LA SCIENZA CORRE L'ITALIA RINCORRE - ED IL BARONE DIVENTÒ VALLETTO - INCHIESTA SU CONCORSI, SOSPESO TOSI - SIMONE: «MA NEI CONCORSI SI SA GIÀ PRIMA CHI VINCE - CONCORSI CHIUSI, AUTOREFENZIALI, ELETTORALISTICI - QUANDO L’UNIVERSITÀ DIVENTA QUASI IN LICEO - "PHISHING" E LAUREE SUL WEB: A ROMA IL RECORD DELLE FRODI - WI-FI BANDITO DAL CAMPUS: PERICOLOSO E INSICURO - BOOM DI E-LEARNIG IN USA - LAUREE ONLINE: LA IVY LEAGUE STORCE IL NASO MA LA DOMANDA CRESCE - LA STELLA POLARIS RIPORTA SETTE SCIENZIATI - COSÌ L’ISOLA DIVENTA LA SESTA RISERVA SCIENTIFICA - ALGHERO: FACOLTÀ DI ARCHITETTURA SENZA FONDI - E LA REGIONE CON «MASTER AND BACK» INVESTE NELL’ALTA FORMAZIONE - LAUREATI? MILLE EURO AL MESE E PIÙ DELLA METÀ SONO PRECARI - IL BUIO OLTRE LA LAUREA - SCIENZIATI A CACCIA DI INSETTI SCONOSCIUTI - YES, I SPIC GLOBISH. IL MONDO SPARLA INGLESE - ======================================================= SANITA’ SARDA: SERVIZI INADEGUATI E FILE LUNGHISSIME - PIANI SANITARI, DUE MESI DI PROGNOSI - «SIAMO A LIVELLO DI SOPRAVVIVENZA» - SASSARI: CHIUDE IL CENTRO USTIONI - POLICLINICO: STUPEFACENTI IN CITTÀ: DOMINA LA CANNABIS, IN ASCESA LA COCAINA - SI INSEGNI ALL' UNIVERSITÀ UNA MEDICINA PIÙ UMANA - SORPRESA: IN OSPEDALE ARRIVANO GLI ECONOMISTI - LESIONI SPINALI, DUE ANTICORPI RESTITUISCONO LA MOTILITÀ - UNA GOCCIA DI SALIVA PER RILEVARE LE MALATTIE GENETICHE DEL CUORE - DAGLI SPERMATOZOI POSSONO NASCERE DEGLI OVULI - PRESENTATA LA PRIMA "GAMMA CAMERA" PORTATILE E RICARICABILE - GENGIVE PIÙ SANE, CUORE PIÙ PROTETTO - TUMORE DEL SENO, REPARTO INNOVATIVO AL «GEMELLI» - CREATA UNA PROSTATA UMANA CON LE STAMINALI EMBRIONALI - PARTORIRE IN CLINICA E IN OSPEDALE: UNO SPRECO - TERAPIE TRA PLACEBO E NOCEBO - CELIACHIA, TANTE VITTIME - CHE ILLUSIONE IL BIODIESEL ANCHE LUI È INQUINANTE - CELLULE SUICIDE PER DIFENDERCI - VIAGRA: POTREBBE AIUTARE NEL MORBO DI CROHN - L’OMEOPATIA NON HA EFFETTI CONTRO I TUMORI - ======================================================= ____________________________________ Il Sole24Ore 23 feb. ’06 LA SCIENZA CORRE L'ITALIA RINCORRE DI ROSANNA MAMELI Permane in Italia la condizione endemica di debolezza strutturale delle attività di Ricerca e sviluppo (R&S) dovuta anche all'andamento a yo-yo degli investimenti, ma migliora l'efficienza e la qualità della produzione scientifica. È quanto emerge dal rapporto su R&S dell'Associazione italiana per la ricerca industriale (Airi), che nell'ultima edizione allarga il confronto dai soliti Paesi industrializzati a quelli di crescente industrializzazione, come Federazione russa e Cina. Un confronto basato su fonti nazionali e internazionali, come Commissione europea, Eurostat, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) e Ufficio europeo dei brevetti (UeU). In Europa la percentuale italiana della spesa per R&S delle imprese è ormai superata anche dalla Spagna: l'incidenza di tale spesa sul Pil, che nel 1988 era rispettivamente dello 0,70% e dello 0,41%, nel 2003 è passata allo 0,55% e allo 0,60% mentre la media europea è dell’ 1,7 per cento. «Il calo costante che si registra dal ygo, anno in cui la nostra percentuale era dello 0,76% del Pil, si può imputare non solo alla scomparsa o alla contrazione di alcuni grandi centri di ricerca industriale (Olivetti, Montedison, Cise), ma anche alla progressiva deindustrializzazione del Paese a favore di attività terziarie o di servizio. Una tendenza comune, anche se meno marcata, a tutta l'Europa, con l'eccezione della Spagna, l'unica ad avere oggi serie politiche di sostegno alla ricerca industriale» dice Renato Ugo, presidente dell'Airi. Meno significativa la contrazione della spesa per R&S del settore pubblico. Un contesto che, secondo Ugo, ha avuto e ha come conseguenza una rapida diminuzione di competitività tecnologica del Paese. Quindi un minor interesse dei giovani per le attività tecnico-scientifiche e il fatto che i migliori tra essi si spostino verso altri lidi. Non solo poche risorse finanziarie, dunque, ma anche risorse umane insufficienti per un Paese industrializzato: nel 2003 i ricercatori qualificati in Italia erano poco più di 70mila (calcolando chi dedica alla ricerca solo mezza giornata come mezza unità), contro i 180mila circa della Francia, i 264mila della Germania, i 675mila del Giappone, gli 892mila della Cina, i 475mila della Federazione russa. Analoga la sproporzione tra il numero del nostro personale addetto alla ricerca a vario titolo e quello degli altri Paesi: 16mila in Italia, 340mila in Francia, 480mila in Germania, 880mila in Giappone, oltre un milione in Cina, quasi un milione nella Federazione russa. Il rapporto Airi mette chiaramente in evidenza che l'attuale situazione è dovuta alla crisi degli investimenti partita all'inizio degli, anni '9o, dopo una forte crescita negli '80. Alla fine degli anni '9o vi erano i segni di una possibile ripresa, ma la politica basata sulle disponibilità residue delle varie finanziarie ha prodotto un arresto o per lo meno un andamento ancora ondivago negli anni 2000. Tuttavia, malgrado questa situazione preoccupante, si evincono dal rapporto alcuni segnali positivi: l'efficienza dei nostri ricercatori è migliorata. È infatti aumentato il numero delle pubblicazioni, delle citazioni, delle domande di brevetto. Nel 2002, da noi il numero delle pubblicazioni per 100 ricercatori a tempo pieno è stato 47,8 contro 42,8 del Regno Unito; 26 della Francia; 24,3 della Germania; 20,1 degli Usa e 10,7 del Giappone. Con ciò le pubblicazioni italiane sono arrivate a rappresentare nel 2002, il 4,97% sul totale dei Paesi Ocse (nel 1994 erano il 4,06%), contro il 7,19% della Francia, il 10,06% della Germania, il 10,53% del Regno Unito, il 10,82% del Giappone, il 39,53% degli Stati Uniti. In crescita in Italia anche le citazioni, indice della loro qualità nelle pubblicazioni scientifiche, censite dall'Institute for scientifrc information di Philadelphia (Usa): sono arrivate nel 2002 a rappresentare il 5,03% dei Paesi Ocse (erano il 3,76% nel 1994 Mentre le percentuali dei Paesi citati, nello stesso ordine, sono: 7,78%; 11,92%; 13,10%; 8,91%; 52,41 Per cento. Nello stesso anno le domande di brevetto da noi presentate all'Ueb per mille ricercatori o laureati, sono state 47, col sorpasso di Francia e Giappone (36 e 25,6 rispettivamente): Dati sconfortanti per un verso e confortanti per un altro. Sconfortanti perché, nonostante la maggior produttività dei ricercatori, il numero complessivo delle pubblicazioni, delle citazioni e dei brevetti, a parità di Pil, di popolazione e di forza lavoro, rimane basso rispetto a quello degli altri Paesi industrializzati., Confortanti se si osserva che c'è stato un significativo progresso benché da noi gran parte degli addetti alla ricerca nel settore pubblico abbia superato l'età in cui si è più produttivi: il36% è tra i 24 e i 39 anni, il 35% tra i 40 e 49,il 24% tra i 50 e i 59 e il 5% supera i 60. In corrispondenza, nel settore privato le percentuali sono 59%; 27,3%; 13% e o,7 per cento. Una realtà dovuta, secondo Ugo, al fatto che da alcuni anni le strutture pubbliche hanno dovuto bloccare le assunzioni, inibendo cosi un auspicabile ricambio generazionale. Ciò che le aziende private hanno parzialmente evitato grazie alla maggiore flessibilità nella gestione dei ricercatori. «Sarebbe interessante analizzare in quali settori si localizzano i progressi ottenuti. Buona parte di essi si può attribuire alle organizzazioni senza fini di lucro (come l'Associazione italiana per la ricerca sul cancro e Telethon), la ricerca oncologica e genetica sono notevolmente migliorate grazie ai criteri molto selettivi che tali enti seguono per l'allocazione delle risorse e il controllo dei risultati. Una politica che si fa strada, pur con carenze nel controllo, anche a livello ministeriale. Seria valutazione dei progetti e controlla dei risultati dovrebbero essere tra i punti cruciali di un programma inteso al massimo sfruttamento delle risorse finanziarie e umane, insieme con la costanza delle politiche e la continuità dell'entità dei finanziamenti, la crescita programmata dei ricercatori e della loro qualità. Questo approccio agli antipodi del criterio ragionieristico delle allocazioni `'anno per anno" seguito nell'ultimo decennio nel nostro Paese, permette di ottenere come ritorno dell'investimento una crescita tecnologica, scientifica e quindi della competitività anche se le risorse finanziarie sono scarse. Lo dimostrano i Paesi che vi hanno creduto, come Spagna e Irlanda» afferma il presidente dell’Airi. E prosegue sottolineando anche ciò che si dovrebbe evitare: i proclami di futuri significativi finanziamenti che fanno perdere credibilità a chi li emette e provocano solo scoramento nel sistema ricerca. Ugo porta due esempi a questo proposito. Il primo è la storica dichiarazione di Lisbona 'sulla crescita per il 2010 dell’entità dell’investimento europeo in R&S, il famoso obiettivo del 3%, rimasto ancora oggi all’1,71% dopo cinque anni. Il secondo è un articolo su un importante quotidiano, firmato circa tre anni fa dai ministri Letizia Moratti e Giulio Tremonti, che prometteva un forte sviluppo, che poi non s'è potuto attuare nella forma prevista a causa della crisi economica. Ai giovani dice: «Lo sviluppo della scienza e della tecnologia è inarrestabile e rifiutarlo, preferendo attività di servizio o terziarie, fa correre il rischio di perdere opportunità. Non è detto che queste si trovino facilmente nel nostro Paese, visto che si sta deindustrializzando e che non ha mai premiato lo sforzo richiesto dagli studi scientifici, che sono i più impegnativi, con un ritorno adeguato in termini economici e di status sociale. Ma, essendo il mondo diventato un "villaggio globale.", è normale andare a lavorare in un Paese diverso dal proprio. Nello stesso tempo occorre che il Paese consideri questo strano tipo di emigrazione qualificata: possiamo permetterci di preparare competenze spesso di alta qualità e di regalarle agli altri Paesi». ____________________________________ Il Sole24Ore 19 feb. ’06 ED IL BARONE DIVENTÒ VALLETTO Il testo, ritrovato da Pascal Engel, si ispira alle «Directions to Servants di Swift. L’autore è Federico Tagliatesta un suo giovane allievo morto due anni fa: riflessioni che fanno pensare di travagli della nostra riforma universitaria DI MAURIZIO FERRARIS Una volta, i professori universitari venivano chiamati baroni, e come tali si comportavano. Mi capita per esempio di leggere nell'ultimo libro di Arbasino, Dall'Ellade a Bisanzio (Adelphi 2006) di uno spettacolo all'Odeon di Erode Attico di Atene nel remotissimo 1960: «ecco i professori Guido Calogero e Rosario Assunto e Augusto Guzzo in eccellenti panama bianchi». Questi barom avrebbero poi "fermato le loro impressioni" su degnissime riviste tipo «Filosofia» (Guzzo di sicuro lo faceva, ricordo anche di aver letto la memoria di un suo viaggio ad Alessandria d'Egitto), e avrebbero goduto di un mondo di riconoscimenti. in larga misura immaginari, che li avrebbe convinti di essere al centro dell'universo. Per esempio, suscitare l'invidia dei colleghi con motivi che oggi appaiono futili (ricordo di aver letto il messaggio in cui l'Accademico Tizio notifica all'Accademico Caio di essere «in procinto di recarsi negli Stati Uniti»), polemizzare su questioni che risultano indecifrabili (sempre nel lo scorrere quegli epistolari d'antan, ricordo di aver letto di uno che rievocava con pietà e terrore “lo scisma di Bari$, credo connesso con qualche faida tra associazioni filosofiche), scatenarsi nei concorsi (istrituttivissimo da questo punto di vista l'epistolario tra Gentile e Croce, con Gentile che dice di Sempronio: «son certo che mi ricuserà come commissario: e io gli opporrò il Lombardo-Radice»). La sindrome era quella dell'auto sopravvalutazione. ossia una forma di esaltazione maniaca. A quasi mezzo secolo di distanza dall'avvistamento di Guzzo ad Atene, la sindrome bipolare si è capovolta, è prevalsa la versione depressiva, e i baroni sono diventati servants, cioè, al1a buona, valletti. È ciò che emerge da un divertentissimo libro introdotto da Pascal Engel, filosofo analitico francese (di suo è tradotto da Einaudi Filosofia e psicologia), professore a lungo alla Sorbona e oggi a Ginevra, che lo pubblica per conto degli amici e familiari di un suo giovane allievo italiano morto precocemente in un incidente d'auto, Federico Tagliatesta (1968-2003). L'opera postuma si intitola Instructions aux Académiques, e il suo modello esplicito sono le Direcrions to Sernats(1731). cioé le istruzioni alla servitù di Jonathan Swift. E si diffonde. esattamente nello stesso stile di Swift, in utili informazioni per studenti e soprattutto per professori di ogni ordine e grado, con qualche Variante nazionale (per esempio come evitare di farsi spedire in provincia per non tornare mai più a Parigi), ma con un buon tasso di omogeneità sulla maggioranza delle questioni. Non posso che raccomandarne la traduzione in italiano, anche in considerazione del fatto che i professori universitari in Italia, nelle tre fasce, sono circa 100mila, quanti sono i Carabinieri, e non si capisce perché ci siano tanti serial televisivi dedicati all'Arma e come mai, invece, i professori facciano notizia solo quando sono associati ai Carabinieri. Resta la domanda del come sia potuto accadere che nel volgere di mezzo secolo il barone si sia trasformato in valletto. Qui le risposte sono molte. In primo luogo, per l’appunto, i baroni di un tempo erano in effetti visconti dimezzati, credevano soltanto (specie nelle discipline umanistiche) di essere dei baroni, cioè: un po'. vaneggiavano. Poi, come si sa, c'è stato il Sessantotto- Poi, anche a prescindere dal Sessantotto, si potrebbe notare che la tendenza a sognare un'epoca in cui la cultura era alta, e a deplorarne l’estensione e l'abbassamento, è antica: se ne lamentava, centocinquant'anni fa, Nietzsche nelle conferenze sull'Avvenire delle nostre scuole. Infine, ci sono state indubbiamente delle operazioni masochiste come la riforma dell'università valuta dalla sinistra e attuata dalla destra. Mi rendo conto tuttavia che queste ipotesi muovono tutte da un presupposto tacito, e cioè che il valletto sia peggio del barone. Qualcuno potrebbe dire: e perché? Non è un processo di deanocratizzazione? No. a mio immodesto avviso. Dovessi scegliere tra valletti e baroni, sceglierei senza esitazione i secondi, se non altro perché noblesse oblige. Federico Tagliatesta, «Instruction aux Académiques, Préface de Pascai Engei, Christophe Ghamant éditeur, Rouen 2005, pagg. 108, € 14,00 (il libro va ordinato direttamente all'editore: 37, rue des Frères Nicolle, 76000 Rouen, christophe.chomant@wanadoo.fr) __________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA25-02-2005 INCHIESTA SU CONCORSI, SOSPESO TOSI Il provvedimento è temporaneo. Secondo l'accusa avrebbe anche fatto pressioni per favorire il figlio Tosi indagato per abuso d'ufficio e tentata concussione. La difesa: colpita l'autonomia universitaria SIENA - Sospeso temporaneamente dall'incarico per evitare il pericolo di inquinamento delle prove e la reiterazione del reato. L'ordinanza, firmata dal gip Francesco Bagnai su richiesta del procuratore Nino Calabrese, è stata consegnata ieri mattina da carabinieri e Guardia di finanza a Piero Tosi, rettore dell'Università di Siena e presidente della Crui, l'organismo che riunisce i rettori di tutte le università italiane. Il provvedimento, deciso dal magistrato a due mesi dalla fine del mandato del rettore e dopo indagini durate tre anni, fa riferimento a presunte irregolarità su nomine, consulenze e concorsi pubblici. I reati ipotizzati dal pm sono abuso di ufficio, falso e tentata concussione in concorso con altre persone. Si parla di almeno di una decina di indagati e non si escludono nuovi e clamorosi sviluppi delle indagini. Secca la replica del rettore Tosi che ha definito il provvedimento del giudice «infondato é manifestamente sproporzionato», e ha evidenziato «la singolarità delle indagini» con le quali «si è voluto colpire l'autonomia universitaria». «Impugnerò immediatamente l'ordinanza del giudice - ha detto Tosi -. Ho già fornito tutti i più ampi chiarimenti documentali e verbali sul fatto che nessuna irregolarità penale sia mai stata commessa. Si è voluto colpire la mia persona - ha continuato Tosi - e l'Università di Siena nonché l'autonomia universitaria giacché alcuni degli atti che mi si addebitano sono riferibili al rispetto dello stato giuridico degli universitari.'Ho dedicato dodici anni della mia vita a questo ateneo e gli ultimi tre alla di fesa delle università italiane. Sono sereno con la mia coscienza é orgoglioso di avere condotto le battaglie che abbiamo condotto per la salvaguardia delle Università italiane». Fiducia al rettore è stata espressa dal senato accademico che si è riunito ieri sera in seduta straordinaria. Al termine della riunione professori, studenti e rappresentanti del personale amministrativo dell'ateneo senese hanno approvato all'unanimità un documento nel quale si manifesta «forte preoccupazione per l'enorme danno che da tutto ciò consegue all'istituzione universitaria». Anche la Conferenza dei rettori ha riconfermato a maggioranza la fiducia e «la profonda stima a Piero Tosi. Le indagini risalgono ad alcuni episodi accaduti ne: 2002 e nel 2003. Nel mirino della magistratura sarebbero finiti alcuni concorsi, nomine e consulenze all'università e all'ospedale di Siena (Tosi è medico oncologo). Tra questi un concorso per ricercatore con due candidati al quale avrebbe partecipato il figlio del rettore Gian Marco Secondo l'accusa, ci sarebbero state pressioni da parte di un collaboratore di Piero Tosi nei confronti del seconde candidato per farlo ritirare dal concorso con promesse di un'altra sistemazione. Piero Tosi, oncologo di fama internazionale, avrebbe concluso il suo mandato di rettore a maggio. Vicino a posizioni politiche di centrosinistra, sul suo futuro si stava ipotizzando una carriera politica e.a Siena c'è chi aveva persino parlato di un eventuale incarico nel governo di Romano Prodi. Marco Gasperetti ______________________________________________________ Il Messaggero 25 feb. ’06 SIMONE: «MA NEI CONCORSI SI SA GIÀ PRIMA CHI VINCE» L'INTERVISTA ROMA-«Sui mali dell'università si e sempre discusso c si sono fatte molte denunce», ricorda in uno dei suoi saggi sul sistema universitario italiano, Raffaele Simone, cattedra di Linguistica italiana, direttore del vocabolario "Treccani". Le riforme non cambiano nulla? «Credo che il male peggiore sia il consociativismo dei professori - risponde Simone - dal punto di vista dei concorsi. E’ dovuto dall'eccesso di occasioni elettorali nelle università. E i "baroni" si fanno vedere quando si tratta di organizzare maggioranze, di qualunque tipo, anche maggioranze nelle commissioni di concorso». Quale rimedio? «Ridurre l’occasione di votare, attraverso decine di passaggi intermedi. E le intese elettorali si fanno in continuazione, normalmente come sistema di voto di scambio». E i concorsi? «II meccanismo attuale è ugualmente consociativo. Dcr ve gruppi decidono chi deve passare chi c no. Prima ancora che i concorsi si tengano». _____________________________________________ Sardi News 18 feb. ’06 Università sarda ed europea in vista del 2010 CONCORSI CHIUSI, AUTOREFENZIALI, ELETTORALISTICI di Simonetta Sanna I forum di Sardinews: dopo Gianfranco Bottazzi e Marco Pitzalis interviene Simonetta Sanna Università sarda, università europea? 1. Una cosa è certa: dal 2010, anno in cui dovrà ritenersi concluso il processo di convergenza avviato con la “Dichiarazione di Bologna” del 1999 teso a costruire lo “spazio europeo della ricerca e dell’istruzione superiore”, ci separano quattro anni. Da quel momento, entreranno in funzione le agenzie di valutazione europee che procederanno all’accreditamento dei corsi di laurea in conformità a specifici parametri quantitativi e qualitativi. Un corso di studi che non conseguirà il necessario accreditamento sarà destinato a conferire una laurea di serie B, recando al suo possessore limitati benefici. Forse, per qualche tempo, i problemi irrisolti potranno essere dissimulati, ma il sistema di valutazione verrà presto perfezionato, sicché lo stato di salute delle nostre università sarà sotto gli occhi di tutti. 2. L’accreditamento dei corsi di laurea sarà affidato a specifici parametri. Ma sin d’ora non ha alcun senso lasciarsi suggestionare da categorie marginali quali i singoli centri o le collaborazioni internazionali di pochi ricercatori, che non fanno sistema e la cui prosecuzione nel tempo è dubbia. L’eccellenza di un sistema universitario si costruisce, di fatto, a partire da un’unica condizione: programmi di studio ben congegnati e fondati sull’apprendimento, non già, sul codice culturale e disciplinare di cui il professore è geloso custode. In area tedesca circolano da tempo testi tipo Cosa deve conoscere un laureato di germanistica. Forti di analoghe tradizioni, le università moderne hanno realizzato il cosiddetto core curriculum dei corsi di laurea, ovvero quella mappa di conoscenze e competenze fondamentali che lo studente acquisisce con gradualità nelle singole discipline e nel curriculum triennale o specialistico. Il core curriculum garantisce un uso razionale del tempo e delle risorse, in quanto evita sia il difetto, sia la ripetizione di nozioni base, senza peraltro ledere la libertà di insegnamento, in quanto il docente potrà innestarvi i risultati delle sue ricerche. Fin da oggi si può fare riferimento a un’esperienza internazionale vincente: il Framework per l’insegnamento delle lingue straniere, che costituisce la cornice di riferimento per docenti e studenti in ogni parte del mondo. È propriamente nella strutturazione ottimale dei core curricula che l’università deve dimostrarsi un’azienda, in rispondenza alle sue responsabilità sociali e ai fini umanistici e di formazione. Un paragone banale: se la missione di un’azienda è quella di produrre tavoli e di essere competitiva in ambito nazionale e internazionale, la mano d’opera, i materiali e i metodi di produzione saranno commisurati a tale obiettivo, e solo dopo averlo raggiunto l’azienda procederà ad arricchire l’offerta. In rapporto alla ratio studiorum universitaria, l’adozione di un core curriculum rispondente alla missione aziendale non ha conseguenze sul solo ambito didattico, ma va a innescare un complesso processo virtuoso: presuppone, infatti, risultati di ricerca verificabili, una metodologia didattica ineccepibile, un numero di docenti, di aule, ecc. rispondente al numero degli studenti. Il Ministero, vincolato dalla “Dichiarazione di Bologna”, ha iniziato a imporre una parametrazione della didattica e della ricerca. Ma nulla vieta, per stare alla mia materia, che un docente insegni nel primo anno i punti nel Faust di Goethe, nel secondo le virgole e nel terzo i punti di domanda, poiché i corsi non sono vincolati a un programma complessivo dei corsi di laurea. 3. Tralasciamo le contraddizioni implicite nell’adozione del modello britannico che, a differenza del nostro 3+2, prevede il numero chiuso in entrata, mentre la professionalizzazione è affidata, in uscita, alle stesse aziende che grazie alla buona istruzione universitaria sono in grado di professionalizzare il laureato in tempi brevi e con minori costi sociali da parte degli Stati firmatari della “Dichiarazione”. In ogni caso, l’obiettivo strategico di garantire la leggibilità e la spendibilità dei titoli nazionali e di accrescerne la competitività non può che essere condiviso. Rispetto a tali obiettivi, l’Italia appare comparativamente in ritardo. Quali sono gli elementi che determinano il nostro ritardo? In prospettiva generale, come si legge nello studio Università italiana, università europea dell’Associazione Treellle, “le università hanno tradizionalmente goduto di spazi di significativa autonomia. Il naturale contrappeso dell’autonomia è la accountability”, mentre “un’efficace e sistematica valutazione è il modo per assicurarne la credibilità”. In Italia, invece, le “analisi più critiche parlano di ‘irresponsabilità collettiva’ o di ‘anarchia organizzata’ delle università”, originate soprattutto da una “normativa nazionale sui poteri e sulle competenze di ciascun organo di governo fortemente lacunosa”. Sardi 90 docenti su cento - Paolo Pani (Lettera aperta sull’ateneo cagliaritano… e dintorni) rileva le conseguenze di tale normativa in rapporto alla “marginalità di qualità” dell’università sarda: i gradi “di responsabilità sono determinati da meccanismi elettoralistici”, per cui “i diversi livelli della dirigenza d’Ateneo (…) operano sotto la tutela del proprio elettorato, in realtà rinunciando a un’assunzione di responsabilità individuale, politica e istituzionale”. Di conseguenza, i docenti, il personale tecnico-amministrativo e gli studenti sono sì garantiti, “ma spesso a scapito della funzionalità dello stesso Ateneo”. I meccanismi concorsuali locali, infine, hanno reso il sistema “accademicamente chiuso e autoreferenziale”, sicché ormai “il 90-05 % dei docenti proviene dalla sede d’appartenenza”, trasformando di fatto il concorso in “uno strumento per la progressione delle carriere (…) oltre ogni possibile ragionevolezza di merito scientifico e didattico”, Le Università sarde sono lo specchio della nostra società. Se i grandi atenei, sollecitati dalla pressione sociale, fanno a gara per assicurarsi i docenti migliori, in Sardegna si scontano i punti di debolezza storica della comunità isolana: l’assenza di un’opinione pubblica capace di configurarsi come istanza critica e di esprimere un’effettiva partecipazione; la mancata esperienza di un motivato rapporto di fiducia fra cittadino e istituzioni; la limitata capacità di guardare oltre l’immediato per articolare progetti di sviluppo a medio e lungo termine. Un tale cambiamento comporterebbe una vera e propria ‘rivoluzione copernicana’, ogni ritardo è destinato a cumularsi in una realtà internazionale che si evolve a ritmo accelerato. I compiti che attendono le Università sarde sono di tutto rilievo: devono concorrere a superare l’insufficiente livello di diffusione dell’istruzione superiore, fra i più bassi in Italia, l’alto tasso di abbandono e la durata prolungata degli studi, ma devono anche promuovere la cooperazione con le forze sociali e produttive del territorio e il sistema di lifelong learning. In tal modo si aprirebbe per la nostra Università non solo lo spazio europeo, ma anche quello fra l’Europa e i Paesi del Mediterraneo. 4. Regione e Università condividono oggi l’obiettivo di massimizzare la ricaduta sociale ed economica delle risorse pubbliche. Se l’Università deve dare conto dell’efficacia dell’investimento pubblico (condizione per l’incremento delle risorse), la Regione è chiamata a favorire il processo di accreditamento dei corsi, individuando gli obiettivi strategici di medio e lungo termine. Consorzio 21: super-assessorato - La razionalizzazione dell’offerta di istruzione terziaria nel territorio non può prescindere dalla costruzione di un futuro polo universitario regionale, nell’ambito del quale i due atenei sardi e le sedi gemmate potranno individuare obiettivi e strumenti concordati di autonomia e collaborazione. Tuttavia, la stessa Regione non sembra aver determinato una strategia complessiva rispondente alle condizioni e ai problemi dell’istruzione superiore. Il pur lodevole programma Master and Back trasferisce fuori sede importanti risorse, senza offrire sufficienti garanzie di controllo della spesa: il dottorato di ricerca deve essere effettuato in una delle 500 sedi comprese nell’Academic Ranking of World Universities (dal quale, a differenza di Cagliari, la stessa Sassari è esclusa), ma come garantire che l’esperienza formativa sia realmente funzionale alle necessità locali? E soprattutto, le differenze fra le condizioni di ricerca isolane e quelle estere non sono forse tali da rendere non sempre conveniente il ritorno. Dove sono le industrie sarde in grado di assorbire un così elevato numero di dottori di ricerca altamente specializzati? Sono state individuate alcune “filiere di eccellenza”, fra cui soprattutto la biomedicina, la bioinformatica e le tecnologie per la salute, nonché una rete di poli di calcolo destinati a integrarle: si tratta di settori funzionali allo sviluppo locale o si ritiene realmente di poter competere con Usa, Giappone, India, Israele ecc.? Ammesso pure che gli ingenti fondi europei indirizzati a tali settori attraverso l’Accordo di programma quadro Governo-Regione del maggio 2005, articolato in azioni in cui il Consorzio 21 (destinato a diventare una specie di superassessorato alla ricerca) gioca spesso un ruolo fondamentale come soggetto attuatore e/o competente, rendano realmente concorrenziali tali settori, quale sarà la ricaduta sul sistema socio-economico regionale nel breve e medio periodo? I fondi stessi dovrebbero essere assegnati in conformità a una valutazione affidata ad agenzie esterne, ma rimane comunque l’interrogativo sull’opportunità di tali scelte e sulla loro incidenza sul territorio. Che ne sarà della ricerca di base nei settori contraddistintisi per i buoni risultati conseguiti? Università a Mamuntana? La strategia regionale nei confronti delle troppe sedi gemmate sembra talora ridursi a limitare l’espansione delle ultime nate, mentre che dire dell’ipotesi di un polo universitario nella località di Mamuntana: le costruzioni ex novo si sono rivelate una strategia lungimirante in un contesto capace di garantire investimenti duraturi, mentre in condizioni meno vantaggiose hanno finito per rivelarsi cattedrali nel deserto. Ci si è preoccupati di valutare l’esito di esperienze affini in altre parti del mondo? Non pochi restano, dunque, i nodi da sciogliere, rispetto ai quali è necessario continuare a orientarsi secondo il principio di responsabilità intellettuale delineato da Antonio Pigliaru nel 1956 (agire juxta propria principia, con metodi di valenza universale applicati però al nostro particolare, stimolando la partecipazione democratica). 5. In termini più generali, come la storia dei Piani di Rinascita insegna, la Sardegna ha bisogno di una modernizzazione della sua vita economica, ma soprattutto ha necessità di una modernizzazione della vita politica e sociale, di una sua maggiore democrazia, sicché la competizione non riguarda la quantità di beni e servizi prodotti, bensì le modalità utilizzate per produrli. Anche perché, come la letteratura economica dimostra, più elevata è la qualità della politica e la partecipazione da parte degli operatori politici, economici e sociali, maggiore è la crescita economica duratura. La Spagna, forte di un’economia in espansione, ha testé deciso di destinare l’1% del Pil alla protezione sociale dei soggetti più deboli: i frutti della buona politica sono sotto gli occhi di tutti. Rilevando tali successi, Juan Carlos ha richiamato l’attenzione sulla strategia risolutiva adottata dal Paese, basata sull’ampia partecipazione alla realizzazione di obiettivi sociali ed economici condivisi. Si tratta di un approccio vincente, di cui anche la Sardegna ha bisogno, tanto nella politica universitaria quanto nella politica tout court. Il 2010 è alle porte: rimane molto lavoro da svolgere. Ogni spreco di tempo e di risorse si qualificherebbe come atto di irresponsabilità nei confronti della Sardegna e del suo futuro. _____________________________________________ Sardi News 18 feb. ’06 QUANDO L’UNIVERSITÀ DIVENTA QUASI IN LICEO Perché studiare a Cagliari e non a Monaco? di Giancarlo Nonnoi I forum di Sardinews: dopo Gianfranco Bottazzi e Marco Pitzalis interviene Giancarlo Nonnoi Nel dibattito pubblico è opinione condivisa dai più che le difficoltà di ordine sociale ed economico nelle quali il nostro Paese è attualmente impantanato siano da mettere in relazione anche con le permanenti carenze dell’insieme del sistema universitario italiano. Non c’è praticamente ganglio vitale della nostra istruzione superiore che non denunci criticità più o meno acute. E ciascuna negatività riverbera effetti perversi sull’intero sistema e su ciascuno dei suoi cardini. In Sardegna ai malanni nazionali, patiti in genere in forma più acuta, si aggiungono specifici e rilevanti disequilibri di antica data. Un aspetto apparentemente paradossale della fase attuale della storia dell’università italiana è che, proprio nel momento in cui si è posto mano alla riforma degli ordinamenti didattici e hanno incominciato a entrare in funzione le lauree triennali e quelle specialistiche, l’interesse e l’impegno per le primarie finalità formative affidate all’università si sono in qualche modo affievoliti; accrescendo, di conseguenza, le deficienze di quello che da diversi decenni è, a giudizio di molti osservatori, il problema dei problemi delle nostre università: la questione studentesca. Per quanto riguarda la formazione il bilancio presenta, infatti, complessivamente negatività più accentuate rispetto a quelle riscontrabili negli altri settori. In base ai dati quantitativi si può senz’altro parlare di una rovinosa disfatta nazionale: i valori di “produttività” e di “velocità” dei vari percorsi di studio risultano infatti scandalosamente bassi per il primo indicatore e incomprensibilmente lunghi per il secondo, e ciò anche dopo la più recente riforma degli ordinamenti didattici e alcune scaltre, ma di breve respiro, operazioni di maquillage. D’altra parte, un qualche sforzo è stato fatto per adeguare il personale docente e non docente, per accrescere l’edilizia universitaria e in alcune sporadiche occasioni anche per promuovere la ricerca. Purtroppo, molto poco per il cosiddetto “diritto allo studio”, e ancor meno per adeguare le strutture, le risorse e i metodi di intervento alla nuova situazione e a una popolazione universitaria che nel solo anno accademico 2003-2004 ha registrato quasi 340.mila nuove immatricolazioni. I tre tradimenti - Nel corso del dibattito che tra la fine degli anni ottanta e i successivi novanta ha preceduto e accompagnato il varo e l’applicazione della nuova normativa l’emergenza studentesca era stata tematizzata con puntualità, ed era ben presente alle forze politiche e sociali. A onor del vero, in una certa fase è stata perfino il focus a partire dal quale il disegno riformatore traeva spunto. Effimera illusione invero, perché con il varo dei nuovi provvedimenti e l’attuazione delle norme relative alla riforma dei corsi di laurea, i “tre tradimenti” descritti da Raffaele Simone nel suo libro (Laterza, 1993 e 2000) e perpetrati dall’università italiana ai danni dei giovani sono rapidamente caduti nel dimenticatoio. Al di là della pretesa un po’ demagogica e velleitaria di voler formare delle professionalità finite e pronte per il mercato del lavoro al termine di un corso di studi universitario di durata triennale, giova ricordare che, la normativa, oramai del novembre 1999, con la quale si innovava l’organizzazione degli studi ruotava intorno ad un fattore teorico-pratico di assoluta novità e rivoluzionario per l’università italiana: il credito formativo. L’idea, già da molti decenni applicata in numerosi Paesi europei, consiste nell’ancorare la determinazione del carico di lavoro di ciascuno studente, con riferimento al singolo insegnamento o in termini di impegno annuo, a un valore oggettivo. Il cui prodotto, per un intero corso di studi triennale, equivale a un monte ore di 4500, da distribuire tra le varie attività formative: didattica frontale, studio individuale, esercitazioni e attività di laboratorio. A distanza di oltre un quinquennio dalla sua introduzione si deve prendere atto con onesto realismo che il sistema dei crediti risulta fino a oggi, nella maggior parte dei casi e soprattutto in quelle facoltà nelle quali si concentra la massima parte degli studenti, di fatto inapplicato. Nei confronti di questa elementare unità di tempo/lavoro si è manifestata all’interno delle nostre università una formidabile resistenza culturale, mai apertamente dichiarata ma non per questo meno tenace. Innanzi tutto da parte dei laudatores temporis acti, sempre più numerosi all’interno del corpo docente. Gli stessi studenti hanno fatto e fanno fatica a padroneggiare il nuovo sistema: la stragrande maggioranza di loro sembra non aver percepito il senso e la favorevole opportunità offerta dalla svolta. L’artificio dei crediti formativi - Qualunque sia l’eziologia di queste convergenti idiosincrasie, è comunque sorprendente come ancora oggi molti docenti e un numero non indifferente di studenti ignorino la natura e la funzione assegnata dal legislatore ai crediti. I CFU, così denominati nel criptico acronimo burocratico, non hanno quasi alcuna corrispondenza effettiva con le attività formative concrete degli studenti. Attualmente sono ridotti, da un lato, ad artificio quasi enigmistico per far quadrare virtualmente i conti dell’offerta formativa dei corsi di laurea, e, dall’altro, a utile stratagemma per sminuzzare i corsi e, così, accrescerne il numero. Le cause efficienti che hanno condotto a un utilizzo quasi esclusivamente formale di questo coefficiente standard a livello internazionale non sono solo culturali e interne alle componenti universitarie, quelle strutturali agiscono infatti con ben altra incidenza ed efficacia. Il sistema dei crediti presuppone infatti: a) che gli studenti frequentino le lezioni e le altre attività formative non quando loro aggrada ma regolarmente, ogni altro metodo per guadagnarsi i CFU assegnati alla didattica è del tutto improprio; b) che gli studenti possano vivere compiutamente l’esperienza universitaria, che abbiano a disposizione un reale servizio di tutoring e che siano disponibili luoghi e attrezzature per lo svolgimento dello studio individuale; c) che il complesso delle azioni formative venga monitorato, accompagnato e valutato in itinere, al fine di apportare gli eventuali accomodamenti necessari e, magari, provvedere al recupero delle carenze più evidenti. L’università che non c’è - Ma questa è l’università-che-non-c’è, per lo meno in Italia e ancor più in Sardegna. La quasi totalità delle università italiane non sono nelle condizioni di esercitare un governo affidabile degli obiettivi e dei processi formativi, se non nella modalità tradizionale dell’esame di profitto, una prova, come si sa, posizionata a fine percorso e alla quale si presentano solo quel selezionato drappello di studenti che sono riusciti a mantenersi tali in una università apparentemente libera ma in realtà quasi del tutto priva di una reticolato di percorsi collaudati e coerenti. Senza strutture e infrastrutture basilari, quali aule, studi, laboratori, biblioteche, luoghi di distensione e di ritrovo, spazi sportivi e ricreativi, strutture di accoglienza, luoghi di soggiorno, residenze studentesche e alloggi, aule di informatica, postazioni di comunicazione, e altro ancora, che siano adeguati alla popolazione studentesca, le virtuose potenzialità del sistema dei crediti sono inevitabilmente destinate a rimanere inespresse. L’impraticabilità oggettiva di un tale principio di organizzazione degli studi risulterà ancora più evidente se l’attenzione si rivolge alle dotazioni e agli strumenti disponibili per il cosiddetto “diritto allo studio”. Un’espressione che da sola mette in risalto la pochezza pluridecennale di questo settore. È sconcertante constatare che questa poderosa leva della politica universitaria venga ancora oggi trascurata o azionata al risparmio, ispirandosi a una visione “deamicisiana” della società italiana e degli studi superiori, quando solo gli abbienti e i facoltosi accedevano all’università, mentre gli altri potevano aspirarvi solo in condizioni eccezionali di merito ancorché di indigenza. Occhio alle statistiche - Le conseguenze pratiche di questa visione incidono profondamente sulle condizioni di vita degli studenti dei nostri atenei e, di conseguenza, sullo svolgimento e sul progresso dei loro studi. In Italia le strutture residenziali studentesche pubbliche o in convenzione sono capaci di accogliere circa il 2 per cento della popolazione studentesca universitaria, contro una media europea, sulla quale ha un suo peso negativo anche il dato non brillante del nostro Paese, del 15,8, con valori del 32 per ceto per l’Olanda, del 31 per la Finlandia, del 29 del Regno Unito, del 16 per la Francia e del 23 per la Lettonia (fonte Eurostudent report, 2005). La Sardegna è posizionata sugli stessi modestissimi valori nazionali. Qualora poi il calcolo tenesse conto anche del numero degli studenti fuori corso (una categoria quasi del tutto sconosciuta negli altri Paesi del Vecchio continente), è chiaro che il valore percentuale subirebbe un forte ridimensionamento. Gli studenti fuori sede - Con riguardo alla Sardegna, dove, a causa della dispersione della popolazione sul territorio, la quota relativa dei fuori sede risulta piuttosto alta, c’è da osservare che la percentuale di disponibilità di posti alloggio per questi studenti raggiunge appena il 14,8 per cento, contro il 55,9 della Toscana, il 34,3 dell’Emilia Romagna, il 21,9 della Lombardia o il 19,8 della Sicilia (dati Miur, 2002/3). Per nulla più favorevoli sono gli indicatori relativi alle provvidenze in danaro, come borse di studio e/o assegni o benefici monetari di vario tipo erogati dagli enti regionali per il diritto allo studio. In Sardegna beneficiano di questa tipologia di sostegno il 66,9 per cento degli aventi diritto, ossia i “meritevoli ancorché privi di mezzi” che la nostra Costituzione raccomanda di tutelare. Il confronto con le regioni appena sopra richiamate evidenzia un’ulteriore negatività isolana su questo punto: Toscana100 per cento, Emilia Romagna 87,2, Lombardia 90,2 e Sicilia 71,6. Inoltre, il dato che non si deve trascurare è che possono (ma non tutti riescono a usufruirne) godere del complesso di queste provvidente esclusivamente gli studenti che si trovano in particolari condizioni restrittive di merito e di reddito. E tali beneficiari potenziali corrispondono ad appena il 18,3 per cento degli iscritti in corso. Per il rimanente 81,7 non è praticamente prevista alcuna forma di aiuto. L’edilizia universitaria - Lo studio analitico del complesso dei bilanci consuntivi degli enti regionali per il diritto allo studio evidenzia inoltre ulteriori sperequazioni ed iniquità anche all’interno della categoria “privilegiata” dei beneficiari.La facile conclusione è che nel nostro Paese e in Sardegna non è mai esistita una qualunque politica generale consapevole e intelligente che abbia come obiettivo lo sviluppo e l’incoraggiamento degli studi universitari. Occorrerebbero un piano pluriennale per l’edilizia universitaria a fini didattici, di studio e di ricevimento, accompagnato da strumenti legislativi non improvvisati e capaci, attraverso un meccanismo premiale progressivo, di graduare, tipizzare e distribuire a diversi livelli di reddito e di profitto e tra il maggior numero possibile di studenti servizi, benefici, provvidenze, sostegni. L’insoddisfacente tasso di passaggio dalla scuola secondaria all’università (la Sardegna nell’anno accademico 2003-2004 aveva il negativo primato in questa speciale graduatoria: il 59,1, contro la media nazionale del 72,3), i forti ritardi nel conseguimento della laurea, i numerosi abbandoni precoci e in itinere, hanno all’origine anche l’inadeguatezza delle politiche sociali in genere e in particolare l’assenza di una politica di accompagnamento ed incoraggiamento degli studi universitari impostata in termini di progressività e diversificazione. Le autocelebrazioni - Occorre inoltre acquisire la consapevolezza che la tanto osannata competizione tra atenei si manifesta anche sul piano dei servizi offerti e men che mai sulle facili autocelebrazioni o sui proclami di eccellenza a evidente uso interno. D’altra parte, atenei periferici come quelli sardi, oggettivamente non attrezzati al meglio per contrastare la concorrenza di atenei nazionali ed europei di antica tradizione e reputazione e provvisti di un parterre ricco di celebrità scientifiche e culturali, prima ancora di pensare ad attrarre studenti provenienti da altre aree del Paese, hanno innanzi tutto l’urgenza di fidelizzare i giovani cittadini della Sardegna agli atenei della loro terra. E questo può avvenire anche con la quantità e la qualità dei servizi messi a disposizione. Altrimenti, che cosa può trattenere gli studenti di Galtellì, di Uri, di Guspini o di Macomer dallo scegliere, in luogo dell’Università di Cagliari o di Sassari, quelle di Firenze, di Roma, di Venezia, di Napoli, eccetera.? O, magari, quelle di Barcellona, di Reading, di Strasburgo, di Monaco, e così via elencando? Non è questo uno scenario futuro ma il dilemma che già oggi si pone un numero crescente di giovani sardi all’atto di iscriversi a una laurea specialistica. Se una evenienza di questo tipo dovesse consolidarsi, le conseguenze per il sistema universitario isolano sarebbero veramente preoccupanti. La tacita e mal dissimulata licealizzazione che oramai interessa buona parte dell’università italiana, subirebbe in Sardegna una ulteriore accelerazione, con gravi ripercussioni per la cultura e la scienza dell’Isola. Manca a livello nazionale una sensibilità politica per questo tipo di problematica, forse perché attraverso una sorta di declassamento “spontaneo” si vuole favorisce il piano, accarezzato da alcune forze politiche, di ridimensionare l’estensione della rete statale dell’istruzione superiore nazionale e di ridisegnarne le gerarchie. Voucher e prestiti d’onore - Sorprende, invece, che in Sardegna il fenomeno non sia avvertito in tutta la sua portata e pericolosità. A livello regionale si sente discutere molto di società della conoscenza, di politiche per la conoscenza e di investimenti per la cultura e la scienza. Il dibattito ha ruotato, tra l’altro, sul finanziamento e sull’istituzione di centri di eccellenza, su voucher per l’alta formazione post-laurea. Di recente sono stati avviati in sede tecnica una serie di incontri sul cosiddetto “prestito d’onore”, l’auspicio è che sul tema si possa sviluppare anche una discussione politica che precisi obiettivi sociali, strumenti e garanzie pubbliche riguardo a uno strumento che può essere d’aiuto, ma che non è certo la panacea dei problemi del nostro sistema universitario, né garantisce di necessità effetti virtuosi. Si tratta, certo, di misure e di aspetti importantissimi, anche se non sfugge ad alcuno che si tratterebbe, pur sempre, di interventi una tantum e non risolutivi. Siamo lontani molte miglia dall’affrontare i gap strutturali e le inerzie passive del rachitico sistema universitario regionale. E ancora più distanti siamo dal giorno in cui delle nostre università si potrà dire che sono approdate finalmente a un regine di decente normalità. Per raggiungere tale obiettivo occorre molto lavoro e non minore è l’umiltà intellettuale necessaria per mettere a fuoco e sciogliere i tanti nodi intricati che le limitano e talvolta ne paralizzano lo sviluppo. ____________________________________ Il Messaggero 21 feb. ’06 "PHISHING" E LAUREE SUL WEB: A ROMA IL RECORD DELLE FRODI E' Roma la città con il più alto numero di frodi via internet, con oltre 300.000 e-mail truffaldine al mese. A lanciare l'allarme è stato giorni orsono l'avvocato Sergio Sciechitano, delegato del sindaco Walter Veltroni alla tutela dei consumatori e degli utenti. In tutto il Paese sono circa un milione i messaggi di posta elettronica che ogni mese arrivano ai cittadini. Nel 2005 i tentativi di truffa attraverso l'invio di messaggi di posta elettronica nel nostro Paese sono stati almeno nove milioni, per un giro di affari di oltre 4 milioni di curo e che ha coinvolto circa 300mila italiani. Le truffe più diffuse sono le finte aste on-line attraverso e-mail contraffatte con la grafica e i loghi delle più importanti case d'aste che operano nel web. Crescono anche i casi di "phishing banco posta": il link che viene inserito nell'email che invita al controllo dei dati personali sembra essere quello del Banco Posta, ma in realtà collega ad una pagina di un sito coreano che ottiene i dati per accedere nel conto degli utenti e svuotarlo. Infine, è in aumento la vendita di false lauree: spesso è difficile accorgersi che non si tratta di lauree rilasciate da vere università perché dietro c'è quasi sempre un ateneo di prestigio, naturalmente falso. «Numerose - spiega Scicchitano - sono le segnalazioni giunte al nuovo numero telefonico 0667106341 che l'Ufficio per la Tutela dei Consumatori c degli Utenti ha reso operativo a partire dallo scorso 26 settembre. In appena una settimana, al nuovo numero a disposizione dei cittadini per segnalare i casi di truffe on-line sono giunte mediamente 15 segnalazioni al giorno. Per aiutarci a dare del filo da torcere agli hacker i cittadini possono accedere alle finte pagine web e digitare account e codici di accesso inventati li per li a caso». «Se lo faranno in tanti - continua Scicchitano - gli hacker si troveranno sommersi di codici errati e perderanno tempo nel tentativo di sottrarre soldi e cosi aumenterà anche il rischio per i truffatori telematici di essere identificati dalle autorità». Mail in agguato anche per gli innamorati che, complice l'appuntamento di San Valentino, da poco passato, si affidano ad internet per acquistare un regalo. Anche in questo caso bisogna alzare il livello d'attenzione e prendere precauzioni contro spaminer e malfattori della rete. Le segnalazioni ricevute dall'Ufficio di Scicchitano, da parte dei cittadini, indicano già un incremento dello spamming con una media di lU messaggi di posta indesiderata, relativa ad acquisti on-line al giorno. Di qui l'allarme: evitare che lo shopping on-line diventi una tortura informatica. Dunque, «se ricevete una e-mail spazzatura non comprate». _____________________________________________ Corriere della Sera 23 feb. ’06 WI-FI BANDITO DAL CAMPUS Niente connessione senza filo fino a quando non sarà accertata l’effettiva innocuità delle onde elettromagnetiche STRUMENTI Un tipico campus nordamericano CANADA - Le controverse discussioni sui campi elettromagnetici e sui loro presunti o reali danni non hanno ancora trovato soluzione. E probabilmente si baseranno su incerte previsioni e contestabili convinzioni ancora per un po’, almeno fino a quando gli studi sull’argomento non saranno concordi e non dimostreranno la loro validità sul lungo termine. Le posizioni possibili quando si hanno responsabilità sulla salute di altri individui, e si deve decidere come agire, sembrano sostanzialmente tre: credere a studi ottimistici, sospendere il giudizio fino a decisivi risvolti o cadere nell’allarmismo. Il direttore dell’università canadese di Lakehead, Fred Gilbert, ha optato per la seconda alternativa LA DECISIONE - Secondo quanto emerso dall’intervista rilasciata la scorsa settimana da Gilbert alla CBC, l’istituto ha infatti deciso di prendere atto dell’ambiguità degli studi fino a ora effettuati e di escludere quindi il Wi-Fi dalle possibili soluzioni di navigazione proposte ai suoi studenti. Esiste una parte di letteratura scientifica che parla di possibili, e discretamente significativi, danni per la salute, e secondo Gilbert questo basta a sospendere l’uso del sistema fino a quando non ci sarà maggiore chiarezza sui rischi e sulle possibili relazioni esistenti fra esposizione alle radiazioni e alcune forme di leucemia e di tumori al cervello. LE ARGOMENTAZIONI - Questa presa di posizione è tanto più importante se consideriamo che all’interno dei campus universitari vivono ragazzi poco più che adolescenti. Come spiega il direttore, infatti, i tessuti dei giovani hanno cellule che crescono molto più rapidamente di quelle degli adulti: è quindi importante fornire loro un ambiente privo di qualsiasi potenziale rischio. «Quando ci sarà l’evidenza conclusiva che non esistono pericoli per la salute io non avrò problemi a fornire il Wi-Fi», spiega Gilbert, aggiungendo che perfino la «World Health Organization ha ammesso che le informazioni a riguardo non sono certe al 100 per cento». Niente allarmismo, quindi, ma solo una pragmatica sospensione del giudizio. IL DIBATTITO - La decisione della facoltà di Lakehead ha suscitato un vero e proprio dibattito fra docenti. Jorg-Rudiger Sack, della Carleton University, dichiara di essere d’accordo sulla mancanza di univocità delle informazioni constatata da Gilbert. Inoltre Sack si è avvicinato ulteriormente alla scelta del collega di Lakehead in considerazione del fatto che nei campus non mancano certo le postazioni internet, e che quindi l’aggiunta di una connessione senza fili non è così indispensabile. Andrew McAusland della Concordia University è di parere un po’ diverso. È infatti sua opinione che l’esposizione ai campi magnetici sia solo uno dei fattori da considerare per arrivare a una conclusione: per esempio, si deve considerare che il sistema di connessione senza fili è assolutamente conforme agli standard canadesi, e che i livelli di frequenze usati sono davvero bassi. Serena Patierno Una università del 'Canada, la Lakehead University; nell' Ontario, ha deciso di ridurre al minimo la diffusione delle connessione web senza fili, il cosidetto Wi-Fi, visti i timori delle conseguenze che le onde possono avere perla salute: Secondo alcuni scienziati, `le onde potrebbero provocare cancro e leucemia. ' Ritaglio stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproducibile. ____________________________________ ItaliaOggi 21 feb. ’06 BOOM DI E-LEARNIG IN USA Cresce l'utilizzo delle attività on-line per integrare il tradizionale. piano di studi Il 42% degli alunni risiede nella città del corso DI GIOVANNI SCANCARO L’e-learning non serve più solo a colmare distanze. Negli Usa la nuova modalità di insegnamento è gettonatissima anche nei corsi tradizionali. È quanto emerge da diversi studi condotti fra le università degli Stati Uniti. Nel 2004, più di 2 milioni di americani hanno frequentato un corso universitario on-line. Ma, al di à dei numeri, è il fenomeno dell'e-learning in sé a interessare gli studiosi. Lo scenario sta infatti evolvendo rispetto alle intenzioni originali. Nato in Australia per garantire l'accesso allo studio di allievi situati a enorme distanza dalle scuole, l’e-learning nasce per mettere in contatto docente e allievo via corrispondenza o via radio. Ma ormai, rilevano gli studiosi americani, i corsi on-line vengono $viti da un target più ampio e si dimostrano sempre più popolari con gli allievi locali. Il 42% degli allievi iscritti ai corsi online vive nella stessa città dell’università di cui frequenta il corso online. Molte facoltà iniziano a riconoscere crediti formativi conseguiti fra corsi in presenza e on-"e, anche se su questo aspetto le cose sembrerebbero proseguire con maggiore lentezza. Comunque, sottolineano gli esperti, quasi tutte le università offrono corsi ori line che integrano il curriculum studiorum. I dati dicono che la maggior parte dei tradizionali corsi di studi risultano ormai affiancati da quelli on-line, proponendo agli studenti spazi per discutere, repository di risorse didattiche, ma anche sistemi per assistere alle lezioni a distanza o in differita, trasferendo video o brodcast dal server di contenuti dell'università ai propri dispositivi di ricezione e riproduzione. Ormai la distinzione tra corsi vis a vis e on-line non esiste quasi più e sempre di più sono gli studenti che chiedono entrambi le tipologie di formazione. Ma per seguire un corso online serve essere preparati, dichiarano molti studenti interpellati. Si apprende di più se si dispone delle necessarie strumentalità di base e di salde conoscenze culturali e disciplinari. Come a dire, l’e-learning vive se la didattica tradizionale funziona _____________________________________________ Il Sole24Ore 24 feb. ’06 LAUREE ONLINE: LA IVY LEAGUE STORCE IL NASO MA LA DOMANDA CRESCE di Elysa Fazzino WASHINGTON – I corsi su Internet fanno passi avanti nei prestigiosi atenei della Ivy League. Ci sono resistenze, ma è solo questione di tempo prima che uno studente possa ottenere un diploma di Harvard senza varcare la soglia della centenaria università di Cambridge. La riluttanza dell’Ivy League è in linea con la sua impronta elitaria e selettiva. E’ la crema della crema dell’istruzione superiore Usa. Prende il nome dall’edera che ricopriva le vecchie mura delle sue università, otto baluardi d’eccellenza sulla costa Est degli Stati Uniti: Brown, Columbia, Cornell, Dartmouth, Harvard, Princeton, University of Pennsylvania e Yale. Sono atenei antichi, privati e costosi. Internet è visto con diffidenza soprattutto da parte delle associazione degli “alumni”, le influenti congregazioni degli ex studenti. Temono una svalutazione del loro titolo di studio, guadagnato dopo essere passati attraverso tutti gli stadi dell’iniziazione di un’università dell’Ivy League, comprese le forche caudine della retta, pagata spesso caricandosi di debiti (un solo anno costa oggi oltre i 40mila dollari). «Le “Ivies” sono molto caute nei confronti dell’insegnamento online», spiega Alan Drimmer, presidente di Aiu online (American InterContinental University), una scuola che dal 2001 offre lauree online. «Questi istituti hanno tradizioni di centinaia d’anni e non saltano a pié pari in questo nuovo campo come abbiamo fatto noi». Drimmer ha fatto da consulente per l’introduzione di corsi on line presso università importanti come Cornell e Stanford. «La maggior parte delle scuole con cui ho lavorato hanno un piccolo gruppo di entusiasti e molto scetticismo. Per non parlare di quelle con “alumni” molto potenti. Come si sentirebbe un laureato di Harvard vicino a qualcuno che ha ottenuto lo stesso titolo davanti allo schermo di un computer? Gli “alumni” hanno paura che la loro laurea si deprezzi». Oltre che presso la Aiu, lauree online si possono per ora ottenere in istituti come la University of Phoenix Online, Kaplan University, University of Maryland University College, New York University, Saint Leo University. Il cavallo di Troia nella fortezza dell’Ivy League sono i corsi per l’insegnamento professionale. Alla Columbia University, il Teachers College ha cominciato con un piccolo numero di corsi virtuali e ora offre tre diplomi online approvati dallo stato di New York. Sta inoltre creando il suo primo master interamente online. Ma l’apprendimento online è efficace come quello in classe? Ann Armstrong, direttrice del Center for Educational Outreach and Innovation presso il Teachers College della Columbia, sostiene di sì: «Come studentessa alla Columbia ho sperimentato sia i corsi nel campus sia quelli online. E se dovessi scegliere i cinque corsi migliori di tutta la mia esperienza, due di questi sarebbero online. Con l’insegnante giusto e una buona organizzazione, l’apprendimento virtuale può essere soddisfacente come quello in classe, se non di più». Anche se molti professori tradizionalisti sono recalcitranti, la domanda degli studenti è in aumento. «Dal 2001 abbiamo interagito con 8mila studenti di 132 Paesi e realizzato 24mila corsi», dice Chris Proulx, presidente di eCornell, controllata al 100% dalla Cornell University. Per il momento eCornell non dà crediti, ma i suoi programmi di addestramento sono collegati con quelli di varie scuole della Cornell. «Ci concentriamo sull’istruzione professionale e per dirigenti. Veniamo incontro alle esigenze di chi è interessato a un diploma per andare avanti nella carriera – addestriamo i manager delle imprese Fortune 1000». Proulx assicura che gli standard di Cornell non vengono annacquati e che i criteri di ammissioni sono altrettanto esigenti. La Harvard University Extension School offre 75 corsi online validi per crediti universitari e post-universitari. Non ci sono ancora programmi di laurea interamente online, ma all’apertura dell’anno accademico 2005 il presidente della Harvard University, Lawrence Summers, ha enfatizzato l’importanza di sposare educazione e tecnologia: «La tecnologia dell’informazione ha il potenziale per moltiplicare molte volte il numero di studenti e studiosi con accesso alle risorse intellettuali uniche di Harvard». Summers ha invitato le scuole a pensare in modo creativo e coraggioso su come ampliare la portata della propria eccellenza attraverso la tecnologia. Len Evenchik, direttore dell’insegnamento a distanza della Harvard University Extension School è convinto che la crescita sia inevitabile: «Nel prossimo decennio – prevede - negli atenei dell’Ivy League l’insegnamento online crescerà in modo costante ». _____________________________________________ La Nuova Sardegna 24 feb. ’06 LA STELLA POLARIS RIPORTA SETTE SCIENZIATI I progetti per riconquistare i ricercatori impegnati nella biomedicina La prospettiva del Consorzio 21: creare un polo d’eccellenza Contratti biennali per un gruppo di studiosi di grande esperienza CAGLIARI. Con un po’ di fantasia l’operazione si potrebbe anche chiamare «Acchiappa-cervelli». Un’iniziativa importante, per ora solo la tessera di un progetto ben più ampio, che per farla breve si propone di riportare in Sardegna i ricercatori isolani impegnati nel settore della biomedicina e della tecnologia della salute. Studiosi che vantano curricula professionali di tutto rispetto, ma che per vari motivi (quasi sempre i soliti tristemente noti a chi frequenta il mondo accademico nazionale) hanno lasciato l’Italia per trovare altrove il paradiso della ricerca. Un eldorado che molto spesso - ma non necessariamente - coincide con gli Stati Uniti. Il tampone per fermare l’emorragia di scienziati stavolta ce lo ha messo il «Consorzio 21», l’ente regionale che gestisce il parco tecnologico di «Polaris», a Pula e a Tramariglio, ad Alghero. E che ora, grazie a un programma «ad hoc», punta dichiaratamente ad attrarre verso la Sardegna il capitale umano necessario per la creazione di un polo di eccellenza. Obiettivo che peraltro sta già dando i suoi frutti, visto che proprio in questi giorni nove ricercatori italiani (sette dei quali sardi) sono «tornati a casa» per lavorare nelle dodici nuove iniziative imprenditoriali nate all’interno del parco scientifico. A spingerli, un contratto di 24 mesi, un assegno complessivo di 54mila euro e soprattutto tante prospettive professionali. Ma come è nata esattamente questa caccia al figliol prodigo? «In realtà il nostro obiettivo era duplice - spiega Giuseppe Serra, responsabile dell’iniziativa -. Da una parte ci interessava rafforzare il tessuto imprenditoriale, dall’altra riportare nell’isola alcuni talenti. Così nel giugno del 2005 abbiamo attivato quello che in gergo si chiama “bio-incubatore”, cioè una struttura realizzata per ospitare nuove imprese impegnate a studiare e sviluppare farmaci e strumentazione medica». Poi da lì è nato un altro progetto. «Quello chiamato “Bio-farm risorse umane” - continua Serra - attraverso il quale abbiamo selezionato un gruppo di ricercatori per attivare due percorsi di studio e formazione». Il primo di questi due percorsi riguarda quattordici neolaureati sardi che stanno già beneficiando di una borsa di studio per fare una prima esperienza professionale all’interno di Polaris. Il secondo percorso, invece, mira appunto a riportare in Sardegna quanti più cervelli possibile. «Le aziende ci hanno fornito il profilo dello studioso che cercavano - spiega ancora il responsabile del progetto - e noi abbiamo pubblicato un bando al quale hanno risposto ricercatori che insieme alle ambizioni scientifiche avevano in comune anche la voglia di ritornare in Sardegna». Tra questi talenti ritrovati c’è anche Mario Lera, quarantatre anni, cagliaritano, ingegnere elettrotecnico con un dottorato di ricerca in Progettazione meccanica. Lui stesso dice che voleva tornare in Sardegna per questioni familiari e ha approfittato volentieri del progetto del Consorzio 21, sul quale ripone molte aspettative. «Durante il dottorato - racconta Lera - ho passato un anno e più al Dipartimento di Fisica ottica di Sidney, in Australia. Mi occupavo in particolare di microscopi a scansione laser». Poi, tornato in Sardegna, qualche anno di collaborazione con l’Università di Cagliari, e infine l’esperienza negli Stati Uniti, al Dipartimento di Fisica della University of Illinois di Urban-Champaign, a 200 chilometri da Chicago. «In America ho potuto verificare le differenze con il sistema di ricerca italiano - continua Leda -. Negli Usa più si ottengono risultati e più si viene finanziati, così i professori sono molto esigenti e tendono a premiare chi vale davvero». Ma non è solo una questione di risorse economiche. «Ho notato che qui in Italia l’età media dei ricercatori è molto più alta che all’estero - spiega ancora Leda -. Nell’Illinois i colleghi erano tutti più giovani e potevano contare su opportunità da noi impensabili. Persino io, che non sono cittadino statunitense, avrei tranquillamente potuto presentare un progetto al governo americano con la prospettiva di vedermelo finanziato. In Italia invece tutto viene gestito dai soliti professori: lo scienziato indipendente non ha chance». Il che significa che si crea anche un mercato dei ricercatori, con relativa mobilità. «Oltreoceano praticamente tutte le imprese private scommettono sull’innovazione e sulla ricerca - continua Leda - così di solito si lavora per due o tre anni presso un istituto o un’azienda, poi piovono le proposte. E chi vuole può scegliere di cambiare centro o addirittura percorso professionale». E’ anche per questi motivi che per i ricercatori il «sogno americano» è duro a morire. Ma - stando ai dati dell’Adi, l’Associazione dottorandi - fra le mete preferite dai cervelli italiani in fuga ci sono pure Francia e Gran Bretagna. Proprio da Londra, infatti, arriva Claudia Piperno, 34 anni, originaria di Crotone, laurea in Scienze naturali e dottorato di ricerca in Fisiologia all’Università di Firenze, poi research assistant al King’s College di Londra e, sempre nella capitale britannica, esperienza al National institute for medical research. «In un contesto come quello di oggi per trovare lavoro ti devi muovere - spiega lei stessa - e avere un’esperienza all’estero è importante». Anche Claudia, però, ha scelto di partecipare al bando del Consorzio 21 e di tornare. «Mi ero un po’ confinata nell’ambiente accademico e volevo fare un’esperienza in un’industria - conclude -. Non ero mai stata in Sardegna e sono contenta di essere qua. Ma ci sono solo da una settimana, è presto per fare un bilancio». Andrea Massidda _____________________________________________ La Nuova Sardegna 24 feb. ’06 COSÌ L’ISOLA DIVENTA LA SESTA RISERVA SCIENTIFICA I dati CAGLIARI. Cinquanta aziende private, quattro centri di ricerca pubblici e ben tre filiere scientifiche e tecnologiche di riferimento: dalla biotecnologia alla bioinformatica, passando per la cosiddetta «Information comunication technology». Sono i numeri che fanno di «Polaris», il Parco tecnologico della Sardegna, la sesta «riserva scientifica» italiana dedicata alle imprese e ai ricercatori del campo della tecnologia (la precedono solo i centri di Trieste, Centuria, Tiburtino, Vega e Novacchio). Una realtà gestita dall’ente regionale «Consorzio 21» e dislocata in due sedi - a di Pula e a Tramariglio - che può contare sul lavoro quotidiano di 420 tra tecnici e imprenditori hi-tech impegnati in attività di studio, sviluppo e innovazione. L’obiettivo? Sostanzialmente uno: far decollare le piccole e medie imprese sarde attraverso la ricerca applicata. La sede principale di «Polaris», che dista da Cagliari trentasei chilometri, è un’oasi di centosessanta ettari ricavata ai confini del Parco naturale del Sulcis. Dotata di infrastrutture e attrezzature avanzatissime, a inaugurarla, nel luglio del 2003, furono i premi Nobel Carlo Rubbia e Rita Levi Montalcini, che rimasero affascinati non solo dal progetto, ma anche dal piacevole impatto ambientale degli edifici che compongono il centro, collegati tra loro da un sentiero immerso nel verde. Altrettanto eco-compatibile, la sede di Tramariglio, a due passi da Alghero, dove dal 1996 la società «Porto Conte ricerche» opera nel campo biotecnologico, agroalimentare e ambientale con l’ambizione dichiarata di «contribuire al rafforzamento del sistema produttivo isolano mediante la promozione della ricerca applicata e la diffusione generale dell’innovazione». Nel centro di Tramariglio sono in attività due centri Cnr e due universitari. «Polaris», dunque, considerata un po’ la «Silicon Valley» sarda, è una realtà. Una realtà che per di più attualmente vive un momento di crescita. Al punto che - stando a quanto ha detto lunedì in una conferenza stampa, Giuliano Murgia, presidente del «Consorzio 21» - grazie ai 125 milioni di ricerche finanziate o in fase di definizione ingrosserà le file dei suoi dipendenti di altre ottanta unità. Fiore all’occhiello di «Polaris», sembra essere il settore biomedico, riconosciuto come «distretto» dal ministero per la Ricerca. Non sorprende, così, che il Parco stia cominciando ad attirare imprese d’eccellenza e a farne nascere altre con prospettive molto incoraggianti. Dalla conferenza stampa di lunedì, è emerso anche che la Sardegna è candidata ad ospitare il Segretariato per la medicina innovativa della Comunità europea (Imi), e - insieme con Pisa - potrebbe diventare il centro di sperimentazione Le aree di intervento di Polaris saranno presto tre. Perché a parte Pula (attiva con 44 aziende) e Tramariglio (ce ne sono altre sei in fase di definizione), è in corso di progettazione anche la filiera di Monteponi, che sarà dedicata allo sviluppo delle georisorse. La presentazione del progetto è prevista per il 10 marzo. (a.m.) _____________________________________________ L’Unione Sarda 23 feb. ’06 ALGHERO: FACOLTÀ DI ARCHITETTURA SENZA FONDI La Regione taglia: a rischio l'Università Non ha ancora completato il primo ciclo e già rischia di chiudere la facoltà di Architettura mediterranea. La Regione ha tagliato i fondi destinati al polo universitario algherese riducendo di oltre il sessanta per cento i finanziamenti per il 2006. L'allarme è stato lanciato dall'assessore alla pubblica istruzione Antonello Muroni, seriamente preoccupato per il futuro dei corsi di laurea gemmati sul territorio. Oltre ad Architettura, unica in Sardegna, infatti, anche Scienze dell'ambiente e delle produzioni marine naviga in cattive acque a causa delle esigue risorse stanziate da Cagliari. "Il fondo globale della Regione sarda - accusa Muroni in un comunicato stampa - si ripartisce al 65 per cento a favore dell'Università di Cagliari e al 35 per cento a favore dell'Università di Sassari". Una distribuzione di risorse che penalizza fortemente il polo didattico cittadino che non ha ancora completato il primo ciclo e che, proprio per questo necessiterebbe "di sostegni professionali e di interventi di primo impianto che, invece - continua l'assessore - sono stati progressivamente ridotti di anno in anno in maniera sistematica". Nello specifico, la facoltà di Architettura corre il serio pericolo di venire soppressa "nel caso in cui i finanziamenti regionali ? spiega il componente di Giunta ? confermino la preoccupante tendenza a diminuire drasticamente così come è stato fatto in questi due anni di Giunta Soru". Le risorse economiche per la sede di Alghero, che conta oltre 500 studenti, sono passate dai 2.130.000 euro del 2004 a soli 450mila euro del 2006, con una riduzione nel 2005 del 33 per cento e nel 2006 del 66 per cento. Conti alla mano, l'attenzione della Regione per le università del nord Sardegna, a parere dell'Amministrazione, è oggettivamente scarsa e il sospetto è che questo sia dovuto a ragioni politiche più che di contabilità. "Alghero, caso strano, segue la sorte di altri comuni del nord Sardegna - commenta Muroni - come Olbia e Tempio, a guida di centrodestra che hanno visto una riduzione rispettivamente del 55 e del 73 per cento. Come se la cultura e l'istruzione fosse una questione di colore politico". Non così a Nuoro, Oristano e Iglesias. (c. fi.) _____________________________________________ La Nuova Sardegna 24 feb. ’06 E LA REGIONE CON «MASTER AND BACK» INVESTE NELL’ALTA FORMAZIONE CAGLIARI. Investire sull’alta formazione e sul rientro in Sardegna dei giovani talenti per migliorare la competitività del sistema economico. Questo è «Master and back», il programma finanziato dalla giunta regionale con l’obiettivo di consentire ai neolaureati sardi di fare esperienze di studio in centri di eccellenza e poi rientrare nell’isola ed inserirsi, come forza lavoro altamente qualificata, nelle università, nei poli di ricerca, nelle imprese e nelle istituzioni pubbliche. Ciò che Polaris fa per pochi, «Master and back» lo fa per molti. Quanti? Sono disponibili i primi dati, che sembrano incoraggianti. Il programma è partito il 18 dicembre dello scorso anno. Ad oggi sono arrivate 381 domande per i percorsi di alta formazione, di cui: 99 per accedere a dottorati di ricerca; 42 per corsi di specializzazione post-lauream; 150 per la frequenza di master universitari; 75 per master di alta professionalizzazione realizzati da enti di formazione pubblici o privati e aziende; 8 per i diplomi accademici di specializzazione e formazione in campo artistico e musicale; 7 per percorsi formativi da svolgersi durante la frequenza del secondo anno del corso di laurea specialistica; 9 per i percorsi di inserimento lavorativo. Il numero verde ha ricevuto 2000 telefonate e 500 persone sono state ricevute dallo sportello informazioni dell’Agenzia regionale per il lavoro. Per quanto riguarda invece i tirocini e gli stage, al monento sono 26 i programmi di collaborazione presentati da università, imprese, associazioni di categoria, enti pubblici, soprattutto nei settori della medicina e della biomedicina, della sanità, della biologia, del marketing, del diritto comunitario. Trentotto gli stagisti sinora richiesti. Insomma, una risposta che fa ben sperare. «Master and back» ha suscitato un interesse vasto. E ancora molto si può fare. I due assessorati che gestiscono il programma, Programmazione e Lavoro, si muoveranno nelle prossime settimane per stabilire contatti con istituzioni internazionali (Commisione Ue, Ocse, Banca mondiale degli investimenti) per promuovere tutte le opportunità del progetto. Saranno anche stabiliti contatti con agenzie di sviluppo e centri di alta formazione internazionali per ampliare il raggio delle offerte da proporre ai neolaureati. (cos.c.) _____________________________________________ Corriere della Sera 23 feb. ’06 LAUREATI? MILLE EURO AL MESE E PIÙ DELLA METÀ SONO PRECARI Il rapporto annuale di Almalaurea. Gli ingegneri sono i più ricercati Aumenta il ricorso alla raccomandazione per trovare un impiego ROMA — Guadagna mille euro al mese, ha un lavoro precario e per trovarlo si affida ancora alla raccomandazione. È questo l’identikit che emerge dall’indagine sulla «condizione occupazionale dei laureati italiani 2005» condotta da Almalaurea, il consorzio che raggruppa 45 atenei e che ha coinvolto 74 mila laureati (comprese, per la prima volta, le matricole che hanno concluso gli studi con una laurea triennale). Il primo dato che emerge dalla ricerca è l’aumento della precarietà: nel 2005, infatti, il 48,5% di chi ha conseguito la laurea l’anno prima ha un cosiddetto contratto atipico, il 7,1% è senza contratto e il 4,8% ne ha uno d’inserimento (formazione lavoro e apprendistato). In pratica solo il 39,2% può vantare un lavoro a tempo indeterminato, situazione quindi notevolmente peggiorata rispetto a quattro anni prima: nel 2001 infatti il 45,7% dei giovani laureati da un anno aveva già in tasca un contratto a tempo indeterminato ed era solo del 37,4% la percentuale degli atipici. A sorpresa, inoltre, si scopre che il contratto a tempo determinato caratterizza il pubblico impiego più del privato (25 laureati su cento contro i 38 su cento nel pubblico). Anche il contratto di collaborazione prevale ampiamente nel pubblico dove costituisce la forma prescelta per 40 occupati su cento (30 su cento nel privato). E i corsi di laurea che spalancano più rapidamente le porte a chi ha concluso gli studi da un anno? La solita Ingegneria resta sempre al comando, seguita da Insegnamento, Architettura e area chimico-farmaceutica. Ma la vera novità sta nel fatto che i «vituperati» corsi di area umanistica pagano dazio ai corsi di area tecnico-scientifica solo a un anno dalla laurea (60,3% gli occupati scientifici contro il 50,4% degli umanisti) ma a lungo termine, dopo cinque anni, gli umanisti rimontano prepotentemente e raggiungono la parità (86% a testa). Ma almeno, raggiunto l’agognato posto di lavoro, i giovani dottori si ritrovano con una busta paga adeguata? Neanche per idea. A meno di non considerare adeguati i 997 euro (netti) guadagnati in media da chi si è laureato nel 2004. Non certo un capitale, specie se consideriamo che nel 2002 chi si era laureato un anno prima guadagnava in media 1.015 euro netti. Naturalmente l’aspetto retributivo si modifica quando si va a verificare che cosa cambia considerando il sesso e l’area geografica: gli uomini guadagnano 1.136 euro al mese e le donne 885; inoltre a cinque anni dal titolo i guadagni mensili netti dei laureati (senza distinzione di genere) che lavorano al Nord (1.366 euro) sono più elevati rispetto a quelli di chi lavora nel Centro (1.281 euro) e soprattutto al Sud (1.191) euro. Infine le modalità d’ingresso nel mondo del lavoro. In tempi di riforma del mercato occupazionale, di agenzie interinali e collocamento privato a quale sistema ricorrono i laureati? Per lo più (il 47,6%) all’iniziativa personale e al contatto attraverso la segnalazione di parenti e amici. A ciò bisogna aggiungere un 6% (era il 2,1 nel 2001) che richiede esplicitamente di essere segnalato ai potenziali datori di lavoro. Insomma un inno alla raccomandazione. Del resto, l’Italia è nettamente in testa alla classifica Ue come il Paese che usa di più la raccomandazione come modalità di ingresso nel mondo del lavoro. «Alla luce di questa indagine — fa notare Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea — emerge un quadro particolare: in Italia avremmo bisogno di più laureati per allinearci alle altre realtà europee e mondiali. Per capirci, abbiamo una percentuale di laureati inferiore a quella del Messico e appena superiore a quella della Turchia. Ma se dovessimo raddoppiare la quota di laureati, il nostro mercato del lavoro, che già annaspa, sarebbe in grado di assorbirli? Isidoro Trovato _____________________________________________ L’Unità 24 feb. ’06 IL BUIO OLTRE LA LAUREA Giunio Luzzatto Molto spesso, gli opinionisti della grande stampa, ed anche «intellettuali» che presumono di comprendere tutto sulla base di informazioni episodiche o delle proprie percezioni, tranciano giudizi non documentati sulla formazione universitaria, sulla qualità dei laureati, sul loro accoglimento (o meno) nel mercato del lavoro. Su problemi così complessi, su una realtà che è estremamente differenziata, occorrono invece analisi puntuali e dettagliate, che esistono e che vanno studiate. Una tra queste, l'ottava indagine sulla condizione occupazionale dei laureati elaborata dal Consorzio universitario Alma Laurea, viene presentata oggi nell'Aula Magna dell'Università di Roma La Sapienza. Alma Laurea, nata come associazione volontaria di alcune università giustamente interessate al domani dei propri laureati, si è progressivamente estesa e continua a raccogliere nuove adesioni; attualmente comprende 45 Atenei italiani, cioè circa il 60% di essi. Ogni anno, tale Consorzio - diretto da Andrea Cammelli, professore di statistica a Bologna - elabora due Rapporti; uno di essi dà conto del «Profilo dei laureati» nel momento nel quale acquisiscono il titolo, così come emerge dal loro curricolo e da un questionario che gli interessati riempiono all'atto della laurea; l'altro, ed è il documento che viene esaminato oggi, analizza la loro posizione occupazionale a un anno, a tre anni, a cinque anni dalla laurea. Ci si riferisce, cioè, ai laureati del 2004, del 2002, del 2000. L'indagine non è a campione, ma riguarda, per ognuno degli anni considerati, la totalità dei laureati nella sessione estiva: quasi settantacinquemila i giovani interpellati, con un tasso di risposte giunto all'83%. È impossibile riferire adeguatamente, in poco spazio, sulla mole estremamente rilevante delle informazioni che vengono così acquisite; esse sono disponibili sul sito www.almalaurea.it, e ci limitiamo qui a pochi spunti di riflessione. Anzitutto, va considerato il momento nel quale il Rapporto si colloca. La riforma didattica universitaria, che ha riorganizzato gli studi su due livelli, la laurea dopo tre anni e una successiva laurea specialistica, ha avuto inizio con le «matricole» del 2001; il 2004 è perciò il primo anno con i nuovi laureati, oltre diecimila nella presente indagine. Questa si sviluppa su due piani: da un lato la novità dell'analisi dei laureati «post-riforma», a un anno data; d'altro lato le analisi a 1, 3, 5 anni dei laureati «pre-riforma», per i quali è anche possibile un confronto con le rilevazioni precedenti. I «post-riforma», in questi anni di transizione, costituiscono un insieme non omogeneo, poiché comprendono anche studenti già precedentemente iscritti e transitati, su loro richiesta, nel nuovo ordinamento; ciò ha effetti su alcuni dei dati analizzati. Comunque, il risultato di un 38% che si laurea in corso segna un progresso fortissimo rispetto alla situazione dei laureati «pre»: 8% in corso, 21% con un anno di ritardo, e si tratta già di un miglioramento perché nell'indagine precedente si era rispettivamente al 5 e al 14%. Poiché uno degli obiettivi della riforma era una immissione nel mercato del lavoro di persone più giovani, il fatto che il 54% dei laureati del nuovo tipo prosegua nella laurea specialistica può apparire negativo. La cifra comprende però un 18% contemporaneamente impegnato anche in attività di lavoro; un altro 36% ha solo l'attività di lavoro, sicché anche la percentuale di chi lavora è del 54% (il 10% residuo è in parte in cerca di lavoro, in parte impegnato in attività formative di altro genere). Il Rapporto rileva inoltre che risulta molto scarsa l'informazione, negli ambienti imprenditoriali, circa le caratteristiche del titolo; questo, e molte resistenze corporative nelle professioni e nella pubblica amministrazione, ha indubbiamente un effetto negativo sulla occupabilità dei nuovi laureati. L'identico 54% di occupati si ha anche, a un anno dalla laurea, per i laureati «pre-riforma», e presenta una diminuzione, pur lieve, nelle ultime tre rilevazioni; a tre anni si ha il 74%, a cinque anni l'86%, con poche variazioni nel tempo. È significativo, e preoccupante, il fatto che in tutti i casi si constata una diminuzione della quota che rappresenta le occupazioni stabili. Le analisi presentano dati sugli stipendi, sulle modalità con le quali l'impiego è stato trovato, sulla coerenza con gli studi compiuti, sulla soddisfazione. Alcune tra esse correlano dati diversi: risulta, ad esempio, che aver frequentato un master ha un effetto quasi nullo sull'occupazione, mentre aver compiuto uno stage ha un effetto piuttosto alto. Abbiamo già osservato che Alma Laurea comprende la maggioranza degli Atenei, ma non tutti; c'è da augurarsi che questo limite venga presto superato, per poter disporre per l'intero sistema universitario italiano di indagini come quelle che saranno presentate e discusse oggi. Esse analizzano il capitale umano che costituisce il prodotto della formazione superiore; sul processo attraverso il quale tale formazione si svolge esiste già una importante banca dati elaborata da un organo consultivo ministeriale, il Cnvsu (Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario). Negli ultimi anni, il Ministero ha operato ignorando ogni documentazione, con interventi basati su slogan e preconcetti, alcuni dei quali vengono smentiti proprio da queste analisi. Combinando i risultati relativi al processo e quelli relativi al prodotto, altri potranno invece servirsi di strumenti preziosi per la definizione delle diverse scelte che sono necessarie per un rilancio del nostro sistema universitario. _____________________________________________ La Nuova Sardegna 22 feb. ’06 SCIENZIATI A CACCIA DI INSETTI SCONOSCIUTI Dopo la «mosca serpente» dei boschi di Fonni si spera in nuove scoperte La proposta del ricercatore Cao: un centro di studi zoologici nell’ambito dell’università nuorese NUORO. La «mosca serpente» del Gennargentu ha trovato la sua collocazione nell’editoria scientifica. La rafidia di Fonni appare infatti in un articolo della prestigiosa pubblicazione Redia, firmato dai coniugi Horst ed Ulrike Aspöck di Vienna, i due maggiori esperti viventi di neurotteri, dal professor Roberto Pantaleoni, dell’Istituto per lo studio degli ecosistemi del Cnr, e dal ricercatore nuorese Omar Cao. Quest’ultimo, assieme al suo maestro, il professor Pietro Luciano, preside della facoltà di Agraria a Sassari, aveva operato il primo rinvenimento nei boschi di Taletho, nel 2001 a Fonni, nell’ambito dell’attività di ricerca su alcuni lepidotteri defogliatori forestali. È seguita una lunga caccia agli altri esemplari che ha coinvolto il professor Pantaleoni e scomodato gli Aspock. Nel 2003 l’équipe trovò altri esemplari di questa rafidia, o mosca serpente, che presentava caratteristiche uniche. Ora, con la pubblicazione della ricerca, si apre una porta su un mondo ancora da esplorare, quello degli insetti rari del Gennargentu. La rafidia di Taletho è stata ribattezzata Subilla Principiae, in onore della professoressa Maria Matilde Principi, celebre scienziata bolognese che negli anni ’50 compì studi sui neurotteri in Sardegna. E da allora gli studi su questi insetti erano fermi. Sino alla straordinaria scoperta effettuata da Omar Cao e a quelle effettuate dal professor Pantaleoni. L’insetto, lungo dagli 8 ai 10 millimetri, sembra prediligere gli ambienti della roverella, nella quale gli Aspock avevano trovato alcune ovature. La sua origine è scuramente paleo-tirrenica. Il lavoro degli scienziati mira ora ad accertare il percorso evolutivo di questi insetti, confrontati con quelli catalogati dagli Aspock nella media Europa e in Anatolia. Tanta la soddisfazione per il professor Pantaloni che prosegue le ricerche di un altro neurottero, nuovo per l’Europa e finora noto solo nell’Africa e dell’Asia meridionale, ritrovato nel sud della Sardegna. La presenza di questi insetti impone una riflessione, soprattutto nelle zone interne, sulla creazione di un polo di studi scientifico ad hoc. Infatti le notizie sulla fauna sarda risultano quasi del tutto assenti per numerosissimi gruppi animali, in particolare gli insetti. La check-list delle specie animali italiane, del 1995, non cita come presente in Sardegna neppure il Culicoides Ceratopogonide responsabile della trasmissione della lingua blu”. Cao lancia quindi l’idea di costituire a Nuoro un centro interdipartimentale per gli studi zoologici per analizzare le popolazioni animali del Gennargentu e propone la creazione di una task force di studiosi che veda in campo le energie dei dipartimenti delle facoltà di Agraria, Scienze e Veterinaria dell’Università di Sassari, del Cnr e di enti o istituti regionali. “Questo centro - spiega il ricercatore nuorese - potrebbe essere collegato all’Istituto per la fauna selvatica istituito dalla Regione nel 2002. Serve poi la creazione di un luogo fisico dove costituire collezioni zoologiche sarde sullo schema dei migliori musei di storia naturale internazionali e finanziare la stampa di una rivista zoologica ad altissimo livello internazionale”. Anche perché è opinione comune che i monti del Gennargentu abbiano ancora tantissimi segreti da svelare agli scienziati. Giovanni Melis ______________________________________________________ Il Giornale 24 feb. ’06 YES, I SPIC GLOBISH. IL MONDO SPARLA INGLESE CARLO F.ARICCIOTTI Domani sarà la Giornata internazionale della madrelingua, evento istituito dall’Unesco nel 1999 con lo scopo di proteggere e promuovere la diversità linguistica e l'istruzione plurilingue. Ciò significa che anche le lingue come la foca monaca, hanno bisogno di essere protette? Sembrerebbe di si, se è vero lo scenario descritto da David Crystal in La rivoluzione delle lingue (ED Mulino): «Nel mondo, circa 400 milioni di persone usano l’inglese come madrelingua, circa altrettanti come seconda lingua - cioè strumento di comunicazione in domini come il governo, i tribunali, i media e il sistema dell'informazione - e 600 milioni o giù di li lo usa-no come lingua straniera (quella che si studia a scuola): un totale complessivo di circa un miliardo e 400 milioni, approssimativamente un quarto della popolazione mondiale». La famigerata globalizzazione ha colpito ancora? «A volte - risponde Giuseppe Sabatini, presidente dell'Accademia. della Crusca - si dice che il predominio di una lingua finisce con il comportare l'offuscamento delle altre. In realtà, per definizione una lingua mondiale può essere una sola. L'inglese, attualmente, gode di questo privilegio non tanto in base al numero dei parlanti, elemento non determinante, quanto all’importanza e al prestigio conquistati nei campi culturale, economico, politico e tecnologico, fattori determinanti per il successo e la diffusione di una lingua». «La globalizzazione è un fenomeno complesso e multiforme, che ci coinvolge tutti nella vita di ogni giorno - riflette Giovanni Adamo, ricercatore di Linguistica presso l'Istituto per il lessico intellettuale europeo e storia delle idee del CNR come pure autore, con Valeria Della Valle, di Duemilasei parole nuove. Un dizionario di neologismi dai giornali (Sperling& Kupfer) -. Per rappresentarcela in modo molto sintetico, possiamo dire che la globalizzazione nella progressiva caduta delle frontiere che fino a pochi anni fa determinavano e ostacolavano la libera circolazione delle persone, delle loro tecnologie e dei loro prodotti. Perciò si avverte oggi, in modo molto più forte e coinvolgente che nel passato, il bisogno di una lingua internazionale che assuma il ruolo di veicolo della comunicazione tra popoli e culture in precedenza anche molto distanti tra loro. D'altra parte, è sempre più viva la necessità delle comunità locali di maturare una piena consapevolezza dei fenomeni che si vanno producendo in ambito globale e, al tempo stesso, di conservare la propria identità e le proprie tradizioni». A guardarlo meglio però questo inglese globalizzato non è più l'inglese di Londra ma nemmeno più quello di NewYork: tre parlanti inglesi su quattro. oggi, sono non nativi. «Cosa succede - si chiede Crystal, docente di linguistica nell'università gallese di Bangor - quando un numero elevato di persone adotta l'inglese nel proprio paese? Risposta: succede che esse sviluppano un inglese per conto proprio, varietà denominate NewEngliges e sviluppate aggiungendo all'inglese parte del lessico locale, concentrandosi sulle variazioni culturali locali e sviluppando nuove forme di pronuncia.». Non solo, l'inglese sembra destinato a ulteriori rimescolamenti se; come scrive CrysCal, «Il principale trend linguistico del XXI secolo sarà la commutazione di codice», cioè le lingue, o meglio, secondo la precisazione di Sabatini, le realtà d'uso», che si creano quando persone che comunicano tra loro incorrono contemporaneamente a due o più lingue: da qui il franglais (franceseinglese), il japlish (giapponese-inglese), lo spanglish (spagnolo-inglese americano, fenomeno spunto anche per un film hollywoodiano di qualche stagione fa) e cosi via. Un dialogo in spanglish per esempio suona cosi: Anita.: "Hola, good morning, cómo estas?". Mark: "Good, y tú?". Anita: "Todo bien. Pero tuve problemas parqueando mi carro this morning". Mark: "Si, I know. Siempre hay problemas parqueando in el area at this time". Una situazione possibile anche in Italia, sull'onda dei flussi migratori extraeuropei. chiediamo a Sabatini? «In linguistica. non si fauno profezie, anche perché le lingue hanno tempi di trasformazione e adattamento lunghissimi. Inoltre la popolazione italiana è ancora coesa quindi è difficile la nostra lingua, possa subire delle vere ibridazioni. Semmai saranno possibili degli adattamenti, che ci sono sempre stati: ormai chi si ricorda che formaggio è un francesismo del XII-XIII secolo?». E Adamo: «È possibile che anche in Italia e negli altri Stati europei si producano nel tempo quei fenomeni di ibridazione osservati nel continente americano. Tuttavia i cambiamenti e gli incroci tra le lingue si determinano in tempi molto lunghi, e poi occorre mettere in conto che circa il 10% dei cittadini che vivono negli Stati Uniti sono di madrelingua spagnola.». Tornando all'inglese come lingua d'uso internazionale è innegabile la sensazione che «Paese che vai, inglese che trovi»: parliamo a qualcuna in inglese e questi ci risponde nella stessa lingua ma noi non capiamo nulla o quasi perché il suo inglese suona molto diverso dal nostro. Inconvenienti cui cerca di porre rimedio, a tavolino, il francese Jean-PaulNemère, inventore del globish (contrazione di global english): nel suo Parlate globish (Agra Edihzce) Nemère propone un inglese semplificato che utilizza un numero limitato di parole (non più di 1500) e una particolare costruzione delle frasi. Non una nuova lingua, ma uno strumento di comunicazione che, secondo Nemère, «parte da una constatazione inevitabile, il dominio della lingua inglese e ne trae profitto per fare qualcosa, di pratico e semplice. Non un'invenzione o un artifizio, ma piuttosto un adattamento», Il dominio dell'inglese, o dei "nuovi inglesi", è forse inevitabile, ma in questi anni lingue considerate perse o chiuse in riserve linguistiche sono tornate a reclamare i loro diritti: dal l' gennaio 2007 il gaelico irlandese sarà ammesso tra le lingue ufficiali dell'Unione europea (e sarà - la, ventunesima) mentre nell'Isola di Man, posta tra l'Irlanda e l'Inghilterra, il celtico locale, il manx, considerato estinto nel 1975 con la morte dell'ultimo manxofono, tornerà a essere insegnato nelle elementari (sul manx e i rapporti tra Isola di Man e Gran Bre tagna ricordiamo il romanzo di Matthew Kneale Il passeggero ffiglese, Bompiani, 2002). Mentre in Francia vive tuttora la legge Tonbon, che nel 1994 impose l'uso della lingua francese nella stesura di documenti pubblici, contratti e nel campo dei media. Tuttavia prima di inalberare la bandiera del localismo é bene ricordare, con Adamo, che «per mantenere viva una lingua non basta mantenerne viva la memoria, occorre che quella lingua sia in grado di evolversi al passo dei cambiamenti sociali, culturali, politici e tecnologici che si producono». Sabath distingue tra «lingue che hanno alle spalle uno Stato, come l'Irlanda, e lingue che sono espressione solo di comunità, come il manx o il ladino: una lingua può aspirare a uno status internazionale solo se corrisponde auuzo Stato, altrimenti è una babele. Quella del gaelico è, per noi italiani, una amara lezione: nell'ambito dall'Unione europea i nostri governi, di qualsiasi colore politico, sono da tempo colpevoli di trascuratezza nella difesa e nella promozione della lingua italiana». In ogni caso e in conclusione, come scriveva il grande poeta siciliano Ignazio Buttitta, «un popolo diventa, povero e servo quando gli rubano la lingua avuta in dote dai padri. Diventa povero e servo quando le parole non figliano parole e si mangiano tra loro». ======================================================= _____________________________________________ Il Giornale di Sardegna 22 feb. ’06 SANITA’ SARDA: SERVIZI INADEGUATI E FILE LUNGHISSIME Il rapporto sulla Sardegna. Un intervistato su tre ritiene di essere vittima della malasanità «Servizi inadeguati e file lunghissime» così i sardi bocciano gli ospedali isolani La sfiducia generale non tocca i medici che riscuotono un gradimento molto alto I sardi temono di invecchiare soli senza essere autosuf- ficienti: per questo sognano una sanità più flessibile, fatta di servizi diffusi sul territorio, di facile accesso, pronti a rispondere a una domanda di assistenza prolungata nel tempo. È questo il dato più significativo che emerge dal Monitor biomedico, il focus nazionale sulla sanità. E da questo dato bisogna partire per capire le richieste che la popolazione dell'Isola muove nei confronti del sistema sanitario regionale. Anche da noi la devolution ha messo radici. I cittadini sardi sono favorevoli all'attribuzione alla Regione di maggiori responsabilità in tema di sanità e la il soggetto più adatto per avvicinare i cittadini al servizio sanitario. E chiedono che qualcosa cambi: anche se per il 60 per cento degli intervistati negli ultimi due anni la sanità è rimasta uguale. Per un sardo su cinque è peggiorata e per uno su sei è migliorata. Se questi dati sono da interpretare non lo sono altrettanto quelli relativi alla qualità del servizio: secondo un sardo su due i servizi sanitari sono inadeguati. IL PRINCIPALE PROBLEMA sono le infinite liste d'attesa e le lunghissime file: da noi è sentito dall'80 per cento degli intervistati. Poi c'è la malasanità: uno su tre ha dichiarato di aver subito danni durante un ricovero ospedaliero, o di avere amici che li hanno subiti. Così la richiesta è logica: aumentare la spesa sanitaria. Più di uno su due la giudica inadeguata, ed è perfino disposto a una “respon - sabilizzazione finanziaria diretta nell'acquisto dei farmaci”: in altre parole, la metà dei sardi è favorevole al ticket, strumento necessario per limitare l'acquisto dei farmaci. La sfiducia generale sul sistema sanitario non tocca i medici, che riscuotono un gradimento molto alto: sono loro, per i cittadini, la risorsa cruciale per promuovere il passaggio a una sanità territorializzata e più efficiente. _____________________________________________ L’Unione Sarda 19feb. ’06 PIANI SANITARI, DUE MESI DI PROGNOSI Dirindin media e sospende i progetti di rientro dal deficit «È un piano da rivedere. È una richiesta che facciamo a tutte le aziende sanitarie che hanno cambiato i confini, come quella di Nuoro. Qui c’è più tensione: discuteremo con i sindacati, vedremo se si possono accogliere le loro proposte ». L’assessore regionale alla Sanità Nerina Dirindin annuncia così una nuova fase nella tormentata vertenza legata al piano di riqualificazione e di rientro dal disavanzo proposto dal manager Franco Mulas e contestato da alcune organizzazioni sindacali. E vista la forte conflittualità degli ultimi tempi lei sarà in campo per seguire da vicino il tavolo del confronto. L’ASSESSORE. «Conto di essere presente perché ci tengo che non ci siano tensioni in una realtà importante come questa», sottolinea l’assessore nella sala convegni della Camera di commercio, a margine del convegno che ieri inaugura l’anno sanitario in Sardegna. La sera prima l’assessore, assieme al manager, ha avuto un lungo faccia a faccia con i sindacati, alla presenza anche della collega di giunta Maddalena Salerno, responsabile del Lavoro. L’incontro ha già dato i suoi frutti, visto che nessuna iniziativa di protesta, annunciata nei giorni scorsi, ha turbato ieri la giornata nuorese dell’assessore. DUE MESI DI LAVORO. Il tavolo andrà avanti due mesi: assessore, manager e sindacati prenderanno in mano il piano attualmente sospeso. Entro dieci giorni Nerina Dirindin conta di dire la sua a proposito dell’inserimento di nuovi infermieri, problema posto con forza dai sindacati che chiedono un’attenzione prioritaria verso i precari. Accanto alle loro richieste c’è, però, la domanda di infermieri stabilmente assunti in altre Asl e decisi a trasferirsi nell’azienda nuorese. La possibilità di nuovi bandi per infermieri è la prima cosa nell’agenda dell’assessore, una volta però verificata la necessità reale posta dai sindacati che chiedono tagli nella dirigenza senza toccare le altre categorie professionali. TURN OVER. Da tempo i sindacati puntano l’indice contro il blocco del turn over: ottanta dipendenti prossimi alla pensione non saranno sostituiti. «Si tratta di un tema nazionale. Se la Regione — spiega Nerina Dirindin — non adempie, la nostra sanità verrà commissariata. Cerchiamo di sostenere con l’assistenza domiciliare integrata lo sviluppo del territorio ». I sindacati insistono: vogliono un trattamento diverso per il Nuorese. Nel faccia a faccia di venerdì l’assessore ha chiarito anche un altro punto molto controverso, ovvero il famigerato taglio di 500 posti di lavoro. In realtà, si tratta dei dipendenti destinati a passare ad altre Asl in conseguenza dei nuovi confini provinciali. L’azienda nuorese cede strutture e personale alle Asl di Cagliari, Oristano e Olbia. In tutto, 500 dipendenti. DIALOGO SINDACALE. Dopo l’incontro di venerdì sera l’assessore Dirindin esterna soddisfazione. «Il dialogo tra dirigenza e sindacati è stato proficuo. I sindacati avevano bisogno di essere ascoltati. C’è stato un difetto di coinvolgimento. Vogliamo che sia recuperato. Questo non vuole dire che saranno accolte tutte le richieste. Ma è importante che ci si metta attorno a un tavolo ». LA VERTENZA Contestato il blocco del turn over e i tagli al personale: 500 dipendenti trasferiti in altre Aziende Visto il conflitto in atto tra i vertici della Asl e i sindacati l’assessore regionale alla Sanità seguirà la vertenza nuorese in prima persona. _____________________________________________ La Nuova Sardegna 19 feb. ’06 INAUGURATO L’ANNO SANITARIO «SIAMO A LIVELLO DI SOPRAVVIVENZA» L’assessore regionale elenca i nei dell’assistenza nell’isola di Nino Bandinu NUORO.Anno sanitario, il messaggio più forte, lanciato dall’assessore regionale Nerina Dirindin agli operatori presenti, è stato questo: «Attenti, perchè la sanità pubblica è arrivata a un livello di sopravvivenza ». Responsabili, naturalmente, la politica dei governi nazionali con le privatizzazioni, le devolution, e il divario crescente tra regioni meridionali e nordiche. L’assessore alla Sanità ha poi fatto un bilancio delle cose fatte nel 2005 e t racciato le linee per la sanità prossima ventura. Mettendo al centro l’assistenza territoriale, integrata o meno. Nel suo intervento Nerina Dirindin ha messo in fila quasi tutte le grandi questioni della sanità sarda, ma in particolare ha toccato il problema delle risorse, della prevenzione, salute mentale, personale, spesa farmarceutica, e le liste d’attesa. Senza trascurare le zone più povere e svantaggiate dell’isola, percorse da una crisi profonda, come le zone interne. Sulle risorse l’assessore ha separato due aspetti importanti: il fatto che il governo ha confermato il budget dell’anno precedente; e la necessità di rivisitare i parametri distributivi basati attualmente solo sulla popolazione. Una speranza dunque per le aree più deboli e soprattutto per l’assistenza territoriale domiciliare (integrata o non) che Dirindin si è impegnata a sostenere anche finanziamente, cominciando a separare i fondi “sociali” in dotazione alle Asl, per darli ai Comuni. Per quanto riguarda invece la prevenzione l’assessere ha messo in risalto i piani contro la peste suina e la trichinellosi: epidemie che oltre alla salute umana possono compromettere «una parte consistente dell’economia dell’isola». Sui problemi della salute mentale poi la Dirindin ha denunciato una situazione gravissima: il fatto che in alcune strutture si «legano ancora i malati». Una situazione assurda, che tradisce l’abbandono di una pratica umana e civile, dopo l’ondata culturale conservatrice degli ultimi decenni. Garantita maggiore attenzione nel settore, l’assessore regionale è passata poi a trattare le tre questioni di massima attualità, perchè toccano il problema del recupero della spesa: il personale, la spesa farmaceutica, e i servizi. Sul personale ha ammesso che c’è sofferenza un po’ ovunque e che serve «una nuova politica », anche perchè la sanità si distingue come settore ad «alta intensità di lavoro», ed è stata già penalizzata dal blocco del turn over. Certo i parametri nazionali vanno sempre rispettati, ma si può recuperare molto dagli “sprechi inutili”, da una nuova organizzazione, e dal personale non pienamente utilizzato. La spesa farmaceutica invece può essere ridotta con la «distribuzione diretta» e altre forme, «senza rinunciare ai livelli di assistenza esistenti». Intanto, però, i piani di rientro del disavanzo «sono sospesi » e si andrà a decidere poi, ma su «scelte condivise», in attesa della legge di riordino e dei primi affetti del piano sanitario regionale. L’intervento della Dirindin è venuto subito dopo (e anche in risposta) delle brevi relazioni svolte durante il convegno da Bruno Lacu vice predente dell’ordine dei medici della Sardegna, da Raimondo Ibba di Cagliari, Agostino Sussarello di Sassari, Antonio Sulis di Oristano, e Luigi Arru di Nuoro. Tutti hanno toccato i problemi di maggiore attualità del sistema sanitario sardo e avanzato critiche e proposte. L’assessore Dirindin ha ascoltato tutti con grande attenzione e infine ha raccomandato all’ordine dei medici di organizzare, per il futuro, l’anno sanitario con «il coinvolgimento di tutte le categorie della sanità». _____________________________________________ L’Unione Sarda 24 feb. ’06 SASSARI: CHIUDE IL CENTRO USTIONI Resa dei conti mercoledì, quando arriverà l’assessore alla Sanità Dirindin SASSARI: Chiude il Centro ustioni La politica dei tagli: i camici bianchi contro il manager Camici bianchi neri di rabbia. L’ospedale Santissima Annunziata sta per perdere i fiori all’occhiello della struttura, e i medici dell’ospedale civile preparano le barricate. All’annunciata chiusura dei reparti di Urologia, Pneumologia e Odontostomatologia, si è aggiunta un’altra serrata, quella dell’Unità ustioni. Davvero troppo per i medici che reagiscono ribellandosi alla direzione generale della Asl n°1, in difesa dei reparti. Una rivolta contro la ventilata chiusura di diversi reparti ospedalieri, contro un’organizzazione aziendale «votata unicamente al risparmio», contro un piano di sviluppo fantasma. In sintesi, contro la gestione Zanaroli, che nei giorni scorso ha celebrato il primo anno di attività. In una assemblea straripante di addetti ai lavori, i sindacati dei medici ospedalieri lanciano il guanto di sfida alla direzione generale: «Ora basta». È il grido di battaglia stampato su un volantino distribuito in ogni angolo dell’ospedale. Basta, a iniziare con i programmi di chiusura dei reparti: «Con la nascita della azienda mista urologia, pneumologia e odontostomatologia chiuderanno e finiranno all’Università», denuncia il sindacalista Luigi Sannia. Parla a braccio esibendo una mimica da oratore consumato, e agitando i pugni per dare maggiore forza alle accuse. «Noi pretendiamo che queste attività rimangano dentro il Santissima Annunziata». Tre i punti fondamentali attorno ai quali ruotano le richieste dei medici: mantenere le attività dell’ospedale inalterate, riqualificare la pianta organica, e programmare il futuro del Santissima Annunziata con un piano di sviluppo che garantisca investimenti per rimodernare i macchinari. Parlano in tanti all’assemblea, da Giovanni Di Maria, al sindacalista Mario Manca, il primario del Pronto soccorso, Michele Poddighe. Ma a sconcertare la sala già esasperata dalle cattive notizie, è Mario Lissia, responsabile dell’Unità ustioni: «Chiuderanno anche l’Unità ustioni. Mi è stato detto che i numeri sono bassi, nonostante 40 ricoveri l’anno siano in media nazionale». La resa dei conti potrebbe arrivare mercoledì, quando a Sassari arriverà l’assessore regionale alla Sanità, Nerina Dirindin: il sindaco Gianfranco Ganau, intervenendo all’assemblea ha garantito che difenderà gli interessi di tutto il polo sanitario sassarese. (v. g.) _____________________________________________ L’Unione Sarda 24 feb. ’06 POLICLINICO: STUPEFACENTI IN CITTÀ: DOMINA LA CANNABIS, IN ASCESA LA COCAINA Il mercato della cannabis è sempre più diffuso. Secondo una statistica stilata dal laboratorio di tossicologia forense del Policlinico Universitario, i derivati della canapa indiana sono di gran lunga gli stupefacenti che dominano i traffici della droga di Cagliari e hinterland. Il dato emerge in base alle sostanze sequestrate che la magistratura invia ai tossicologi dell’istituto di Medicina Legale per le analisi. i dati. Nel 2005 oltre il 53 per cento dei ritrovamenti riguarda la cannabis, il 37 la cocaina e il 10 l’eroina. Marijuana e hashish sono ancora al primo posto. È cambiato il consumo delle altre due droghe, che rispetto a cinque anni fa hanno invertito le proprie percentuali. Nel 2000, infatti, il 29 per cento dei sequestri era di eroina, il 19 cocaina. la cocaina«Oggi la cocaina è quattro volte più diffusa dell’eroina - spiega Giampiero Cortis, responsabile del - questo perché tutte le droghe hanno un loro turn-over: ci sono persone che smettono e altre che iniziano. Chi fa ancora uso di eroina ha un’età media alta, ha iniziato ad assumerla negli anni Ottanta e non ha mai smesso. Ora non va più di moda, la cocaina è più diffusa. Nonostante il costo elevato è arrivata anche agli adolescenti. Gli spinelli, invece, li fumano tutti, senza grandi differenze d’età, anche se il mercato si sta espandendo decisamente verso i più giovani». la purezza. Le droghe arrivano a Cagliari con sempre maggiore percentuale di purezza. «Un tempo non esisteva un mercato destinato direttamente alla Sardegna - aggiunge Cortis - e qui arrivavano droghe già tagliate e diluite con zuccheri per essere vendute al "dettaglio" ai consumatori. Ora, invece, ci è capitato di analizzare cocaina pura al 98 per cento, arrivata sicuramente dall’estero senza una tappa intermedia a Roma, Milano o Napoli». le piante In aumento anche i ritrovamenti di coltivazioni di piante di canapa. «Sono tantissimi quelli che provano a coltivare in casa una pianta di marijuana - continua Cortis - anche se a volte è solo un divertimento, dato che da una pianta coltivata in vaso, che non raggiunge mezzo centimetro di diametro di tronco e non supera il metro e venti d’altezza, ci si possono ricavare circa 12 grammi di foglie, il corrispondente di circa 24 canne». le pastiglieIn aumento il traffico delle compresse, anche se analizzarlo crea difficoltà diverse. «Non lo si può tenere sotto controllo - commenta Cortis - dato che lo spaccio avviene in luoghi particolari, come discoteche e locali notturni, e non si hanno dati certi sulla diffusione. Per esempio, se dovessero sequestrare una pastiglia di ecstasy potrebbe significare che in giro ce ne sono altre 1000». (st. co.) _____________________________________________ Corriere della Sera 24 feb. ’06 SI INSEGNI ALL' UNIVERSITÀ UNA MEDICINA PIÙ UMANA VIA SOLFERINO 28 - IL CASO - dalla parte del cittadino MEDICI E PAZIENTI Il concetto di malattia Malato terminale è un' espressione orrenda per una sanità che si pone l' obiettivo di rivedere il concetto di malattia, prendendo in seria considerazione la sofferenza umana in quanto tale, e non come espressione di guasto da riparare. Sono medico oncologo e ho dovuto percorrere un lungo cammino per rientrare nel mondo. A volte mi chiedo: come mi vedo, come mi sento oggi, dieci anni dopo l' ictus? E come mi vedono gli altri, gli amici, i colleghi, le persone che incontro? Sono un handicappato? (Parola che evoca subito pietà e compassione nei confronti di un malato, anche se il termine handicap è usato sovente nel linguaggio sportivo, ad esempio nel golf). Certamente sono un dis-abile, nel senso che non posseggo tutte quelle abilità che rendono un individuo libero. Libero di andare a comprarsi un giornale, libero di salire su un treno da solo senza l' aiuto di altri, libero di allacciarsi il cinturino dell' orologio, libero , libero di correre, libero di attraversare la strada. Tanti gesti di una vita quotidiana ai quali non diamo mai il giusto valore se non quando non ci è più permesso di farli da soli. Mi ha colpito la lettera che chiede di rendere più umane le parole della burocrazia medica. Ha ragione. A volte è come se l' aspetto soggettivo della sofferenza possedesse un aspetto inferiore a quello associato alla «vera malattia» come insieme di sintomi. Bisogna rimediare. All' università serve anche una materia che insegni al giovane medico cos' è una malattia in termini umani. Per noi medici sarebbe il modo migliore per rientrare a testa alta nel mondo dei pazienti. Gianni Bonadonna giannibonadonna@istitutotumori.mi.it OSPEDALI E RICOVERI La dignità di chi soffre Ho letto l' articolo sul malato terminale pubblicato sul «Corriere»: rappresenta ciò che io non sono mai riuscita a far capire al dottore che, ormai 4 mesi fa, si è preso cura dell' ultimo mese di vita del mio caro papà. La cosa che più mi ha colpito di questo dottore è stata la sua età... Era molto giovane (probabilmente esercitava il suo mestiere da pochi anni, ma dal comportamento sembrava un medico anziano stufo di lavorare e prossimo alla pensione). Durante il periodo in cui papà è stato ricoverato ho riflettuto molto ed ho capito che per fare questo tipo di mestiere non basta una laurea in medicina, e non bastano neanche le varie specializzazioni post-laurea, servirebbe bensì un corso di specializzazione sul rispetto della dignità del malato... che, secondo me, è la cosa più importante nell' esercitare questo tipo di mestiere. Purtroppo però per questo tipo di specializzazione non esistono corsi da frequentare perché è una cosa che nasce dentro l' anima di quasi tutte le persone. Ci sarebbe molto da dire sulle nuove terminologie oggi in uso e anche sulla loro «ipocrisia». E a proposito di «terminale» mi chiedo: ma c' è proprio bisogno di aggiungerla alla parola «malato»? Forse che si usa «temporaneo» per chi ha un' appendicite? Donatella Cei BUONA SANITÀ La nipotina guarita Una storia di buona sanità. La mia nipotina di 18 mesi si ammala di quel che sembra la solita «influenzona» dei bambini, Senonché la febbre non l' abbandona e a nulla servono le cure antibiotiche. La ricoveriamo in un ospedale non milanese dal quale, dopo la scomparsa della febbre, viene dimessa. Insorgono, però sintomi che ci preoccupano molto come la testa tenuta reclinata, il passo incerto e la perdita dell' equilibrio. Rientriamo precipitosamente a Milano dove la nostra pediatra ci invita a recarci al Fatebenefratelli. In pochi istanti sono evidenziati rallentamenti di alcune attività motorie. Viene organizzato un consulto e siamo con estremo garbo informati che la causa dei problemi riscontrati potrebbe essere assai seria. La risonanza magnetica, effettuata dagli specialisti del Buzzi, viene «letta» dal team dei medici che escludono la presenza di tumore cerebrale ma diagnosticano una rara patologia dal minaccioso nome di «encefalomielite acuta disseminata», malattia del midollo che, se non diagnosticata e curata per tempo, lascia indelebili conseguenze. La buona notizia e un' estrema rapidità della diagnosi consente l' aggressione immediata con un cocktail di farmaci. È così che la mia nipotina dopo 9 giorni di cure efficaci ha lasciato l' ospedale sana e di buon umore, dopo essere stata curata in un reparto nuovo, allegro, colorato. Raimonda G. L. Un po' di umanità in più nella sanità. Una condizione che non dovrebbe neppure essere sollecitata, dovrebbe essere compresa nel mestiere di medico. Tanti familiari di malati oncologici ci invitano a sollecitare gli ordini professionali e le università ad orientare la formazione anche su questo versante. La lettera con la quale un gruppo di donne chiedono di evitare la parola «terminale» associata ai malati di tumore in fase avanzata, rilancia una discussione i corso da anni negli ospedali. Ci piace che una prima risposta arrivi da un medico come Gianni Bonadonna, per tanti anni direttore della divisione di Oncologia medica all' istituto dei tumori. La sua osservazione indica che nelle facoltà di medicina ci può essere una strada per considerare l' esperienza e la sofferenza umana dei pazienti alla stregua dell' anatomia patologica. Non è una provocazione, ma una constatazione: per evitare che il medico oggi si trasformi in un entomologo, in un esperto che contempla con distacco i suoi pazienti. Dopo i ricoveri di qualche parente, molti lettori ci scrivono: ci sono tante proteste, ma sono in aumento i casi di ringraziamento per l' attenzione ricevuta nei nostri ospedali. Un buon segno: si è fatto molto, ma si può fare di più. Nei criteri premianti per un medico, l' organizzazione attuale probabilmente non inserisce motivazioni come: la disponibilità nei confronti del paziente, la sua capacità di ascoltare, la sua disponibilità a spiegare, la sua onestà nel proporre la cura. Mentre per gli ospedali si comincia (fortunatamente) a mettere in discussione il criterio aziendale, si può coinvolgere chi dei medici deve garantire la formazione professionale. E l' università può ribadire che il paziente è una condizione, non una categoria. gschiavi@rcs.it Schiavi Giangiacomo _____________________________________________ Corriere della Sera 24 feb. ’06 SORPRESA: IN OSPEDALE ARRIVANO GLI ECONOMISTI Finanza, personale, ricerca fondi: la sanità è una grande impresa Limardi (San Raffaele): le opportunità di inserimento sono concrete e frequenti Che il settore ospedaliero rappresenti uno dei pochi approdi sicuri nel mondo del lavoro è cosa risaputa. Un aspetto invece poco noto riguarda la profonda evoluzione che il comparto sta affrontando e le nuove opportunità professionali che ne derivano. Soprattutto per i laureati in economia, con specializzazioni che spaziano dalla gestione aziendale alla contabilità internazionale, che possono oggi trovare posti qualificati nella gestione di ospedali che sono diventati delle vere imprese. «In Italia - spiega Antonio Limardi, direttore risorse umane dell' Ospedale San Raffaele di Milano - paghiamo lo scotto di un' organizzazione antiquata. Le strutture sanitarie sono poche, pubbliche e molto grandi, a differenza del resto d' Europa dove avviene il contrario. E questo si riflette in organizzazioni spesso pesanti e burocratiche». Dunque le opportunità d' inserimento sono concrete e frequenti in quelle strutture, come il San Raffaele, che sono private ma di fatto operano come ospedali pubblici. «E' evidente che con 4 mila dipendenti in tutta Italia - continua Limardi - e fatturati pari a quelli di grandi imprese, l' organizzazione sia strutturata come una qualsiasi attività produttiva. Con particolare attenzione, nel nostro caso, all' etica che riteniamo sia il vero valore per una struttura sanitaria». Spazio allora ai neolaureati in economia di ogni specializzazione. Entrano nella direzione finanziaria, nella direzione delle risorse umane, nell' organizzazione logistica e nella formazione. In tutte quelle divisioni dove non è necessario disporre di competenze mediche. «Anche se poi - precisa Limardi - conoscere l' ambiente sanitario è indispensabile. Un laureato in economia può essere fondamentale per un primario che deve far quadrare il bilancio. In questo caso le due competenze devono interagire per raggiungere lo scopo. E non si tratta solo di conoscere i numeri. E' necessario capire come funziona un reparto per ottimizzare le proprie attività». Particolarmente interessante è la tipologia dei contratti applicati. Molto utilizzati quelli a tempo determinato e a progetto, ma sono molto diffusi anche quelli a tempo indeterminato, merce rara di questi tempi. «Anche nel settore della sperimentazione - spiega il responsabile risorse umane dell' area ricerca del San Raffaele, Giuseppe Defidio - è fondamentale l' attività di professionisti con competenze economiche. A loro è affidata la gestione dei fondi che il mondo della ricerca procaccia per finanziarsi. E oggi, più che in passato, è indispensabile rendicontare in modo trasparente e professionale le spese sostenute e i risultati conseguiti dai singoli progetti. Chi non lo fa difficilmente potrà trovare in futuro enti finanziatori che sostengano la ricerca». Anche il mondo dell' università muove i primi passi verso la sanità. Il Politecnico di Milano, per esempio, ha avviato una serie di incontri con l' Ospedale San Raffaele proprio per mostrare ai suoi studenti di ingegneria e architettura le potenzialità del settore. «Ma molto c' è ancora da fare - afferma Carlo Trivelli, presidente di Tosinvest Sanità, gruppo con 2.500 dipendenti -. Sono pochi gli atenei che trasmettono ai giovani queste informazioni. E così, spesso, i neolaureati in materie economiche non mandano neanche la propria candidatura alle strutture ospedaliere, pensando di non avere sbocchi professionali». Invece, non esistendo corsi laurea specifici, il mondo della sanità è disposto anche a formare i giovani o a trovarli sul mercato. «A volte inseriamo nel nostro organico professionisti con un passato nella certificazione dei bilanci o nella consulenza aziendale. In altri momenti investiamo su neolaureati con buone potenzialità e li formiamo in base alle nostre esigenze specifiche». Negli ultimi anni si sta affermando una gestione affidata a specialisti, a differenza del passato in cui la guida delle strutture era demandata esclusivamente a medici. «Per fortuna è così - precisa Trivelli -. Le strutture convenzionate ricevono i pagamenti delle prestazioni a distanza di mesi, a volte di un anno, mentre le spese fisse sono inderogabili. Sarebbe un disastro per la gestione non disporre di amministratori in grado di affrontare eventuali inconvenienti finanziari. Esattamente come avviene in un' impresa tradizionale». Maurizio Cannone BILANCI Un laureato in economia può essere fondamentale per un primario che deve far quadrare il bilancio Cannone Mauricio ____________________________________ Libero 21 feb. ’06 LESIONI SPINALI, DUE ANTICORPI RESTITUISCONO LA MOTILITÀ ZURIGO La ricerca sulle lesioni spinali si sta aprendo a nuove prospettive da quando due anticorpi hanno permesso a topi affetti da queste lesioni di camminare nuovamente. La terapia sviluppata da Martin Schwab e dai suoi colleghi dell'Università di Zurigo sarà testata anche su esseri umani quando gli anticorpi adatti al nostro organismo saranno disponibili: i test clinici potrebbero iniziare tra due o tre anni. Ma qual è la fondamentale scoperta che sta dietro al recupero della mobilità di questi topi con i nervi spinali danneggiati? Gli anticorpi hanno bloccato l'azione del Nogo, una proteina che impedisce alle cellule nervose di stabilire nuove connessioni. Come ha riportato il settimanale New Scientist, due anticorpi (11C7 e 7B12) sono stati iniettati all'interno del fluido cerebrospinale circostante la zona danneggiata del midollo dei topi grazie ad una mini pompa osmotica collegata ad un piccolo catetere, metodo che può essere applicato anche agli esseri umani. Gli anticorpi hanno scatenato la rigenerazione degli assoni, le estensioni che connettono i neuroni, permettendo alle cavie di nuotare, salire i pioli di una scala senza scivolare e attraversare un'asse piuttosto stretta. Ora il prossimo nodo da sciogliere riguarda il blocco della proteina Nogo: gli studiosi devono capire se può scatenare una rigenerazione neuronale incontrollata nel cervello o nel midollo spinale. Se gli anticorpi da soli non bastassero per raggiungere la guarigione perché i neuroni hanno bisogno di un «ponte che colleghi il nervo leso al resto del midollo spinale», sarebbero necessari fattori di crescita in grado di mantenere costante la generazione e la salute dei neuroni. Ed è proprio a questo che sta lavorando Geoffrey Raisman dell'University College di Londra: per fornire la stimolazione necessaria alla rigenerazione nervosa ha trapiantato nel midollo spinale di cani affetti da paralisi cellule prelevate dalla mucosa nasale. Queste cellule sono note per la loro capacità di stimolare la rigenerazione delle fibre nervose danneggiate, e infatti dopo il trapianto i cani hanno riacquistato qualche movimento nelle zampe. Anna Tagliacarne ______________________________________ MF 21 feb. ’06 UNA GOCCIA DI SALIVA PER RILEVARE LE MALATTIE GENETICHE DEL CUORE Ricerca Il test del Dna si effettua in meno di un'ora e individua la cura farmacologica più efficace di Marina Carminali Analizzare il Dna in un'ora attraverso la saliva e Anon con il prelievo del sangue sembra fantascienza. E invece si tratta di una reale scoperta emersa durante l'ultima giornata della Conferenza Europea, dedicata soprattutto all'individuazione preventiva delle malattie genetiche del cuore. ' In quest'occasione, per la prima volta, 220 esperti provenienti da tutta Europa si sono sottoposti al nuovo test. Grazie all'analisi del. Dna, è infatti possibile riconoscere i geni che possono causare alcune complicazioni, tra le quali le patologie genetiche cardiache che in Europa interessano 900 mila persone, mentre in Italia riguardano 150 mila casi e sono generalmente individuabili nella cardiomiopatia dilatativa, ipertrofica, restrittiva e aritmogena del ventricolo destro. Inoltre, risulta che il 50% dei pazienti sottoposti a trapianti di cuore soffrono di una patologia cardiaca ereditaria. Attraverso questo nuovo esame è possibile per esempio scoprire se i bambini sono predisposti a patologie cardiache e intervenire con cure preventive. Con il campione di saliva si può anche individuare la risposta fannacologica dei pazienti identificando la cura più efficace. Il test richiede un tempo massima di un'ora e non è invasivo.Al paziente vene inserita nella bocca una piccola listarella rigida di plastica da sfregare tra la lingua e il palato per la durata pochi secondi: ne basta anche una pic cola goccia. La «provetta» viene poi infilata nel nuovo macchinario, dalla forma simile a un microscopio, che provvede a scegliere un campione di cellula, la rompe e ne estrae una stringa di Dina. Attraverso l'apparecchio scientifico in 40 minuti la doppia elica viene replicata per rendere più chiaro e leggibile il campione prelevato. In ultimo, si effettua l'analisi vera e propria che rivela l'eventuale predisposizione genetica a determinate malattie oltre a individuare se un determinato farmaco sia invasivo o invece funzionale. ______________________________________________________ Repubblica 23 feb. ’06 DAGLI SPERMATOZOI POSSONO NASCERE DEGLI OVULI Spermatozoi immaturi hanno modificato il loro destino e sono diventati ovociti. L'esperimento, condotto in Giappone su cellule germinali di pesci e descritto su "PNAS", segna un passo in avanti nella comprensione del meccanismo che regola lo sviluppo di spermatozoi e ovuli. Le nuove conoscenze aiuteranno a comprendere meglio i meccanismi di trasformazione delle cellule staminali e saranno utili alla medicina della riproduzione e alla zootecnica. I ricercatori del dipartimento di Biologia marina dell'università di Tokyo hanno scoperto che le cellule ancora indifferenziate presenti nei testicoli maturi, chiamate spermatogoni, hanno un alto livello di plasticità e restano "bipotenti" per quanto riguarda la loro maturazione, anche dopo che l'animale ha raggiunto la maturità. Spiega il coordinatore della ricerca, Goro Yoshiza :«i nostri risultati suggeriscono che gli spermatogoni sono almeno parzialmente simili a cellule germinali primordiali. Dagli esperimenti fatti sulle trote arcobaleno viene quindi la prova del fatto che anche nei testicoli maturi (almeno in quelli di animali diversi dai mammiferi) si trovano cellule primitive e capaci di svilupparsi diventando cellule sessuali adulte sia maschili (spermatozoi) che femminili (ovociti). La scoperta promette di avere ricadute importanti sulle tecniche di allevamento. Diventerebbe anche possibile una sorta di auto-fertilizzazione, facendo accoppiare femmine e maschi che hanno cellule germinali che derivano da un unico donatore. Nell'esperimento i ricercatori hanno prelevato gli spermatozoi immaturi dai testicoli di trote arcobaleno maschio ed hanno quindi trasferito le cellule prelevate in trote appena nate e di entrambi i sessi. Hanno visto cosi che gli spermatogoni sviluppati all'interno di trote maschio sono diventati spermatozoi, mentre quelli trasferiti nelle femmine sono diventati ovociti. Una volta diventate adulte, le ferrimine con gli ovuli sviluppati dagli spermatogoni hanno deposto normalmente le uova. ______________________________________________________ Repubblica 23 feb. ’06 PRESENTATA LA PRIMA "GAMMA CAMERA" PORTATILE E RICARICABILE la via tecnologica alla sanità PRESENTATO AL SANIT DI ROMA UNO STRUMENT0 PORTATILE PER INDIVIDUARE TUMORI DI MINIME DINIENSIONI di Anna Rita Cillis L’innovazione tecnologica applicata alla sanità segue diverse strade per farsi conoscere dal grande pubblico. Tra queste manifestazioni, convegni e congressi. Come nel caso del Sanit, vetrina di servizi sanitari, che si è concluso da alcuni giorni a Roma, dove è stata presentata Imaging probe IP, la prima "gamma camera" portatile e ricaricabile (cinque ore di autonomia). Si tratta di uno strumento di elevata precisione in grado di diagnosticare alcuni tumori - al seno e alla tiroide - di pochissimi millimetri e sperimentato, con successo, nell'individuazione, in sala operatoria, del linfonodo sentinella, e per la biopsia di prostata e mammella. Il tutto è stato realizzato da Li-Tech, società di Udine cui il Cnr detiene parte delle azioni. Ed è proprio dal Consiglio NAl10= delle Ricerche che è partita l'idea di realizzare questa innovativa minigamma camera (i brevetti sono del ricercatore Alessandro Soluri, oggi presidente dell'azienda produttrice). Tra le novità presentate all'evento capitolino ha trovato spazio anche l’ambulanza di nuova generazione della Croce Rossa. Si tratta di un mezzo in grado di evolversi, a seconda l’utilità del momento, sino a diventare "sala rianimazione" su quattro ruote (c'è anche la versione pediatrica). E, mentre l’Italia fa i conti con i primi casi accertati su volatili di influenza Aviaria, sempre al Sanit, hanno fatto il loro esordio il "Kit di emergenza" per proteggersi dal virus HSNr, quello contro i rischi chimici, biologici e nucleari e la barella ATI dell'Aeronautica militare (vedi foto) per il trasporto aereo di pazienti colpiti da patologie infettive altamente contagiose quali Ebola, Sars, colera. Sempre novità, ma questa volta rivolte agli over70, l'obiettivo della sesta edizione del PTE Expo, fiera di tecnologie, prodotti e servizi per la terza età, in programma a Verona dal 21 al 23 marzo. Qui saranno presentati i risultati della ricerca e della sperimentazione di spazi terapeutici per le persone affette da deficit cognitivo. L'idea, della Facoltà di Architettura di Genova, è di realizzare, grazie all'ausilio di tecnologie e innovazioni, case sicure per malati di Alzheimer. ______________________________________________________ Panorama 18 feb. ’06 GENGIVE PIÙ SANE, CUORE PIÙ PROTETTO Uno studio conferma il legame fra la salute orale e il rischio di malattie cardiovascolari: scienziati australiani, insieme a colleghi dell'Università di Oslo, hanno analizzato i casi di 67 adulti con gengive malridotte, ed effettuato analisi dei sangue prima e tre mesi dopo il trattamento terapeutico, Hanno visto che la cura aveva ridotto i fattori di rischio di embolia, quindi di infarto e ictus. ______________________________________________________ Avvenire 24 feb. ’06 TUMORE DEL SENO, REPARTO INNOVATIVO AL «GEMELLI» EMILIA GRIDA CUCCO L’applauso più forte arriva dalle ultime file: è li che, l'una a fianco al l'altra, stanno sedute alcune delle donne, affette da tumore al seno, ricoverate al Policlinico "Agostino Gemelli" della capitale. Non potevano mancare all'inaugurazione del Cis, ovvero il Centro Interdipartimentale di Senologia del Policlinico. Un progetto nuovo realizzato dall'Università Cattolica del Sacro Cuore, grazie al sostegno dell'organizzazione no-proflt "Komen Italia" e ai fondi raccolti dalla vendita del francobollo "Regina Elena", emesso nel 2002 con un sovrapprezzo da destinare alla lotta ai tumori del seno (15 progetti di ricerca e 11 programmi di supporto, le altre iniziative finanziate). «Potremo essere seguite sempre dalle stesse persone e avere in loro maggiore fiducia», commentano soddisfatte le pazienti presenti. E' questa infatti una delle novità del Cis: le donne che si rivolgono al Centro saranno seguite lungo l'intero percorso, dalla diagnosi sino alla terapia. Ba sta con la corsa ad ostacoli da un dipartimento all'altro del Policlinico, alla ricerca dello specialista che fa al caso loro, sarà al contrario un'équipe ad accompagnare le pazienti, offrendo tutti i servizi di cui necessitano. Esami clinici, interventi e terapie, però, non bastano a chi ha deciso di guardare in faccia la propria malattia: per questo motivo il Cis organizza programmi di supporto psicologico e momenti di aggregazione. Previsto anche un Centro educativo, perché "radioterapia" e "chemioterapia" smettano di essere, per chi è affetto da tumore al seno, parole dal suono minaccioso e dal significato incomprensibile. Prevenzione e ricerca, sono le parole su cui invece il presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, si è voluto soffermare durante l'inaugurazione: «I finanziamenti vanno mirati e fatti confluire negli Istituti di eccellenza, per evitare la fuga dei cervelli». Massima fiducia, quindi, nelle «capacità dei nostri ricercatori». Gratitudine e soddisfazione arrivano anche dal Rettore dell'Università Cattolica, Lorenzo Ornaghi: in oncologia l'applicazione esclusiva di un «protocollo medico» non basta più, occorre affiancarlo a «un sostegno più ampio e coinvolgente-psicologico e non solo - dei pazienti e della loro fa miglia». Da qui il carattere multi disciplinare del Cis, su cui hanno insistito il suo Direttore, Riccardo Masetti e il Direttore sanitario del Policlinico, Cesare Catananti. In cantiere altre due novità: l'avvio, annunciato ieri dall'ambasciatore degli Usa in Italia, Ronald Spogli, di nuovi accordi bilaterali tra ricercatori italiani e statunitensi e il lancio di un nuovo francobollo, dedicato Al28° Congresso internazionale di medicina e lavoro. Il ministro delle Comunicazioni, Mario Landolfi, ha reso noto che sarà in vendita, non a caso, dall'8 marzo: festa della donna. ______________________________________________________ Libero 25 feb. ’06 CREATA UNA PROSTATA UMANA CON LE STAMINALI EMBRIONALI MELBOURNE Per la prima volta una prostata umana è "nata" in laboratorio: i ricercatori australiani della Monash University l'hanno creata grazie a cellule staminali embrionali che, in dodici settimane, hanno dato vita ad un tessuto equivalente a quello di un giovane essere umano. Alle cellule staminali è stato insegnato come diventare una ghiandola prostatica umana, e con questo input il tessuto è cresciuto: le cellule, impiantate su topi, si sono trasformate in una prostata che secerne ormoni e PSA, le sostanze prodotte dalla ghiandola dell'apparato genitale maschile e i cui valori aumentano nel sangue in presenza di una malattia. In uno studio pubblicato sulla rivista Nature Methods, i ricercatori hanno spiegato il processo che li ha condotti a questo risultato che permetterà di monitorare le varie fasi di sviluppo delle malattie che colpiscono la fondamentale ghiandola posta sotto la vescica urinaria, in particolare l'ipertrofia prostatica benigna e il cancro prostatico. La prima riguarda il 90 per cento degli uomini che raggiungono gli 80 anni d'età e, pur non essendo mortale, peggiora sensibilmente la qualità della vita dei soggetti colpiti a causa di patologie infiammatorie e ingrossamenti. II tumore prostatico è per frequenza il secondo tumore maligno nell'uomo dopo quello al polmone: colpisce prevalentemente dopo i 50 anni con un picco di incidenza attorno ai 70, ha origine nelle cellule periferiche della prostata e il suo sviluppo è in parte dovuto all'azione degli ormoni sessuali maschili, il testosterone. «Fino a oggi abbiamo avuto a disposizione ben poche prostate giovani da studiare-hanno spiegato gli studiosi australiani -. Ora abbiamo la possibilità di colmare molte lacune poiché il tessuto cresciuto in laboratorio è un terreno perfetto per testare l'impatto degli ormoni e dei fattori ambientali sullo sviluppo delle malattie neoplastiche, la cui prognosi non dipende solo dall'estensione del tumore ma anche dall'età del paziente». Anna Tagliacarne _____________________________________________ Sardi News 18 feb. ’06 PARTORIRE IN CLINICA E IN OSPEDALE: UNO SPRECO Le vecchie ostetriche condotte raccontano di Alice Monni Iniziativa Apsara dai padri di Somaschi di Elmas, l’intervento di Michele Grandolfo Storie di una Sardegna che non c’è più, racconti di un mestiere che spesso i giovani non conoscono. Le ostetriche, le vecchie levatrici, sono state protagoniste di un convegno dal titolo “Il parto in Sardegna nell’ultimo secolo”, organizzato dall’associazione Apsara con il contributo della Regione Sardegna e della Provincia di Cagliari. Sede dell’incontro: la comunità dei padri Somaschi a pochi passi dall’aeroporto di Elmas.In un filmato le vecchie ostetriche condotte raccontano di un tempo in cui i bambini nascevano in casa e le donne facevano tutto da sole, al massimo aiutate dalla mamma o dalla suocera. “Quando il bambino arrivava noi lo accoglievamo, il medico veniva solo per i casi estremi”. Sono le parole di Giuseppa Sorighe, classe 1905, nonnina di Orgosolo che affida alla nipote la storia in sardo delle sue sei gravidanze. La nonnina solo due volte ha avuto l’aiuto dell’ostetrica. Spesso le donne facevano tutto da sole e passavano il travaglio in piedi o in ginocchio. “Le madri – dice la signora Giuseppa – erano sempre pronte ad aiutarci. Ma fino a poco prima del parto noi donne lavoravamo sempre, io andavo a raccogliere la legna. D’altronde, come si poteva fare altrimenti?”. Storie di un tempo passato, quando di notte suonava il campanello e bisognava correre, perché una donna aveva bisogno d’aiuto. E si andava in bicicletta, a piedi o a dorso di un mulo per arrivare in tempo. Quando le ostetriche erano levatrici e la gente le chiamava “signorine”, giovani donne che dovevano uscire sempre accompagnate, perché di notte andare in giro da sole “non stava bene”. Lo spettacolo che le accoglieva nelle case, racconta Ida Naldini, nata nel 1914 in provincia di Salerno, era spesso scoraggiante. “Io mi ero diplomata a Bologna nel 1939” dice l’ex ostetrica condotta di Perdasdefogu. “A cinque giorni dal mio arrivo in paese mi hanno chiamato per un parto. Io ho preso la mia borsa e sono andata. Mi sono trovata in una casa a pianterreno senza pavimento e senza finestre. Mi sono guardata intorno e il letto non c’era. Poi ho visto una signora per terra su una stuoia. Ho pensato di scappare. Alla fine però sono rimasta e l’ho assistita in ginocchio”. Anni luce di distanza rispetto a Bologna, dove per far nascere un bambino c’erano cinquanta persone. Dopo che ho pulito la piccola appena nata – racconta ancora – ho pensato di essere un’eroina. Avevo fatto nascere una bambina da sola. Quindi mi sono lodata io stessa”. L’ostetrica aveva un ruolo importante in paese: tutti la riconoscevano e le donne si mettevano nelle sue mani, con la fiducia nelle sue capacità. E il mestiere, racconta ancora Ida Naldini, dava tante soddisfazioni. “La gente mi sentiva passare per strada e mi chiamava. Poi come premio mi davano un fico secco. Quel fico secco per me era un cuore”. Poteva anche capitare di sentirsi sole. “Qualche volta – dice Franca De Matteis, ex ostetrica condotta di Borore – avrei avuto bisogno soprattutto della prima assistenza. Per il mio primo parto, a Ottana, mi ricordo che la situazione non si sbloccava, la signora aveva dolori ma non partoriva. Così – dice ancora la signora Franca con il suo accento toscano – l’abbiamo portata in ospedale. Il medico mi ha dato ragione e infatti poi le hanno fatto il cesareo”. Da allora molte cose sono cambiate. Oggi l’ostetrica esiste ancora, ma si assiste a una medicalizzazione della gravidanza. Le donne sono sempre più seguite dagli specialisti, fanno sempre più analisi. Il rischio, come ha denunciato il professor Michele Grandolfo, (nella foto), dell’Istituto superiore di Sanità, è che le donne non conoscano più se stesse, perdano le competenze che la natura ha dato loro. “C’è un ricorso eccessivo agli specialisti e alle analisi, si fa scarsa attività di informazione, non si sostiene l’allattamento materno” denuncia il professore, che ha illustrato i dati di un’indagine campionaria condotta nel 2002. Lo scopo era quello di valutare lo stato dell’arte dopo il varo del Progetto materno infantile e la sua integrazione nei livelli essenziali di assistenza. Dall’indagine è emerso che le donne in gravidanza sono poco informate, che giudicano più adeguate le informazioni del consultorio familiare e dell’ostetrica. Inoltre fanno più ecografie del necessario: se il numero consigliato in Italia è di tre, al Sud si arriva in media a 5,9 ecografie per le gravidanze senza problemi. Le donne poi, dice l’indagine, preferiscono il parto spontaneo: il 90 percento delle donne che hanno partorito spontaneamente conferma la preferenza per questo tipo di parto. Il 70 percento delle mamme che hanno avuto un cesareo avrebbe invece preferito un parto spontaneo. “Io spero – ha detto Grandolfo – che le donne recuperino la saggezza antica e l’ostetrica torni a essere un aiuto, ma solo quando serve”. L’Associazione Apsara ha invece condotto una ricerca su un campione di 398 donne sarde, analizzando la situazione nell’isola. Negli ospedali e nei consultori le donne chiedono soprattutto assistenza ginecologica e al parto, giudicando in modo buono o ottimo le prestazioni ricevute. Una serie di cambiamenti sociali, giuridici e culturali hanno fatto sparire le ostetriche condotte. Così i bambini sardi non nascono più in casa: il rapporto di fiducia e confidenza che legava la levatrice alla mamma e alla famiglia intera si è spezzato. Anche le ostetriche di una volta pensano che, nella concezione della gravidanza e del parto, si sia passati da un estremo all’altro. Secondo Franca de Matteis “Allora era un po’ troppo esagerato, a volte si facevano le cose senza pensare. Si avevano tanti figli, certi magari non li avrebbero nemmeno voluti. La via di mezzo non l’ha presa nessuno, oggi si esagera un po’ troppo”. “Le donne di oggi fanno anche troppe analisi” dice Ida Naldini. “Basta guardare l’altezza dell’utero per capire come va la gravidanza. Le ecografie vanno bene, ma non devono essere troppe, perché i raggi possono fare male al bambino”. Nel corso del convegno la dottoressa Susanna Marongiu, presidente del Collegio delle Ostetriche, ha ripercorso il ruolo storico di questa figura. Una storia che non si legge nei libri ma nei ricordi delle persone. Quando la levatrice faceva nascere il decimo bambino dopo nove femmine, e lo alzava al cielo come un piccolo Mosè. “Ricordo che mia mamma – racconta la nonnina di Orgosolo – prima del parto mi faceva preparare ciò che serviva. Io passavo la cenere per disinfettare e la mettevo in un pezzo di carta. Poi preparavamo il sale, le forbici e un legaccio di tela per legare l’ombelico. Infine c’erano lo zucchero e il caffè, che non bevevamo perché era per le persone che ci assistevano e venivano a trovarci”. Oggi l’ostetrica è una figura professionale che assiste la donna prima, durante e dopo la gravidanza, in struttura pubbliche o private. “Ma dovremmo recuperare il nostro antico ruolo, cioè sostenere la donna, aiutarla a conoscere le sue capacità” dice Susanna Marongiu. Come recita un antico testo cinese del 500 a.C., che le levatrici recitavano prima del parto: “Se devi prendere decisioni fai che la madre sia aiutata, ma sempre libera e partecipe. Quando il bambino sarà nato, la madre dirà ‘L’abbiamo fatto noi’. C’è però qualcosa che da allora non è cambiato: il ruolo che il bambino appena nato ha nella coppia. Lo si capisce dalle parole di Ida Naldini “Un bambino che nasce unisce i genitori. Mi è capitato spesso di vedere padri che assistessero le mogli durante il parto. A me faceva piacere, perché l’uomo deve sapere quanto e che cosa soffre una donna quando deve mettere al mondo un bambino. È troppo bello quando una donna sta per partorire e c’è il marito vicino che l’assiste e la tiene per mano”. _____________________________________________ La Stampa 22 feb. ’06 TERAPIE TRA PLACEBO E NOCEBO ESISTE una miriade di terapie, non solo farmacologiche, ma anche fisiche, chirurgiche e psicologiche, che vengono somministrate nella routine medica e che inducono miglioramento, con piena soddisfazione del paziente. Ma funzionano davvero tutte? Se i pazienti stanno meglio, sembrerebbe proprio di sì, ma in realtà le ragioni di un miglioramento possono essere molteplici. Una delle prime cause è l'assunzione di una terapia quando il sintomo è nella sua fase calante. Immaginate di prendere uno sciroppo quando la tosse ha iniziato la sua fase di discesa. Se dopo 3-4 giorni la tosse scompare, siete portati erroneamente a pensare che lo sciroppo era davvero efficace, ma in effetti la tosse sarebbe scomparsa in ogni caso. In altre parole, avviene un'errata interpretazione della relazione causa-effetto. Per i non addetti ai lavori questa semplice spiegazione può sembrare fin troppo banale, ma in realtà è una delle cause più frequenti del perchè un sintomo si riduce e scompare, particolarmente per tutti quei prodotti da banco che si acquistano in farmacia e che crediamo facciano passare tosse, raffreddori, stanchezza e molto altro. Un'altra causa è il cosiddetto effetto placebo, il quale non è nient'altro che la riduzione di un sintomo al solo credere di assumere una terapia efficace. Se per far passare un mal di testa vi venisse dato un bicchiere di acqua fresca, facendovi credere che è un potente antidolorifico, il mal di testa in una buona parte dei casi passerebbe davvero. Ciò avviene perchè si entra in uno stato emotivo positivo, e questo determina nel cervello la liberazione di sostanze antidolorifiche naturali, le endorfine. Tutto quello che induce in noi aspettive positive di benessere è in grado di scatenare la liberazione di endorfine nel nostro cervello, per esempio un medico affabile, un'infermiera gentile, un ambiente ospedaliero che dà fiducia. In altre parole, il contesto intorno alla terapia gioca un ruolo fondamentale e può far la differenza nel risultato terapeutico. In effetti avviene anche il contrario, il cosiddetto effetto nocebo, in cui un sintomo può aumentare in un contesto negativo, per esempio, un medico sciatto e scortese, un'infermiera indifferente, un ambiente ospedaliero non adeguato. E' la colecistochinina, una molecola liberata nel nostro cervello, che è responsabile dell'effetto nocebo. Una delle prove più eclatanti che il contesto intorno alla terapia svolge un ruolo cruciale è data dalla somministrazione di una terapia di nascosto. Se una terapia viene somministrata senza che il paziente lo sappia, senza cioè un contesto intorno (nè medico, nè siringhe, nè pillole), la terapia risulta meno efficace. Immaginate di nascondere un antidolorifico nel cibo di un soggetto con mal di testa mentre sta mangiando. Se l'antidolorifico è veramente efficace, il fatto che il paziente sappia o non sappia di averlo preso non dovrebbe fare nessuna differenza. Molti farmaci funzionano solo quando il paziente sa di prenderli e ha quindi aspettative di beneficio terapeutico. Dimostrare che una terapia è veramente efficace non è dunque compito facile. Gli effetti di una terapia che assumiamo sono dovuti ad una miriade di fattori intorno alla terapia stessa ma, certamente, il contesto intorno al paziente può fare un'enorme differenza. [TSCOPY]Università di Torino[/TSCOPY] Fabrizio Benedetti _____________________________________________ La Stampa 22 feb. ’06 CELIACHIA, TANTE VITTIME del male degli spaghetti SU 400 MILA CASI SOLTANTO 55 MILA SONO DIAGNOSTICATI IN ARRIVO DUE ALTERNATIVE ALLA DIETA SENZA GLUTINE LA celiachia è un fenomeno in crescita continua: oggi, secondo l'Associazione Italiana Celiachia, nel nostro Paese ne soffrono 400 mila persone, delle quali solo 55 mila sono diagnosticate. E ogni anno si aggiungono almeno 5 mila nuove diagnosi. Le conoscenze sull’intolleranza al glutine hanno preso l’avvio solo mezzo secolo fa, grazie al pediatra olandese W.M. Dicke, il quale rilevò che durante la Seconda guerra mondiale, nel terribile inverno 1944-45, la scarsità di cereali aveva esercitato effetti benefici sui bambini colpiti da sintomi gastrointestinali acuti. Quando arrivarono gli aiuti americani e il pane fu reintrodotto, la loro sintomatologia peggiorò di nuovo. Il termine greco «koiliakos» fu introdotto da Celso nel I secolo a.C. per descrivere gravi malattie intestinali, tuttavia il trattamento della celiachia rimase empirico per secoli, fino a quando si scoprì che l'ingestione di alimenti contenenti glutine determina una reazione immunitaria a livello dell'intestino tenue e, quindi, una diminuzione dei villi intestinali (i villi e i microvilli aumentano e garantiscono la superficie d'assorbimento delle sostanze nutritive). Il glutine è un sistema colloidale complesso, formato da due proteine (la gliadina e la glutenina), che permettono alla farina di alcuni cereali (frumento, orzo, segale e farro) di distendersi e gonfiare sotto la pressione dell'anidride carbonica originata dalla fermentazione operata dal lievito. In chi è intollerante al glutine sono compromessi i geni del complesso HLA, che hanno la funzione di riconoscere le molecole estranee all'organismo. Quando questi geni condizionano la non corretta «presentazione» della gliadina ai linfociti T, questi scatenano una risposta immunologica alterata di tipo autoaggressivo. In altre parole, i linfociti T «gliadina specifici» producono una serie di sostanze - le citochine - responsabili delle lesioni intestinali come l'ipertrofia delle cripte e l'atrofia dei villi. La celiachia è un’emergenza particolarmente sentita in Italia, perché siamo i più forti consumatori di spaghetti e derivati (28 chili pro capite all'anno). Oggi, per confermare l'intolleranza, vanno eseguiti esami di laboratorio, che vanno alla ricerca di anticorpi anti-endomisio (una componente del tessuto intestinale) e anti-transglutaminasi. Fortunatamente esiste una vasta gamma di prodotti per celiaci che sostituiscono riso, mais e patate e presto saranno presentate due alternative alla dieta senza glutine: gli inibitori della zonulina (una proteina presente nella mucosa intestinale del celiaco che favorisce l'ingresso della gliadina) e un enzima prodotto dai lattobacilli, la prolilendo-peptidasi, in grado di aiutare la digestione della gliadina. Renzo Pellati _____________________________________________ La Stampa 22 feb. ’06 CHE ILLUSIONE IL BIODIESEL ANCHE LUI È INQUINANTE NUOVE RICERCHE: SONO MINIMI I VANTAGGI PER L’AMBIENTE E L’INTERA PRODUZIONE AGRICOLA VERREBBE STRAVOLTA I tagli di gas dalla Russia riportano l'attenzione sulle fonti energetiche. Dopo la scoperta che nei veicoli diesel l'olio di colza del supermercato può sostituire il gasolio, con risparmio di quattrini, è arrivato il motoscafo a olio di girasole, varato dalla Coldiretti nel lago di Como. Ma è davvero l'inizio di un avvenire luminoso? Il biodiesel è un carburante ottenuto per trasformazione chimica di oli vegetali in composti capaci di evaporare a temperatura più bassa e, quindi, vicina a quella di una parte degli idrocarburi che costituiscono il gasolio: gli oli vegetali, composti di trigliceridi, non possono far funzionare a lungo i motori diesel e, anzi, formano incrostazioni capaci di mettere il proprietario di fronte a un conto dell'officina assai salato. Già nel 2002 l'Agenzia Nazionale per la Protezione dell'Ambiente aveva pubblicato un paio di interventi. «Lo Stato farebbe meglio a riservare benefici fiscali alla produzione di biodiesel da soli scarti agricoli, qualora studi approfonditi dimostrassero la convenienza di quella strategia per il loro smaltimento - si osservava -. I benefici fiscali al biodiesel derivante da coltivazioni ad hoc sono da ritenersi un ossequio ingiustificato a una ideologia precostituita: insomma, una sorta di turbativa del mercato dei carburanti e uno spreco di denaro». Sempre nel 2002 Sergio Ulgiati dell'università di Siena faceva presente che, se il biodiesel dovesse costituire il 5% di una miscela con il gasolio, il consumo italiano costringerebbe la nostra produzione agricola a triplicare e a occupare il 50% di suolo in più. Nella migliore delle ipotesi crescerebbero del 20% l'acqua consumata e i pesticidi. Secondo un documento dello stesso anno del gruppo di supporto «Bioenergia» del ministero delle Politiche Agricole, inoltre, la produzione italiana di biodiesel richiedeva già allora l’import del 70% degli oli. È inoltre illusorio ritenere che un carburante di origine vegetale sia per forza un toccasana per l'ambiente. Va ricordato l'avvertimento di Alberto Girelli, ex direttore della Stazione sperimentale per i combustibili di San Donato Milanese: «Le emissioni del biodiesel non sono nel complesso assai migliori di quelle del gasolio debitamente raffinato». Accanto a buone qualità, quali l'assenza di zolfo e l'alto potere lubrificante, il biodiesel ne ha di sgradevoli: minore contenuto di energia e gas di scarico inquinati da formaldeide e acroleina. I carburanti diesel di origine vegetale emettono meno polveri e sono privi di idrocarburi aromatici, ma è ingannevole gabellarli come ecologici. Quindi, di fronte alla raccolta di firme della Coldiretti per una proposta di legge che promuova i biocarburanti, è meglio non illudersi e si spera che i governi non cedano alla demagogia, sostenendo battaglie sbagliate. [TSCOPY]Scuola Normale Superiore, Pisa[/TSCOPY] Gianni Fochi _____________________________________________ Repubblica 22 feb. ’06 Si chiamano plasmacellule e servono alla produzione di anticorpi I ricercatori del San Raffaele hanno scoperto come funzionano CELLULE SUICIDE PER DIFENDERCI Si autodistruggono dopo 5 giorni MILANO - Sono cellule "programmate" per autodistruggersi dopo massimo cinque giorni e il loro suicidio è necessario per difendere l'organismo. Si chiamano plasmacellule e il loro funzionamento è stato scoperto da un gruppo di ricercatori dell'ospedale San Raffaele di Milano in collaborazione con l'université de la Méditerranée di Marsiglia e con l'università di Brescia. L'importante scoperta, che fornisce utili indicazioni nella lotta al tumore, è in fase di pubblicazione sull'Embo journal, rivista che fa capo all'Organizzazione europea di biologia molecolare. Le plasmacellule sono il prodotto della mutazione dei linfociti B. Questo processo ha luogo ogni volta che l'organismo, dopo aver subito l'attacco di virus e batteri, ha bisogno di cellule in grado di produrre migliaia di anticorpi al secondo. Passati 4 o 5 giorni, durante i quali contribuiscono all'eliminazione dei virus, le plasmacellule vanno soggette a un meccanismo di autodistruzione. Infatti se continuassero a vivere potrebbero far insorgere malattie autoimmuni o addirittura tumori. Ma come funziona questo meccanismo di autodistruzione? Ebbene durante la produzione degli anticorpi si crea anche del materiale di scarto, che sarà poi smaltito da altre strutture cellulari chiamate proteasomi. Questi ultimi non riescono a eliminare tutte le scorie. Quelle rimanenti vengono assorbite dalle plasmacellule che così si "avvelenano" progressivamente, seguendo un processo chiamato apoptosi. E' così che le importanti cellule produttrici di anticorpi chiudono la propria esistenza, sacrificandosi per il benessere del corpo secondo una tempistica praticamente perfetta. Se infatti morissero troppo presto si fermerebbe la produzione di anticorpi e il corpo rimarrebbe senza difese; se morissero troppo tardi l'organismo sarebbe invece esposto ad altri rischi. "Questo è un processo perfettamente calibrato - spiega il ricercatore del San Raffaele Simone Cenci - infatti l'apoptosi scatta solo quando la giusta quantità di anticorpi è stata prodotta". Secondo Roberto Sitia, docente di biologia dell'università Vita-Salute san Raffaele, la conoscenza di questo meccanismo assume grande importanza se applicata alla lotta ai tumori. "I proteasomi delle cellule tumorali - spiega infatti Sitia - sono normalmente in grado di smaltire le scorie derivate dall'attività vitale della cellula. Ridurre o bloccare con i farmaci questa capacità significa indurre artificialmente nelle cellule tumorali il meccanismo di suicidio programmato". Questa scoperta, oltre a rappresentare una conquista sul piano della conoscenza del nostro organismo, potrebbe anche avere degli importanti risvolti nella lotta al tumore. L'unico problema, fa sapere il professor Sitia, è che "saranno necessari ancora anni per avere delle ricadute nella pratica clinica". _____________________________________________ Corriere della Sera 24 feb. ’06 VIAGRA: POTREBBE AIUTARE NEL MORBO DI CROHN Se la terapia funziona forse tramonterà l'ipotesi autoimmune La scoperta, oepra di ricercatori inglesi, potrebbe innescare una vera rivoluzione nello studio delle cause della malattia STRUMENTI LONDRA - Il Viagra non finisce di stupire. La celeberrima pillola blu, che, va ricordato, era nata come antipertensivo, pare proprio destinata alla «serendipità», cioè alla scoperta casuale di indicazioni impreviste. SORPRESA - Questa volta la sorpresa è che aiuterebbe i malati affetti dal Morbo di Crohn a contrastare le infiammazioni e le ulcere intestinali che li colpiscono. A scoprirlo sono stati i ricercatori dell'University College di Londra, convinti che il Morbo di Crohn non sia causato da un sistema immunitario iperattivo, bensì depresso. Secondo gli scienziati britannici, che hanno pubblicato la loro scoperta sulla rivista «The Lancet», all'origine della malattia ci sarebbero difese naturali troppo «deboli, incapaci di distruggere gli eventuali batteri che penetrano nell'intestino e che scatenano l'infiammazione». Ed è qui che interverrebbe il sildenafil (nome scientifico del Viagra), che aumentando il flusso sanguigno, richiamerebbe i globuli bianchi proprio dove i batteri hanno innescato l'infiammazione. VERIFICA - Per verificare l'esattezza delle loro intuizioni, i ricercatori hanno misurato la risposta immunitaria in pazienti con il Morbo di Crohn e persone sane, provocando loro piccole infezioni da abrasioni. Così, hanno scoperto che nel malati venivano prodotti molti meno globuli bianchi, ma anche sostanze chimiche legate al processo infiammatorio dovuto all'infezione. Gli studiosi, poi, hanno iniettato una forma innocua del batterio Escherichia coli sotto pelle. La sua presenza ha causato un aumento del flusso sanguigno nel campione sano, ma scarsi risultati nei malati. È a questo punto che gli scienziati hanno usato il sildenafil, osservando come il flusso sanguigno nella zona infetta da scarso tornava a essere simile a quello di persone sane. «Ecco perchè chi ha il morbo di Crohn registra dei miglioramenti se usa farmaci che generalmente vengono prescritti ai malati di cancro per far aumentare loro i globuli bianchi», dice Alastair Forbes, direttore della Fondazione britannica Core per lo studio dei disordini intestinali. «Se fosse stata una malattia autoimmune - aggiunge - avremmo dovuto registrare un peggioramento della situazione». In ogni caso, tutti i ricercatori concordano sul fatto che «le cause che scatenano il Morbo di Crohn restano sconosciute, al di lá della predisposizione genetica». _____________________________________________ Corriere della Sera 24 feb. ’06 I risultati di uno studio pubblicato dall’European Journal of Cancer «L’OMEOPATIA NON HA EFFETTI CONTRO I TUMORI» Ricercatori britannici hanno incrociato i dati di 55 sperimentazioni cliniche condotte negli ultimi anni (non sempre in modo rigoroso). MILANO - Non ci sono prove che l’omeopatia abbia qualche effetto nei confronti del cancro. La rivista European Journal of Cancer pubblica in questi giorni l’ennesima dimostrazione dell’inefficacia della controversa disciplina, in cui però moltissime persone continuano a credere, anche in assenza di prove scientifiche che ne dimostrino alcun tipo di effetto. Nell’ambito dello studio i ricercatori della Peninsula Medical School dell’Università di Plymouth, in Gran Bretagna, hanno effettuato un’analisi dei risultati di 55 sperimentazioni cliniche condotte negli ultimi anni, e alla fine ne hanno selezionati solo sei che rispondevano a una serie di criteri molto rigorosi (tutti questi studi avevano analizzato gli effetti dell’omeopatia da sola o in aggiunta ad altre cure). L’esito finale è stato che soltanto due sperimentazioni mettevano in evidenza qualche effetto positivo, ma anche in questi casi, come negli altri, la qualità e la quantità dei dati disponibili erano così scadenti che non era possibile sbilanciarsi più di tanto. Per questo, hanno raccomandato i ricercatori britannici, è indispensabile condurre al più presto studi rigorosi e di grandi dimensioni, che permettano di trarre conclusioni scientificamente inattaccabili. I RIMEDI ALTERNATIVI Tutto ciò è ancora più urgente se si pensa che, sempre secondo lo studio, l’omeopatia è la terapia complementare più praticata in sette dei 14 Paesi europei studiati. Quest’ultimo dato conferma quelli contenuti in un’altra indagine resa nota qualche settimana fa, e dedicata alla diffusione delle terapie complementari e alternative (in sigla: CAM) nei Paesi europei. Secondo quanto pubblicato sugli Annals of Oncology, in Europa un malato di cancro su tre (ma addirittura tre su quattro, in Italia) ricorre, in modo più o meno regolare, a terapie complementari per curare la malattia. Il tutto all’insaputa dei propri medici curanti e per lo più dietro suggerimento di un conoscente. Lo scopo, nella maggior parte dei casi, è quello di migliorare la qualità della propria vita e di contrastare i possibili effetti collaterali delle cure tradizionali. Questo studio è stato al centro della discussione durante un convegno sulle terapie complementari e alternative in oncologia che si è svolto a dicembre all’Istituto superiore di sanità (Iss), nel quale sono stati presentati anche i risultati altre indagini, tra cui una rilevazione nazionale condotta tra il 2001 e il 2002 dall’Iss nell’ambito del “Progetto terapie non convenzionali” coordinato da Roberto Raschetti, in collaborazione con il Centro di riferimento oncologico di Aviano (Pordenone). PIANTE MEDICINALI E TERAPIA DI BELLA L’indagine ha preso in esame quasi 500 pazienti reclutati tra Aviano, Trento, Cosenza e Roma, e ha confermato che le CAM più amate sono quelle a base di piante medicinali. In seconda posizione c’è l’omeopatia, seguita da diete speciali, dalla pranoterapia, dalle terapie psicologiche, dalla multiterapia Di Bella (ancora richiesta e praticata nonostante l’esito negativo delle sperimentazioni ufficiali), dall’agopuntura, dalle tecniche energetiche, dalle manipolazioni, dall’iridologia, da varie medicine che traggono spunto da religioni, dalla cristalloterapia e dallo yoga. In quest’insieme di tecniche i pazienti cercano risposte diverse. Molti (circa il 50 per cento del campione) vogliono contrastare gli effetti delle chemioterapie; altrettanti migliorare il proprio benessere. Circa uno su quattro ricorre a una CAM perché è una terapia che corrisponde alle proprie convinzioni religiose o filosofiche. Meno di uno su dieci, infine, si rivolge alle CAM perché non si fida dei trattamenti ufficiali. «Questa risposta dimostra che i malati italiani hanno abbastanza fiducia nella medicina ufficiale, anche se spesso cercano in una CAM qualcosa che, evidentemente, noi non sappiamo offrire - commenta Umberto Tirelli, direttore dell’Unità operativa di oncologia medica del Centro di riferimento oncologico di Aviano. - E’ dunque necessario interrogarsi sulle nostre carenze e definirle meglio, con strumenti come il questionario utilizzato in questo studio. Va però sottolineato che anche i malati devono fare la loro parte e, soprattutto, essere consapevoli dei rischi che corrono. Di fatto non esistono studi scientifici che dimostrino alcun effetto rilevante per una CAM, e per questo noi medici non possiamo in alcun modo appoggiare una terapia che non conosciamo, ma dobbiamo limitarci a dire la verità. Inoltre - continua Tirelli - la letteratura e l’esperienza dei clinici riportano, purtroppo, molti casi di persone che, tenendo nascosto al proprio medico curante la CAM assunta, hanno vanificato gli sforzi fatti, per esempio perché i farmaci antitumorali non hanno funzionato a dovere, o perché una CAM ha determinato veri e propri danni. Le terapie antitumorali vengono studiate per anni e messe a punto con dosaggi molto precisi, che tengono conto di tantissime variabili. Se però ci sono interferenze da parte di altre sostanze, nessuno può sapere quale sarà l’esito finali , perché nella stragrande maggioranza dei casi non ci sono dati attendibili». NON TENERE ALL'OSCURO IL PROPRIO MEDICO I malati si rendono conto che il panorama non è del tutto chiaro, come dimostra il fatto che ben il 66 per cento degli intervistati si augura che vi sia una collaborazione più stretta tra medicina ufficiale e CAM. Ma anche gli oncologi sperano che la situazione possa cambiare. Conclude infatti Tirelli: «I medici devono migliorare il rapporto con i propri pazienti, e questi ultimi, dal canto loro, devono parlare di più dell’argomento, informando il curante. Inoltre le aziende produttrici delle CAM hanno l’obbligo morale di effettuare le sperimentazioni necessarie, per capire quali possono essere le “interferenze” con altri farmaci. Le istituzioni, dal canto loro, devono finanziare almeno in parte tali ricerche, come stanno facendo i National Institute of Health statunitensi tramite un’agenzia creata ad hoc. Solo così le CAM potranno essere utilizzate da chi lo desidera in modo opportuno e senza correre inutili rischi». S.C.