RIZZUTO: PER LIBERARE LA SCIENZA EUROPEA - UNIVERSITA’:UNA MENTALITÀ DA RIFORMARE - UNIVERSITÀ, LA RIFORMA DEL CUN FA UN PASSO AVANTI - ISFOL, L'85% DEI RICERCATORI È PRECARIO - VA IN SOFFITTA IL 3+2. CON IL 4+1 PERCORSI PIÙ PROFESSIANAFIZZANTI - L’ABOLIZIONE DEL VALORE LEGALE DELLA LAUREA? UNO SLOGAN MASSIMALISTA - PER I GIOVANI RICERCATORI 32,4 MILIONI - AGLI STUDENTI DI BIOLOGIA NEGATO DARWIN - ELOGIO DELLA RICERCA "INUTILE" - RICERCATRICE OTTIENE LA RETRIBUZIONE PER IL LAVOR SENZA CONTRATTI - UNIVERSITÀ DI PISA STRANGOLATA DALLE IDEOLOGIE - L’ABBANDONO UNIVERSITARIO? SCELTA RAZIONALE - CI SONO CORSI DI LAUREA SENZA CAPO NÉ CODA - L'ALLARME DEGLI SCIENZIATI USA: LO SPIRITO DI EDISON È A RISCHIO - MIT, NASCE LA CITTÀ DEL CERVELLO - ELEZIONI, VINCE IL PARTITO DELL'ASTENSIONISMO ATENEO. - CAGLIARI: NUOVA SCUOLA DI PSICOTERAPIA - LAUREA HONORIS CAUSA IN MEDICINA - ECONOMIA, FACOLTÀ IN FESTA PER I 50 ANNI - NIENTE PIÙ SOLDI PER IL DIGITALE I 10 MILIONI ANDRANNO ALLA SANITÀ - PANI: UNIVERSITÀ CARROZZONE - IL CRS4 VERSO LA RIFONDAZIONE - ======================================================= SANITÀ:UNA RETE NAZIONALE GARANTISCE L’ECCELLENZA - RUBINO: UN PROFESSORE SASSARESE ALL’OMS - TIROIDE, RARO INTERVENTO AL POLICLINICO UNIVERSITARIO - I MEDICI CONTRO LA DELIBERA DIRINDIN - LA RIVOLTA DEI MALATI - NON ILLUDETE I PAZIENTI, LA SCIENZA NON FA MIRACOLI" - LAUREE INFERMIERI, ARRIVANO I MAGISTRALI - FRANCO MELONI: ECCO PERCHÉ SONO STATO COSTRETTO A DIMETTERMI - DORMIRE POCO FA INGRASSARE - UN CUORE ARTIFICIALE «MADE IN POMEZIA» - CON LE TERAPIE. BIOLOGICHE LOTTA AL, CANCRO A BASSO COSTO - LENTI MULTIFOCALI PER RIDARE LUCE AL CRISTALLINO - MANI SUDATE? SI CURANO CON UN'INIEZIONE AL TORACE - TROPPI MASCHI PORTANO ALL'ESTINZIONE - C' È UN NUOVO FARMACO: SI CHIAMA PLACEBO - LA RADIOTERAPIA NEGATA AI MALATI - ======================================================= ________________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 dic. ’05 RIZZUTO: PER LIBERARE LA SCIENZA EUROPEA INVITATO SPECIALE UN FISICO COMMENTA L'AVVIO DEL CONSIGLIO EUROPEO DELLE RICERCHE Dopo vent'anni di lavoro, in questi giorni si stanno finalmente compiendo passi importanti nella costruzione di una Unione Europea della Ricerca. Si tratta del concreto avvio del Consiglio Europeo delle Ricerche (European Research Council, Erc) e dell'europeizzazione delle migliori infrastrutture di ricerca. Con questi due aspetti, il Programma-quadro della Ue supera con un nuovo approccio che riguarda esplicitamente tutto l'arco della ricerca di base, dalle scienze umane e socioeconomiche a quelle fisiche -1'impostazione originale limitata al sostegno della competitività di settori industriali ciclicamente in difficoltà (carbone e acciaio, trasporti, elettronica, farmaceutica.). Questa nuova impostazione sposa, per una parte abbastanza consistente del Programma, la creazione di condizioni di Competitività di sistema, attraverso la produzione di conoscenza e quella, fortemente collegata, della formazione di competenze necessarie a utilizzare le nuove conoscenze per l'innovazione. In altri termini, si supera, almeno in parte, la confusione tra attività di ricerca, da una parte e attività di sviluppo e innovazione, dall'altra. Lo Erc viene costituito per selezionare e finanziare i migliori progetti di ricerca che provengano da ricercatori residenti in Europa, sulla sola base dell'eccellenza scientifica e indipendentemente da considerazioni di equa ricaduta nazionale o di ripartizioni a priori tra aree scientifiche o geografiche. Con questo, si vuole attivare una competizione tra le migliori squadre di ricercatori, che porti a una crescita di qualità nell'intero agone scentifico europeo e, di riflesso, a una maggiore attrattività dell'Europa rispetto, in particolare, agli Stati Uniti, in cui tale livello di competizione è risultato estremamente attraente per molti bravissimi ricercatori europei e non europei, in particolare cinesi Ma basterà la sola presenza d: una istituzione simile alle celebrate fondazioni americane, dalla National Science Foundation al Nationa: Institute of Health, per rendere l'Europa più attraente? ' In preparazione dell'avvio dello Erc si sono svolti diversi incontri tra i pro motori, ed è risulta io chiaro che il problema non è solo la presenza, o meno di una Agenzia dedicata allo stimolo dell'eccellenza individuale , o di squadra, ma vi è anche quello della costruzione di' un ambiente in cui la competitività dei giovani brillanti non sia frenata da fattori ambientali, quali la presenza di gerarchie soffocanti, oppure di "coi date" che associno la previsione di carriera con la fedeltà di gruppo o coi altri aspetti meno nobili, come il controllo accademico o il collegamento di retto o indiretto con la politica o coi attività professionali, in sé degnissimi e indispensabili ma portatrici di inevitabili "difese di mercato". Quali sono gli ambienti in cui s svolge la ricerca? In Europa, l'ambiente è prevalentemente l'università, e anche la maggior parte degli Enti noi universitari sono ad essa collegati, al meno attraverso la formazione dei E cercatori. Negli Usa, invece, la maggio parte dei ricercatori opera in ambienti industriali, spesso fortemente collegai alle università con una grande mobilità tra i due ambienti. L'ambiente europeo è anche caratterizzato da una forte presenza degli stati nelle università che porta a una tipologia più omogenea di università e di forme di impiego (statale) dei docenti-ricercatori, ma media mente con piccole concentrazioni di ricerca. Quello americano ha poche università con forti concentrazioni di ricerca e molte piccole università più concentrate sull'insegnamento, e mediamente anche le "state universities" sono gestite da "boards of trustees" in modo privatistico, almeno nella gestione del personale docente e ricercatore, anziché con l'intervento diretto dei governi. In Europa nel corso del Novecento, per supplire alla scarsa dimensione delle capacità di ricerca delle singole università si sono costituiti consigli o accademie delle ricerche, molto spesso su considerazioni di tipo stratégico e quindi con una separatezza rispetto a11e università. Negli Usa tali laboratori federali o statali sono più l'eccezione che la regola e forti sono gli sforzi di collegarli con le università, al limite anche facendoli gestire da "consorzi interuniversitari". Se cerchiamo, in Europa, le università che riescono a competere con quelle americane sulla ricerca, le troviamo nel Regno Unito, in Svizzera (i politecnici federali), qualche Scuola Normale italiana o francese che abbia statuti simili a quelle dei trustees americani e isolati esempi di università private, quali la Bocconi e l'Università Libera di Budapest. Ma spesso anche in questi casi è difficile per un giovane ricercatore avere quella responsabilizzazione e indipendenza che tanto lo attrae verso l'altro lato dell'Atlantico. Recentemente solo l'Austria ha radicalmente innovato il sistema universitario, tagliando decisamente i legami con il micromanagement dello Stato. Il sistema universitario europeo sta fortemente innovando la didattica ma dovrà innovare le regole per liberare le potenzialità dei ricercatori. Un passo nella direzione della creazione di condizioni in cui i ricercatori, indipendentemente dalla loro età ma a supporto e riconoscimento della loro capacità, possano godere di ambienti competitivi, sono quelle "infrastrutture di ricerca" in cui essi possano avvalersi delle migliori condizioni di lavoro e della disponibilità degli strumenti più avanzati. Nel Medioevo questi posti sono stati, per le scienze umane, le grandi biblioteche aperte agli scolari erranti descritti con tanta maestria da Umberto Eco, e ciò ha costituito una delle basi del Rinascimento europeo. Nell'immediato dopoguerra, la costruzione del Cern a Ginevra e dell'Embl a Heidelberg sono state le basi di una rapida crescita nella fisica nucleare e nella biologia molecolare, seguiti poi da altri impianti come la luce di Sincrotrone di Grenobie e Trieste nella scienza dei materiali e biomateriali e gli Osservatori astronomici delle Canarie e del Cile per l'astrofiscica e l'astronomia - L'intervento della Ue a supporto dell'accesso, gestione e costruzione delle infrastrutture di ricerca, siano esse di proprietà nazionale o internazionale, è una attività che é andata crescendo nei tempo e viene adesso rafforzata attraverso un Forum Europeo che, sulla base delle indicazioni dei ricercatori ha iniziato la selezione europea di nuove infrastrutture fortemente richieste, includendo le scienze umane e socioeconomiche, quelle mediche e quelle ambientali. Queste saranno aperte ai migliori ricercatori. In attesa, quindi che l'università liberi le sue forze, si possono verificare le condizioni per attrarre in Europa i migliori ricercatori del mondo. IN TRE PAROLE 1 il Consiglio Europeo delle Ricerche dovrà valutare e finanziare i migliori progetti dei ricercatori europei 2 L'obiettivo è liberare le capacità dei giovani più innovativi e attrarre idee e competenze in Europa 3 La Ue si sta sempre più occupando di sostenere la costruzione di infrastrutture per la scienza ________________________________________________________________ Il Riformista 3 Dic. 2005 UNIVERSITA’:UNA MENTALITÀ DA RIFORMARE UN PROGRAMMA IN CENTO GIORNI DI PAOLO POMBENI Qualche suggerimento per idee lungimiranti che non finiscano in carta straccia I dibattiti sulle case da fare nei famosi primi cento giorni di governo hanno il loro interesse e la loro validità. Vorremo però che ci si aggiungesse qualche riflessione sul "come" si potranno fare (e non solo enunciare) e sul perché si pensa che questa volta riusciremo a raggiungere risultati sin qui mancati, nonostante i problemi fossero già individuati da tempo. Vorrei fare un esempietto, su una questione neanche tanto marginale, ma che conosco bene: la riforma o il rilancio dell'università (un tema elencato giustamente fra le priorità anche nel noto articolo del professor Giavazzi, ma sul quale c'è una larga concordia bipartisan). Uno degli strumenti che tutti condividono per questa operazione è una opportuna valutazione della qualità dei prodotti (lasciamo stare il tema della "eccellenza", che è una parola grossa), sicché non solo si passa vedere chi merita e chi no, ma si passa anche motivare i bravi a fare ancora di più. Racconto brevemente come è funzionato nella pratica questo marchingegno all'università di Bologna dove è stata costituita per esempio apposita commissione per la valutazione dei dottorati di ricerca. Già il fatto che si sia fatta un'unica commissione per valutare indistintamente corsi che spaziano ovviamente in moltissimi campi assai distanti fra loro suscita qualche perplessità, essendo ormai dubbio che si trovino studiosi onniscienti che passano con sovrana indifferenza dalla valutazione della fisica teorica a quella della filologia medievale. Naturalmente questo limite si può superare subito se si costruiscono i ben noti "parametri oggettivi" che sono il vanto di quelli che si dedicano professionalmente a questi sport della valutazione a tutto campo. Si chiedono cose tipo: quanti stage professionalizzanti avete nel vostro corso? Quante convenzioni fate con università estere? Quante ore di insegnamento frontale impartite? E altre case del tipo. Poi si da un punteggio a ognuna di queste variabili "oggettive" (rilevate naturalmente sulla auto dichiarazione dei responsabili, perché andar a vedere coi propri occhi è fatica) e si stila la graduatoria dei buoni e dei meno buoni. Ammetto di avere il dente avvelenato perché il dottorato di cui faccio parte, quello in "Storia politica del XIX e XX secolo", è finito per due volte in fondo alla graduatoria. È un eccellente dottorato non solo perché è uno dei non molti interuniversitari (oltre Bologna, ci sono Perugia e la Luiss), perché ha un corpo docente di qualche prestigio (per citare solo qualche nome noto anche ai non specialisti: Gaetano Quagliariello, Ernesto Galli Della Loggia, Piero Craveri, Elena Aga Rossi), ma anche perché chiunque potrebbe vedere sia i risultati brillanti raggiunti da molti dei nostri "dottori", sia la qualità innovativa dei temi di ricerca che vi si praticano (molti di storia comparata, disciplina non esattamente di generale sviluppo, ma di qualche interesse in una prospettiva di europeizzazione e di internazionalizzazione dell'università). j Quando ci siamo visti ~' trattati cosi, i nostri coordinatori (prima Fulvio Cammarano e poi Maria Serena Piretti), hanno ovviamente protestato cercando di far capire alla commissione, presieduta da ', Giumo Luzzato, , che prendevano un granchio e che creavano un danno all’Ateneo diffondendo un'immagine falsa. Naturalmente è stato risposto che noi non eravamo stati in grado di rispondere ai "criteri oggettivi" e che la tabella di valutazione era un'indicazione ministeriale. Chi scrive, che ha un temperamento più sanguigno di quello dei colleghi, ritiene che i metodi applicati siano desunti dalla mentalità di quelli che facevano i piani quinquennali sovietici: non occuparsi della realtà, ma dei parametri fissati da un qualche Politburo. Non ne faccio solo una questione di dignità di un docente, che, insomma, potrebbe anche vantare qualche titolo nel mondo della ricerca e chiedere rispetto per il suo lavoro da parte di altri che non sembrano immediatamente accreditati a giudicarlo se non da pure investiture burocratiche. Ne faccio una questione di risultati e di metodi per il loro rilevamento. A me è stato insegnato che la scienza si valuta dai risultati che è in grado di ottenere e non sulle vie che sceglie per raggiungerli, a meno che, ovviamente, queste vie non siano immorali. Il rifiuto, che non saprei definire altrimenti che ottuso, da parte di questi valutatori di esaminare i risultati e non i (loro) parametri (a prescindere da quanto sia ridicolo per esempio chiedere stage professionalizzanti a un dottorato di storia) è una meravigliosa metafora delle difficoltà che si trovano in questo paese a tradurre in pratica qualsiasi pur ragionevole progetto di cambiamento. Eppure senza una "rivoluzione delle mentalità" anche il più lungimirante programma finirà per essere carta straccia o un mero libro dei sogni. Spendere qualche energia a riflettere su questo tema potrebbe rivelarsi davvero utile per una sinistra che voglia davvero essere "di governo". ________________________________________________________________ ItaliaOggi 1 Dic. 2005 UNIVERSITÀ, LA RIFORMA DEL CUN FA UN PASSO AVANTI Via libera della camera alla riforma del Cun, il Consiglio universitario nazionale. Ad annunciare il si di Montecitorio del testo che dovrà ora tornare al senato, è stato ieri lo stesso presidente del Cun, Luigi Labruna, che ha espresso «soddisfazione» per il nuovo passo della riforma, anche se il testo dovrà tornare in terza lettura a palazzo Madama. Rispetto alla versione in entrata, spiega Labruna in una nota, sono state apportate infatti modifiche sulla parte che stabiliva la non rieleggibilità, nel Consiglio rinnovato, di coloro che attualmente fanno parte del Cun. Labruna, raminaricato per questo cambiamento del testo, fa sapere che, se questa modifica verrà mantenuta nel testo definitivo della legge, non si candiderà a far parte del nuovo Cun. Il provvedimento approvato ieri in seconda lettura era stato varato dal governo nell'aprile dello scorso anno su proposta del ministro dell'istruzione e dell'università Letizia Moratti e punta a una riforma organica del Cun, cosi come delineata dalla legge 127/1997. Il ddl governativo prevede una configurazione del Cun quale organo di rappresentanza dell’intero sistema universitario con compiti specificatamente tecnico scientifici, mentre la Crui resterà l'organo di rappresentanza degli atenei. La riforma conferma poi la composizione numerica del Cun con tre rappresentanti eletti dal personale tecnico e amministrativo e un rappresentante della Conferenza permanente dei direttori amministrativi. Tra le competenze del Cun c'è l'espressione di pareri obbligatori sugli atti delle commissioni giudicatrici nelle procedure per il reclutamento di professori e ricercatori. _________________________________________________________ Il Manifesto 30 Nov. 2005 ISFOL, L'85% DEI RICERCATORI È PRECARIO Negli Enti pubblici di ricerca è in atto la «settimana di mobilitazione» Situazione kafkiana Per conto del ministero del Lavoro monitorano l'applicazione dei «nuovi contratti» previsti dalla legge 30. Precari da anni, e «le risorse» sono in diminuzione SARA FAROLFI Fai ricerca sull'ingresso nel mercato del lavoro di alcune fasce sociali, verifichi l'applicazione della legge 30, usando questionari o elaborando dati già prodotti. E poi alla fine ti viene da dire, «sembra quasi di parlare di me». I ricercatori dell'Isfol sono spesso vittime di questa situazione paradossale. La maggior parte di loro, l'85% - per attenersi ai numeri - cioè 468 persone su 545 addetti complessivi, è precaria. Non sono tutti ricercatori, tra loro ci sono anche collaboratori tecnici, amministrativi e chi svolge attività di segreteria. Ma salta all'occhio che, nell'unico istituto pubblico italiano che fa ricerca sui temi della formazione, delle politiche sociali e del lavoro, la «ricerca» vera e propria sia tanto («soltanto» viene da dire) precaria. Dei 77 lavoratori stabili, soltanto dieci sono ricercatori (inquadrati al terzo livello); il resto, dirigenti di ricerca e figure di supporto (collaboratori e tecnici). Ma allora, in mezzo a tanti dirigenti, chi la fa la ricerca? Loro, appunto. Trecentonove tempi determinati e centocinquantanove co.co.co. (totale, 468 come detto). E anche all'Isfol, come all'Istituto superiore di sanità (vedi il manifesto di ieri) sono precari di lunga data: dieci o dodici anni di continui rinnovi, con punte di quindici. E' lì che trovi chi monitora per conto dell'Istituto l'applicazione dei nuovi contratti (legge 30), lavora con un contratto a tempo determinato da quattro anni e, visto che «di risorse non ce ne sono», è sicuro che «non sarà stabilizzato». Chi ha un contratto di collaborazione dal 2002 (rinnovato di anno in anno) e svolge normale attività di ricerca tutti i giorni della settimana, «senza timbrare il cartellino» (ci mancherebbe), ma comunque con una media di sette o otto ore al giorno. Fino a chi, a suon di continue collaborazioni, va avanti da più di nove anni. Sempre di ricerca si tratta, sempre «sette ore al giorno, ma a volte anche di più», sempre «tutti i giorni». E con tanto di intervallo contrattuale di un mese tra un rinnovo e l'altro. «Senza prospettive», a quarant'anni e con famiglia a casa. Anche l'Isfol fa parte di quegli enti pubblici dove è in corso, fino al 5 dicembre, la «settimana di mobilitazione della ricerca». Come gli altri enti è in attesa del rinnovo contrattuale. Il contratto è scaduto da 47 mesi, e nei prossimi giorni è in programma un incontro all'Aran. Ma c'è qualcosa che nel contratto nemmeno è nominato, e che sembra essere il vero tarlo della ricerca oggi: la precarietà. Così è nato un coordinamento trasversale tra gli enti, con lo scopo di aprire una vertenza nazionale che abbia come obbiettivo principale la stabilizzazione definitiva di tutti i precari della ricerca. All'Isfol, il ministero del Lavoro (da cui dipende l'istituto) ha di recente approvato una nuova pianta organica, che prevede l'ampliamento del personale a tempo indeterminato a 107 unità (dagli attuali 77). I ricercatori del coordinamento precari però sono scettici. Di queste stabilizzazioni, solo cinque sarebbero ricercatori, e il resto personale amministrativo, tecnico e anche figure di dirigenza. «Di nuovo - dicono dal coordinamento precari - si configura una situazione in cui prevale l'accaparrarsi di posizioni di privilegio». E poi, aggiungono, rimane in piedi una domanda: nei bandi per le nuove assunzioni si terrà conto di tutta la sacca di precariato (i tempi determinati in questo caso)? Il presidente dell'Istituto, Sergio Trevisonato, risponde di sì. Parla (cautamente) di «una situazione anomala», ma conferma, pur negando «qualsiasi tipo di ingerenza politica», la richiesta del ministero di inserimento di quelle tre figure dirigenziali incluse nell'ampliamento dell'organico (e contestate dai lavoratori). Al fondo, come sempre, c'è un problema di risorse. Risorse che in maniera stabile (ma sempre minore) vengono garantite dal ministero, in maniera più flessibile (ma più cospicua) dai vari progetti di ricerca, soprattutto dall'Ue. Quest'anno, dice Trevisonato, è stata fatta richiesta di un incremento dei fondi del 30%. Lui è fiducioso. I lavoratori, che terranno un presidio davanti all'Istituto lunedì prossimo, meno. ________________________________________________________________ ItaliaOggi 1 Dic. 2005 VA IN SOFFITTA IL 3+2. CON IL 4+1 PERCORSI PIÙ PROFESSIANAFIZZANTI Pronto per essere pubblicato in G.U, il dm sul corso di laurea magistratale in giurisprudenza DI SIMONA ANDREAZZA Parte il nuovo corso di laurea magistrale in giurisprudenza 1+4 (un anno uguale per tutti e quattro anni di specializzazione) ma dal prossimo anno. Intanto il Miur, il ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca mette in mora gli avvocati sulla riforma delle scuole forensi. La settimana scorsa (vedi ItaliaOggi del 24 ottobre) il ministro Letizia Moratti e il sottosegretario all'istruzione Maria Grazia Siliquini hanno presentato il nuovo percorso di studi specifico per le professioni legali e che a breve sarà pubblicato in Gazzetta Ufficiale. L'incontro è stato anche l'occasione per lanciare un ultimatum agli avvocati sulla riforma che prevede il riconoscimento giuridico delle scuole gestite dagli ordini. Se dall’avvocatura non arriverà al più presto una. proposta unitaria su punti critici come il rapporto tra le scuole e il tirocinio e i benefici della frequenza ai fini dell'esame di abilitazione. ha detto la Siliquini, il rischio è quello di perdere il freno per vedere approvata entro la fine della legislatura la proposta di un accreditamento degli istituti. Intanto, a partire dall'anno accademico 2006-2007, gli atenei dovranno mettere in soffitta il vecchio corso 3+2 (tre anni comuni e due di specializzazione) e istituire il percorso più professionalizzante 1+4. Gli studenti per ottenere l'agognato titolo che aprirà le porte per le professioni legali quindi dovranno totalizzare un numero complessivo di 300 crediti di cui 216 obbligatori e 60 da accumulare, nel primo anno di corso. All'autonomia delle università, invece, sarà rimessa la gestione dei restanti 84 crediti. Il nuovo percorso quinquennale, inoltre, si muove nella direzione di super-are le criticità che presentava il vecchio corso, come l'assenza negli obiettivi futuri di un riferimento specifico alle professioni legali e la mancanza nel piano di studi di materie fondamentali nella vita di qualsiasi avvocato, magistrato, notaio (come deontologia professionale e ordinamento giudiziario). Prevede inoltre il potenziamento di procedura penale, civile e diritto amministrativo, diritto commerciale. ________________________________________________________________ Il Riformista 3 Dic. 2005 L’ABOLIZIONE DEL VALORE LEGALE DELLA LAUREA? UNO SLOGAN MASSIMALISTA UNIVERSITÀ 2. LA RIGETTA DI GIAVAZZI E IL LIMITE DELLA LEGISLAZIONE UE 2 w ALESSANDRO FvGÀ TALAMANCA «Abolire il valore legale della laurea». Questo è il primo dei cinque punti programmatici che dovrebbero caratterizzare l'azione di un futuro governo, secondo l'editoriale di Francesco Giavazzi, pubblicato il 26 novembre scorso sul Corriere della Sera. Che senso può avere questa proposta? Chiariamo subito che l'abolizione totale del valore legale della laurea non è possibile per i titoli di studio che danno accesso alle professioni regolate dall'Unione Europea. Queste comprendono le professioni sanitarie (e non solo). La legislazione europea impedirebbe quindi l'applicazione del rimedio miracoloso indicato da Giavazzi, alle facoltà di Medicina, di Farmacia e di Veterinaria. E per le altre facoltà? Immaginiamo, per un momento, di vivere in un paese dove un sistema severo e im parziale, di selezione degli impiegati pubblici ci consenta di prescindere dal possesso della laurea per l'accesso ai pubblici impieghi. E realistico ritenere, come fa Giavazzi, che una volta abolito il valore legale della laurea, si instauri un regime di concorrenza tra le diverse università, sulla base del quale, «chi mette in cattedra delle capre solo perché amici del preside o del rettore» rischierebbe di «trovarsi senza studenti»? In realtà solo gli specialisti del settore sono in grado di distinguere (con un buon margine d'errore) le "capre" dai ricercatori più qualificati. Le "capre" abbondano in generale di pubblicazioni «scientifiche» che solo un esperto è in grado di leggere e valutare. Come possiamo pensare che questa differenza sia percepita dagli studenti e dalle loro famiglie? L'esempio dell'Inghilterra, dove, secondo Giavazzi, i laureati in Scienze e tecnologie zootecniche e delle produzioni animali potranno partecipare agli esami di Stato per l'iscrizione all'albo dei dottori agronomi e forestali, mentre a quanti hanno conseguito la laurea in Scienze e tecnologie alimentari sarà possibile accedere alle prove necessarie per l’esercizio della professione di tecnologo alimentare. «Abbiamo scelto la strada del provvedimento di urgenza - ha detto il sottosegretario all'Istruzione, Maria Grazia Siliquini - per assicurare ai possessori di questi titoli di studio, a oggi privi di un adeguato sbocco professionale, la possibilità di partecipare alla prima sessione degli esami di Stato per l'anno 2006». Intanto, a Viale Trastevere è in dirittura d'arrivo il provvedimento che estende le norme sulla programmazione dell'attività didattica delle università anche agli istituti di alta formazione artistica e musicale. In questo modo sarà realizzata la completa equiparazione dei conservatori alle università. ALESSIA TRIPODI ________________________________________________________________ Il Sole24Ore 30 Nov ’05 AGLI STUDENTI DI BIOLOGIA NEGATO DARWIN Il Consiglio universitario nazionale (Cun) ha ricevuto dai "tavoli tecnici" le nuove tabelle con Igli elenchi delle materie per i corsi universitari e da esse risulta che l'antropologia, cioè il settore scientifico disciplinare Bio/08, è stata eliminata dalle Scienze biologiche (Area OS). Il fatto è estremamente grave e preoccupante, perché se la proposta si dovesse tramutare in legge produrrebbe una lacuna nella formazione culturale e professionale dei giovani biologi, ai quali sarebbe offerto un modello di istruzione da cui sarebbe stato estromesso l'uomo. Non vi è dubbio che l'esclusione dell'antropologia dall'elenco delle materie caratterizzanti il corso di laurea in Scienze biologiche abbia il senso di colpire e mutilare l'evoluzione, cioè la legge di natura che spiega l'interezza della vita e la sua storia, e al di fuori della quale non è possibile concepire né la didattica né la ricerca biologica. Quell'esclusione, infatti, ha il valore di dichiarare l'uomo estraneo al mondo e la biologia inidonea a studiarlo. A questo proposito vale la pena rammentare che 12 anni dopo la pubblicazione de L'origine delle specie, avvenuta nel 1859, Charles Robert Darwin ha completato la descrizione della legge che governa la vita dando alle stampe un libro sulla nostra origine: L'origine dell'uomo, appunto, in cui ha affermato che in quanto animali tra gli altri animali non siamo altro che il frutto esclusivo del processo evolutivo. L'evoluzione, insomma, comprende anche noi e senza di noi essa cessa di essere una legge della natura, perché una legge non può che essere completa. Si potrebbe ritenere che questa vicenda non sia che l'ultimo tentativo dell'attuale politica governativa di escludere l'evoluzionismo dal nostro intero sistema formativo. La decisione di eliminare l'antropologia dall'elenco delle materie caratterizzanti il corso di laurea in Scienze biologiche è stata sostenuta dal Collegio dei biologi delle università italiane (Cbui), l'organismo che riunisce i presidenti dei consigli di quegli stessi corsi nelle varie università, presieduto dalla professoressa M. Daniela Candia dell'Università degli Studi di Milano. Difficile a credersi, eppure è quanto accaduto. Evidentemente, l’antievoluzionismo è riuscito a "infettare" il corpo stesso della biologia con un morbo che è capace di indurre autodistruzione, spingendo i biologi a rinnegare l'evoluzione e Darwin. O, almeno, spingendo i membri del Cbui a farlo. Lo studio dell'antropologia dovrebbe essere un imperativo -- un esame fondamentale - per tutti i biologi, i quali, avendo il compito di scoprire come funziona il mondo vivente e come esso vada gestito, dovrebbero per prima cosa conoscere sé stessi: cioè la storia evolutiva dell'umanità. Ci auguriamo che i cittadini del nostro Paese - e speriamo che tra essi non manchino gli scienziati, gli insegnanti e gli intellettuali tutti - facciano sentire la loro voce e con essa la richiesta al Cun di reinserire il settore scientifico disciplinare Bio/08 nell'elenco delle materie caratterizzanti il corso di laurea in Scienze biologiche. GIANFRANCO BIONDI, Università dell'Aquila OLGA RICKARDS, Università di Rorna Tor Vergata ________________________________________________________________ Sapere Nov. ’05 ELOGIO DELLA RICERCA "INUTILE" dossier / la scienza per lo sviluppo Giorgio Sirilli La spinta alla commercializzazione dei risultati può compromettere la missione principale della ricerca pubblica: la generazione di nuove conoscenze per tutta la collettività «Le università pubbliche e private e gli enti pubblici di ricerca devono sia fornire le nuove conoscenze scientifiche che formare i nuovi ricercatori. Queste istituzioni sono specificamente qualificate, dalla loro tradizione e dalle loro caratteristiche peculiari, per svolgere la ricerca di base. Esse hanno l'incarico di conservare le conoscenze accumulate nel passato, di impartirle agii studenti, e di contribuire alle nuove conoscenze di tutti i tipi. È principalmente in queste istituzioni che gli scienziati possono lavorare in un'atmosfera che è relativamente libera dalle pressioni avverse della convenzione, dei pregiudizio, o delle necessità commerciali [corsivo nostro]. Al loro meglio, esse forniscono un significativo grado di libertà intellettuale personale. Tutti questi fattori rivestono una grande importanza nello sviluppo delle nuove conoscenze, poiché è certo che la gran parte delle nuove conoscenze suscita opposizione a causa della sua tendenza a contraddire le credenze e le pratiche correnti [...1 raramente [è] possibile eguagliare le università in relazione alla libertà che è cosi importante per le scoperte scientifiche». Vannevar BusYl, The F_ndtess Frontier, 1945. «[L]a preminenza del movente del profitto nel condurre una ricerca scientifica significa, in ultima analisi, che la scienza privata del suo carattere epistemologico, secondo il quale il suo fine principale è la scoperta della verità. Il rischio è che quando la ricerca prende una svolta utilitaristica, la sua dimensione speculativa, che è la dinamica interiore del percorso intellettuale dell'uomo, viene ridotta o soffocata». Giovanni Paolo II, Lettera al Nunzio apostolico in Polonia in occasione della Conferenza internazionale «Conflict of Interest and its Significance in Science and Medicine», 25 marzo 2002. «Prima di tutto, non nuocere». Giuramento di Ippocrate. «L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento». «Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi». Costituzione della Repubblica italiana, art. 33. D a vari anni il dibattito sull'intervento pubblico per la ricerca e lo sviluppo (R&S) è dominato dall'esigenza di dimostrarne la valenza economica. La ricerca si legittima in quanto promotrice dell'innovazione tecnologica, e non tanto per le sue ricadute sui versanti della salute dell'essere umano, dell'ambiente, dell'energia, della difesa. I ricercatori pubblici vengono «incoraggiati» a uscire dalla loro «torre d'avorio» e a ristrutturare la propria agenda in vista delle necessità dell'industria. I governi hanno orientato le proprie politiche nella direzione della creazione di un sistema di regole teso a incentivare gli organismi pubblici di ricerca a promuovere collaborazioni con il mondo dell'impresa, il trasferimento delle tecnologie, la brevettazione dei risultati. Dunque l'ordine di scuderia è: impegnarsi nella ricerca «utile» (utile per le imprese). In questo articolo viene messa in discussione tale «filosofia» che tende a introdurre troppi elementi di privatizzazione del sapere, estranei alla logica delle università e degli enti di ricerca pubblici che, per loro natura, producono un «bene pubblico». Si sostiene inoltre che queste istituzioni già producono un'ampia gamma di output di rilevante valore sociale, che il loro coinvolgimento con il mondo della produzione è superiore a quanto di norma si creda, e che una virata troppo brusca verso la commercializzazione delle conoscenze imposta dai governi può comprometterne la missione fondamentale e generare gravi distorsioni. Viene infine argomentato che né a livello teorico, né di esperienze maturate, sia possibile dimostrare che i vantaggi dell'appropriazione privata delle conoscenze acquisite nelle università e negli enti pubblici di ricerca siano superiori agli svantaggi. Si suggerisce quindi una moratoria affinché venga mantenuta l'integrità del sistema di ricerca pubblico, L'avvento della cosiddetta «società della conoscenza» risale alla seconda metà dell'Ottocento, con la nascita di organizzazioni stabili per generare idee; scoperte e invenzioni: i laboratori di ricerca. e di rivedere l'impostazione dell'intervento pubblico spostando il pendolo verso la ricerca «inutile» (utilizzabile, cioè, dalla società nelle sue varie espressioni e senza porre una sproporzionata enfasi sui diritti di proprietà intellettuale). Scienza, conoscenza c ricerca Diceva Galileo Galilei: «La luce della scienza cerco, e `I beneficio». L'essere umano per sua natura vuole conoscere, esplorare, creare, inventare, spinto dalla curiosità e dal desiderio di migliorare le proprie condizioni spirituali e materiali - e la scienza si è dimostrata uno strumento potente in questa continua ricerca. Nel corso dei secoli la scienza è stata praticata da singoli individui con mezzi limitati, a volte sostenuti da mecenati che promuovevano le arti, la cultura e la scienza sia per motivi di prestigio che, nel caso dei governanti, di supremazia politica e militare. Ma è a partire dalla Rivoluzione industriale della metà del Settecento che la scienza diventa un'impresa organizzata e assume una rilevanza economica e sociale. Adam Smith osservava che i miglioramenti nei macchinari provenivano sia dai produttori e dagli utilizzatori delle macchine, sia da «filosofi e uomini di pensiero, la cui attività è quella di non fare nulla ma di osservare tutto». Si trattava dei `filosofi naturali che successivamente, nel XIX secolo, vennero chiamati «scienziati». Il salto di qualità che caratterizza 1a società in cui viviamo, ormai sempre più spesso chiamata «società della conoscenza», avviene nella seconda metà dell'Ottocento allorché si afferma l'istituzionalizzazione di organizzazioni stabili per generare idee, scoperte e invenzioni; i laboratori di ricerca. Sebbene esistessero in precedenza laboratori negli enti governativi e nelle università, è soltanto negli anni Settanta del XIX secolo che appaiono laboratori di R&S nell'industria, in particolare quella chimica ed elettrica. Questo cambiamento della struttura industriale, accompagnato dalla crescita dei laboratori di ricerca pubblici, di istituti di ricerca privati indipendenti e dei laboratori delle università, ha cambiato profondamente il panorama del sistema innovativo al punto che alcuni osservatori hanno sostenuto che la più grande invenzione del XIX secolo sia stata il metodo stesso dell'invenzione. L'espansione dello sforzo di ricerca progredisce tra il primo e il secondo conflitto mondiale, allorché vengono realizzate fondamentali scoperte e invenzioni che trovano la propria applicazione durante il conflitto, vuoi per scopi bellici di distruzione (1a bomba atomica e i missili a lungo raggio), vuoi per salvare vite umane (per esempio, la penicillina), vuoi, infine, per l'organizzazione delle operazioni (la ricerca operativa e il calcolo elettronico). Da un punto di vista organizzativo e politico, il Progetto Manhattan, con la messa a punto della bomba atomica, mostra al mondo intero il potere della scienza e, specialmente, quella dei grandi laboratori, dei grandi progetti, dando origine a quella che negli Stati Uniti viene denominata la big science. Molti altri avanzamenti vengono fatti registrare nello stesso periodo come risultato di grandi progetti di ricerca svolti con il concorso di ricercatori e tecnici dei laboratori governativi, delle università e delle imprese: gli esempi più noti sono il radar, i calcolatori, i razzi. In tale contesto appare chiaro come il laboratorio di ricerca serva alla produzione di nuove conoscenze sia di carattere generale che legate a specifiche applicazioni, sia alla predisposizione di modelli, disegni, manuali, prototipi per nuovi prodotti o di impianti pilota e piattaforme sperimentali per nuovi processi. Il punto di svolta è dunque la Seconda Guerra Mondiale. I governi comprendono che, per mantenere e accrescere i propri livelli di benessere e di sicurezza, nel quadro della competizione tra blocchi in cui si innesta non soltanto 1a corsa agli armamenti ma anche la competizione tra USA e URSS per la conquista dello spazio, è necessario finanziare generosamente gli scienziati che, prima o poi, produrranno scoperte utili per l'umanità. La scienza viene dunque usata a scopi strategico-militari, e la ricerca diventa un primario strumento di potere nello scacchiere internazionale. Il riconoscimento dell'importanza dello Stato nel sostegno alla ricerca, in particolare a quella di base, costituisce il terna principale di quello che viene considerato uno dei primi documenti programmatici della politica della ricerca: il rapporto presentato nel 1945 da Vannevar Bush al presidente americano Roosevelt, dal significativo titolo Scienza: la frontiera infinita [1]. Nel rapporto si sostiene che la ricerca scientifica ha ampiamente dimostrato di produrre effetti positivi per la società nel suo complesso e che quindi vi sia la necessità di finanziare con abbondanti risorse pubbliche la ricerca svolta nei laboratori delle grandi agenzie pubbliche come pure quelli delle imprese. Uno degli esiti del rapporto fu l'istituzione della National Science Foundation, agenzia incaricata di finanziare progetti promettenti e meritevoli di investimento proposti dai ricercatori sulla base della propria autonomia scientifica. Tale rapporto diventa una sorta di manifesto, adottato pressoché da tutti i paesi, che vede la scienza come «la gallina dalle uova d'oro» che è sufficiente alimentare per ottenerne cospicui benefici; le applicazioni sono viste come l’«intendenza» che porta i rifornimenti alle truppe in guerra. Negli USA vengono istituiti altri organismi, uno tra tutti la NASA, agenzia nata con l'obiettivo dell'esplorazione spaziale, obiettivo irraggiungibile senza straordinari avanzamenti nella scienza e nella tecnologia. Ma come mai si è proceduto a passi da gigante verso l'istituzionalizzazione della R&S, fino a raggiungere alla fine degli anni Novanta un livello di nove ricercatori ogni 1.000 occupati negli USA e di 5 in Europa? Principalmente per tre motivi. Il primo è la progressiva integrazione tra scienza e tecnologia, intendendo per scienza l'attività volta alla individuazione e alla sistematizzazione di fatti, principi e metodi, specialmente attraverso esperimenti e ipotesi e, per tecnologia, il processo attraverso cui le proprietà della materia e le fonti di energia disponibili in natura vengono asservite alla soddisfazione dei bisogni dell'essere umano. Ciò che nel passato poteva essere inventato basandosi sull'osservazione e sui tentativi sistematici non basta più. Per far progredire la tecnologia è necessario conoscere i principi di base dei fenomeni naturali e dunque un corpus formale di conoscenze che provengono dalla ricerca e che vengono trasmesse nelle università. Gli avanzamenti prodigiosi nei settori della biologia molecolare, della microelettronica, nei nuovi materiali, sarebbero stati impensabili senza il ricorso a una sofisticata base scientifica prodotta nei laboratori di ricerca. Sebbene la scienza e Ia tecnologia siano (lite sistemi sviluppatisi separatamente e con un notevole grado di autonomia, essi interagiscono profondamente l'imo con l'altro talché Chris Ereeman, uno dei maestri nel campo degli studi sulla politica della ricerca e dell'innovazione, é ricorso alla metafora di una coppia di ballerini: ciascun partner esegue passi diversi ma insieme ballano la stessa danza. Talvolta l'interazione tra scienza e tecnologia è talmente stretta, che il ballo diventa cheek-to-cheek [21. La relazione tra scienza e tecnologia è peraltro bidirezionale: non soltanto la scienza influisce profondamente sulla tecnologia, ma quest'ultima può consentire fondamentali avanzamenti scientifici. Per esempio, la tecnologia Bessemer ha preceduto la scienza della metallurgia, e il transistor ha spianato la strada alla fisica dello stato solido. Inoltre, la strumentazione scientifica ha svolto un ruolo chiave nello sviluppo della scienza: senza il telescopio Galileo non avrebbe aperto la strada all'astronomia moderna, senza la tomografia assiale computerizzata 1a diagnostica medica non avrebbe potuto fare i passi avanti che sperimentiamo ogni giorno come pazienti, senza i calcolatori elettronici la stessa scienza non sarebbe progredita cosi velocemente. Un secondo motivo è rappresentato dalla crescente complessità delle tecnologie che non consentono di effettuare esperimenti nelle strutture di produzione durante il loro impiego: di qui la necessità di separare il momento inventivo da quello della produzione, con la simulazione degli esperimenti nei laboratori di R&S. Un terzo elemento, infine, è da ricollegare alla professionalizzazione della ricerca e alla conseguente divisione del lavoro, che fornisce un vantaggio allorché nei laboratori vengono concentrate risorse umane altamente specializzate, strumentazioni scientifiche sofisticate e sistemi di supporto tecnico. Le attività di ricerca si caratterizzano dunque per una forte concentrazione di scienziati, ricercatori, tecnici, sostenuti nel proprio lavoro da una quota alquanto ridotta di personale di supporto. Ecco dunque la diffusione dei grandi laboratori in cui viene eseguita la ricerca «di punta», di lungo periodo, di base. Ricerca e crescita economica L'attività di ricerca e sviluppo si caratterizza per la creazione di nuove conoscenze. Questa è la sua missione principale. L'utilizzazione (lei suoi risultati per risolvere i problemi dell’essere umano comporta una serie di altre attività che sono al di fuori della portata dei ricercatori e che riguardano aspetti tecnici, organizzativi, politici, istituzionali, finanziari, economici, commerciali (1). Può avvenire, infatti, che si assista a paradossi, come quello dell'Europa rispetto agli Stati Uniti, in cui a un eccellente livello di produzione scientifica corrispondono deludenti prestazioni del sistema economico in termini di innovazione tecnologica. È necessario fare giustizia di un diffuso preconcetto, quello che vede l'equazione R&S = innovazione tecnologica = crescita economica. Un indicatore per tutti: la spesa per MS rappresenta poco più della metà del costo sostenuto dalle imprese per introdurre sul mercato nuovi prodotti e nuovi processi. Va dunque corretta la percezione che molti hanno della ricerca come la panacea per risolvere i problemi economici e sociali. Lasciare dunque la R&S alla cura degli addetti ai lavori nella loro torre d'avorio, visto che non «paga» diretti, visibili e immediati dividendi economici? Decisamente no. La R&S si dimostra sempre più un fattore fondamentale per una società come quella attuale, e sicuramente come quella futura, basata sulle conoscenze. Tutte le organizzazioni, dalla piccola impresa ai paesi più grandi, hanno necessità di disporre di competenze tecniche, di capitale umano specializzato e, per garantire elevati livelli di benessere, devono investire si in capitale materiale ria, soprattutto, in capitale immateriale (R&S, educazione, software). Senza un adeguato investimento in R&S non è possibile nemmeno avvantaggiarsi dell'assorbimento delle nuove tecnologie, che sono sempre più spesso legate a sofisticate conoscenze scientifiche. I benefici economici della ricerca di base Varie analisi economiche condotte negli ultimi decenni hanno mostrato che la ricerca di base finanziata con le risorse pubbliche ha un elevato tasso di ritorno (tra il 20 e il 60 per cento) [3]. Edwin Mansfield, analizzando 7G imprese americane, ha potuto verificare che l’l l per cento dei nuovi prodotti e il 9 per cento dei nuovi processi non sarebbero potuti essere sviluppati senza la ricerca accademica. L'autore, in uno studio successivo, ha calcolato che tali percentuali erano diventate ancora più elevate, 15 e 11 per cento; e ciò probabilmente a causa di uno spostamento della ricerca accademica verso progetti a più breve termine e di natura maggiormente applicativa [41. Ammon Salter e Ben Martin hanno individuato un insierne di elementi che costituiscono, in maniera e con proporzioni differenti da caso a caso e variabili nel tempo, l'output delle attività di ricerca dell'università (Sl: - l'incremento dello stock di conoscenze utili; - la formazione di laureati, che rappresentano un fondamentale veicolo per trasferire al mondo della produzione non soltanto le nuove metodologie ma anche un nuovo atteggiamento innovativo; - la messa a punto di nuova strumentazione e di nuove metodologie, che possono aprire nuove opportunità di mercato e cambiare radicalmente l'avanzamento delle tecnologie; - la promozione di una rete di contatti e lo stimolo alle interazioni sociali nell'ambito del sistema nazionale di innovazione; -l’aumento delle capacità di soluzione dei complessi problemi scientifici e tecnologici; - la creazione di nuove imprese (spin-of~). Sebbene vi siano noti esempi di agglomerazioni di nuove imprese ad alta tecnologia intorno a università come l’MiT e Stanford, gli studi condotti sul tema non forniscono prove che un rilevante impegno nella ricerca di base generi imprese spin-off (2). Anche gli organismi di ricerca pubblici generano un'ampia varietà di output. Il caso del CNR italiano è illustrativo. Dalla tabella 1 si può rilevare che l'ente è in grado di documentare 21 diverse tipologie di attività svolta su cui è stato possibile reperire dati quantitativi affidabili. A queste attività ne andrebbero aggiunte altre che per loro natura sono difficili da catturare e misurare con un adeguato grado di attendibilità, per esempio l’impegno dei ricercatori nella divulgazione scientifica e nel fornire risposte a quesiti scientifici in occasione di eventi posti all'attenzione della cittadinanza (fenomeni climatici, geofisici, ambientali, ecc.) (3). Nella loro analisi della letteratura sull'argomento, Salter e Martin concludono che vi sono convincenti prove del fatto che il finanziamento pubblico della ricerca di base produce considerevoli benefici economici [5]. Gli autori sostengono che «questi benefici sono spesso sottili, eterogenei, difficili da individuare e misurare, e principalmente indiretti. La ricerca di base finanziata dallo stato deve essere considerata come una fonte di nuove idee, opportunità, metodi e, soprattutto, di persone capaci di risolvere problemi». Ma come si deve regolare lo Stato nel sostenere la ricerca pubblica? Purtroppo la teoria non è in grado di elaborare un semplice modello della natura dei benefici economici della ricerca di base che possa essere di guida nello stabilire l'ammontare delle risorse da investire e le aree su cui intervenire, anche perché vi sono considerevoli differenze tra paesi e tra settori. Gli autori concludono che «la letteratura disponibile indica che il finanziamento pubblico della ricerca di base, come di molti altri settori di intervento pubblico (per esempio la difesa), non è facile da giustificare soltanto in termini di benefici economici misurabili». In molti paesi, e in particolare nel nostro, è diffusa la convinzione che l'università sia scollegata dalla realtà quotidiana e dalla società che la alimenta. Tale convinzione è smentita dai fatti; da secoli i docenti universitari svolgono attività professionali e di consulenza nelle varie branche della società: i docenti di diritto svolgono attività forense, i medici curano i pazienti nelle cliniche e svolgono attività di consulenza extra moenia, gli ingegneri e gli architetti progettano opere civili e beni prodotti dall'industria, gli economisti e i commercialisti forniscono le loro consulenze alle istituzioni pubbliche e private, gli agronomi sperimentano sul campo specie vegetali, i geologi forniscono consulenza scientifica alle autorità responsabili del territorio. Altre categorie di docenti e ricercatori, dal loro canto, pur non avendo un riscontro immediato di utilizzo pratico del proprio sapere, lavorano per l'avanzamento delle conoscenze che contribuiscono a elevare il livello civile e culturale della popolazione. Insomma, non vi è evidenza di un problema di scarsezza di legami tra università e società; piuttosto, in particolare nel nostro paese, vi sono problemi di efficienza del sistema didattico e della ricerca pubblica aggravati dalla cronica insufficienza di risorse e spesso dall'eccessivo impiego dei docenti che svolgono un'attività professionale a scapito della ricerca e della didattica. Le aspettative il dibattito a livello internazionale sul ruolo della scienza e della tecnologia nella società, sviluppatosi negli ultimi lustri soprattutto all'OCSE e all'Unione Europea, è stato forte LA PENISOLA CHE NON C'È di Daniela Cipolloni Ma davvero in Italia non ci sono opportunità di lavoro per chi fa ricerca? Veramente i giovani ricercatori dopo la laurea o, quando va bene, dopo un dottorato sono costretti ad andare all'estero se hanno intenzione di continuare la carriera scientifica e accademica? A un certo punto, dopo anni che il disco si ripete sempre uguale, sentendoci dire che «non siamo competitivi», che «i nostri cervelli fuggono all'estero», che «non siamo capaci di attirare cervelli da altri paesi per compensare quelli che se ne vanno», viene anche il dubbio che tutto ciò sia un luogo comune che, come tutti i luoghi comuni, sia duro a morire. Certo, a fondamento della tesi che la realtà scientifica italiana sia anche più triste di cosi, le prove non mancano, dalle riforme del governo ai finanziamenti sempre più micragnosi, dagli scandali sulle cattedre «di famiglia» alla latitanza dei concorsi pubblici. Tuttavia, per curiosità, abbiamo provato a sfogliare le principali riviste scientifiche internazionali con peer-review, mettendoci nei panni di un ipotetico ricercatore, di un non specificato settore, che fosse interessato alle opportunità di lavoro riportate su tali giornali. Le riviste considerate sono Science e Nature: la prima è americana ed è pubblicata dall'American Association far the Advancement of Science (AAAS), la seconda è inglese ed è pubblicata dal Nature Publishing Group. Entrambe settimanali, entrambe con un impact factor altissimo. Sia Science che Nature, su ogni numero, hanno una sezione dedicata alle offerte di lavoro, uno spazio dove università, centri di ricerca, aziende pubbliche e private, enti governativi e istituzioni pubblicano avvisi di ricerca del personale. I posti in palio sono solitamente molto ambiziosi: si va da incarichi di presidenza o vicepresidenza di un dipartimento a cattedre di professore associato o assistente, fino a posti per ricercatori e concorsi di Ph.D., per restare nell'ambito accademico. Ma anche nel privato le offerte riguardano posizioni di responsabilità che richiedono quasi sempre un livello di qualificazione medio-alto. Bene. Abbiamo deciso di dare un'occhiata più attenta a queste sezioni del giornale per conoscere più da vicino chi offre e a chi. I numeri monitorati per entrambe le riviste sono quelli relativi al mese di giugno 2005. Neanche a dirlo, gli Stati Uniti la fanno da padrone. La maggior parte delle richieste di lavoro, infatti, è emessa da enti americani. Più su Science che su Nature, per ovvie ragioni. Anche se sulla rivista inglese le offertemente influenzato dalle politiche impostate in chiave neoliberista, che vedono la scienza c: la tecnologia come strumento di competizione economica. Si sono moltiplicate le analisi dei rapporti scienza-industria e in tutti i paesi sono state messe in campo politiche tese a promuovere l'utilizzo delle nuove conoscenze per la competitività economica al punto che un gruppo di lavoro promosso dalle Nazioni Unite recentemente affermava che «la ricerca scientifica e tecnologica è sempre più indirizzata verso il profitto piuttosto che a risolvere i problemi che rappresentano i flagelli dell'umanità; solo il 10 per cento della spesa per ricerca e sviluppo è dedicata ad affrontare il 90 per cento dei mali del mondo» [8]. E ciò in un contesto che conduce a favorire la ricerca applicata a scapito di quella di base, lo sviluppo di nuove tecnologie alla scoperta di nuovi principi, la prospettiva di breve a quella di lungo periodo. Non che l'esigenza di vedere un ritorno dell'investimento di risorse che variano tra meno dell'1% oltre il 3 per cento del Pa. Sia immotivata, o che il cittadino non abbia legittime aspettative circa la soluzione dei tanti problemi che lo affliggono e che la scienza ha mostrato di poter contribuire a risolvere, ma si può affermare che l'enfasi sia stata posta troppo sull'utilizzazione dei risultati della ricerca nel settore produttivo, troppo spesso in un'ottica di breve periodo. A tale proposito va osservato come vi sia uno squilibrio anche a livello di settori della società che reclamano un «ritorno» dalla ricerca pubblica. Se si guarda alla struttura del finanziamento pubblico per R&S in alcuni paesi dell'Ocr ripartita per obiettivo socio-economico si può osservare che quote rilevanti dei fondi pubblici per la ricerca sono destinate alla difesa, alla salute, alla promozione delle conoscenze nelle università senza specifiche finalizzazioni, e che l'obiettivo della produttività industriale rappresenta soltanto una quota modesta, all'incirca un decimo del totale (tabella 2). Inoltre, esaminando l'economia nel suo complesso, il contributo delle imprese ad alta tecnologia rappresenta meno del 3 per cento del Ptr. degli USA, paese caratterizzato dall'industria più avanzata del mondo [9]. Ci si può dunque porre il quesito del perché un segmento certamente importante, ma minoritario, dell'economia, e a maggior ragione della società, riesca a condizionare cosi profondamente lo sviluppo delle scienze che, per loro natura, hanno una valenza ben più ampia di quella delle necessità di produrre e vendere nuovi prodotti e servizi. Ci si potrebbe chiedere perché le lobby degli studenti universitari e delle loro famiglie, dei militari, dei malati con i loro medici, degli ambientalisti, non riescano a riequilibrare la pressione sul mondo della ricerca esercitata dalla lobby delle imprese. In realtà l'enfasi del discorso politico sulla scienza e la tecnologia è cambiato continuamente nel corso degli ultimi decenni: dalla difesa (prima della Seconda Guerra Mondiale e durante la Guerra Fredda), allo spazio, all'energia (dopo la crisi del 1973), all'ambiente, alla tecnologia per la competitività dei sistemi economici, alla salute. Negli anni più recenti si parla sempre più di una scienza e di una tecnologia per il soddisfacimento dei variegati bisogni sociali nel quadro della «società della conoscenza» ma, nei fatti, molti governi continuano a mettere in campo politiche di sostegno alle imprese mediante un riorientamento delle attività delle strutture di ricerca pubbliche e una loro ristrutturazione organizzativa finalizzata a tale scopo. provenienti dal Regno Unito e, in generale, dai paesi europei hanno un peso maggiore, i due giornali pubblicano annunci che arrivano da qualunque parte del mondo. In molti casi incontriamo nomi di università di prestigio, di centri di ricerca d'eccellenza, di grandi compagnie e società multinazionali, noti anche al grande pubblico. II settore predominante su tutti è quello biomedico. Se il nostro ipotetico ricercatore si fosse specializzato in questo campo avrebbe grandi chances di trovare quello che fa per lui: biochimici, medici, patologi, biologi molecolari, biotecnologi sono le professioni che vanno per la maggiore, che fanno gola sia alla ricerca di base, sia a quella applicata, alle università come alle industrie farmaceutiche. Ma le possibilità non mancano nemmeno in altri settori, come quello informatico, ingegneristico, tecnologico. Su ogni numero si contano, in media, una cinquantina di annunci che si rinnovano di settimana in settimana. Alcuni enti sfruttano entrambi i canali per diffondere le proprie opportunità lavorative e talvolta ritroviamo gli stessi annunci sia sull'una rivista sia sull'altra, ma in generale le offerte variano molto. A questo punto, il nostro ricercatore, che è italiano, sull'onda dell'entusiasmo prova a cercare l'offerto che risponda meglio alle sue preferenze, tra cui ci sarebbe anche quella di non doversi trasferire all'estero, in Canada o nel Tennessee, in Inghilterra o in Australia che sia. E qui arrivano le note dolenti. Perché non c'è un solo annuncio, su otto numeri mensili delle due riviste più blasonate del mondo scientifico che provenga dall'Italia. Senza alcuna pretesa di significatività statistica, viene da pensare che sia qualcosa di più del semplice caso: se su un totale di diverse centinaia di offerte di lavoro incontriamo molti paesi europei (Regno Unito, Germania, Irlanda, Spagna, Danimarca, Olanda, Svizzera, Francia) ma anche paesi come il Giappone e l'Australia e persino il Kuwait e il Sudafrica, il fatto che l'Italia manchi sistematicamente instilla perlomeno qualche dubbio. Detto ciò, non siamo i soli. A condividere lo status di non classificati (restando nell'Unione Europea) ci fanno compagnia Portogallo, Grecia, Svezia, Norvegia, i paesi dell'Est ecc. Ma bisognerebbe analizzare più in dettaglio i singoli casi: la Svezia, per esempio, a differenza dell'Italia investe moltissimo in ricerca, sicché offre molte opportunità ai propri ricercatori. Mal comune mezzo gaudio, ci si potrebbe consolare. Ma a ben guardare, su Nature e Science ci sono le nazioni del gruppo dei grandi, le più industrializzate e avanzate del mondo, quelle che appartengono al G7 e si riuniscono ogni anno per discutere sui massimi sistemi (USA, Giappone, Regno Unito, Germania, Francia, Canada e Italia) meno una. II nostro ricercatore, insomma, ha già in tasca un biglietto di sola andata per l'estero. LA «CORSA» ALLA BREVETTAZIONE Negli ultimi anni si è assistito a profondi cambiamenti nel sistema dei diritti di proprietà intellettuale, nel senso di un loro rafforzamento sia mediante l'ampliamento delle tipologie di conoscenze tutelate, sia attraverso il riconoscimento ai titolari di una gamma di diritti più ampia che nel passato. In molti dei paesi più sviluppati l'insieme delle materie brevettabili è stato ampliato includendo il software e le basi dati (in particolare quelle relative alla genetica e alla geofisica); in alcuni paesi sono diventati materia di proprietà intellettuale la scienza di base (per esempio nei campi della matematica e della biologia) e i metodi di gestione delle organizzazioni. L'aumentata importanza annessa a1 valore economico delle tecnologie coperte dai brevetti ha condotto a un significativo incremento dell'attività di brevettazione nei paesi più avanzati: le domande depositate presso l'Ufficio Europeo dei Brevetti di Monaco di Baviera sono passate dalle 70.000 dei 1990 alle 129.000 del 2000, e il numero di brevetti rilasciati dall'Ufficio dei brevetti e dei marchi degli Stati Uniti è aumentato dai 62.000 del 1980, ai 90.000 del 1990, ai 166.000 del 2001. Anche le controversie relative ai brevetti e ai diritti d'autore sono aumentate, almeno negli Stati Uniti. Le imprese hanno ricevuto crescenti introiti dalle licenze sui propri diritti di proprietà intellettuale. Allo stesso tempo una serie di fattori, legata all'accresciuto investimento delle imprese in R&S, alle trasformazioni strutturali dei meccanismi di innovazione, ai processi di globalizzazione e di competizione tra imprese e tra paesi, alla diffusione delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, ha prodotto un continuo incremento delle transazioni del mercato mondiale delle tecnologie sotto forma di cessione di brevetti, contratti di licenza, trasferimento di know-how. I mercati della tecnologia sono stati particolarmente attivi in aree quali la chimica, le biotecnologie, i semiconduttori. In tale contesto vari governi hanno adottato misure per rafforzare i diritti di proprietà intellettuale; ma sulla natura degli interventi in questo senso esistono due posizioni divergenti. Da un lato si sostiene che sia necessaria una loro estensione per garantire agli inventori i necessari incentivi: se le invenzioni non sono sufficientemente protette, possono essere imitate riducendo a addirittura azzerando il ritorno economico per l'inventore, producendo quindi un rallentamento del progresso tecnico. Dall'altro lato si sottolinea il fatto che più ampi diritti di proprietà intellettuale possono creare ostacoli indesiderati alla diffusione del sapere, processo che rappresenta la base essenziale dell'innovazione in cui le nuove conoscenze alimentano la generazione di altre conoscenze. Da un punto di vista economico, un'eccessiva estensione dei brevetti, che per definizione riconoscono un monopolio, seppur temporaneo, può far si che il titolare riceva dalla società un ritorno economico eccessivo rispetto al costo sostenuto per la ricerca, generando una distorsione nell'allocazione delle risorse destinate all'innovazione che vengono convogliate verso aree con maggiori ritorni privati a scapito di quelle con maggior valore in termini di benessere sociale. I governi di vari paesi dell'OCSE hanno inoltre spinto gli enti pubblici di ricerca e le università a brevettare le proprie invenzioni, seguendo l'esempio degli Stati Uniti, dove nel 1980 è stata adottata la legge Bayh-Dole che consente agli esecutori ________________________________________________________________ L'opinione 3 Dic. 2005 UNIVERSITÀ DI PISA STRANGOLATA DALLE IDEOLOGIE di Alessandra Antichi Sono intervenuto all’Università di Pisa, su richiesta di docenti, tecnici. studenti ed ex-alunni, per parlare del tema più importante di questi mesi, in Toscana, nelle Università e in molti altri ambienti strategici per il nostro futuro rassegnazione al declino,o scatto di orgoglio e capacità di autoriforma? Il nostro incontro ha inteso segnare intanto, un momento di pluralismo. Nell'Università di Pisa, come in tutta la Toscana, assessori del Centrosinistra e intellettuali delle varie sinistre intervengono ogni giorno. Partecipano a seminari. Promuovono convegni. Finanziano iniziative. Sviluppano la loro comunicazione e la loro propaganda. Viene il dubbio che anche l'Ateneo pisano sia immerso nella palude del conformismo, ostaggio delle correnti di sinistra egemoni, le quali stabiliscono per tutti i temi da trattare. Tutti contro la devolution, per esempio. Tutti omogeneizzati alla grigia vulgata della cultura, dell'esonero dai sacrifici e dalle responsabilità, del dispregio per il merito, del rifiuto della selezione, dell'eccellenza e della concorrenza, dello zelo e della diligenza nella gestione dei fondi pubblici, della rassegnazione al declino. C'è bisogno, in ogni istituzione, di un contraltare forte. Ogni volta che un esponente dello schiera mento egemone è presente in una scuola, in una fabbrica, in un comune, in questa università, dovrebbe trovarsi di fronte un portavoce dell'opposizione. Questo aiuterebbe a dare alla Toscana, alle sue istituzioni e alla intera nostra società civile, una scossa salutare contro il conformismo. Lo stimolo dell'opposizione è necessario anche all'Università di Pisa, perché l'Ateneo non sia egemonizzato dalle correnti della protesta e del rifiuto, dei no a prescindere ad ogni riforma, o, peggio, dagli slogan e dalle violenze antioccidentali e contro Israele. Lungo il muro di cinta di un'area industriale cadente, quando si scende da una delle rampe della FI-PI-LI, nei pressi dell'Aurelia, si legge questa frase " L' IMPERIALISMO EBRAICO HA UCCISO 19 ITALIANI ". Il riferimento è ovviamente alla strage di Nassiriya, di cui abbiamo commemorato il secondo anniversario il 12 novembre scorso. Questa frase è un tale concentrato di violenza, falsità, volgarità, arroganza, da far rabbrividire. Messa accanto alle tante scritte "MORTE A ISRAELE" e "SHARON ASSASSINO'", che si trovano sai muri dell’Università e della città ti fa pensare ad una Pisa antioccidentale, irosa, violenta, percorsa da ignoranza e arroganza. L'Università é il principale luogo in cui si deve reagire, perché un grande Ateneo deve prima di tutto lottare perché l'ignoranza e l'arroganza non avveleni, no i giovani. Il giovedì "rosso e nero" , del 14 ottobre del 2004, in cui il diplomatico israeliano Shai Cohen, il prof. Maurizio Vernassa e il dott. Mauro Vaiani, insieme a un piccolo e sparuto pubblico di studenti interessati ad ascoltare un punto di vista israeliano sulla storia complessa e delicata del Medio Oriente, furono minacciati, ridotti al silenzio e cacciati dall'Università, è una data discriminante e una vergogna a cui l'Ateneo non ha ancora saputo pienamente rimediare. Entrando all'Università, l’opposizione intende ascoltare e recepire idee e proposte e non si sottrae ai confronto anche su temi Più concreti e più scomodi. ________________________________________________________________ La Repubblica 2 dic. ’05 RICERCATRICE OTTIENE LA RETRIBUZIONE PER IL LAVOR SENZA CONTRATTI FRANCA SELVATICI PRIMA una borsa di studio. Poi un contratto a termine. Poi un altro ancora. Negli intervalli, mesi di lavoro non retribuito, mesi di contributi non versati. Questa è la vita di tanti giovani studiosi negli istituti di ricerca. Questo è il motivo per cui molti di loro fuggono all'estero, il motivo per cui in Italia la ricerca langue. Né vi è speranza, peri giovani ricercatori precari, di farsi assumere in maniera stabile ricorrendo al giudice del lavoro: nel pubblico impiego, infatti, opera una norma speciale che vieta di trasformare i contratti a termine in contratti a tempo indeterminato, perché negli enti pubblici si può essere assunti solo per concorso. Ora però si è aperto uno spiraglio. E, di riflesso, è scoppiata una grana di non poco conto per l’Università e per gli istituti di ricerca. Il 30 novembre una studiosa che per alcuni anni ha lavorato, grazie a una borsa di studio e a due contratti a termine, all'Istituto per la ricerca sul legno del Consiglio nazionale delle ricerche ha vinto la sua battaglia al tribunale del lavoro. Il giudice Raffaele Bazzoffi ha riconosciuto che anche il lavoro da lei svolto negli intervalli fra un contratto e l'altro, fra il 1999 e il 2001, era attività a carattere subordinato. E perciò ha condannato il Cnr a corrisponderle la regolare retribuzione per quei sette mesi di vuoto contrattuale. Non è che questa sentenza cambierà la vita alla giovane ricorrente. Ma spiega l'avvocato Andrea Conte che l'ha assistita nella vertenza - è stato affermato un principio enunciato dall'articolo 36 della Costituzione ma spesso ignorato negli istituti di ricerca: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro». Un principio prezioso in ogni ambito lavorativo, ma soprattutto nella ricerca, che in Italia è spesso vista come un settore gratificante per chi la svolge, che per tale motivo non dovrebbe neppure pretendere una retribuzione. Un punto di vista cosi deviante è emerso anche nelle posizioni assunte nel corso della vertenza dall'Avvocatura dello Stato, che assisteva il Cnr. L'avvocato dello Stato ha sostenuto, infatti, che la ricercatrice non era obbligata, nei periodi in cui era priva di contratto, a proseguire le stie ricerche all'Istituto, e che se lavorava era per perseguire «un preminente interesse personale». Come se, in buona sostanza,l'ente di ricerca l'avesse benignamente tollerata li, nei suoi laboratori. Commenta l'avvocato Conte, «Secondo questa mentalità, non dovrebbe essere l'Italia a ringraziare questi cervelli impegnati nella ricerca, ma dovrebbero essere loro a ringraziare lo Stato che consente loro di usare le provette. In questo conto viene tenuta la ricerca in Italia». Nel periodo in cui ha lavorato all'Istituto di ricerca sul legno, la giovane studiosa ha prestato servizio in particolare nel Laboratorio di bio degradamento e preservazione del legno. In tale veste è stata inserita nel progetto europeo W - Brains. Si è occupata di un lavoro in materia di «atmosfere modificate» in collaborazione con la ditta Isolcell, ha collaborato con l'Istituto di ricerca onde elettro anagnetiche. Con la direttrice del laboratorio ha svolto una perizia stille tarsie di Jacopo de' Bardi a Venezia. Ha avviato il lavoro stille navi romane rinvenute nell'antico porto di Pisa, ha avviato la programmazione del «Progetto Diawood». E proprio in uno dei periodi di vacanza contrattuale è stata nominata per conto dell'Istituto per la ricerca sul legno, su proposta del direttore, delegata italiana per il Cost (Co-operation in Science and Technology). Nel settembre 2001 è stata inviata in missione in Inghilterra. Al termine del secondo contratto a termine le dissero che di li a poco sarebbe stato bandito un concorso per ricercatore a tempo indeterminato. Nonostante le sue qualità, non lo vinse. Il contratto a termine non le fù rinnovato. La sua collaborazione con il Cnr è finita li. Tutte le conoscenze e le esperienze accumulate fino a quel momento sono state gettate via. Ha trovato un lavoro come trimestrale alle poste. Ha fatto la portalettere. Ora lavora a uno sportello postale. _________________________________________________________ Sardi News 30 Nov. 2005 L’ABBANDONO UNIVERSITARIO? SCELTA RAZIONALE “Se trovo lavoro io non continuo a studiare” di Ida Mameli Analisi su un campione di 230 studenti delle facoltà del polo giuridico economico di Cagliari La percentuale degli abbandoni universitari tende a diminuire man mano che aumenta la percentuale dei liceali (De Francesco, Trivellato 1978). Insuccesso delle scuole tecniche o forma mentis dei liceali? Forse dietro questo incompiuto percorso universitario aleggia qualcosa di meno drammatico e di più razionale. Le scelte degli individui sull’istruzione sono il prodotto del modo in cui i soggetti progettano la loro vita, indipendentemente dal fatto che tali progetti siano orientati verso aspetti prevalentemente economici o di altro genere, e indipendentemente dal fatto che vi siano cause che - all’insaputa degli attori - ne formano le preferenze. Ciò che colpisce non è che gli individui possano agire in maniera intenzionale, quanto che lo spettro delle azioni possibili associate ad ogni determinata preferenza, venga modificato dalle differenze di opportunità. Di conseguenza, all’interno della stessa classe sociale d’origine preferenze più ambiziose sfociano in decisioni scolastiche più ambiziose, mentre tra classi diverse la stessa preferenza agisce in direzioni e con intensità diverse. È stata condotta un’indagine statistica su un campione di 230 studenti universitari (immatricolati per la prima volta nel 1991, nelle facoltà del polo giuridico-economico dell’Ateneo cagliaritano) dei quali, si sono seguite le carriere universitarie fino al 2001. Prima conclusione cui si è giunti, (niente di nuovo) è che in tutte e tre le facoltà coinvolte, Scienze politiche, Giurisprudenza ed Economia, si è presentata la sequenza liceo classico- liceo scientifico- istituti tecnici, in termini di riuscita universitaria, e la sequenza contraria in termini di insuccesso! Si sono ricercate le cause nel fatto che il liceo ha l’obiettivo di preparare lo studente per l’università fornendo un metodo di studio che insegna ad imparare e non insegna una professione. Una preparazione impartita vista come “libro chiuso”, cioè racchiude al suo interno tutto il sapere mirato all’acquisizione delle tecniche che permettono di superare gli ostacoli che un percorso universitario presenta. È stata approfondita la questione sottoponendo ai 230 studenti universitari intervistati un questionario. Prima domanda: perché ti sei iscritto all’università? I ragazzi che provenivano dai licei hanno risposto perché era inevitabile visto il tipo di diploma conseguito, gli studenti con diploma tecnico invece, sottolineavano per un lavoro migliore. Seconda domanda: Che probabilità hai di trovare lavoro con il tipo di diploma conseguito? I liceali ritengono improbabile trovare un lavoro con la sola maturità, ( 61.1% e 76.6%) aggiungendo che essa è finalizzata al proseguimento degli studi, cioè si tratterebbe di una carta di identità con la quale si ritiene maturo il soggetto per compiere studi ulteriormente superiori. Il 91.8% degli studenti provenienti dagli istituti tecnici al contrario rispondono che hanno un’alta probabilità di trovare lavoro con il diploma appena conseguito. Terza domanda: Che interesse hai di trovare lavoro subito dopo aver conseguito il diploma? Vi è un disinteresse totale dei liceali per il mondo lavorativo immediatamente dopo aver conseguito il diploma. Il 56% degli studenti del classico e il 62% di quelli provenienti dallo scientifico rispondono che non gli interessava lavorare. Gli intervistati che possiedono il diploma tecnico, al contrario, dichiarano che non gli sarebbe dispiaciuto trovare lavoro subito dopo il diploma (51.2%) e il 29.8% lo voleva assolutamente. Quarta domanda: Hai avuto possibilità di lavorare prima di iscriverti all’università? Su cento studenti che risponde di aver avuto possibilità di lavorare ma ha rifiutato, 66 sono ragazzi che provengono da istituti tecnici e solo 14 e 11 dai licei. Mentre su 100 studenti intervistati, 91 hanno avuto possibilità di lavorare subito dopo il diploma tecnico e 0 subito dopo la maturità! È chiaro che se la proposta di un lavoro fosse arrivata con il diploma, la maggior parte dei ragazzi che hanno frequentato le scuole tecniche avrebbe rinunciato ad iscriversi all’università, mentre i liceali rispondevano che non si erano mai posti il problema. Infatti l’aver scelto di frequentare un istituto superiore che rilascia una maturità piuttosto che un diploma tecnico, era sinonimo di interesse per un’istruzione a livelli più che superiori e non per un lavoro immediato. Si rendevano conto di aver acquisito delle competenze utili solo ai fini dello studio, mentali come le hanno definite, e nessuna competenza pratica, ma questo è ciò che andavano cercando: un bagaglio di cultura intellettuale e non pratica. Quinta domanda: Cercavi lavoro durante gli studi universitari? Ogni 100 studenti che cercavano lavoro durante gli studi universitari 69 erano ragazzi con diploma tecnico, al contrario su 100 liceali 72 non cercava lavoro durante la permanenza all’università! Sesta domanda: Perché cercavi lavoro durante gli studi universitari ? Il 45,5% degli studenti con diploma tecnico rispondono che non volevano dipendere dai propri genitori e il 30,6% dice che aveva bisogno di lavorare. Al contrario il 69,4% dei liceali con maturità classica risponde che non aveva bisogno di lavorare, così come il 72,3% di quelli con maturità scientifica. Si tratta anche in questo caso di casualità, o si può affermare che esiste una diversità di comportamento tra gli studenti delle diverse scuole? Si è cercato di mettere in evidenza che dietro la decisione di abbandonare il corso universitario o portarlo a termine, vi è una scelta da parte dei soggetti, determinata da un insieme di fattori. Questa scelta determina comportamenti tali che sottolineano dei profili distinti a seconda che si tratti di un liceale o di un soggetto proveniente da una scuola tecnica. Innanzitutto, la percezione del proprio diploma come carta di identità utile per entrare nel mondo lavorativo è tipica di chi proviene dalle scuole tecniche. Infatti solo questi studenti aspettano una proposta di lavoro subito dopo aver conseguito il diploma, perché consci che la probabilità che ciò si avveri sia molto alta. Pare che queste scuole siano in contatto con diverse aziende, le quali in accordo con i docenti delle scuole stesse, siano informati sui curricula degli studenti più meritevoli, ai quali viene inoltrata la proposta di lavoro immediatamente dopo aver sostenuto l’esame finale. Solo dopo aver aspettato invano il desiderato lavoro (sono tre mesi di attesa, da fine Luglio a fine Ottobre) si iscrivono all’università, ma la ricerca non si arresta, continua fino a quando lo scopo viene raggiuntoe solo a quel punto subentra la decisione di abbandonare il corso universitario, solo dopo aver trovato il lavoro. Settima domanda: Sei soddisfatto della scelta fatta sull’istituto superiore che hai frequentato? Gli studenti delle scuole tecniche sono consapevoli di aver scelto l’istituto superiore giusto, quello che garantisce un lavoro subito dopo essersi diplomati e ciò si può notare anche dalla risposta data alla domanda se potessi tornare indietro faresti lo stesso tipo di studi superiori? Si, perché è stata utile per trovare lavoro. Al contrario, gli studenti dei licei, che continuano a far prevalere l’obiettivo finale del loro corso di studi, ovvero, l’acquisizione del sapere. ( 69.4%, 55.3%). La mentalità degli studenti provenienti dalle scuole tecniche è quella di chi ha un immediato interesse a entrare nel mondo del lavoro e questo lo testimoniano tutte le statistiche relative agli studi condotti in questo settore. Ogni volta che si deve affrontare una scelta consciamente o inconsciamente, si valutano i costi e i benefici; così, per un soggetto che si iscrive all’università, i costi sono rappresentati dalle tasse, dalla spesa per acquistare i libri, dall’affitto della stanza in cui alloggia, dalle spese per il mezzo utilizzato per recarsi alle lezioni. I benefici comprendono una possibilità lavorativa migliore, l’arricchimento culturale e tutto ciò che si intravede nell’istituzione universitaria. Quali sono i costi e i benefici che caratterizzano le scuole tecniche e i licei? I benefici culturali dovrebbero essere uguali per entrambi. Per quanto riguarda la possibilità di trovare un lavoro, legata al conseguimento della laurea, è sicuramente più alta per gli studenti dei licei, classico e scientifico, visto che anche le statistiche ufficiali rilevano che la stessa possibilità legata alla sola maturità quinquennale è piuttosto bassa. Per ciò che concerne i costi, dovrebbero essere gli stessi per entrambe le scuole, ricordando però che da varie analisi è emerso che i redditi familiari dei liceali sono di gran lunga maggiori, rispetto a quelli delle famiglie dei ragazzi con diploma tecnico. Ciò che differenzia i costi sostenuti dai due gruppi sono i costi opportunità, definiti come i guadagni derivanti dalla scelta di non iscriversi all’università (non andando all’università le scelte sono diverse e per calcolare nel modo adatto il costo opportunità, si devono considerare tra le varie alternative, quella più redditizia). Questo costo opportunità è in genere il reddito derivante da un impiego, o meglio, il migliore dei possibili impieghi che una persona può trovare. Per quanto riguarda i licei il costo opportunità è per la maggior parte degli studenti uguale a zero, come mostrano le statistiche ufficiali e le loro stesse aspettative, mentre è molto più alto per gli studenti delle scuole tecniche. Si può ipotizzare che per questi ultimi l’università venga a costare circa 10 mila euro in più all’anno dei liceali ( si è ipotizzata una busta paga di euro 900*12 mesi). Questo spiega perché gli studenti dei licei, avendo costi piuttosto bassi, sia relativamente al reddito familiare, sia ai costi opportunità, siano attirati da una forza che li tiene all’interno dell’università e nessuna forza che al contrario li spinge fuori. Ragionamento opposto per gli studenti delle scuole tecniche: una forza li spinge fuori dal mondo accademico, a causa degli alti costi sostenuti e li attira fuori, cioè l’alta possibilità di trovare lavoro. Non appena si avverte la possibilità di lavorare, questi studenti decidono di abbandonare il corso universitario, quindi da un fallimento universitario si passa ad una scelta razionale di abbandonare il corso, perché consapevoli fin dall’ inizio che sarebbe andata così. È evidente che la tendenza di questi studenti è quella di lavorare subito: a 3 anni dal diploma, il 66,3% degli studenti con diploma professionale lavora contro il 5,6% che studia; quelli con diploma tecnico che lavorano sono il 56,1% e quelli studiano il 16,2% . Ultima domanda: Perché hai abbandonato gli studi? Gli studenti che possiedono il diploma tecnico rispondono che hanno trovato lavoro (60,3%), mentre il 72,2% dei liceali con maturità classico risponde che non ha abbandonato lo studio, così come il 51% dei ragazzi con maturità scientifica. Alla luce dei risultati raggiunti, continuiamo a voler interpretare l’abbandono universitario degli studenti con diploma tecnico come un insuccesso personale? Come abbiamo dimostrato, dietro questo incompiuto percorso universitario aleggia qualcosa di meno drammatico e di più razionale. _________________________________________________________ Sardi News 30 Nov. 2005 All’università si coltivano interessi particolari CI SONO CORSI DI LAUREA SENZA CAPO NÉ CODA di Marco Pitzalis Il forum aperto da Sardinews: dopo Gianfranco Bottazzi interviene Marco Pitzalis L’università è stata studiata dai sociologi delle organizzazioni – negli Stati Uniti e in Francia – perché il suo funzionamento costituisce un vero e proprio dilemma e, per questa ragione, è stato descritto come un cestino dell’immondezza dove chiunque getta qualcosa o come un’anarchia organizzata. In realtà, i nostri atenei non sono affatto delle anarchie ma dei sistemi politici in cui il potere è distribuito secondo logiche gerarchiche complesse tanto all’interno del corpo docente quanto del corpo amministrativo. Queste logiche spiegano il sostanziale fallimento delle riforme universitarie degli anni ‘80 e ‘90. L’elemento paradossale è rappresentato dal fatto che gli universitari – spesso altresì chiamati a governare e a dirigere enti pubblici e privati – hanno dimostrato in tutta la loro storia una scarsissima capacità di governare l’organizzazione che è loro affidata. Essi sono impegnati spesso a coltivare il particulare senza troppo curarsi dell’interesse generale da cui essi stessi dipendono. Ne è un esempio il modo in cui gli universitari hanno accolto e affrontato il cambiamento e le riforme. Nel 1989 accolsero la legge Ruberti con leggerezza. Questa attribuiva l’autonomia finanziaria e regolamentare agli Atenei. Gli universitari non si accorsero, allora, che la riforma dell’autonomia – promulgata sull’onda lunga delle riforme e dell’ideologia thatcheriana – andava presa sul serio (in mancanza di saperla contrastare e contestare). L’autonomia finanziaria preludeva infatti a nuove forme di eteronomia (il mercato) e al disimpegno dei governi centrali nel finanziamento delle università. Il campo universitario diveniva, inoltre, uno spazio di competizione dove gli atenei sarebbero entrati in concorrenza per accaparrarsi gli studenti e i contratti di ricerca. Sono passati quindici anni e il sistema universitario ha conosciuto un profondo cambiamento. Innanzitutto, il sistema universitario nazionale ha perso il suo carattere tradizionalmente unitario e si sta profilando una profonda separazione negli obiettivi e nelle finalità delle università meridionali povere e di quelle settentrionali e ricche. Lo Stato aveva però mantenuto il suo carattere regolatore e restava il principale finanziatore delle università. Oggi assistiamo a fatti nuovi le cui conseguenze sono difficilmente calcolabili: la devoluzione e il cambiamento del ruolo dello Stato si aggiungono all’introduzione di criteri differenziali di finanziamento, sulla base di parametri di produttività scientifica e didattica degli atenei, creando una condizione di pseudo-mercato che rischia di aggiungere sperequazioni a sperequazioni. L’ateneo cagliaritano ha vissuto al riparo dalla competizione con gli altri atenei, protetto dall’insularità: molti universitari – nella loro pensosa spensieratezza – hanno potuto continuare a credere di conservare per sempre la propria riserva di studenti e il proprio piccolo mercato dei servizi, delle consulenze e della ricerca. Come un allegro autobus dei folli, l’autobus degli universitari (docenti e amministrativi) ha corso in tondo in un deserto, mentre i passeggeri consumavano allegramente le riserve d’acqua e cibo (in quantità variabile secondo il rango) e sciupando il carburante che credevamo essere infinito e gratuito. In questa folle e allegra corsa che dura da 15 anni, questa paga combriccola non si è accorta che qualcosa stava cambiando irrimediabilmente. Come se niente fosse, ha continuato ad agire secondo le vecchie logiche. Doveva organizzare il reclutamento per il grande turn-over degli anni 2005-2012 e vi arriva oggi largamente impreparata. Doveva rifondare l’università costruendo nuovi corsi e nuovi curricoli e ha creato un sistema universitario dispendioso, ingovernabile, inefficiente, se non dannoso. Molto spesso i corsi di laurea triennale sono stati concepiti per gli insegnanti e non per gli studenti. Per non scontentare nessuno, i corsi di studio sono stati farciti di decine di insegnamenti frantumati e segmentati. La logica dei crediti è stata applicata come se si trattasse di millesimi all’interno di un condominio e come se essi appartenessero ai docenti e fossero attribuzioni di status piuttosto che misure dell’apprendimento degli studenti all’interno di curricoli finalizzati ad obiettivi culturali e pedagogici chiari. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Molti corsi di laurea sono senza capo né coda, gli studenti costretti in un percorso frammentato da decine di micro-esami (si può arrivare a 13-14 esami per annualità). È scomparsa oramai ogni serietà degli studi: un esame è difficile se richiede “un mese di studio”. Si tratta di un sistema perverso che invece di ridurre il numero di fuori-corso, tradendo la sua originaria finalità, lo sta incrementando. Aumentano nel contempo i carichi didattici dei docenti e dei ricercatori indebolendo così la capacità di produzione scientifica. Il risultato è una crisi didattica e un deficit di produttività scientifica. Si tratta dei due parametri che determineranno l’entità dei trasferimenti finanziari dello Stato. Nell’autobus dei folli, intanto, nessuno o quasi sembra si sia accorto del rischio. Ci rallegriamo del 13° posto delle graduatorie giornalistiche e non ci preoccupiamo che fin da ora possiamo contabilizzare in termini finanziari il nostro declino all’interno delle più solide e importanti classificazioni ministeriali (che allegramente molti settori scientifici continuano a ignorare). La parte più consistente del nostro bilancio è costituita, infatti, dai finanziamenti statali, in particolare dagli stanziamenti ministeriali costituiti dal fondo di finanziamento ordinario (Ffo). Questa è la fonte della sopravvivenza organizzativa e degli stipendi dei dipendenti. Proprio questa fonte si va asciugando inesorabilmente. Dal 1998 a oggi, la quota parte di questo fondo nazionale spettante al nostro Ateneo si è progressivamente ridotta: passando dal 2,21% del 1998 al 2,00% attuale. Possiamo calcolare una perdita teorica di circa 13 milioni di euro l’anno. Un cifra superiore agli introiti delle tasse degli studenti (che spesso neanche pagano). Circa il 20% del bilancio dell’ateneo cagliaritano. L’elemento più preoccupante però è rappresentato dalla recente introduzione di nuovi criteri di distribuzione del Ffo sulla base di principi di produttività scientifica e didattica. Allo stato attuale, se venissero applicati tali criteri, il nostro Ffo si ridurrebbe ulteriormente passando dai 131 milioni attuali a 115 milioni di euro. Questa eventualità potrebbe attualizzarsi già nei prossimi anni finanziari. La perdita secca per il nostro Ateneo sarebbe dunque di ulteriori 16 milioni di euro se non si invertisse immediatamente la tendenza negativa in materia di produttività scientifica e didattica. Possiamo dunque calcolare la diminuzione delle entrate statali dal 1998 a oggi (Ffo teorico) di circa 30 milioni di euro, quasi un terzo del nostro bilancio. Occorre dunque intervenire sui punti deboli del sistema. Incrementare la produttività didattica: i criteri ministeriali puniscono l’inefficacia didattica calcolata col rapporto studenti iscritti/studenti in corso. Occorre intervenire con risorse adeguate sugli anelli deboli del sistema e con nuove regole organizzative per ristrutturare e in qualche caso sopprimere i corsi di laurea. Le facoltà del polo umanistico e del polo economico- giuridico, sopportano attualmente oltre il 60% dell’offerta formativa senza un sostegno adeguato in termini di risorse umane e materiali. Le facoltà di Giurisprudenza (34% studenti in corso) e di Scienze della Formazione (28% studenti in corso) sono quelle più in difficoltà da questo punto di vista. Evidentemente si tratta di un costo che poi ricade sull’intero sistema e sul quale vale la pena di interrogarsi. Certamente le situazioni sono differenziate e occorre analizzare seriamente, caso per caso, le cause del ritardo degli studenti. La situazione di Scienze della formazione e quella di Giurisprudenza sono difficilmente paragonabili. Il livello di preparazione in entrata degli studenti nelle due facoltà è molto differente: in Giurisprudenza il ritardo degli studenti non è slegato dalle logiche di chiusura del campo professionale cui la facoltà è legata. Incrementare la produttività scientifica: i criteri ministeriali premiano l’internazionalizzazione e la presenza dei progetti nazionali (Prin, Firb, etc.). Dal 2003 al 2004 registriamo nel nostro Ateneo, al contrario, un ulteriore calo del finanziamento di progetti Cofin. Inoltre, osserviamo l’assenza di sostegno finanziario a livello locale per i gruppi che hanno ottenuto i finanziamenti nazionali Cofin-Prin. L’Ateneo deve dotarsi di una politica della ricerca, di una politica di sostegno ai ricercatori e di reclutamento di nuove forze qualificate (anche nell’amministrazione, spesso incapace di dare un sostegno attivo). Al contrario, i ricercatori reclutati in questi anni – nonostante l’incremento numerico degli effettivi – sono stati utilizzati come corpo docente a basso costo per coprire il surplus di offerta didattica creato dalla metastasi didattica nei nuovi corsi di studi triennali. Il peso dei carichi didattici rende inoltre arduo il mantenimento di standard competitivi di produttività scientifica. Si pone, inoltre, il problema della qualità dei ricercatori reclutati – in alcuni casi privi di vere credenziali scientifiche –e dell’assenza di sostegno organizzativo e finanziario per i nuovi entrati. Gli stessi dipartimenti non funzionano come strutture di organizzazione della ricerca ma – in numerosi casi – come grossi istituti interni alle facoltà. Anche qui andrebbe incentivata la capacità dei dipartimenti di fare ricerca interdisciplinare e di reclutare docenti di facoltà differenti. Le due colonne sulle quali si regge il nostro Ateneo – insegnamento e ricerca – presentano dunque delle crepe profonde. La crisi finanziaria cui andiamo incontro è il prodotto delle difficoltà che emergono da questi settori fondamentali della vita universitaria. Possiamo sperare di recuperare i punti persi (di Ffo) attraverso uno sforzo straordinario nella ricerca nella didattica. Allo stato delle cose le alternative finanziarie rispetto al finanziamento statale non appaiono credibili: l’uscita della Sardegna dall’obiettivo 1, la possibile riforma costituzionale della cosiddetta devoluzione, la crisi finanziaria regionale, la scarsità delle risorse provenienti dal conto terzi (disincentivato da balzelli interni motivati solamente da rendite di potere di alcuni settori dell’amministrazione universitaria) e dai finanziamenti di altri enti pubblici e privati (anch’essi in diminuzione) non lasciano intravedere altre strade. È possibile interrompere il circolo vizioso degli interessi corporativi di docenti e amministrativi? Per far questo occorrerebbe che il pilota di questo autobus dei folli si chiudesse in cabina e desse una direzione sicura alla sua guida, incurante delle grida dei passeggeri, che lo invitano ad andare un po’ di qua e un po’ di là, finendo per farlo girare in tondo, dovrebbe puntare a raggiungere senza indugi il distributore di carburante. ________________________________________________________________ New York Times 30 Nov.2005 L'ALLARME DEGLI SCIENZIATI USA: LO SPIRITO DI EDISON È A RISCHIO di TIMOTHY L. O'BRIEN BALTIMORA, Maryland - Quando aveva otto anni, James E. West si arrampicò sulla pediera di ottone del suo letto e si allungò per infilare il cavo di una radio che aveva riparato in una presa che stava sul soffitto. Fu uno dei suoi primi esperimenti. La sua mano rimase attaccata alla presa mentre l'elettricità gli attraversava il corpo, immobilizzandolo fino a quando suo fratello non lo tirò giù: "Da allora iniziai a provare un grande fascino per l'elettricità, un fascino assoluto", ricorda West, che ha 74 anni ed è un pluripremiato professore dell'Università Johns Hopkins. "Dovevo imparare quello che potevo sull'elettricità". Negli ultimi decenni, West ha ottenuto 50 brevetti americani e oltre 200 brevetti internazionali per invenzioni collegate alle sue pionieristiche ricerche sui materiali carichi di elettricità e gli strumenti di registrazione. Secondo la National Inventors Hall of Fame, un'organizzazione di Akron, nell'Ohio, di cui West fa parte, circa il90 per cento dei microfoni utilizzati oggi in strumenti come telefoni cellulari, apparecchiature acustiche e giocattoli, derivano dai trasduttori elettronici che lo stesso West ha contribuito a sviluppare nei primi anni `60. Gli inventori hanno sempre occupato un posto speciale nella storia americana e nella tradizione dell'industria, perché hanno incarnato l'innovazione e il progresso economico in un Paese che da sempre tiene in gran canto la creatività individuale e la forza delle grandi idee. Negli ultimi decenni, inventori e ricercatori hanno dato alla società, tra le altre cose microchip, personal computer, internet, cateteri a palloncino, codici a barre, fibre ottiche, sistemi di posta elettronica. West si inserisce in questa tradizione che, sostiene, potrebbe presto finire. West teme che la capacità delle imprese e dello Stato di finanziare l'invenzione e la ricerca scientifica stia perdendo colpi e che gli Stati Uniti pagheranno un pesante prezzo economico e intellettuale per questo declino. Molti dei colleghi di West condividono le sue preoccupazioni. "Le fondamenta tecniche e scientifiche della nostra leadership economica si stanno erodendo mentre molte altre nazioni stanno crescendo sotto questo profilo", ha osservato l'Accademia nazionale delle scienze in un rapporto pubblicato a ottobre. Per incentivare l'innovazione in America, l'accademia raccomanda di potenziare l'insegnamento della matematica e delle scienze nelle scuole elementari, medie e superiori, di offrire un ambiente più favorevole alla ricerca e alla formazione scientifica nei college e nelle università, di incrementare i fondi federali per la ricerca scientifica di base e garantire un mix di incentivi fiscali e altre misure per favorire la creazione di posti di lavoro ben retribuiti nei settori innovativi. II rapporto cita Cina e India fra i Paesi economicamente promettenti che potrebbero usurpare la leadership americana nell'innovazione e nella crescita occupazionale. Anche l'Industrial Research Institute, organizzazione di Arlington, in Virginia, che rappresenta alcune fra le aziende più grandi del Paese, è preoccupato dalla prospettiva di un ristagno del supporto accademico e finanziario all'innovazione scientifica negli Usa. I dati del gruppo indicano che dal 1986 a12001, Cina, Taiwan, Corea del Sud e Giappone hanno avuto più laureati in materie scientifiche e ingegneristiche degli Usa. Tra il 1991 e il 2003, la spesa per ricerca e sviluppo in America è stata inferiore a quella di Cina, Singapore, Corea del Sud e Taiwan. West fantastica di un giorno in cui i bambini ammireranno più gli scienziati e gli inventori che le star dell'hip-hop e gli atleti professionisti. "Dobbiamo reintrodurre in questo Paese l'idea che siamo disposti a investire per il futuro perché quello che oggi sta nei cellulari e negli iPod è stato scoperto 20 anni fa", dice. Gli obbiettivi non sono sufficienti, dice Merton C. Flemings, professore dell'Mit, che detiene 28 brevetti e dirige il programma Lemelson-Mit per gli inventori. Ad esempio, Singapore registra punteggi brillanti in matematica a livello nazionale ma non è famosa per sfornare nuove invenzioni. Anzi, aggiunge, i ricercatori di Singapore studiano i sistemi scolastici americani per cercare di trovare l'ispirazione creativa. "Oltre all'apertura mentale per una società inventiva moderna è necessaria la tolleranza", dice un rapporto dello scorso anno sponsorizzato dal programma Lemelson-Mit. "Le persone creative, si tratti di artisti o di ingegneri innovatori, spesso sono individui anticonformisti e ribelli. Anzi, l'invenzione stessa può essere recepita come un atto di ribellione contro lo status quo". Ripensando agli anni trascorsi West dice di avere spesso imboccato il sentiero intellettuale sbagliato: Ma spesso, aggiunge, è cosi che gli inventori riescono a liberare la loro creatività "Credo di avere avuto più fallimenti che successi, ma non considero i fallimenti degli errori, perché ho sempre imparato qualcosa da quelle esperienze", dice West. _________________________________________________________ La Repubblica 1 Dic. 2005 MIT, NASCE LA CITTÀ DEL CERVELLO Cinquecento scienziati di altissimo livello potranno interagire tra loro come mai era successo prima 38 mila mq per le neuroscienze Gli studiosi: "Prima ci vedevamo più ai convegni che a Boston" Il Mit BOSTON - Centinaia di scienziati riuniti in uno spazio di 38 mila metri quadrati per studiare la mente umana: il nuovo centro del Massachusetts Institute of Technology (Mit) sarà il più grande del mondo dedicato alle neurscienze, una vera e propria "città del cervello". Situata in un'area ad altissimo potenziale, tra Vassar e Main Street a Cambridge, la cittadina adiacente a Boston dove ha sede anche Harvard, vicino al Broad Institute per la genetica, al Media Lab e a circa 150 società private attive nel settore delle biotecnologie. Insomma, come dice Earl Miller, che nei laboratori del Mit insegna alle scimmie a usare i videogiochi, "la geografia è destino". Il "Brain and cognitive Sciences Complex" si muove nel solco della tradizione del Mit, con grande attenzione all'approccio interdisciplinare e ai contatti fra gli scienziati. Metterà quindi insieme ricercatori che affrontano i misteri del cervello a livelli molto diversi, da quelli che studiano le molecole a quelli che si occupano della memoria. Nel nuovo centro lavoreranno 500 scienziati, per la maggior parte pionieri nel campo delle scienze del cervello già affiliati al Mit. Mriganka Sur, capo del Dipartimento di Scienze del Cervello, si concentrerà sull'autismo, un disordine complesso sia nei geni che nei sintomi: "Se riusciremo a decodificarlo succederà in questo edificio, grazie al potenziale di cervelli a disposizione". Sunumu Tonegawa, premio Nobel e direttore del Picowar Institute for Learning and Memory, studia le menzogne ed è convinto che presto uno strumento grande come un berretto da baseball permetterà di leggere e analizzare dati da miliardi di neuroni per stabilire rapidamente chi dice bugie e chi è sincero: "Per arrivarci ci serviremo di ingegneri e fisici interessati in tecnologie totalmente nuove e metodi non invasivi di scannerizzazione del cervello". La nuova città del cervello è stata disegnata per favorire al massimo l'interazione, hanno assicurato gli architetti della Charles Correa Associates che hanno curato il progetto. Sale da té, saloni dalle pareti di vetro e corridoi con lunghe linee di fuga aiuteranno gli scienziati ad avvistarsi da lontano e magari fermarsi per una chiacchierata. "Molti di noi, prima, si vedevano più spesso ai convegni internazionali che nell'area di Boston", ha detto Mark Bauer, pioniere degli studi sui ritardi mentali e uno dei 40 scienziati del Picowar Institute che sperano un giorno di trovare al Mit la cura per l'Alzheimer e, oltre all'autismo e alla schizofrenia, per il disordine da deficit di attenzione che colpisce molti bambini in età scolare. _________________________________________________________ L’Unione Sarda 2 dic. ’05 ELEZIONI, VINCE IL PARTITO DELL'ASTENSIONISMO ATENEO. Scarsissima la percentuale dei votanti per la rappresentanza degli studenti Un dato è certo: ancora una volta alle elezioni dei rappresentanti degli studenti universitari ha vinto l'astensionismo. Nessun numero ufficiale fino a ieri, ma dalle stime raccolte dalle liste in campo i votanti non hanno superato la soglia dei 5.000. Sui 35 mila aventi diritto davvero pochini, a conferma che gli studenti non amano andare a votare. Proiezioni. Stamattina si riunirà la commissione elettorale, e finalmente dovrebbero arrivare i primi dati provvisori. Ma negli ambienti universitari circolano delle proiezioni attendibili. E i numeri decreterebbero la vittoria della lista Ichnusa, stimata tra i 1.800-1.900 voti. Staccata di circa 300 preferenze, Università per gli studenti. Le due liste della sinistra pagano la separazione: Sinistra universitaria avrebbe raccolto circa 750 voti, mentre Sinistra in movimento + sindacato studentesco si aggirerebbe sui 500. Sotto le 250 preferenze Terranova + Federazione universitaria, mentre Università ideale dovrebbe superare la soglia dei 100 voti. Anche le proiezioni per i seggi negli organismi centrali sono da prendere con le pinze. Si parla di due eletti in cda, senato accademico e senato allargato per Ichnusa, e altrettanti per Università per gli studenti. Il quinto sarebbe in bilico tra la stessa lista Ichnusa e Sinistra universitaria. Al Cus dovrebbe andare un rappresentante di Università per gli studenti e uno di Ichnusa. Reazioni. In pochi si sbilanciano nel commentare i dati. «Siamo soddisfatti ? spiega Giorgio Todde, di Ichnusa ? perché aver raggiunto quasi le duemila preferenze per noi è una vittoria». Qualcuno fa notare che rispetto ai 3.000 voti raccolti nella scorsa tornata da Uniti e liberi, che raccoglieva più o meno gli stessi gruppi di Ichnusa, la medaglia può avere un rovescio negativo: «È conseguenza del calo dei votanti», spiega Andrea Marrone, candidato al Cda. Tre anni fa Università per gli studenti e Sinistra universitaria si presentarono insieme raccogliendo circa 2.100 voti. Le liste, questa volta separate, hanno aumentato il numero delle preferenze. I leader, Giuseppe Frau e Gianluigi Piras, preferiscono parlare con i dati ufficiali. Furioso Matteo Murgia (Sinistra in movimento): «Chi ha vinto è il rettore, che con promesse ha convinto gli studenti a votare per la modifica dello statuto. Le nostre elezioni sono state un caos e una presa in giro. Chiediamo le dimissioni di Mistretta. E non è detto che presenteremo ricorso al Tar». Il riferimento è ai molti studenti che non hanno potuto votare perché non presenti nelle liste. Matteo Vercelli _________________________________________________________ L’Unione Sarda 2 dic. ’05 CAGLIARI: NUOVA SCUOLA DI PSICOTERAPIA Sarà inaugurata domani. Riservata a laureati in Medicina e Psicologia Una scuola di specializzazione di psicoterapia gestaltica è stata inaugurata in questi giorni in città. Quattro anni di studio, a numero chiuso, a cui potranno accedere solo venti iscritti che dovranno comunque essere già laureati in medicina e psicologia. Ventotto gli insegnanti, tre i tutor. E poi docenti universitari ed esperti della materia che terranno, complessivamente, duemila ore di corso; alla fine del quale ogni partecipante sarà abilitato alla professione di psicoterapeuta gestaltico. La psicoterapia gestaltica nasce a New York nel secolo scorso, nel 1951 ad opera di Frederick Perls. L'istituto Gestalt di Cagliari, diretto dallo psicologo e psicoterapeuta Sergio Mazzei, è riconosciuto dal ministero dell'Istruzione. «Le lezioni inizieranno non appena si raggiungerà il numero degli iscritti», dice Mazzei, «naturalmente prima bisognerà superare una selezione e avere determinati requisiti. Richiediamo l'iscrizione all'albo dei professionisti e dovrà essere superato l'esame di Stato». Ancora il direttore: «Chi fra gli allievi non avesse superato l'esame di Stato deve mantenere l'impegno di sostenerlo entro la fine del primo anno di corso». La formazione prevede programmi annuali da svolgersi in cinquecento ore: conoscenze della materia psicologica, tecniche della psicoterapia della Gestalt nel lavoro del singolo e del gruppo. Sono previsti inoltre incontri mensili con assistenza dei tutor e un tirocinio di cento ore che si svolgerà nelle strutture pubbliche o private convenzionate con la scuola. Domani Mazzei, nella sede di via Dei Giudicati alle 12, terrà la presentazione della nuova scuola di specializzazione. Per informazioni rivolgersi all'istituto Gestalt in via Dei Giudicati, o telefonare allo 070/400997, mail igbwinterfee.it Maura Pibiri _________________________________________________________ La Nuova Sardegna 2 dic. ’05 LAUREA HONORIS CAUSA IN MEDICINA CAGLIARI. È un patologo, specialista dei problemi gastrointerici che tanto affliggono le persone di tutto il mondo: Robert Riddell è stato ieri mattina insignito della laurea honoris causa per la Medicina dall’università di Cagliari. L’alto riconoscimento scientifico gli è stato assegnato dal rettore Pasqaule Mistretta e dal preside della facoltà Gavino Faa. Con 150 pubblicazioni e una sessantina di capitoli di altrettanti libri, Riddell si è guadagnato un posto nella ricerca con studi sulle malattie croniche intestinali e i rapporti tra colite ulcerosa e cancro, solo per citare alcuni aspetti. A questo studioso si devono anche intuizioni scientifiche che hanno fatto fare importanti passi avanti nella terapia di patologie molto diffuse come le displasie del tratto intestinale. L’importante valore scientifico e umano e la collaborazione offerta alla facoltà di Medicina di Cagliari sono i motivi della laurea conferita a Riddell. _________________________________________________________ La Nuova Sardegna 1 dic. ’05 ECONOMIA, FACOLTÀ IN FESTA PER I 50 ANNI Due giorni d’appuntamenti per un corso di laurea sempre sulla cresta dell’onda Continua il boom di iscrizioni ma le strutture sono inadeguate CAGLIARI. Cinquant’anni e neppure un segno di cedimento. La facoltà di Economia festeggia se stessa: in occasione del cinquantenario dalla sua costituzione oggi e domani sono in programma due giornate dense d’appuntamenti. Si parte oggi alle 15.30 con un incontro sull’albo dei dottori commercialisti e sulle professioni. E la festa diventa l’occasione per tirare le somme: immatricolazioni in aumento anno dopo anno, studenti che arrivano prima alla laurea, ingresso in circuiti internazionali che garantiscono una maggiore spendibilità dei titoli. Ma non è tutto rose e fiori: la crescita della facoltà si scontra con l’incapacità strutturale di recepire il boom. Roberto Malavasi, da nove anni preside della facoltà, ha l’aria soddisfatta. Pensa ai numeri registrati negli ultimi tempi e non riesce a nascondere l’orgoglio: «Anche quest’anno abbiamo registrato un nuovo boom d’iscrizioni - dice - Le immatricolazioni sono state novecento». Sarà perché il titolo è di quelli che fruttano ancora nel mercato del lavoro, sarà perché la facoltà negli ultimi anni s’è modernizzata, fatto sta che Economia tira. «Il punto di forza sono le nostre strutture - continua Malavasi - Un laboratorio linguistico all’avanguardia, in piedi da dieci anni, cui si sommano un laboratorio d’informatica da cinquanta posti e un laboratorio per le applicazioni economico-informatiche». Quasi un gioiellino, insomma, cui s’aggiunge il fiore all’occhiello: la nuova biblioteca inaugurata a marzo. Qualche studente si lamenta perché in realtà lì dentro non c’è abbastanza silenzio e studiarci non è così facile, ma Malavasi preferisce guardare al lato buono: «Si tratta di una biblioteca addirittura sovradimensionata rispetto alle nostre esigenze - dice - Ogni giorno registriamo circa 380 accessi solo da parte dei nostri studenti, ma possono accedervi anche i ragazzi di Scienze politiche e di Giurisprudenza». Se questo è il presente, il futuro sembra anche più allettante: tra i progetti della facoltà c’è un laboratorio per le applicazioni economico-statistiche. «La speranza è di inaugurarlo nei prossimi mesi», dice il preside. Intanto si va avanti con i mezzi di cui si dispone, cercando anche di fare sistema con i circuiti internazionali. Come l’Edampa, una sorta d’ente specializzato in dottorati in Economia aziendale, che vede stretti stretti quaranta atenei di tutta Europa. «Dalla Francia all’Austria, sino ai paesi dell’Est - dice Malavasi - In Italia noi siamo stati tra i primi ad entrare nel circuito». Il risultato? Un centinaio di ex studenti della facoltà, che dopo questo tipo d’esperienza hanno trovato un’occupazione gratificante. Ma dietro le soddisfazioni c’è anche tutto il peso per i problemi ancora irrisolti. «Il rapporto studenti - docenti ci preoccupa - ammette Malavasi - Così come da risolvere è la questione segreteria studenti: i nostri numeri aumentano, ma gli impiegati sono sempre gli stessi e non possono far fronte alla cresciuta mole di lavoro». C’è un altro tarlo che rode la mente di Malavasi: si tratta dei tagli alla ricerca. Un vero pericolo perché «senza ricerca non si cresce, e investendo solo sulla didattica il rischio è di ripetere sempre e solo le stesse cose». Sabrina Zedda I NUMERI Quattromila studenti e laurea a 24 anni CAGLIARI. Novecento matricole, quattromila studenti in tutto divisi tra i corsi di laurea di primo livello e quelli della laurea specialistica. I numeri della facoltà di Economia crescono anno dopo anno. E le performance positive si registrano anche su altri versanti: ‹‹L’età media di laurea s’è abbassata sensibilmente - dice il preside - Ora si taglia il traguardo a 23- 24 anni››. Un fatto che non riguarda, sempre secondo il preside, una stretta cerchia di persone, ma ben il 50 degli studenti. Sul fronte offerta formativa, si contano tre corsi di laurea di primo livello (Economia e gestione aziendale, Economia e gestione dei servizi turistici, Economia e finanzia) e due titoli rilasciati dalle lauree specialistiche (quello in Economia manageriale e quello in Scienze economiche). Giudizio complessivo del preside: la qualità c’è, ma spesso è sacrificata dalla quantità. ‹‹Una linea imposta dalla riforma universitaria, che bisogna combattere con una maggiore razionalizzazione››, dice Malavasi. In particolare il problema riguarda le matricole che spesso hanno livelli di preparazione al di sotto degli standard previsti. ‹‹Colpa della scuola - dice Malavasi - E noi, seppure con pochi fondi, siamo chiamati a rimediare››. Si parlerà probabilmente anche di questo nel convegno in programma domani cui è stato invitato, tra gli altri, il governatore Renato Soru. (s.z.) _________________________________________________________ Il giornale di Sardegna 30 Nov. 2005 NIENTE PIÙ SOLDI PER IL DIGITALE I 10 MILIONI ANDRANNO ALLA SANITÀ Giunta. Selis è il nuovo manager dell'ospedale Brotzu di Cagliari Bloccato il finanziamento della sperimentazione dopo le polemiche con il governo Sara Panarelli Niente soldi per la sperimentazione del digitale terrestre in Sardegna. Dopo le polemiche delle scorse settimane, ieri la Giunta regionale guidata da Renato Soru ha deciso di destinare i dieci milioni previsti per lo switch-off programmato per fine gennaio in contemporanea con la Valle d'Aosta all'informatizzazione del sistema sanitario della Sardegna. UNA NOTIZIA DESTINATA a dar vita a nuovi scontri istituzionali. Era stato infatti lo stesso Soru a firmare con l'allora ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri l'accordo che prevedeva il passaggio “in anteprima” rispetto al resto d'Italia dal sistema analogico a quello digitale. Grande entusiasmo e convinzione, fino alla delusione dopo la scoperta che gran parte di quell'accordo non sarebbe stato rispettato: come lo stesso Soru ha spiegato, infatti, il governo regionale aveva dato il via libera alla sperimentazione perché erano stati garantiti servizi ai sardi come l'interattività che avrebbe consentito, per esempio, di fare certificati restando comodamente a casa. Servizi che, invece, non potevano essere garantiti visto che, aveva sottolineato il governatore, i decoder cofinanziati dal governo con 90 euro per abbonato «fra sei mesi saranno già superati» Altre polemiche sul rischio che il segnale analogico a gennaio fosse spento senza che tutti i canali, in particolare quelli Rai, avessero compiuto il passaggio, e sul fatto che nella società produttrice di decoder ci fosse Paolo Berlusconi, fratello del premier Silvio che ha premuto per accorciare al massimo i tempi sul passaggio al digitale. I dieci milioni della Sardegna serviranno ora a informatizzare il sistema sanitario dell'Isola, migliorando i servizi per gli utenti (per esempio con un centro unico di prenotazione) e garantendo risparmio per le casse regionali. L'ESECUTIVO HA ANCHE deciso dopo tanti rinvii di nominare il nuovo manager del Brotzu, Mario Selis, che andrà a sostituire il dimissionario Franco Meloni, andato via per contrasti con l'assessore Dirindin. La nomina dell'ex direttore generale della Ragioneria era stata congelata per una decina di giorni in attesa della definizione di un contenzioso di Selis con la Regione. Avvenuta la transazione per le vie ordinarie, la nomina è stata finalmente possibile. È stata anche emanata anche una direttiva che regola l'attività dei circa 20 mila informatori scientifici sardi, oltre a due provvedimenti predisposti dall'assessore alla Difesa dell'ambiente Tonino Dessì: il disegno di legge per l'istituzione del Parco naturale regionale di Monte Arci, a una settimana da quello sul Parco naturale di Gutturu Mannu, e il piano per la qualità dell'aria che monitorando la situazione in Sardegna aiuterà a mettere in atto tutti i provvedimenti necessari a tenere lontana ogni forma d'inquinamento. _________________________________________________________ Il giornale di Sardegna 1 dic. ’05 PANI: UNIVERSITÀ CARROZZONE E forse opportuno ritornare sull'argomento Università, informarne l'opinione pubblica. L'Ateneo cagliaritano si va sempre più definendo come "carrozzone", definito come un'istituzione statale con lo scopo principale di creare vantaggi, alle proprie clientele elettorali. È naturale che nel termine, "carrozzone", sia implicita anche una scarsa efficienza delle sue funzioni istituzionali ed un manifesto avvilimento delle regole, sul piano amministrativo, su quello della ricerca e della didattica, oltre gli ostentati proclami rettorali. Vediamone i termini. L'Ateneo dovrebbe esprimersi attraverso le sue strutture, la Direzione amministrativa ed il Consiglio d'amministrazione per la parte amministrativa, le Facoltà ed i Corsi di Laurea per la parte didattica, i Dipartimenti per la ricerca; il Rettore dovrebbe coordinarle, individuare gli indirizzi politici di programma, vigilare, "super partes", sul funzionamento. È la prima anomalia dell'Ateneo cagliaritano, da parte di un Rettore che, per l'evidente costruzione di un suo consenso elettorale, esautora in pratica i legittimi responsabili dalle proprie funzioni direttive ed avoca a sé quelle responsabilità, con il consenso manifesto ed opportunistico degli stessi sindacati. Il consenso è stato creato nel tempo attraverso il rafforzamento dei principali gruppi di pressione elettorale. Sono quegli stessi gruppi che, oggi, confermano in pratica la candidatura dell'attuale Rettore attraverso un'ennesima modifica di statuto che ne permetterà la sua rielezione. Il sistema si è irrigidito, mentre il dibattito sulle scelte d’indirizzo politico si è azzerato. I riferimenti istituzionali sono stati sostituiti dal rapporto amicale, la certezza del diritto dalla concessione delle prebende elettorali. Il dibattito nelle ultime campagne elettorali riguardi ben poco gli argomenti di politica universitaria, ma quasi esclusivamente il nome del Rettore uscente e quelli dei suoi eventuali oppositori, oltre le questioni di merito e le scelte politiche, ma invece sulle concessione dei favori alle clientele elettorali. È bene che l’opinione pubblica ne sia informata. _________________________________________________________ La Nuova Sardegna 30 Nov ’05 IL CRS4 VERSO LA RIFONDAZIONE Nuovi impegni di Carlo Rubbia e Paolo Zanella Alla telematica e alla fluidodinamica si aggiunge la ricerca nel campo della bioinformatica Riprende slancio la progettualità avviata 15 anni fa per lo sviluppo e la modernizzazione della Sardegna La bioinformatica e l’energia solare ad alta concentrazione sono le nuove frontiere del Crs4, il centro di ricerca avanzata interno al parco scientifico Polaris. Ma andiamo per gradi. «Poco più di quindici anni fa venni avvicinato da un ingegnere, Giuseppe Teofilatto, che faceva parte di una società incaricata dalla Regione di esplorare nuove iniziative di sviluppo», spiega Paolo Zanella, allora responsabile del centro di informatica del Cern, il Centro europeo per la ricerca nucleare, e docente alla Normale di Pisa. «In quei giorni mi trovavo a Pisa - continua - Teofilatto, forse con l’aiuto di una buona cena, mi stimolò parlandomi dell’ipotesi di un centro di ricerca avanzata da costruire in Sardegna». Poi Zanella ne parlò col premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia, a quel tempo direttore del Cern. E alla fine, dopo una serie di viaggi in Sardegna, esattamente il 30 novembre 1990, nacque il Crs4: una sigla ambiziosa, acronimo di Centro di ricerche e sviluppo e studi superiori in Sardegna (da cui l’s4 finale). L’obiettivo era dare un contributo per uscire dall’impasse dello sviluppo. La politica dei poli aveva fatto il suo tempo: pur lasciando alcuni grossi insediamenti produttivi, non aveva creato la così detta verticalizzazione, lo sviluppo di un indotto per le lavorazioni derivate. Nello stesso tempo il problema dei trasporti restava un nodo non risolto. Da qui l’idea di esplorare altre strade per produzioni diverse, in grado di creare alto valore aggiunto. Rubbia fu il primo presidente del Crs4 e Zanella il suo vice. Quest’ultimo portò a Cagliari la sua esperienza maturata nel settore informatico e telematico. Rubbia la sua autorevolezza di fisico. La nuova struttura fece incetta di ricercatori internazionali formando una squadra altamente qualificata. Col tempo diversi di questi sono stati persi, ma resta ancora una compagine di un’ottantina di scienziati. Allora, nel 1990, in tanti storsero il naso. Chi appoggiò subito l’iniziativa aveva in mente il discorso dei parchi scientifici e tecnologici che si erano sviluppati in altre parti del mondo sulla scia dell’esperienza della ormai mitica Silicon Valley della baia di San Francisco. Inoltre alla fine degli anni Ottanta iniziava l’esperienza di Limerick in Irlanda, nello stesso periodo fece i primi passi il parco scientifico realizzato a sud della Costa Azzurra e nei primi anni Novanta partì la Finlandia, oggi tra i leader mondiali dei telefonini. L’atmosfera era quella giusta. Attorno però sarebbe dovuto sorgere il parco regionale. Ma dopo l’iniziale entusiasmo, in pochi vi credettero, i finanziamenti rallentarono e pure la sua corsa, tanto che il parco Polaris nacque formalmente solo nel 2003. Intanto però il Crs4 qualche frutto l’ha dato. Nel 1994 prese il via a Cagliari e grazie a una collaborazione col Crs4, l’esperienza di VideoOnLine (fondata da Nicola Grauso), una delle prime società mondiali a operare ad ampio raggio nel nella rete telematica. Poi nel 1995 Renato Soru acquistò da Grauso una licenza per operare nel web in Cecoslovacchia. Anche lui, poco dopo, iniziò una collaborazione col Crs4. E nel 1997 nacque Tiscali, oggi il secondo internet provider europeo. Probabilmente senza la struttura di ricerca avanzata fondata da Rubbia e Zanella, la creatura di Soru non esisterebbe. Ma la favola bella della ricerca si arenò nei lacci e lacciuoli della burocrazia e del politichese. E Rubbia e Zanella se ne andarono: il primo a presiedere l’Enea, il secondo a fondare il primo centro europeo di bioinformatica a Cambridge. Ma dal 2004, la coppia di ricercatori è di nuovo al timone del Crs4: il premio Nobel alla presidenza, Zanella come vice e responsabile della ricerca. Ora i due responsabili hanno deciso che il Crs4 va rifondato. E in concomitanza coi primi quindici anni di vita, l’ex professore della Normale ha usato il termine «anno zero» per indicare la fase di passaggio dal prima al dopo: una struttura più agile e flessibile. Inoltre ai settori di ricerca tradizionali del Crs4 (dalla telematica all’informatica delle telecomunicazioni, dall’elettronica ai nuovi materiali e ai nanomateriali, dalla fluidodinamica alla modellistica, dalla simulazione alla progettazione di automazione nei sistemi industriali) si stanno aggiungendo un comparto per la bionformatica, già finanziato e guidato da Zanella, che ha portato a Cagliari l’esperienza di Cambridge; e uno per l’energia solare con sistemi concentrati in grado di realizzare delle vere e proprie centrali, diretto da Rubbia. Un settore, quest’ultimo, ricchissimo di prospettive. Con l’approfondimento degli studi sul gemoma umano, l’informatica diventa sempre più indispensabile per affrontare la complessità del Dna, da qui la nascita della bioinformatica. Settore che potrà anche contribuire ad aumentare le sinergie con l’università. «Noi - informa Gavino Faa, preside della facoltà di Medicina dell’ateneo di Cagliari - abbiamo già iniziato una collaborazione col Crs4 per la medicina simulata. In particolare il centro di Rubbia ha realizzato, con la realtà virtuale, un occhio che risponde a tutte le stimolazioni e che permette di simulare anche delicati interventi. Aspetto molto importante per la didattica e su cui continueremo a collaborare». Con un costo di circa sette milioni di euro all’anno, il Crs4 punta alla creazione di elementi di ricerca e sviluppo, di pre-applicazione industriale, in grado di attirare industrie e di svilupparne altre locali. «Bisogna - sottolinea Roberto Crnjar, preside della facoltà di Scienze del capoluogo dell’isola - che il Crs4 aiuti l’università nell’aspetto in cui la ricerca italiana è più debole: la produzione di brevetti. I centri di ricerca pubblici restano come grandi fucine di idee, il Crs4 può funzionare come spin off per l’applicazione industriale». Ma «occorre che gli enti pubblici e la Regione in primo luogo ci credano - afferma Giuseppe Usai, già amministratore delegato del Crs4 dal 2001 al 2003 e docente di economia e gestionen delle imprese a Cagliari - questa struttura ha bisogno di fondi. Dal mercato può ricavare il 50 per cento del suo fabbisogno, il resto deve venire dalla Regione o dagli enti locali. Recentemente però il Crs4 è diventato una Srl con un unico azionista, il Consorzio 21, la struttura di proprietà della Regione che gestisce il parco scientifico. Prima c’erano anche i privati: non vorrei, però, che la loro uscita sia un passo indietro. Il Crs4 è importante perché la ricerca e sviluppo è il motore dell’industria contemporanea». Roberto Paracchini ======================================================= ________________________________________________________________ Il Sole24Ore 28 Nov ’05 SANITÀ:UNA RETE NAZIONALE GARANTISCE L’ECCELLENZA Terzi al mondo dopo gli Usa DI ALESSANDRO NANNI COSTA * Il primo trapianto di cuore in Italia venne realizzato da Vincenzo Gallucci e dalla sua équipe il 14 novembre 1985 a Padova. Questo straordinario risultato non fu un evento isolato: nell'arco di pochissimi giorni altri 5 centri (Milano, Bergamo, Udine, Pavia e Roma) effettuarono il loro primo trapianto grazie al coordinamento operativo del Nord Italia Transplant, centro di Riferimento situato presso il Policlinico di Milano. Ciò che accadde non fu casuale. Da mesi il ministero della Sanità aveva elaborato un progetto nazionale - fortemente voluto dall'allora ministro Costante Degan e diretto da Luigi Donato del Cnr di Pisa - per l'attivazione di questa straordinaria terapia. I giornali e la Rai descrissero quegli eventi in modo preciso e puntuale attraverso titoli di prima pagina e grandi servizi giornalistici e televisivi. Per la prima volta, l'attività di trapianto di organi effettuata nel nostro Paese, posta sotto i riflettori, riceveva un esplicito riconoscimento e apprezzamento dall'opinione pubblica. Il ricordo di quei giorni viene celebrato, preso numerose città italiane, attraverso una serie di manifestazioni e iniziative legate insieme da un unico logo, coniato dal ministero della Salute e dal Centro nazionale trapianti per dare risalto nazionale all'evento, richiamando l'attenzione di tutti sul significato di questi venti anni e sul cammino percorso dalla trapiantologia italiana. Da questo punto di vista, è interessante evidenziare come, già venti anni fa, fossero presenti alcuni elementi di assoluta modernità, che non solo oggi, ma anche nel futuro rappresenteranno realtà fondamentali per la trapiantologia nazionale. Tra questi: l'assoluto valore delle attività assistenziali legato alle capacità delle scuole chirurgiche e internistiche; la realizzazione di un progetto ai rete non competitivo, dedicato all'assistenza del paziente, coordinato a livello centrale, che ha consentito ai diversi centri di preparare in modo adeguato strutture e personale; lo spazio offerto dai media agli avvenimenti, che furono seguiti con attenzione e grande partecipazione; l'effetto positivo che tutto ciò ebbe sull'opinione pubblica, sui professionisti e sugli operatori del sistema trapianti. Quanto si fece per preparare quei primi interventi costituì la premessa e la base per lo sviluppo del sistema odierno. Si può dire, pertanto, che in quei giorni per la trapiantologia italiana, fini l'era del pionierismo e iniziò quella della ricerca e dell'assistenza. Gli eventi successivi non sempre andarono in quella direzione, ma certamente il ricordo di quei giorni era presente in Parlamento quando, dopo tanta attesa e con il concorso di tutte le forze politiche, fu varata la nuova disciplina dei trapianti che ha consentito al nostro Paese di raggiungere un livello di riferimento nel contesto europeo. Oggi, infatti, l'Italia è al primo posto in Europa per qualità dei trapianti. È l'ultimo dei traguardi raggiunti dal nostro Paese, che ha recentemente ottenuto la certificazione di qualità da parte del prestigioso Collaborative transplant study (Cts) di Heidelberg. Il Cts, infatti, dopo aver raccolto e messo a confronto tutti i dati europei, ha posto il nostro Paese al vertice. Un riconoscimento che si aggiunge ad altre importanti conferme: siamo, infatti, al secondo posto tra i grandi Paesi europei (dopo la Spagna) e terzi al mondo (dopo Usa e Spagna) per numero di donatori, mentre siamo secondi dopo la Spagna per i trapianti di cuore e di fegato, e terzi dopo Spagna e Francia per trapianti di rene da cadavere. Solo pochi anni fa non si potevano nemmeno immaginare questi risultati, eppure non bastano. Le liste d'attesa, pur non essendo tra le più preoccupanti in Europa, sono ancora lunghe e, sebbene vada sottolineato il calo del tasso di mortalità di chi è in lista di attesa - segno che i nostri malati sono ben curati - molto c'è ancora da fare per dare risposta ai pazienti. E in tale contesto che il senso di un una celebrazione, come quella dei vent'anni di trapianto di cuore, può e deve andare oltre il ricordo per assumere i toni dell'impegno. A ciò si aggiunga la valenza unica che il trapianto di cuore assume nel comune sentire, tra tutti gli altri tipi di intervento, in ragione della portata simbolica di tale organo, per tradizione considerato il centro della vita. C'è, anche nelle modalità con cui viene effettuato questo tipo di intervento, che prevede il passaggio dall’essere senza cuore" al "ricevere un cuore nuovo", la capacità di generare nelle persone una percezione straordinaria circa l'efficacia della cura e i progressi della medicina in questo campo. Tutto ciò conferisce un senso particolare alle celebrazioni di questo anniversario, rendendolo un'opportunità unica per sensibilizzare, informare, discutere su un tema tanto importante. Nell'evento nazionale, che ha avuto luogo a Padova il 14 novembre, esattamente a 20 anni di distanza da quegli eventi, abbiamo scelto 2 diversi momenti: nel primo, tenutosi la mattina presso Palazzo del Bo', i centri chirurgici attivi nel trapianto di cuore e le organizzazioni di coordinamento hanno presentato lo stato dell'arte nel nostro Paese, soffermandosi anche sulle nuove sperimentazioni in atto e sulle prospettive che possono essere offerte dall'utilizzo, in questo campo, delle cellule staminali; nel secondo, tenutosi nel pomeriggio, al Teatro Verdi, la città di Padova ha celebrato il ricordo dell'evento, proiettandolo nel presente e nel futuro attraverso un lavoro di squadra che vede coinvolta tutta la rete nazionale. Sono cosi state nuovamente vissute, attraverso immagini, ricordi e testimonianze di quanti furono protagonisti di quei momenti, le emozioni di 20 anni fa. Tutto ciò è servito a ritrovare i motivi dell'impegno di ieri e di oggi, nel ricordo dei donatori che hanno consentito di effettuare i trapianti e nella consapevolezza che i * Direttore Centro nazionale trapianti _________________________________________________________ La Nuova Sardegna 1 dic. ’05 RUBINO: UN PROFESSORE SASSARESE ALL’OMS Salvatore Rubino nello staff che studia le nuove epidemie SASSARI. C’è anche un sassarese nello staff dell’Organizzazione mondiale della Sanità che si sta occupando di bloccare il diffondersi di pericolose epidemie mondiali, tra cui la “aviaria”. Proprio in questi giorni c’è stato un importante riconoscimento internazionale da parte dell’Oms per l’Università di Sassari e in particolare per Salvatore Rubino. Rubino, infatti, professore di microbiologia nella facoltà di Medicina, è stato chiamato a far parte del comitato di esperti del centro dell’Oms di Lione. Si tratta dell’Office National Epidepmic Preparedness and Response (ufficio per le epidemie nazionali e della sorveglianza e della prevenzione), che si occuperà della protezione della salute globale attraverso il controllo delle epidemie e la formulazione di risposte adeguate ad arginare il loro diffondersi. Lo stesso professor Rubino, reduce da un incontro con i componenti di questa commissione di Lione presieduta da Stefano Lazzari, al suo rientro a Sassari ha spiegato che questa commissione attualmente si sta occupando di sviluppare un programma per il potenziamento dei laboratori dei paesi in via di sviluppo perché si possano prevenire le epidemie e per riuscire a contrastare le malattie emergenti, come la sars o l’influenza aviaria, o altre come la tubercolosi, il colera, la salmonellosi. I membri di questa commissione lavoreranno per creare nei paesi in via di sviluppo dei laboratori “sentinella” in grado di avvertire e identificare gli agenti delle epidemie. Il comitato scientifico internazionale, di cui è entrato a far parte Rubino e che dovrà dare attuazione a questo programma sarà composto da 8 persone tra cui due degli Stati Uniti, due europei, tre dell’Africa e uno dell’Asia. Una delle prime azioni intraprese è stata la stesura di un documento che faccia conoscere l’iniziativa in modo che, sia nei paesi in via di sviluppo sia negli altri, ci sia la possibilità di inoltrare la domanda per prendere parte a questa iniziativa della quale sono state anche stabilite le regole per la partecipazione. La scelta sulla persona del docente sassarese non è stata casuale ma è dovuta in gran parte ai meriti dell’Università di Sassari che, in questi ultimi anni soprattutto, ha maturato una grande esperienza nella cooperazione internazionale avviando vari paternariati con paesi in via di sviluppo sia in campo medico ma anche nei settori dell’archeologia, agro- zootecnico, ambientale a altro. Lo stesso Salvatore Rubino dirige un sito internet di formazione medica a distanza, finanziato dalle Acli e dal Consorzio SiS, che sta diventando un modello di formazione a distanza molto importante con oltre 1000 iscritti da tutto il mondo. Il sito permette a studenti e operatori dei paesi in via di sviluppo di accedere a lezioni altamente qualificate attraverso internet. Tutte iniziatice molto apprezzate dall’Oms che ha voluto così inserire il docente sassarese nello staff internazionale. Roberto Spezzigu _________________________________________________________ L’Unione Sarda 30 Nov ’05 TIROIDE, RARO INTERVENTO AL POLICLINICO UNIVERSITARIO Salva una donna affetta da una disfunzione incurabile La donna, 41 anni, affetta da una grave disfunzione tiroidea e che versava in gravi condizioni a causa di una tireotossicosi è stata operata con successo con un intervento mai svolto prima in Italia. Una donna affetta da una grave disfunzione tiroidea e che versava in gravi condizioni a causa di una tireotossicosi è stata operata con successo ieri con un intervento mai svolto prima in Italia da un'équipe del Policlinico universitario in collaborazione con medici del Brotzu. La donna, 41 anni, era stata male a marzo. Un improvviso mal di testa, tachicardia, palpitazioni. La diagnosi è immediata: iperattività ormonale causata dalla disfuzione della tiroide, una patologia piuttosto diffusa nell'Isola. In genere il problema viene tenuto sotto controllo con una terapia farmacologica e solo in rari casi i pazienti non rispondono alle cure. È il caso della quarantunenne che per otto mesi si rivolge a tutti gli ospedali sardi, in nessuno dei quali si riesce a trovare una cura efficace. Tre mesi fa si rivolge a Stefano Mariotti, endocrinologo del Policlinico, che prova una serie di sistemi, «anche fuori dalla prassi». Nessun risultato. La pressione sistolica continua a oscillare tra 260 e 300, il cuore pulsa alla media di 200 battiti al minuto, con il passare del tempo il rischio di infarto, ictus, emorragia cerebrale cresce. La strada dell'intervento chirurgico sembra l'unica percorribile. Ma occorre il consenso del paziente, considerato il rischio, il via libera del Comitato etico dell'Università, facoltà di Medicina e quello di Gabriele Finco, direttore del reparto di Anestesia e Rianimazione. Ottenute tutte le autorizzazioni si prepara l'intervento. Complicato dal fatto che la paziente è in stato di tireotossicosi, «dunque aveva il 70 - 80 per cento di possibilità di morire», spiega Finco. È a questo punto che i medici fanno la scelta vincente. Il giorno dell'intervento, di primo mattino, la donna viene trasportata al Brotzu dove viene sottoposta a una seduta di plasmaferesi, cioè una pulizia degli ormoni in circolo nel sangue. Così quando torna al policlinico le sue condizioni cardiocircolatorie e metaboliche sono più controllabili. A metà mattina viene portata in sala operatoria, anestetizzata e operata dal professor Antonio Nicolosi con un risultato soddisfacente. «È fuori pericolo, le è già stata fatta una rapida rieducazione e già cammina», riferisce il responsabile di Anestesia. Per avere la certezza assoluta della guarigione bisognerà attendere il referto istologico che svelerà che cosa aveva esattamente alla tiroide. «La rarità dell'intervento sta, appunto, nella specificità del caso. Prima di procedere abbiamo cercato report in letteratura e non abbiamo trovato niente in Italia, tre casi in Germania e 4 in paesi anglosassoni», spiega ancora Finco. Che ringrazia tutti per la collaborazione: Mariotti e Nicolosi, Antonio Marchi, Mario Musu e le colleghe del Brotzu Rosa Manconi, Alberta Orrù e il loro primario, Pani. (f. ma.) _________________________________________________________ Sassari Sera 1 dic. ’05 I MEDICI CONTRO LA DELIBERA DIRINDIN Contestato l'atto della Giunta regionale che vieta agli informatori scientifici di essere ricevuti durante l'orario d'ambulatorio «Cancelli la riforma o da gennaio niente straordinari»... DI FABIO MANCA I medici di famiglia bocciano la delibera della Giunta regionale che regolamenta l'attività degli informatori medico scientifici, che da gennaio potranno essere ricevuti solo fuori dall'orario di ambulatorio, e minacciano di sospendere gli straordinari se l'atto non verrà ritirato. Il segretario regionale della Fimmg, Giampiero Andrisani, parla di «delibera irresponsabile che influirà sui servizi agli assistiti», definisce l'atteggiamento dell'assessore «irrispettoso della dignità dei medici di base, che subiscono l'atteggiamento colonialista della giunta», mentre il presidente regionale della Aiisf (Associazione italiana informatori scientifici del farmaco) Costantino Simola condivide sostanzialmente le regole imposte dalla giunta regionale ma esprime preoccupazione «per le difficoltà cui andremo incontro a causa del disagio dei medici». L'assessore alla sanità Nerina Dirindin difende la riforma: «I medici di base sono convenzionati con il servizio sanitario nazionale e devono garantire un certo numero di ore di ambulatorio. Trovo poco condivisibile che i pazienti debbano essere superati dagli informatori, che possono svolgere la loro importante attività in altri orari». La verità è che la delibera approvata martedì pomeriggio si inserisce in un quadro di forte contrapposizione tra Fimmg e assessorato alla sanità ed è per questo che un atto apparentemente innocuo ha scatenato una reazione apparentemente eccessiva: «Dissentiamo su tutta la gestione della politica sanitaria regionale che sino ad ora non ha prodotto alcun risultato», attacca Andrisani «e non condividiamo che tutte le decisioni siano delegate alla Commissione tecnica farmaceutica (che ha sostituito l'Osservatorio del farmaco) il cui approccio è teorico e non tiene conto delle esigenze e dei consigli dei medici di base che hanno dato un enorme contributo al miglioramento della salute degli italiani». Ma la ragione per cui sono state date nuove regole agli informatori medico scientifici (circa 800 in Sardegna) non è solo la tutela dei pazienti, ma è anche «ricondurre la spesa farmaceutica nei limiti previsti dalla normativa nazionale». Da questo punto di vista la Sardegna ha una delle peggiori performance nazionali «e questo è il primo passo», dice l'assessore, «peraltro frutto di studi nazionali e riflessioni fatte con tutti i rappresentanti dei medici nella commissione presieduta da Silvio Garattini». Raimondo Ibba, presidente della ferderazione provinciale dell'ordine dei medici, introduce un altro elemento: «Il settore dell'informazione sui farmaci sino ad oggi è stato esageratamnente condizionato dalle pressioni dell'industria farmaceutica che tende spesso a fare marketing più che informazione sanitaria». C'era, dunque, da spezzare questo presunto meccanismo perverso. Medici e, ovviamente, informatori, smentiscono questa tesi. Antonio Scano, consigliere nazionale dell'Aiisf, spiega che «noi facciamo informazione scientifica, non solo marketing» e aggiunge che «si tende a far passare il concetto che gli informatori siano i principali responsabili del deficit della spesa farmaceutica, e questo è assolutamente falso». Tonino Serra, medico di base oltreché consigliere comunale della Margherita e politico di lungo corso, conferma: «La nostra formazione professionale è delegata principalmente agli informatori, visto che la Asl è inedempiente. Anche per questo la delibera della giunta regionale è una grande fesseria. Siamo liberi professionisti e in casa nostra siamo liberi di organizzarci come crediamo». Un concetto condiviso da Simola e persino dall'assessore: «Purtroppo è vero che gli informatori fanno formazione», ammette Nerina Dirindin, «ma proprio per questo vogliamo regolamentarne meglio l'attività per far sì che l'attività formativa venga rivolta possibilmente a gruppi di professionisti e possibilmente in luoghi pubblici». D'accordo sulle nuove regole, gli informatori medico scientifici risentiranno inevitabilmente della nuova organizzazione dei medici: «Non potremo più organizzarci come prima, la nostra attività rallenterà, in un contesto di forte rallentamento della spesa farmaceutica e forse perderemo posti di lavoro», ammette Scano. I pazienti, comunque vada, ringraziano. Fabio Manca:UNIONE SARDA ________________________________________________________________ L’Unità 3 Dic. 2005 LA RIVOLTA DEI MALATI LUCA COSCIONI Ieri ho aperto i lavori del Congresso dalla Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica e l'ho fatto con un nuovo sistema di scrittura con gli occhi. Con il semplice movimento dagli occhi posso infatti selezionare lettere o intere parole su una tastiera virtuale visualizzata sullo schermo e in questo modo scrivere i miei pensieri. Pensieri che vengono poi trasformati in voce da un sintetizzatore vocale. Gli occhi sono oggi lo specchio della mia, della nostra battaglia di libertà. Gli occhi mi portano a cercare oltre i confini visibili del loro movimento ed arrivare laddove la mia debolezza, la mia paura, la mia sofferenza, la sclerosi laterale amiotrofica, non mi permettono di andare. II progetto «Libertà di parola» può essere considerato il cuore pulsante dell'Associazione, e lo é sin dalla sua nascita, perché restituire la parola a chi ne é stato privato, rappresenta un diritto umano fondamentale. Se cinque anni fa, non avessi avuto a disposizione, un programma di scrittura e un sintetizzatore vocale, non sarebbe stato possibile combattere la battaglia per la libertà di ricerca scientifica, per la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Quest'ultima, ha subito il colpo del risultato referendario che deve essere considerato non una sconfitta, ma un patrimonio di voti da far fruttare. La azione politica deve essere proprio incentrata su tale esito. Nei momenti più difficili i radicali hanno saputo resistere e mantenere la barra a dritta e superare le difficoltà che di volta in volta si presentavano. Dieci milioni di italiani hanno usato la seconda scheda che la Costituzione mette a disposizione degli elettori. Dobbiamo difendere lavolontà di quel voto, di quella scheda elettorale, di chi ne ha fatto l'uso che la Costituzione ci consente di farne. Quei voti contano qualche cosa, soprattutto considerato che lo strumento referendario come mezzo per esercitare il potere legislativo diretto da parte del popolo, viene molto usato in Paesi come ad esempio la democrazia americana e svizzera, dove non é richiesto il quorum del 50% più uno degli aventi diritto al voto come invece é previsto, in Italia. Considerato anche che in qualche caso il responso abrogativo popolare é stato, con disinvoltura, dalla classe politica disatteso come ad esempio, sul tema del finanziamento pubblico dei partiti. È solo un richiamo di quanto é stato ampiamente approfondito subito dopo l'esito referendario nell'Assemblea dei Mille. Ma é doveroso anche in questa sede e soprattutto in questo Congresso, richiamare la grave ingerenza degli apparati clericali, con l'appello astensionista a gamba tesa del Cardinale Ruini, che ha violato, ripeto violato, e viola ogni accordo concordatario tra Stato e Chiesa. Le continue violazioni del Concordato da parte delle gerarchie ecclesiastiche dipendono dagli sconfinamenti prepotenti, pervasivi e dalla intenzionale incapacità di operare, a differenza della scienza, nei propri spazi, nei propri limiti, facendo divenire le parrocchie vere e proprie sedi di confronto e di dibattito politici. Quindi non aspettiamoci, non attendiamoci niente di diverso da quello che conosciamo da sempre, niente di diverso da una opposizione forte alla libertà di ricerca, alla libertà terapeutica, alla eutanasia, alle libertà individuali. Poiché questa ingerenza diviene una vera e forte presa di posizione politica, come Presidente dell'Associazione che porta il mio nome per la libertà di ricerca scientifica, desidero esprimere la mia reale convinzione che, sebbene l'Associazione é strumento a disposizione di cittadini di ogni credo e partito, deve porre ancora con più forza la propria soggettività, il proprio corpo di obiettivi, al centro del dibattito politico per arrivare al cuore della politica, aderendo al Progetto politico della «Rosa nel Pugno». «Dal corpo dei malati al cuore della politica» é proprio il titolo che abbiamo voluto dare al Quarto Congresso dell'Associazione che porta il mio nome. Perché la realtà dei malati é pregna di risonanze fortemente rivendicative cioè di istanze rivendicatrici della soggettività, della dignità e della libertà umana. Ma da parte di alcune realtà associative (non di tutte: ne sono l'esempio quelle presenti a questo congresso e quelle che hanno sostenuto e si sono battute durante la campagna referendaria) c'è la semplice conduzione della sola pratica di rivendicazione delle garanzie che porta ad una sorta di immobile esistenzialismo per i malati. Esiste una sorta di riluttanza, di resistenza ad offrire il proprio corpo, la soggettività del proprio corpo per tale rivendicazione. Questi due aspetti della rivendicazione delle libertà civili ed individuali dei malati devono essere convergenti perché è il corpo che può fare la differenza dinanzi al dolore e alla sofferenza umana. Mi riferisco al diritto di voto dei malati intrasportabili che ha visto in occasione del referendum di giugno centomila disabili iscritti «d'ufficio» tra gli astensionisti, questione che deve essere definitivamente risolta per il futuro in vista anche delle imminenti consultazioni politiche. Mi riferisco agli sforzi per impedire che una coppia italiana sterile sia diversa da una qualsiasi altra coppia europea, riguardo al desiderio di divenire genitori. Mi riferiscono alla lotta affinché l'etica e la morale di una sola parte racchiusa nella legge 40 non sia imposta a tutti i cittadini con coscienza etica e religiosa diverse, lotta a difesa della laicità dello Stato, per una società nella quale i cittadini possano riconoscersi tutti. Mi riferisco alla lotta affinché la ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali sia libera da pregiudizi ideologici e dogmatici. Mi riferisco alla cannabis terapeutica, quella parte della ricerca e della medicina che da decenni si batte per una sperimentazione e un impiego liberi, a scopo terapeutico, dei derivati della cannabis. Quale principio etico, quale istanza politica dovrebbero mai impedire a un malato di cancro sottoposto a cicli di chemioterapia di combattere il proprio dolore, la nausea ed il vomito con farmaci come ad esempio il notissimo Marinol? Non dimentichiamo le numerose ricerche rispondenti a criteri di estremo rigore scientifico che hanno dimostrato le proprietà antiemetiche della cannabis. Ma in Italia oggi c'è chi si muove per mettere sullo stesso piano droghe pesanti e leggere con l'abolizione di qualunque limite nell'uso o nell'abuso di queste sostanze profondamente diverse. Mi riferisco alla proposta di legge Fini dove un eroinomane e uno che fa uso di marijuana sono trattati allo stesso modo sottoponendoli allo stesso giudizio penale. Mi riferisco inoltre, all'evento morte, alla dignità del morire, al morire con dignità, alla eutanasia e alla volontà di morire. Di porre fine ad atroci sofferenze, a dolori intollerabili e ai trattamenti disumani, trattamenti in continuo aumento per lo sviluppo di mezzi terapeutici ma non per questo con l'obbligo o dovere morale di utilizzarli contro la volontà della persona. "Distanasia versus eutanasia" permettetemi di dirlo, assistendo paradossalmente alla rivendicazione del diritto di una persona ad essere dichiarata morta. Vogliamo allontanare i fantasmi che ruotano intomo al termine eutanasia, vogliamo non essere vittime della eutanasia clandestina, proponiamo la legalizzazione, la regolamentazione della eutanasia, dando rilevanza giuridica alla volontà del malato di porre dei limiti alla sua esistenza. Tratto dall'intervento tenuto ieri al quarto congresso dell'associazione Luca Coscioni perla libertà di ricerca scientifica in corso a Orvieto ________________________________________________________________ La Repubblica 3 dic. ’05 NON ILLUDETE I PAZIENTI, LA SCIENZA NON FA MIRACOLI" "Curata con le stammali,ora cammino I dubbi di Gianvito Martino e Antonio Uccelli, ricercatori dell'associazione italiana perla sclerosi multipla ROMA - «Ai malati dico: attenti ai viaggi della speranza, perché noti è vero che tentar non nuoce». Gianvito Martino, scienziato dell'istituto San Raffaele di Milano e membro del comitato scientifico dell’Aism (Associazione italiana sclerosi multipla), ai pazienti consiglia di non uscire dai confini della medicina ufficiale. È quindi scettico di fronte all'annuncio della clinica di Rotterdam, rimbalzato sui quotidiani anziché sulle riviste scientifiche. «Gli esperi menti con le cellule staminali - spiega Martino - possono essere pericolosi. Per questo la scienza procede con i piedi di piombo e le cure arrivano al letto dei pazienti dopo molti anni di studi». Antonio Uccelli, neuroscienziato dell'università di Genova e membro della commissione di ricerca della Fondazione italiana sclerosi multipla, conferma: «Non abbiamo nessuna ragione di tenere le terapie chiuse nel cassetto. Abbiamo invece l'obbligo di offrire al paziente cure il più possibile sicure. Cioè sperimentate con criteri scientifici su un gran numero di persone, discusse e infine accettate dalla comunità medica». L'iniezione di cellule staminali prelevate da una banca del cordone ombelicale per la cura della sclerosi multipla è una tecnica mai tentata prima. Ma in teoria potrebbe avere delle ragioni per funzionare. «Quello che escludo con certezza è che in cinque minuti riesca a far alzare una persona dalla se - dia a rotelle» dice Martino. «La sclerosi - aggiunge Uccelli – è una malattia fluttuante. Può accadere che un malato abbia dei miglioramenti improvvisi senza ragione apparente». Ma quale logica può esserci dietro alla terapia proposta dalla Pmc Clinic di Rotterdam? I due medici fanno ipotesi, avendo a disposizione non pubblicazioni scientifiche ma articoli di stampa. «Una delle strategie che stiamo provando anche a Genova - spiega Uccelli - consiste nel trapiantare cellule del midollo del paziente per cercare di curare la malattia alla fonte, riazzerando il sistema immunitario e poi riavviandolo». Alla base della sclerosi multipla c'è infatti un problema autoimmunitario: il sistema di difesa dell'organismo si rivolge contro le cellule nervose dell'organismo stesso. «Ma con questa tecnica è possibile arrestare il peggioramento della malattia, non ottenere miglioramenti. Tanto meno risultati miracolosi come quello di alzarsi dal la sedia a rotelle pochi minuti dopo l’iniezione». Il trapianto di cellule staminali del cordone ombelicale potrebbe in teoria dare risultati simili a quello del midollo. «Ma finora nessuno - spiega Martino - se escludiamo l'annuncio della Pmc Clinic ha mai tentato questa strada». La strade per ottenere il miglioramento - e non il congelamento - della sclerosi potrebbero arrivare dalle cellule staminali nervose. «Abbiamo condotto diversi studi sui topi» dice Martino. E a Stanford lo scorso ottobre è iniziata la prima sperimentazione sull'uomo che prevede l'uso di staminali per curare una malattia nervosa. Il nemico da battere é la micidiale sindrome di Batten, che colpisce i bambini privandoli di parola, vista e movimento. G.Martino ________________________________________________________________ ItaliaOggi 30 Nov.2005 LAUREE INFERMIERI, ARRIVANO I MAGISTRALI DI ANDREA BATTISTUZZI Da oggi in ospedale i medici non saranno i soli a essere specializzati. Arrivano in questi giorni in tutta Italia le prime lauree magistrali in scienze infermieristiche, che segnano la fine del primo ciclo quinquennale di studi realizzato dalla riforma del 1999. La laurea specialistica è una tappa ulteriore nel cambiamento della professione, iniziata con l'introduzione dei diplomi universitari nel 1990, che dà oggi la possibilità agli infermieri di accedere alla dirigenza delle strutture ospedaliere fino al nono livello e di essere un riferimento nella ricerca scientifica. «Giuridicamente è un titolo di pari grado a quello medico, ma con competenze molto diverse che si integrano per un servizio migliore ai cittadini», spiega il vicepresidente dell'Ipasvi Gennaro Rocco. «C'è un'inversione di tendenza», ha aggiunto Rocco, «molti più giovani sono interessati a questo mestiere grazie alle nuove opportunità di carriera e ad una visibilità sociale più alta. I 350 specializzati di Roma lavorano già tutti e molti hanno già un ruolo dirigenziale». _________________________________________________________ L’Unione Sarda 28 Nov ’05 FRANCO MELONI: ECCO PERCHÉ SONO STATO COSTRETTO A DIMETTERMI Manuale per rottamare i manager di GIORGIO PISANO Colpito e affondato dall'assessore regionale alla Sanità, Franco Meloni, manager dell'ospedale Brotzu di Cagliari, è uomo di destra che faceva benissimo una cosa di sinistra: garantire un'assistenza civile e decorosa. Considerato capace, anzi bravo, da amici e avversari. Perfino onesto (sport in estinzione). Ma allora perché è stato giustiziato? Figura tra i soci fondatori, se così si può dire, della più grande fabbrica della salute in Sardegna. Il Brotzu era un'incompiuta, un vuoto palazzone grigio quando - snobbando l'aperta ostilità delle cliniche private - hanno deciso di procedere, puntare dritti all'inaugurazione. Duemila dipendenti, gli ultimi quattro bilanci sono stati chiusi con un utile di oltre otto milioni di euro facendo crescere contemporaneamente il numero (+10 per cento) e la qualità dei ricoveri. L'indice di soddisfazione degli utenti sfiora il 94 per cento. Nell'isola nessun ospedale può vantare queste cifre, pochissimi in Italia. Replay: ma allora perché è stato giustiziato? Meloni ha iniziato a mettere il naso in questo campo quando la sanità confinava col far west. Clamorosa, alla fine degli anni '70, la richiesta che il direttore di Rianimazione rivolse al presidente dello sgarrupatissimo San Giovanni di Dio: gentile signore, servono gatti, possibilmente non timidi, per fronteggiare l'arrembaggio in corsia di topi opulenti e spregiudicati. Anziché gatti piovvero giornalisti da tutta Europa. Preistoria, parentesi chiusa. Nato a Carbonia, Franco Meloni vedeva i capataz delle miniere circolare sulle Alfa 1900 nere. E in quel momento decise che avrebbe fatto l'ingegnere. Si iscrisse al Politecnico di Torino: quindici giorni furono più che sufficienti per suggerirgli la fuga. Laureato in Medicina, è diventato poi assistente all'università. Aveva davanti la classica carriera da barone quando un viaggio in Usa gli ha dato un'altra illuminazione: «Ho capito che non ero fatto per la ricerca. Richiede pazienza e senso dell'attesa: io non ne ho». Cinquantasette anni, sposato a una ricercatrice di Chimica degli alimenti, due figli, ha pulsioni tatcheriane e una fede dichiarata: «Sono un estremista liberale». Estremista che, per ragioni di compatibilità ambientale, ha trovato spazio tra i Riformatori. Ammette che gli capita d'essere arrogante, di non ascoltare abbastanza e con altrettanta serenità dichiara di possedere intelligenza e senso dell'umorismo. Non fa nulla, assolutamente nulla, per non risultare antipatico ma replica assicurando d'essere «in realtà simpaticissimo, talvolta perfino irresistibile». Nella buona e nella cattiva sorte ha sempre ricordato di provenire da una famiglia benestante. «Che c'entra? Diciamo che mi sono liberato dal bisogno fin da piccolo. Con tutto quello che questo comporta». Per esempio finire nel mare mostrum della sanità pubblica, dove galleggiano furti, asini e tangenti. Pur essendo un rispettoso servitore dello Stato (a lui piace dire civil servant richiamandosi ai colletti bianchi dell'Impero britannico), ha fatto spesso di testa sua. Per i trapianti (rene, cuore, fegato) non ha mai aspettato l'autorizzazione da Roma. «Avevamo le carte in regola ma non ci davano l'okay definitivo per dirottare gli organi su altri centri della penisola». Lobby, interessi palesi e occulti: anche in quel caso. Corruzione. «Sì. Una ditta mi ha proposto di chiudere un concordato per un miliardo di lire. A me sarebbero spettati cento milioni. E' finita con un lodo arbitrale, si sono dovuti accontentare di 320 milioni». C'entra qualcosa, la politica, con la gestione di un ospedale? «Meno di quello che si pensa. La gente crede che nominiamo un primario perché ce lo chiede un politico». Perché, non è vero? «Non nel mio caso. Eppoi i politici chiedono altro». Cioè? «Squagliano i telefoni per proporti l'assunzione di un'impiegata, di una dattilografa...». Ma l'ospedale è o non è una sorgente di voti? «Non lo è. Dentro un ospedale come il Brotzu, più di 600 posti letto, c'è il medico di Forza Italia e quello dei Ds, c'è il sindacalista di una parte e quello della parte opposta». In che modo si infiltrano i politici? «Chiamano per commuoverti. Ti raccontano che quell'infermiera ha due bimbi piccolissimi: non si potrebbe trasferire? Quell'altra invece è orfana: anche se ha cinquant'anni». Chi ha privilegiato? «Le persone in cui ho creduto. In Medicina nucleare, anticipando la filosofia della Dirindin, ho nominato primario una milanese di 38 anni. Una fuoriclasse». Esiste una mafietta in camice bianco? «Certo che esiste. Esistono interessi in camice bianco, e non necessariamente negativi. Poi c'è anche il primario coglione: fa parte del gioco». Ha respinto molti assalti? «Molti. E qui ci fermiamo». Quanto conta per un manager l'assessore alla Sanità? «E' fondamentale. Se non hai la fiducia dell'assessore, non puoi lavorare bene. Quello del manager è un mestiere da equilibrista: non lo puoi fare con un fucile puntato sulla schiena». Quella in corso nella sanità sarda è una lottizzazione? «Sì». Uguale a quella del centrodestra. «No, quelle erano meglio sul piano dei titoli e dei curricula». Sta dicendo che i nuovi dg sono miracolati? «No. La qualità di un dg si misura nel tempo. Voglio solo dire che sulla carta uno vale più dell'altro. Chicchi Trincas, manager uscente della Asl di Sanluri, ha molti più titoli di quello entrante. Che poi sarà pure migliore, ma questo è un altro discorso». In campagna elettorale si parlava di meritocrazia. «Si vede che hanno cambiato idea». Conosce Renato Soru? «Sì». Non sia orunese, dica di più. «Ho trovato fascinoso il messaggio che ha trasmesso prima dell'appuntamento elettorale. Io, che non l'ho votato, sono rimasto colpito». E poi deluso. «Tempo al tempo, troppo presto per dire che ha fallito. Sono rimasto deluso solo sul fronte della sanità. Io non contesto il suo diritto di cambiare i dg. Ma aveva detto: i bravi restano. Bene: allora perché me ne vado, perché mi hanno costretto ad andare via?» Che rapporti ha con l'assessore Nerina Dirindin? «Formalmente buoni. Nella sostanza, ho sempre avuto la sensazione di essere sopportato. Salvo una visita-lampo, non è mai venuta a visitare l'ospedale: a differenza di quello che ha fatto in tutta la Sardegna». Il motivo? «Forse aveva problemi a dire che al Brotzu tutto funzionava nel migliore dei modi o quasi. Credo che proprio questo abbia ritardato la mia fucilazione». Lei ha dato le dimissioni. In realtà è stato licenziato? «Dimesso, licenziato: che senso ha? Volevano che me ne andassi e me ne sono andato». Cosa pretendeva da lei l'assessore? «Mi ha chiesto di compiere un atto che consideravo poco dignitoso per me e addirittura distruttivo per la salute dell'ospedale». Le ha chiesto per caso di resuscitare un primario silurato e inquisito? «Non entro nei dettagli di quello che è stato un colloquio riservato. Dico solo che un certo atto avrebbe offeso la mia dignità e il buon nome del Brotzu». Perché non ha chinato il capo? «I civil servants non disobbedivano. Davanti a certe scelte, potevano scegliere se restare o andarsene. Ho scelto di andarmene». Si può dire che lei è stato bocciato per incompatibilità politica? «No. No perché non c'è un solo atto nella mia attività che sia stato contrario alla politica sanitaria della Giunta». Allora perché le hanno dato gli otto giorni? «Chiedetelo all'assessore Dirindin. Lei conosce sicuramente le ragioni». Mostri la pagella professionale. «Il Brotzu, ospedale che ho diretto per una ventina d'anni, ha una media di degenza pari a 5,4 giorni. Quella nazionale vola oltre i sei. Facciamo, facevamo, trentottomila ricoveri l'anno chiudendo in attivo». Quanto costa un ricovero? «In Medicina generale, il meno caro, oscilla fra i 300 e i 400 euro al giorno. In Rianimazione o in Terapia intensiva tocca i duemila». Perché questa differenza? «Macchine a parte, la Medicina è un reparto che ha bisogno di 25 infermieri per 40 posti letto. In Rianimazione ce ne sono trenta per dieci posti letto». Le attese. «Sono migliorate. In cardiochirurgia erano di diciotto mesi, oggi non arrivano a sessanta giorni». Assenteismo. «Nei limiti dell'accettabile». Un capolavoro. «Il Brotzu. Vent'anni fa la sanità pubblica di Cagliari era nei casermoni del Santissima Trinità, le stalle del vecchio ospedale civile. Il Brotzu è stato un esempio trainante per migliorare e migliorarsi». E i privati? «La medicina privata oggi è residuale rispetto alla sanità pubblica. Contrariamente a quanto teme l'assessore, siamo stati e siamo resistenti alle pressioni delle lobby». Mai denunciati colleghi alla Procura? «Sì, quattro o cinque volte. E' una scelta dolorosa, che costa moltissimo». Licenziamenti? «Due. Uno per furto, un altro perché si esagerava con le telefonate porno. Con gli apparecchi dell'ospedale». Dove si può rubare in ospedale? «Sulle forniture. Riuscendoci, si guadagna bene». Quanti hanno remato contro? «Pochi. Penso e spero che la stragrande maggioranza dei dipendenti mi riconoscesse competenza e onestà». Quanti sono gli ospedali in attivo oggi in Sardegna? «Credo nessuno. Riescono a farcela le cliniche private che però non hanno il peso delle urgenze (Rianimazione, Pronto soccorso eccetera) e delle guardie (23 medici a turno)». Dove ha sbagliato? «Sicuramente in alcune nomine. La qualità professionale non mi ha fatto vedere difetti caratteriali. E' un bel guaio se succede con un primariato». Rimpianti? «Nessuno. In Italia ci sono venti ospedali da Champions League. Il Brotzu arriva subito dopo. In quattro anni potrebbe fare il salto». Si sente in età da pensione? «No, però mi rendo conto che non ci sono le condizioni perché uno come me stia nella sanità pubblica. In questa sanità pubblica». ________________________________________________________________ La Repubblica 28 Nov.2005 DORMIRE POCO FA INGRASSARE ROMA -Faticose lezioni in palestra, ore di jogging? Macché, per rimanere in forma il primo esercizio è dormire bene: lesinando ore preziose al riposo notturno l'ago della bilancia si impenna, perché l'ormone spezza-appetito, la leptina, subisce un crollo brusco del 30%. F sarebbero circa 9 milioni gli italiani a rischio sovrappeso per le notti insonni, secondo gli specialisti riuniti per iIXV Congresso Nazionale dell'Associazione Italiana di Medicina del Sonno organizzato dal Policlinico di Tor Vergata di Roma. Negli ultimi dieci anni, infatti, l'indice di massa corporeo medio è aumentato di un punto e mezzo, mentre si è passati dalle 8-9 ore di riposo registrate negli anni '90 alle 6-7 ore per notte dormite oggi. ________________________________________________________________ Economyst 7 dic. ’05 UN CUORE ARTIFICIALE «MADE IN POMEZIA» Sei società italiane e il Cnr lavorano da mesi a un progetto eccezionale, un apparecchio che sostituisca e curi l'organo, ma senza trapianto. Ora lo produrranno. Grazie al venture capita]: e anche quello è italiano. di STEFANO CAVIGLIA a prima regola è la sintonia fra il cuore artificiale e quello naturale. A ogni battito, quando il muscolo umano pompa il sangue, la macchina si apre completamente per ridurne al minimo lo sforzo, accoglie il flusso e poi lo rispedisce in alto, verso l'aorta. In questa perfetta sincronizzazione è il passaggio chiave: la capacità di rieducazione: «Man mano che il cuore migliora, gli chiediamo una piccola spinta in più, in modo che il riposo non degeneri in atrofia. E se il recupero ha successo, si può escludere la pompa meccanica e riportare in piena attività quella naturale». Funziona cosi il primo «cuore artificiale» made in ltaly, che la Newcortec di Pomezia (Roma) comincerà a sperimentare sull'uomo fra meno di un anno e che il fisico Stefano Rinaldi, responsabile scientifico del progetto, ha accettato di illustrare a Economy in anteprima. Se tutta va secondo le aspettative, il nuovo cuore aiuterà molte migliaia di malati di cuore a evitare il trapianto e a vivere più a lungo. Il tutto grazie a una scatoletta da 10 centimetri di diametro, impiantata nell'addome e collegata all'esterno con due batterie da poche centinaia di grammi ciascuna, applicate su due bretelle. Con un notevole miglioramento della qualità della vita, visto che l'intero dispositivo è più piccolo e leggero di qualunque soluzione sperimentata finora. 11 progetto, finanziato proprio in questi giorni dalla società di venture capital Quantica Sgr e da Banca Intesa, è decisamente di grande rilievo sul piano scientifico e terapeutico. E su quello economico? Difficile fare valutazioni precise, ma è certo che il nuovo «cuore artificiale» (la sua definizione scientifica è Vad, che sta per ventricular assist device: non sostituisce il cuore, ma lo aiuta a lavorare meglio) ha potenzialità notevoli anche da questo punto di vista. Basti pensare che, a fronte di 100 mila malati che ogni anno attendono in tutto il mondo un trapianto di cuore oppure l'installazione di un Vad, solo 405 mila beneficiano di un trapianto e circa 4 mila ottengono l'atteso Vad, il cui prezzo medio è oggi intorno ai 75 mila euro. LE DONAZIONI NON AUMENTANO. Con una differenza rilevante fra le due categorie: i primi non possono aumentare più di tanto; per via del delicatissimo intreccio di casualità, problemi medici e norme legali che regola le donazioni di organi, I secondi, invece, stanno crescendo a ritmi da boom da quando, due anni fa, la Food and drug administration (l'ente che controlla il settore farmaceutico negli Usa) ha autorizzato un grande produttore statunitense, la Thoratec, a impiantare Vad anche come soluzione permanente anziché solo come ponte verso il trapianto Perché lo ha fatto? « Perché uno studio clinico molto esteso ha dimostrato che i pazienti a cui viene impiantato un Vad vivono più a lungo di quelli sottoposti alle terapie tradizionali» spiega l’amministratore delegato della Newcvrtec, Romano Ferrari. E se si aggiungono i risultati di uno studio tedesco più recente, che ha dimostrato come anche un cuore gravemente malato possa recuperare, non ci vuol molto a prevedere una grande espansione di questo mercato. Secondo stime estremamente prudenti, nel 2012 si distribuiranno fra 12 e 15 mila cuori artificiali. COLLABORAZIONE COL CNR Di PISA. E in corso, insomma, una piccola rivoluzione clinica, che si sposa a meraviglia le ricerche portate avanti nell'arco di 15 anni con finanziamenti pubblici dai ricercatori italiani della società di Pomezia Tecnobiomedica (da cui la Newcortec è nata con uno «spin off») in collaborazione con il ministero della Ricerca e con il Cnr, dove, il progetto ha trovato un sostenitore, nel direttore dell'Istituto di fisiologia clinica di Pisa, Luigi Donato, il cardiologo di fama europea che oggi presiede Newcortec. Grazie alla loro esperienza precedente, questi studiosi hanno colto pritua cli altri l'importanza delle ultime ricerche, mettendo a punto il progetto di un cuore artificiale che ha l’obiettivo di curare quello naturale; per realizzare il quale hanno raccolto una pattuglia di industrie italiane di grandissime competenze. Ad affiancare Tecnobiomedica c'è fin dall'inizio la Umbra Cuscinetti di Foligno (Perugia), leader nel campo della componentistica aeronautica, le cui minuscole viti senza fine a basso livello di usura sono l'anima della pompa cardiaca (e proprio su Economy del 9 giugno 2005 il suo amministratore delegato, Valter Baldaccirai, lamentava l'assenza di finanziatori per il progetto del cuore artificiale. ndr). Più recentemente si sono aggiunte la Bio Engineering Laboratories di Cantù, cui sono affidati sacchetti e cannule, il Sorin Group di Saluggia (Vercelli), per le valvole cardiache, la Elettronica trentina di Cavareno (Trento), cui spetterà la produzione degli strumenti elettronici necessari a controllare il funzionamento della macchina. Fra pochi mesi ciascuna di loro comincerà a sfornare il suo pezzetto di .