL MORATTI: IL TESTO APPROVATO http://pacs.unica.it/DDLCamera15.6.pdf ____________________________________________________________ La Repubblica15 giu. ’05 IL DDL MORATTI: CONTRATTI, CONCORSI E a tutti il titolo di professori SCHEDA ROMA - La riforma Moratti sul reclutamento dei professori universitari passa al Senato, ricevuto il primo sì della Camera, dopo un esame durato due giorni, costato due bocciature al governo. L'articolo 1 del provvedimento, che riguarda i principi, è stato cancellato da un emendamento dell'opposizione. E la composizione delle commissione di esame è stata modificata, secondo le stesse modalità: non ne potranno più far parte i professori dell'ateneo che ha bandito la prova. Ecco, in sintesi, i contenuti principali del disegno di legge, che passa ora all'esame del Senato. Valutazione dei professori. Il compito spetta ai relativi atenei. La valutazione, però, dovrà essere formalmente richiesta dai docenti e riguarderà l'attività di ricerca e la didattica. In caso di "bocciatura", lo stipendio del professore resterà congelato fino alla prova successiva. Idoneità nazionale. Per accedere ai concorsi universitari di professore ordinario o associato bisognerà aver passato una prova d'idoneità scientifica nazionale, che durerà quattro anni. Concorsi. I posti di professore ordinario e associati vengono assegnati attraverso concorsi riservati a chi è in possesso dell'idoneità nazionale. I candidati saranno esaminati da commissioni, i cui componenti saranno tutti estratti a sorte. I commissari non potranno provenire dall'università che ha bandito il concorso. Contratti a termine. Le Università potranno mettere sotto contratto studiosi e ricercatori attraverso il ricorso a "contratti di ricerca e di insegnamento universitario". Di durata triennale e rinnovabili per altri tre anni. I docenti "a termine" non potranno superare il 20 per cento del totale degli insegnanti dell'ateneo. Ricercatori. Punto caldo. Sparisce il ruolo dei ricercatori. D'ora in avanti i giovani, dopo il dottorato di ricerca, potranno avere contratti a tempo determinato di durata triennale, fino a un massimo di sei anni. Tutti professori. Per l'opposizione è solo "un pennacchio", per la maggioranza un giusto riconoscimento a chi svolge attività didattica nelle Università: con la riforma tutti coloro che hanno un contratto universitario per la ricerca e l'insegnamento potranno fregiarsi del titolo di "professore aggregato". Nessun aumento di stipendio è previsto, ma solo la possibilità di utilizzare il titolo nel proprio biglietto da visita. _______________________________________________________ Il Sole24Ore 15 giu. ’05 SUL DDL CARRIERE UN CORO DI NO Confindustria stigmatizza la «sanatoria» dei precari ROMA Pioggia di critiche sul Ddl di riordino delle carriere dei docenti universitari, che ieri ha iniziato l'esame in Aula. Un testo profondamente modificato dalla maggioranza rispetto a quello presentato dal ministro dell'Istruzione, Letizia Moratti. Al coro di "no" si è aggiunta ieri anche la bocciatura di Confindustria, secondo la quale questa riforma «priva i nostri giovani più promettenti di speranze professionali». Opposizione e sindacati denunciano la «confusione della maggioranza» e chiedono il ritiro del Ddl, le associazioni dei docenti e dei ricercatori annunciano scioperi della fame, blocchi degli esami e delle sedute di laurea contro la riforma. Ieri la discussione in Aula del provvedimento ha riservato non poche sorprese. Sulla votazione del primo articolo del testo il Governo è stato battuto: il risultato delle tante assenze tra i banchi della maggioranza è stata l'approvazione di un emendamento dell'op posizione, che ha soppresso l’articolo. Ma dopo il via libera all'articolo 2, che fissa i principi di valutazione delle attività di ricerca e di quelle didattiche e organizzative svolte dai docenti, l'esame del Ddl è stato rinviato, perché sulla restante parte del provvedimento manca ancora il parere favorevole della Commissione Bilancio della Camera. La discussione del Ddl riprenderà oggi: «La cancellazione del primo articolo - ha detto il presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini - non fa venire meno l'intero provvedimento, perché gli articoli successivi hanno autonomia logica e normativa». Ma con un fronte del "no" cosi compatto non è facile prevedere cosa accadrà nei prossimi giorni. «L'impostazione iniziale della riforma è stata stravolta», afferma Gianfelice Rocca, vicepresidente di Confindustria con delega per l’Education, secondo il quale «l'attuale testo contribuisce a consolidare le figure esistenti all'interno dell'università, senza introdurre chiari criteri di reclutamento basati sulla meritocrazia». Rocca punta il dito contro «la cancellazione dell'impostazione iniziale della riforma, che prevedeva il reclutamento di docenti di prima e seconda fascia con contratti a tempo determinato», contro «l’attribuzione ai ricercatori e ai titolari di contratti di insegnamento del titolo di professore aggregato» e «il ricorso a semplici procedure selettive, disciplinate da ogni università con propri regolamenti, per diventare ricercatori a tempo indeterminato». Il vicepresidente degli industriali critica anche «il ritorno ai concorsi con attribuzione di riserva di posti» e auspica che «il Parlamento riesamini in profondità il disegno di legge, recuperando l'impostazione originaria». L'opposizione sottoscrive il giudizio negativo degli industriali: «Anche Confindustria prende decisamente posizione contro la proposta di stato giuridico - sottolinea Andrea Ranieri, responsabile scuola e università dei Ds - e questo dovrebbe consigliare il ministro a ritirare il provvedimento e ad aprire un serio confronto sulle vere priorità delle università». Appelli al ritiro del testo anche da Franca Bimbi (Margherita), secondo la quale «la maggioranza, largamente assente, non crede al suo stesso provvedimento sull'università» e da Enrico Panini (Cgil), che fa notare come «il Governo imperterrito tenta di andare avanti nonostante le vistose spaccature all'interno della stessa maggioranza». L'Uspur (Unione sindacale dei professori di ruolo) dichiara, invece, «di non essere favorevole al rigetto del Ddl», mentre Walter Tocci (Ds) avverte che con questa riforma «circa 30mila persone potranno fregiarsi del titolo di professore senza concorso». Secondo indiscrezioni, in Parlamento Moratti avrebbe intenzione di presentare alcuni emendamenti che riportino il Ddl alla sua impostazione iniziale. Ma si tratta di un'operazione politicamente molto complicata. ALESSIA TRIPODI _______________________________________________________ Il Riformista 15 giu. ’05 QUALCUNO FERMI LA MORATTI UNIVERSITÀ . ASSUNZIONI OPE LEGIS C'è qualcosa di incomprensibile nei rapporti tra il ministro dell'istruzione ed il mondo universitario. Come è possibile che il ministro riesca a scontentare tutti: la conferenza dei rettori, il consiglio universitario nazionale, e i sindacati di ogni specie, ma anche i professori "rigoristi" che si oppongono ad assunzioni e promozioni "ope legis"? Perché mai, di fronte a prospettive di allargamento dei ruoli dei professori universitari per far posto, "a domanda", un po' a tutti (funzionari dell'università, tecnici laureati e funzionari tecnici assortiti, assistenti, anziani titolari di incarico universitario, ricercatori giovani e vecchi), non difendono le proposte del ministro, almeno le categorie interessate alle promozioni, e i loro rappresentanti sindacali? Come mai i professori «stanchi di dire no» firmatari di un appello che è stato interpretato come un generico appoggio al ministro, non intervengono a difendere concretamente le proposte approvate, dalla commissione parlamentare per l'istruzione, con il consenso del governo? Non è facile spiegare queste apparenti contraddizioni. Quel che sembra certo, tuttavia, è che il ministro e la cerchia ristrettissima dei suoi collaboratori, non ha capito come funziona oggi il sistema universitario e in particolare non ha capito le conseguenze della rivoluzione nel sistema di finanziamento delle università, introdotta nel 1994, che va sotto il nome di "autonomia finanziaria". Questa rivoluzione, che si ispirava alla necessità di contenere le spese, più che ad astratti principi di autonomia, ha reso molto più difficili (purtroppo non ancora impossibili) gli interventi clientelari sul sistema universitario. Ai bei tempi, negli anni settanta e ottanta, ogni intervento di promozione o assunzione "ope legis" veniva pagato dal solito Pantalone. Era infatti il Tesoro a pagare gli stipendi dei dipendenti universitari e a provvedere per nuove assunzioni e promozioni. Oggi questi interventi legislativi danno luogo a maggiori spese sul limitato bilancio di ciascuna sede universitaria. Questo comporta non solo l'ostilità dei rettori alle promozioni "ope legis", ma anche quello dei sindacati che sanno bene che ogni beneficio di una categoria sarà pagato direttamente da minori prospettive di miglioramento di altre categorie. Per di più la massiccia presenza in ambito-universitario di alcune decine di migliaia di giovani, titolari di borse di studio per il dottorato e di assegni di ricerca, rende direttamente percepibili le conseguenze di interventi "a costo zero" a favore di alcune categorie di dipendenti. Più si promuove chi è già dentro, e più si sbarra l'ingresso ai giovani che stanno fuori. Siamo quindi al riparo dalle iniziative del ministro? Tutt'altro. Prima di tutto perché il governo, e la sua maggioranza parlamentare potrebbero, ad esempio attraverso ripetuti voti di fiducia, approvare provvedimenti clientelari rifiutati dai beneficiari, e a carico delle università. In secondo luogo perché rettori e sindacati possono resistere fino a un certo punto. Ad esempio, una spruzzata di miliardi rovesciata sul sistema universitario potrebbe far loro cambiare rapidamente idea. Siamo cioè ridotti a sperare che siano le condizioni del deficit statale e l’auspicabile fermezza del ministro dell'Economia, a salvare il sistema universitario dai possibili assalti clientelari, già purtroppo messi a punto dal ministro, in un anno elettorale. Resta da capire come mai un ministro intelligente, non legato ad alcun partito e che non ha bisogno di coltivare clientele elettorali, si aia addentrato in una palude di proposte di promozioni e assunzioni generalizzate, di "norme transitorie" e di "concorsi riservati", che favoriscono questa o quella categoria, ottenendo, per di più, solo uno sdegnoso rifiuto da parte delle categorie interessate. Come mai non ha trovato nessuno che lo mettesse in guardia contro il pericolo di iniziare la strada della ricerca del consenso attraverso concessioni clientelari? A questa domanda potrebbero forse rispondere i consiglieri accademici (almeno due, in successione) che sono stati per brevi periodi al suo fianco e che si sono allontanati per sopravvenute difficoltà di comunicazione. Noi possiamo solo osservare che il ministro è circondato da un manipolo di "yes men" (e "yes women") che sono riusciti a isolarlo dalla realtà universitaria che avrebbe il compito di governare. _______________________________________________________ La Repubblica 17 giu. ’05 TOSI: BASTA RIFORME SI ALLA VALUTAZIONE Parla il presidente della Conferenza dei Rettori. "Le università diventate una sorta di cantiere" ROMA - Al professor Piero Tosi, presidente della Conferenza dei Rettori, abbiamo chiesto di fare il punto sullo stato di salute del sistema universitario. Il Censis presenta la sesta indagine sugli Atenei italiani. Le università più forti confermano le eccellenze, quelle più deboli sembrano non reggere il ritmo. «Da tempo la Conferenza dei Rettori invoca l'introduzione di un modello di valutazione degli Atenei sulla scorta di quanto avviene da anni in alcuni Paesi europei. L'autonomia, della quale le Università stanno acquisendo progressivamente l'importanza, è responsabilità delle scelte: ecco perché è andato crescendo nelle università il bisogno di autovalutarsi e di essere valutati. E indubbio che iniziative come quelle del Censis, che da anni enti ai si misura con i criteri della classificazione delle attività universitarie - criteri e metodi che in qualche occasione sono stati in parte criticati anche da molti di noi abbiano contribuito a far crescere la necessità improrogabile della valutazione. È chiaro che una valutazione che, coni e diciamo noi, deve avere parametri e indicatori, qualitativi e quantitativi, che siano sperimentati e trasparenti, è cosa diversa, soprattutto se, come è opportuno, deve porci in linea con quanto più volte affermato nell'associazione europea delle università. La stagione dell'autonomia ci consegna, e questo è fondamentale per valutare, un altro importante dettato: non è possibile pensare a ritorni centralistici. Occorre sviluppare pienamente l'autonomia che vuol dire per le Università competere in un sistema a rete, nel quale non è possibile che tutte facciano tutto, tua occorre che sviluppino le proprie peculiarità legate alla loro storia, alla loro consistenza, al contesto territoriale in cui vivono». L'Università vive un momento di transizione, ma anche di sbandamento... «Senza dubbio: viviamo orinai in uno stato di perenne fibrillazione. Ho più volte detto che le università italiane sono diventate una sorta di "cantiere permanente", nel quale, a fronte di una pressante serie di richieste provenienti dalla società sia nel campo della feriti azione che della ricerca, sono costrette a fare i conti con microriforme o frammenti di riforma. Manca un chiaro quadro strategico che faccia da cornice, nell'ambito del quale esse possano muoversi in piena autonomia, responsabili dei loro risultati. Lavorare in un cantiere non è facile e diventa ancora più difficile quando visono input contraddittori: per esempio da una parte il giusto rilievo per l'indispensabile integrazione fra ricerca e insegnamento, dall'altra l'istituzione di Università che non hanno un background di ricerca. Da questo deriva una pericolosa incertezza, che colpisce negativamente docenti e studenti e si ripercuote sulle famiglie e sulla società». La riforma comincia a dare i primi risultati, ma gli ostacoli restano. I primi a pagarne le conseguenze sono gli studenti. «La riforma dei corsi è stata introdotta troppo repentinamente, inducendo una serie di errori nella sua applicazione, che hanno finito per limitarne la portata innovativa. Ma risultati importanti ci sono stati. Il primo risultato è certamente quello di avere diminuito sensibilmente gli abbandoni, il secondo di avere abbreviato i tempi di laurea. Non è poco, ma non basta. Ora c'è bisogno di una profonda revisione dei corsi di studio a partire dalla definizione dei loro obiettivi e della loro strutturazione in contenuti. I docenti devono abbandonare quelle forme residue di individualismo, che sono in contrasto con la collegialità delle decisioni, e assumere la funzione di educatori in un processo che preveda la centralità dello studente e la valorizzazione dell'apprendimento più che dell'insegnamento. Gli studenti chiedono certezze, organizzazione, responsabilità. È per questo che la riforma non avrebbe dovuto essere modificata cosi rapidamente. Si sarebbe dovuto attendere a introdurre modifiche aspettando di verificare i risultati da essa prodotti, in modo da non sbagliare ancora e dare sicurezza agli studenti e alle loro famiglie». Anche tra i docenti, da ultimo rispetto al ddl sullo stato giuridico, cresce il disorientamento. Quali sono i rischi di un cantiere sempre aperto? «Per quanto riguarda lo stato giuridico, c'è da dire che il disegno di legge, del quale noi stessi abbiamo avvertito la necessità, avrebbe dovuto incidere positivamente sulla definizione dei diritti e dei doveri dei docenti e sulla messa a punto dello stato giuridico dei ricercatori, dando loro il giusto riconoscimento per il lavoro fatto in questi anni nei corsi di studio, esercitando una vera e propria attività di docenza. Ma, pur modificato, non solo non risolve i problemi in a anzi ha creato ulteriore disorientamento nell'Università. C'è bisogno di una riflessione nuova che consenta di riaffrontare i problemi sin dall'origine, tua qualsiasi proposta di riferiti a non può partire che da un netto rifiuto dei provvedimenti che si profilano nel Parlamento. Tutto il inondo universitario, dai "saggi" al più giovane dei dottorandi, è contrario alle soluzioni proposte. E, invece, occorrerebbe ritrovare una sintonia sulle questioni strategiche». Tutti esaltano la ricerca, ma gli investimenti latitano. Quali effetti sulla didattica e la qualità del sistema università? «Non perdo occasione per riaffermare la inscindibile unità fra ricerca e insegnamento. Il docente universitario è tale se può avvalersi di un'esperienza scientifica che ne abbia esercitato le capacità critiche e quindi la possibilità di far nascere nello studente la curiosità e la volontà di imparare ad imparare. Inoltre, la ricerca è alla base dell'innovazione, tanto che si può dire che non esiste innovazione senza ricerca, coni e è stato ritenuto troppo a lungo. Oggi paghiamo le conseguenze di questo errore, le paghiamo con la perdita di competitività del Paese e con il suo sviluppo frenato o fermo». _______________________________________________________ Il Manifesto 15 giu. ’05 UNIVERSITÀ SENZA PRINCIPI Dopo quasi due anni di discussione la «madre» di tutte le riforme sull'università sfiora il naufragio e finisce menomata al primo colpo. Le vistose assenze nella maggioranza (ben 180 deputati) hanno infatti portato alla sconfitta della ministra Letizia Moratti nel primo giorno di votazione di una legge che ormai nessuno, da Confindustria ai sindacati, dai baroni ai precari, dall'opposizione a vasti settori della Cdl, vuole portare avanti. Il governo infatti ha perso sull'articolo 1 della legge - che fissa i principi a cui devono ispirarsi la docenza e 1a ricerca universitari -, cancellato da un emendamento presentato dal Pdci che a sorpresa è stato approvato dalla camera con 186 si contro 183 no. Per la Cdl un'aula semideserta (condomini presenti poco più che al 50%) nulla ha potuto contro un'opposizione agguerrita e rinfocolata dal dissenso che piove da ogni dove su un provvedimento che cancella i ricercatori e ridisegna in senso liberista l'insegnamento universitario. «E' un segno ulteriore che non si può andare avanti in questo modo - commenta a caldo il presidente dei rettori Piero Tosi - bisogna fermarsi e ripensare da capo tutto l’argomento». Ieri una cinquantina di ricercatori e docenti hanno protestato davanti al parlamento sotto il gonfalone di San Precario. Un sit-in esiguo ma indetto unitariamente da tutti i sindacati, le associazioni della docenza e dalla Rete dei ricercatori precari. Ennesimo segnale del dissenso che fin dall'inizio ha accolto negli atenei i desideri riformatori della ministra Moratti. La ministra si infuria ma a Porta a porta fa spallucce: «In quell'articolo c'era solo un'enfatizzazione di principi già previsti da altre norme». La sconfitta non inficerebbe la sostanza del provvedimento. «Il ddl va avanti lo stesso. Certo non possiamo rallegrarci ma lo correggeremo al senato» dicono dalla maggioranza. MATTEO BARTOCCI ROMA Se le forme della democrazia contano ancora qualcosa però ieri si è davvero toccato il fondo: il governo ha presentato gli ultimi ritocchi addirittura mentre i deputati iniziavano a sedersi in aula. Correzioni finali che non hanno impedito nemmeno una sospensione chiesta in extremis dal presidente della commissione bi lancio Giancarlo Giorgetti (Lega) perché la legge arrivava in aula senza il necessario parere della sua commissione. Il governo è corso ai ripari chiedendo una pausa di mezz'ora, giusto il tempo di fare una telefonata alla ragioneria generale dello stato per avere i dati aggiornati sui costi della riforma. E' questo il parlamento alla fine della legislatura. «Si va avanti attraverso procedure scandalose e inaccettabili», tuona Titti De Simone di Rifondazione, che insieme a tutta l'Unione chiede alla maggioranza di ritirare il provvedimento. «Sarebbe la giusta fine di un pessimo disegno di legge» dice il verde Mauro Bulgarelli. La riforma degli atenei, ormai senza padri, è un collage di previsioni che rendono quasi impossibile ricostruire come sarà la carriera dei ricercatori e dei futuri docenti universitari: lo prova il via libera condizionato arrivato da diverse commissioni parlamentari. Tanta fretta e sprezzo del «pericolo» da parte del, ministero dunque si può spiegare solo con un'eventuale approvazione estiva, ad atenei chiusi, per evitare le proteste che finora sono state puntuali e inesorabili. I ricercatori strutturati del Crini si dicono pronti allo sciopero della fame in 5 atenei e al blocco degli esami dal 20 a127 giugno se il ddl sullo stato giuridico dei docenti non sarà ritirato. «I] nostro obiettivo è far sentire con la massima forza il dissenso del mondo universitario nei confronti di una legge che sancisce la morte dell'università moderna nel nostro paese», dichiara il coordinatore Marco Merafina. I docenti avvisano: «Il governo punta sul fatto che i contentini sparsi qui e là destinati ad una umanità varia fatta di lobby ed élite abbiano ridotto al silenzio le nostre proteste - si legge in un manifesto sottoscritto da 30 professori - la legge Moratti invece è inadeguata e umiliante per l’università». Tra «pianisti», urla e appelli alla presidenza per il ritorno in commissione la seduta ieri è andata avanti in modo tempestoso, tanto che un paio di emendamenti della commissione sono passati solo per un voto. Cavandosela per il rotto della cuffia insomma la Cdl è riuscita a strappare il via libera all'articolo 2 sul sistema di valutazione. La discussione però continua stamattina e visto che il governo dalla maggioranza parlamentare più ampia della storia ieri è stato battuto anche al senato è ipotizzabile che per Moratti non si tratterà di una passeggiata. _______________________________________________________ Il Sole24Ore 15 giu. ’05 IL RICAMBIO NEGLI ATENEI La popolazione degli. accademici. italiani è la .iù anziana d'Europa. Entro il 2007 usciranno 3mila professori DI ANGELO PROVASOLI* La mia formazione mi obbliga a partire dai numeri, dai fatti e su questi poi ragionare. I numeri dicono che gli accademici italiani sono i più vecchi d'Europa: nel 2003 il 57% dei docenti di ruolo aveva più di 50 anni, contro, per esempio, il 28% del Regno Unito -e il32,2 della Spagna. Sempre i numeri dicono che nei prossimi anni vi saranno molte uscite dall'università del personale docente, di , cui 3mila entro il 2007, per raggiunti limiti d'età o per anticipazione dei pensionamenti. Diventa sempre più pressante quindi adoperarsi per garantire ricambi qualitativamente adeguati. Ricambi che dovranno assicurare non solo il funzionamento e il mantenimento del sistema universitario, ma che dovranno essere alla base di un sistema universitario finalmente competitivo, in grado di assumere un ruolo da protagonista nell'arena europea e aiutare il Paese a uscire dalla crisi strutturale in cui si trova. I fatti, o meglio le molte dichiarazioni che da più parti e a più livelli vengono rilasciate, di cono che il capitale umano è la risorsa su cui puntare, una risorsa sulla quale è necessario investire soprattutto in un Paese come l'Italia privo di materie prime e i cui costi del lavoro frenano la produzione di beni. L'impegno di tutti deve essere rivolto alla costruzione di un sistema trasparente nel quale i giovani possano inserirsi, lavorare e fare carriera. Un sistema che goda dei benefici del libero mercato e con esso dei principi di meritocrazia. Adoperiamoci allora per rivedere l'accesso alle professioni e non ritardiamo oltre la riforma dell'ordinamento giuridico dei docenti. A1 di là di tutte le critiche, positive o negative, che il progetto in discussione ha raccolto, credo che su un dato sia necessario riflettere: il 90,2% dei vincitori del concorso per ordinari proviene dallo stesso ateneo che lo ha bandito. La percentuale scende al 76,5 fra gli associati. È evidente che la situazione vada radicalmente modificata. Come? Rispondo, come mia attitudine, con i fatti. La Bocconi si è posta come obiettivi quelli di internazionalizzare la propria faculty e di aumentarne sempre di più la qualità cosi da poter competere a livello globale nella ricerca e nelle attività formative. Stiamo quindi operando sulle politiche di reclutamento predisponendo contemporaneamente un sistema di incentivi e di modifiche del sistema retributivo. I nostri giovani professori vengono reclutati sul job market internazionale mentre abbiamo da anni avviato un articolato programma di visiting professor. Stiamo rivedendo i percorsi di carriera interna e lanciando una politica per l'istituzione di cattedre per iniziative speciali. Tra il 2000 e il 2004 il numero dei docenti stranieri stabilmente impegnati in Bocconi è passato da 43 a 133. Contemporaneamente si è abbassata l'età media: solo il 36% dei docenti di ruolo ha più di 50 anni. Il risultato positivo della prima fase, un po' sperimentale, di questa nostra politica ci ha convinti della necessità di continuare su questa strada. Al di là dei singoli provvedimenti presi, però, l'esperienza Bocconi è significativa perché evidenzia l'importanza di applicare modelli flessibili di reclutamento e carriera. Gli atenei hanno cosi la possibilità di garantire un arricchimento dell'intera faculty e di attivare collaborazioni tra docenti e ricercatori, giovani e meno giovani, formati nelle migliori università del mondo. In un contesto flessibile si moltiplicano le opportunità per i nostri giovani di inserirsi, anche restando in Italia, nei circuiti scientifici internazionali, valorizzando le competenze dei singoli e le qualità formative dei nostri atenei. Si esorcizzerebbe cosi il tabù della fuga dei cervelli, riportando in attivo o almeno in parità il saldo fra chi esce e chi entra in Italia. Essere internazionali non vuol dire solo collezionare esperienze e collaborazioni all'estero, ma costruire nelle nostre università un contesto ricco di contaminazioni culturali e disciplinari che permettano ai nostri giovani, italiani e non, di crescere e formarsi ai massimi livelli. Certo, in molti diranno che quanto abbiamo fatto è stato possibile perché la Bocconi non è un ateneo pubblico e pertanto meno vincolato e più ricco di risorse (che, per inciso, per l’83% provengono dalle rette pagate dagli studenti contro il 56 della media europea e il 22 di quella statunitense). La vera libertà della Bocconi, la sua ricchezza, è la sua volontà di sperimentare e proporre soluzioni nuove e alternative a problemi vecchi o la cui soluzione continua a essere rimandata per garantire il beneficio di pochi o comunque non quello dei giovani. Investire sul capitale umano, contribuire allo sviluppo del Paese, che per il mondo accademico è un dovere morale, vuol dire anche questo. Nessuna istituzione, però, per quanto prestigiosa e autorevole, può sperare di dare, da sola, un contributo decisivo a problemi cosi vasti e complessi. Un significativo cambiamento non è possibile ;e non si pone in movimento un ampio fronte di forze. Per rilanciare il Paese occorre uno sforzo corale di tutte le istituzioni rilevanti. Quelle universitarie prima di tutte. __________________________________________________ IL FOGLIO 15-05-2005 COME CINQUE UNIVERSITÀ PRIVATE POSSONO CAMBIARE IL NOSTRO SISTEMA EDUCATIVO Come si fa in 10-i5 anni a portare l'Italia dalla periferia al centro dell'economia della conoscenza? Tale obiettivo non è cervellotico, ma corrisponde al requisito di sopravvivenza futura nel mercato globale: o ipertecnologici oppure morti. Tanti colleghi universitari e imprenditori concordano, ma temono che l’Italia non ce la farà a rendere il proprio sistema statale di educazione e ricerca infrastruttura portante per la rivoluzione cognitiva, visto lo stato corrente. E si preparano a migrare chi in America chi in Australia chi a Hong Kong. Questa rubrica è riuscita, temporaneamente, a fermarli riuscendo a far vedere ai più avventurosi tra loro un business, qui svelato per suscitare l'interesse di altri con visione e soldi. Per fare la rivoluzione cognitiva in Italia non servono né il sistema statale né politiche dei grandi numeri né sovvenzioni pubbliche. Basterebbero, in base a una prima simulazione, cinque università private maggiori (politecnici) di nuova concezione a rapida crescita e a rapido effetto sistemico. Fattibile? In Italia esistono migliaia di ricercatori di eccellenza globale, mal pagati e a carriera depressa nel sistema pubblico. Molti non vedono l'ora di poter lavorare con paga quadrupla in un sistema universitario organizzato come un'impresa. Il problema del valore legale della laurea può essere aggirato specializzando le nuove università alla produzione dei master e dottorati post laurea oltre che di posizioni di ricerca a contratto. Le lauree e diplomi possono restare in mano al sistema statale, che questa lavoro intermedio lo fa meglio di quanta si pensi. I nuovi politecnici privati aggiungeranno alla missione di ricerca e insegnamento una terza, il servizio al territorio: gestione e applicazione brevetti, assistenza alle imprese, formazione continua eccetera. A pagamento. Anche gli studenti pagheranno e salato. I poveri e meritevoli accederanno a un prestito bancario che restituiranno nel corso della loro vita lavorativa. I concetti portanti del business sono: (a) la rivoluzione cognitiva in Italia si può fare non dovendo creare capitale intellettuale, ma semplicemente trasferendone una parte già esistente - di qualità eccezionale, qui il valore -in sistemi universitari meglio organizzati; (b) esiste una domanda di conoscenza che è pronta a pagarla il giusto valore perché nella nuova economia la competenza è trasformabile subito in ricchezza; (c) e ciò rende possibile un'offerta di risorse cognitive ad altissimo livella can metodi di impresa. Fino al punto di poter quotare in Borsa questo tipo di nuove università favorendo l'investimento iniziale. Startuppiamo? Carlo Pelanda _______________________________________________________ La Padania 12 giu. ’05 QUESTE LAUREE CON TROPPO ONORE ROBERTO BRUSADELLI Ormai è come nelle scenette comiche in romanesco, con il posteggiatore che affibbia a tutti, indistintamente, il titolo di "dotto"'. 41 sistema universitario italiano dispensa mediamente ogni due giorni una laurea ad honorem». Lo rivela il quotidiano della Santa Sede, L'Osservatore Romano, sottolineando, come ormai questo tipo di laurea «non si neghi più a nessuno, con motivazioni che in alcuni casi risultano addirittura esilaranti nei tentativo di piegare le caratteristiche dei titolo a quelle del suo destinatario». Vien fatto di pensare subito ai due casi recenti più strombazzati dai media, quelli di Valentino Rossi e di Vasco Rossi: laddove, aldilà dei tratti trasgressivi, almeno quest'ultimo ha a che fare con un attività che richiede nozioni e sensibilità, se non spirito, artistici. Ma inforcare una moto, sia pure per vincere un titolo mondiale dopo l'altro, che attinenza può mai avere con l'ambito culturale? Di fronte ad alcune delle più recenti attribuzioni - si legge nell'articolo pubblicato nell'edizione odierna del quotidiano vaticano - cadono davvero le braccia. Il guaio è che certi personaggi dello spettacolo e da ultimo anche dello sport hanno da qualche tempo cominciato ad atteggiarsi a maître à penser. Molto onesto sarebbe stato in questi casi invitare costoro a riflettere sull'antico detto: Ne supra crepidam sutor che, tradotto per comodità di alcuni di loro, significa "il calzolaio non giudichi al di là della scarpa" e cioè, detto in termini ancora più accessibili "ognuno faccia il proprio mestiere"». Perfettamente d'accordo. Ma in quanto ad abusi di lauree honoris causa esiste un precedente illustre e ben più inquietante. Ricordate Elena Ceausescu; la dark lady dei regime rosso di Bucarest? Quando lei e il marito, il grande satrapo Nicolae, furono spodestati e passati per le armi, si aprirono molti armadi e, tra gli innumerevoli scheletri, si scovarono appunto lauree, diplomi, premi e attestazioni varie da parte di università, accademie, centri di studio e ricerca degli Stati Uniti e dell'Europa occidentale (quelli dei Paesi comunisti erano scontati). Per premiare la - inesistente - levatura intellettuale di una donna di modestissimo pedigree culturale, ma in realtà per incoraggiare la Romania a mantenersi neutrale - e anzi a opporsi alla politica sovietica - si passava sopra ogni menzogna e ipocrisia, ignorando le mille prove e testimonianze sul carattere sanguinario di questi personaggi. Per i quali poteva bastare un bel "dottori in crimini". ___________________________________________________ L’OSSERVATORE ROMANO 12-05-2005 L'INFLAZIONE DI LAUREE «AD HONOREM» «Estode todos caballeros» MARIO GABRIELE GIORDANO Si racconta di un tale che, allo scopo di riceverne lode e ricompensa, si presentò a un monarca e volle alla sua presenza prodursi in una straordinaria esibizione: passare di corsa davanti a un ago puntato su uno sgabello e cacciare d'un colpo il filo nella sua strettissima cruna. Alla fine dell'esibizione, il monarca volle sapere quanto tempo fosse occorso per giungere a quella stupefacente destrezza e, venuto a conoscenza che erano occorsi quattordici anni, ordinò che quel tale, come a titolo di esemplare contrappasso per il tempo perduto, fosse prima frustato e poi messo in galera per quattordici anni. E questa purtroppo la sorte di chi nasce in un periodo sbagliato! Destrezze ancora più inutili, esercitate naturalmente in altri e più pretenziosi campi, possono invece oggi procurare vere e proprie fortune e, perché no?, il conferimento di una laurea ad honorem che ormai non si nega più a nessuno con motivazioni che in alcuni casi risultano addirittura esilaranti nel tentativo di piegare le caratteristiche del titolo a quelle del suo destinatario. In realtà, come è stato ultimamente rilevato da un noto quotidiano, il sistema universitario italiano dispensa mediamente ogni due giorni una di queste lauree. Di fronte a tanta generosità, non potrebbe quindi che impallidire il povero imperatore Carlo V che nel 1541, affacciandosi dalla finestra della Casa De Ferrera di Alghero e pronunziando il famoso «Estode todos caballeros», si limitò a insignire del titolo la popolazione di una modesta città. Bisogna riconoscere che, almeno di fronte ad alcune delle più recenti attribuzioni, cadono davvero le braccia. Il guaio è che certi personaggi dello spettacolo e da ultimo anche dello sport hanno da qualche tempo cominciato ad atteggiarsi a maître a penser. Molto onesto sarebbe stato in questi casi invitare costoro a riflettere sull'antico detto: «Ne supra crepidam sutor» che, tradotto per comodità di alcuni di loro, significa «Il calzolaio non giudichi al di là della scarpa» e cioè, detto in termini ancora più accessibili, «Ognuno faccia il proprio mestiere». Si è voluto invece fingere di prenderli sul serio blandendoli ed esaltandoli anche al di fuori dei giusti confini dei loro meriti per usarli come teste d'ariete atte a penetrare più facilmente nel già friabile muro delle zone meno avvedute del consenso popolare. Non è, a questo proposito, un mistero che le Università gareggino ormai tra loro nel conferire lauree honoris causa, che - non va dimenticato - attribuiscono per legge tutti i diritti delle lauree ordinarie, a personaggi che, per quanto estranei al campo cui il titolo si riferisce, siano comunque noti al solo scopo di garantirsi facili ritorni d'immagine senza però considerare che in questo modo l'avidità dell'uovo d'oro uccide la classica gallina che lo produce. E infatti evidente che questa pratica inflazionistica di un riconoscimento che doveva avere il carattere dell'eccezionalità non fa altro che abbassare nel tempo il prestigio dell'istituzione che la promuove e soprattutto offende la reputazione di quanti ne sono stati insigniti per meriti effettivi in quanto li assimila a inconsapevoli strumenti di operazioni promozionali. I termini dell'articolo 169 del Regio Decreto 31 agosto 1933, n. 1952, che regola la materia, sono intanto espliciti e inequivocabili: «La laurea ad honorem può essere conferita soltanto a persone che, per opere compiute o per pubblicazioni fatte, siano venute in meritata fama di singolare perizia nelle discipline della Facoltà o Scuola per cui è concessa». E, di fronte a un testo del genere, c'è da chiedersi quali siano mai le opere o le pubblicazioni di chi, per esempio, sappia inforcare una moto e spingerla a oltre trecento chilometri all'ora con meriti sportivi certamente straordinari ma che nulla hanno a che fare con la specifica «perizia» di cui parla il disposto legislativo. Analogo interrogativo ci sarebbe da porre per quei personaggi sul cui nome si scatena in maniera particolare la furia laureatoria di certe Università. È noto che esiste in Italia chi si è visto piombare sul collo ben trentatre lauree ad honorem, l'ultima delle quali in Architettura quando la sua professione è quella di semiologo. Si tratta di un caso che dovrebbe far seriamente pensare all'opportunità di sostituire col suo nome quello ormai vieto di Leonardo da Vinci quale simbolo del genio universale. Ma il problema vero è che le istituzioni hanno perso il senso della loro natura e della loro funzione e intanto, stando alle cifre dell'ultimo rapporto Ocse, l'Università italiana occupa ormai l'ultimo posto tra quelle dei paesi sviluppati per numero percentuale di studenti e di laureati. I consigli di facoltà, cui spetta l'iniziativa di avanzare proposte per il conferimento di una laurea ad honorem, i senati accademici, cui spetta l'approvazione di tali proposte, e lo stesso Ministero, cui spetta il definitivo nulla-osta in proposito, avrebbero quindi ben altro da fare che adattare alla stretta cruna di un nobilitante titolo accademico il grosso filo di certi personaggi. Le vie da battere per restituire all'Università la credibilità e il prestigio dei quali ha bisogno vanno nella direzione esattamente opposta a quella della gara al ribasso nel dispensare titoli e favori. Il tutto, in questo senso, dovrebbe essere quindi giocato nel fare in modo che sia l'Università ad essere ambita dai suoi possibili fruitori e non i suoi possibili fruitori ad essere ambiti dall'Università quale numero da gettare sulla bilancia delle trattative per la spartizione del potere e dei contributi ministeriali. Ma, per giocare questo gioco, occorrerebbe una diffusa serietà che ora non c'è e il coraggio di spezzare le camarille che ora non c'è. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 14 giu. ’05 RICERCHE TRUCCATE SU PRESSIONE DEGLI SPONSOR Falsificati gli studi clinici. Il 15% degli intervistati ha cambiato i risultati «perché giudicati non veritieri» L’ammissione degli scienziati nei laboratori Usa. «Progetti modificati senza rispettare le regole etiche» Non si tratta di grandi frodi scientifiche come l’«invenzione» dei misteriosi raggi N emessi dal corpo umano, proposta da René Blondot nel 1903 o la questione dei topi dipinti da William Summerlin che voleva così provare la possibilità di trapianti fra specie diverse, oppure lo scandalo che aveva coinvolto David Baltimore, nientemeno che un premio Nobel (l’aveva ricevuto nel 1975 con Renato Dulbecco), accusato qualche anno fa, insieme con la sua assistente Thereza Imanishi Kari, di avere pubblicato dati falsi. Niente di così vistoso, ma tante piccole «correzioni» che molti ricercatori ora confessano di apportare ai loro lavori e che rischiano di minare la credibilità e l'integrità della scienza stessa. Quella americana in particolare, dal momento che l’indagine nel mondo dei laboratori è stata condotta proprio negli Stati Uniti dalla Health Partners Research Foundation di Minneapolis. Brian Martisson, Melissa Andersson e Raymond de Vries, tre universitari americani specializzati in etica, hanno posto domande sulla correttezza delle loro ricerche a decine di ricercatori, più o meno giovani, il cui lavoro era finanziato dai National Institutes of Health, un’istituzione di ricerca pubblica. Moltissimi, fra i 3.247 che hanno riposto, hanno dichiarato di avere, in qualche misura, truccato le ricerche. Almeno un terzo ha ammesso di non avere rispettato certe regole etiche negli studi clinici, quelli che coinvolgono i malati, o di aver «coperto» colleghi che utilizzavano dati falsi, o di avere proposto interpretazioni non corrette dei dati stessi. Soltanto una piccolissima percentuale, lo 0,3%, ha confessato di avere completamente falsificato uno studio o di avere copiato un lavoro da altri. Ma un buon 15% ha dichiarato di avere modificato il progetto, la metodologia o i risultati per la pressione degli sponsor commerciali. Un altro 15% ha rivelato di avere modificato i risultati perché istintivamente non li giudicava veritieri. E oltre il 27% ha detto di non tenere una documentazione dei progetti di ricerca. In America circola un detto nel mondo scientifico: publish or perish , pubblica o perisci. Perché è una questione di visibilità per i ricercatori che vengono contesi dalle università. E una questione di finanziamenti. Chi produce risultati di ricerca e li comunica alla comunità scientifica attraverso le riviste può sperare in un supporto finanziario, sia pubblico che privato. Ecco perché la lotta fra i gruppi è serratissima e, a questo punto, non sembra escludere nemmeno i colpi bassi. Adriana Bazzi _______________________________________________________ Il Sole24Ore 17 giu. ’05 «SENZA LA RICERCA L'ITALIA IN LENTO DECLINO RISCHIA IL POSTO AL G-7» LA PROVOCAZIONE DI GRILLI ROMA «Dobbiamo essere consapevoli che senza rischiare nei nuovi settori non c'è sviluppo. Si va incontro a un lento declino. Che per l'Italia può significare, per esempio, la perdita del posto a un tavolo importante come il G-7 e l'approdo a tavoli più allargati». Vittorio Grilli riceve dal Club dell'Economia il Premio Tarantelli per la miglior idea economica del 2004: la creazione dell'Istituto italiano di tecnologia (Iit) di cui è Commissario unico. II direttore generale del Tesoro ringrazia e prende la parola. Non ne approfitta per cantare le "magnifiche sorti e progressive" dell'economia italiana. Affronta invece il tema della competitività da un'angolatura particolare: quella della ricerca, appunto. E non nasconde la realtà. «E il mercato che deve fare la sua parte, rischiando - afferma il direttore generale del Tesoro ; l’Iit, e la ricerca pubblica in generale, possono diffondere il contagio, ma perché questo accada occorre che il sistema sia vivo: non si contagia un sistema ridotto a un minerale o un fossile». L'obiettivo di destinare il3% del Fil alla ricerca di cui l’ 1% a carico dello Stato e il 2% a carico delle aziende private «è ambizioso per tutti i Paesi europei, ma ancor più lo è per l'Italia» sostiene Grilli. Nel 2002 la media europea era pari all' 1,93% del Pi contro il 2,69% degli Stati Uniti e l'1,16% (con la metà di fonte pubblica) dell'Italia. Dove la situazione è migliorata nel 2004 e ne: 2005: la ricerca pubblica è infatti salita allo 0,63 e allo 0,72% del Pi secondo le prime stime del ministero dell'Istruzione. «È sulla percentuale di investimento in ricerca del mondo privato che mostriamo ancora forti debolezze - spiega Grilli -. La percentuale del finanziamento pubblico sul totale risulta infatti essere ben oltre il 50%, mentre è un terzo nella media della Ue a 15 e un quarto negli Usa, un quinto nel Giappone. In Italia ricerca pubblica e privata sono ancora due mori di che procedono su binari paralleli. Dobbiamo migliorare sotto l'aspetto delle sinergie, dei progetti di collaborazione tra pubblico privato, dove occupiamo l'ultimo posto tra i Paesi dell'Ocse». Ci può essere un effetto statistico: in Italia prevalgono le piccole imprese, i cui investimenti nella ricerca sono difficilmente rilevabili. La verità però è che tra i primi 100 investitori europei in ricerca e sviluppo nel 2003 c'erano solo cinque gruppi italiani: Ifil, Finmeccanica, Telecom, Pirelli ed Eri. «La globalizzazione dei mercati e del sapere - osserva Grilli - impone oggi di competere innovando. A dettare i tempi non sono solo i Paesi al vertice del G7, come gli Stati Uniti, ma sono ormai i Paesi in via di sviluppo: India e Cina, per esempio, hanno una forte strategia Paese che accanto a un costo del lavoro competitivo vede importanti investimenti in scienza e tecnologia, oltre che in risorse umane ad alta specializzazione». Invece «i dati economici dell'ultimo decennio rivelano che il nostro paese ha difficoltà a competere, non riuscendo a modificare con sufficiente velocità il proprio modello produttivo, basato essenzialmente sulla competitività dal lato dei costi, in uno che punti maggiormente sul contenuto tecnologico dei prodotti». Risultato: la quota di mercato dell'Italia si è ridotta di un terzo in meno di dieci anni. «È chiaro - conclude Grilli - che il problema di cui soffre il nostro paese non è di natura congiunturale, ma strutturale e ha a che fare in maniera profonda con il modo in cui il capitale umano viene progettato, costruito e utilizzato». Da qui il richiamo a un maggiore impegno, pubblico e privato, nella ricerca, la necessità di puntare sull'istruzione, la rivalutazione delle regole meritocratiche. E la scommessa dell' Iit, il Mit italiano. Anche se poi tutto passa per una regola antica dell'economia che proprio Ezio Tarantelli, l'economista assassinato nel 1985 dalle Brigate Rosse, aveva ben sintetizzato in un articolo del 1980: «Gli investimenti nuovi non vengono se sono alti i profitti presenti, che derivano dagli investimenti passati, ma se sono alti i profitti che gli imprenditori si attendono per il futuro». E niente più di un "ambiente innovativo" orienta in senso positivo le aspettative di un sistema economico. ORAZIO CARABINI _______________________________________________________ La Repubblica 15 giu. ’05 L’80% DEI GIOVANI TROVA LAVORO GRAZIE ALLE AMICIZIE GIUSTE Metà dei figli di professioni dirigenti conclude l'università, contro il 10 e 7% dei figli di negozianti e operai C'è un gruppo di facoltà -universitarie che richiede costi individuali e familiari minori : è la via verso il precariato MAURIZIO RICCI ROMA- Trovo Silvano sul telefonino a Londra, dove è andato per lavoro. Figlio di laureati in legge, Silvano ha sempre voluto diventare ingegnere. Maturità scientifica nel 1992, laurea con 110 e lode nel'99, è partito subito militare ed ha cominciato a lavorare, il giorno del congedo, per una società internazionale di consulenza. Sponsorizzato dall'azienda, ma a sue spese, ha fatto un master alla Bocconi e poi in America. Oggi, a 31 anni, è dipendente a pieno titolo e guadagna intorno a 70 mila euro l'anno, un po' meno di 3 mila euro, nette, al mese. Flavio, invece, lo trovo sul telefono fisso di casa, quella dei genitori. Né papà né mamma hanno finito l'università: uno gestiva una piccola azienda di pubblicità,l'altra lavora alle dogane. Maturità scientifica nel'95, laurea in Scienza delle comunicazioni, con 108, nel 2002: "sembrava il mestiere del futuro" dice. Invece, in tre anni, è riuscito a collezionare solo qualche "contratto a progetto". "Futuro zero, per quanto tu possa essere bravo: al padrone interessa il progetto, non tu". In tutto, ha lavorato per dieci mesi, sommando tre o quattro contratti, mai più lunghi di tre mesi. Adesso, a 2& anni, spera di aver centrato un contratto un po' più lungo, da settembre, con la Regione: 8-9 mesi, 30 ore di lavoro al mese, per uno stipendio di 5-600 euro. Sono due storie ai due estremi dell'onda di laureati che, anno dopo anno, l'università riversa nel calderone della società. Una, probabilmente, più esemplare dell'altra. Silvano è al top e sa di esserlo. "Attenzione - avverte - io non sono un benchmark", una pietra di paragone: "bene come a me è andata a pochissimi, anche fra i miei compagni di università". Flavio, invece, quando riguarda intorno, si trova tutt'altro che solo. "Molti dei miei compagni dice - dopo la laurea hanno lasciato perdere e sono tornati, ad esempio, in negozio dai genitori". O lo hanno aperto, come Lucia: figlia di impiegati, a 32 anni, dopo la lunga gestazione di una laurea in Scienza delle comunicazioni, alla fine sta per prenderla, ma solo per aprire un negozio di prodotti naturali. Sullo sfondo di queste storie, l'annuncio che tre quarti dei nuovi laureati sono anche i primi laureati delle loro famiglie dice, forse, della società italiana, un po' meno di quello che sembra. Aver finito l'università, naturalmente, conta: la divisione fra laureati e non laureati è uno dei grandi spartiacque sociali. "La laurea -sottolinea Maurizio Pisati, che insegna sociologia a Milano -fa fare il grande salto. L'analisi degli ultimi venti anni dimostra che il famoso "pezzo di carta" ha ancora intatto il suo valore". Non è un salto uguale per tutti. I dati di Pisa ti mostrano che, ad approfittare del rigonfiamento delle iscrizioni all'università, sono stati in massa anzitutto i borghesi, i figli di imprenditori, dirigenti, professionisti e, via via decrescendo, i figli di impiegati, di commercianti, di operai. Non in numeri assoluti, certo: figli e figlie di commercianti e operai sono enormemente aumentati all'università. Ma in proporzione alla classe d'origine. Per dirla con i sociologi, in termini di opportunità. Un figlio della borghesia ha il50 per cento di possibilità di laurearsi, un figlio di impiegati il30, di commercianti il 10, di operai il 7-8 per cento. Rispetto a 100 anni fa, quando il20 per cento dei borghesi e l0 per cento degli operai si laureava, la forbice delle opportunità non si è ristretta, si è allargata. 11 grande volano di disuguaglianza-secondo Pisati – comunque è la scuola fatta prima. Dei nati negli anni'70, partono in 100 alle elementari, ne arrivano all'università 31. Dentro ci sono tutti i figli della borghesia, ma, per gli altri, in quote decrescenti". Una volta dentro, tuttavia, la laurea è un grande passaporto, anzitutto per il mondo del lavoro. Di cui fruiscono tutti. L'Istat ci informa che tre quarti dei laureati del 2001, aveva un lavoro nel 2004. Ma quale lavoro? Ecco un'altra divisione: non tutte le lauree sono uguali. Poco più di metà dei laureati, infatti, ha trovato imposto fisso. E, qui, le differenze sono evidenti. Fra i laureati in lettere che hanno trovato un lavoro, neanche un terzo ha un contratto a tempo indeterminato. La percentuale sale al 34 per cento per gli psicologi, al 50 per cento per quelli che hanno fatto Scienze politiche. Ma è fra i due terzi e i quattro quinti per i laureati in ingegneria, in scienze, in medicina, in architettura, in economia, in legge. In più, non è il lavoro a cui pensavano: metà dei laureati in scienze umanistiche e sociali, al contrario dei loro colleghi delle altre facoltà, fa un lavoro per cui non occorreva avere la laurea. Si sono accontentati di quello che hanno trovato. Le storie di Silvano di Flavio, di Lucia si specchiano nei dati dell'Istat. E' difficile cogliere questi dubbi, nell'eccitazione che, la sera della tesi, celebra, davanti alla fa miglia allargata, in salotto o al ristorante, il primo laureato di casa. E, d'altra parte, non c'era bisogno di aspettare l’Istat, per sapere che, sul mercato, ingegneria vale più di lettere. Ma le carte erano segnate, prima ancora di uscire dal mazzo? Secondo i dati raccolti da Pisati, è al top della scala sociale che, più facilmente, si scelgono i corsi, per cosi dire, a più alto valore aggiunto: ingegneria, medicina, legge o una materia scientifica. Lettere sta a metà, mentre le lauree a impostazione politico-sociale sono favorite nella metà più bassa della scala. L'unica sorpresa è Economia, assai ambita dalla piccola borghesia dei commercianti. Secondo Benedetto Vertecchi, che insegna pedagogia a Roma, c'è un altro indicatore indiretto: il grande afflusso all'università, numericamente sostenuto dalle classi meno favorite, ha gonfiato certe facoltà piuttosto che altre. "Se gli iscritti a Musica e Spettacolo – osserva - sono dieci volte il totale degli iscritti a tutti i corsi scientifici, qualcosa non funziona". Sono le facoltà che meno richiedono frequenza, senza i vincoli dei laboratori e che, dunque, consentono un impegno più irregolare, lasciano spazio ad un lavoro, esigono un minor investimento personale e familiare. Complessivamente, infatti, la nostra è una università con oltre l’&0 per cento di fuori corso e il 70 per cento di studenti impegnati, sia pure saltuariamente, in qualche lavoro. Vertecchi definisce queste facoltà 9a via povera agli studi", nel senso del suo costo, ma anche del suo risultato. Da questo punto di vista, sostiene, "la selezione sociale, che si era indebolita negli anni 70 e 80, si ripresenta a partire dagli anni 90. Ad alimentarla, c'è anche il progressivo svuotamento, riforma dopo riforma, dei canali istituzionali dell'istruzione. "Quanto meno sostanzioso l'apporto degli studi secondari, tanto più importante diventa quella seconda scuola che è la famiglia". Quell'antica divisione di casta che, una volta, segnava chi aveva fatto il liceo classico e chi no, si ripresenta sotto una nuova forma. Il nodo è sempre quello di allargare la cultura di base, moltiplicare il tasso di esperienze, allenare la capacità di interpretare e inquadrare situazioni nuove, avere il tempo e la possibilità di imparare anche quello che non serve subito. In una scuola indebolita, questa funzione oggi, secondo Vertecchi, ricade sulle famiglie: le lingue, i viaggi, gli studi all'estero che, oggi, solo il 10 per cento degli studenti italiani compie, tutto ciò che è cultura non scolastica. Dai libri di casa all'esperienza, sia pure occasionale, di tin concerto che non sia solo quello di un cantante rock. "Arricchire il profilo" dicono gli studiosi di pedagogia. Tutto questo, di cui i più sono "drammaticamente sprovvisti", infatti, alla lunga, dopo la laurea, secondo Vertecchi, si incassa: "gli studi internazionali mostrano che una cultura che crea solo competenze specifiche ha un tempo relativamente breve, quello delle specifiche competenze". "Poi entra in gioco la capacità di adattamento, di risolvere problemi, di interpretare testi, di affrontare situazioni sconosciute". La cultura di base, la laurea, possibilmente quella "giusta", e la famiglia "giusta". Ma a sgelare il ricambio sociale non c'è anche l'intraprendenza individuale, la somma delle success story dei singoli che sono stati capaci di aprirsi la loro strada? Be, in verità, poco. Se sul tasso di mobilità sociale, cioè di allarga mento delle classi superiori, da una generazione all'altra, molti sono pronti a discutere, sulle possibilità di promozione personale del singolo, i dubbi sono pochi: a livello generale, l'Italia è tino dei paesi meno meritocratici d'Occidente. "La differenza con gli altri paesi, quando si guarda alle carriere, è drammatica" dice il sociologo Antonio Schizzerotto.Merito? Iniziativa individuale? All'estero, il 50 per cento dei giovani trova lavoro grazie al network di amici, parenti, conoscenti. Il resto ci riesce da solo. In Italia, è questa rete di sostegno a catapultare nel mondo del lavoro l’80 per cento dei giovani" sottolinea Giuseppe Roma, direttore generale del Censis. "E, quando entrano, si fermano". L'italiano entra in un ufficio o in una fabbrica in una casella (spesso mediamente più elevata di quella che sarebbe all'estero) e poi si muove, al massimo. una casella più su. "Il 90 per cento dei laureati - dice Schizzerotto - comincia e finisce come impiegato di concetto". Il sociologo Ivano Eison ha studiato le carriere degli italiani. Dieci anni dopo l'ingresso nel mondo del lavoro, l'85 per cento degli impiegati è ancora impiegato e l’80 per cento degli operai è rimasto operaio: solo il 10 per cento è riuscito a diventare impiegato. Meno di un quarto degli operai non qualificati ha raggiunto la casella di operaio qualificato. In totale, due terzi degli intervistati, dieci anni dopo stanno esattamente al punto in cui avevano iniziato. Progressi? Zero: fra i nati dopo la guerra e quelli nati negli anni 70 nulla sembra cambiato. _______________________________________________________ Il Sole24Ore 17 giu. ’05 UNIVERSITÀ: L'ITALIA NON AIUTA I MIGLIORI I ricercatori universitari diventeranno un ruolo a esaurimento: i nuovi ricercatori saranno assunti con un contratto triennale, rinnovabile una sola volta. Poi dovranno vincere un concorso o lasciare l'università. Ma questo è precariato! Contrordine: i ricercatori, chiamati «professori aggregati», saranno assunti a tempo indeterminato dagli atenei. Ma questa è una sanatoria ope legis! Si ritorni al contratto triennale: rinnovabile però a piacere. Non è fantapolitica, è successo in questi giorni alla Camera, in sede di discussione e approvazione dell'ultimo disegno di legge sull'università. Che cosa deve concluderne un ricercatore brillante in grado di proseguire i propri studi all'estero? La qualità di ogni sistema universitario dipende dai suoi docenti, e quindi dalle regole per nominarli. Oggi nei concorsi locali non vincono quasi mai i migliori, bensì i candidati dell'ateneo che bandisce il concorso. Si ritorna ai concorsi nazionali, vigenti fino a qualche anno fa, come prevedeva il disegno di legge approvato mercoledì alla Camera? No: un emendamento dell'opposizione ripristina i concorsi locali, sia pure escludendo dalle commissioni giudicatrici i docenti dell'ateneo che ha bandito la cattedra. In questo modo il testo approvato risulta intrinsecamente contraddittorio: con tanta leggerezza maggioranza e opposizione trattano l'istruzione e la ricerca! Che cosa deve concluderne un giovane docente che abbia ricevuto una proposta allettante da un'università straniera? Sono domande pleonastiche: il brillante ricercatore e il giovane docente non avranno dubbi, faranno di corsa le valigie. Siamo ancora in tempo per salvare i nostri atenei, cioè il Paese, dal disastro? Forse si, con un po' di buon senso e di buona volontà. Invece sia la maggioranza, che oscilla come una banderuola, sia l'opposizione, che grida contro il "precariato" e grida contro le "sanatorie", fanno di tutto per dimostrare il contrario. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 16 giu. ’05 MORATTI: IN CRESCITA BREVETTI E PUBBLICAZIONI SCIENTIFICHE» Il ministro dell’Istruzione al convegno del Cnr: il trend è positivo Buttiglione: bisogna investire, anche chiedendo sacrifici ai cittadini ROMA - «Il trend è in crescita». Parole da economista per il ministro Letizia Moratti al convegno del Cnr sulla ricerca in Italia. E lei è soddisfatta, anche se «occorre fare di più, certamente», anche se la crescita percentuale «sembra altissima ma è perché partivamo da livelli molto bassi», anche se il mondo della ricerca è in rivolta, anche se i dati si fermano al 2002 e qualcuno al 2003. Ma la crescita c’è, ed è questo il segnale che il ministro dell’Istruzione, università e ricerca voleva dare davanti a una platea di grandi personalità della scienza, tra cui Rita Levi Montalcini, e politici, dal ministro per i Beni culturali Buttiglione al responsabile dell’Ambiente Matteoli. «Negli ultimi anni - ha detto la Moratti - i ricercatori impiegati nell’industria sono aumentati del 2% e sono cresciuti del 48% gli investimenti diretti in Italia, mentre si registra pure un aumento dell’export, dei brevetti, più 47%, e delle nostre pubblicazioni scientifiche». Ma non è tutto: «La mobilità internazionale dei ricercatori è aumentata, dal 2,4% al 3,3%, vuol dire che alcuni "cervelli" sono rientrati». Letizia Moratti ha detto poi di concordare pienamente con il ministro Buttiglione che ha sentenziato: «Il Paese vive un momento molto difficile. Il governo ha il dovere di darsi delle priorità e di chiedere anche ai cittadini dei sacrifici. Prima fa questo, meglio è. Secondo me su alcune cose bisognerà tagliare, ma non sui Beni culturali e sull’Istruzione e ricerca, settori dove si deve investire anche in tempi di vacche magre. Questo chiedo al governo e spero di essere sostenuto. Lo vedremo nella Finanziaria». M. Io. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 16 giu. ’05 GIUGNI: CONCORSI COMBINATI NEGLI ATENEI Lettera ai colleghi: degenerazione grave nella selezione all’interno della comunità scientifica Clamorosa denuncia del decano dei giuslavoristi: scelte senza meritocrazia Il professore ha deciso di uscire allo scoperto con una lettera inviata ieri a tutti i colleghi attraverso Labourlist, la mailing list della categoria. «Nella mia qualità di collega tra i più anziani, prendo spunto da diversi episodi recenti per manifestare la mia preoccupazione di fronte a quella che mi appare una degenerazione grave nei rapporti interni alla nostra comunità scientifica». «Il mio auspicio - conclude Giugni - è che tutti i colleghi giuslavoristi di buona volontà uniscano il loro impegno per riportare serenità, trasparenza, e ancor più equità nelle scelte accademiche». La lettera ha suscitato scalpore nella categoria. Molti, moltissimi ne condividono in pieno la denuncia e sottolineano il coraggio e l’opportunità dell’iniziativa di Giugni. Quasi con un senso di liberazione: «Era ora che venisse fuori». Ma nessuno o quasi accetta di uscire allo scoperto. Molti descrivono un sistema dove gli esiti dei concorsi sarebbero di fatto predeterminati da accordi gestiti da un gruppo ristretto di «baroni» che di volta in volta aprirebbe la strada all’un candidato o all’altro non tanto secondo logiche meritocratiche ma piuttosto in base a criteri spesso clientelari o nepotistici. Qualcosa che più o meno c’è sempre stata, ma che adesso avrebbe raggiunto livelli sfrontati, con candidati ai quali si direbbe chiaramente che non è il caso si presentino perché non è ancora il loro turno e intese nelle commissioni esaminatrici per far passare di regola il candidato interno dell’Università con priorità su tutti gli altri. Molti, quindi, confermano e arricchiscono di particolari quanto denunciato da Giugni, a patto però di mantenere l’anonimato. Perché, sostengono, «se esco allo scoperto, me la fanno pagare: non mi fanno più passare nessuno dei miei». Bisogna arrivare così a un altro decano dei giuslavoristi, Umberto Romagnoli, già maestro di Marco Biagi, e altro grande nome del diritto del lavoro accanto a quello di Giugni, per raccogliere un commento non anonimo: «Gino ha perfettamente ragione. Il numero dei promossi coincide sempre col numero dei candidati». Secondo Romagnoli ci sarebbe un sistema di «cooptazione, rigidamente centralizzato di stile staliniano» gestito da «un gruppo di cattedratici intraprendenti». Chi sono? «Nell’ambiente li conosciamo tutti», risponde il professore senza però voler fare i nomi. «Ma adesso - aggiunge - è ora di voltar pagina. L’appello di Gino non cadrà nel vuoto. Sarà seguito da iniziative per riportare trasparenza». È probabile che lo stesso Romagnoli e altri docenti promuovano raccolte di firme sotto documenti di denuncia del sistema. Anche Michele Tiraboschi, allievo di Biagi, condivide pienamente la denuncia di Giugni e descrive un clima pesante che graverebbe sui concorsi. All’Università di Modena, tra l’altro, un concorso per un posto di ricercatore è finito oggetto di un ricorso al Tar, il tribunale amministrativo regionale. E c’è anche il caso di un concorso all’Università di Cassino dove su un candidato un commissario ha dato alla fine il proprio giudizio positivo «solo in considerazione degli standards valutativi comunemente adottati nell'ambito della materia, specie negli ultimi tempi». Come dire che visto che la qualità dei promossi si è progressivamente abbassata... tanto vale adeguarsi. Va quindi detto, come pure Romagnoli riconosce, che le responsabilità della categoria non sono poche. Del resto, le commissioni esaminatrici vengono elette dagli stessi docenti. Che quindi, volendo, potrebbero rinnovare i collegi giudicanti e determinare equilibri diversi. Ma, secondo quanto raccontano gli stessi professori, «la partecipazione alle elezioni è bassissima». La degenerazione del sistema, concordano, «va avanti da una quindicina d’anni e nessuno l’ha denunciata per amore del quieto vivere e per opportunismo: adesso, però, basta». Enrico Marro ___________________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 17-05-2005 NEGLI ATENEI UNA GUERRA PER BANDE IL COMMENTO dr PIETRO ICHINO Dopo la lettera di Gino Giugni sul malcostume dominante nei concorsi universitari, di cui il Corriere ha dato conto ieri, i non addetti ai lavori si chiedono come possa accadere che i professori - persone per lo più oneste e perbene, se prese una per una quando interagiscono tra loro cedano talora alle peggiori pulsioni dell' animo umano. In qualche misura questo è sempre accaduto. Ma il fenomeno denunciato da Giugni ha una sua specificità, che merita di essere spiegata. Dopo la riforma del 1998, i concorsi universitari non sono più accentrati al livello nazionale: ogni ateneo può bandire il concorso per coprire una propria cattedra o un posto di ricercatore. La commissione cui il concorso è affidato è composta da un membro designato dalla facoltà interessata e da altri due o quattro eletti da tutti i professori della materia. Negli intendimenti del legislatore, le cose avrebbero dovuto svolgersi cosi: i professori che intendono sostenere un aspirante ricercatore o professore, per essere eletti nella commissione, chiedono il voto dei colleghi di tutta Italia; ognuno di questi vota per il professore che sostiene il candidato considerato migliore; in questo modo la scelta del nuovo ricercatore o professore è indirettamente compiuta dall'intera comunità accademica, tra tutti i candidati in competizione. Perché, invece, le cose non funzionano cosi? Perché il sistema non è dotato di una autorità antitrust, capace di impedire i «cartelli». Cosi può accadere che due gruppi minoritari di sostenitori di due candidati deboli, alleati tra loro, riescano a battere i sostenitori del candidato migliore, accordandosi per ripetere l'operazione in due concorsi successivi. Per evitare questo gioco scorretto, in molti settori i professori si danno spontaneamente un organo di coordinamento informale, che decide chi deve essere promosso e fornisce di volta in volta le indicazioni di voto corrispondenti. La cosa funziona decentemente finché questo organo opera in modo equo. Può accadere invece che l'organismo ;spontaneo privilegi in modo eccessivo gli allievi di una parte, penalizzandone un'altra, In questo caso, l'altra può cercare di organizzarsi a sua volta; e allora si instaura una guerra per bande, in cui la banda maggioritaria riesce a far man bassa di tutti i posti messi a concorso. Ma questo non è ancora il peggio. Il peggio - ed è quello che Gino Giugni denuncia-accade quando alcuni membri del gruppo dominante cercano di impedire sul nascere l'aggregazione alternativa, accompagnando le proprie indicazioni di voto con la minaccia terribile al collega dissenziente o al giovane aspirante alla promozione: «Se non segui le nostre indicazioni, sarai iscritto in un libro nero e d'ora in poi sarai tagliato fuori». Si obietterà che i professori penalizzati potrebbero «sfidare» i prepotenti organizzando l’alternativa. Ma, oltre alle minacce che spaventano i più, altri due ostacoli lo impediscono. Innanzitutto, organizzare l'alternativa richiede che si spenda un tempo infinito al telefono o a scrivere messaggi email, per tessere la nuova rete; e i professori che potrebbero farlo più credibilmente sono i migliori, cioè quelli che il loro tempo lo impegnano a insegnare e a fare ricerca: non ne hanno da dissipare nelle beghe accademiche. Quand'anche poi questi trovassero il tempo per farlo, dovrebbero riuscire a convincere i professori meno bravi, e/o con allievi meno brillanti, ad abbandonare la loro posizione in coda nell'anticamera dell’organo di coordinamento, per dar vita a un sistema di competizione più libero e aperto; senonché i meno bravi non amano molto la vera competizione. In ultima analisi sono proprio questi ultimi ad alimentare con le loro paure il gioco perverso. Ben venga qualsiasi nuova legge che valga a disattivare questo gioco. _______________________________________________________ Corriere della Sera 17 giu. ’05 CONCORSI COMBINATI: CORO DI SI A GIUGNI Dopo la denuncia del decano dei giuslavoristi sulle degenerazioni nelle università. E su un forum online: la realtà è ancora peggiore ROMA - Concorsi combinati, cooptazione staliniana, degenerazione del sistema di selezione. La denuncia di Gino Giugni, decano dei giuslavoristi, apparsa ieri sul Corriere della Sera ha scosso il mondo accademico. Come una frustata. E raccolto molte adesioni, qualche distinguo e nessuna contrapposizione. Ma già per lunedì è prevista una riunione di un gruppo di docenti di diritto del lavoro per tentare una presa di posizione collettiva. Con proposte operative per ridare ai ricercatori e ai docenti la dignità di partecipare a esami basati sulla meritocrazia e non su favoritismi. Per Carlo Dell'Aringa, ex presidente dell'Aran (l'agenzia del pubblico impiego) e docente alla Cattolica di Milano, Giugni «ha colpito nel segno». La causa, per Dell'Aringa, va ricercata soprattutto nella «delocalizzazione» dei concorsi che una dozzina di anni fa non sono stati più fatti a livello centrale. «In sostanza», spiega il professore, «si sono decentrati i concorsi senza decentrare fino in fondo le responsabilità delle Università che, dietro il paravento del valore legale del titolo di studio, non sono in concorrenza tra di loro». La degenerazione di cui parla Giugni, per Dell'Arigna, sta soprattutto nel meccanismo dell'anzianità che ha mortificato lo stimolo all'eccellenza. Tiziano Treu, ex ministro del lavoro ed esponente della Margherita, è concorde in linea di massima con il richiamo fatto da Giugni e dà la colpa alla incredibile proliferazione di concorsi in questi ultimi anni. «Mi sembra che siamo arrivati alla cifra di 130», afferma Treu, «più di quanti ce ne sono nell'intera America del Nord tra Usa, Canada e Messico messi insieme». Ovvio che la qualità si abbassa. I rumor maggiori si sono verificati nel sito Labour Web, gestito dal. centro studi europei Massimo D'Antona (il giuslavorista ucciso dalle Brigate rosse nel 1999) e dalla facoltà di giurisprudenza di Catania. Sul forum di quel sito - Labourlist, che raccoglie on line 436 giuslavoristi -- il dibattito si è aperto. Giuseppe Ferraro, docente a Napoli, rincara la dose. «Caro Gino», scrive, «purtroppo la situazione reale è molto più degenerata di quella che denunci. Si sono imposte pratiche negoziali che spesso finiscono per privilegiare concorrenti modesti». Ferraro continua denunciando una «maniacale concentrazione organizzativa» e critica molti colleghi che «manifestano atteggiamenti di ineluttabilità se non di supina accondiscendenza». Bruno Caruso, professore a Catania e uno degli animatori di Labour Web, suggerisce di fermarsi a riflettere e si chiede se in qualche passaggio Giugni non abbia forse esagerato. «Se però un professore anziano ed emerito sente il bisogno di scrivere certe cose», dice sul Forum Caruso, «qualcosa che assomigliava ad un equilibrio si deve pur essere rotto». Tra i non allineati alla denuncia del padre dello Statuto dei lavoratori, vi è Mattia Persiani, docente di diritto del lavoro alla Sapienza di Roma, che tuttavia preferisce non entrare nel merito e chiudere la polemica con un «no comment». Dello scandalo dei concorsi combinati se ne occupa anche la politica. Il segretario della Federazione dei giovani socialisti, Gianluca Quadrana, invita infatti a non far cadere nel dimenticatoio la denuncia di Giugni. «Le parole del professore socialista», afferma Quadrana, «scoperchiano una pentola maleodorante nella quale sono finite cucinate molte giovani intelligenze». Quello che ci appare più irritante e frustrante, aggiunge il dirigente dello Sdi, è che a rimetterci non è solo il singolo, ma l'università e l'intero Paese. «Speriamo», conclude Quadrana, «che il coraggio di Giugni non cada nel dimenticatoio e sia da pungolo per la coscienza dei docenti colpevoli e di supporto per i giovani studiosi nel denunciare le malversazioni subite». Roberto Bagnoli _______________________________________________________ Il riformista 17 giu. ’05 LAVORO: ANCHE I BOCCONIANI PIANGONO. Sembra finita la mistica del neolaureato col lavoro in tasca, quando bastava uscire dall'ateneo di via Sarfatti che ti si aprivano magicamente le porte di aziende, società e studi internazionali. Intendiamoci: non è che i bocconiani abbiano smesso di avere appeal sul mercato del lavoro, anzi: l'Istat ha calcolato che a tre anni dalla laurea esattamente l’82,2% di loro lavora in modo continuativo. Insomma molto meglio di altri atenei, se teniamo conto che la media nazionale a tre anni si ferma a un misero 56,4%. A essere crollato, quindi, non è la facilità nel trovare lavoro, bensì quella di ottenere il mitico posto fisso. Proprio cosi, anche per la laurea usato sicuro della Bocconi. Nel senso che la concorrenza non guarda più in faccia nessuno. La prova? Se incrociamo i dati suddetti con quelli di un'altra statistica, questa volta della Camera di Commercio di Milano, notiamo che dopo due anni dal conseguimento della laurea gli studenti Bocconi che hanno un posto fisso è scesa dal 55 al 43 % rispetto al precedente rilevamento. Che significa? Banalmente: che le società di ricerca personale hanno pile di curriculum da smaltire, e da qualche tempo a questa parte, anche di bocconiani, tanto che a Milano sono ormai in molti a essersi convinti che una laurea sola non basti (+188% nelle immatricolazioni nei corsi post laurea nell'ultimo decennio). Anche se "firmata" Bocconi... ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 16 giu. ’05 SCIENZE POLITICHE, RAFFAELE PACI FA IL BIS Rielezione scontata per Raffaele Paci, che sarà nuovamente alla guida della facoltà di Scienze politiche per il prossimo triennio. Le operazioni di voto hanno dato un esito che ha soddisfatto il preside uscente: su 52 votanti, 41 sì, 10 schede bianche e una nulla: «È un consenso che mi permette di guardare ai prossimi tre anni con fiducia e con voglia di lavorare ? commenta Paci subito dopo la rielezione ?. Un triennio che ci vedrà impegnati nel completamento della riforma didattica, e a dare risposte agli studenti che sempre più scelgono Scienze politiche e che possono guardare al futuro lavorativo con ottimismo, per gli sbocchi occupazionali che l'indirizzo di studio sta dando». E se il buon funzionamento di un polo universitario si vede dai numeri, l'incremento delle immatricolazioni, con il record dell'ultimo anno accademico (1.203 iscrizioni), l'aumento dei laureati e la riduzione dei fuori corso, sono certamente elementi a vantaggio del preside riconfermato. La classifica annuale del Censis posiziona Scienze politiche al primo posto nell'ateneo cagliaritano. Nove docenti già inseriti nel personale della facoltà, altri sedici che arriveranno in poco tempo: «Nonostante questi ingressi ? spiega il preside ? il numero complessivo di docenti è sottodimensionato rispetto alle esigenze. Accanto al potenziamento del corpo docente, c'è stato un rafforzamento dei rapporti di collaborazione a livello nazionale e internazionale, oltre a un miglioramento della visibilità esterna della facoltà». Sul fronte studenti il triennio ha visto momenti di mobilitazione, con l'occupazione di Scienze politiche: «Avevo denunciato nelle precedenti dichiarazioni programmatiche la separazione della componente studentesca dentro la facoltà ? ricorda Paci ?. La linea sembra migliorata, con gli studenti che sembrano riappropriarsi di quel ruolo di critica e stimolo, essenziale nella vita universitaria». Tra i servizi principali, il preside ricorda la costituzione dell'ufficio orientamento e tutorato didattico: «Si occupa di organizzare la didattica, monitorare le carriere studentesche e gli sbocchi professionali, organizzare i tirocini. Inoltre abbiamo rinnovato il sito Internet». Il potenziamento dei servizi (computer in biblioteca, più postazioni nell'aula informatica) è stato possibile con le risorse finanziarie del contributo facoltà degli studenti. Sul lato organizzativo della vita interna, Scienze politiche ha puntato sul decentramento: è stato adottato il regolamento didattico per disciplinare i rapporti tra facoltà e corsi di studio, sono state snellite le procedure per integrare i corsi triennali con quelli di specializzazione, e sono state assegnate competenze al personale amministrativo per il buon funzionamento dei corsi». La valutazione dell'operato non tarderà ad arrivare, anche perché la nuova riforma universitaria impone di raggiungere dei requisiti minimi per i corsi di studio. «Si dovrà avere un impegno costante del controllo della qualità dei corsi ? evidenzia il preside ?. Inoltre dovremo rafforzare i rapporti con il mondo del lavoro». A breve dovrebbe essere conclusa la biblioteca d'area. Un elemento di instabilità è la disponibilità di risorse umane, logistiche e finanziarie: «Non mi sembra che ci sia un piano di sviluppo delle facoltà esistenti ? commenta Paci ?. E intanto si propone la costituzione di tre nuove facoltà». Matteo Vercelli ======================================================= ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 15 giu. ’05 DIRINDIN TROVA 107 MILIONI A ROMA L'assessore Dirindin: «Scovati 107 milioni destinati all'Isola ma fermi a Roma» Il tesoro nascosto della sanità sarda Ed ecco che sotto una mattonella dell'assessorato alla Sanità spuntano all'improvviso 107 milioni di euro. A darne notizia, ieri, l'assessore Nerina Dirindin, al convegno organizzato a Cagliari in occasione della Giornata nazionale del malato, da Cittadinanzattiva e dal Tribunale per i diritti del malato. I soldi, provenienti da risorse aggiuntive del fondo sanitario nazionale, erano stati assegnati alla Sardegna, ma non sono mai stati materialmente erogati. La somma si compone di due diverse tranche, una da 93, e l'altra da 14 milioni di euro. «Novantatré milioni di euro dovevano servire a ripianare il disavanzo delle annualità '95 e '99. Il Governo li aveva messi a disposizione, vincolandoli però ad alcuni alcuni adempimenti, la cui esecuzione doveva essere certificata dal presidente della Giunta», ricostruisce l'assessore. Quegli adempimenti furono poi effettivamente eseguiti, salvo un particolare: «Qualcuno si è dimenticato di avvertire il presidente», spiega Dirindin. Conseguenza: i soldi sono rimasti parcheggiati a Roma. Stessa trafila per gli altri 14 milioni di euro, assegnati dallo Stato per l'anno 2000. «Come per l'altro caso, ci si è dimenticati di chiederli al Governo». In assessorato sono in corso verifiche per capire, con esattezza, a partire da quale anno i fondi potessero essere effettivamente richiesti a Roma. Un passaggio che tira inevitabilmente in ballo anche la delicata questione dell'attribuzione di responsabilità e del giudizio politico sugli amministratori. Resta poi da capire come potranno essere impiegati i nuovi fondi, e soprattutto se saranno interamente utilizzati per la sanità. Per il disavanzo delle otto Asl sarde, stimato in circa 215 milioni di euro per il 2004, nell'ultima Finanziaria sono già stati accantonati 83 milioni di euro. Annunciata la buona novella, nell'incontro di ieri l'assessore Dirindin ha dovuto fronteggiare anche tante richieste di chiarimenti su tempi e modalità di attuazione dei piani sanitario e socio assistenziale. «I due piani potrebbero essere approvati dal Consiglio regionale entro l'estate ed entro l'anno saranno pronti i documenti attuativi», risponde l'assessore: «Entrambi potrebbero partire nel 2006». Ma ieri è stata anche l'occasione per confrontarsi sui risultati di un questionario, elaborato dal Tribunale del malato, destinato a registrare la percezione dei cittadini sulle questioni sanitarie. In cima ai problemi, la carenza di personale infermieristico. «I dati dicono che non è così», risponde l'assessore, che si impegna comunque a costituire un "gruppo di lavoro" che possa verificare «eventuali usi impropri del personale». Quanto alle liste d'attesa, l'assessore conferma: «Il problema è difficile da risolvere, ma può essere aggredito con l'informatizzazione, e con l'intramoenia istituzionale», cioè la possibilità di usare i macchinari anche oltre l'orario di lavoro, senza costi per il cittadino. Roberta Mocco ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 17 giu. ’05 ASL 8. GUMIRATO DENUNCIA UN BUCO DI 116 MILIONI e presenta il suo piano Nuovi manager per il rilancio Sorrentino e Soro nominati ai vertici dell'azienda I conti dell'Azienda sanitaria sono in rosso. Il bilancio 2004 dell'Asl 8 è stato chiuso con un debito di 116 milioni e le spese hanno superato di gran lunga i ricavi determinando la crisi. È questo lo stato di salute dell'ente secondo il nuovo direttore generale Gino Gumirato che ieri ha illustrato il bilancio, spiegato i problemi da affrontare e annunciato l'inizio del risanamento dell'azienda. E come primo atto della riorganizzazione ha presentato i nuovi dirigenti, entrambi sardi. Il nuovo direttore sanitario è Giorgio Sorrentino, 50 anni, cagliaritano, in arrivo dal Brotzu dove ha già ricoperto quel ruolo e attualmente è responsabile del servizio di programmazione strategica. A capo della direzione amministrativa Gumirato ha chiamato il sassarese Giovanni Maria Soro, 34 anni, bocconiano, sino a oggi dirigente della sede romana della Società di consulenza per la pubblica amministrazione e le Asl "Engineering managemente consulting spa". Il manager ha illustrato il curriculum dei due nuovi dirigenti, mettendo a tacere le contradditorie voci sulle nomine che da giorni circolavano nell'ambiente sanitario e politico. «Per Sorrentino e Soro parlano le rispettive carriere professionali, due tecnici di indiscutibile esperienza», ha rilevato. A due mesi dall'insediamento sulla poltrona di manager della maggiore Azienda sanitaria regionale, Gumirato ha pronta una cura per riordinare i conti attraverso un piano strategico. L'obiettivo è abbattere i costi che l'anno scorso hanno superato i ricavi del 7,9 per cento: il divario evidenzia la crisi di un'azienda che occupa 6 mila dipendenti e amministra alcune tra le più importanti strutture sanitarie come l'ospedale Marino, il San Giovanni di Dio, il Santissima Trinità, il Businco, il Binaghi, il Microcitemico e il San Marcellino, e che demanda ad altre strutture private la gestione di ulteriori servizi come la radiologia, la riabilitazione e le ricerche di laboratorio. L'azienda gestisce anche 104 sedi territoriali. I CONTIDal 2003 al 2004 le perdite sono aumentate del 35 per cento passando da 76 a 117 milioni, ed è stato registrato anche un forte aumento dei costi: le spese per l'acquisto di beni sono cresciute del 13,8 per cento, quelle per i servizi del 10,5 e per i farmaci del 3,4. In aumento anche i costi del personale sanitario, cresciuti del 3,3 per cento passando dai 137 milioni 800 mila euro del 2003 ai 204 milioni 586 mila dell'anno scorso. «Prima d'ora - ha aggiunto Gumirato - non erano mai stati indicati i costi contrattuali, che poi sono stati inseriti in blocco nelle sopravvivenze passive per un totale di circa 16 milioni di euro». A questo si aggiunge che nello stesso periodo - sempre secondo le stime del dirigente - la produttività dell'azienda è diminuita del 54 per cento. LA CURAIl nuovo direttore generale ha subito chiarito che l'amministrazione non dovrà semplicemente tagliare le spese, ma riorganizzare la rete dei servizi e compiere nuovi investimenti sull'innovazione tecnologica, sull'ingegneria clinica e abbattere le barriere burocratiche che frenano la crescita e pesano sui pazienti. Gli acquisti delle attrezzature saranno programmati con piani pluriennali per evitare un'eccessiva frammentazione della spesa. Un altro problema evidenziato è la genericità con cui alcune cliniche private elencano le prestazioni erogate per conto dell'Asl: tutto ciò ostacolerebbe il controllo delle spese per i rimborsi. Questi costi sono aumentati del 27,3 per cento. Saranno riorganizzate anche le nuove sedi periferiche, perché alcune strutture (di proprietà dell'Asl o in affitto) sarebbero sovradimensionate. «Preferirei intervenire prima su questi aspetti piuttosto che sui sette ospedali dell'azienda per i quali, a parte il Microcitemico, si è già fatto molto», ha spiegato il direttore generale. IL PERSONALEIl dirigente ha ricordato che ci saranno anche interventi sul personale: i compiti dei dipendenti (dagli infermieri ai dirigenti) saranno riorganizzati e ridistribuiti in modo da aumentare l'efficienza. I primari, i caposala e i responsabili amministrativi saranno poi informati dei nuovi provvedimenti attraverso una massiccia opera di comunicazione. Sarà migliorata anche l'efficienza degli sportelli decentrati. NomineQuanto alla nomina di Soro e di Sorrentino ai vertici dell'Azienda, Gumirato ha precisato che «una deliberazione formale sarà assunta nei prossimi dieci giorni». Stamane, invece, Gumirato incontrerà l'assessore Dirindin per «negoziare» i propri obiettivi, indicati un una delibera approvata dalla giunta lo scorso 17 maggio. ____________________________________________________________ Il Mattino 12 giu. ’05 SALERNO: VIA LIBERA ALLA FACOLTÀ DI MEDICINA L’ANNUNCIO DI ZINZI «Via libera alla facoltà di medicina» Dal Ministero della Salute è pronto il nulla osta per l’istituzione della Facoltà di Medicina presso l’Università di Salerno. L’annuncio è del sottosegretario Domenico Zinzi, intervenuto ieri pomeriggio a Maiori alla convention con il segretario nazionale dell’Udc. «La Scuola Medica Salernitana continuerà a vivere con la facoltà di medicina - ha detto l’ex presidente del consiglio regionale - L’istituzione avverrà tra breve e se il nulla osta è stato emesso dal ministero, questo è merito del segretario nazionale e dei poltici locali che hanno spinto in questa direzione». All’assemblea di Maiori erano presenti anche i deputati Francesco Salzano e Leo Borea. Quest’ultimo ha annunciato un probabile cambio nei banchi del consiglio provinciale tra le file Udc. «Abbiamo tre seggi e questo non era mai accaduto anche se è in itinere la sostituzione di un consigliere» ha detto Borea riferendosi alla notizia dell’esito del ricorso presentato da Renato Iosca ai danni di Stefano Della Pietra. All’incontro erano presenti i consiglieri regionali Pasquale Marrazzo e Antonio Milo e il capogruppo Udc alla Provincia Salvatore Bottone. In il sindaco di Cava, Alfredo Messina. Assente Angelo Grillo, in rotta di collisione con la segretaria provinciale. ma.am. ____________________________________________________________ Sardegna Oggi 17 giu. ’05 SANITÀ: PROGETTI DI RICERCA IN SCADENZA, IN 80 RISCHIANO IL POSTO I cinque progetti di ricerca della sanità venuti a scadenza all’esame della Commissione competente che sta cercando di trovare una soluzione per ottanta medici, biologi e tecnici di laboratorio che rischiano di restare senza lavoro. Sulle loro prospettive e sul futuro della ricerca in Sardegna è stata sentita in audizione l’assessore regionale della Sanità, Nerina Dirindin. CAGLIARI – Audizione dell’assessore Nerina Dirindin in Commissione sanità sui progetti di ricerca (in realtà “progetti speciali per l’occupazione” secondo la legge 11 del 1988): cinque in partenza (neoplasie, sclerosi multipla, microcitemia, diabete e malattie cardiovascolari), che avrebbero esaurito il loro corso: uno è finanziabile (250 mila euro disponibili in finanziaria) sullo screening per la talassemia. Un’ottantina di persone (medici, biologi, tecnici di laboratorio e qualche impiegato) rimasti senza lavoro. “La Commissione – ha spiegato il presidente Pierangelo Masia – è chiamata a discutere su un’ipotesi di stabilizzazione (anche perché, in realtà, quei progetti hanno sopperito a carenze del piano sanitario regionale) o, comunque al riconoscimento delle professionalità acquisite (non tutte elevate, ma comunque da salvaguardare). Ora, a distanza di diversi anni (due triennalità), si tratta di fare un bilancio dei risultati ottenuti – ha detto l’assessore – su attività che, a regime, dovrebbero in parte rientrare nel piano sanitario. Una ricognizione (entro un mese l’assessorato produrrà un dossier) che servirà ad avere numeri certi (incerto, al momento, anche il numero dei dipendenti) per progettare il futuro, valutando la “quantità” di ricerca svolta in progetti dove, comunque, era prevalentemente l’aspetto dell’occupazione. Non sarà facile arrivare a soluzione, considerato il blocco del personale della sanità. Non mancano i fondi per la ricerca (c’è un filone dei Por con buone disponibilità), divisa in molti rivoli da mettere insieme attraverso, come ha proposto la Dirindin, un fondo unico. Della ricerca “parleremo con le università”. In attesa di prendere visione del dossier promesso, entro metà luglio, dall’assessore, il presidente Masia ha ritenuto preferibile rinviare una decisione. L’argomento è stato approfondito e quanto prima la Commissione sarà in grado di formulare alla Giunta una proposta adeguata. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 15 giu. ’05 LOTTA ALLA TALASSEMIA, CRONACA DI UN SUCCESSO Si impenna l'aspettativa di vita dei pazienti: determinante il farmaco contro gli accumuli di ferro La lotta contro l'anemia mediterranea ha dato risultati impensabili sino a vent'anni fa. Con i nuovi farmaci l'aspettativa di vita e le condizioni generali dei pazienti adulti sono migliorate notevolmente e la mortalità è praticamente ridotta a zero. Il reparto per la cura della Talassemie negli adulti dell'ospedale Microcitemico ha una casistica unica al mondo: 100 pazienti in cura tra i 30 e i 45 anni che hanno un tipo di vita assolutamente normale. Molti di loro si sono laureati, altri lavorano e hanno messo su famiglia. Quindici donne talassemiche hanno avuto un figlio. Una di loro due a distanza di qualche anno: il rischio di generare figli affetti dalla malattia è stato fortemente ridotto dalla prevenzione. L'approccio con le persone in cura ha giocato un ruolo fondamentale: i medici hanno sensibilizzato uomini e donne a seguire scrupolosamente la cura per diminuire l'elevata quantità di ferro nel sangue provocata dalle trasfusioni. La cura dev'essere fatta per 10-12 ore al giorno utilizzando un particolare strumento che rilascia un farmaco in grado di eliminare il ferro, potenzialmente dannoso per il cuore. «Molti pazienti non seguivano la terapia, oppure la facevano male e ciò li esponeva alle complicazioni», spiega Eliana Lai, docente associato in Semeiotica e dal 1985 responsabile del reparto che ospita il Centro per lo studio delle Talassemie dell'età post-evolutiva, in capo al dipartimento di Scienze mediche e internistiche dell'università. «In tutti questi anni abbiamo cercato di sensibilizzarli alla cura, perché prima, durante la crescita, le informazioni sulla Talassemia e sulle terapie passavano attraverso i genitori e c'era quasi una forma di distacco dalla malattia. Noi insegnamo il concetto di disturbo cronico. Da questo punto di vista la loro responsabilizzazione ha dato risultati positivi: il paziente si cura più volentieri e segue più fedelmente le indicazioni del medico, col risultato che l'aspettativa di vita è diventata paragonabile a quella dei non talassemici». Nei primi anni Ottanta, invece, i pazienti erano mal depurati dal ferro e la mortalità dovuta a complicazioni era del 30 per cento. I primi risultati si sono registrati a metà anni Novanta, quando è stato applicato su larga scala il farmaco Desferal e la percentuale è scesa al 10 per cento. La cura definitiva è il trapianto di midollo osseo, che però non può essere fatto da tutti i pazienti: solo il 30 per cento, infatti, ha un donatore compatibile in famiglia. Oggi, nonostante i risultati ottenuti attraverso la cura e la prevenzione, in Sardegna ci sono circa 1500 malati che vengono curati nei centri di Iglesias, Carbonia, San Gavino, Oristano, Nuoro, Sassari, Olbia e Tempio, segno che la lotta è ancora lunga. «I malati devono avere fiducia - sottolinea Stefania Vacquer, dirigente medico del reparto - perché i risultati finora sono stati incoraggianti e i casi risolti positivamente sono destinati ad aumentare». Il centro guidato dai due medici vanta anche un altro primato: nel 1996, per la prima volta in Italia, ha curato talassemici affetti da Aids utilizzando un farmaco inibitore della proteasi acquistato negli Stati Uniti: due pazienti sono tornati allo stadio di portatori sani. Nicola Perrotti (Unioneonline) ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 16 giu. ’05 BOLOTANA. TRE GIORNI DI CONGRESSO MEDICO INTERNAZIONALE Centro storico invaso da rianimatori e anestesisti Un centinaio di relatori, per discutere delle nuove frontiere della medicina. Inizierà domani e andrà avanti fino a sabato il congresso internazionale degli anestesisti e rianimatori. Un appuntamento voluto dal direttivo dell'Aaroi, l'associazione nazionale di categoria, che ha scelto proprio il centro del Marghine per l'incontro. Una novità assoluta, che dimostra come il turismo congressuale possa trovare spazio anche nei centri dell'interno. Il programmaNel corso dei tre giorni del convegno si alterneranno sul palco esperti di fama internazionale (oltre 250 il totale dei partecipanti) a cui spetterà esporre le ultime novità in campo medico e analizzare le principali problematiche che quotidianamente si affrontano in sala operatoria. Oggi è previsto un dibattito aperto alla popolazione (titolo "Gli operatori scientifici incontrano la comunità locale"), interamente dedicato al tema della donazione. Oltre ai presidenti della comunità montana e della Provincia, saranno anche presenti all'appuntamento Franco Mariano Mulas (direttore generale della Asl), il manager del Brotzu Franco Meloni, Rina Latu dell'Avis nazionale, Giorgio La Nasa, che parlerà di donazione del midollo, Paolo Pettinao che esporrà uno studio sulle donazioni di organi, il direttore del Centro trapianti di fegato del Brotzu, Fausto Zamboni, e Pier Paolo Bitti, responsabile del centro di tipizzazione dell'Asl di Nuoro. I responsabili delle associazioni del volontariato potranno intervenire e farsi chiarire tutte le problematiche con cui si devono confrontare nel lavoro di tutti i giorni. la ricerca scientificaNel corso della tre giorni saranno inoltre organizzati una serie di corsi di specializzazione, come "Esperienze regionali nella donazione d'organo: update 2005", oppure "Corso di aggiornamento medicina legale Role Playing" o "Le infezioni fungive in icu", Coagulazione nella sepsi", "Il controllo delle vie aeree", "Nuove frontiere nella nefroprotezione", "Il dolore rachideo", Il malato che muore: che tipo di assistenza?". Interessante l'appuntamento dedicato alle cure palliative in cui il dottor Tonio Sollai del Brotzu, proporrà in anteprima assoluta, una nuova tecnica sulle tematiche del dolore, mentre un gruppo di attori darà una dimostrazione visiva delle varie fasi della terapia. La scelta di BolotanaAl congresso parteciperanno anche le maggiori aziende farmaceutiche con gli ultimi ritrovati nel campo delle strumentazioni: «Non possiamo che esternare la nostra soddisfazione per essere riusciti a organizzare il congresso in un territorio così ricco di fascino e di suggestioni ambientali e culturali ? sostiene Paolo Castaldi, presidente regionale Aaroi ?. Abbiamo potuto dimostrare che anche appuntamenti importanti possono essere tenuti in luoghi al di fuori dei circuiti congressuali scientifici. Tutto ciò grazie anche all'entusiasmo dell'amministrazione comunale e dell'intera popolazione di Bolotana». Il primo cittadino Toni Saba ha ringraziato per questa opportunità, convinto che il paese farà tutto il possibile per rendere più agevole e confortevole la permanenza degli illustri ospiti. Luigi Ladu ____________________________________________________________ La Stampa 15 giu. ’05 LA CARRIERA DEL SELENIO DA VELENO A INTEGRATORE ALIMENTARE IMPORTANTE PER LA NOSTRA SALUTE NEL 1817 il celebre chimico svedese Berzelius analizzò un deposito rossastro, molto maleodorante, residuo dell'arrostimento delle calcopiriti destinate alla produzione dell'acido solforico. Trovò così uno degli elementi più rari: il selenio, da Selene, il nome greco della Luna. Il selenio è il settantesimo elemento in ordine di abbondanza, fra gli 88 esistenti nella crosta terrestre. Finora non si sono scoperti minerali di selenio sfruttabili: come ai tempi di Berzelius il selenio si ottiene come sottoprodotto della metallurgia del rame. Pochi gli usi industriali: entra nella composizione di diodi, celle solari e celle fotoelettriche. Serve a decolorare e a colorare vetri (colore rosso rubino); è usato in vernici e in pigmenti rossi, arancio e marrone per ceramiche e materie plastiche. Ha qualche impiego nella metallurgia del ferro e del rame. Fino alla metà del secolo scorso il selenio era considerato un elemento fortemente tossico. Infatti i pascoli su suoli troppo ricchi di selenio (come le Badlands del Dakota e del Wyoming negli Usa e certe zone del Venezuela) risultano velenosi per gli animali, specialmente se il suolo è alcalino. Alcuni vegetali, infatti, possono accumulare il selenio, così come altri elementi pesanti; questo è un metodo oggi utilizzato dai botanici per decontaminare certi suoli. La tossicità di vegetali cresciuti su suoli ricchi di selenio in certe regioni della Cina era già stata descritta da Marco Polo. I sintomi dell'avvelenamento degli animali sono azzoppamento e vertigini: non molto diversi da quelli della malattia della "mucca pazza". Ma è la dose a fare il veleno. Infatti oggi è noto che il selenio è un elemento estremamente importante sia per gli umani sia per gli animali. Esistono molti elementi che - presenti in piccole o piccolissime quantità negli organismi - sono essenziali per le funzioni vitali. Fra questi, appunto, il selenio, l'unico fra tutti gli "oligoelementi" a far parte del codice genetico, nel “21º aminoacido": il selenio è presente nella seleno-cisteina (dove il selenio sostituisce lo zolfo). Quest'aminoacido ha importanti funzioni catalitiche e di ossidoriduzione. Attualmente sono note, nei mammiferi, almeno quattordici seleno-proteine: alcune sono importanti in reazioni di ossido-riduzione, altre svolgono funzioni strutturali o di trasporto. Esse rimuovono i prodotti di reazione dei radicali liberi e delle specie reattive ossigenate, servono a limitare la coagulazione del sangue e le infiammazioni. Svolgono funzioni nella sintesi della forma attiva dell'ormone tiroideo, nel controllo della divisione cellulare, nella protezione delle cellule dei vasi sanguigni, nella regolazione di messaggi genetici e hanno riflessi sulla fertilità maschile. I composti del selenio, inoltre, favorirebbero le funzioni immunitarie a difesa da virus e batteri. La presenza di selenio nell'ambiente, inoltre, riduce la tossicità del cadmio, del mercurio e del metil-mercurio. Ma come entra il selenio negli organismi? Intanto attraverso la catena alimentare: i vegetali che lo estraggono dai suolo. I suoli vulcanici e acidi però sono poveri di selenio. Perciò la carenza di selenio può costituire un problema per gli animali di allevamento: con pascoli troppo poveri il bestiame cresce meno, soffre di scarsa riproducibilità, soffre di miopatia cardiaca e muscolare in modo così serio che attualmente in certe zone si arricchiscono di selenio i pascoli o i mangimi. In Finlandia si usa, ad esempio, il selenato di sodio. Anche noi soffriamo per la carenza di selenio: questa può ridurre l'efficienza dell'enzima glutatione-perossidasi. In certe zone della Cina, del Tibet e della Siberia sono endemiche la cardiomiopatia e/o l'osteoartrite. Eccettuando i vegetali citati - che non sempre sono commestibili o gradevoli al palato - i cibi a nostra disposizione contenenti selenio non sono molti: fra questi i principali sono le noci del Brasile, i rognoni e il fegato, mentre fonti di selenio accettabili sono costituite da alcuni pesci, dai granchi e da molti molluschi. Perciò esistono anche integratori della dieta umana. Certi paesi europei sono particolarmente poveri di selenio: in Inghilterra l'assunzione di selenio si è ridotta dai 60-63 microgrammi del 1974 agli attuali 34-39 (livello raccomandato 75 e 60 rispettivamente per i maschi e le femmine); ciò a causa della riduzione dell'importazione del grano duro canadese, ricco anche di proteine e usato nella panificazione. Il grano della Unione Europea è meno ricco in selenio e richiede una aggiunta di glutine per aumentare il contenuto in proteine. Si può quindi intuire come il mercato degli integratori a base di selenio sia piuttosto fiorente. Nel solo Regno Unito fattura 15 milioni di sterline per anno. Studi condotti negli Usa hanno dimostrato che diete ricche di selenio (fino a 200 microgrammi/giorno) sono benefiche quali immunostimulanti e anticancerogeni (tumori della prostata, polmoni, fegato). In conclusione, il selenio, un elemento quasi sconosciuto ai più, nell'arco di una cinquantina di anni è passato dal ruolo di "cattivo" a quello di un componente degli elisir di lunga vita. [TSCOPY](*)Università del Piemonte Orientale[/TSCOPY] Enrico Sappa (*) ____________________________________________________________ La Stampa 15 giu. ’05 L’ESAME DELLA RETINA? E’ FACILE COME PESARSI LE FARMACIE POTREBBERO AVERE ENTRO IL 2006 UNA MACCHINETTA PER CONTROLLARE GLI OCCHI GRANDE poco più della cassa di un mini impianto hi-fi, automatizzato e veloce, è in arrivo per esami fai-dai-te della salute degli occhi il "Misuratore Automatico di Retinopatie" (ARM), che potrebbe trovar posto in farmacie e studi medici italiani già nel 2006. Ad anticiparci il progetto è Aldo Cocchiglia, dirigente della compagnia nipponica con sede a Padova e personale completamente italiano che progetta macchinari high-tech per l’oftalmologia, in team con prestigiosi centri universitari mondiali. Il prototipo di ARM è stato già testato dall'équipe di Stefano Piermarocchi all'ateneo padovano. Per un esame rapido ed economico della salute retinica senza passare per lo studio dell'oculista, basterà poggiare gli occhi sull'obiettivo di questa macchinetta che, fotografata la retina, in pochi minuti emetterà il responso: verde se è sana, giallo se ha accenni di lesioni, rosso se lesionata. Poiché l'occhio, in particolare la retina, è specchio di malattie gravi come ipertensione e diabete, il "semaforo" potrebbe divenire uno strumento di screening di popolazione per queste patologie oggi in rapido aumento nel mondo occidentale. Con i loro componenti microvascolari e nervosi, gli occhi riflettono la presenza di malattie di altri organi ancor prima che compaiano i sintomi specifici, spiega Cocchiglia. Diabete e ipertensione non sfuggono a questa regola: in molti casi osservando il fondo dell’occhio è possibile scorgervi lesioni loro imputabili, un prezioso campanello d'allarme poiché queste gravi malattie restano sovente latenti, o non si manifestano con sintomi precisi. Le lesioni appaiono come "tortuosità" dei vasi della retina, zone biancastre simili a fiocchi di cotone, edemi. Ciò ha indotto oftalmologi e ingegneri padovani a progettare un software economico e pratico per scovare eventuali lesioni e fare una diagnosi rapida senza bisogno dell'oculista. Il software fa tutto da solo, usarlo è facile come pesarsi su una bilancia in farmacia. Messo l’occhio sul suo appoggio in gomma, l'ARM scatta da cinque angolazioni diverse altrettante foto della retina. In pochi minuti l’apparecchio dà un responso di semplice lettura. Se lo "scontrino" è verde la retina sta bene, il responso giallo va letto invece come "vai dall'oculista per un controllo", quello rosso significa "vai dal retinologo". Ci sarà anche modo di stabilire un collegamento telematico tra l'ARM e lo studio dei medici di base o degli ambulatori oculistici, in modo da inviare la foto della retina direttamente ai medici. L’Italia ha pochi retinologi, la popolazione invecchia e aumentano i casi di diabete e ipertensione: quindi fare diagnosi tempestive di lesioni retiniche è arduo. Un apparecchio come ARM, progettato per avere un'ampia diffusione, può segnare una svolta. È enorme l'impatto delle lesioni retiniche sulla vista: molti casi di ipovisione sono loro imputabili. A danno fatto, vi è quantomeno la possibilità di usare con la massima efficienza la porzione di retina rimasta illesa, addestrandola con una tecnica, la microperimetria, oggi disponibile in molti centri italiani, come l'Ospedale Oftalmico di Torino, l'Azienda Ospedaliera S. Gerardo di Monza, l'Ospedale San Martino di Genova e l’Ospedale Maggiore di Bologna. Paola Mariano ____________________________________________________________ La Repubblica15 giu. ’05 ZANZARE E MALARIA SI VINCONO COSÌ... Le polemiche sulle strategie dell'Oms: un editoriale critico su Lancet, risposte e riflessioni di Chris White * UN EDITORIALE della rivista Lancet assai critico sul bilancio nella "guerra alla malaria" a 7 anni dall'avvio dell'operazione Roll Back Malaria ha provocato una ulteriore riflessione nel mondo sanitario internazionale. Pochi progressi, aumento della farmacoresistenza, scarsi aiuti, poco chiare le divisione delle responsabilità tra i promotori di Roll Back Malaria (l'Organizzazione Mondiale della Sanità, la Banca Mondiale, i singoli paesi africani e 90 organizzazioni internazionali): queste le principali critiche. In controtendenza, sempre sul Lancet, sono apparsi i risultati positivi di uno studio sull'efficacia del farmaco di Novartis (Coartem, associazione con artemisina) in Tanzania proprio sulla farmacoresistenza (decisi fondi per 170 milioni di dollari in 7 paesi africani). Sulla vicenda abbiamo chiesto il parere del responsabile del settore Malaria dell'Amref (Fondazione africana medicina e ricerca) con sede a Nairobi (Kenia) che fa parte di Roll Back Malaria. (m. pag.) Nel 2003 il Rapporto sulla Malaria in Africa pubblicato dall'Oms e dall'UNICEF indicava che dal 1990 al 1998 il numero di morti a causa della malaria nell'Africa orientale e meridionale era quasi raddoppiato rispetto agli anni '80. Per fronteggiare questa strage, già nell'anno 2000 i governi riuniti a Abuja si posero degli obiettivi da raggiungere entro il 2005. Parte integrante di questa strategia fu l'istituzione di "Roll Back Malaria" (RBM). La rivista Lancet, constatando che gli obiettivi di Abuja non sono stati raggiunti, afferma che la diffusione e il tasso di mortalità della malaria sono aumentati negli ultimi anni e che l'obiettivo di dimezzare i decessi per malaria entro il 2010 appare irraggiungibile. L'azione del network RBM, conclude l'autorevole rivista, avrebbe dunque fatto più male che bene. Il nuovo rapporto sulla malaria recentemente pubblicato da OMS e UNICEF sembrerebbe confermare questa pessimistica visione. Il mancato raggiungimento degli obiettivi di Abuja è incontestabile ed è principalmente dovuto a due fattori, di cui Lancet non tiene abbastanza conto: una grave mancanza di risorse finanziarie per realizzare i programmi ed un aumento della resistenza ai farmaci antimalarici tradizionali. Tuttavia, vi sono molti aspetti positivi che vale la pena sottolineare e che consentono di essere ottimisti anche per il prossimo futuro. Innanzitutto va detto che il tasso di mortalità della malaria è molto difficile da misurare in tempo reale: i dati allarmanti del rapporto OMS/UNICEF 2005, pubblicato da poche settimane, secondo il quale 803mila bambini in dodici mesi sono morti di malaria nell'Africa Subsahariana, si riferiscono al 2000. Nel frattempo, alcune cose sono cambiate. La diffusione di zanzariere trattate con insetticida è il principale strumento di prevenzione: l'obiettivo di Abuja prevedeva che entro il 2005 il 60% della popolazione a rischio (bambini e donne incinte) possedesse una zanzariera trattata. Ebbene, la distribuzione è stata potenziata con successo (dati aggiornati). L'azione di RBM ha inoltre migliorato l'accesso a terapie antimalariche efficaci, sostenendo un cambio di strategia nel trattamento: 42 paesi nel mondo hanno finalmente adotto le terapie con combinazioni a base di artemisia (ACTS), le uniche davvero efficaci. C'è un problema di produzione e distribuzione delle terapie ACTS. Un grave problema è infatti lo scarso quantitativo di artemisina disponibile sul mercato: progetti agricoli avviati in Kenya e in Tanzania per la coltivazione della Artemisia annua renderanno disponibile, per la fine del 2005, oltre 30 milioni di dosi di queste medicine. Vi sono certo stati problemi organizzativi di RBM, soprattutto a livello centrale, a Ginevra, ma anche segnali molto positivi a livello locale. I principali ostacoli sono ancor oggi costituiti dalla mancanza di risorse umane e finanziarie (spesa di 600 milioni di dollari contro un bisogno di 3 miliardi). Segnali positivi vengono daBanca Mondiale, governo USA e Unione Europea. Bene fa Lancet a sottolineare l'importanza di una strategia giusta. Ciò su cui non siamo d'accordo è l'affermazione secondo cui l'obiettivo di dimezzare le morti per malaria entro il 2010 sia irraggiungibile. Secondo le nostre previsioni, entro il 2010 i programmi di prevenzione e cura raggiungeranno l'80% della popolazione a rischio. * Resp. settore Malaria Amref ____________________________________________________________ Le Scienze 17 giu. ’05 PROPRIETÀ TERAPEUTICHE DELLA TOSSINA DEL TETANO Può inibire il trasporto di serotonina attraverso le membrane sinaptiche Un gruppo di ricercatori ha scoperto che la tossina del tetano può essere estremamente utile a fini terapeutici contro disturbi psicologici come la depressione, l’ansia e l’anoressia, e rallentare il progresso di disturbi neurodegenerativi come il morbo di Parkinson. La tossina appartiene alla stessa famiglia delle neurotossine del botulino, che sono state usate con successo in terapie contro i disturbi causati da anomale contrazioni muscolari, come lo strabismo, la paralisi cerebrale e il torcicollo. Recentemente queste tossine sono state usate addirittura in cosmetici contro le rughe. Ovviamente, in questi casi, gli scienziati lavorano con dosi sub-letali della tossina. I biochimici e i biologi molecolari dell’Universitat Autònoma di Barcellona, guidati da José Aguilera, hanno studiato se fosse possibile usare a scopi terapeutici anche la neurotossina del tetano e le molecole da essa derivate. I risultati ottenuti in laboratorio sono stati molto incoraggianti. La molecola della tossina è formata da due parti distinte e separate: una provoca gli effetti tossici e i sintomi del tetano, mentre l’altra (chiamata dominio carbossi-terminale), è innocua e in grado di penetrare nel sistema nervoso. I ricercatori l’hanno riprodotta in grandi quantità in laboratorio per poter sperimentare i suoi effetti sul sistema nervoso dei topi. Gli esperimenti hanno mostrato che il dominio carbossi-terminale inibisce il trasporto di serotonina attraverso le membrane sinaptiche che connettono i neuroni. La molecola si comporta cioè come i farmaci inibitori attualmente usati e potrebbe risultare anche più efficace. Lo studio verrà presentato alla conferenza internazionale sugli aspetti terapeutici delle tossine del botulino e del tetano che si terrà a Denver, in Colorado, dal 23 al 25 giugno.