CHI GUIDA LA RICERCA? - ATENEI, IL VALORE VIENE DAI RISULTATI - DL SULL’ UNIVERSITÀ PIÙ RICCO DL NORME. - POCHI DIPLOMATI E LAUREATI ALLARME OCSE PER L'ITALIA - SE SONO GLI ORDINI PROFESSIONALI A DECIDERE IL PERCORSO FORMATIVO - ATENEI, LA CORSA ALLE CONVENZIONI TUTTI VOGLIONO "LAUREARE L'ESPERIENZA" - NON SOLO PROTESTE, MA PROGETTI PER LE UNIVERSITA’ ITALIANE - METTIAMO ALL'ASTA I LAUREATI - OCCHIO ALLE PANZANE SCIENTIFICHE - IPIROMANI DELLA SCIENZA - QUANTO VALE DAVVERO LA LAUREA? - SCUOLE DI ECCELLENZA, UNA RIFORMA INELUDIBILE - I LAUREATI CAGLIARTIANI APPRODANO NELLA RETE - IL SANTO GRAAL DEI MATEMATICI - ELEZIONI, MISTRETTA CI RIPROVA - LA CARICA DEI SEDICIMILA FUORI CORSO - SARDEGNA, NOTIZIE IN UNIVERSITÀ - SCIENZIATE AL SORPASSO - FLUMENDOSA: SCOPERTI GRAFICI PALEOLITICI - ASSUNTI 3000 INSEGNANTI DI RELIGIONE: UNO SCHIAFFO AGLI ALTRI PRECARI - ======================================================= IL POLICLINICO APRE AI GIOVANI STRANIERI - MONSERRATO. LA CAMERA MORTUARIA ORA È AL POLICLINICO - IL DDT NON È CANCEROGENO - MONSERRATO, MAI PIÙ UNA PERIFERIA - MASTER IN MEDICINA, BANDO DI CONCORSO - FARMACI, TUTTA LA RICERCA NEGLI USA - PRESTO IL PANCREAS ARTIFICIALE - OLIVERIO: PRESTO DALLE BIOTECNOLOGIE I VACCINI PER AIDS E MALARIA» - TRAPIANTI DI CORNEA, L'ITALIA LEADER IN EUROPA - IL SOLE AIUTA A BATTERE IL CANCRO - LA SENSIBILITÀ DEL FETO - UNA PROTEINA CONTRO LA DEPRESSIONE - SOIA: NON SEMPRE FA BENE - PRIMO ORGANO CREATO DA STAMINALI - IDENTIFICATA MUTAZIONE-CHIAVE DELLA LEUCEMIA - OSTEOPOROSI, SCOPERTO IL MECCANISMO DELLA DISTRUZIONE OSSEA - PREGI E DIFETTI DEI SARDI SCRITTI NEI GENI - ======================================================= _____________________________________________________________ Le Scienze Gennaio 2006 CHI GUIDA LA RICERCA? Con che criteri vanno scelti i presidenti degli enti di ricerca? In Europa, la regola più seguita è quella del prestigio scientifico, ma i dati riservano sorprendenti scoperte Gli enti pubblici di ricerca italiani si trovano in una difficile fase di transizione. C'è stato un primo decreto di riordino del ministro Berlinguer nel 1999 e un secondo del ministro Moratti nel 2003, che ha portato al commissariamento e alla successiva nomina del nuovo presidente del CNR (2004). Lo stesso è avvenuto per il Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura), con decreto istitutivo nel 1999, un secondo decreto con commissariamento nel 2002 e la nomina della nuova presidenza nel 2003. Quindi le dimissioni «forzate» del presidente dell'Enea e la nomina di un altro commissario (2005). E tutto questo senza contare le innumerevoli modifiche che hanno riguardato altre reti minori della ricerca italiana. Come ricercatori, siamo preoccupati e talvolta perplessi di fronte a questi eventi. Preoccupati perché assistiamo a una lenta deriva del sistema della ricerca italiano dovuta a un'inesorabile diminuzione di fondi e a una carenza di programmazione che mina la nostra affidabilità internazionale. Perplessi perché non capiamo molte delle cose che succedono e qual è l'obiettivo reale che si vuole raggiungere. Riflettendo sugli avvenimenti di questi anni, ci siamo posti una domanda che oltrepassa la contingenza degli eventi: ci siamo chiesti se è mai stato discusso, in Italia, quali sono le caratteristiche professionali che rendono una persona idonea a dirigere un'istituzione scientifica nazionale. É fuor di dubbio che le scelte e l'operato del presidente di uno dei nostri grandi enti di ricerca interessino il futuro dell'intero paese, anche nel contesto internazionale in cui siamo inseriti, in particolare l'Unione Europea. Nel dibattito politico italiano si parla spesso di ricerca scientifica come motore dell'innovazione, mentre l'innovazione viene indicata come ancora di salvezza per garantire il benessere economico nazionale nel lungo termine. A livello internazionale, la ricerca italiana contribuisce ancora oggi in maniera rilevante al progresso globale della conoscenza('}. Non è quindi irrilevante porsi quella domanda e riflettere sul perché siano necessari attenzione e rigore quando si parla della guida della ricerca in Italia. Presiedere un ente di ricerca è un mestiere importante e delicato: la nomina di un presidente non può ammettere superficialità, e non può basarsi su motivazioni o interessi non strettamente legati al progresso scientifico e culturale del nostro paese. Ma un buon presidente deve essere un grande scienziato, un grande manager o forse è meglio che sia un po' entrambe le cose? E in questo caso, come possono essere valutate le qualità scientifiche e manageriali di un buon presidente? Per le prime, esiste da anni un metodo internazionalmente accettato, utilizzato in tutti i paesi avanzati, per valutare la produttività scientifica di singoli ricercatori(2) 0 intere comunità: si tratta del database Thomson ISI Web of KnowledgeSM (www.isiwebofknowledge. coni). Per ogni scienziato, esso permette di determinare il numero di pubblicazioni con impatto e, cosa ancor più rilevante, il numero di volte in cui questi lavori sono stati citati nella letteratura scientifica. Abbiamo quindi effettuato, tramite questo potente strumento, una piccola indagine sui presidenti dei maggiori enti di ricerca pubblici europei. 1 risultati non lasciano margine a dubbi: tutti i presidenti degli enti di ricerca più importanti dell'Europa allargata a 25 membri, salvo rarissime eccezioni, hanno un significativo curriculum scientifico. Particolarmente interessanti sono i recenti casi della Francia e della Germania(3), i cui governi hanno nominato scienziati di altissimo livello come presidenti del CNRS e della Max-Planck- Gesellschaft. L'Europa, quindi, pare essere concorde nel ritenere che solo chi ha lavorato con successo nella ricerca può avere la sensibilità e l'esperienza per indirizzare le scelte strategiche all'interno di istituzioni scientifiche nazionali. Ma se è stato facile capire come la pensano in Europa e classificare, o meno, ognuna di quelle persone come «scienziato», ci rimane ancora assai ostico capire quali siano le qualifiche e i requisiti oggettivi che fanno di uno scienziato anche un valido manager. Non esiste, purtroppo l’«ISI dei manager», e questo un po' ci spiazza. Chiediamo quindi aiuto a chi vorrà lanciare qualche idea su questa questione, magari partendo proprio dalle colonne di «Le Scienze», per arrivare a delineare meglio quali sono, oltre a quelli di una documentata esperienza scientifica, í criteri più appropriati da usare in futuro per scegliere chi dovrà guidare la ricerca italiana. Indipendentemente dal colore politico del Governo in carica. PRODUTTIVITÀ SCIENTIFICA e impatto dei presidenti dei più importanti enti nazionali di ricerca che contribuiscono alla European Science Foundation. Nel grafico in alto, il numero delle pubblicazioni; in basso, il numero di volte in cui sono state citate nella letteratura internazionale. A fronte, la sede del CNR. DA RICERCATORI A «CAPI-COMMESSA» Molti anni fa, una «commissione Giannini» :'(dal nome del suo presidente, Massimo Severo Giannini), incaricata di proporre re, gole efficaci per la conduzione degli enti di ricerca, parti da una distinzione delle strutture in «Enti strumentali» ed «Enti non strumentali», a seconda che il loro obiettivo fosse la ricerca finalizzata o quella fondamentale. Nel primo caso, l'importanza degli scienziati-manager era chiaramente riconosciuta, nel secondo caso sembrava più importante il prestigio scientifico. Ma sarebbe riduttivo prendere in considerazione solo i presidenti. La commissione Giannini riconosceva che la formula dell'INFN (Istituto nazionale di tisica nucleare) aveva meriti indiscussi: un organo collegiale di governo, costituito dai direttori, eletti localmente dal personale delle «sezioni», dislocate presso le sedi universitarie, e dei laboratori nazionali, completato con rappresentanze minoritarie di ministeri e altri enti competenti. Dunque, niente Consiglio di Amministrazione (CdA) con prevalenza di emissari di partiti e di sindacati, niente presidente di nomina governativa, riconoscimento di capacità di autogoverno alla comunità scientifica e inserimento in un ambiente scientifico allargato con diritto di partecipazione alla programmazione e all'attività. Effettivamente l'INFN sembrava funzionare in modo ideale: un presidente che risponde ai suoi «amministrati» e che, per rappresentarli degnamente nella comunità internazionale, deve avere un'indiscussa notorietà che tutti gli riconoscono per conoscenza diretta e senza bisogno di tabulati di agenzie, è il meglio che si possa desiderare. La responsabilità di un siffatto gestore è condivisa, per il modo in cui è scelto, da una larga maggioranza che, per ciò stesso, concorre ai migliori risultati dell'ente. Ma l’INFN è un ente non strumentale, che riguarda una comunità scientifica omogenea ben quotata nel suo complesso. Gli enti strumentali sono più complicati da governare. TI compianto Antonio Ruberti, scienziato e manager, aveva le idee chiare, ma ci ha lasciati. Pure, ', la commissione Giannini in qualche modo sottolineava che un ente che svolge attività specialistiche di ricerca, di qualsiasi tipo, non può essere governato da un «commissario», detto impropriamente presidente, paracadutato dal Governo con un disegno concepito solo fuori dell'ente, per risponderne a un CdA che rappresenta solo parti politiche: questo, è governare con »conflittualità incorporata». L'ente finisce con lo svolgere solo attività imposte dal commissario-presidente, che le concorda con il CdA, senza coinvolgere i ricercatori nelle scelte e nelle decisioni. Nessuna meraviglia che i ricercatori cambino nome e diventino «capi- commessa» (sic!). L'IMPORTANZA DELLA VALUTAZIONE In una conferenza tenuta a Seattle nel lontano 1963(0 il grande fisico Richard Feynman, premio Nobel nel 1965, provò a spiegare al suo pubblico un aspetto del fare scienza, forse l'aspetto più importante. Secondo Feynman, la spinta al lavoro scientifico non è data dalle possibili applicazioni ma dall'emozione che il ricercatore prova quando il lavoro e la disciplina del fare ricerca sbocciano in nuova conoscenza. «A quelli di voi che non conoscono questa emozione... - dice Feynman - è quasi impossibile per me comunicare in una conferenza questo aspetto cosi importante, cosi eccitante, la ragione vera per cui si fa scienza... Non potete apprezzare la scienza e il suo rapporto con tutto il resto se non capite questa grande avventura... non vivete nel nostro tempo se non capite che questa è una tremenda avventura, una cosa straordinaria ed eccitante...». La visione «romantica» del lavoro dello scienziato di Feynman è oggi forse offuscata dall'enfasi sull'uso immediato dei risultati della scienza per applicazioni utili all'economia e all'uomo. Ma se anche volessimo sottoscrivere una visione puramente utilitaristica della ricerca scientifica, la storia della scienza insegna che le applicazioni utili all'uomo sono derivate in gran parte dal lavoro di scienziati spinti dalla passione per la libera conoscenza, cui accennava Feynman. Ne segue che un buon manager di un centro di ricerca deve aver provato sulla sua pelle i1 senso dell'avventura di cui parla Feynman; deve sapere quanto è importante assecondarlo; sapere quindi che una comunità scientifica non può essere organizzata con i criteri di un'azienda che produce trattori o che fa servizi di consulenza per l'industria X o per la regione Y. Questa è, credo, la ragione prima che induce quasi tutti i paesi europei a scegliere scienziati di alta levatura per guidare i loro enti di ricerca. È anche la ragione che dovrebbe indurre chi sceglierà i futuri leader degli enti scientifici italiani a seguire lo stesso criterio. Le capacità manageriali di chi guida un ente di ricerca devono includere l'abilità di favorire un ambiente che stimoli il flusso di idee, e che non soffochi, ma riconosca e incoraggi, le persone creative, tenendo al minimo gli orpelli e i legacci burocratici. Creare e tenere in vita questo tipo di ambienti, cioè centri di eccellenza scientifica, è un lavoro difficile e delicato, ma essenziale per un paese moderno, perché molta della nuova conoscenza (e quindi poi anche delle applicazioni) nasce proprio in questi ambienti. C'è poi una classe di manager super partes, importantissimi per la ricerca moderna: questi operano non nell'interesse di un ente di ricerca, ma per il bene di una data disciplina. Gli enti preposti alla valutazione e al finanziamento della ricerca, come la National Science Foundation degli Stati Uniti (e istituzioni simili nei paesi europei), si avvalgono di questo tipo di manager. Si richiede loro una solida cultura scientifica, la capacità di intuire quali siano le linee di ricerca più promettenti e di combinarle con le esigenze della società che finanzia la ricerca. Si richiede anche la capacità di garantire il rispetto da parte della comunità scientifica di poche regole di fair play per la valutazione e scelta delle ricerche, e, soprattutto, la capacità di rimanere indipendente sia dalle pressioni degli enti di ricerca, sia da quelle dei politici. In Italia, contrariamente a tutti paesi avanzati, non abbiamo un ente nazionale di valutazione e finanziamento delle ricerche, tipo la National Science Foundation; e i manager super partes cui accennavo sopra sono una specie sconosciuta. II risultato è che il finanziamento degli enti e delle ricerche avviene spesso senza regole, in un clima quasi da Far West. La domanda è: perché? È una domanda che meriterebbe un dibattito approfondito: un primo tentativo di risposta l'ho dato altrove O. __________________________________________________________ Il Sole24Ore 24 Dic. 05 ATENEI, IL VALORE VIENE DAI RISULTATI Alle Università non statali il ruolo fondamentale di mantenere i contatti con il sistema europeo DI GfANFRANGO REBORA * E fondamentale porsi in una prospettiva europea per valutare i problemi del nostro sistema universitario. L'area europea dell'istruzione superiore comprende oltre 3mila università dei Paesi dell'Unione e arriva vicino a 4mila se si tiene conto dell'intero continente. È un sistema più complesso e differenziato di quello degli Stati Uniti, se si considera non solo il numero delle università, ma la diversità di tradizioni, di lingue, di regolamentazioni e di tipologie o forme istituzionali. II "processo di Bologna" ha orientato il percorso evolutivo delle università europee facendo perno sull'intento di favorire cooperazione e mobilità in tutta Europa. Nell'ultimo decennio, il nostro sistema universitario ha compiuto uno sforzo rilevante per inserirsi in questa corrente evolutiva che interessa l'intera Europa e ha mosso passi non piccoli in tale direzione. L'attenzione di molti è stata però forse attratta in modo eccessivo dalla riforma dei percorsi di studio, con l'adozione dello schema cosiddetto del 3+2, le cui modalità di attuazione hanno generato discussioni e polemiche e sono state più recentemente riviste (attraverso il decreto n. 270/2004). . Il modo disordinato e spesso discutibile in cui molte università italiane si sono lanciate sulla pista della revisione delle formule formative, con l'appariscente fenomeno della moltiplicazione dei corsi di studio, ha finito per innescare una reazione e un irrigidimento delle regole, con il ripristino di procedure che comportano un ruolo più forte degli organismi centrali di governo del sistema, Ritornano cosi di attualità contrapposizioni "vecchio stile" come quella tra autonomia e centralismo, dove la contesa finisce per ridursi alla rivendicazione di maggiori risorse da parte delle sedi universitarie nei confronti di organi di governo che hanno comunque difficoltà a concederle per i vincoli generali di finanza pubblica Vorrei sottolineare invece che nella prospettiva europea gli scopi fondamentali di ampliamento degli accessi all'istruzione superiore e di miglioramento della qualità sono raggiungibili esaltando non solo l’ autonomia delle università ma ancora più il valore della diversità. Sempre più si riconosce oggi che la mancanza di sufficiente differenziazione nell'ambito delle istituzioni universitarie si rivela un fattore che limita l'efficacia dei processi formativi e di ricerca. Nel britannico White Paper- orr Higher Education (2004), come anche in documenti recenti della Commissione europea, si afferma a chiare lettere come l'insufficiente differenziazione del sistema possa fare da collo di bottiglia sia verso L' accesso alla formazione di nuove categorie di soggetti, sia verso lo sviluppo di livelli qualitativi elevati in ambito internazionale. La recente legge sullo stato giuridico dei docenti si rivela molto timida nell'aprire a nuove soluzioni contrattuali per le figure di docenza e ricerca, che possano favorire una gamma più ampia di condizioni d'impiego delle risorse umane. Ma preoccupa anche il tono di molte reazioni polemiche alle poche misure di flessibilità contenute in questo provvedimento. Ancora si può chiamare in causa il prevalere di concezioni rigide e tendenti all'uniformità quando si parla di valutazione delle università. Standard statistico-quantitativi. fondati sulla estrapolazione di assetti stabiliti in passato, sono assunti come riferimenti obbligati, per esempio in materia di requisiti minimi (che dettano gli organici minimi di docenti per diverse tipologie di corsi di studio). In queste condizioni chi sta cercando faticosamente di innovare proponendo e sperimentando nei fatti formule didattiche più allineate all'Europa finisce per trovare molti ostacoli e rischia di dover tornare sui suoi passi. È questo il caso di molte università non statali cui dovrebbe almeno essere riconosciuto di avere molto contribuito alla differenziazione del nostro sistema universitario, introducendo idee nuove molte volte poi recepite anche da altri. Queste università chiedono ora di non essere impedite da vincoli che non hanno ragion d'essere in una ottica europea e di essere piuttosto valutate per i risultati che producono per i loro studenti e per la società civile cui appartengono. Retore Unirersità Carlo Cattmteo - Liuc _________________________________________________________ ItaliaOggi 21-12-2005 DL SULL’ UNIVERSITÀ PIÙ RICCO DL NORME. Cambia titolo il decreto che debutta oggi in senato . . w DI ALESSANDRA RICCIARDI Assalto all'arma bianca al decreto legge sull'università. Il dI n. 250 del 5 dicembre scorso, approdato in commissione istruzione al senato per la conversione in legge, cambia nome. Il testo, licenziato ieri sera dalla VII commissione e che debutterà oggi in aula, si è arricchito di norme che escludono il blocco del turnover per l'Agenzia dei servizi sanitari regionali e per l'Istituto superiore di sanità, autorizzano un nuovo concorso per i presidi. Ma prevedono anche il riordino dell'Istituto italiano di studi germanici e la riforma delle scuole private. Un mare magnum di emendamenti, in molti casi già respinti in altri provvedimenti e alla ricerca di un approdo sicuro di fine legislatura, .che hanno costretto la commissione, presieduta da Franco Asciutti, a modificare il titolo del disegno di legge di conversione (As 3684) in «Misure urgenti in materia di università, beni culturali e in favore di soggetti affetti da gravi patologie nonché in tema di rinegoziazione di mutui e di accesso alla dirigenza». Il provvedimento, che sarà licenziato dal senato entro il 30 dicembre, per poi approdare alla camera agli inizi del mese successivo (la conversione in legge deve avvenire entro il 4 febbraio, pena la decadenza), ridefinisce il sistema delle scuole private, riconducendole tutte a due sole categorie: paritarie e non paritarie. La norma, proposta dal governo, rimette dunque ordine nell'universo dell'istruzione privata, rifissando i paletti per, il riconoscimento dei titoli e per la validità dei percorsi di studio rispetto al sistema nazionale. Gli istituti che non risponderanno ai requisiti minimi non potranno più assumere il titolo di «scuola». Un modo per fare chiarezza anche dopo i casi delle scuole islamiche. Il provvedimento rivede anche i titoli professionali per gli ordini dei dottori agronomi, forestali, architetti, pianificatori paesaggisti e conservatori, attuari, biologi, chimici e geologi: Oltre che l'accesso alla professione di statistico. Escluso poi il blocco delle assunzioni per l'Agenzia per i servizi sanitari regionali e per l'Istituto superiore di sanità. Blocco di assunzioni che invece è imposto alle fondazioni lirico sinfoniche per due anni, viste le pessime condizioni finanziarie in cui versano. ______________________________________________________________ Repubblica 5 gen. ’06 POCHI DIPLOMATI E LAUREATI ALLARME OCSE PER L'ITALIA Le linee guida del nuovo rapporto sull'Educazione nei Paesi membri. Nei test di raffronto debolezze degli studenti italiani soprattutto nelle materie scientifiche Il costo per alunno è tra i più alti, ma negli investimenti restiamo indietro di SALVO INTRAVAIA L'Ocse boccia il sistema educativo italiano. Inefficiente, con poche risorse ma al tempo stesso costoso e che produce scarsi risultati. È questa, in sintesi, la descrizione del sistema scolastico e universitario italiano delineata dall'annuale rapporto dell'Osce (l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, che raccoglie 30 paesi membri e altri col ruolo di partner) intitolato "Uno sguardo all'Educazione". Uno studio che ormai è diventato uno degli appuntamenti più importanti per tutti coloro (politici, sindacati e addetti ai lavori) che gravitano attorno al mondo dell'istruzione e della formazione. Fatti i dovuti raffronti fra sistemi educativi anche molto diversi, quello del nostro Paese funziona abbastanza male. Insomma, non sembra proprio il sistema educativo della settima nazione più industrializzata del pianeta. A dirlo sono le decine di tabelle e le centinaia di dati forniti dal corposo volume, che - pur riferendosi per la maggior parte al 2003 - danno un'idea abbastanza precisa sulle differenze esistenti fra paese e paese. La scuola e l'università italiana sfornano pochi diplomati e laureati e i ragazzi delle scuole superiori, messi a confronto con i coetanei degli altri paesi attraverso test standardizzati (sulla Matematica, sul Problem solving - la capacità di Risoluzione dei problemi - e sulle Scienze) ne escono mortificati. Gli investimenti da parte del governo sono scarsi, ma seguendo i numeri ci si accorge di una serie di vere contraddizioni. Inoltre, i più istruiti trovano lavoro più facilmente e con retribuzioni maggiori rispetto a coloro che studiano meno. Senza la pretesa di una analisi approfondita, è fin troppo chiaro che l'elefantiaco sistema educativo italiano - secondo al mondo per complessità solo al Pentagono degli Stati uniti d'America - segna il passo e va riformato. La fuga dei cervelli all'estero, la difficoltà sempre maggiore dei nostri giovani a trovare lavoro e la scarsa competitività del sistema Italia, soprattutto rispetto alle economie emergenti del globo, sono soltanto alcune delle cause di un sistema scolastico che arranca. I risultati. In Italia, nella fascia d'età compresa fra i 25 e i 64 anni, troviamo 44 diplomati su 100. La media dei paesi Ocse è di 66, con Stati Uniti e Regno Unito, rispettivamente all'88 e al 65 per cento, che ci superano di parecchi punti. Nelle fasce più "giovani" la distanza si accorcia ma resta enorme. L'Italia per numero di diplomati, si colloca al venticinquesimo posto superata dalla Polonia, dalla repubblica Slovacca e da quella Ceca. Ma siamo sorpassati anche dalla Corea, dal Cile e dal Perù, questi ultimi partner dell'Ocse. Stessa cosa per numero di laureati: 10 su 100 abitanti di età compresa fra 25 e 64 anni, in Italia, contro i 24 della media Ocse. E fra i "giovani" (25-34 anni) il nostro Paese è ultimo, sopravanzato anche da Grecia, Ungheria e Portogallo, fra i paesi membri. Superati perfino da Argentina, Malesia e Filippine. Terzultimi nei risultati dei test Pisa (Programme for International Student Assessment, programma per la valutazione internazionale dell'allievo) in matematica, rincorriamo anche la Nuova Zelanda, la Corea e l'Islanda. E, attenzone, i risultati dei quindicenni delle scuole pubbliche sono di gran lunga migliori dei coetanei delle scuole private. Musica che non cambia se si prendono in considerazione i test sul Problem- solving. Ultimi fra i 13 paesi più industrializzati del mondo nei test (IEA- TIMSS - Associazione internazionale per la valutazione del successo educativo: Terzo studio Internazionale di Scienza e di Matematica) riguardanti le Scienze. Gli investimenti. Ma quanto si investe, nel nostro Paese, in Educazione? Poco, stando alle statistiche Ocse. Con il 4,9 per cento del Pil (il famoso Prodotto interno lordo: la ricchezza prodotta dal Paese) veniamo distaccati di quasi un punto dalla media (5,8 per cento) degli altri 30 paesi. Addirittura in calo, rispetto al 1995, gli investimenti pubblici, per cui veniamo superati anche da paesi come la Jamaica, lo Zimbawe, il Messico e la Tunisia, che investe il 6,4 del Pil. In Italia, il grosso degli investimenti viene assorbito dalla scuola. Ma ecco la prima contraddizione: il costo di un alunno (7.474 dollari equivalenti) supera quanto si spende in media negli altri paesi (6.081 dollari). In Italia, il costo maggiore è per gli alunni della scuola media inferiore che assorbono 8.063 dollari l'uno. Segno di un sistema decisamente inefficiente. Discorso inverso per gli studenti universitari: 8.363 dollari a testa contro i 10.655 dei paesi Ocse. Numeri e indici. Eppure, stando agli indicatori Ocse, le cose in Italia dovrebbero andare bene. Nella scuola media abbiamo poco più di dieci alunni per docente, contro i 14,6 della media Ocse. Stesso discorso (per quanto riguarda il rapporto alunni/docenti) al superiore. Ma poi i risultati sono deludenti perché i ripetenti delle scuole superiori sono il quadruplo della media Ocse: l'8,8 per cento, contro una media del 2 per cento. Anche il numero di alunni per classe è inferiore, in tutti gli ordini di scuola, rispetto agli altri paesi. E di personale (docente e non docente) in Italia ce n'è in abbondanza: 139 persone ogni 1000 studenti, contro i 107 della media Ocse. E orario annuale (come numero di ore di lezione) più consistente, o simile, in quasi tutte le fasce d'età. Gli insegnanti. Ma la nota dolente riguarda l'età degli insegnanti, di gran lunga più vecchi rispetto ai colleghi dei membri Ocse. Solo a titolo di esempio nella scuola superiore italiana il 90 per cento dei docenti ha più di 40 anni. La media Ocse è del 64 per cento: il 36 per cento di docenti è giovane con meno 39 anni. Dalle nostre parti le cose migliorano solo alla scuola elementare, ma le distanze con i 30 paesi di riferimento restano grandi. Anche la cosiddetta presenza femminile fra gli insegnanti italiani rappresenta una anomalia. In Italia, la quasi totalità alla materna e all'elementare, tre quarti alla media e il 60 per cento al superiore. Le cose vanno diversamente all'elementare dove nei paesi Ocse maestri maschi se ne contano 20 su 100. Ma è sugli insegnanti "giovanissimi" (con meno di 30 anni) che si vede la differenza. In Italia, per la struttura dei percorsi formativi dei docenti, i giovanissimi sono praticamente inesistenti al superiore. Nei paesi Ocse se ne contano il 13 per cento. Stessa cosa all'elementare: 1,8 contro 16 per cento. Differenze che riguardano anche gli stipendi, mediamente più bassi rispetto a quelli percepiti dagli altri colleghi. I più fortunati sono gli insegnanti del Lussemburgo che a fine carriera percepiscono uno stipendio doppio rispetto ai colleghi italiani. Ma anche in Portogallo, Spagna e Corea si guadagna più che in Italia. Allineati alle medie Osce anche i carichi di lavoro (in ore per i docenti). ______________________________________________________________ Il Riformista 4 gen. ’06 SE SONO GLI ORDINI PROFESSIONALI A DECIDERE IL PERCORSO FORMATIVO ISTRUZIONE. E RIFORME DI ALESSANDRO FIGÀ TALAMANCA La «riforma del sistema di accesso agli ordini professionali» guarda «soprattutto al futuro dei nostri giovani e alla tutela degli interessi dei cittadini, che beneficeranno di professionisti più qualificati». Questa è la retorica con cui si esprime il comunicato stampa del ministro dell'Istruzione in merito al regolamento sull'accesso agli ordini professionali approvato poco prima di Natale dal Consiglio dei ministri. Nessuno conosce i contenuti precisi del regolamento che sono stati secretati, in attesa di un parere del Consiglio di Stato, ma lo stesso comunicato stampa ne fornisce un'anticipazione. E naturalmente non c'è nulla nel regolamento che abbia a che fare con il «futuro dei nostri giovani» o gli «interessi dei cittadini». Si stabilisce, ad esempio, che la laurea è condizione necessaria per l'iscrizione all'albo dei giornalisti. Quale beneficio «ai cittadini» può mai risultare dal fatto che chi scrive sui giornali abbia conseguito un titolo universitario? Molti dei migliori giornalisti italiani non sono laureati. Non di rado si tratta di studenti universitari falliti. Il loro successo in una professione intellettuale serve a ricordare alle università che gli esami universitari lasciano spesso passare i più conformisti e non premiano l'autonomia intellettuale e la creatività. Rendere obbligatoria la laurea per un'attività che non riguardi direttamente la salute e la sicurezza delle persone non porta alcun vantaggio al pubblico degli utenti e non giova certo all'insegnamento e alla ricerca universitaria, che prosperano invece quando sono soggette a un regime di concorrenza. Ma nel regolamento approvato dal governo si va ben oltre: i titoli accademici che consentono di scrivere sui giornali dovranno avere contenuti disciplinati da convenzioni con l'ordine dei giornalisti che in tal modo potrà condizionare l'insegnamento universitario. Questo significa che nemmeno il più brillante laureato in lettere, in storia, o scienze politiche, potrà scrivere sui giornali, a meno che non abbia superato bel po' di esami in “teoria e pratica del giornalismo”, appositamente disegnati secondo le prescrizioni dell'ordine. Quale dei grandi giornalisti attuali o del passato, laureati o non laureati, corrisponde all'identikit tracciato da queste disposizioni? Tutto sembra invece disegnato per impedire l'accesso dei giovani più intelligenti e creativi alla professione di giornalista. Ma soprattutto quale interesse pubblico risulta tutelato da queste disposizioni? Purtroppo questo non è il solo contenuto illiberale e controproducente del regolamento governativo. Si interviene pesantemente per rendere più rigidi e pertanto meno innovativi i percorsi didattici. Ad esempio non sarà più possibile per un bravissimo laureato in fisica proseguire gli studi di secondo livello in ingegneria. O meglio, il decreto interviene per proibire a un laureato di secondo livello in ingegneria che provenga da una laurea di primo livello in fisica, di iscriversi all'albo degli ingegneri. Si tratta di una proibizione che ha un pesante valore simbolico: il governo sembra voler scoraggiare una possibile soluzione del problema principale posto all'Italia dalla riforma del 3+2, che è la difficoltà di formare una minoranza di laureati in ingegneria sufficientemente preparati nelle scienze di base, per progettare in maniera creativa. Saranno similmente proibiti analoghi percorsi, assolutamente prevalenti in tutti i paesi industriali, come una laurea di primo livello in matematica seguita da una laurea di secondo livello in scienze attuariali, o in economia, oppure una laurea di primo livello in chimica seguita da una laurea di secondo livello in biologia. Viene così rinnegata una delle caratteristiche innovative del nuovo ordinamento didattico che è (o meglio era) la possibilità di incrociare percorsi diversi per raggiungere una formazione più adatta a rispondere alla sfida dell'innovazione. Si aggrava invece la parcellizzazione e la rigidità degli studi universitari che devono adattarsi a figure professionali univalenti e antiquate, incapaci di evolversi secondo le esigenze di sviluppo della scienza e della tecnologia. C'è una logica in tutto questo? Certamente non è quella di tutelare gli interessi dei cittadini o di guardare al «futuro dei nostri giovani». E' invece, la logica delle corporazioni accademiche e professionali che prosperano solo in condizioni di monopolio, e che rappresentano un peso per la società. E infatti, secondo il comunicato ministeriale, lo schema del regolamento è stato proposto da una commissione in cui erano rappresentate le «conferenze dei presidi» di facoltà e «per la prima volta» gli ordini professionali. Presiedeva questa commissione il sottosegretario Siliquini. Si è trovata, insomma, la combinazione giusta per saldare gli interessi degli ordini professionali a mantenere e ad estendere il monopolio sulle attività di loro competenza, con quelli delle corporazioni accademiche di settore che si fanno scudo del valore legale del titolo di studio per difendere l'importanza delle loro discipline e il loro monopolio su frammenti più o meno ampi dell'ordinamento didattico. ______________________________________________________________ Repubblica 4 gen. ’06 ATENEI, LA CORSA ALLE CONVENZIONI TUTTI VOGLIONO "LAUREARE L'ESPERIENZA" Chi lavora e vuole conseguire una laurea adesso può tramutare la propria attività in "crediti". E le università si accordano con gli ordini professionali di MASSIMILIANO PAPASSO Per qualcuno rappresentano un'occasione d'oro per veder riconosciuti all'università i sacrifici di una vita di lavoro. Per altri, invece, non sono altro che semplici scorciatoie per studenti privilegiati alla disperata ricerca di una laurea. In qualunque modo le si voglia definire, nel nostro Paese le convenzioni tra atenei e ordini professionali stanno facendo registrare un vero e proprio boom. In Italia, infatti, non c'è università che si rispetti che negli ultimi tempi non abbia stipulato un qualche accordo con giornalisti, consulenti del lavoro, ragionieri commercialisti, carabinieri, polizia o vigili del fuoco per permettere loro di iniziare il proprio percorso universitario con un discreto numero in meno di esami da sostenere. Un meccanismo, quello delle convenzioni, introdotto dalla riforma universitaria del 1999 e che poggia le sue radici ideologiche sul programma "Laureare l'esperienza", in base al quale chiunque voglia conseguire un titolo di studio universitario (se almeno in possesso di un diploma di scuola media superiore) ha la possibilità di veder trasformato il suo background lavorativo in crediti formativi utili al conseguimento di una laurea di primo livello, anche se in tanti anni di onorata carriera non ha mai messo piede in un'aula universitaria. La mappa delle convenzioni. Da Torino a Roma, passando per Enna e Campobasso, ogni università ha ormai la sua convenzione da cui attingere risorse e iscritti. Se a "La Sapienza" ce n'è una per quasi ogni corso di laurea, i piccoli atenei si arrangiano con quello che hanno. È il caso della Libera Università degli Studi "San Pio V" di Roma che racchiude in soli due corsi di laurea ("Scienze Politiche e Sociali" e "Scienze Economiche e Gestionali") la bellezza di cinque convenzioni: Inps, Collegio dei ragionieri, consulenti del lavoro, e due con il Ministero dell'Interno. Un modo per fare più iscritti e di conseguenza pesare di più nel sistema dell'attribuzione dei fondi ministeriali? "Se per gli atenei pubblici questa potrebbe essere una delle motivazioni - assicura la professoressa Antonella Ercolani, prorettore dell'ateneo romano - per noi stipulare una convenzione significa soprattutto affermarsi all'interno di un territorio. Anche perché i fondi ministeriali destinati alle università private, si sa, non sono di certo molti". Più crediti per tutti. Ma quanto rende ai "novelli studenti" una convenzione in termini di esami? Il decreto legge 509/99 lascia ai singoli atenei la libertà di fissare in base ai profili professionali il numero di crediti da riconoscere ai fini della laurea. A Torino, per esempio, la facoltà di Scienze Politiche riconosce (nella migliore delle ipotesi) circa 90 crediti su 180 complessivi a tutti gli iscritti all'Ordine dei giornalisti, mentre l'Università di Cassino per la stessa categoria arriva a quota 120. Toccano quota 124, invece, i ragionieri commercialisti e i consulenti del lavoro ad Enna. Il riconoscimento dei crediti, però, varia anche a seconda dei livelli gerarchici. Se all'Università dell'Aquila un semplice agente della Polizia di Stato iscritto al corso di laurea in "Scienze dell'investigazione" parte con soli 44 crediti, ad un ispettore vengono riconosciuti 120 crediti: praticamente un 2/3 della laurea senza aver sostenuto nemmeno un esame. Polizia in testa, Inps in risalita. Gli appartenenti alla Polizia di Stato sono anche gli studenti che possono far affidamento su più convenzioni. Al momento se ne contano 23 in altrettante università italiane. Non scherzano nemmeno però i giornalisti e i consulenti del lavoro che possono contare su accordi ad hoc con atenei sia pubblici che privati, dalla Lumsa di Roma all'ateneo di Torino, passando per quelli di Cassino e di Chieti-Pescara. Negli ultimi mesi però anche altre categorie di lavoratori si stanno affacciando al mondo delle convenzioni. È il caso dell'Istituto nazionale per la previdenza sociale che grazie ad accordo da poco siglato con l'università privata "San Pio V" di Roma metterà a disposizione dei propri dipendenti l'occasione di iscriversi ad un corso di laurea in "Scienze Politiche e Sociali" con un cumulo di crediti che, a secondo dell'inquadramento contrattuale, potrà variare dai 67 ai 105 su 180 CFU complessivi. L'Università fa lo sconto. Singolare è poi il caso dell'Università Kore di Enna. L'ateneo siciliano, riconosciuto ufficialmente dal Miur prima dell'estate, in soli pochi mesi di vita ha già siglato tre convenzioni inventandosi anche uno sconto tutto particolare: più la convenzione avrà successo, meno dovranno pagare per le rette annuali consulenti del lavoro e ragionieri commercialisti. "La nostra è una scelta dettata dall'esigenza di far quadrare i conti - spiega Mario Lipoma, responsabile del coordinamento accademico dell'UniKore -. Se per noi attivare il terzo anno di un corso di laurea per 100 iscritti costa 3700 euro, questa cifra diminuisce in maniera proporzionale all'aumento degli studenti. Così se gli iscritti saranno 101 si pagherà 3500 euro, 2200 invece se questi toccheranno quota 351". Ma gli sconti non sono finiti qui. L'Università di Enna ha previsto un ulteriore bonus di 200 euro per tutti gli appartenenti ai sindacati di categoria. Quelli che sembrano aver gradito di più la politica dei "saldi universitari" sono i ragionieri commercialisti che si sono iscritti già in 100, e contano di poter sfondare il tetto delle 250 unità a breve. Che per un'università di appena mille studenti significa un bel salto di qualità. __________________________________________________________ Repubblica 28 Dic. 05 NON SOLO PROTESTE, MA PROGETTI PER LE UNIVERSITA’ ITALIANE DA QUALCHE tempo è al lavoro un "tavolo programmatico" dell'Unione sull'Università. E' una buona notizia: e ci aspettiamo novità sostanziali, perché non è più il momento della protesta, ma della costruzione e del progetto. Dove bisogna innanzitutto intervenire, è nella "filosofia" che ha guidato sinora l'approccio "di sinistra" a questi temi. Qui è necessaria un'autentica svolta. Troppo a lungo abbiamo permesso che una cattiva retorica egualitarista si sovrapponesse e si sostituisse a una corretta idea di democrazia nell'apprendimento, con risultati di autentica degenerazione. Abbiamo trasformato il perseguimento dell'eguaglianza nei processi formativi da essenziale presupposto nell'accesso ai saperi e alle conoscenze - irrinunciabile, ma solo in quanto punto di partenza in grado di assicurare pari opportunità per tutti i cittadini in un risultato obbligato di ogni percorso educativo, con l'esito di una disastrosa rincorsa verso il basso, che è sotto gli occhi di tutti. Un livellamento che si sta rivelando un'autentica trappola, in cui cadono per primi proprio coloro che esso dovrebbe proteggere - i giovani socialmente più deboli - illusi da una parità fittizia e senza conseguenze, rispetto a chi ha altre e diverse possibilità (private) di studio e di crescita intellettuale. Bisogna avere finalmente il coraggio di dire quello che già tutti sanno e ipocritamente nascondono: le Università - e le Facoltà, e i Dipartimenti - non sono tutti eguali; e non lo sono neppure i docenti; e - cosa più importante – tanto meno lo sono gli studenti, per i quali la valorizzazione delle differenze è la sola possibilità di salvezza. Le diversità, se non riconosciute, poiché non sono eliminabili per decreto, non si cancellano, ma tendono piuttosto a esprimersi"in nero" (per cosà dire), cioè pervie traverse al di fuori delle istituzioni che si ostinano a non ammetterle, con l'effetto di annientarne la credibilità e l'efficienza. Il punto non è abolire la selezione, per paura che diventi una discriminazione classista: questo vorrebbe dire gettare il bambino con l'acqua sporca. Bensì riuscire a fondare i meccanismi selettivi sui merito e non sulla classe. Ma come fare? Le Università di una volta erano votate solo alla riproduzione delle élite: in Italia è stato cosi sino a tutti gli anni sessanta. Le Università di oggi formano innanzitutto intellettuali-massa, di cui le società ad alta intensità tecnologica hanno un bisogno sempre maggiore. Ritenere che queste due funzioni siano la stessa cosa, e vadano assolte con metodiche e strutture indistinte è pura demagogia. Distinguerle, non deve significare tuttavia dar vita a due mondi reciprocamente impermeabili; né soprattutto riservare la formazione delle classi dirigenti a poche oasi inaccessibili, isolate dal resto del contesto universitario. Significa piuttosto disegnare profili differenziati ma integrati all'interno di un unico sistema, il cui carattere di servizio pubblico non deve essere messo in discussione. L'introduzione del doppio livello di laurea - una di base e un'altra avanzata- introdotto con la riforma Berlinguer-Zecchino, e sostanzialmente consolidato nel successivo quinquennio, è un passo importante nella giusta direzione; come lo è F ampliamento di una rete italiana per l'alta formazione, dottorale e post dottorale, non contrapposta all'organizzazione degli Atenei, ma nata e gestita al suo interno: per unificare, integrare, razionalizzare esperienze importanti, sviluppatesi più o meno di recente. Su questa strada, c'è bisogno ora di imo slancio nuovo. Esso si può determinare a partire da alcune condizioni, che vanno realizzate. Primo. Finanziare la competitività. Destinare tutte le risorse aggiuntive esclusivamente a un sistema capillare di incentivi che premi la qualità e la produttività (delle Università, dei singoli docenti, degli studenti più capaci). Cambiare insomma non solo la quantità della spesa, ma la sua composizione. Secondo. Redistribuire i costi. Porsi cioè il problema di un riequilibrio, sia pure dolce e tendenziale, del prelievo per l'università fra utenti e contribuenti (oggi drammaticamente sbilanciato dal lato dei contribuenti), anche in rapporto a un aumento nella qualità dei servizi offerti da ciascun Ateneo (mense, laboratori, collegi, biblioteche, aule, informatica). Terzo. Sviluppare l'autonomia. Avviare un drastico processo di delegificazione, che consenta sempre di più a ciascun Ateneo di darsi le proprie regole e di seguire la propria vocazione, nel rapporto con il territorio e con i soggetti sociali che lo determinano, nel rispetto di un quadro unitario rappresentato da pochi principi guida inderogabili. Quarto. Accentuare la concorrenza. Vale a dire incrementare la specializzazione e la diversificazione fra gli Atenei, collegandole a un rigoroso sistema di valutazione dei risultati, in grado di innescare spirali virtuose nei comportamenti individuali e collettivi. Quinto. Favorire la trasparenza. Indurre cioè gli Atenei, sia attraverso principi normativi, sia attraverso opportuni incentivi, a darsi assetti di governo non ridondanti, che congiungano visibilità democratica e potere di decisione. Un simile ordine di idee pone all'ordine del giorno una questione per la quale i tempi sono ormai maturi: quella del superamento progressivo del cosiddetto "valore legale del titolo di studio": un vecchio tabù con il quale è arrivato il momento di fare conti non ideologici. E' sbagliato sostenere che esso sia una conseguenza inevitabile del carattere pubblico del sistema universitario: è piuttosto un ostacolo alla sua modernizzazione, e come tale va affrontato. Troppe volte, in questi anni, la bandiera della statualità e della democrazia è stata agitata solo per mascherare opachi interessi corporativi alla conservazione: governare da sinistra significa anche sapersi misurare con essi. __________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 Dic. 05 METTIAMO ALL'ASTA I LAUREATI CERVELLI IN FUGA 0 IN VENDITA DI SYLVIE COYAUD Politici, industriali, economisti e sindacalisti italiani ripetono da anni che ci vuole più ricerca perché è il motore dell'economia. Dell'economia altrui, s'intende. Un 10% di studenti sceglie tuttora le scienze dure, se ne laureano 30mila all'anno (fonte: Conferenza nazionale permanente dei presidi di facoltà scientifiche, dati 2004). Sono troppi. L'economia italiana che preferisce andare a piedi li destina a supplenze nella scuola o a contratti brevi nell'università - il Consiglio nazionale delle ricerche essendo in via di dismissione - e li ricompensa verso i 40 anni con un posto fisso a 1.200 euro al mese. Alla fame, molti preferiscono la fuga in Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania eccetera. La cittadinanza, si calcola, è ridotta a pane e cipolla per pagare la formazione di circa 4mila cervelli all'anno - costo medio: 250mi1a euro cadauno, totale un miliardo - che poi regala a Paesi ricchi. Almeno li donasse al Malawi che ha bisogno di aiuti umanitari, ma alla California il cui prodotto interno lordo - 1,5 milioni di miliardi dollari - supera quello italiano? Sbadataggine, masochismo, carità mal indirizzata, sui motivi dello spreco i pareri divergono, ma c'è un rimedio. I cervelli made in Italy sono ideali per l'esportazione nelle economie dinamiche e innovatrici come quella statunitense di cui il 27% del Pil deriva da attività knowledge based. Venduti con un'adeguata campagna promozionale, risolleveranno più di seggiole tailleurini e scarpe la bilancia commerciale scesa al livello del 1991 e in rosso di 7,4 milioni di euro nei primi dieci mesi del 2005 (Istat, 16 dicembre). Il prezzo verrà stabilito dal mercato in base alla domanda e alla qualità dell'offerta, una qualità misurata dall'indice Arwu (Academic ranking of world universities). Tuttavia nell'Arwu 2005 un'unica università italiana, Roma-La Sapienza, figura tra i cento migliori atenei del mondo e soltanto al 97° posto. Onde evitare speculazioni al ribasso, in una prima fase, con una giudiziosa strategia di marketing verranno messi all'asta pochi lotti di ottimi cervelli. Come ha scritto il giudice americano Richard Posner che aveva proposto questo meccanismo per l'adozione dei bambini, il miglior offerente, avendo investito di più per procurarseli, se ne prende maggior cura e ne trae maggiori soddisfazioni. Rispetto agli orfanelli, i cervelli sono adulti e devono dare il proprio consenso, per cui sono previsti incentivi simili a quelli del calcio mercato. Sebbene abbia lo scopo di risanare la finanza pubblica e miri cioè al bene comune, l'esportazione a fini di lucro di italiani interi e vivi potrebbe suscitare obiezioni morali e financo moti antigovernativi. L'alternativa è la chiusura delle facoltà scientifiche e la loro sostituzione con Istituti di studi superiori alberghieri (Issa) in vista di una riconversione nel turismo e di una ripresa 'affidata non a chimici o fisici, bensì a camerieri e gondolieri. Studenti della Harvard Business School di Cambridge, Massachusetts (Usa), festeggiano la laurea, aprile 2005 (Brook Kraft) __________________________________________________________ Libero 21 Dic. 05 OCCHIO ALLE PANZANE SCIENTIFICHE di OSCAR GRAZIOLI Ormai è tempo di bilanci, ma soprattutto di previsioni. Quelle sulla salute si sprecano. Cosa ci porterà il prossimo anno? Le pagine di periodici sulla salute e gli inserti patinati dei grandi quotidiani storici fanno a gara ad interrogare il luminare di turno per sapere quali nuovi e determinanti farmaci sconfiggeranno, il prossimo anno, malattie che da decenni ci rendono schiavi di fiale, capsule, supposte e cerotti trasndermici a cessione controllata. Niente di male: sognare rosa (...) (,..) ed essere ottimisti dicono che allunga la vita e già questo è un risultato che vale bene i pochi centesimi di un inserto su tutto quello che guarirà la medicina dopo l’ultimo dell'anno; Non vorrei rovinare la festa ma se andate a leggere gli stessi inserti dell'anno scorso la minestra era sempre quella, con la differenza che, ogni anno che passa, risulta sempre più scotta. In realtà, forse il 2005 ha brillato per il ritiro dal commercio di farmaci che hanno causato un po' troppi cadaveri non previsti, invece della prevista guarigione di reumatismi e artriti che arrugginiscono cartilagini, ossa e aponeurosi. Ma questo sulle riviste patinate dell'anno scorso non era scritto. Non era previsto. Per quanto riguarda le "panzane scientifiche ", queste vengono pubblicate badando ad evitare il più possibile luglio e agosto, mesi in cui l'attenzione anche degli addetti ai lavori cala ed è più facile leggere, sotto l'ombrellone, la telenovela tra la Lecciso e Albano, piuttosto che i nuovi pro markers genetici coinvolti nella patogenesi de1l’apoptosi nei pazienti affetti dal morbo di Crohn. L'ultima "panzana scientifica" di cui si sono occupate anche le pubblicazioni non specifiche è stata quella del gatto di casa, sospettato (quindi per il lettore già incriminato) di trasmettere una scioechezzuola come la schizofrenia. E’ da tempo che qualche ricercatore, con poco lavoro e in cerca di gloria, tenta di mettere in relazione questa grave malattia psichiatrica con qualche microrganismo trasmissibile. I virus fanno sempre molta presa nel pubblico. Invisibili, infidi; trasmissibili, testimoni di flagelli antichi: la polio, il vaiolo, la rabbia. Ora è la volta di tale Fuller Torrey, il quale ha tirato in causa un protozoo che spesso alberga nel gatto senza fare alcun danno (neanche a chi gli sta vicino): il Toxoplasma: Già ci sono voluti decenni per convincere medici e ostetrici che le madri incinte contraevano la Toxoplasmosi mangiando carni e verdure crude, poco cotte o poco pulite é che il gatto poteva stare tranquillamente a contatto con ehi era in attesa, rispettando un minimo di norme igieniche di base. Ed eccolo qui, Mr. Torrey, insinuare che la schizofrenia è trasmessa attraverso il Toxoplasma o forse un virus che a1berga nel Toxonlasma che potrebbe albergare nel gatto di casa. Solo considerando il numero di gatti che ci sono nelle case in tutto il mondo, la schizofrenia sarebbe un flagello cosmico, altro che Aids. Per non dire dell'Aids dei gatti., Altra panzana. E i veterinari? Che siano un po' matti a fare quel lavoro per parcelle cosi misere è vero, ma dopo qualche anno dovrebbero visitare con la divisa di Napoleone. L'ultima è quella del genoma. Si è scoperto che il DNA del cane è più simile all'uomo di quello di un topo (ci voleva un genio!), La conclusione è che sono pronti numerosi farmaci da sperimentare sul cane, già il prossimo anno. Da quelli, vedrete guarigioni che neanche il buon Gesù sarebbe stato in grado. Mi viene un dubbio; ma se fino a ieri abbiamo sperimentato tutto sui topi non avremo forse sbagliato qualcosa? E non ripeteremo l'errore con il cane? __________________________________________________________ la Repubblica 24 Dic. 05 IPIROMANI DELLA SCIENZA VITTORIO SGARAMELLA LA SCIENZA è una delle espressioni più elevate della cultura umana. Si realizza attraverso la ricerca e produce autonomia intellettuale e progresso tecnologico: va quindi protetta. Le minacce più gravi vengono da fronti esterni (politici, religiosi, ecc.), ma anche da «fuoco amico» (filosofi della scienza che ne negano l'oggettività; ricercatori che fanno cattive ricerche o le tollerano per indifferenza o collusione). Tra questi ultimi abbondano quelli attivi nella clonazione. Oggi questa tecnica funziona su molti animali, mai successi sono inferiori all' 1 per cento. E invece alta la frequenza di imbrogli, smentite, ritrattazioni. Le ragioni vanno cercate nel fascino del fenomeno, nelle sue ricadute applicative, nell'incertezza di molti aspetti. Vediamole. Dopo i primi successi sugli anfibi degli anni 60-70 era doveroso clonare mammiferi. Un ricercatore tedesco, K.Illmensee, all'inizio degli anni 80 ci riuscì con i topi. La scoperta fece scalpore, indusse emulazione: ma era impossibile riprodurla. Mentre i ricercatori ci si dannavano, già si vantavano successi nella clonazione umana: Nel 1978 uno scrittore, D. Rorvick in un libro «A sua immagine: la clonazione dell'uomo», narrava di un ragazzo, clone di un eccentrico miliardario: pareva informato, realistico. Ma non era credibile, come decise un tribunale, che gli inflisse un'insolita condanna per frode, peraltro mai ammessa. Purtroppo la conclusione fu ancor più triste perla scienza: presto risultò che neppure le scoperte di Ulmensee erano credibili, almeno secondo un comitato internazionale di saggi. Negativo fu anche il parere di uno specialista della clonazione, lo slavo D. Solter, che frustrato da anni di tentativi scrisse: «La clonazione per transfer di nuclei è impossibile». Ma presto la situazione cambiò e anche SolteX si ricredette: era comparsa Dolly, la pecora clonata. Storia anche questa di grande fascino: il suo enorme successo mediatico ha surclassato quello scientifico. Anzi: Dolly ha aperto e subito chiuso il capitolo della clonazione riproduttiva. Mentre resta da chiarire se le cause sono di metodo e quindi rimediabili, o di sostanza (ad esempio i genomi trasferiti non hanno totipotenza), e sono quindi insormontabili. Intanto dalle sue ceneri è nata la clonazione «terapeutica» o «rigenerativa», che per ora ha poco dell'una e dell'altra proprietà: in sostanza ripete la riproduttiva, ma non impianta l'embrione in utero, cerca di indurne in vitro il differenziamento in tessuti da trapiantare. E siamo allo scandalo dei coreani: ancora una volta improbabili embrioni umani clonati e fantomatiche staminali, scoperte da Nobel di sei mesi fa, finiscono in imbrogli e falsità, imbarazzi e misteri. Colpisce l'analogia tra la recente vicenda di W. S. Hwang, il caso Illmensee, il caso Dolly: foto scombinate, materiale scomparso, lavori ritrattati, progetti azzerati speranze mortificate, carriere distrutte s'intrecciano come in Shakespeare o Brecht. Su un tema a forte presa sul pubblico per battere concorrenti, promuovere ricerche nazionali, favorire gruppi di potere, o altro, riviste di grande prestigio pubblicano lavori che dovrebbero calamitare attenzione dai media, abbonamenti dai lettori, interesse dagli inserzionisti, generosità dai finanziatori, richieste dai pazienti. E procedono anche se natura dell'argomento, debolezza delle ipotesi e soprattutto inaccuratezze di presentazione e dati chiedono più cautela: nella scienza disinvoltura prelude a disonestà. Negli anni 80 il caso di Cell, con Illmensee; negli anni 90, Nature, con Wilmut e poi con la clonazione umana; ora Science, con Hwang. Ai ricercatori seri tocca quindi controllare «scoperte» spesso tali solo per il battage che le accompagna, e studiarseli bene quei lavori, magari anche il materiale accessorio «on line», il più utile per scoprire irregolarità. E denunciarle: per Illmensee, Dolly e per i cloni coreani qualcuno l'ha fatto, anche da questo giornale. Ma se la scienza brucia, attenti a non chieder aiuto ai piromani. Professore di Biologia molecolare all'Università della Calabria __________________________________________________________ Il Sole24Ore 30 Dic. 05 QUANTO VALE DAVVERO LA LAUREA? Per conquistare il titolo serve un budget di almeno 75mila euro INVESTIMENTI :, Il costo è alto, ma lo sforzo è premiato nel tempo con un guadagno più elevato del 30% rispetto al diploma La laurea paga o non paga? Per avere una risposta positiva bisogna affidarsi a santa Pazienza. Nel breve periodo infatti la risposta è: non paga. 0 meglio, non soddisfa le aspettative di famiglie e studenti. Nel 2003 a un anno dalla laurea hanno trovato lavoro il 54,2% dei dottori, contro il 54,9% di un anno prima e il 56,9°Io del 2001 secondo i dati del consorzio interuniversitario AImaLaurea. Non solo. È peggiorato anche il reddito passato da 1.015 euro del 2002 a 969 euro del 2003. Aspiranti dottori, però, su con il morale perché non è tutto. Dai dati Od&M emerge che gli stipendi dei neolaureati non sono molto più alti di quelli dei diplomati. II quadro del breve periodo non è incoraggiante. Senza dubbio, se viene in mente mentre si affrontano certi testi d'esame potrebbe causare un po' di sconforto. Qualcuno si chiederà pure: ma chi me lo fa fare? Ne vale la pena? Calma per la risposta. Bisogna infatti aspettare almeno gli "enta". Lasciando passare qualche anno e mettendo a confronto due over 30 dello stesso sesso di cui uno è laureato e l'altro no, la laurea paga. Eccome. Nell'arco di una vita poi è senza dubbio l'investimento con il tasso di interesse più alto, se è vero che secondo l'indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d'Italia un laureato guadagna in media circa i1 30% in più di un diplomato. «I nostri dati ci dicono che sarebbe ingiusto e parziale andare a leggere la redditività a 12 mesi dal titolo - spiega il direttore di AlmaLaurea Andrea Cammelli -. La laurea paga quando il posto di lavoro diventa quello per cui si è studiato. È nel secondo biennio lavorativo, finita la fase della ricerca e della sperimentazione, che si vedono dei segnali. Anche per questo abbiamo deciso di fare delle rilevazioni a uno, tre e cinque anni». Per sperimentarlo sulla propria pelle occorre tempo, ma non v'è dubbio che la laurea paghi. Doppiamente, perché oltre allo stipendio, più è elevato il titolo di studio, maggiori sono le possibilità di occupazione. Nell'edizione 2004-2005 di Università e lavoro dell'Istat emerge che a tre anni dal conseguimento del titolo ha un lavoro continuativo i175% dei diplomati universitari, il 63% dei laureati e il 42% dei diplomati di scuola superiore. Daniele Checchi, preside della facoltà di Scienze politiche dell'Università Statale di Milano osserva che «i laureati italiani hanno delle aspettative altissime quando si mettono a cercare lavoro e si scontrano con il fatto che l'ingresso è più lento e complesso che nel resto d'Europa, a causa della rigidità del nostro mercato. Inoltre, soprattutto all'inizio, devono mettersi in coda per avere il lavoro desiderato. È nella coda che la laurea serve ed esprime tutto il suo valore». Ma chi ha un titolo di studio elevato nel nostro Paese deve fare i -conti con un sistema produttivo in cui prevalgono le piccole dimensioni e che può quindi assorbire pochi laureati. «II rapporto tra laureati e posti a disposizione è di tre a uno. Diventa di due a uno se si considera anche la pubblica amministrazione -- precisa Checchi -. La conseguenza è che da un lato i laureati hanno l'impressione di essere "overeducated", dall'altro quando iniziano a lavorare hanno un livello retributivo più basso delle aspettative». Per fare dei propri rampolli dei laureati benestanti e occupati si richiede alle famiglie un forte sforzo economico. Chissà se fanno ricorso alla formula del Nei present value (Npv), utilizzata in economia per analizzare la redditività di un investimento? Considerate come voci di costo della laurea le tasse (in media di 632,84 curo all'anno, secondo i dati Miur), i libri, il vitto, l'alloggio, i trasporti, si arriva a non meno di 15mila euro all'anno. Considerato che secondo i dati Eurostat, l’85% dei corsi in Italia ha durata quinquennale, moltiplichiamo per cinque. Si ottengono 75míla euro. Fin qui la spesa che deve sostenere 1a famiglia. Il quadro però non è completo, perché non tiene conto del reddito non percepito durante gli studi. Secondo Bankitalia un diplomato guadagna in media 17.683 euro all'anno. Sempre moltiplicando per 5 si ottengono 88.415 euro che, sommati ai 75mila spesi, fanno 163.415 curo. Considerato che un laureato guadagna in media 26.733 euro, per ripagare la spesa totale gli servono circa sei anni. Cifre che dovrebbero favorire una certa attenzione nella scelta dell'università e della facoltà e che fanno richiedere una classifica affidabile «che tenga conto della resa del titolo di studio sul mercato del lavoro e della qualità della ricerca dell'ateneo - continua Checchi -. Che io sappia, nessuno ha intenzione di elaborarne una attendibile di qui a 20 anni. In Italia c'è una forte resistenza a fare valutare il proprio operato e a diffondere anche i risultati delle valutazioni degli studenti. Lo dimostra, tra l'altro, il fatto che molte non vengono neppure rese note». La mancanza di classifiche ci allontana ancora di più dal solo modello di istruzione molto avanzato con cui è possibile un confronto: quello inglese. «Nelle università inglesi non solo si fanno delle indagini tra gli studenti, ma se emergono cose che non vanno ci sono appositi comitati di valutazione che indagano sul perché. In Italia un solo ateneo ha fatto un'operazione simile, ma gli esiti sono stati tenuti segretati», dice Checchi. Il risultato è che una famiglia può valutare il rendimento del titolo di studio sulla base della fama dell'università e che gli atenenei non si danno troppi pensieri della ricerca e della didattica della ricerca. «Questo accade anche perché la mobilità nel nostro Paese è `talmente bassa che le università possono continuare a contare sui bacini locali - aggiunge Checchi -. A1 contrario, nel Regno Unito o negli Stati Uniti studenti e professori fuggono dalle università che non soddisfano le aspettative». La mancanza di classifiche solleva un altro tema, il valore legale. «Prima di elaborarne sarebbe infatti necessario abolirlo - continua Checchi -. Finchè tutti i titoli avranno lo stesso peso è assurdo farne. Come si fa a fare graduatorie tra fornitori di un bene omogeneo? Inoltre bisognerebbe lasciare che le università fossero autonome sia nella scelta dei docenti che nell'offerta di retribuzioni». Il confronto internazionale ci vede molto indietro rispetto a paesi come Stati Uniti, Regno Unito e Giappone, dove quello della formazione è un mercato, le università sono autonome e in concorrenza, si battono per avere i migliori studenti e ricercatori e quindi, anche per raggiungere i più elevati livelli di ricerca, non c'è posto per le università di campanile e la mobilità è molto elevata. Per l'Italia, tutto questo sarà sempre un miraggio? CRISTINA CASADEI SERVONO CLASSIFICHE CHE MISURINO IL VALORE DEI SINGOLI ATENEI II guadagno del laureato Valori mensili medi a uno, tre e cinque anni dalla laurea Un anno Tre anni Cinque anni laureati 2003 986 - Laureati 2002 969 Laureati 2001 1.015 1.142 Laureati 2000 n.d. 1.161 Laureati 1999 n.d. 1.167 1.281 Fonte: AImaLaurea II peso del pezzo di carta Valori medi annui per titolo di studio espressi in euro 2002 Diplomati Donne Uomini 11.956 17.683 Laureati 16.776 26.733 Differenza 4.820 9.050 Fonte: indagine sui bilanci delle famiglie italiane, Banca d'Italia Diplomati e dottori a confronto Stipendi medi annui espressi in euro 2005 Occhio alla spesa. La scelta dell'universita richiede una pianificazione del rapporto costi-benefici, che non sercpre sul breve periodo P positivoll'i3nataJ Diplomati 18.856 Laureati 23.054 laureati 25.063 Media generale impiegati 25.037 Fonte: OMM CARRIERE&LAVOROF21 ________________________________________________ il manifesto 30-12-2005 SCUOLE DI ECCELLENZA, UNA RIFORMA INELUDIBILE MICHELE CILIBER1170* I1 nostro è un curioso paese: anche le idee più innovative possono morire prima ancora di crescere, riducendosi a grigi testimoni di una politica sostanzialmente conservatrice. Il caso delle «Scuole di eccellenza» è un esempio clamoroso di questo tratto tipico della nostra vita nazionale: nate per rinnovare l'Università e rafforzare il campo della ricerca in Italia, rischiano di diventare qualcosa di profondamente diverso da quello per cui erano state pensate, E paradossale, ad esempio, che esse stiano mettendo in difficoltà di ogni genere - a cominciare da quelle finanziarie - proprio quelle Università che avrebbero dovuto contribuire a rafforzare, adeguandole alle esigenze complesse e raffinate della società contemporanea. Giustamente l'Unità, a suo tempo, ha richiamato l’attenzione su questo punto, con un articolo di Valeria Giglioli del 13 novembre, in cui viene sottolineato come l’Università e í beni culturali siano profondamente penalizzati dalla nuova legge finanziaria, con tre sole eccezioni, l'Istituto Italiano di Tecnologia di Genova e due «Scuole di Studi avanzati», una a Firenze, l'altra a Lucca, quest'ultima nata per impulso del Presidente del Senato. Si tratta di una decisione durissima per l'Università italiana, che viene colpita in uno dei suoi gangli vitali: il rapporto, costitutivo e programmatico, fra ricerca e didattica, cioè il premio intorno ai quale hanno girato gli studi superiori in Italia, fin dall'unità nazionale. Alla crisi di questo rapporto si è arrivati anche per il costituirsi e lo svilupparsi della cosiddetta Università di massa, soprattutto negli anni `60 e `70 del secolo scorso. Non c'è però dubbio che questo processo si sia fortemente accelerato in tempi più vicini a noi, nonostante gli sforzi fatti per tenere insieme il binomio di ricerca e didattica, via via adeguandolo alle tumultuose trasformazioni degli ultimi decenni. La stessa distinzione delle lauree in triennale e specialistica, da un lato; e il potenziamento dei dottorati di ricerca dall'altro - nuclei centrali della politica universitaria di Luigi Berlinguer - avevano precisamente questo obiettivo principale. Ma le cose, anche per i limiti dell'azione riformatrice dello stesso Berlinguer, sono andate in un'altra direzione: il quadro che abbiamo oggi di fronte è quello di una progressiva e irreparabile separazione tra didattica e ricerca. Quello che si viene imponendo è - si dice - il modello delle reseurch universities, autonome e finanziate dallo Stato, con una progressiva, ma inesorabile, trasformazione delle Università di massa in puri luoghi di trasmissione di un sapere prodotto in altre sedi. E' un processo che deve essere duramente contrastato, in primo luogo dalle forze riformatrici e di sinistra, spazzando via gli equivoci che si annidano su questo terreno, a cominciare da quello sulla questione del «merito». L'Università deve essere imperniata sul riconoscimento del merito; su questo non c'è alcun dubbio, a patto di non cadere in forme di retorica che celano solamente la salvaguardia dell'esistente e la sostanziale immobilità delle classi sociali e delle élites dirigenti nel nostro Paese. II primato del merito, oggi di moda, si deve accompagnare all'osservanza del principio costituzionale che obbliga la Repubblica a mettere tutti i suoi cittadini in condizioni di partenza omogenee e non predeterminate da privilegi di potere o di classe. E' solo a questo patto che il merito diventa un elemento decisivo della mobilità democratica del Paese, incrinando barriere sociali e culturali consolidate. Concepito in modo diverso, il merito diventa invece solamente la leva per rafforzare, in forme nuove, antichi privilegi. E' curioso che un Paese come l'Italia, nel quale hanno operata straordinari educatori e teorici della scuola come Rodolfo Mondolfo e nel quale agli inizi degli anni `60 è stata compiuta quella vera e propria rivoluzione - frutto di mezzo secolo di battaglie - che è la scuola media unica, è singolare, dicevo, che il livello e il fronte della discussione sia cosi arretrato, perdendo quelle che erano diventate verità elementari, quasi senso comune. Certo, in questo spostamento di asse e di orizzonte culturale hanno inciso i processi di modernizzazione del Paese e le varie ideologie che ad essi si sono accompagnate. Ma il punto di fondo è precisamente questo: la concezione e il segno complessivo della modemizzazione. Nella storia italiana si sono costantemente intrecciate, in modi inestricabili, grandezza e miseria, su tutti i piani, compreso quello della scuola e dell'Università Il problema delle forze riformatrici è stato, e resta, quello di orientare quel sottile confine verso il primo e non il secondo corno del dilemma; né c'è alcun dubbio, da questo punto di vista, che la separazione tra ricerca e didattica e la riduzione dell'Università di massa a subalterno strumento di trasmissione di saperi istituiti altrove potenzi gli elementi di miseria della storia nazionale, favorendo una modernizzazione che, invece di porsi come elemento di mobilità democratica, si configura come leva di stagnazione sociale e culturale. Intendiamoci: io sono persuaso che le «Scuole di eccellenza» siano importanti, e che la loro istituzione e il loro sviluppo sia richiesto dal livello che la ricerca in Italia deve assumere, se vogliamo essere all'avanguardia sul piano internazionale. La ricerca deve essere una delle grandi risorse del paese. Quello su cui bisogna confrontarsi, e discutere, è il «sistema» in cui le Università e le «Scuole di eccellenza» devo-, no essere inserite, con una audace politica di carattere riformatore. E' necessario, infatti, sapere andare oltre i vecchi confini della ricerca in Italia, misurandosi con le nuove realtà che sono emerse negli anni di crisi dell'Università e che con l'Università possono - è debbono - collaborare, dando vita a un nuovo sistema «integrato» della formazione e della ricerca Sono molti gli Istituti di alta cultura che oggi in Italia sono scesi nel campo deJl'alta formazione e della ricerca, dotandosi di Scuole di eccellenza i cui diplomi, in molti casi, sono equipollenti ai diplomi di dottorato di ricerca rilasciati dalle Università italiane. E' un patrimonio eccezionale, che in Italia poco si conosce - eccezionale per le biblioteche spesso uniche al mondo di cui questi Istituti dispongono, per le attrezzature informatiche, per le collane editoriali che essi promuovono e che sono, nei loro rispettivi campi di ricerca, all'avanguardia della ricerca internazionale. E' solo un esempio; ma il paese deve potersi giovare, con gli altri, anche di questo patrimonio - accumulato a volte lungo molti secoli. E ciò sarà possibile solo se si darà mano a un nuovo sistema integrato dell'alta formazione che abbia i suoi pilastri nell’Università, nelle Scuole d'eccellenza, negli Istituti di alta cultura e nelle altre strutture che via via nasceranno. E' un problema di ordine sia culturale che istituzionale che può essere risolto con efficacia sulla base di nuove forme di collaborazione fra Ministero dell'Università e della Ricerca, da un lato, e Ministero per i Beni e le Attività culturali, dall'altro, con una politica riformatrice di ampio respiro, imperniata su un equilibrato, rigoroso e non clientelare uso delle risorse. Solo in questo modo -- ripensando l’alta formazione e la ricerca in termini di sistema, e tenendo fermo al tempo stesso il binomio di didattica e ricerca -, sarà possibile avviare una politica effettivamente riformatrice. Ma i.! nostro, come si sa, non è un Paese normale: da noi non si lavora cercando le necessarie sinergie: l'Università è in uno stato precomatoso; gli Istituti di ricerca hanno l'acqua alla gola, due sole «Scuole di eccellenza» - di cui una patrocinata dal Presidente del Senato - sono state finanziate ciascuna con 1,5 milioni di Euro ogni anno. Come hanno scritto Luciano Modica e Marta Rapallini, «dopo le leggi ad personam, le Università ad personam. Contrastare tutto questo è uno dei massimi banchi di prova di una politica riformatrice nel nostra paese. *presidente de1l’Istituto nazionale di studi sul Rinascimento ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 5 gen. ’06 I LAUREATI CAGLIARTIANI APPRODANO NELLA RETE L'Università di Cagliari aderisce al consorzio "Almalaurea": la banca dati laureati di 40 università italiane. Si tratta di un servizio che rende disponibili on line, nel sito www.almalaurea.it, i curricula dei laureati di numerose università italiane. Gestito dal consorzio "Atenei italiani" l'organizzazione opera con l'intento di mettere in relazione aziende e laureati e di essere un punto di riferimento dall'interno della realtà universitaria per tutti coloro che affrontano a vario livello le tematiche degli studenti universitari, dell'occupazione e della condizione giovanile. Gli studenti degli atenei consorziati hanno l'opportunità di usufruire numerosi servizi orientati al mondo del lavoro e agli studi post laurea. ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 5 gen. ’06 IL SANTO GRAAL DEI MATEMATICI I retroscena della scoperta del numero primo più grande da parte di due ricercatori statunitensi Ora l’obiettivo è capire se c’è regolarità nelle sequenze Per scriverlo per esteso occorrerebbe un libro di ottocento pagine composte solo di cifre ROBERTO PARACCHINI Si pensi a un numero che, scrivendolo per esteso, occupi un librone di ottocento pagine fitte fitte e composte solo di cifre. Giustamente in molti direbbero «e chi lo legge?». Nessuno, anche perché vi sono metodi più brevi per scriverlo come 2 elevato 30.402.457 (ovvero 2 moltiplicato per se stesso per 30.402.457 volte), meno 1. Al di là del capogiro che una simile cifra può provocare, va detto che la caratteristica più importante è che è un numero primo (quindi divisibile solo per se stesso o per l’unità) e che, a tutt’oggi, è il più grande primo conosciuto. Come riportato ieri da «La Nuova», la paternità della scoperta del meganumero, e del progetto che ha portato alla sua individuazione, è di due ricercatori statunitensi, Curtis Cooper e Steven Boone, dell’università del Missouri. I due, assieme a un gruppo di amici molto vasto, sono arrivati a scovare quel primo utilizzando una formula inventata da un monaco benedettino francese, Marin Mersenne, vissuto tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento. A questo punto qualcuno potrebbe dire che i due signori e i possessori dei 750 computer che li hanno aiutati nella loro titanica impresa, sono un po’ picchiatelli. Altrimenti perchè fare tanta fatica per un numero? Per almeno tre motivi: divertimento, soldi e scienza. Innanzi tutto qualsiasi gioco (dallo sodoku al poker, dagli scacchi al «calcio») ha una base matematica e, viceversa, qualsiasi matematica è riconducibile a un gioco. E i numeri primi, divisibili solo per se stessi o per 1, per molti sono un gioco irresistibile. Non solo: questi benedetti primi hanno tante di quelle proprietà che è grazie a loro se banchieri, industriali, Stati e persone comuni dormono sogni tranquilli. Questi numeretti sono infatti alla base di alcuni particolari sistemi di codificazione che permettono di crittare (dal greco kryptòs, nascosto) più che bene, sino a rendere praticamente inespugnabile ciò che si considera segreto. La necessità di scambiare messaggi riservati è non solo il caposaldo della difesa della privacy, ma un’esigenza che viene da lontano. Nella seconda guerra mondiale, ad esempio, i due blocchi nascondevano le loro mosse con codici cifrati. Un contributo determinante alla vittoria degli americani e degli inglesi è stato dato dai matematici. Alan Turing (poi diventato uno dei padri della logica su cui si basano gli attuali computer) riuscì a svelare i codici tedeschi e, in particolare, quelli prodotti dallo strumento di codificazione Enigma, dimostrando così che anche i più sofisticati sistemi di crittazione di allora potevano essere sconfitti. Da qui l’esigenza di individuarne di più sicuri. Col progredire della potenza di calcolo, i primi hanno dato una risposta positiva a questa esigenza. Semplificando: se si moltiplicano tra loro due primi sufficientemente grandi e tali da ottenere un numero tipo 10 elevato 320, si ottiene un qualcosa di inespugnabile. Se non si conoscono le due cifre di partenza è praticamente impossibile arrivarci con la scomposizione in fattori: per la potenza degli attuali computer, anche mettendo tutti quelli esistenti al mondo a lavorare in contemporanea per questo problema, occorrerebbero decine di migliaia di anni di calcolo. I primi grandi, insomma, sono determinanti. Ed è per questo che la Cia paga diecimila dollari per ogni numero primo superiore a cento cifre che gli venga consegnato. Inoltre all’inizio di questo nuovo millennio l’uomo d’affari e matematico dilettante americano, Landon Clay, ha istituito una commissione di studiosi che ha individuato 7 tra i maggiori problemi matematici del momento. E ha messo a disposizione 7 milioni di dollari: uno per ogni quesito risolto. Tra questi c’è l’ipotesi di Riemann sui primi: la possibilità di trovare una qualche regolarità nel comparire di questi numeri. Rebus considerato il Santo Graal dei matematici. I primi sono, infatti, tanto importanti quanto capricciosi. Se da 1 a 10 è facile dire che 2, 3, 5 e 7 sono primi, non lo è più se si plana su grandi numeri. Vi è, ad esempio, anche la possibilità di dimostrare che vi sono intervalli di un miliardo di numeri senza, all’interno, un primo, ma anche di un miliardo di miliardi ecc. Ma dopo quel «buco» ci saranno sempre altri primi. Tornando alla crittografia, negli ultimi decenni si è cercato di di rendere i segreti ancora più inespugnabili, sempre grazie a questi numeri. In genere la scienza dei codici classica (della chiave comune o segreta) ragiona come quei due innamorati che, volendo mandarsi missive d’amore senza che nessuno possa capirle, si mettono d’accordo e utilizzano un codice conosciuto solo a loro due. Tutto bene finché qualcuno non scopre la chiave segreta. Inoltre se le due persone si sono conosciute su internet e una abita a Macomer e l’altra a Toronto, come fanno a essere sicure che nel momento in cui si trasmettono la chiave del codice, questa non venga intercettata? Allora ecco il nuovo problema: è possibile arrivare a una crittazione che abbia una parte pubblica, che tutti possono conoscere, e una segreta, che ognuno può elaborare indipendentemente dall’altro, senza la necessità che sia conosciuta da entrambi? Sì, esiste ed è stato prodotta - come accennato - attraverso particolari proprietà dei numeri primi. Perchè meravigliarsi, quindi, se decine di migliaia di persone giocano a trovare i primi più grandi? Cooper e Boone tra l’altro fanno parte di un’associazione, la Gimps, nata per individuare megaprimi utilizzando la formula di Mersenne. Non si tratta di pochi carbonari risorgimentali, ma di un circolo con settanticinquemila soci che si collegano tra loro, dividendosi i compiti e lavorando a rete. Il Santo Graal matematico si espande. ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 4 gen. ’06 ELEZIONI, MISTRETTA CI RIPROVA Tre nuove facoltà: sarà l'anno della svolta Sarà un 2006 importante per l'ateneo di Cagliari, con le elezioni per la carica di rettore, che vedrà in campo ancora una volta Pasquale Mistretta, e con la possibile nascita delle tre nuove facoltà (Architettura in testa, dopo il varo in senato accademico e cda). Ma non solo: potrebbero essere ritoccate le tasse degli studenti (con il rettore assediato su più fronti) e nascerà il nuovo asse alla Cittadella universitaria, che permetterà di unire i vari pezzi della facoltà di Medicina, spari per la città, in un unico polo. Tante le partite aperte anche sul fronte dei finanziamenti alla ricerca e del futuro dei ricercatori, dopo la riforma delle carriere universitarie. Partite che ruoteranno in gran parte intorno all'elezione di chi guiderà l'ateneo cagliaritano per il prossimo triennio. In sella dal '91Sulla data delle elezioni del rettore non si sa ancora nulla. Potrebbe avvenire prima dell'estate, così come si potrebbe decidere di far slittare il voto a settembre. L'unico candidato sicuro (anche se formalmente non ha ufficializzato ancora niente) è Mistretta, rettore dal 1991, con cinque mandati consecutivi, grazie a delle modifiche di statuto. Una nuova modifica nel luglio scorso permette all'ingegnere di ripresentarsi ancora una volta. Nel 2000 Mistretta era l'unico candidato, mentre nel 2003 si trovò di fronte tre avversari (Luca Fanfani, Francesco Raga e Giuseppe Santa Cruz), vincendo con il 55 per cento dei voti. Nessuno per ora si è fatto avanti lanciando la sfida a quello che potrebbe diventare Pasquale VI. Nuove facoltà. Se ne parla da oltre un anno, e soltanto a metà dicembre Architettura ha fatto i passi decisivi verso la sua nascita come facoltà, con il voto favorevole in Senato accademico e in cda. In questo 2006 dovrebbe arrivare il via libera dal comitato di coordinamento Regione e Università. Passo falso invece per Psicologia e Biologia: su proposta di Mistretta, il Senato ha rimandato l'argomento, consentendo un confronto tra i proponenti delle nuove facoltà e quelle già esistenti, che hanno diversi collegamenti con Biologia e Psicologia. (m. v.) ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 21 Dic. ’05 LA CARICA DEI SEDICIMILA FUORI CORSO Un vero e proprio esercito. I fuori corso dell'Università di Cagliari nell'ultimo anno accademico hanno raggiunto il tetto dei 15.647. Quasi la metà degli iscritti che secondo i dati ufficiali dell'ufficio statistiche del Miur, nel 2004/2005, per l'ateneo cagliaritano, sono stati 32.139. Dunque con la riforma universitaria, e con l'introduzione del "3+2" le cose non sono cambiate. Anzi. A scorrere i numeri si nota che la crescita è stata graduale: 14.249 fuori corso nel 2002/2003, 15.089 l'anno accademico successivo, fino a registrare ulteriori 600 studenti che hanno sforato la normale durata del loro corso di laurea. Anche se confrontando i fuori corso con il totale degli iscritti sembra che un passo avanti ci sia stato: nel 2002/2003 gli iscritti erano 33.621, mentre nel 2003/2004 si persero oltre duemila studenti (31.328). L'anno scorso invece se è vero che sono aumentati i fuori corso, è altrettanto vero che sono aumentate le iscrizioni. Più donne che uomini: 20.097 iscrizioni femminili e 12.042 maschili. Dati in linea con il passato, e che si riflettono sui fuori corso, che infatti vedono le studentesse primeggiare con 9.736, contro i 5.911 studenti maschi. La palma della facoltà con il maggior numero di fuori corso spetta a Ingegneria (2.843) che precede di poco Scienze della formazione (2.728). Non a caso sono anche le due facoltà che nell'anno accademico appena concluso avevano più iscritti rispetto alle altre otto facoltà: Ingegneria con 5.733 studenti, Scienze della formazione con 4.808. Dove la percentuale dei fuori corso, rispetto agli iscritti, supera il 50 per cento, oltre a Scienze della formazione, è in Lingue e letterature straniere (923 su 1.717) e Giurisprudenza (2.459 su 3.983). Di poco varca la soglia anche Economia (1.663 su 3.202). Quasi tutte le facoltà hanno visto aumentare il numero dei fuori corso nel passaggio tra l'anno accademico 2002/2003 e 2003/2004. C'è poi chi ha migliorato: Economia, malgrado il dato negativo, ha ridotto i fuori corso di 600 rispetto al 2003/2004, Scienze Politiche di cento e Farmacia di trenta unità. A conti fatti l'ateneo di Cagliari è ancora troppo "vecchio". Matteo Vercelli Università. Dal 1973 a oggi ha sostenuto più esami di quelli previsti per conseguire il titolo in Scienze dell'educazione «Inseguo la laurea da 32 anni» Maddalena Tulifero: lo studio è passione, come la vita Vita da studentessa. Maddalena Tulifero è fuori corso per scelta: da trentadue anni paga le tasse universitarie e promette a se stessa di discutere una tesi scritta quattro volte. È l'anno buono? Certe persone si iscrivono all'università con la segreta speranza di non laurearsi mai. L'anno in cui Pinochet instaura la dittatura in Cile, Maddalena Tulifero inizia il suo percorso, durato fino ad oggi trentadue anni e un mese. Per lei studiare è una condizione dell'anima che l'accompagna da una vita. Ha la media del ventotto in ventuno esami, due in più di quelli necessari per la laurea in Pedagogia. Di tesi ne ha chieste tre, discussa neppure una. La quarta è quasi pronta: «Chissà che sia la volta buona». Quando si è iscritta? «In un anno lontanissimo, il 1973-74. Adesso ho quasi 50 anni. Dopo le magistrali scelsi Pedagogia, oggi diventata Scienze dell'educazione. Ho sostenuto gli esami del primo e del secondo anno regolarmente, con voti abbastanza alti. Nel 1976 mi sono sposata e ho avuto una bambina. Nel frattempo, ho trovato un posto di ruolo nella scuola. Nel '78 ero a buon punto con gli esami, ne mancavano pochi. Poi mi sono occupata di tante altre cose, continuando a frequentare la facoltà. Nell'81 ero pronta a discutere la tesi. La mia vita è un'incompiuta e mi piace così com'è». Frequentava regolarmente le lezioni? «Sì, anche quelle di francese, nonostante non fossero nel mio piano di studi. Mi piaceva la lingua. Ho sempre amato la vita da studentessa». Il primo esame? «Storia del Risorgimento, con Giuseppe Serri, un 29 sul libretto». L'ultimo? «Critica del cinema». Ha sempre pagato le tasse universitarie? «I primi due anni hanno provveduto mamma e papà. Mi limitavo a vivere il ruolo di figlia. Poi la vita è cambiata: da allora ho sempre pagato io, qualche volta con pesanti more e arretrati». Sino ad oggi quanto è costata l'università? «Perché devo farmi del male? Sarei andata diverse volte in vacanza alle Maldive, questo lo posso dire». Negli anni Settanta la politica era sentita. Iscritta a un partito? «Il partito sardo d'azione, lo sono tuttora. Ho fondato anche un'associazione per la tutela degli emigrati sardi». Oggi la laurea vale quanto allora? «Ritengo che il valore non sia cambiato. Il percorso, sì, è stato modificato. Anche il rapporto tra professori e studenti è diverso. C'erano professori che ti affascinavano, ma anche mattoni. La cosa bella è che oggi ti seguono e c'è un contatto vivo con la materia. Il mio sogno è laurearmi e poi iscrivermi in Medicina, sono portata, il mio medico dice che ci azzecco..». A quando la laurea? «La tesi è sul fenomeno migratorio sardo. Me l'ha data il professor Aldo Accardo». Il 2006 è l'anno buono? «Chissà. Il piano di studi prevedeva diciannove esami, ne ho dati ventuno: tutti 29 e 30, due ventisette e un venti». Un consiglio a chi frequenta il primo anno? «Sono preoccupata perché ho una figlia di diciannove anni che si è appena iscritta. La più grande è già laureata. Vedo che è disorientata, negli ultimi due anni della scuola superiore gli alunni dovrebbero ricevere molte più informazioni. E invece sia la scuola sia l'università sono piuttosto distratte. Molti dicono: vorrei fare l'avvocato. Ma i giovani lo sanno che cos'è la professione forense? Temo che molti la immaginino più o meno come nei telefilm. Prima, però, molto prima, bisogna studiare il diritto e un sacco di altre belle cose». Professori che non ha stimato? «Sono in imbarazzo». Neppure uno? «Sì, mi pare si chiamasse Muti, insegnava sociologia, l'unico venti. È stato il mio secondo esame, uno choc. Era alto, magro, ossuto, un classico inglese con la faccia grigia, freddo, glaciale. Ero preparata, mi disse: signorina, non si può tentare la fortuna. Studiai ancora, tornai e mi ridiede venti». Possiamo pubblicare una sua foto? «Non mi sembra il caso. Non ho detto bugie, però la pubblicità non mi interessa». Paolo Paolini __________________________________________________________ Avvenire 28 Dic. 05 SARDEGNA, NOTIZIE IN UNIVERSITÀ DA SASSARI ANTONELLO MURA La strada scelta è stata efficace. E proficua. Coinvolgendo infatti l'università di Sassari nel dibattito sull'informazione religiosa nei giornali quotidiani per il suo convegno regionale, il coordinamento del progetto culturale della Conferenza episcopale sarda ha raggiunto lo scopo di entrare in un luogo prestigioso e culturalmente significativo, cosi come di dare voce a docenti e allievi. Quando il rettore Alessandro Maida salutando i convegnisti ha chiesto di continuare questo dialogo, dando la disponibilità dell'ateneo, ha colto un clima positivo e, soprattutto, ha notato quanto sia importante trovarsi ad affrontare tematiche che sollecitano l'attenzione e provocano la sensibilità anche del mondo laico. Come responsabile del progetto culturale il vescovo di Nuoro Pietro Meloni, tra l'altro già docente della stessa Università, ha evidenziato questa atmosfera sottolineando come l'incontro della Chiesa con il mondo della cultura arricchisca tutti. II convegno, che si è tenuto il 17 dicembre, aveva lo scopo di presentare la ricerca curata da studenti di Scienze della comunicazione e giornalismo dell'ateneo sassarese sui temi ecclesiali nell'informazione dei tre quotidiani sardi («Nuova Sardegna», «Unione Sarda»,«Giornale di Sardegna») nel corso del 2004. II responsabile della ricerca, Rosario Cecaro, ha sottolineato come l'attenzione sia rivolta più alla cronaca che all'approfondimento degli eventi. Puntuali anche le provocazioni di Gianni Gennari, il Rosso Malpelo di «Avvenire», che ha evidenziato con molti esempi la voglia di sensazionalismo che attraversa i commentatori dei fatti religiosi. Francesco Ognibene, sempre di «Avvenire», ha ricordato che cosa ci si aspetta dai giornali: correttezza nell'informazione e servizio alla verità. In apertura era intervenuto il vescovo di Ozieri Sebastiano Sanguinetti, delegato regionale per le comunicazioni sociali, che ricordando Paolo ad Atene ha rimarcato l'importanza e la difficoltà di comunicare gli eventi della fede: ieri come oggi sono sottoposti all'incomprensione e al giudizio secco di allora: "Su questo ti sentiremo un'altra volta"! II coordinamento regionale del Progetto culturale mette a tema mass media e religione Insieme all'ateneo di Sassari ______________________________________________________________ La Stampa 4 gen. ’06 SCIENZIATE AL SORPASSO DELLA RICERCA SONO POCHE (E RESTANO AI MARGINI) SI può parlare di un approccio femminile al sapere scientifico? Il Centro Eleusi-Pristem dell’Università Bocconi di Milano porta avanti da alcuni anni uno studio sul rapporto tra donne e scienza che ha già prodotto due momenti di sintesi: la mostra itinerante "Scienziate d’Occidente. Due secoli di storia" e il quaderno "Donne di scienza, cinquantacinque biografie dall’antichità al 2000". Analizzando la vita delle scienziate, non emerge uno stereotipo, tanto meno quello di una donna poco femminile, troppo cerebrale, a volte stravagante e magari un po’ ridicola. Le caratteristiche comuni sembrano essere altre: da sempre le donne hanno privilegiato il campo della divulgazione e questa vocazione si esprime tuttora, affiancando frequentemente l’attività di ricerca a quella didattica. Rispetto al passato, nei paesi industrializzati, c’è un maggior riconoscimento delle capacità delle donne. Nei Paesi del Nord Europa meno donne sono impegnate nella ricerca e più in politica. In Italia la presenza femminile nella scienza sta aumentando, anche se richiede ancora sostegno e incentivazioni. I dati presentati in settembre nel Sesto Rapporto del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario (Cnvsu) parlano chiaro: il numero di donne che conseguono la laurea è maggiore di quello degli uomini. Dieci anni fa le donne costituivano circa il 53 per cento dei laureati, oggi sono il 56 per cento, e cresce il numero di donne che scelgono matematica, scienze e tecnologie (dal 13,9 per cento relativo al 1998/1999 al 15,4 per cento del 2003/2004), riducendo il divario tra i due sessi in questo campo. Al Politecnico di Torino è in corso il progetto "Donna: professione ingegnere" per l’attribuzione di borse di studio a studentesse che si iscrivono ai corsi di Ingegneria, con priorità per quelli di elettrica, meccanica, aerospaziale, informatica e telecomunicazioni, caratterizzati da una minore presenza femminile. Il bando fa riferimento alla necessità di contrastare stereotipi sociali molto radicati secondo cui la professione dell’ingegnere, per attitudini intellettuali e comportamentali, si adatterebbe di più agli uomini. Anche l'Università di Trento ha avviato un progetto (LA.DO.TE: Lavoro, Donne, Orientamento e Tecnologia) per favorire le condizioni di accesso e la presenza delle donne nel settore dell'Information Technology. Comunque, una volta laureate, per le donne l’inserimento a pieno titolo nel mondo della ricerca non è semplice e spesso le aspetta un lungo periodo di precariato. L’ultima rilevazione del gruppo Genere&Scienza, attivo dal 2000 presso il Centro per la Ricerca Scientifica e Tecnologica di Trento (ITC-irst), mostra che il numero di ricercatrici all’interno dell’istituto si è accresciuto (11 per cento nel 1990 e 22 per cento alla fine del 2004) ma la situazione non è cambiata riguardo al tipo di contratto, che non raggiunge i livelli più elevati. I dati europei confermano la tendenza osservata in Italia: nella maggior parte dei paesi dell’Unione, il numero di donne laureate è proporzionalmente superiore a quello degli uomini laureati, ma il mercato del lavoro in campo scientifico è dominato dalla presenza maschile. Secondo il rapporto ETAN del 2000, più del 60 per cento dei ricercatori in biologia sono donne, ma dirigono solo il 6 per cento dei laboratori che contano. La Commissione Europea ha avviato misure volte a raggiungere l’integrazione di genere nel Sesto Programma Quadro (dal 2002 al 2006) e indagini statistiche per studiare il fenomeno. A sua volta, l'UNESCO ha promosso un progetto di rete internazionale chiamato Ipazia (scienziata vissuta dal 370 al 415, fatta uccidere dal vescovo Cirillo) e la creazione di un sito internet: www.womensciencenet.org come strumento di comunicazione tra le ricercatrici. Il problema è sotto osservazione anche negli Stati Uniti. Dichiarando che "ancora esistono delle barriere per la piena partecipazione delle donne, non soltanto nelle scienze e in ingegneria, ma pure nella carriera accademica" (rappresentano la metà dei laureati con Ph.D, ma appena un quarto dei professori), i leader di nove delle più prestigiose istituzioni americane come le Università di Harvard, Princeton, Stanford, o il Massachusetts Institute of Technology (MIT) hanno annunciato, il 6 dicembre scorso, che saranno fatti sforzi per rimuovere gli ostacoli. Il mondo della ricerca è stato messo in subbuglio, un anno fa, dalle affermazioni di Lawrence Summers, Presidente di Harvard, riguardo a "ragioni biologiche"che spiegherebbero il minor peso femminile in campo scientifico. Ad ogni modo, Summers ha avviato la formazione di due "task force" per indagare sulla presenza delle donne nell'intera struttura universitaria e nelle facoltà di Scienze e Ingegneria. Al MIT, guidato da Susan Hockfield, sembra che le cose vadano meglio. L'ultimo rapporto interno mostra un incremento del numero delle donne in posizioni di rilievo. E considerato che il MIT è un serbatoio di Premi Nobel, è un indicatore che fa sperare per il futuro. Rosalba Miceli __________________________________________________________ LA NUOVA SARDEGNA 28 Dic. 05 FLUMENDOSA: SCOPERTI GRAFICI PALEOLITICI Nelle grotte che si affacciano sulla valle del Flumendosa. Chi erano questi artisti? di Giacomo Mameli SEULO. Documentata in tutto il mondo, è possibile che l'arte rupestre (rock art) sia presente anche in Sardegna, approdo di tante civiltà e popoli erranti attorno al Mediterraneo. La scuola della notte dei tempi era in piena Barbagia. È quindi credibile che in un'Isola di perdas fittas e pozzi sacri, tombe di giganti e menhir, pietre di fuoco e pietre musicali, nuraghi e domus de janas come quelle istoriate di Bonorva, possa aver attecchito la forma primitiva di comunicazione con graffiti, sculture e pitture su pietra nate con la nascita dell'uomo e documentata dall'Europa all'Australia. Può esserci, allora, in Sardegna una "Cappella Sistina della preistoria" come è stata individuata ad Altamira in Spagna? Piano con la fantasia. A queste domande intriganti c'è oggi, per la prima volta in assoluto, una risposta positiva. E - conferma Maria Ausilia Fadda, soprintendente archeologo per la provincia di Nuoro - "è già stato informato il ministero per i Beni e le attività culturali". Un gruppo di studiosi dell'Ifrao (Organizzazione della federazione internazionale della rock art, collegata all'Unesco) ha compiuto a febbraio di quest’anno diverse spedizioni segrete tra il Salto di Quirra e il Mandrolisai, giungendo a una conclusione che potrebbe rivoluzionare la storia e la preistoria della Sardegna. Sulle pareti interne di diverse grotte della Barbagia, a oltre 807 metri sul livello del mare, al centro di una forra popolata di cinghiali e volpi, ombreggiata da carpini neri ontani e lecci in un costone che digrada verso il Flumendosa, sono state trovate incisioni e pitture che potrebbero risalire alle "prime presenze umane nell'isola" (paleolitico?). Incisioni e pitture che ritraggono, tra l'altro, "la grossa testa di un mammifero, alta più di un metro, dipinta con più strati di pittura rossa". Per gli scienziati potrebbe trattarsi di un "bovide e cavallo". Notizie più dettagliate nel sito dell'Università di Genova molto attiva in questa disciplina. Siamo davanti a un fenomeno naturale di origine carsica? Oppure: chi ha eseguito quella pittura? Non certo un nuragico. E allora: chi era l'antenato del primo Nivola sardo? Maria Ausilia Fadda dice; «Questo è solo l'inizio. La scoperta va approfondita e documentata. L'Isola ormai rientra in un contesto europeo, ciò che esiste in tutta Europa si trova anche da noi. Occorre solo prudenza e affidarsi a figure molto specialistiche al di là degli archeologi che debbono capire i propri limiti». In attesa, quindi, di sentenze scientifiche, è meglio dar voce a sua maestà la cronaca. E riferire delle prime, caute conclusioni firmate dagli studiosi. La testa di quel cavallo-bue "e contornata da pigmento nero applicato sopra la roccia naturale". E non è l'unica traccia di rock art. Diverse immagini sono state trovate - come detto - in altre grotte. Immagini coperte quasi da un segreto d' Stato dopo la notifica al Governo. Ma pur con tutti gli omissis del caso, ciò può voler dire che prima dei guerrieri nuragici c'erano sardi "ben più vecchi" anche di quelli documentati nel neolitico (4500 Avanti Cristo). Con sardi che già abitavano le zone interne dell'Isola, in prossimità di corsi perenni d'acqua come i 122 chilometri tortuosi del Flumendosa (Seulo, Seui, Villanovatulo Sadali, Orroli, Nurri) e il suo affluente perenne Flumineddu (Esterzili e Perdasdefogu) alimentato in abbondanza dal rio Su Luda che scorre sotto un torrione di porfidi nel "parco delle martore" di Bruncu Santoru. La missione internazionale da 007 dell'antropologia è stata guidata da una geologa sarda, Maria Giuseppina Gradoli, nota Giusi, cagliaritana vissuta a Iglesias, in compagnia di alcuni dei pezzi da novanta dell'arte rupestre europea. I loro nomi: Juan Javier Enriquez Navasqués, docente di Preistoria dell'Universitad de Estremadura (Spagna), il fotografo specialista di rock art Jo se Enrique Capilla Nicolas, direttore scientifico dell'Herac, Centro ellenico di arte rupestre, Georgios Dimitriadis Con loro un ingegnere di Sadali, Davide Serpi, e un altro spagnolo, Hipolito Collado Giral do, responsabile dell'area archeologica del governo dell'Estremadura. Con loro il comandante del Ris dei Carabinieri della Sardegna, il maggiore Giovanni Delogu, di Ittiri, laureato in chimica. C'è molto entusiasmo ma anche molta cautela fra quest studiosi. Giusi Gradoli rivela alla Nuova Sardegna: «In diverse grotte dell'area presa in esame abbiamo individuato un, serie di indizi di presenza umana». Quali? «Prima di tutto digitazioni cioè impronte di dita impregnate di pittura naturale, principalmente ossidi di ferro e d manganese. E poi incisioni artificiali di superfici naturali ottenute con l’uso di utensili appuntiti. E infine tracce di pitture parietali con bande di pittura rossa e pigmentazioni, ottenute sempre con ossidi d ferro». Sembra di vederli in azione questi ricercatori. Arrivano in incognito come turisti nei paesini tra il Salto di Quirra e la Barbagia, alloggiano in alberghi-locanda come stranieri "innamorati della Sardegna" indossano scarponi, tute da speleologi, sono attrezzati d lampade e negli zaini hanno diverse coperte ("per ripararsi dal freddo in grotta"). Partono all'alba, camminano tra fratte e sentieri innevati, mangiano al sacco in grotta e rientrano alla base a notte fonda Qualche volta, durante la cena, scrutano sullo schermo del computer le foto scattate con macchine digitali da professionisti. Il titolare della locanda si incuriosisce. Che cosa state guardando? "Le foto scattate stamani". E gli mostrano alcuni tacchi calcarei tra Sadali e Seui. Campagne . verdissime, belle, aspre con l'incanto della natura della Sardegna di dentro. L'albergatore fa il cicerone: «Sotto quelle montagne ci sono anche grotte, ma è difficile entrarci». Messaggio cifrato? Forse. La spedizione continua. Avviene per due settimane di seguito, una prima volta a febbraio, poi - dice radio Barbagia - a giugno. Entrare in certe cavità non è facile, si procede carponi. Con successo. Alcune pareti di grotte, in diverse zone di diversi paesi dell'interno, sono "incise e dipinte". Anzi: "graffitate". Per ogni immagine sospetta, flash a raffica. Gli stranieri strabuzzano gli occhi: «Non credevamo di trovare in Sardegna indizi cosi importanti per l'arte rupestre in Europa», dice Hipolito Collado. Quando renderete note le vostre scoperte? "Dobbiamo fare alcune verifiche tecniche, poi parleremo", aggiunge il greco Dimitriadis. Giusi Gradoli regala qualche dettaglio in più durante una relazione ufficiale presentata a Genova durante il sedicesimo summit degli antropologi italiani. Congresso dedicato al "processo di umanizzazione" poi pubblicato su Internet ma finora non se ne era avuta traccia nelle cronache. "La grotta col cavallo della Barbagia è lunga 287 metri, ha un dislivello notevole, una volta alta fino a nove metri, larga sei metri. La cavità ha anche un ramo secondario stretto e tortuoso lungo duecento metri. Termina in una camera circolare ricca di incisioni e pitture rosse, con resti di ceramiche frammiste a ossa di animali preistorici. La roccia di base è dolomitica di tonalità giallognola, per il rosso è stata usata l'ematite, uno dei minerali più importanti per l'estrazione del ferro". Ma come si impastavano i colori? «II pigmento naturale - spiega Gradoli- veniva fluidificato con un legante che in altre note pitture europee è rappresentato da acqua, tuorlo d'uovo, grasso o sangue animale. Una parete è particolarmente ricca di pitture con pigmentazioni rosse, pitture bianche e grigie, altre incisioni e segni astratti di non facile interpretazione ma sempre legati al mondo animale». La Sardegna - si sa - è stata un eden di piante e di animali ormai scomparsi. Tra i cento e i 120mi1a anni fa l'Isola era popolata da una «fauna fossile tipica del clima caldo umido ora presente solo lungo le coste del Senegal, della Guinea, di Capo Verde e delle Canarie. Nel 1974 la paleontologa Ida Comaschi Caria aveva classificato cervi sardi alti due metri, l'elefante nano endemico sardo alto un metro e mezzo, perfino l'antilope e il Macacus majori, piccola scimmia oltre al coccodrillo chiae roditori endemici quali il Prolagus sardus, estinto". I ritrovamenti fatti dalla Soprintendenza di Nuoro sul Monte Tuttavista di Galtelli sono testimoni inequivocabili di questo patrimonio zoologico sardo. Perché stupirsi, allora, se nelle nostre grotte compaiono pitture di animali? Nella presentazione al libro di Pier Giorgio Pinna "La Sardegna prima della Storia" (edizioni Cuec, maggio 2005) il grande archeologo Giovanni Lilliu scrive: "La Sardegna è una inesauribile miniera di fossili, è un immenso museo paleontologico a cielo aperto. La Sardegna si rivela una terra davvero unica sia in Italia che nel Mediterraneo". Unica si ma senza arte rupestre? Perché la presenza di quel vasto giardino zoologico non dovrebbe aver scatenato la fantasia "pittorica" dei primi abitatori dell'Isola? Quanto c'è ancora da studiare per conoscere tutta la nostra storia che fu? Resta da dire della geologa sarda che, con ostinazione metodica, batte come uno sherpa dell'Himalaya questa pista barbaricina di arte rupestre. Giusi Gradoli nasce ("per caso") a Cagliari da un ingegnere minerario di Orvieto (Piero) e da mamma Mariolina Cogodi, docente di Lettere all'istituto minerario "Giorgio Asproni" di Iglesias. Una mamma d'arte perché Mariolina Cogodi discute nel 1944 la sua tesi di laurea col giovane astro nascente dell'archeologia sarda Giovanni Lilliu che ancora non aveva avviato i lavori di scavo attorno alla reggia nuragica di Barumini. Giusi ha un fratello, Cesare, che si laurea in Medicina e ora lavora alla Asl. Lei, dopo la maturità al liceo scientifico di Iglesias, sceglie Geologia. Si laurea a 23 anni, nel dicembre del 1979 col massimo dei voti e la lode: come campo di battaglia per la tesi sceglie il Sarrabus e indaga sulla prospezione geo-mineraria della zona "dell'orrido di Brecca", nel territorio di San Vito, tra le campagne più selvagge e affascinanti della Sardegna, sotto il trapezio dei nummuliti di Monte Cardiga battuto a piedi da Alberto della Marmora. Il relatore della tesi-Ilio Salvadori - prova a scoraggiarla ("per andare a Brecca ci vuole un uomo, non una ragazza"). Lei - che aveva fatto per anni arrampicata libera sulle cime più alte delle Dolomiti - può ribattere con piglio da Calamity Jane: «Ma io faccio già arrampicate, sono una sportiva, amo il rischio, voglio indagare a Brecca, quell'orrido mi intriga». Frasi virili in un bel viso dolce, certo. Vince lei. Varca il mare e vola in Olanda, a Utrecht, con una borsa di studio. Si inserisce in un progetto di Oceanografia e raccoglie "dati geomorfologici e giacimentologici" durante le traversate oceanografiche a bordo della nave crociera del Cnr "Bannock". Tre anni di ricerche in Petrografia e Geochimica all'Università di Cagliari, indagini e studi sul Sarrabus e sul Sulcis Iglesiente, a Funtana Raminosa, con Samim, Ente minerario sardo, Progemisa, collabora anche con l'Agenzia spaziale europea, lavora al catasto regionale delle attività di cava, approfondisce gli studi sulla geologia di tutta l'Isola, propone il parco letterario della Sardegna sud-occidentale collaborando col Touring Club, ripercorre la Sardegna geologica in lungo e in largo, crea in proprio una società (Comet) per la valorizzazione e la tutela delle risorse naturali e culturali dell'Isola. Partecipa ai congressi mondiali di geologia da Madrid a Siviglia a Praga, poi vola in Canada a Calgary, interviene per tre anni consecutivi alle giornate di studio sulla cooperazione per i Paesi in via di sviluppo e sulla nuova politica europea della London School of Economics. Negli ultimi anni scatta la molla per l'arte rupestre: ed eccola (ottobre 2004) a Pinerolo, al congresso internazionale sulla salvaguardia dell'arte rupestre mondiale. Durante questi meeting Gradoli conosce a Pinerolo il professor Dario Sceglie, direttore del Cesmap, Centro studio e museo d'arte preistorica di Pinerolo. È il Cesmap il trait d'union fra Unesco e Ifrao. E cosi conosce anche il presidente stampa ad uso esclusivo del destinatario, non dell'Ifrao, Robert Bednarick, quello che insegue l'arte rupestre dal Polo nord al Polo sud. E perché non in Sardegna? Parte in questo modo l'avventura nella terra dei nuraghi. L'archeologo Ippolito Collado Giraldo - uno della spedizione Ifrao di febbraio in Sardegna - proietta una valle fluviale spagnola analoga a quella del Flumendosa, con le stesse rocce, le stesse anse. La Gradoli si rende conto che 2+2 fa 4 e dice: «Attorno al Flumendosa c'è la presenza d'acqua venerata dagli antichi, morfologie particolari come i tacchi calcarei, molte rocce carbonatiche. In questa stessa zona avevo già fatto per la Progemisa le prospezioni minerarie. Non ho fatto altro che adattarla all'arte rupestre. E il cavallo della grotta della Barbagia è una prima risposta». Non solo nozioni geologiche. «Ci siamo resi conto che anche in Sardegna ci sono state le glaciazioni, ma da noi non si sono avute le calotte glaciali. C'era stato un clima freddo dimostrato dal ritrovamento di un dente di mammuth risalente all'ultima glaciazione, quindi ad almeno un paio di milioni di anni fa». La collaborazione con l’Ifrao si intensifica e ora, con Giusi Gradoli, vuol sapere se davvero anche in Sardegna, nella notte dei tempi del Paleolitico, c'era un uomo sardo che viveva tra elefanti coccodrilli e giraffe e ne rappresentava le sembianze disegnandoli e scolpendoli nelle pareti dentro le grotte-rifugio. Forse è solo questione di mesi o di qualche anno. Le tecnologie ci sono. Le ricerche sul Dna hanno nell'isola centri di eccellenza. E cosi la Sardegna potrebbe ritrovarsi con la stessa arte rupestre di Australia, Africa e l'Europa delle Alpi. Punta La Marmora, Su Filariu, Bruncu Spina come il Monte Bianco, l’Adamello o il Monte Rosa. La Sardegna come un Continente. Ancora tutto da esplorare. L'ARTE RUPESTRE SEULo. E stata - forse - la prima forma di comunicazione per segni, di grafica giornalistica, di vignette preistoriche alla Altan o alla Giannelli da terzo millennio. Messaggi su pietra (anziché sulle bobine di carta di una rotativa) per dialogare - non con i lettori - ma con gli dei della mitologia greca o con i primi uomini apparsi sulla terra. Ma c'è ancora molto da indagare in questa pagina di misteri. Per adesso stiamo alle poche certezze. L'arte rupestre - si legge nel dizionario di Tullio De Mauro (Paravia) - è, per l'archeologia, "pittura, graffito e similare eseguito su pareti rocciose". Dove si trova questo tipo di pittura dell'antichità più antica? I Continenti con maggiori esempi di arte rupestre sono l'Africa, l'Australia e l'Europa. Studi - con copyright inviolabile - sono in corso in Asia e nelle Americhe. Ma ovunque - come si può dedurre facendo una navigazione on line - si distinguono almeno quattro fasi di "pittura dominante": dal sesto al quinto millennio Avanti Cristo (fase dei cacciatori) le rappresentazioni erano centrate sulla fauna selvatica. Dal quarto al terzo millennio erano di moda gli animali domestici, dal 1700 al 1500 sopraggiunse il cavallo con i cavalieri libico- berberi per finire col mille A.C. dominato dal cammello. Se ne occupa l’Ifrao, l'organizzazione internazionale di arte rupestre sorta a Darwin in Australia nel settembre del 1988, riconosciuta dall'Unesco e da 42 Stati membri fra i quali l'Italia. Africa. Le zone più ricche e visitate sono quelle del Marocco, Senegal e Guinea. In Marocco le regioni più frequentate sono quelle di Tazzarine a nord del Jabel Rhart e di Akka. I siti leader si trovano a Tamlet e Air Quarzik (sembra di trovarsi davanti a una grande pietraia, poi ci si accorge di essere capitati"in un museo a cielo aperto" con pietre incise e dipinte, qui sono raffigurati elefanti, giraffe, gazzelle e buoi). Andando verso Zagora e Akka (impossibili da trovare senza una guida) si attraversa una collina sabbiosa e ci si imbatte in pietre incise esclusivamente con buoi e che un tempo dovevano essere colorate. Le prime testimonianze di arte rupestre nel Sahara si devono a Erodoto. La documentazione più accreditata nel mondo scientifico parte da metà del 1800 con Einrich Barth arricchita ulteriormente nella prima metà del '900 da Henri Lothe e Paolo Graziosi anche se il vero leader dell'arte rupestre nel Sahara è - dal 1955 - lo studioso italiano Fabrizio Mori. I graffiti - si apprende - erano ottenuti con la tecnica della martellatura mentre per la pittura si usavano tinte di ocra rossa (ossido di ferro) e altre sostanze minerali e organiche per fissarle. Australia. La massima concentrazione di petroglifi al mondo è in Australia, nell'arcipelago che prende il nome dal navigatore inglese William Dampier, nella regione di Pilbara a nord-ovest del Paese. Possiede anche una grande schiera di ortostati monumentali (figure in posizione eretta), la maggiore del Continente, simili ai megaliti dell'Europa. È considerato il più grande patrimonio culturale australiano e quindi anche uno dei maggiori siti di arte rupestre al mondo. Varie ricerche hanno stimato che il numero delle incisioni su pietra vada da 250mi1a a più di un milione di raffigurazioni. La concentrazione principale si trova a Murujuga. Tra i petroglifi spiccano la Tigre della Tasmania, estinta da millenni. Europa. Le nazioni col maggior numero di manifestazioni di arte rupestre sono la Francia (160 siti, Font de Gaume, Niaux, Les-trois-frères- e le grotte di Lascaux col famoso cavallo che fugge sotto un uragano di frecce e ancora Mayenne nella foresta di Fontainebleau), la Spagna (Altamira definita "la Cappella Sistina della preistoria"), l'Austria, la Germania e la Polonia. In Russia è famosa la grotta di Kapova, negli Urali. In Italia è la zona alpina quella più studiata. Oltre la Val Pellice tracce si trovano anche in Puglia, Sicilia e Calabria. C'è la Val Bormida in Liguria. La Valcamonica (Lombardia) con oltre 300mi1a disegni disseminati su 24mila rocce vanta la maggior concentrazione di arte preistorica e una, unica in Europa. È stata inserita dall'Unesco tra i patrimoni dell'umanità ed è stata residenza di un misterioso popolo di cacciatori apparso sulle Alpi lombarde diecimila anni fa. I siti sono nel Parco di Naquane a Capo di Ponte, a Ceto-Cimbergo-Paspardo (grotta di Fiumane) e al Parco delle Lume (navigando su Internet si trovano i telefoni di ogni singolo sito). II segno indelebile sulle rocce era considerato mezzo di comunicazione, "forse retaggio di una classe sacerdotale o di sciamani". A queste regioni italiane potrà affiancarsi la Sardegna?(g. m.) ______________________________________________________________ Repubblica 23 Dic. ’05 ASSUNTI 3000 INSEGNANTI DI RELIGIONE: UNO SCHIAFFO AGLI ALTRI PRECARI PER PARTECIPARE AL CONCORSO PERÒ SARÀ NECESSARIO IL «PLACET» DELLE AUTORITÀ ECCLESIASTICHE La Cgil: è uno schiaffo agli altri precari Giacomo Galeazzi ROMA Fede in cattedra. Disco verde dal consiglio dei ministri all’assunzione di altri tremila «prof» di religione, tra le proteste dei sindacati che puntano l’indice contro la «corsia preferenziale» accordata dal governo rispetto agli altri precari della scuola. Procede spedito, dunque, il piano di assunzioni degli insegnanti di religione. Dopo i 9.229 immessi in ruolo lo scorso anno, tocca adesso ad altri 3077. L’obiettivo è arrivare entro pochi mesi ai 15.383 stabiliti dal ministro dell’Istruzione Letizia Moratti. Assunzioni osteggiate, però, dai sindacati. La Cgil attacca l’infornata di docenti di religione. «L’esecutivo ha voluto forzare la mano sconvolgendo le regole del mercato del lavoro e dell’occupazione- accusa il leader della Cgil scuola Enrico Panini - non è mai esistito che l’assunzione in un settore pubblico avvenisse sulla base di un requisito discrezionale, perché la condizione unica per insegnare religione cattolica nelle scuole è l’idoneità rilasciata dal responsabile diocesano». E nel caso in cui la Curia revochi l’idoneità all’insegnante, questo deve comunque essere mantenuto in servizio. L’assegnazione di queste cattedre, ribatte Francesco Giro, responsabile di Forza Italia per i rapporti con il mondo cattolico, è un altro colpo inferto alla piaga del precariato nella scuola, «ereditato nei governi passati». Ma secondo i comitati degli insegnanti precari (Cip) proprio quando un milione di studenti sul totale di due e mezzo ha deciso di «non avvalersi» dell’insegnamento facoltativo della religione cattolica, immette in ruolo tutti i «prof» di religione, scelti in modo arbitrario e insindacabile dai vescovi. «Uno schiaffo - protestano i Cip - agli oltre centomila insegnanti precari delle materie obbligatorie subordinati al caporalato di stato perché proprio la sua scuola statale continui a offrire un servizio». Il problema principale resta il «placet» delle autorità ecclesiastiche. Per partecipare al concorso riservato agli insegnanti di religione, oltre ad avere insegnato per almeno quattro anni consecutivi nell’ultimo decennio, in una scuola statale o paritaria, occorreva la certificazione di idoneità rilasciata dall’ordinario diocesano. E in quasi tutte le Regioni i concorsi hanno avuto un numero di partecipanti di poco superiore ai posti nel triennio in questione. A giochi fatti, in Emilia Romagna, Liguria, Marche, Molise, Umbria, Veneto e Lombardia (per l'elementare e la materna) i posti a disposizione hanno superato gli idonei. Il concorso che tutti sognano: più posti che candidati. Tutt’altra musica per per le centinaia di migliaia di altri precari, alcuni iscritti da decenni nelle graduatorie permanenti per i quali sono disponibili per un biennio solo 30 mila assunzioni. Un provvedimento del governo, infatti, prevede 20 mila immissioni in ruolo nell’anno scolastico 2006/2007 e 10 mila nel 2007/2008. Una politica che lascia scontenti i sindacati della scuola perché «le assunzioni programmate non coprono nemmeno la quota del turn-over annuale», accusa la Cisl scuola, che denuncia l’assenza di analogo provvedimento per il personale Ata (amministrativo, tecnico e ausiliario), area professionale i cui posti vacanti e lo specifico precariato sono a livelli percentuali così alti da mettere a rischio la stessa funzionalità dei servizi. Insomma, nella scuola ci saranno più pensionamenti che assunzioni. ======================================================= ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 4 gen. ’06 IL POLICLINICO APRE AI GIOVANI STRANIERI Monserrato. Gemellaggio con città e Atenei in Senegal Città gemelle e patti per gli studenti stranieri. Dopo quella di solidarietà nato l'anno scorso tra Saint Louis in Senegal e Monserrato, le collaborazioni si allargano. A siglare un gemellaggio questa volta è la città di Qabatia e a festeggiare ha provveduto anche la facoltà di Medicina dell'Università di Cagliari, che ha spalancato le porte agli studenti palestinesi e senegalesi. Il protocollo d'intesa con l'Ateneo è stato stipulato nell'aula consiliare del Municipio in occasione del gemellaggio tra Monserrato e Qabatia. Un accordo siglato con entusiasmo, che vede uniti non solo i sindaci della città e di Qabatia, ma anche quello di Saint Louis. Hanno partecipato alla cerimonia anche il preside della facoltà di Medicina, Gavino Faa, e il direttore del dipartimento di medicina interna del Policlinico, Francesco Marongiu. Comune e Università hanno deciso di impegnarsi per trovare nuove forme di collaborazione che consentano l'inserimento di studenti stranieri nella comunità isolana e la formazione di personale sanitario. A disposizione dei cittadini extracomunitari cinque posti annuali del corso di laurea in Medicina e chirurgia. Previsto anche lo scambio di studenti. (s. se.) ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 3 gen. ’06 MONSERRATO. LA CAMERA MORTUARIA ORA È AL POLICLINICO Manca la camera mortuaria e al Comune non resta che appoggiarsi al Policlinico universitario. Un incidente notturno, una morte improvvisa o più di un defunto nell'arco della giornata: in città non c'era fino a pochi giorni fa lo spazio per un degno saluto al defunto, prima della sepoltura. Il Consiglio comunale ha quindi deciso di dare il via libera allo schema di convenzione tra amministrazione e Policlinico universitario, per la gestione dei servizi accessori del cimitero, nel rispetto delle disposizioni contenute nel regolamento della polizia mortuaria. Il Comune disporrà, grazie a questo accordo siglato con l'Università cagliaritana, di una sala da adibire a obitorio e di una cella frigorifera, oltre che della disponibilità di personale medico e assistenza per prestazioni specialistiche di sorveglianza e pulizia. Un luogo a norma di legge, dunque, per consentire ai cittadini passati a miglior vita di riposare in pace entro i confini della città. Il costo per ogni prestazione a carico del Comune è di 200 euro più Iva: una cifra ritenuta adatta, considerate le spese elevate che comporterebbe la realizzazione e gestione in proprio di strutture idonee a questo importante servizio. (s. se.) Giornale di sardegna 30 Dicembre 2005 ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 28 Dic. ’05 IL DDT NON È CANCEROGENO «E potrà essere utilizzato nel Terzo Mondo» Uno studio cagliaritano pubblicato negli Usa dal "Cancer Research" riabilita definitivamente il pesticida La testa dura dei sardi, l'organizzazione degli americani e un'arma formidabile, il Ddt, per combattere un nemico infido come pochi. È la sintesi estrema della lotta alla malaria, la grande guerra di civiltà e di salute pubblica che dal '46 al '50 coinvolse una Sardegna stremata e malsana, restituendola alla vita. A condurla, sotto l'organizzazione della Rockefeller Foundation e dell'Erlaas, un esercito di uomini. Disinfestori, segnalatori, "soldati della salute" che ora saranno contenti di sapere che lo studio scientifico condotto per anni anche grazie alla loro collaborazione ha dato i suoi frutti, portando una buona notizia. Per la Sardegna ha un valore retroattivo, per i paesi del terzo mondo ancora segnati dalla malaria apre uno spiraglio di luce: il Ddt non è cancerogeno per l'uomo. Utilizzarlo per combattere la piaga della malaria, ancora drammaticamente presente in Africa e in Sudamerica, è quindi possibile, senza che questo comporti per le popolazioni costi umani troppo alti. A dirlo con certezza è uno studio pubblicato di recente da Cancer Research, organo della American Association for Cancer Research di Bethesda. Condotto da Pierluigi Cocco, professore associato di Medicina del Lavoro, Università di Cagliari, che firma la ricerca con Domenica Fadda, Beatrice Billai, Mario D'Atri, Massimo Melis ed Aaron Blair, è basato su una ricerca sistematica effettuata negli ultimi anni su cinquemila sardi che parteciparono alla campagna antimalarica. Dati alla mano, dimostra che non è stata trovata alcuna relazione tra esposizione al Ddt e patologie neoplastiche sospette. Cancerogeno per gli animali da esperimento, il diclorodipheniltricoloroetan o non lo è dunque per l'uomo. Non lo è stato per "i soldati della campagna antimalarica", non lo sarà presumibilmente per i popoli che sono costretti ad utilizzarlo ancora oggi. Prodotto soltanto in pochissimi impianti industriali in paesi in via di sviluppo, come Cina e India, abbandonato dalle multinazionali della chimica che da tempo hanno eliminato dalla produzione una vecchia molecola (ormai non più coperta da brevetto), ha un costo basso in termini economici e ora, secondo i risultati dello studio dell'Università cagliaritana, anche in termini di salute. «Questo non significa che si tratti di una molecola innocua», precisa il professor Cocco. «Altri nostri studi, pubblicati e in corso di ultimazione, mostrano che elevate esposizioni professionali ed ambientali all'insetticida possono dar luogo ad una riduzione della fertilità maschile, in rapporto alle proprietà pseudo-ormonali di alcuni suoi derivati». Come qualsiasi farmaco efficace, il Ddt dovrà quindi essere usato con estrema cautela, ed esclusivamente per motivi di Sanità Pubblica. Nessun trionfalismo dunque, e nessuna tentazione santificatrice. Tuttavia è consolante scoprire con certezza che i nostri vecchi non ebbero alcun aumento di patologie neoplastiche conseguenti al loro "contatto" col Ddt, seppure in condizioni di assoluta mancanza di precauzione. «Il nostro è il primo studio che dimostra che l'esposizione umana al Ddt, alle concentrazioni a cui sono stati esposti durante le operazioni di disinfestazione, non ha causato un aumento della mortalità neoplastica per tumori», dice con soddisfazione il professore. «Certo, arriva tardi, ma finora non avevamo sufficienti informazioni, sono occorsi anni per raggiungere un numero considerevole di persone coinvolte. E sono state preziose le informazioni trasmesse da John Logan, sovrintendente dell'Erlaas, nel suo rapporto». Del resto, racconta Cocco, già l'Organizzazione mondiale della Sanità, nel 2001 a Stoccolma, aveva salvato il Ddt dalla messa al bando delle sostanze che persistono a lungo nell'ambiente, riconoscendone la straordinaria efficacia nei confronti della malaria. «Ripeto, non è acqua fresca, e nei paesi occidentali dove la malaria è tuttalpiù di importazione non ha senso utilizzarlo. Ma dove è endemica sì. Oggi succede con il Ddt ciò che accadde vent'anni fa con la tetraciclina, antibiotico potentissimo che costava pochissimo: una capsula al giorno trattava le broncopolmoniti benissimo. Poi antibiotici nuovi che avevano la stessa efficacia e costavano assai di più la soppiantarono. È la legge del mercato». Nel terzo mondo, continua Cocco, sono stati utilizzati a lungo i piretroidi, che necessitano di trattamenti ripetuti e frequenti. Per il Ddt bastano due-tre trattamenti, la persistenza prolungata nell'ambiente è la sua forza, oltre che la sua colpa...». Lo studio pubblicato sul Cancer Research è il risultato di un lavoro cominciato nell'85, quando Pierluigi Cocco e i suoi collaboratori approdarono ai faldoni polverosi dell'archivio degli enti disciolti presso la Ragioneria generale dello Stato a Roma, EUR. «Riuscimmo così, finalmente, a identificare le persone citate nei fascicoli, a entrare in contatto con loro. Ne abbiamo contattati quasi cinquemila: impiegati, disinfestori, segnalatori, entrati in contatto con il Ddt». Lavoratori che ci hanno salvato da un male giunto nell'isola, si dice, con i cartaginesi, se non prima. Quaranta su cento sono ancora vivi. E ci confermano che allora, in Sardegna, era giusto fare quello che è stato fatto. «Oggi può esserlo in Africa e in Sudamerica: e spetta a chi ci vive decidere, sulla base di considerazioni che appartengono solo a loro». Maria Paola Masala ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 27 Dic. ’05 MONSERRATO, MAI PIÙ UNA PERIFERIA La 554 interrata per 200 metri e, sopra, si farà una piazza Il piano urbanistico di Pier Luigi Cervellati concluso dopo due anni e mezzo di intensa lavorazione Grande importanza al collegamento col policlinico universitario: vicino a questa prevista una città nella città attrezzata di aree destinate al tempo libero e allo sport MONSERRATO. Ci sono voluti tredici lunghi anni, tanti ne sono passati dalla raggiungimento della sospirata autonomia, ma oggi il primo Piano urbanistico comunale è una realtà. Nelle quarantacinque pagine della relazione generale stilata dall'architetto Pierluigi Cervellati, con la collaborazione dello staff tecnico di piazza Maria Vergine guidato da Luciano Corona, c'è il futuro della città, che tra dieci anni arriverà a contare 27mila abitanti. Diverse le novità che emergono dal lavoro avviato nel gennaio del 2003. Il lavoro è stato concluso nell'aprile dello scorso anno: gli esperti hanno passato al setaccio l'intera area comunale nel tentativo di ricomporre la coesione urbana di una città che, oggi, appare quantomeno disunita. Sotto la lente d'ingrandimento, un territorio "stretto su due lati da un'urbanizzazione informe e pervasiva - si legge nel Puc - tipica delle grandi periferie". Ed è proprio questo che la città non vuole essere: negli intenti del Comune, il Piano deve sì puntare all'integrazione con i paesi vicini, ma senza dimenticare la salvaguardia dell'identità locale. La strada che divide. Il piano non fa sconti a nessuno e punta il dito contro la statale 554, che senza giri di parole viene definita come l'intervento più drastico e traumatico degli ultimi anni. La sua colpa, quella di aver irrimediabilmente spezzato la continuità tra centro urbano e zone agricole. E come se non bastasse, tutt'intorno è un brulicare disordinato di edifici commerciali, industriali e di servizio, di aree abbandonate, di sfasciacarrozze e di zone residenziali edificate abusivamente. L'unità ritrovata. Quali soluzioni per restituire alla città un pezzo di territorio dimenticato? Interrare la 554 per circa duecento metri. Sopra, troverà spazio una nuova piazza che rappresenterà la cerniera funzionale e simbolica fra città esistente e futura espansione. Ma se il progetto dovesse rivelarsi di difficile attuazione, il Comune potrebbe decidere di ripiegare su una struttura sopraelevata. Il futuro? E' a nord. L'importanza di un collegamento tra il centro urbano e le aree vicine al policlinico ben si spiega con l'idea di fondo del Puc: realizzare un nuovo insediamento nella zona intorno al Polo universitario. Una sorta di città nella città, che nelle intenzioni dovrebbe rappresentare "un nuovo insediamento di qualità, innovativo, che ricuce il rapporto con le grandi strutture territoriali. Oltre alle aree residenziali, spazio agli impianti sportivi e agli edifici commerciali, direzionali e ricettivi. Qui si concentra buona parte dell'edificabilità e delle risposte collegate alle domande esterne ai confini comunali". La superficie totale è di circa cinquanta ettari: sei sono riservati a verde pubblico, quattro alle attrezzature sportive, due alle scuole e altrettanti ai parcheggi pubblici. Nelle previsioni, è prevista la realizzazione di millesettecento nuovi alloggi, che ospiteranno quattromila nuovi residenti. La parola d'ordine? Riqualificare. Esclusa l'area adiacente al Policlinico, rimane da definire il futuro della zona intorno al Rio Saliu e dell'insediamento spontaneo di Su Tremini, a ridosso della strada provinciale per Dolianova. In merito, il Puc punta su appositi piani di recupero, che prevedono una volumetria edificabile ex-novo pari a centomila metri cubi, per un totale di 360 nuovi alloggi. Otto ettari saranno destinati a verde pubblico e due saranno adibiti ad aree parcheggio. Su Tremini rappresenta il classico caso a parte. La superficie totale è di ventiquattro ettari: secondo il nuovo Piano, gli alloggi che potranno essere presto costruiti sono trecentosettanta, per un totale di mille abitanti. La realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria sarà interamente a carico dei residenti. Cinque ettari saranno dedicati al verde e agli impianti sportivi, quindicimila metri quadrati saranno utilizzati per realizzare i parcheggi e altrettanti per gli edifici scolastici. Con uno specifico obiettivo: migliorare l'esistente con un occhio di riguardo per la qualità delle nuove strutture. Ritorna la palude. Ma attrezzata. La riqualificazione delle aree dell'ex aeroporto rappresenta una delle carte più importanti che il Comune può giocare nell'intento di riaffermare una propria specifica identità ambientale. Per questo, il progetto tende al ripristino ambientale tramite operazioni di riassetto idraulico, che porteranno alla formazione di un'area umida attrezzata per attività di tempo libero e scientifico-didattiche, connessa con la limitrofa area dello stagno di Molentargius. Pablo Sole ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 27 Dic. ’05 MASTER IN MEDICINA, BANDO DI CONCORSO Università di Cagliari: è stato pubblicato il bando di concorso per l'ammissione al master di secondo livello in Medicina delle tossicodipendenze e dell'alcolismo. Le domande devono essere presentate entro il 20 gennaio. Contemporaneamente sono stati invece riaperti i termini per la presentazione delle richieste d'iscrizione al master di primo livello in Attività motorie e sportive. Anche in questo caso la scadenza è il 20 gennaio. I bandi sono consultabili sul sito Internet http://web.unica.it/postlauream/ alla voce "master" o nella segreteria dei corsi post lauream, alla Cittadella universitaria di Monserrato (telefono 070/6754672). (m. v.) __________________________________________________________ MF 30 Dic. 05 FARMACI, TUTTA LA RICERCA NEGLI USA di Grace-Marie Turner THE WALE STREET,IOGRVAE Se si analizza l'attuale situazione dell'industria farmaceutica europea sorge spontaneo chiedersi cosa sia successo. Fino a dieci anni fa, oltre due terzi della ricerca in questo campo era svolta in Europa, ma adesso la bilancia é in favore degli Stati Uniti, dove i colossi del Vecchio continente, come Aventis, Novartis e GIaxoSmithKline, hanno trasferito gran parte dei laboratori. Ma non si tratta solo di strutture fisiche, quanto dei cervelli che le seguono. Sono ormai oltre 400 mila gli studiosi e gli scienziati europei che vivono Oltreoceano. La colpa di tutto ciò è nei governi, che hanno voluto imporre, tramite i diversi sistemi sanitari, un severo controllo dei prezzi al ribasso che, sul lungo periodo, non ha fatto che nuocere all'innovazione. La ricerca farmaceutica è costosa. Le aziende spendono non meno di 800 milioni di dollari per sviluppare una nuova medicina, senza conta-re il rischio che questa non superi i test o non ottenga le debite approvazioni. Negli Stati Uniti alle imprese è consentito recuperare gli investimenti, grazie alla liberalizzazione dei prezzi, che comprendono sempre più spesso anche i costi di ricerca, al contrario di quanto avviene in Europa. Le implicazioni di questa politica sono state oggetto di un recente studio del dipartimento del commercio americana dedicato a 11 nazioni, incluse Olanda, Francia e Germania, da cui emerge l'impatto di una riduzione annua dei finanziamenti, per la ricerca in materia farmacologia, compresa tra í 5 e gli 8 miliardi di dollari. Una cifra sufficiente a scoprire almeno tre farmaci potenzialmente «salvavita» ogni dodici mesi. Non sorprende dunque che, a fronte degli 85 nuovi medicinali lanciati negli Stati Uniti nel periodo 1998- 2002, il totale europeo sia fermo a 44. D'altro canto tutto potrebbe mutare se trionfasse quella corrente trasversale che chiede a gran voce al governo di «negoziare» il prezzo delle medicine. Nel 2003 il Congresso ha regolamentato la fornitura di alcuni farmaci a prescrizione per anziani e disabili iscritti al programma Medicare, includendo però una clausola che consente alle varie assicurazioni di stabilire i prezzi liberamente, in accordo con le case farmaceutiche. Se questa clausola venisse annullata, permettendo al governo di intervenire per i 40 milioni di utenti Medicare, che rappresentano circa il SO% del consumo di farmaci non da banco su base nazionale, l'industria farmaceutica statunitense si troverebbe nella stessa situazione __________________________________________________ il Giornale 31-12-2005 PRESTO IL PANCREAS ARTIFICIALE Già avviate le sperimentazioni per poter regolare i livelli di glucosio nei 5 milioni di diabetici di tipo 1 Con il sistema Cuardian è possibile già monitorare i livelli di glicemia 288 volte al giorno Luigi Cucchi La realizzazione del primo pancreas artificiale si avvicina a grandi passi. Siamo usciti dal mondo dei sogni per entrare in quello della realtà. Le sperimentazioni sono iniziate da tempo e concreti risultati sono già stati ottenuti. A1 congresso annuale dell'Associazione europea per lo studio del diabete (Easd) sono stati presentati risultati clinici che confermano i progressi della tecnologia. biomedicale per la cura del paziente insulino- dipendente. A Northridge, in California, nei laboratori di Medtronic, una delle prime aziende biomedicali al mondo con sede a Minneapolis e con oltre 30mila addetti e numerosi primati tra, cui il primo pacemaker e i più avanzati defibrillatori impiantabili, si sta mettendo a punto un sistema intelligente di infusione di insulina in grado di controllare i livelli di glicemia dei pazienti diabetici in maniera totalmente autonoma. Dopo aver condotto alcuni studi clinici che testimoniano il progredire della ricerca verso lo sviluppo del pancreas artificiale, è stato ufficialmente presentato a141° Congresso mondiale della Associazione europea por lo studio del diabete, che si è tenuto quest' anno ad Atene, i1 primo sistema avanzato (Guardian RT) che consente di visualizzare in tempo reale la lettura della glicemia. Questi studi hanno dimostrato la precisione dei valori glicemici ottenuti mediante il monitoraggio continuo della, glicemia. Un sensore glicemico sottocutaneo trasmette, senza l'impiego di fili, ad un monitor delle dimensioni di un cellulare la lettura continua della glicemia. Con questo sistema oggi è possibile mantenere, durante il giorno e la notte, in pazienti diabetici di tipo l , livelli glicemici vicino alla norma. Il sistema Guardian è capace di registrare ben 288letture nell'arco delle 24 ore, fornendo ai pazienti informazioni fino a 100 volte quelle che potrebbero ottenere impiegando normali glucometri che analizzano gocce di sangue «provocate» con pungidito. Lo standard attuale per valutare il controllo del glucosio include il test dell'emoglobina glicata (A1 C) oltre alle misurazioni con normali glucometri. Tuttavia entrambi i metodi hanno delle limitazioni. Un test di emoglobina glicata, che misura il controllo del glucosio per un periodo di tre mesi, è valido per la gestione del diabete sul lungo periodo, ma offre solo una media del valore rilevato e non evidenzia le fluttuazioni giornaliere del glucosio che possono portare a gravi complicazioni. Mentre le informazioni tramite normali glucometri indica: no soltanto la quantità, di glucosio presente nel sangue al momento dell'esame. Come conseguenza, circa il 60% dei casi di glucosio basso (ipoglicemia) non viene rivelato con potenziali gravi conseguenze. È tuttora in fase di sviluppo l'algoritmo che consentirà di erogare autonomamente la più indicata, quantità di insulina per arrivare al vero e proprio pancreas artificiale, tramite la comunicazione monitorinfusore. Gli sperimentatori hanno dimostrato che 1a tecnologia di infusione integrata con la lettura glicemica in tempo reale sarà in grado di aiutare i pazienti diabetici a migliorare il controllo glicemico e gli esiti a lungo termine del diabete. L'organo artificiale risulterà cosi composto: il sensore glicemico continuo sottocutaneo, un microinfusore insulinico esterno e un computer che riceve i dati glicemici ogni minuto e controlla l'erogazi'one di insulina. Nel mondo le persone che soffrono di diabete sono oltre 194 milioni, un numero superiore alla somma complessiva delle popolazioni di Argentina, Australia., Sud Africa, Arabia Saudita e Spagna,. Sono oltre 5 milioni le persone colpite da diabete di tipo 7 (la forma più severa, della, malattia), 395.000 delle quali sono bambini. In Italia, i1 tipo 1 colpisce oltre 97mila, dei 3,7 milioni di individui che soffrono di diabete. __________________________________________________________ Avvenire 3 Gen. 06 ALBERTO OLIVERIO: PRESTO DALLE BIOTECNOLOGIE I VACCINI PER AIDS E MALARIA» DI LUIGI DELL'AGLIO Quanto a numero di ricerche avviate, i primi cinque anni del secolo non stanno deludendo le speranze riposte nella scienza (anche se la cronaca internazionale segnala casi di ricercatori che, per ottenere finanziamenti, non esitano a "gonfiare" i risultati dei loro studi). L'avanzata della scienza e della tecnologia appare travolgente. Questo per quanto può giudicare l'osservatore esterno. E dall'interno del mondo scientifico? «A volte, è arduo tenere dietro a tutte le notizie, capire che cosa comportino veramente e in quale direzione si vada. Spesso la bioetica è in affanno, costretta a inseguire la scienza che corre, i laboratori che producono novità a getto continuo. Sovente le questioni vengono inquadrate solo a posteriori. E non parlo delle ricerche in evidente contrasto con l'etica religiosa; allora la questione è abbastanza chiara: si sa con precisione che cosa si vuole e che cosa non si vuole». Il professor Alberto Oliverio dirige l'istituto di Psicobiologia e psicofarmacologia del Cnr, ed è ordinario di Psicobiologia alla Sapienza. Per lui il dibattito sui valori, lo scontro in materia di bioetica, è disputa di alto livello: riguarda il futuro dell'uomo e non le piccole controversie di politica spiccia. Professor Oliverio, che cosa pensa del primo trapianto di volto, realizzato in Francia? «Presuppone un notevole affinamento di tecniche e conoscenze. Ma in Usa l'intervento era stato bloccato per ragioni etiche. Quali sarebbero state le conseguenze per il paziente, in caso di rigetto?» La scienza ha promesso di vincere, se le saranno dati i mezzi, una ad una tutte le sfide aperte. La lotta contro i tumori doveva essere vinta entro i11999.... «Contro il cancro vengono messi in campo nuovi farmaci, dal tassolo all’erceptina, su cui si nutrono notevoli speranze per la cura del tumore del seno. Nei progressi compiuti dalla scienza bisogna mettere in prima fila i vaccini. Basta pensare a quanto ci stiamo avvicinando al vaccino contro l’Aids. Oggi, grazie alle biotecnologie, il passaggio alla produzione di un vaccino è molto più rapido. Paradossalmente è molto più lento il passaggio dalla scoperta di un nuovo farmaco all'introduzione in terapia. Controlli lunghissimi, prove tossicologiche estremamente rigorose, severissime le norme che regolano la materia. È una conseguenza del famoso caso della talidomide, il farmaco che nel 1961 si rivelò responsabile di malformazioni nei neonati (e che ora viene riscoperto come antitumorale). Il Nobel Daniel Bovet raccontava che dalla scoperta dei sulfamidici all'applicazione clinica di queste molecole erano passati solo pochi mesi». La scienza sembra in grado di attrezzarsi rapidamente, con i vaccini, appena si presenta una nuova minaccia. «Si parla di un possibile vaccino contro la malaria. È stato già provato. Potrebbe aiutare la medicina a mettere sotto controllo una malattia che nel Terzo mondo fa moltissime vittime e ha implicazioni economiche disastrose». C'è già stato il "decennio del cervello" 1990-2000; ora si dice che siamo nel "secolo del cervello". Quali novità vengono dal fronte del Parkinson e dell'Alzheimer? «Queste malattie degenerative aumentano non solo in rapporto al numero degli anziani, ma anche in assoluto. In base alle stime c'è un raddoppio dei casi di Alzheimer ogni dieci-quindici anni. La malattia si diffonde in modo massiccio anche nel Terzo mondo. E smentisce la teoria secondo la quale si tratterebbe di un morbo dipendente dallo stile di vita occidentale, e in particolare da inquinamento e stress. Questi sono semmai dei co-fattori». Si parla di un vaccino anche contro l’Alzheimer. «Si, ma attenti. Potrebbe produrre effetti secondari nel cervello. Occorre una lunga sperimentazione, prima di passare all'uomo. Inoltre il vaccino andrebbe fatto appena la malattia si presenta oppure quando è familiare». Fermiamoci sul Parkinson: che cosa fare quando i farmaci non bastano più? «C'è un intervento per rendere più fluidi i movimenti nei pazienti irrigiditi dalla malattia. È molto meno complesso di quanto non fosse anni fa. Si introduce un elettrodo in una zona profonda del cervello -il "globo pallido" -e poi s'impianta sotto la clavicola un pacemaker, simile a quello cardiaco». Qui si entra nel regno più spettacolare delle neuroscienze. Dove s'incontra anche il top gun che, con un semplice sguardo, fa partire il colpo. «Questa è materia di esperimenti... Ma la General Motors ha portato a livello post sperimentale un elevatore di attività della corteccia cerebrale, per bloccare l'auto quando il conducente è ubriaco o si sta addormentando». Quali progressi fanno registrare le neuroscienze a favore dei pazienti con arti paralizzati? «Ci sono aree del cervello, nella corteccia motoria, che si attivano quando il soggetto pensa di compiere un certo movimento. In un paziente paralizzato, queste aree si attivano a vuoto. Allora l'attività della corteccia motoria viene rilevata automaticamente e amplificata: con le onde elettriche del cervello, il paziente riesce a muovere un cursore sullo schermo di un computer. Per fargli muovere un braccio artificiale, si installano chip sul moncone». Nel dibattito su scienza e fede, un genetista ha detto che lo scienziato «è in cerca di», mentre il credente «non cerca perché ha già la sua verità». «Non sono d'accordo. Anche il credente è continuamente alla ricerca. Se è un uomo di scienza, si attiene ad alcuni imperativi di fondo ma condivide in pieno l’avventura della conoscenza. La ricerca della verità è evidente anche nella storia della teologia». ____________________________________________________ il Giornale 27-12-2005 TRAPIANTI DI CORNEA, L'ITALIA LEADER IN EUROPA Marisa Do Moliner da Milano In tempi di forti importazioni, soprattutto dalla Cina, l'Italia, va. in controtendenza e lo fa. in un settore particolarmente delicato. Il nostro Paese esporta. infatti cornee da trapiantare: un programma che ha, per mete Francia, Germania, Olanda e Regno Unito e che conferma il buon livello raggiunto dai trapianti di cornea. Siamo, e non solo per numero di trapianti, al primo posto in Europa: un piazzamento che attesta l'autosufficienza, dell' Italia. Si tratta di un successo frutto del lavoro di anni che ha portato di recente a, una copertura del fabbisogno. Ma non è sempre stato cosi: alla fime degli anni 90 infatti anche noi importavamo cornee, e tante. Ad esportarle ora, è la Banca degli occhi del Veneto. «A1 momento - spiega il direttore Guido Ponzin - da Mestre ne trasferiamo all'estero un centinaio all'anno». Dal centro veneziano partono però cornee destinate sul territorio nazionale, soprattutto nella zona del nordest. Ma a cosa si deve il miglioramento avvenuto che ha reso autosufficiente l'Italia già dal 2000? «A una sensibilizzazione dell'opinione pubblica - risponde il direttore della Banca, degli occhi del Veneto - ma anche a un buon lavoro del centro regionale trapianti che ha favorito una più efficace attività di recupero delle cornee tramite personale preparato in ogni ospedale». Al buoni risultati della banca di Mestre vanno aggiunti quelli delle altre banche italiane. Tutte insieme fanno sà che nel 2004 siano sta.te raccolte dodicimila cornee l'anno, delle quali solo poco meno della metà trapiantate. «Perché - precisa Guido Ponzin - solo le migliori, che devono rispondere a precisi indici di qualità, vengono trapiantate. Con quasi 5200 cornee trapiantate il nostro Paese, dove la situazione è disomogenea, è l'unico ad avere questi numeri». «Siamo gli unici ad aver quasi raggiunto l'autosufficienza - aggiunge Matteo Piovella, segretario della Soi(la Società oftalmologica italiana)- se si pensa che il fabbisogno stimato è di - 5.700 trapianti, cento per milione di abitanti. l cinquecento mancanti del 2004 sono stati praticati quest' anno andandosi ad aggiungere agli altri praticati negli ultimi dodici mesi. Questi non ancora conteggiati sono comunque più numerosi dei 5.200 dell'anno scorso». «L'Italia. - prosegue Piovella - è, seguita dall'Inghilterra., la meglio organizzata e quella che pratica una selezione accurata delle cornee. Davvero un bel successo per i1 nostro Paese, se si considera che soltanto dieci anni fa era, agli ultimi posti in Europa». L' all'avanguardia sono anche gli studi che„ premiati dalla Società oftalmologica italiana con 30mila curo, svolti a partire da gennaio per due anni alla Banca degli occhi di Mestre, permetteranno di scoprire i meccanismi che fanno fallire un trapianto e sospettare un rigetto delle cornee. __________________________________________________________ Repubblica 29 Dic. 05 IL SOLE AIUTA A BATTERE IL CANCRO ELENA DUSI ROMA - Una dose generosa di vitamina D previene l'insorgere dei tumori. Decine di piccole ricerche sparse per il mondo lo avevano suggerito da tempo. Oggi un'équipe di studiosi dell'università di San Diego, California, ha raccolto e ordinato tutte le evidenze. E mettendo insieme 63 articoli apparsi sulla stampa scientifica tra il 1966 e il 2004 ha concluso che abbondare con il Sole, 11 tonno e l latticini (le fonti principali di vitamina D) può ridurre l'insorgenza dei tumori al seno e alle ovaie del 30 per cento e di quello del colon del 50 per cento. Un'azione di freno nello sviluppo dei tumori è stata notata anche nella prostata e in altri tessuti, una trentina in tutto. Il ruolo principale della vitamina D considerato finora era quello di irrobustire le ossa. Questa sostanza comanda infatti all'intestino di assorbire il calcio e il fosforo dagli alimenti. Una sua carenza nei bambini può provocare il rachitismo. Mentre negli anziani fa aumentare il rischio di osteoporosi, cadute e fratture del femore. Che la vitamina D rallentasse anche la proliferazione delle cellule cancerogene era stato notato da tempo in laboratorio, ma il perché di questo fenomeno rimane ancora oggi oscuro. La ricerca, pubblicata sul numero del prossimo febbraio dell’American Journal of Public Health, è stata condotta mettendo in relazione il livello di vitamina D nel sangue delle persone studiate con la presenza di eventuali forme di tumore. I più protetti dalla malattia sono risultati gli individui che assumevano 25 milligrammi al giorno di vitamina, una dose di gran lunga superiore rispetto a quella raccomandata nei vari paesi (che oscilla tra i 10 e i 15 milligrammi per salire a 20 nella terza età, quando si affaccia il pericolo di osteoporosi). E visto che la fonte principale di questa sostanza è il Sole, la raccomandazione dei ricercatori è di passare ogni giorno almeno un quarto d'ora all'aria aperta. I raggi ultravioletti stimolano la pelle a sintetizzare vitamina D. Più il colore della cute è chiaro, maggiore sarà la quantità prodotta. Se il Sole è coperto dalle nuvole la quantità di raggi ultravioletti si dimezza e diventa necessario trascorrere almeno mezz'ora fuori casa, con viso, mani e se possibile anche le braccia scoperte. Sulle fonti alimentari di vitamina D i medici della California invitano a non fare troppo affidamento. Solo l'olio di fegato di merluzzo è una fonte abbondante (una dozzina di milligrammi per cucchiaio), mentre latticini, fegato, tuorlo d'uovo, tonno e salmone non contengono che quantità limitate. Bere un bicchiere di latte per esempio non fa andare oltre il milligrammo. A chi non ha tempo da passare sotto i raggi del Sole rimane l'opzione degli integratori alimentari e dei cibi supplementari con Vitamina D. Questa è la soluzione suggerita da Cedric Garland, il professore dell'università della California che ha guidato lo studio: «I benefici di questa vitamina sono cosi evidenti da rendere necessaria un'azione di salute pubblica. Le strade più semplici per ottenere il giusto apporto passano attraverso i cibi e i supplementi giornalieri». Ma le linee guida di tutti gli istituti internazionali di scienze dell'alimentazione, incluso l'italiano Inran mettono in guardia: superare il tetto massimo di 50 milligrammi al giorno può provocare danni al fegato e ai reni. __________________________________________________________ MENTE –CERVELLO Dic. 2005 LA SENSIBILITÀ DEL FETO quali seno le sensazioni che prova un feto, e fino a che punto le sue reazioni agli stimoli somigliano a quelle di un adulta? Le ricerche in questo campo sono sempre pii i numerose, non sol tanto perché consentono di comprendere come si strutturano cervello e mente del feto, ma anche perché hanno ricadute applicative e investono il campo della bioetica. Per quanto riguarda udite, olfatto e gusto è noto ormai da tempo che intorno al settimo mese di gestazione il feto reagisce agli stimoli uditivi e, man mano, si abitua alla voce materna che, dalla nascita in poi, preferirà a una voce ignota. La voce della madre è trasmessa per conduzione attraverso il diaframma e gli organi situati nella cavità peritoneale. Qualche dubbio, invece, si ha sul fatto che il feto, sottoposto a un «bombardamento» musicale, sviluppi una preferenza per una musica anziché per un'altra, anche perché alcuni generi musicali usati come pietra di paragone per il neonato risultano meno piacevoli di una musica classica rilassante e armoniosa. Intorno al settimo mese, inoltre, il feto comincia a reagire a stimoli gustativi, vale dire alle molecole di alcuni cibi convogliate attraverso il sangue materno, e in seguito potrà mostrare di preferire quei gusti rispetto ad altri. L'aspetto più critico della vita sensoriale de! feto riguarda però il dolore, sia perché alcuni gruppi antiabortisti hanno sostenuto che intorno alla ventesima settimana esso proverebbe dolore (e quindi soffrirebbe in seguito a un aborto), sia perché si stanno diffondendo interventi chirurgie; fetali, che riguardano soprattutto la correzione di alcuni difetti cardiocircolatori: la maggior parte di questi interventi non è effettuata in anestesia, anche per evitare i possibili danni degli anestetici sul sistema nervoso, e molti si chiedono se un intervento Senza. anestesia non causino stress in grado di condizionare negativamente la vita del futuro neonato. Ci sono due diversi argomenti a sfavore del dolore fetale. 11 primo riguarda il fatte che le sensazioni dolorose implicano che esista un livello di coscienza o, in termini neuro fisiologici, che gli stimoli dolorosi che dalla periferia arrivano ai nuclei del talamo (una formazione situata nella profondità del cervello dove giungono tutti gli stimoli sensorali) vengano analizzati dalla corteccia sensoriale. Quest'ultima, però, nel feto è ancora immatura, e le vie che la connettono al ta:ame non sono ancora sviluppate. [n realtà questo argomento non è del tutto probante, gli adulti ai_ quali è stata rimossa 'la corteccia sensoriale possono ancora provare sensazioni dolorose, anche se meno vive. 11 secondo argomento, invece, è più convincente, e anche molto interessante, perché ci illumina sulle condizioni della vita prima della nascita. Il feto vive in uno stato di forte incoscienza, perché si trova in una condizione di sanno continuo, durante il quale le sensazioni che arrivano al cervello vengono inibite e molto attenuate. Il sonno del feto è indotto da diverse sostanze prodotte sia dal suo cervello sia dalla placenta materna: se negli animali queste sostanze vengono bloccale chimicamente si ha un'inibizione del sonno, e quindi un aumento dell'attività cerebrale compatibile con la percezione del dolore. Ma all'incoscienza del sonno bisogna anche aggiungere un altro fattore, quello dell'analgesia indotta da ormoni steroidi, tra cui il pregnanotone, un anestetico naturale secreto dalla placenta. in sostanza il feto si sviluppa in uno stato di ottundimento sensoriale, utile alla maturazione del suo cervello, ed è protetto fine alla nascita da eventuali sensazioni di dolore. l. numerosi riflessi che manifesta come risposta a stimoli diversi sono privi di una componente cognitiva. ______________________________________________________________ Le Scienze 7 gen. ’06 UNA PROTEINA CONTRO LA DEPRESSIONE Regola attivamente il metabolismo della serotonina Una proteina che potrebbe avere un ruolo determinante nella lotta alla depressione è stata identificata da Paul Greengard, già vincitore del premio Nobel per la fisiologia e la medicina nel 2000 per i suoi studi sui sistemi di comunicazione fra neuroni. Insieme ai colleghi della Rockefeller University ha scoperto che la proteina chiamata p11 ha una funzione essenziale nella regolazione del metabolismo della serotonina, la cui alterazione è notoriamente collegata allo sviluppo di patologie depressive e ansiose. Non a caso gli antidepressivi più diffusi sono gli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI) che, per compensarne la scarsa produzione da parte dei neuroni presinaptici, consentono una sua più prolungata permanenza sui recettori dei neuroni post-sinaptici. La proteina p11 sembra da un lato stimolare una maggiore produzione di un particolare tipo di recettori della serotonina, chiamati 5- HT1B, sulla superficie della membrana dei neuroni e, dall’altro, stimolarne una maggiore funzionalità. Una volta studiato il meccanismo sul modello animale – in questo caso il topo, nel quale la depressione provoca effetti comportamentali del tutto simili a quelli che si riscontrano nell’essere umano – i ricercatori hanno cercato un riscontro nell’uomo, trovando che la risposta positiva dei pazienti alle terapie con SSRI era sempre collegata a una migliore espressione della proteina p11. ______________________________________________________________ Le Scienze 5 gen. ’06 SOIA: NON SEMPRE FA BENE La scoperta è stata fatta studiando alcuni topi portatori di una rara anomalia genetica In uno studio preliminare condotto su topi da laboratorio alcuni ricercatori dell’Università del Colorado a Boulder hanno dimostrato che una mutazione genetica che nell’uomo è legata a un’alterata funzionalità del cuore determina problemi cardiaci di maggiore entità quando la dieta è a base di soia. La cardiomiopatia ipertrofica è una malattia a base genetica che interessa una persona su 500 e si manifesta con aritmie, palpitazioni, fiato corto. Per anni si è supposto che una dieta ricca di soia potesse proteggere dai disturbi cardiaci, grazie soprattutto alla presenza di fitoestrogeni, composti vegetali in grado di interagire con i recettori degli estrogeni umani ai quali sono affini. La scoperta, pubblicata sull’ultimo numero del Journal of Clinical Investigation rimette in questione, almeno in parte, questa ipotesi. Va comunque osservato che il peggioramento della situazione cardiaca è risultato molto più marcato nei topi maschi che nei topi femmina, probabilmente perché – osservano gli studiosi – l’organismo femminile, costantemente esposto agli elevati livelli naturali di estrogeni, sviluppa una minore sensibilità di quello maschile alle variazioni nei livelli di questo ormone collegate a una dieta a base di soia. ______________________________________________________________ Corriere della Sera 4 gen. ’06 PRIMO ORGANO CREATO DA STAMINALI È una ghiandola mammaria che produce latteL'esperimento sui topi. Bordignon: «Dobbiamo imparare a controllarne la crescita» La «fabbrica degli organi» comincia a muovere i primi passi. Prova e riprova, finalmente qualcuno c'è riuscito: da una cellula staminale adulta si è creato un organo funzionante. Con le diverse cellule specializzate (derivate dalla stessa staminale) al posto giusto per svolgere la loro complessa e sinergica funzione. Una ghiandola mammaria che produce latte. Il tutto nei topi. Per ora. Il lavoro è pubblicato dalla prestigiosa rivista scientifica Nature. E la notizia fa effetto, non solo agli addetti ai lavori: per la prima volta una sola cellula staminale è riuscita e rigenerare un intero organo in un animale vivo, la ghiandola mammaria di un topo. «Non parlerei di organo ma di tessuto mammario funzionante — avverte Claudio Bordignon, direttore scientifico dell'Istituto San Raffaele di Milano, esperto a livello internazionale di terapia genica e di staminali —. E', comunque, un lavoro fondamentale. Un passo avanti su cui lavorare». Il risultato, che promette di avere ricadute interessanti anche nella ricerca sui meccanismi di formazione dei tumori, è stato raggiunto da una collaborazione scientifica tra Australia, Canada e Stati Uniti, coordinata da Jane Visvader, dell'Istituto di ricerca medica «Walter and Eliza Hall» di Parkville (Australia). ? Le ricerche in corso ISOLAMENTO E TRAPIANTO - Gli studiosi sono riusciti prima ad isolare le cellule staminali dalla ghiandola mammaria di un topo e quindi le hanno marcate in modo da renderle riconoscibili in ogni fase successiva dell'esperimento. Quindi le hanno trapiantate in topi vivi, nei quali le cellule hanno cominciato a moltiplicarsi fino a formare una ghiandola mammaria completa e perfettamente funzionante, in grado di produrre latte. Moltiplicarsi e differenziarsi (o meglio specializzarsi) nelle varie componenti attive o strutturali di una ghiandola mammaria. La «marcatura» delle cellule staminali iniziali con un frammento di Dna poi riconoscibile è un «trucco» delle sperimentazioni di questo genere: serve a dimostrare che non sono entrate in gioco altre cellule dell'animale in cui sono state «iniettate» le staminali. Cellule, per esempio, delle ghiandole mammarie. E questo per verificare che il tessuto creato abbia tutto la stessa matrice d'origine. E' un punto chiave della validazione del lavoro. «Il nostro studio — spiega Jane Visvader — fornisce la prima descrizione, per quanto ci risulta, della ricostituzione di un intero organo a partire da una singola cellula staminale epiteliale». In topi utilizzati come modello del tumore del seno, i ricercatori si sono accorti inoltre che cellule staminali di questo tipo erano più numerose nel tessuto pre-canceroso del seno: un'osservazione che suggerisce come queste cellule potrebbero essere coinvolte nella comparsa di tumori. ARMA A DOPPIO TAGLIO - «Ecco uno dei problemi da studiare — interviene Bordignon —. Il modello messo a punto dal gruppo guidato dalla Visvader può essere definito il prototipo di un'arma a doppio taglio». Che cosa vuol dire? Bordignon entra nel merito: «Noi sappiamo che le staminali hanno un grandissimo potenziale, ma ancora non siamo in grado di controllarle così come avviene in natura. In altri termini, il tessuto mammario creato funziona ma non risponde alla programmazione di un organismo». Per esempio, in una bambina la mammella si sviluppa senza però essere attiva. Poi, nella donna fertile, è pronta a secernere latte, ma resta ferma fino a quando non c'è una gravidanza e un parto. E, alla fine, a bimbo svezzato torna silente. Insomma, le cellule rispondono a comandi di attivazione e di inibizione fondamentali. «Se noi non siamo in grado di controllare le fasi di trasformazione e crescita delle staminali — conclude Bordignon — rischiamo di innescare una mutazione in cellule precancerose, non più sensibili ai meccanismi di inibizione e blocco». ______________________________________________________________ Corriere della Sera 4 gen. ’06 IDENTIFICATA MUTAZIONE-CHIAVE DELLA LEUCEMIA La scoperte degli ematologi dell'ospedale Niguarda di Milano. Potrebbe cambiare la prognosi di pazienti non responsivi alle cure MILANO - Identificata una mutazione chiave per la mancata risposta alle terapie di alcuni casi di leucemia mieloide acuta, una malattia che colpisce 3-4 persone ogni 10mila e che, generalmente, risponde piuttosto bene ai trattamenti. La scoperta è opera degli ematologi dell'Ospedale milanese di Niguarda, in collaborazione con i genetisti medici dell'universitá Statale di Milano. Il loro studio potrebbe avere importanti implicazioni terapeutiche, anche nell'immediato. ? La leucemia mieloide ? Audio LO STUDIO - La ricerca, appena pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica «Blood» online, è iniziata circa due anni fa e aveva lo scopo di capire il motivo dell'insuccesso delle cure in alcuni malati affetti da leucemie in genere responsive ai trattamenti. A insospettire i ricercatori è stato un gene, il c- KIT, che si trova sul cromosoma 4 e ha un ruolo strategico nella produzione del sangue, perchè interviene nella proliferazione e differenziazione delle cellule del midollo osseo. Analizzando 67 pazienti con leucemia mieloide acuta, seguiti in sei centri italiani (Milano Niguarda, Pavia, Verona, Vicenza, Ferrara e Napoli), gli studiosi milanesi coordinati da Roberto Cairoli, Enrica Morra, Alessandro Beghini e Lidia Larizza, hanno identificato una mutazione del gene c- KIT che rende più aggressive e insensibili alle cure le cellule tumorali prodotte nel midollo. DIFFERENZA - «Di solito questo tipo di leucemie risponde bene alle terapie» spiega la dottoressa Enirca Morra. «Eppure alcuni pazienti non solo non guarivano come ci aspettavamo, ma andavano malissimo, sviluppando talvolta anche tumori al di fuori del sangue, per esempio nelle vertebre». «Grazie a un finanziamento pubblico della Regione e la collaborazione di diversi centri ematologici italiani abbiamo condotto uno studio di genetica molecolare che ci ha permesso di individuare una mutazione che si accompagnava costantemente a questa cattiva risposta alla terapia» PROSPETTIVA CAMBIANO SUBITO - E questa scoperta potrà fare la differenza fin da subito per i suoi portatori. «Se infatti noi possiamo sapere sin dal momento della diagnosi che la chiemioterapia standard non ha possibilità di successo possiamo subito avviare il paziente a un altro trattamento, che prevede il trapianto di midolllo osseo da donatore. E poter cominciare al più presto questa ricerca fa un'enorme differenza per il malato, perchè se questa linea di trattamento viene decisa troppo tardi cìè il rischio che il paziente non ce la faccia» Luigi Ripamonti ______________________________________________________________ Corriere della Sera 3 gen. ’06 OSTEOPOROSI, SCOPERTO IL MECCANISMO DELLA DISTRUZIONE OSSEA Individuato un gene. Passi avanti per la cura I recettori della marijuana nel cervello sono alla base di un meccanismo finora del tutto sconosciuto e inaspettato di distruzione ossea che porta all' osteoporosi. La ricerca, riportata sui Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas), è stata condotta da scienziati delle Università di Bonn e Gerusalemme e ha individuato sul gene CB2, che produce un recettore per i cannabinoidi, molecole simili a quelle della marijuana. Una di queste molecole attive su CB2 riduce l' osteoporosi nei topolini e potrebbe costituire la base per nuove e più efficaci terapie contro la malattia. I cannabinoidi sono conosciuti per essere le molecole attive della marijuana. Il nostro corpo produce una versione naturale di queste molecole, gli endocannabinoidi. Questi agiscono legandosi a recettori per i cannabinoidi. La marijuana agisce sui recettori CB1, posti sui neuroni di certe zone del cervello. Ma ci sono appunto anche i recettori CB2, la cui funzione finora non era nota. I ricercatori tedeschi hanno scoperto che eliminando il gene CB2 nel Dna dei topolini questi cominciano a perdere densità ossea come nell' osteoporosi. I ricercatori hanno scoperto che CB2 si trova sulle cellule che presiedono al metabolismo dell' osso, gli osteoclasti e gli osteoblasti che rispettivamente distruggono e formano tessuto osseo. In assenza del gene CB2 gli osteoclasti aumentano del 50% nei topolini. La somministrazione di un composto attivo su CB2 ha bloccato il progredire della malattia. I ricercatori hanno anche voluto vedere quale ruolo avesse CB2 sulle donne in menopausa (più colpite da osteoporosi) e in effetti hanno dimostrato che il gene per CB2 è spesso difettoso nelle donne con la malattia. Secondo i loro calcoli una mutazione del gene triplica il rischio di osteoporosi. M. Pap. Pappagallo Mario ______________________________________________________________ Sardi News Dic. ’05 PREGI E DIFETTI DEI SARDI SCRITTI NEI GENI Siamo tutti figli di un Adamo isolano Laura Crisponi e i genetisti del Cnr di Cagliari al lavoro per i geni di alcune malattie rare In campo scientifico e tecnologico non basta fare buona ricerca: è indispensabile saperla raccontare bene. Oggi, specialmente in Italia, la prima ricerca da condurre è quella dei finanziamenti. Come spiega Giovanni Carrada in “Comunicare la scienza. Kit di sopravvivenza per ricercatori” (Edizioni Sironi 2005, 10 Euro, volume promosso dalla Conferenza nazionale permanente dei presidi delle facoltà di Scienze e Tecnologie): “se fino a poco tempo fa comunicare con la società era un optional, oggi è diventato una necessità. E nessuno, nel mondo scientifico, può più permettersi di ignorarlo”. Non lo ignorano i ricercatori dell’Istituto di Neurogenetica e Neurofarmacologia del Cnr di Cagliari diretto dal professor Antonio Cao: “Stiamo contattando le scuole per far conoscere la genetica – spiega la ricercatrice Laura Crisponi – ma dobbiamo dedicare molto tempo a scrivere richieste di finanziamenti, da rinnovare di anno in anno. Laura Crisponi, grazie a una borsa di studio dell’Università di Cagliari, dal 1996 al 1997 ha lavorato con David Schlessinger, già direttore del laboratorio di genetica dell’Istituto nazionale della salute statunitense, e insignito a Cagliari della laurea honoris causa in medicina nel 1992. Così, in una delle migliori scuole di medicina degli Stati Uniti (la Washington University di St. Louis) Laura Crisponi si è occupata della caratterizzazione del gene GPC3 scoperto da Giuseppe Pilia (altro cervello sardo migrato negli Usa dal 1990 al 1995) prematuramente scomparso il 17 aprile di quest’anno. Si tratta di ricerche importanti perché le mutazioni in questo gene causano iper-accrescimento e sono responsabili della sindrome Simpson-Golabi- Behmel o Sgbs. “Rientrata a Cagliari ho proseguito quelle ricerche – spiega Laura Crisponi – e nel 2001 siamo riusciti a identificare un altro gene, il FOXL2, che, se mutato, causa malformazioni oculari, sterilità femminile e menopausa precoce.” Perché in Sardegna alcune malattie sono più frequenti che altrove? “La popolazione sarda ha un patrimonio genetico più omogeneo rispetto ad altre, essendo una popolazione isolata che si è originata da pochi fondatori e che ha subito ridotti flussi immigratori. Mutazioni insorte anticamente e trasmesse alla progenie, si ritrovano oggi in famiglie apparentemente non imparentate. Per queste ragioni la frequenza di un allele mutato è maggiore nella nostra popolazione e ciò si manifesta con una più alta incidenza di malattie rare. L’isolamento che fino a ieri è stato considerato uno svantaggio, diventa oggi un formidabile strumento per la ricerca di geni implicati nello sviluppo di malattie e la popolazione Sarda rappresenta una ricchezza unica per tutta l’umanità.” Di cosa vi occupate ora? “Nel nostro Istituto studiamo una serie di malattie ereditarie monogeniche, cioè dovute all’alterazione di un singolo gene, come il ritardo mentale non sindromico, le paraplegie spastiche ereditarie, la sindrome BPES (Blefarofimosi/Ptosi/Epicanto inverso) e la sindrome di Crisponi. Per fortuna si possono seguire tutte contemporaneamente. Ma per raggiungere dei risultati servono molti anni e molte risorse. Sottolineo che lo studio di una malattia rara è importante perché spesso può suggerire nuove strade per la comprensione e la cura di patologie più comuni.” Cosa state facendo per la sindrome di Crisponi? “Tutte le famiglie sarde contattate hanno acconsentito ai prelievi e se tutto va bene entro un anno riusciremo a identificare il gene. Il passo successivo sarà studiare la funzione della proteina prodotta da questo gene e infine sperimentare eventuali terapie, si tratta di un processo lungo e costoso. Per ottenere una cura servono due cose: anni di lavoro e fondi per sostenere l’avanzamento della ricerca. Ma ora la cosa più urgente è far conoscere la sindrome per aiutare a segnalare eventuali altri casi, in Sardegna o fuori, per esempio tra gli emigrati.” La sindrome di Crisponi, è una malattia rara, descritta per la prima volta nel 1996 dal medico cagliaritano Giangiorgio Crisponi, ora in pensione, per quarant’anni responsabile del Centro per lo studio delle malformazioni congenite dell’Istituto di puericultura e patologia neonatale dell’Università di Cagliari. Come si manifesta? “Immediatamente dopo il parto – spiega Giangiorgio Crisponi – si possono scatenare crisi respiratorie, con contrattura di occhi e bocca ed emissione di saliva. Seguono febbri elevatissime e spesso la morte sopraggiunge dopo una settimana o un mese di vita. I sintomi possono far pensare al tetano del neonato. Altra caratteristica è una contrazione delle dita della mano e del piede, lo sfasamento della termoregolazione e conseguente sudorazione al freddo, e in adolescenza una pronunciata scoliosi.” Per segnalazioni e scambi di informazioni l’email di Giangiorgio Crisponi è giangiorgio.crisponi@tin.it In Sardegna, la regione più colpita al mondo dalla malattia, è attiva un’associazione di famiglie: www.sindromedicrisponi.it