CORSI DI LAUREA E PROFESSIONI SANITARIE AA 2006/2007 - AUTORITY PER LA RICERCA - MAXIA: IL "3+2" ALL'UNIVERSITÀ RIFORMA FALLITA - IL VENTO DEL NORD SOFFIA SULLA CRUI - I PRECARI? NON SONO AUMENTATI - L’UNIVERSITÀ COMINCIA A 40 ANNI - MISTRETTA UFFICIALIZZATA LA CANDIDATURA - UN ALGORITMO PER VALUTARE LA SCIENZA - LA LINGUA SARDA È MORTA DA 600 ANNI - LE RETI A PROVA DI EMERGENZA - UN CONSORZIO PER GESTIRE LE DORSALI WEB - LA FRANCIA ACCELERA SULLA RICERCA - ======================================================= LA SAPIENZA: FABBRICA" DEI BREVETTI MEDICI - SANITÀ PRIVATA, INTERVENGA LA REGIONE - GUMIRATO: LA CRISI DELLE CLINICHE È TUTTA COLPA DEGLI IMPRENDITORI - PSICHIATRIA: BASAGLIA DOCET MA A BERLINO È MEGLIO - TALASSEMICI: I RISARCIMENTI PER I CASI DI EPATITE - IL CUORE DEI BAMBINI E I CONTI ECONOMICI - PRONTO SOCCORSO: NUOVE RICETTE E VECCHIE EMERGENZE - SANITÀ, «QUEL MANAGER SARÀ NOMINATO» - ASL 5 OK ALLA VENDITA DEL PATRIMONIO IMMOBILIARE - SASSARI: AL POLICLINICO POCHI ANESTESISTI: NON SI OPERA - AIDS, I FARMACI CHE BLOCCANO LA REPLICAZIONE VIRALE - BIOMEDICALE, È ALLARME ROSSO "ITALIA LEADER, MA IN AFFANNO" - MALATTIE INVENTATE, IL BLUFF DELL'INDUSTRIA FARMACEUTICA - DALL'EREZIONE ALLA DEPRESSIONE - OCCHIALI DA SOLE: RISCHI PER ANZIANI E BAMBINI - FARMACI, CODICE A BARRE PER EVITARE IL RIGETTO - PILLOLA KILLER DELLA CELIACHIA. NELL’ISOLA DUEMILA CASI - CANCRO, I PROGRESSI - TERAHERTZ PER "VEDERE" I TUMORI DEL SENO - PREGHIERA A MANI GIUNTE SI GUADAGNA IN SALUTE - GLI ITALIANI SOFFRONO TROPPO - LA GUERRA DEL FETO - ======================================================= ___________________________________________________________ ACCESSO AI CORSI A NUMERO PROGRAMMATO LAUREE SANITARIE CORSI FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA A.A. 2006-07 Il Miur ha stabilito le modalità e le date degli esami di ammissione Corsi di laurea e di laurea magistrale ad accesso programmato a livello nazionale Medicina e Chirurgia 5 settembre 2006 Odontoiatria e Protesi dentaria 6 settembre 2006 Medicina veterinaria 7 settembre 2006 Professioni sanitarie 8 settembre 2006 Scienze della formazione primaria 11 settembre 2006 Cambia la data di Odontoiatria che viene riportata a settembre (l’anno scorso si è svolta il 20 Luglio) Resta la graduatoria Nazionale per odontoiatria Cambia la ripartizione degli argomenti degli 80 quiz Logica e cultura generale 33 invece di 26 Biologia 21 invece di 18 Chimica 13 invece di 18 Fisica e Matematica 13 invece di 18. Scuole di specializzazione per l'insegnamento secondario Economico e Giuridico 14 settembre 2006 Sanitario e della Prevenzione 15 settembre 2006 Lingue Straniere 18 settembre 2006 Scienze Naturali 20 settembre 2006 Fisico Informatico Matematico 22 settembre 2006 Linguistico letterario 25 settembre 2006 Scienze Umane 26 settembre 2006 Tecnologico 27 settembre 2006 Musica e Spettacolo classi - 31A e 32A 28 settembre 2006 Storia dell'arte - Classe 61/A 29 settembre 2006 Il decreto stabilisce che anche quest’anno le prove di ammissione ai corsi di laurea specialistica in Medicina e Chirurgia, in Odontoiatria e Protesi Dentaria e in Medicina Veterinaria, di contenuto identico sul territorio nazionale, siano predisposte dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca (M.I.U.R.). Il MIUR provvede, infatti, attraverso una commissione di esperti, a definire i quesiti oggetto delle prove e a predisporre i plichi, ove gli stessi sono contenuti, che vengono consegnati ai singoli studenti al momento delle prove stesse. Nel provvedimento vengono stabiliti gli argomenti d’esame, il numero dei quesiti, i programmi relativi a ciascun argomento; la data di effettuazione e l’orario di inizio delle singole prove, nonché i criteri per la loro valutazione. Quesiti e statistiche nazionali degli anni precedenti possono essere consultati nella pagina: Quesiti: http://pacs.unica.it/quiz/quiz.htm Statistiche Medicina http://pacs.unica.it/graduatorie/statsmed.htm Statistiche Odontoiatria http://pacs.unica.it/graduatorie/statsodo.htm Ogni prova è contraddistinta con un codice di riferimento che ogni studente deve conservare al fine di poter seguire tutte le fasi del procedimento. Il MIUR, infatti, provvede anche alla determinazione del punteggio di ogni prova che viene pubblicato sul sito unitamente al codice corrispondente. Relativamente all’anno accademico 2005-2006 il decreto ha stabilito che a conclusione della prova di ammissione al corso di laurea specialistica in Odontoiatria e Protesi Dentaria, fosse redatta una graduatoria nazionale sulla base della posizione di merito raggiunta dai singoli candidati. La conseguente assegnazione degli studenti in una sede universitaria è avvenuta nei tempi ed in relazione alle procedure stabilite nello stesso decreto. http://www.miur.it/0002Univer/0023Studen/0058Access/index_cf2.htm ____________________________________________ Il Sole24Ore 28 apr. ’06 AUTORITY PER LA RICERCA Presentati i progetti inizia la fase di valutazione ' Sui criteri di selezione i pareri sono discordanti Per l'economia Fitoussi invita a noi cadere nel «pensiero unico» DI MARIA CRISTINA MARCUZZO E FERNANDO VIANELLO Nell'ultima decade di aprile i docenti universitari italiani si sono dedicati al periodico tour de force rappresentato dalla stesura dei «progetti di ricerca di rilevante interesse nazionale» da sottoporre al ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca (Miur) per concorrere all'assegnazione dei necessari finanziamenti. La selezione dei progetti da finanziare - dispone i1 Dm 24 marzo 2006 - è affidata a una «commissione di garanzia» composta da 14 membri. Ciascuno di essi presiede una «sezione di studio» relativa a una particolare area disciplinare. Insieme con il presidente fanno parte della sezione un numero variabile (da 3 a 10) di esperti. Questi ultimi «vengono nominati dal Miur, che si avvale a tali fini del Civr». L'ultima sigla sta per Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca. Visto il ruolo cruciale che a tale organismo viene affidato, vale forse la pena di ritornare sulla questione del suo funzionamento. Lo faremo con riferimento a un'area disciplinare - l'economia politica - che è stata al centro di un'accesa controversia all'interno del Comitato che ha avuto per protagonisti Luigi Pasinetti e Guido Tabellini. Sulla base delle risposte fornite da referees esterni, il panel di esperti (come allora si chiamava) doveva collocare ciascun lavoro lungo una scala valutativa che andava da "eccellente" a "limitato", passando per "buono" e "accettabile". Ma ci si è subito imbattuti in una difficoltà. In base a quali criteri è possibile stabilire una gerarchia qualitativa fra lavori appartenenti a filoni di ricerca disparati, e che seguono impostazioni teoriche e impiegano metodologie fortemente dissimili? Il punto di vista che ha prevalso, nonostante l'opposizione di Pasinetti, è quello della semplificazione. Esiste un modo corretto di fare ricerca, quello che si pratica nelle grandi università americane. Esistono le buone riviste, che fanno fede dell'eccellenza di quel che vi si pubblica. Perché discutere quel che è inoppugnabile? Il punto di vista sconfitto è stato quello della complessità, secondo il quale esiste; in economia politica- una pluralità irriducibile di modi di fare ricerca, nessuno dei quali è a priori migliore degli altri. Ci aiuteremo con due esempi. Il primo. Non molto tempo fa il membro italiano del Comitato esecutivo della Bce, Lorenzo Bini Smaghi, ha dichiarato a «Die Leit» Che un aumento dei salari tedeschi in linea con la produttività sarebbe stato d'aiuto per far ripartire i consumi. Nella polemica che ne è seguita. il quotidiano economico Handelsblati» ha accusato Bini Smaghi di impiegare nei suoi ragionamenti un armamentario economico rimasto fermo agli anni 60. Ma le idee prevalenti negli mini 60 sono necessariamente peggiori di quelle in auge all'inizio del Duemila? Può darsi che per le scienze naturali sia cosi. Ma si può dire lo stesso per la storiografia. per la filosofia morale o per l'economia politica? La teoria keynesiana - cui sembra ispirarsi la dichiarazione di I3iiú Smaghi -- ha dapprima sbaragliato vecchi e consolidati modi di pensare, ma questi hanno in seguito ripreso il sopravvento con la restaurazione monetarista dell’ultimo quarto del Novecento. Un tale doppio mutamento di prospettiva dovrebbe incrinare la fiducia nel carattere unidirezionale del percorso dell'economia politica e consigliare un po' di prudenza. Secondo esempio. Quarant'anni fa le critiche portate da Piero Sraffa alla costruzione teorica marginalista erano accettate perfino da Paul Samuelson. Oggi tutto ciò appare dimenticato e i vecchi strumenti vengono impiegati senza vergogna dai più stimati economisti. E u» progresso o un regresso? Le voci critiche trovano sempre meno spazio nelle buone riviste, e si afferma progressivamente quello che JeanPaul Fitoussi (membro del panel del Civr per l'economia politica e sostenitore in quella sede della battaglia pluralista di Pasinetti) ha chiamato, con riferimento agli indirizzi di politica economica_ il «pensiero unico». Dove nel nostro caso l'unicità non si riferisce, naturalmente. alle tesi sostenute, ma al paradigma teorico e metodologico. Ma ora il pericolo è che, per la prima volta io) Italia, l'unicità del modo di fare ricerca venga istituzionalmente sanzionata. E che da una simile sanzione vengano fatti dipendere i finanziamenti alla ricerca. Li questo modo la semplificazione del pensiero produce la semplificazione della realtà: anziché assumere il pluralismo come ricchezza da tutelare, si promuove il conformismo. Siamo favorevoli a un'attenta valutazione della ricerca. Ma a condizione che l'organismo a essa preposto (meglio sarebbe un'Authority indipendente. come da qualche parte si propone) sia in grado di elaborare strumenti di valutazione articolati, capaci di garantire pari dignità alle diverse impostazioni teoriche e di tener conto della specificità dei diversi ambiti di ricerca: da quelli prettamente teorici a quelli di natura storico dottrinale. a quelli prevalentemente empirici. È nel merito che si giudica la bontà della ricerca scientifica. e non sulla base dell'adesione al paradigma dominante e del tipo di riviste cui tale adesione garantisce l'accesso: non ci sono scorciatoie che possano evitare la fatica dei pensiero. ____________________________________________ Il Mondo 5 Mag. ’06 IL VENTO DEL NORD SOFFIA SULLA CRUI DI FABIO SOTTOCORNOLA È in calendario per giovedì 18 maggio l'assemblea generate delta Crui, l'associazione che riunisce i rettori italiani, per eleggere il nuovo presidente dopo l'uscita di scena di Piera Tosi (ex numero uno di Siena). Alla votazione arriva da super favorito Guido Trorrrbetti; matematico napoletano a capo della Federico II, il più grande ateneo della città: Critico con le scelte del ministro Letizia Moratti, vicino ai Ds e socio dei Rotary club Napoli, i! rettore si è fatta apprezzare in università anche dagli ambienti cattolici. Allora è tutto già deciso? Per niente: nelle ultime settimane, infatti, sul suo nome sono emerse dette riserve; ma non politiche, ideologiche o accademiche. Trambetti divide i capi delle università in quanto meridionale. Sta nascendo infatti un asse lambardo-veneto che vuole a capo delle università un uomo dei Seitentrfane. In nome di una specie di nordismo accademico, gli atenei piccoli e di provincia sono contrari a Trombetti. Fenomeno importante: infatti 3n queste regioni sono presenti circa 20 università sulle 77 nazionali. Siccome vince, per statuto Crui, chi ottiene la maggioranza assoluta dei presenti nette prime tre votazioni con eventuale ballottaggio al quarto turno, la coalizione dei settentrionali potrebbe capovolgere i pronostici, Il loro candidato ideate è Enrico Deeleva (Statale di Milano), ex socialista, mai troppo duro con la Moratti, che alcuni mesi fa si era chiamato fuori dalla battaglia. Su di lui adesso c'è un forte pressing, in particolare dei rettori lombardi, per farlo uscire allo scoperto. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 22 apr. ’06 IL "3+2" ALL'UNIVERSITÀ RIFORMA FALLITA, STUDENTI BEFFATI DI SANDRO MAXIA* Tra gli esempi di quello che i filosofi chiamano eterogenesi dei fini, uno dei più impressionanti, anche perché è ancora sotto i nostri occhi, è dato dagli esiti della riforma universitaria detta del "3+2": ottime intenzioni, pessimi risultati. Il fenomeno dei fuori corso che si voleva combattere è più vivo che mai; la qualità degli studi è indubbiamente scaduta (anche per effetto dello spezzettamento delle discipline indotto dal sistema dei "crediti", sicché, tanto per fare l'esempio della mia Facoltà, Lettere e Filosofia, al posto dei venti esami della laurea "vecchio ordinamento", ora gli studenti ne devono sostenere circa un terzo in più); il sistema riformato del reclutamento dei docenti non ha reclutato un bel nulla, essendosi risolto in un generale avanzamento di carriera di quanti già appartenevano a qualsiasi titolo al personale in servizio. La "riforma" suscitò da subito molte critiche, restate però allo stadio di mugugni. La massa dei docenti, allettata dall'offa dell'avanzamento di carriera, inghiottì il grosso rospo, con uno spirito gregario che non cesserà mai di stupire un osservatore che mantenga la sua lucidità critica e autocritica. Poche furono, al momento del varo della "riforma", le voci di dissenso esplicito, tanto autorevoli quanto inascoltate (qualche nome: Eco, Segre, Canfora, Panebianco, Sylos Labini, Giavazzi...). Le tristi previsioni da loro avanzate trovano ora un riscontro drammatico nella svalutazione del titolo triennale, che non dà accesso alle professioni che davvero contano, risolvendosi di fatto in un nuovo inganno per i giovani dei ceti meno abbienti. È oramai generalmente ammesso che le professioni si trasmettono di padre in figlio, sotto l'occhio vigile degli albi professionali. Ora però si è passati dalla svendita sotto costo alla laurea in offerta speciale, come il "Corriere della Sera" del 22 marzo scorso intitolava un'inchiesta di Gian Antonio Stella, tramite la quale viene documentata la gara al ribasso iniziata da alcune Università (spesso le ultime arrivate, come quelle "telematiche", davvero ai limiti della truffa) alla ricerca di "clienti" da spremere in cambio ? qui la frase fatta è da prendere alla lettera - del pezzo di carta. Secondo Stella però nessuna delle dette Università «ha messo all'amo le esche che ha messo la "Libera Università San Pio V" di Roma nella convenzione firmata con il Ministero degli Interni». Nata nel 1996, finanziata sontuosamente (e illegalmente, se consideriamo ancora in vigore la nostra Costituzione) dal ministro Moratti, illustrata da insegnanti della stazza di Buttiglione, Andò, Adornato, eccetera, l'Università, che si dice vicina all'Opus Dei e alla ciellina Compagnia delle Opere, offre ai dipendenti di "area B" (gli "impiegati di concetto", per intenderci) una laurea triennale in Scienze politiche e sociali scontata di 12 esami, tra i quali diritto pubblico, privato, amministrativo. Ancora più ghiotta, dice Stella, l'offerta agli impiegati di "area C" (funzionari e direttori di sezione, posti per i quali era richiesta la laurea già da prima, e dunque occupati abusivamente): a costoro vengono abbuonati 18 esami, cioè tutti quelli che caratterizzano un corso di studi a carattere politico-giuridico (tra i 7 da sostenere brillano Sociologia della devianza, Pedagogia sociale, Geopolitica). Resta solo da chiedersi se si tratta di concorrenza sleale o addirittura di dumping... Sono per ora casi limite, d'accordo. E forse può venirne addirittura del bene, se questa corsa scellerata al ribasso darà fiato a quanti invocano l'unico rimedio possibile allo stato delle cose: l'abolizione del valore legale dei titoli di studio. *Docente nell'Università di Cagliari ____________________________________________________________ Corriere della Sera 26 apr. ’06 I PRECARI? NON SONO AUMENTATI COSI’ SI AIUTANO GLI ULTIMI DELLA FILA Tra il 2001 e il 2005 stazionaria la quota di contratti a termine Sta sbagliando bersaglio chi mette sotto accusa la legge Biagi di PIETRO ICHINO Qualche giorno fa in un talk-show televisivo abbiamo sentito un autorevole membro del governo uscente affermare che il merito di un milione e mezzo di nuovi posti di lavoro creati in Italia nel corso dell'ultima legislatura sarebbe della legge Biagi; e abbiamo sentito un autorevole esponente della nuova maggioranza replicare che la legge Biagi sarebbe, piuttosto, la causa principale dell’aumento del lavoro precario. Nessuna delle due affermazioni è seriamente sostenibile, se si ragiona sui dati disponibili. I dati Istat riportati qui sopra dicono due cose. La prima è che il forte aumento dell’occupazione complessiva in Italia ha avuto inizio nel 1998, ha raggiunto la sua punta massima del +2,6% nel 2001 ed è poi proseguito dal 2002 al 2005 in modo assai meno marcato; se bastasse (ma non basta) la coincidenza temporale per individuare gli effetti prodotti dalle leggi sull’occupazione, il merito di quell’aumento parrebbe dover essere attribuito al «pacchetto Treu» del 1997 molto più che alla legge Biagi del 2003. La seconda cosa che si trae da quei dati è che la quota dei contratti a termine rispetto al totale dell’occupazione è aumentata — di circa due punti, dal 12% al 14% — nel corso degli anni ’90, ma non nel corso dell’ultima legislatura: la riforma del 2001, varata in accordo con Cisl e Uil e respinta dalla Cgil, non ha prodotto per nulla gli effetti di liberalizzazione dei contratti a termine preconizzati allora dal governo Berlusconi. Degli effetti delle leggi dell’ultima legislatura sulle collaborazioni autonome continuative, sostituite dal nuovo «lavoro a progetto», abbiamo già scritto nei giorni scorsi: la materia non è stata certo liberalizzata, ma regolamentata in modo più stringente. Neppure questa forma di lavoro precario ha comunque fatto registrare un’espansione negli ultimi due anni: semmai il contrario. Quanto al «lavoro a chiamata» e al «contratto di inserimento», essi sono stati quasi del tutto ignorati dalle imprese. La sola conclusione che può trarsi dall’insieme di questi dati è che le misure di politica del lavoro adottate dal governo Berlusconi non hanno prodotto né gli effetti di liberalizzazione del mercato attribuiti loro dal governo stesso, né quelli di precarizazione del lavoro attribuiti loro dall’opposizione. Come per un verso si può escludere che quelle misure abbiano segnato un miglioramento decisivo nelle performances del nostro mercato del lavoro, per altro verso, piaccia o no, si deve escludere che il fenomeno del lavoro precario ne sia stato causato o favorito in modo apprezzabile (alla stessa conclusione arriva, sulla base di dati di fonte in parte diversa, Luca Ricolfi nel suo ultimo libro Tempo scaduto , edito dal Mulino). Resta da chiedersi perché il precariato sia oggi percepito diffusamente come problema più grave rispetto al passato, visto che la statistica non ne conferma un aumento complessivo rilevante. È ben vero che, secondo gli ultimi dati forniti dalla Banca d’Italia, di coloro che sono passati dal non lavoro nel 2004 a un lavoro dipendente o autonomo nel 2005, il 40,5% l’ha trovato nella forma del contratto a termine, del lavoro interinale o del lavoro a progetto: percentuale che era andata lentamente crescendo negli ultimi anni. Ma se la quota complessiva di quei contratti di lavoro precario resta contenuta ben al di sotto del 20% del totale, questo significa che in due casi su tre (se non tre su quattro) essi si trasformano abbastanza rapidamente in lavoro a tempo indeterminato. Il problema è che dei casi in cui il lavoro precario funge effettivamente da canale di accesso al lavoro stabile nessuno parla: quelli che «fanno notizia» sono solo i casi in cui questo non accade, in cui il lavoratore resta impigliato a lungo nella trappola del lavoro precario. Ora, può essere che la quota dei «precari impigliati» rispetto al totale sia aumentata più di quanto sia aumentato complessivamente il lavoro precario; ma se questo è il problema, esso non nasce né dalla legge Treu né dalla legge Biagi: esso nasce invece dall’aumento delle disuguaglianze di produttività tra gli individui nella società postindustriale, cui le imprese reagiscono aumentando le disparità di trattamento. Questo problema può essere affrontato soltanto col rafforzare professionalmente i più deboli, o aiutarli a trovare la collocazione in cui possono rendere di più (ciò per cui una fase di maggiore mobilità all’inizio della carriera lavorativa è indispensabile); mentre aumentare il costo del loro lavoro rischia di condannarli alla disoccupazione. Ridurre drasticamente la possibilità di lavoro a termine o aumentarne il costo — come si propone ora di fare il nuovo governo — può solo rendere la vita più difficile alla parte più debole dei giovani che si affacciano sul mercato. Non dobbiamo dimenticare che nel 1977, quando l'alternativa era soltanto tra il lavoro stabile e la disoccupazione, il contratto di formazione e lavoro (sostanzialmente un contratto a termine, della durata di uno o due anni, con retribuzione ridotta) venne introdotto per iniziativa del sindacato e delle forze politiche di sinistra, proprio per favorire l’accesso dei giovani. E nell’ultimo ventennio attraverso quella «porta» sono passati ogni anno centinaia di migliaia di ragazzi, dei quali — qui i dati disponibili parlano chiarissimo — più di due terzi hanno visto il contratto a termine trasformarsi, alla sua scadenza, in contratto di lavoro ordinario. Il nuovo governo farà bene a non dimenticare quell’esperienza. ____________________________________________ Io Donna Corriere della Sera 29 apr. ’06 L’Università comincia a 40 anni Li chiamano "studenti maturi", sono 255 mila, è i1 nuovo target d'oro dei piccoli atenei. C'è chi vuole laurearsi in nome della carriera e chi torna sui libri solo per passione. Sperando di farcela. Prima dei figli di Sandra Mangiaterra - Foto di Ferdinando Scianna o chiama un colpo di vita: «A furia distare con tutti questi professori e studenti, o scappavo 0 mi iscrivevo». Si è iscritta. E cosi, a 43 anni, Flora Bianchi si ritrova ogni giorno a saltellare dalla scrivania al banco: dopo sei anni di lavoro come segretaria dei dipartimento di Sociologia dell'università Bicocca di Milano, ha deciso di frequentare scienze del turismo. «È solo questione di fare uno, o due piani, appena passa chiedo qualche ora di permessa e seguo spezzoni di lezione». Presa la decisione, quest'estate ha rispolverato il sua diploma di liceo artistico, si è messa in coda per presentare fa domanda di iscrizione davanti alla collega della segreteria matricole, ha partecipata ai test di ammissione arrivando centosedicesima (su 150 posti e oltre 300 candidati). Da dicembre, poi, i primi esami, «con un bel 18 in organizzazione e logistica, ma anche un 30 in geografia storica del turismo». Certo, il tempo è un problema: «Mi alzo alle sei di mattina, apra i libri nei ritagli di tempo e nei fine settimana. Mio marito mi prende in giro: "Brava, allora studi davvero». Meno che mena ha idea di che cosa farà da grande. La casa certa è una sala: «Sono contentissima». Brava Flora E non è l'unica. Anzi. È in compagnia di 255 mila ultratrentenni iscritti negli atenei italiani. La solita piaga dei fuori corso? Quelli rimangono, ma il fenomeno nuova è un altro: il boom dei cosiddetti "studenti maturi" . Gente che ritorna a studiare a 30 e 40 anni per finire una facoltà interrotta, ma anche per iniziarne una nuova (poco meno di 28 mila i neoiscritti quest'anno). Uomini e donne che vogliono migliorare la loro posizione lavorativa oche scelgono un corso che con il lavoro non ha nulla da spartire, per pura passione. «Si profila un nuovo target di studenti» spiega Luigi Biggeri, presidente dell'Istat e del Comitato nazionale per fa valutazione dei sistema universitario. «A favorirlo è stata la riforma dei tre anni più due e la moltiplicazione dell'offerta: oggi ci sono corsi per tutti i gusti. La riforma, pur al centro di molte critiche, va senz'altro incontro a chi è già inserito nel mondo del lavoro. Un bel risultato, in un paese come il nostro, dove il concetto di educazione permanente non si sa che cosa significhi, o quasi». Riforma universitaria, possibilità di convalidare gli esami sostenuti dieci o venti anni fa, riconoscimento dell'attività professionale all'insegna dello slogan "laureare I'esperienza", convenzioni tra atenei ed enti o ordini professionali (dai giornalisti ai ragionieri commercialisti): qualcuno storce il naso e grida alla fabbrica delle lauree. Biggeri sposta il tiro: «La verità è che la società è cambiata. Oggi, pure tra i più giovani, sono di più gli studenti lavoratori che quelli a tempo pieno. Ben vengano gli ultratrentenni. Solo che il sistema universitario dovrebbe accorgersi di loro. E organizzarsi anche per loro». Qualcosa si sta muovendo. L'università della Valle d'Aosta, per esempio, che secondo i dati del Miur (ministero dell'istruzione, università e ricerca) riferiti all'anno accademico 2005-2006, con il suo 28,8 per cento ha il record di matricole ultratrentenni (seguita da quella del Molise e di Camerino). «È stata una sorpresa anche per noi» spiega il rettore, Pietro Passerin d'Entrèves. «Abbiamo scoperto che c'era un bacino d'utenza inesplorato. Cosi abbiamo deciso di attivare corsi serali, le biblioteche restano aperte fino alle 22, i professori ricevono nei weekend. Sono costi forti, ma finora ne è valsa la pena». Lo conferma Daniela Bredy, 32 anni, single, maestra di scuola materna di Excenex, che due anni fa ha deciso di iscriversi a psicologia «proprio perché si potevano frequentare i corsi la sera». Dopo le magistrali, Daniela aveva cominciato con le supplenze e dal 2000 è di ruolo. Poi, improvvisa, la voglia di riprendere i libri. «No calcolato che potevo farcela. Finisco alle 13,30, torno a casa a studiare, poi prendo l'auto e scendo ad Aosta per essere in aula alle 18». Un sacrificio? «Dopo il sacro furore dei primi esami ho imparato a concedermi anche un po' di tempo libero, la domenica». II "paradiso" dello studente maturo, comunque, è rappresentato dal cosiddetto e-learning, in sostanza dai corsi online. «11 90 per cento dei nostri 4 mila studenti è nella fascia tra 32 e 46 anni» ammette Alessandra Briganti, rettore della Guglielmo Marconi, la prima università telematica riconosciuta dal Miur, nel marzo 2004. «Logico che tra i nostri 24 mila iscritti ci sia un gran numero di studenti di una certa età» incalza Maria Amata Garito, direttore del network Nettuno, che vede consorziate 41 università italia MA ALL'ESTERO GLI ESAMI NON FINISCONO La parola d'ordine è lifelong learning, in italiano educazione permanente. Significa una cosa semplicissima: se si vuole restare al passo con le conoscenze e, di conseguenza, competitivi sul mercato del lavoro, occorre non smettere mai di aggiornarsi. O meglio, di studiare. Non è un dramma ma una necessità. Tanto che il Consiglio europeo di Lisbona, già sei anni fa, indicava un obiettivo: il 12,5 per cento degli adulti dai 24 ai 65 anni; entro il 2010 dovrebbe venire coinvolto in attività di formazione. L'Italia, oggi, è al 5,1 per cento e naviga in coda alla classifica dell'Unione. Naturalmente non solo l'università è impegnata in questa partita. Ma è chiaro che gli atenei sono il terreno di gioco principale. E allora i! fenomeno dello "studente maturo" esplode ovunque. E ovunque, a differenza che in Italia, si mettono a punto metodi per incoraggiarlo. Cosi, se la Gran Bretagna ha riconvertito facilmente verso le tecnologie digitali la sua secolare tradizione nell'istruzione a distanza (i rampolli della nobiltà e dell'alta borghesia hanno sempre studiato per corrispondenza da ogni parte dell'impero), in Francia si assiste a un grande ritorno dei corsi serali. Ma Londra e Parigi sono andate oltre. Per esempio, possono bastare un buon curriculum professionale e un esame d'ammissione per potere frequentare una facoltà o addirittura un master pur non avendo un diploma di scuola media superiore. Molta importanza all'esperienza professionale viene data anche in Germania: lene. Già, sono quelli che possono sfruttare ai meglio le 24 mila ore di videolezioni prodotte e le 26 mila ore di esercitazioni via Internet: si può studiare a qualsiasi ora e per di più è possibile registrare e riascoltare le lezioni. Cosi si incontrano situazioni persino buffe. Come quella di Fabrizio Pandolfi, 41 anni, dipendente della regione Sicilia, di sua moglie Annamaria, 44 anni, ragioniere commercialista, e di suo fratello Mauro, 39 anni, anch'egli impiegato alla regione. Tutti e tre adesso studiano Economia, utilizzando il materiale del consorzio Nettuno e dando gli esami a Palermo. «Per noi era una necessità - spiega Fabrizio - perché solo !a laurea può permetterci avanzamenti di carriera. Per mia moglie, invece, un'opportunità». Studiate insieme? «Ci si va il sabato mattina, a lezione, nella classe virtuale, ognuno davanti al proprio computer, mentre il professore spiega da Pisa». La prima università italiana a istituire, nel 2000, un corso di laurea online, ingegneria informatica, è stata comunque il Politecnico di Milano. «C'era una domanda latente di studenti lavoratori. E ormai le tecnologie lo consentivano. Bisognava partire» ricorda Alberta Coiorni, coordinatore del corso. Un successo. C'è chi, ancora una volta, lo frequenta per migliorare la propria condizione professionale, come Danilo Cifento, 36 anni, di Amalfi, ma ormai in pianta stabile a Milano, dove già lavora in una società di informatica: «Sennò non ci sarebbe ragione di fare tanta fatica. Non soda quanto non vado al cinema durante la settimana». Echi è mosso da pura passione, come Fulvio Co1afelice, 43 anni, sposato con due figli, di Altamura, provincia di Bari. Passione, certo. Perché mai, altrimenti, Fulvio, diplomato in pianoforte e insegnante al conservatorio di Bari, avrebbe deciso di iscriversi a ingegneria informatica al Politecnico di Milano? «II pallino mi è venuto quando ho comprato il primo computer. Leggevo, mi informavo. Ma un corso di studi vero, dove alla fine qualcuno verifica se hai imparato qualcosa, è tutta un'altra cosa. La maggiore rinuncia? Prima facevo molti concerti... Se mi vedo ingegnere? Via, non scherziamo: io non lascerò mai il conservatorio». Proprio vero, i sogni non muoiono all'alba. Dei quarant'anni. A grandi università tedesche hanno da tempo corsi specifici per gli studenti lavoratori, specie per quelli vittime di grandi ristrutturazioni industriali. In quasi tutta Europa, infine, si va nella direzione dei curriculum personalizzati. II lavoratore, a qualunque età, può decidere di frequentare un singolo insegnamento universitario, sostenendo alla fine l'esame. Si può cosi arrivare a una sorta di laurea (pur non riconosciuta) su misura, capace di unire la meccanica razionale e la filosofia morale. à la globalizzazione della conoscenza. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 27 apr. ’06 MISTRETTA UFFICIALIZZATA LA CANDIDATURA Mistretta ci riprova: "Sarà il mio sesto e ultimo mandato" Pasquale Mistretta esce allo scoperto e ufficializza la sua candidatura per quello che sarebbe il suo sesto mandato. Lo fa con una lettera ai docenti, ricercatori, al personale dell'Ateneo, e agli studenti: "Presento la mia candidatura per un nuovo mandato alla guida della nostra Università". Cinque pagine dove è illustrato anche il programma, definito da Mistretta "una garanzia di continuità e stabilità per preparare il futuro". A fine lettera il docente di Urbanistica anticipa anche che il prossimo triennio sarà "certamente l'ultimo mio mandato". Prima però c'è da superare l'ostacolo delle votazioni (il 18 e 30 maggio, a maggioranza assoluta, e il 6 giugno l'eventuale ballottaggio), e la concorrenza dei due altri candidati, Giovanni Melis e Giuseppe Santa Cruz. il bilancioMistretta ricorda i passaggi difficili vissuti nel suo lungo regno a capo dell'Università, e "la forte dialettica dell'estate scorsa, quando una modifica di Statuto ha reso possibile questa candidatura". In quell'occasione Mistretta ha preso impegni, incentrati "sui pro rettori, sulla politica di decentramento e sulla programmazione del triennio 2006-2008. Ho lavorato molto in queste direzioni, rendendo più incisiva la macchina amministrativa". il programmaRicordando l'obiettivo di potenziare e incentivare la ricerca, il rettore ribadisce anche le sue linee programmatiche: programmare l'offerta formativa per ottimizzare il rapporto tra studenti e docenti, adeguandolo tra attività didattica e di ricerca; incentivare la ricerca per qualità e quantità, e attraverso una maggiore internazionalizzazione; favorire l'interazione con il territorio e il sistema sardo, per contribuire allo sviluppo delle risorse sociali, economiche e culturali; assicurare un'efficace realizzazione dei previsti interventi in campo edilizio; un'amministrazione più snella e meno costosa, per liberare risorse economiche da finalizzare allo sviluppo qualitativo e quantitativo del personale; potenziare la connessione tra tutte le attività dell'Ateneo. "Tutte le politiche hanno al centro la qualità dell'offerta formativa e della ricerca, e il supporto alla vita dello studente, che resta il nostro principale patrimonio. Per questo va sostenuto il diritto allo studio della parte economicamente debole della popolazione, e va progettata un'azione di recupero degli studenti che hanno rallentato il loro percorso formativo". Questo il programma del rettore uscente, pronto per il Mistretta VI. Matteo Vercelli ____________________________________________ Il Sole24Ore 27 apr. ’06 UN ALGORITMO PER VALUTARE LA SCIENZA Messo a punto un sistema che tiene conto soprattutto dell'autorevolezza delle citazioni dei lavori, di ricerca Di un italiano l’articolo più importante nella storia della fisica. La procedura di calcolo utilizzata da Google per fornire i suoi risultati può servire anche per misurare il valore di un articolo scientifico. Su «Novaz4» del G aprile scorso Guido Romeo aveva ricordato 1e difficoltà insite nei criteri usati oggi, come quello del conteggio delle citazioni nelle pubblicazioni di altri ricercatori. Ora, un gruppo di studiosi ha dimostrato che grazie a PageRank, il nucleo principale del software con il duale funziona Google, si può già oggi disporre di un ottimo metodo di valutazione dei lavori scientifici. PageRank, infatti, non si limita a contare il numero dei link associati a una certa pagina, concetto analogo a quello delle citazioni, ma assegna tra 1e sue diverse funzioni anche un peso diverso a ogni collegamento sulla base dell'importanza di ciascun sito. Sidney Redner e Pu Chen dell'Università di Boston, assieme a Huafeng Me e Sergei Maslov del Laboratorio nazionale Brookhaven, sono partiti da una versione modificata di questo algoritmo per classificare tutti i 353.268 articoli pubblicati dal 1893 al 2003 nelle riviste «Physical Review» edite dall'American Physical5ociety (Aps), servendosi degli oltre 3 milioni di citazioni presenti. È stato cosi assegnata un "numero di Google" a tutti articoli: maggiore era questo numero, più alto il valore scientifico di una pubblicazione. Il metodo sembra funzionare, anche perché «l'essere citati da articoli importanti contribuisce di più al numero di Google che l'essere citati da articoli ininfluenti». I risultati sono stati sorprendenti. Al primo posto si è classificato un importante articolo scritto nel 1963 dall'italiano Nicola Cabibbo e dedicato al decadimento del leptone. Un lavoro che, nella classifica realizzata col metodo classico delle citazioni delle riviste Aps, sarebbe però stato solo al 540 posto. in realtà, tutti gli articoli che compaiono nella parte alta della graduatoria costituiscono altrettante pietre miliari per la fisica. In particola-re, nella decima posizione di Google compare un lavoro di John C. Slater del 1929 che nella classifica delle citazioni occupa invece un misero 1.853° posto. AL contrario, i ricercatori sottolineano come proprio questo studio abbia introdotto una nuova formula nel calcolo della funzione d'onda che è diventata talmente comune da non avere più bisogno neppure di essere citata dagli scienziati, Se si scorte l'elenco ottenuto con questo algoritmo si. scoprono altri esempi di queste anomalie: articoli dimenticati dalle citazioni che hanno fatto invece la storia delta fisica, e che PageRank ha riportato alla luce. Secondo i ricercatori, quindi, questo algoritmo rappresenta «una grande promessa per valutare l'impatto delle pubblicazioni scientifiche» e i protocolli basati su queste procedure di calcolo possono essere utilmente affiancati «alle misure di importanza usate tradizionalmente, come il numero di citazioni di singoli articoli o l’impact factor»>. ANDREA CAROBENE andrea[2 carobene.nef ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 24 apr. ’06 L’ALTRA FACCIA DELLA STORIA LA LINGUA SARDA È MORTA DA 600 ANNI di Francesco Cesare Casula Ho raccontato altre volte, anche sulle pagine di questo giornale, che la lingua sarda nasce dalla lenta trasformazione del latino a ridosso del Mille dopo Cristo. Aveva già in sé il seme della disunione perché, dalla catena del Marghine in su, tutte le "c", accompagnate da "e"e da "i", si pronunciavano "k", e ancora oggi, nel Capo di Sopra, per dire "cento" si dice "kentu", per dire "cinque" si dice "kimbe", mentre nel Capo di Sotto si dicono "centu"e "cincu". Sennonché, sempre attorno al Mille, si formarono quattro Stati sovrani - i regni giudicali di Càlari, Torres, Gallura e Arborèa - che, in piena indipendenza, elaborarono ciascuno per proprio conto la lingua tanto che, se il processo fosse durato, alla fine si avrebbero avute quattro lingue nazionali distinte: il Calaritano, il Logudorese, il Gallurese e l’Arborense, probabilmente incomprensibili fra loro, come successe nello stesso tempo in Europa con l’italiano, il francese, lo spagnolo e il rumeno, anch’esse nate dal latino. Purtroppo, i regni giudicali durarono solo trecento anni, troppo poco per maturare ognuno una propria lingua. Visse più a lungo il Regno di Arborèa che, avendo conquistato nel Trecento quasi tutta l’isola, impose la sua lingua fin nei villaggi più sperduti della Sardegna, tenendo presente la grande divisione fra nord e sud; tant’è che la Carta de Logu è scritta nelle due varianti che i linguisti chiamano satem e kentum, ma che per noi sono semplicemente il campidanese e il logudorese. Con la caduta dell’Arborèa nel 1420 il quadro linguistico si sfece: da allora i documenti, le leggi, gli ordini, le orazioni, le prediche vennero scritte e dette quasi tutte in catalano o in castigliano, poi in italiano. La gente dei paesi continuò a parlare in sardo, è vero, ma elaborandolo, coartandolo, svilendolo con neologismi e acquisizioni di parole straniere. In pratica, in settecento anni ogni paese si è creato un propria variante di lingua, un proprio dialetto. E questa è la situazione odierna. Stando così le cose, la domanda che ci poniamo è se esiste ancora una lingua sarda generale che ci possa dare un’identità. La risposta è no. Ognuno dei 386 Comuni dell’isola che aspiri a coltivare le proprie radici culturali si tenga la propria parlata: la studi, la insegni, la mostri. Se, invece, si vuolesse operare a livello politico costruendo artificialmente una lingua sarda unitaria almeno per gli atti pubblici, ben venga la proposta della Regione. Purché, con la lingua, si veicolino buone idee. ____________________________________________ Il Sole24Ore 27 apr. ’06 LE RETI A PROVA DI EMERGENZA INFRASTRUTTURE E RISCHI DI ROBERTO VACCA Dal 1995 al 2000 ci fu nel mondo un incidente aereo ogni 1,25 milioni di voli. Dal 2000 al 2005 solo uno ogni due milioni di voli. Quando i rischi sono cosi bassi, è difficile percepirli in modo sensato. L ancora più arduo progettare aumenti di sicurezza in grandi sistemi che coinvolgono numeri enormi di utenti, operatori, macchine, canali di comunicazione, computer. Nei grandi sistemi tecnologici i rischi sono corsi da milioni di persone, non solo dai passeggeri di un aereo. Le città cori molti milioni di abitanti sopravvivono solo se dispongono di trasporti veloci, energia e comunicazioni. Dopo il grande Blackout che nel 1965 lasciò senza elettricità decine di milioni di americani e canadesi e fimo ai Blackout recenti in Usa e in Europa, il pubblico percepisce in modo vago la complessità di un sistema che si può bloccare senza esplosioni, nè ragioni ovvie. Pochi comprendono la complessità di strutture disperse sul territorio e prese per garantite: finora funzionano quasi sempre. I grandi sistemi tecnologici - ma anche Stato, strutture sociali, aziende-sono minacciati da tre fattori: disastri naturali, violenze (guerra, terrorismo, vandalismo) e fragilità intrinseca dovuta a difetti di progetto, organizzazione, gestione. Per evitare i primi due non si può ricorrere a risorse tecniche. Terremoti, tsunami, eruzioni sono poco. prevedibili. Anche la violenza è imprevedibile se non si è evitata con azioni preventive sociali, politiche, negoziali. Occorre - dopo il fatto - gestire le emergenze, ricostruire, ricuperare lo status quo. In linea teorica la fragilità intrinseca si può evitare con interventi progettuali e tecnologici. In pratica la complessità enorme e crescente rende difficile progettare la sicurezza dei sistemi prevedendo ogni possibile condizione futura di funzionamento. La sfida tecnica e teorica è appassionante. Sarebbe vitale accettarla e vincerla, ma non abbiamo soluzioni da manuale: occorre inventarle. L'Enea ha raccolto centinaia di esperti internazionali in due giornate di discussione (il 28-29 marzo scorso) in relazione alla «Protezione di reti e infrastrutture complesse». Abbiamo contenuto su vari punti vitali. Vanno integrati i progetti dei vari sistemi valutando i rischi di ciascuno e la loro trasmissione tra aree fisiche e settori. Vanno addestrati utenti e operatori a riconoscere emergenze impreviste e a reagire adeguatamente. Vanno ottimizzate le comunicazioni per ottenere monitoraggio e controllo intersistemico; e reso trasparente il software di controllo in modo da distinguere se i guasti hanno origine nell'hardware, nei canali di comunicazione o nello stesso software. A tal fine va analizzata la storia di tutti i blackout, le crisi sistemiche, le emergenze dovute ad atti terroristici e vandalici. Su questa base vanno formulati scenari quantitativi dettagliati. Vanno sviluppati, analizzati criticamente e validati modelli matematici dell'interdipendenza fra sistemi e della proliferazione di guasti, emergenze e interruzioni dei servizi: È compito arduo e critico:- alcune variabili non sono note o si presentano in modo casuale e con segnali forti. I meccanismi possono essere arguiti, non calcolati. Questi problemi si presentano in modi simili in Europa, America e Asia. Sono diversi, però, molti fattori essenziali che influenzano i processi. Fava questi: tradizioni tecniche, convenzioni sociali, strutture legali, competenze e procedure decisionali. Nessuno dei grandi centri di analisi e di ricerca tecnologica e sistemica ha sviluppato teorie complete atte a fornire soluzioni valide in generale. E opportuno, dunque, creare una rete internazionale di esperti che cooperino integrando competenze e approcci per accelerare il progresso sulla via della sicurezza e della resilienza dei sistemi e delle infrastrutture. Questa organizzazione si appoggerà alle tante iniziative esistenti di cooperazione scientifica, ma è bene che abbia carattere informale. Non serve una sede: università, ricercatori, scienziati, aziende ad alta tecnologia. manager lavoreranno in rete. Il modello ricalca gli « invisible colleges» come D. de Solla Price chiamava le comunità di scienziati attivi nella stessa branca speciale di eccellenza e connessi oltre confini e barriere istituzionali. Proteggere i sistemi e le infrastrutture complesse è vitale per dare sicurezza alle aree più attive del mondo. L'obiettivo va perseguito nelle direzioni citate e anche in altre da inventare. Vanno realizzate sinergie e fertilizzazioni incrociate fra varie discipline nel quadro di un programma comune di ricerca e sviluppo cui partecipino Stati Uniti. Europa e le comunità scientifiche e tecniche che fioriscono in Oriente. Sono questioni che vanno dibattute anche in sedi non specialistiche. Occorre che si formi un'opinione pubblica capace di ispirare comportamenti costituttivi del pubblico e di esigere interventi illuminati e competenti da parte dei decisori pubblici e privati. Perché questo accada, è necessaria una grande impresa per innalzare, in tutti i paesi del mondo, i livelli medi di cultura. Questi sono inadeguati rispetto alle sfide del mondo attuale sempre più complesso tanto da indurre pubblico e pubblicisti a temere rischi piccoli o inesistenti, non capendo affatto quelli gravi e forse imminenti. Questi interventi sono più urgenti in Italia: i nostri investimenti pubblici e privati in ricerca e sviluppo sono cronicamente minimi. Vanno messi a fuoco gli aspetti umani e politici. Studi, ricerche, sperimentazioni, campagne di informazione su sicurezza e protezione devono essere considerate risorse da utilizzare per prevenire il rischio più grave di tutti. È quello di una guerra nucleare scatenata da terroristi, da Stati canaglia o da potenze che ricorrano a rappresaglie irresponsabili in seguito a falsi allarmi o a falsi dossier prodotti da servizi segreti incompetenti. L'attuale complessità dei sistemi aumenta di molto i pericoli: è sempre più urgente quindi un approccio integrato PUNTI CITICI I RISCHI DELLA COMPLESSITÀ Non esiste un progetto unitario iniziale delle reti interconnesse su interi continenti: elettriche, di comunicazioni, di trasporti. Proliferano gradatamente a opera di entità indipendenti. Non sappiamo che domanda saranno chiamate a soddisfare, né quali guasti e attacchi subiranno. Ma prevederlo è vitale per la nostra sicurezza. Guasti che si trasmettono a cascata I. rischi tecnologici possono essere motto dannosi, a livelli che il grande pubblico ignora. I sistemi tecnologici si influenzano l'un l'altro. Il blocco di un sistema (telematico o energetico) può produrre a cascata blocchi di altri sistemi nelle aree mondiali dove il progresso è più vivo. Quindi potremmo subire crisi mai viste prima. II software invisibile al comando I sistemi tecnologici non sono più gestiti da apparati singoli di controllo e da operatori umani. Sono controllati da programmi di computer tanto grandi e complessi che i tecnici stessi non sanno come stiano prendendo le foro decisioni, talora sono degradati da virus. È vitale ottimizzare tutte le tecnologie di controlla e renderle trasparenti. Sull'orlo di una crisi Tutti coinvolti Nei grandi sistemi tecnologici attuali i rischi sono corsi da milioni di persone. Bastino come esempi i grandi blackoutche nel '65 lasciarono senza elettricità decine di milioni di americani e canadesi e quelli che più recentemente hanno colpito gli Stati uniti e l'Europa. Eventi che hanno chiarito la complessità di un sistema che si può bloccare anche senza ragioni evidenti, composta da strutture disperse sul territorio considerate sempre funzionanti. Minacce gestibili Le minacce per i sistemi tecnologici vengono essenzialmente da tre fattori: disastri naturali, violenze (guerra e terrorismo) e fragilità dovuta a carenze nel progetto e nella gestione. Nei primi due casi, quasi impossibili da prevedere, si tratta di gestire le emergenze una volta che si sono evidenziate; nell'ultimo si cerca di prevenire i problemi. Ma la complessità dei sistemi rende ardua, ma anche appassionante, la sfida della sicurezza. Le lezioni del passato Dai blackout alle crisi sistemiche è utile analizzare 1e emergenze del passato. Anche se alcune variabili sono casuali o non sono neanche note, la formulazione di scenari dettagliati basati sull'esperienza permette di mettere a punto analisi e modelli matematici sull'interdipendenza e la complessità dei sistemi. Assume quindi rilevanza anche la regione, in considerazione delle tradizioni tecniche, delle strutture tecniche e delle procedure decisionali. Roberto Vacca, 78 anni, ingegnere (elettrotecnico, meccanico, elettronico, sistemista). Lavora con computer dal 1955. Ne! libro il medioevo prossimo venturo (1971), formula la tesi secondo cui la ' complessità crescente della tecnologia pone a rischio di instabilità e paralisi i sistemi che tengono in vita le megalopoli moderne. ____________________________________________ La Repubblica 24 apr. ’06 UN CONSORZIO PER GESTIRE LE DORSALI WEB GIANLUCA SIGIANI In Italia c'è una ricerca che funziona proprio in uno degli ambiti più avanzati: le tecnologie di rete telematica. L'attività è svolta dal Garr (Gestione Ampliamento Rete Ricerca), un consorzio formato dagli enti che compongono la comunità accademica e della ricerca italiana: Cnr, Enea, Infn, università, organismi di ricerca coordinati dal ministero dell'Istruzione, consorzi per il calcolo come Caspur, Cilea e Cineca. Il Garr ha presentato alla Statale di Milano i temi e i relatori della sua conferenza annuale che si terrà a Catania il 18 e il 19 maggio dal titolo eInfrastrutture per lo sviluppo. Illustrerà le frontiere delle reti avanzate, i progetti in corso in Italia e per connettere all'Europa il Nord Africa, il Medio Oriente e la Cina. Nello stesso contesto, dal 15 al 18 maggio si svolgerà la Terena Networking Conference, che farà il punto sul networking per la ricerca e l'istruzione a livello mondiale. Durante la presentazione il presidente del Garr, Marco Pacetti, e il direttore Enzo Valente, hanno ricordato il ruolo svolto dal consorzio nella sperimentazione di tecnologie d'avanguardia come il Wi-Fi e la sua evoluzione WiMax, e poi il grid computing (l'utilizzo combinato di risorse informatiche collegate in rete) e il protocollo IPv6 (sviluppo dell’Internet Protocol). Il Garr, che gestisce le dorsali web italiane più imponenti, promuove applicazioni telematiche avanzate nel settore medico, nell'e-learning, nella valorizzazione del patrimonio culturale. Il tutto in collaborazione con istituti tecnico- scientifici internazionali prestigiosi, armonizzando le attività telematiche italiane con quelle europee. II Garr è in prima linea nella messa a punto di un nuovo sistema architetturale riguardante le reti, che entro il 2008 consentirà di ottenere un’Internet ancora più potente, flessibile e sicura in termini di comunicazione e di servizio. ____________________________________________ Il Sole24Ore 27 apr. ’06 LA FRANCIA ACCELERA SULLA RICERCA Chirac annuncia i primi sei programmi finanziati dall'Agenzia per l'innovazione DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI a 11 presidente Jacques Chirac ha dato ieri il via ufficiale ai primi progetti industriali, «per inventare i prodotti di domani», quelli per intenderci che dovrebbero permettere alla Francia di recuperare il terreno perso nei confronti di Paesi avanzati tecnologicamente come gli Usa. Si tratta di 6 iniziative selezionate dalla neonata Agence de l’innovation industrielle (Aii), dotata di fondi pubblici per 1,7 miliardà di euro che aumenteranno a due miliardi nel 2007. Questo incremento della dote si spiega con il fatto che 5 dei 6 progetti annunciati (quello relativo al VIA non è stato ancora '"spesato") necessiteranno di finanziamenti per 600 milioni circa e con il fatto che entro fine anno l’Aii si propone di approvare una quindicina di nuove iniziative. La Francia ha quindi deciso di accelerare i tempi dello sviluppo tecnologico, varando programmi di largo respiro (sull'esempio di quanto è stato fatto negli Anni 70 con il Tgv, il nucleare e Airbus), grazie al supporto di fondi metà pubblici e metà privati, di aziende tecnologicamente avanzate (domestiche e non), ma anche di altri Paesi europei. Segnatamente la Germania. È dunque in questa ottica che il presidente Jacques Chirac ha richiamato i principali partner della Ue perché partecipino a queste iniziative e soprattutto sviluppino delle politiche industriali ambiziose che per mettano «di inventare processi, applicazioni e prodotti per il futuro». Di fronte a un "parterre" d'eccezione, composto da ministri ma soprattutto da industriali di punta come Serge Dassault, Gérard Mestrallet (Suez), Denis Ranque (Thales), Anne Lauvergeon (Areva), Patrick Kron (Alstom) e Jean-Prangois Deheq (Sanofi-Aventis), il presidente Jacques Chirac ha dunque chiaramente indicato quale deve essere la strada da percorrere per rilanciare la Francia e l'Europa dei grandi progetti. Una sfida che Parigi non intende certo perdere, come dimostra del resto lo sforzo compiuto negli ultimi mesi per lanciare i "poli di competitività", veri e propri distretti dell'eccellenza tecnologica dove far collaborare imprese (grandi e piccole), centri di ricerca e università. In questo ambito, il ministero dell'Industria ha già selezionato 72 progetti (su un totale di 225), per un ammontare complessivo di aiuti finanziari pari a 960 milioni, di cui 317 a carattere pubblico. Ricordiamo a questo proposito che i poli di competitività beneficeranno di aiuti pubblici per un totale di 1,5 miliardi di euro nel triennio 2005-2008. Infine, è di ieri una nota dell'Ocse in cui se da un lato si approva la creazione di questi distretti ("in quanto la Francia è passata da una logica di redistiibuzione a una logica di valorizzazione competitiva dei territori"), dall'altro si critica il numero troppo elevato dei poli e la metodologia di valutazione per ottenere i fondi. Il meccanismo dovrà quindi essere ulteriormente affinato. ======================================================= ____________________________________________________________ La Repubblica 26 apr. ’06 LA SAPIENZA: FABBRICA" DEI BREVETTI MEDICI L'Università La Sapienza di Roma ne ha oltre 120 e tratta con i privati. Ora lancia la banca dati (B-link) di Luciano Caglioti * e Luigi Frati ** Le risorse per la Sanità cresceranno sempre più sotto la spinta di: invecchiamento della popolazione, crescenti esigenze dei cittadini, l'immissione di nuovi farmaci. E' questo il contesto nel quale si sviluppa la politica sanitaria nazionale (Governo e Parlamento), alla quale competono le linee d'indirizzo e l'allocazione generale delle risorse, e la politica delle Regioni, cui compete organizzare l'erogazione dei servizi. Governo e Regioni hanno concordato nel 2001 obiettivi di razionalizzazione- contenimento della spesa (farmaceutica ed ospedaliera) fissando però contemporaneamente i "livelli essenziali di assistenza", cioè le prestazioni alle quali ha diritto il cittadino in qualsiasi Regione. Ad oggi la maggior parte delle Regioni - con rilevanti eccezioni negative soprattutto nel Sud - s'è allineata ai parametri concordati, che sono indicatori di destinazione delle risorse verso bisogni reali. Il dilemma della sanità è stato ed è quello di procedere nella razionalizzazione clinica (diagnostica e terapeutica guidate dalle "evidenze di efficacia clinica") ed in quella organizzativa. Una razionalizzazione della organizzazione ospedaliera basata sulla grande potenzialità dell'informatica potrebbe ridurre di molto la spesa sanitaria. Così come l'adozione di farmaci di nuova concezione, ad esempio, efficaci nella terapia cellulare, potrebbe a sua volta ridurre il peso sugli ospedali in termini di accorciamento della degenza a seguito di cure migliori. In sintesi, la gestione economica della Sanità dovrebbe tenere conto della continua evoluzione del sistema di ricerca ed innovazione, e della necessità di favorire lo sviluppo di nuovi farmaci e di nuove tecnologie diagnostiche. Come favorire la spinta verso l'innovazione? Sembra delinearsi nel sistema farmaceutico una divisione di ruoli fra la ricerca pubblica e lo sviluppo industriale. Nel senso che nelle Università si svolge ricerca di conoscenze, per identificare metodologie nuove quali quelle collegate al genoma e molecole o procedure promettenti per la realizzazione di un nuovo farmaco e di un nuovo sistema terapeutico. Ma i finanziamenti e le organizzazioni richieste dallo sviluppo del farmaco implicano il coinvolgimento di veri e propri colossi industriali. Fatte salve le debite eccezioni, è corretto pensare che l'Università crea le novità e, arrivata a livello di brevetto, deve interagire con un gruppo industriale. Nascono così gli "spin off", microsocietà cui partecipano gli inventori, che poi vengono assorbite dai grossi gruppi. E' quanto accade alla Sapienza, dove sono stati messi a punto oltre 120 brevetti, molti dei quali nel settore sanitario, che hanno suscitato interesse concreto presso aziende straniere, soprattutto statunitensi. Ecco alcuni esempi: cellule staminali cardiache adulte, che in condizioni particolari rigenerano i tessuti; un possibile vaccino contro la Shigella; le procedure per la coltivazione di pelle umana per la terapia delle ustioni; ed ancora sistemi diagnostici molecolari. Mettere queste idee a disposizione dei possibili sviluppatori è importantissimo: non a caso per iniziativa della Fondazione Shering, della Università La Sapienza, del Mario Negri e della Società italiana di Farmacologia si sta completando B-link, banca dati in rete sulla ricerca pre-clinica in Italia. In altri termini, importanti istituzioni stanno mettendo a disposizione degli scienziati e degli imprenditori attivi nel settore dei farmaci, in modo rapido e moderno, le informazioni essenziali relative allo sviluppo delle conoscenze di base che preludono alla creazione di nuovi farmaci e nuovi mezzi di diagnosi. Iniziativa opportuna nel momento attuale in cui il comparto relativo ai medicamenti è influenzato da due nuovi approcci. Il primo riguarda le biotecnologie, ossia la possibilità di trasferire da un organismo ad un altro la capacità di produrre principi attivi in modo accessibile e vantaggioso. Il secondo è la terapia cellulare, ossia la possibilità di riparare tessuti danneggiati inserendo cellule staminali. La messa a punto di un medicamento - come detto sopra - è un processo che pochi gruppi possono affrontare, per i motivi che riportiamo qui di seguito. Esso richiede infatti un'idea di fondo che appaia promettente e percorribile, ed una serie di prove volte a verificare che vi sia l'attività positiva desiderata, e che non vi siano controindicazioni che sconsiglino la introduzione nel circuito terapeutico del prodotto in sviluppo. Tutto questo richiede tempo e denaro, ed espone il gruppo al rischio concreto di dover interrompere gli esperimenti in quanto il prodotto risponde negativamente ad un test essenziale. Il che comporterebbe una perdita secca degli investimenti. Ipotesi, questa, tutt'altro che teorica, che sta di fatto restringendo il numero di protagonisti industriali che si avventurano nello sviluppo di nuovi farmaci. * Prorettore Ricerca e Sviluppo ** Prorettore Vicario Un. La Sapienza, Roma ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 24 apr. ’06 «SANITÀ PRIVATA, INTERVENGA LA REGIONE» La Cgil chiede che non siano i più deboli a pagare La Asl 8: le cliniche non seguono le regole d’impresa CAGLIARI. Uno spettro si aggira per le case di cura private cittadine, in particolare in quelle del gruppo Ragazzo: il licenziamento. Interessate sono la clinica Maria Ausiliatrice e la Lai. Poi c’è anche il caso di Villa Verde che pare voglia sbaraccare per far posto a una lottizzazione edilizia, che è un caso a parte. In generale da un lato c’è la proprietà che lamenta il taglio dei costi e i processi di razionalizzazione con particolare attenzione ai comparti specialisti ambulatoriali (e dei fisioterapisti), dall’altro c’è la Asl 8 che non accetta di essere messa sotto accusa e risponde ataccando. E precisa che sono i privati che vogliono procedere «senza nessuna assunzione di respoonsabilità imprenditoriale». Il sindacato, «invece, preso atto che a pagare sono solo i più deboli, i lavoratori anziani e non qualificati », come precisa il responsabile della Camera del lavoro Enzo Costa, chiede che su intervenga la Regione, sia l’assessorato alla Sanità che quello al Lavoro: agendo direttamente nel processo di riqualificazione del personale. Da parte sua la Asl sottolinea che dalla riforma del servizio sanitario nazionale (del 1992) sino alla «legge Bindi» (del 1999), i privati non si sono adeguati. In pratica in tutto questo tempo nè i privati («i soggetti erogatori»), nè i governi regionali «che si sono succeduti», spiega una nota della Asl 8, hanno proceduto «a reali processi di riconversione ». Trasformazioni indispensabili, «come è avvenuto in altre regioni italiane», per arrivare «all’erogazione di attività rimborsabili, utili, sicure ed efficaci per i cittadini senza squilibri per le aziende private, nè tantomeno tagli di personale». Non solo: visto che i processi di riconversione verso attività appropriate «non durano dei mesi, ma possono durare anni», sin «dall’inizio sia la Regiione che la Asl si sono rese disponibili a condividere percorsi di riqualificazione e riconversione dell’assistenza, garantendo addirittura, contemporaneamente, sostanzialmente gli stessi fatturati e gli stessi pagamenti veloci del recente passato». Ma i privati non hanno richi o nessun percorso di riqualificazione è stato posto in essere nei confronti dei dipendenti ». Infatti, continua la Asl 8, «se si analizzano le professionalità di coloro che sono stati o che corrono il rischio di essere licenziati, non vi è alcun infermiere professionale o operatore socio sanitario, ma solo persone assunte senza titoli specifici e per le quali in 14 anni non è mai stato ipotizzato un percorso di riqualificazione». Fatto che rende impossibile il riassorbimento da parte della Asl «trattandosi di personale privo delle qualifiche previste dalla legge, cosa che potrebbe fare domani se si trattasse di infermieri o di operatori socio sanitari». A rimetterci sono, quindi, «i più deboli», dibadisce Costa. «Precisato — spiega — che la riforma sanitaria procede sia in campo nazionale che regionale, ma che i tagli si stanno verificando solo a Cagliari e, in particolare, nel gruppo Ragazzo, ancora una volta i dipendenti sono utilizzati come massa di manovra ». Per le riduzioni di personale che si prefigurano, continua Costa, «o le aziende prevedono un ridimensionamento delle attività, o si punta a una precarizzazione di alcune fasce di dipendenti, come strumento per ridurre il prezzo del lavoro». L’imprenditore sostiene che i costi sono troppo alti. «Eppure i bilanci passati dicono che questo gruppo non chiudeva in perdita. E questo avrà pure un significato. Ma il punto è che, alla fine, l’imprenditore, se deciso, farà i suoi tagli e chi ci rimette saranno sempre i più deboli». Una strada senza uscita, quindi? «No — sostiene Costa — se è vero, come ha affermato la Asl 8, che sarebbe pronta ad assumere personale qualificato (sappiamo, ad esempio, che in loco no ci sono infermieri professionali) allora noi chiediamo che per questa situazione intervengano i due assessori regionali, Sanità e Lavoro. A quest’ultimo domandiamo che operi direttamente riqualificando questi lavoratori che, una volta finito il processo formativo, potranno essere immessi nelle Asl». Il problema, però, resta: il personale dei privati continua a non essere riqualificato e, alla fine, si troverà fuori dal processo produttivo. «Per questo — continua Costa — noi, come sindacato, auspichiamo che la Regione obblighi le case di cura private a intervenire sulla riqualificaziione. Mi spiego: questo tipo di attività imprenditoriale vive con le convenzioni pubbliche, per cui credo che in queste possa essere posta, come condizione obbligatoria, la formazione permanente (la qualificazione) dei dipendenti. Credo che la Regione debba intervenire altrimenti il caso delle case di cura Ragazzo potrebbe rischiare di diventare tendenza». Per i fisioterapisti, poi, «il discorso è diverso: questo settore ha avuto un boom, pur con assunzioni fatti con contratti di collaborazione coordinata e continuativa. Alla fine, però, pochi contratti sono stati trasformati in dipendenti diretti, altri in rapporti con persone con partita Iva, in modo del tutto irregolare. I casi di Cagliari, insomma, potrebbero rischiare di allargarsi a tutta l’isola». (r.p.) ____________________________________________________________ Il giornale di Sardegna 22 apr. ’06 GUMIRATO: LA CRISI DELLE CLINICHE È TUTTA COLPA DEGLI IMPRENDITORI Il manager della Asl 8: dicoltà dovute all'incapacità di rinnovarsi Non sono i tagli né la razionalizzazione la causa degli esuberi, ma le scelte della proprietà Massimiliano Lasio m a ss i m i l i a n o. l a s i o @ e p o l i s.s m La Asl 8 non c'entra. La crisi che colpisce le cliniche private cagliaritane, e che più di recente lambisce anche il comparto degli Specialisti ambulatoriali (in specie i sioterapisti) non è imputabile né ai tagli né al piano di razionalizzazione. È dovuta all'incapacità di un settore di rinnovarsi dinanzi a cambiamenti normativi a livello nazionale che imponevano rigore e e una rimodulazione delle erogazioni per meglio rispondere alle esigenze degli utenti. Dopo la Regione, nella persona dell'assessore alla Sanità Nerina Dirindin, anche il direttore generale dell'azienda sanitaria cagliaritana Gino Gumirato interviene su sullo stato di-coltà in cui versano le case di cura e sui problemi occupazionali che questo genera. La responsabilità è dei singoli imprenditori. Il manager precisa innanzitutto che di tagli non si può parlare e che pertanto è falso sostenere che ci sia un nesso causale fra presunte riduzioni di spesa e gli esuberi annunciati da alcune cliniche. IN REALTÀ NEGLI ULTIMI a nni sono stati introdotti stringenti vincoli di bilancio, ineludibili criteri gestionali e tetti di spesa ssati da leggi dello Stato. Che alla ne sono stati recepiti e applicati anche in Sardegna. «Si tratta di norme - spiega Gumirato - che impongono ai soggetti erogatori l’esercizio di attività sanitarie in quantità, qualità ed appropriatezza in regime controllato: purtroppo tutto questo tempo non è stato utilizzato né dai soggetti erogatori sardi né dai governi regionali che si sono succeduti». Quanto al piano di razionalizzazione e ai contraccolpi accusati dalle case di cura, secondo la Asl, si possono attuare processi di riconversione graduali, che possono durare anche anni. Per questo sia la Regione che l'azienda sanitaria, continua Gumirato, si sono rese disponibili a condividere percorsi di riqualicazione e riconversione dell’assistenza, garantendo sostanzialmente gli stessi fatturati e gli stessi pagamenti veloci del passato. Con queste premesse, Gumirato sottolinea che i licenziamenti annunciati sono di totale responsabilità dei singoli imprenditori (con la connivenza di diversi governi regionali). E alla mancata riqualicazione del personale impiegato. ____________________________________________________________ Repubblica 24 apr. ’06 PSICHIATRIA: BASAGLIA DOCET MA A BERLINO È MEGLIO MARIO PIRANI RICEVO appelli angosciosi da molti famigliari di malati di mente che non trovano accoglienza nelle insufficienti strutture territoriali diurne oggi operanti ma in numero e qualità di gran lunga insufficiente di quanto la legge Basaglia presupponeva. Una lettera da Venezia solleva il caso particolare dell’assistenza agli affetti dal «disturbo bipolare» (un tempo chiamata psicosi maniaco- depressiva) che, a seconda del suo grado, assume caratteristiche particolarmente gravi, che spaziano dal suicidio alla allucinazione, confusione mentale, aggressività. A differenza della schizofrenia non provoca, però, demenza perché è una malattia dell’affettività, non del pensiero. Chi mi scrive è il prof. Cesare Dal Palù, il quale, assieme alla moglie, ha creato una associazione di volontariato (Minerva) per soccorrere questo tipo di malati, per lo più giovani fra i 18 e 35 anni. «La psicoterapia – spiega – che tanta importanza ha per la cura di questi pazienti è quasi assente nelle strutture pubbliche. Quanto ai Servizi Asl di diagnosi e cura sono esclusivamente distributori di farmaci ». Nella lettera sono elencate alcune esigenze essenziali: «1) Organizzare un servizio di assistenza domiciliare, più adatta ad affrontare i casi più gravi quando il paziente rifiuta la cura ambulatoriale; 2) Un numero verde cui ricorrere in caso di emergenza; 3) Istituzione di centri diurni sette giorni su sette, specificamente dedicati al «disturbo bipolare » in cui si organizzi tutta la giornata del paziente e si attui la psicoterapia sociale per aiutarlo a superare le fobie che persistono; 4) Istituzione di una agenzia del lavoro dove con l’aiuto di tutors e la valutazione continua dello psichiatra si metta in grado il paziente di utilizzare la sua riacquisita abilità lavorativa e la sua creatività (spesso si tratta di persone intellettualmente molto dotate); 5) Rafforzare le strutture territoriali dedicate alle patologie psichiche, respingendo la tentazione di ripristinare i manicomi (che invece si vanno moltiplicando sotto la dizione di «residenze protette» a conduzione privata); 7) Istituzione nelle Università di corsi di specializzazione specifica delle patologie psichiatriche più gravi (disturbo bipolare e schizofrenia)». Ho chiesto in proposito un parere a Mauro Mancia, professore emerito di neurofisiologia alla Statale di Milano, nonché rinomato psicoanalista. Riassumo il suo pensiero: «La legge 180 è stata un’operazione di grande valore. Del manicomio veniva fatto un uso perverso e liberticida del paziente da giustificarne la chiusura. La soluzione di Basaglia non è stata però sufficiente ed incorreva in due errori che hanno avuto riflessi negativi nella assistenza psichiatrica: a) Il suo presupposto ideologico per cui la malattia mentale sarebbe il risultato di un abnorme rapporto dell’individuo con la società non teneva conto che la psicosi si sviluppa nelle primissime relazioni del bambino con la madre e l’ambiente in cui cresce ed è, pertanto, la famiglia, e non la società nel suo insieme, responsabile della sofferenza mentale di un individuo; b) Il rifiuto della psicoanalisi e la negazione della psichiatria come scienza medica capace di prendersi cura di un malato di mente, specie se affrontato precocemente». Da ciò risulta che non è pensabile riaffidare alla famiglia uno psicotico che ha trovato proprio nella famiglia, fin dall’infanzia, le cause del suo disturbo. Non è, però, neanche possibile affidarlo sic et simpliciter al territorio, dove riceve quasi esclusivamente delle terapie farmacologiche. «La soluzione migliore ci viene dalla Germania. Qui sono stati creati, sia a livello universitario che ospedaliero, istituti di psicoterapia e psicoanalisi o istituti specializzati in malattie psicosomatiche dove, in day hospital, si praticano cure farmacologiche, psicoterapiche, psicoanalitiche, di lavoro- terapia, arte-terapia, musico-terapia. In questo ambito il paziente viene seguito tutto il giorno con varie modalità terapeutiche di contenimento che hanno come finalità quella di reinserirlo, dopo un adeguato periodo, nella società e nel sistema lavorativo — In Germania questa organizzazione è a carico del sistema assicurativo pubblico che paga sia quote elevate di sedute annuali che altre forme di terapia istituzionalizzata e privata. Non si tratta, come è evidente, di ricreare ospedali psichiatrici ma istituzioni nuove, fondate sull’assistenza giornaliera, 7 giorni su 7, dove il paziente sia trattato con assoluta dignità e competenza. In tal modo, inoltre, si liberano le famiglie da un peso insostenibile». Argomenti importanti per l’agenda del prossimo ministro della sanità. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 apr. ’06 TALASSEMICI: I RISARCIMENTI PER I CASI DI EPATITE «È intollerabile la discriminazione dei talassemici» Quattrocentocinquanta dei 1300 talassemici sardi attendono da anni il risarcimento per i danni causati negli Anni Settanta e Ottanta da trasfusioni di sangue talmente insicuro da provocare in numerosi casi l’epatite C. Molti di loro, così come altri duemila nel resto d’Italia, hanno promosso estenuanti cause civili, ottenendo anche sentenze favorevoli della magistratura in primo grado. Ma il ministero della Salute continua a discriminarli, negando loro le somme stanziate da una legge del 2003, la numero 141. Il provvedimento prevede la possibilità di «stipulare atti transativi (con 495 milioni di euro di dotazione) fra ministero e pazienti emofilici e talassemici con cause legali pendenti». Ma sino a oggi soltanto gli emofilici, e poi anche i pazienti contagiati in seguito a vaccinazione, sono stati risarciti. Mentre per i talassemici la porta è rimasta sbarrata, nonostante una sentenza del Tar del Lazio del 2004 abbia esplicitamente disposto il riconoscimento del loro diritto. «Non discutiamo le priorità di emofilici e vaccinati - precisa Giorgio Varigu, predidente dell’Associazione dei talassaemici sardi - ma dopo aver subito danni alla salute molti sardi ventenni, trentenni e quarantenni stanno anche subendo la beffa di una intollerabile discriminazione. Non si capisce perché la legge non venga applicata correttamente, nella sua interezza». Da tempo i talassemici si stanno muovendo per ottenere dal Parlamento una norma che preveda uno stanziamento diretto esplicitamente a loro. Ma sinora vanamente. Un emendamento proposto alla Camera da parlamentari di Fi è stato bocciato. «Ora è il caso - sostiene Vargiu - che deputati e senatori appena eletti si battano per riportare certezza del diritto, bocciando la scelta di due pesi e due misure. » C’è un grande malessere fra i talassemici coinvolti, anche perché alla fine del 2005 una legge ha previsto un assegno mensile vitalizio, ma lo ha riservato soltanto ai chi ha subito danni a causa di vaccini insicuri, mentre un altro provvedimento del febbraio del 2006 ha stanziato ulteriori fondi per i soli emofilici. «Non contestiamo i diritti di altri pazienti - dice ancora Vargiu - ma di fronte a storie cliniche pressoché identiche, non ci pare il caso di fare figli e figliastri». Da qui l’appello ai parlamentari appena eletti perché mettano fine a un’ingiustiziache colpisce il 40 per cento dei 1300 talassemici sardi. (g.g.) L’APPELLO «I parlamentari premano sul Governo perché ci garantisca gli stessi diritti degli emofilici» ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 apr. ’06 IL CUORE DEI BAMBINI E I CONTI ECONOMICI Franco Meloni Sardegna nascono ogni anno circa 150 nuovi cardiopatici di cui il 50 per cento ha bisogno di un accertamento chirurgico o interventistico entro il primo mese di vita. A questi vanno aggiunti circa 1000 casi con altre patologie cardiologiche, oltre ai 3-4000 bambini che vengono considerati normali solo dopo attenta e completa valutazione, senza la quale rimarrebbero dei potenziali cardiopatici con limitazioni e angosce psicologiche coinvolgenti la famiglia forse peggiori di una diagnosi di cardiopatia. Questo tema riappare ogni tanto alla superficie del sistema sanitario sardo, da uno dei numerosi meandri carsici che lo alimentano e che nascondono contemporaneamente problemi altrettanto importanti. Non si tratta di patologie particolarmente diffuse, almeno come numeri assoluti, ma tuttavia di grandissima rilevanza per le ripercussioni sociali e sanitarie che hanno sullo sviluppo di una collettività che - giustamente - si ritiene tra le più civili al mondo. Stiamo parlando della disciplina che studia le malformazioni congenite del cuore e coloro che ne sono portatori, cioè i bambini, e soprattutto stiamo parlando di bambini che con cure adeguate possono essere consegnati a una vita pressoché normale. IAl Brotzu esiste un centro di grande livello, voluto e pensato da sardi, e a cui si rivolgono con fiducia bambini da tutta la Sardegna: istituito nel 1997, è andato progressivamente crescendo negli anni e attende ora quella spinta finale che potrebbe portarlo a rispondere alle richieste della popolazione con la rapidità ed efficacia che al momento le ristrette risorse gli impediscono di mettere in campo. Lo stesso assessore regionale, recentemente, in una trasmissione televisiva, ha promesso il suo interessamento e noi vogliamo ricordarle l’impegno: non si tratta di cifre impossibili, pochi medici e infermieri per eliminare una vergognosa lista d’attesa che sfiora 10 mesi per un semplice controllo. Oltre a tutto sono risorse che si recupererebbero facilmente con la conseguente diminuzione dei ricoveri fuori regione. Non vorremmo che una visione troppo economicistica del servizio sanitario avesse la prevalenza su quella partecipazione umana e sentimentale che sempre deve essere collegata alla spesa di danaro dei contribuenti quando sono in ballo aspetti psicologici ed affettivi particolarmente delicati come nella sanità. Anche perché una società che non sa prendersi adeguatamente cura dei suoi membri più indifesi è difficile da definire civile. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 26 apr. ’06 PRONTO SOCCORSO: NUOVE RICETTE E VECCHIE EMERGENZE I pazienti tornano a fare la fila al pronto soccorso «L’indicazione urgente viene ignorata e così si annulla il vantaggio per chi sta male» CAGLIARI Promemoria estivo alla Asl 8 e all’assessore regionale alla sanità da parte del Tribunale del malato: serve personale nei pronto soccorso per ridurre le file dei pazienti tuttora lunghe e sofferte; serve che si diffondano ancora informazioni tra gli operatori sanitari affinché si sappia in maniera definitiva e capillare come regolarsi con le indicazioni del nuovo ricettario. Infatti, non è chiaro ai più che, se la ricetta del medico di base portata dal paziente reca l’indicazione «urgente», la prestazione, qualunque essa sia, deve essere assicurata entro (e mai oltre) le 24 ore. E non si sta parlando di cure al pronto soccorso, ma di visite, analisi e quant’altro risulti prescritto ed è erogabile in un qualunque servizio della rete sanitaria. Il risultato della mancata osservanza dei dettagli della prescrizione da parte di centri di prenotazione, ambulatori, laboratori di analisi, reparti ospedalieri aperti all’esterno ha già provocato una conseguenza evidente: chi non riesce a farsi assistere subito in un ambulatorio della Asl, si presenta come sempre al pronto soccorso. «Nel ricettario nuovo il medico di base può dare l’indicazione se la prestazione sia urgente, differibile o programmabile. Se è urgente — spiega la coordinatrice regionale del Tribunale del malato, Franca Pretta Sagredin — va garantita subito, comunque entro 24 ore. Per la differita ci sono 8 giorni, per quella che si può programmare ci si adatta ai tempi della struttura. Riceviamo segnalazioni, ormai con regolarità, di servizi dove gli operatori cascano dalle nuvole: della priorità automatica assegnata con quella sigla urgente non sanno nulla. Noi abbiamo fatto vari interventi, telefonando ai servizi segnalati dai pazienti e precisando sulla base di quale legge loro fossero tenuti ad assecondare la prescrizione del medico di base. E’ molto importante — spiega la coordinatrice — che i servizi comprendano la necessità di adeguarsi, perché al momento è l’unico modo per alleggerire i pronto soccorso. Chi ha una semplice lombalgia eviterebbe volentieri di andare al pronto soccorso per farsi dare qualcosa che allevii il dolore, ma dagli ambulatori in vari casi si viene respinti. Il nuovo modello elettronico di prescrizione era stato corredato di linee guida dove si stabiliva che il medico curante potesse dare indicazioni sui tempi da rispettare per la prestazione a favore del paziente. Le linee guida erano piuttosto precise, ma ciò che non si è fatto, evidentemente, è stato di informare tutti gli operatori di questa nuova possibile indicazione nella ricetta. Ripetiamo: è importante che l’urgenza sia accolta perché è il primo passo verso la diminuzione dei tempi di attesa nei pronto soccorso dove c’è sempre un mare di gente che aspetta per ore. Prima si riesce a diffondere questa informazione meglio sarà: stiamo andando verso l’estate e temiamo che si ripeteranno situazioni dove in certi casi i pazienti hanno aspettato per 11 ore di essere visitati dal medico del pronto soccorso. Al momento non ci risulta che i pronto soccorso siano stati rinforzati di personale ». Altro tema urgente è stato sollevato nei giorni scorsi con una lettera all’assessore alla sanità: la riabilitazione fisica per i pazienti più in diffi- coltà, secondo il Tribunale del malato, non può essere contenuta in un numero di cicli standard, che si sia guariti oppure no. «Ci sono persone con la protesi dell’anca, colpite da ictus o cardiopatici in riabiliazione successiva a un infarto oggi in seria difficoltà — spiega la coordinatrice — devono continuare la terapia ma non se la possono pagare di tasca». Il Tribunale del malato rilancia l’invito all’assessorato: si sospenda il provvedimento per discuterne meglio con gli operatori. Il Tribunale si dichiara al fianco dell’assessore nella lotta agli sprechi, per questo si concordava che i contributi andassero solo per le terapie ufficiali e prescritte dagli specialisti. Il Tribunale del malato aveva anche sollecitato controlli «ma non vogliamo — conclude Franca Pretta Sagredin — che per evitare abusi si penalizzino le persone più deboli prive di risorse economiche». (a. s.) ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 27 apr. ’06 SANITÀ, «QUEL MANAGER SARÀ NOMINATO» La giunta cercherà un sistema per sostituire Girau con Rossi CAGLIARI. Mentre il Consiglio regionale riprendeva l’esame del maxi collegato alla manovra Finanziaria, ieri mattina in giunta s’è discusso, per la prima volta, il caso politico amministrativo nato attorno alla nomina del nuovo direttore generale dell’assessorato alla Sanità. La questione — ha specifi- cato il presidente della giunta Soru agli assessori — non è ancora all’ordine del giorno ma si farà presto. Si deve trovare una via d’uscita. avviare un dibattito in giunta sullo stato della sanità sarda e Soru ha illustrato agli assessori qual è la visione della Regione che si può riassumere in questi punti: 1) informatizzare il comparto; 2) costruire due grandi ospedali; 3) allestire un centro unico di prenotazione; 4) controllare la spesa farmaceutica. Per questo — ha aggiunto il presidente Soru — la Sardegna deve contare su un manager che queste cose le ha fatte e anche molto bene. Il manager in questione è Franco Rossi, emiliano, collaboratore di Livia Turco all’epoca del ministero del Welfare. Le carte per la sua nomina sarebbero state già preparate nei giorni scorsi ma poi l’iter s’era dovuto fermare perché la Regione aveva già superato il tetto massimo previsto per i manager esterni all’amministrazione. Soru e Nerina Dirindin hanno spiegato in giunta che quelle carte non erano affatto pronte, l’unica cosa vera — avrebbe detto il presidente della giunta — è che Rossi aveva avuto un incontro con me. Ma dov’è lo scandalo? ha chiesto Soru. «Per me lo scandalo è avere speso seicento milioni per la manutenzione di vecchi ospedali. Con quella cifra ne possiamo costruire due nuovi». Coincidenza dei numeri: nel curriculum di Franco Rossi c’è l’aver aperto due nuovi ospedali spendendo più o meno quella cifra. Soru ha commentato nelle stanze chiuse del governo dell’isola: «In Sardegna accadono cose paradossali: arriva da fuori un gruppo che costruisce un mega Centro commerciale, sconvolgendo tutta l’attività economica del sud Sardegna, e nessuno dice niente. Se la prendono, invece, con un manager che nel campo dell’economia sanitaria ha mostrato di saperci fare»... L’assessore Dirindin ha poi raccontato ai suoi colleghi di giunta degli incontri avuti con Mariano Girau, il direttore della Sanità con cui era in rotta da tempo. Ha spiegato che, dalle discussioni, le sembrava che Girau dopo tante discussioni, fosse pronto ad ammettere che il suo compito s’era esaurito ma poi ha preferito cambiare linea: le colpe le ha date tutte all’assessore, ha detto. La giunta ha dato ragione alla linea che Soru e Dirindin intendono seguire ma dev’essere trovata una via d’uscita per poter nominare Franco Rossi superando il problema del tetto fissato per i manager esterni. Su questo la giunta ha avviato una discussione lunga e accesa perché le interpretazioni possono essere molteplici. Per esempio ce n’è una che darebbe ragione alla giunta Soru ed è l’applicazione delle norme nazionali sul pubblico impiego che non prevedono alcun tetto. Ma i partiti e qualche assessore preferirebbero ignorare questa possibilità e seguire magari un- ’altra strada. Sulla scelta di nominare persone non sarde ci sono stati attacchi durissimi in questi anni proprio nei confronti dell’assessore Nerina Dirindin. Accuse che sono state reiterate da Forza Italia, Alleanza nazioanle, Udc e Riformatori sardi anche in questa vicenda. Il fatto nuovo legato a questa nomina è stata, però, la la presa di posizione di Antonello Soro, parlamentare e coordinatore della Margherita il quale ha detto: «Se Nerina Dirindin è stata nominata per far crescere la sanità sarda e continua a importare manager, può darsi che sia stato un errore nominarla assessore ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 27 apr. ’06 ASL 5 OK ALLA VENDITA DEL PATRIMONIO IMMOBILIARE Finora l’operazione di cessione ha fatto incassare 71mila euro ORISTANO. Se n’era iniziato a parlare esattamente un anno fa. Quando, in occasione dell’assemblea di distretto che si era svolta a Palmas Arborea, il manager della Asl 5, Antonio Onnis, aveva annunciato l’avvio della vendita di una parte del patrimonio immobiliare dell’azienda sanitaria. Terreni e immobili in dismissione insomma, con lo scopo di sanare i debiti cumulati nel corso degli anni. In questi giorni si è appreso che l’operazione è finalmente partita e che, malgrado sia ancora nella fase iniziale, abbia già consentito di apportare alle casse della Asl 71mila euro. Se n’è parlato proprio nel corso della conferenza d’azienda, convocata nei giorni scorsi dal presidente della Provincia, Pasquale Onida, per esaminare il bilancio. Proprio in questa occasione il manager Antonio Onnis, rispondendo a una specifica proposta da parte di Pasquale Onida, volta a migliorare e rendere più razionale la gestione del patrimonio immobiliare dell’azienda e di procedere appunto alla dismissione degli immobili non utilizzati per le attività dell’Azienda, ha fatto sapere come l’operazione sia già stata avviata. Con la vendita di sedici unità immobiliari che hanno portato a incassare 71.411 euro. I presidenti del di distretto (erano presenti Antonello Figus del distretto di Oristano; Emanuele Trudu di Ales e Antioco Carta del distretto di Ghilarza) dal canto loro hanno chiesto di poter avere l’elenco degli immobili, con riferimento a ciascun distretto. «La Asl — spiega Antonello Figus — ha già avviato l’inventario dei beni, anche perchè ci sono delle procedure burocratiche obbligatorie che vanno seguite, come la verifi- ca dei dati catastali. Ci vorrà del tempo perchè le procedure giungano a conclusione e di questo siamo perfettamente consci. Ci auguriamo che tutto possa, come ci è stato assicurato, concluso entro l’anno in corso». Ancora dunque bisognerà attendere per conoscere esattamente a quanto ammonta e da cosa esattamente è composto il patrimonio immobiliare che la Asl vuole dismettere. Si sa che si tratta di stabili e terreni, frutto per la maggior parte di donazioni, da parte di persone facoltose che, molti anni fa, quando ancora non esistevano certo le Asl, fecero della beneficenza in favore dell’ex azienda ospedaliera San Martino che pare (così almeno si dice) fosse all’epoca una delle più ricche in Sardegna. Beni inutilizzati, molti di notevole valore. È nota la vicenda ad esempio, di palazzo Paderi, l’edificio storico con vista su piazza Eleonora, in parte proprietà della Asl 5. Tempo fa il Comune era in trattative per entrarne in possesso. Ma non se ne fece mai nulla. Non andò in porto la proposta di una permuta, proposta dalla Asl, con l’ex lavatoio di piazza San Martino, ma pare che anche la cifra chiesta dall’azienda sanitaria fosse stata giudicata molto al di sopra delle possibilità del Comune. In ogni caso, Palazzo Paderi, assieme ad altri beni, come ad esempio, la palazzina, anche questa in pieno centro storico, che sorge all’angolo fra le vie Lamarmora e Parpaglia, quasi di fronte al monastero delle cappuccine, è destinato a comparire nell’inventario in via di stesura. Come anche alcuni terreni, fra questi, l’area dietro l’ospedale San Martino attualmente occupata da un’azienda agricola, oppure un terreno che si trova nel rione Chirigheddu, in prossimità del mercato ortofrutticolo di via Marconi. Fuori dalla città, anche terreni, come i circa 60 ettari di terreno rimboschito alcune decine di anni fa nella zona di Narbolia. Altri ettari di bosco si troverebbero nelle montagne di Villaurbana. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 25 apr. ’06 SASSARI: AL POLICLINICO POCHI ANESTESISTI: NON SI OPERA Sassari. Un buco di sette unità. Ridotte le sedute nelle sale delle Cliniche universitarie e le visite Interventi dimezzati. La Asl: «Non ci sono soldi» Il provvedimento deciso dalla Asl e notificato nei giorni scorsi a tutti i titolari dei reparti chirurgici sta suscitando un'autentica rivolta. Nei giorni scorsi il responsabile sanitario della Asl n.1 Contu ha ricevuto alcuni direttori di clinica. Crescono le liste d'attesa e la Asl n.1 cosa fa? Riduce del cinquanta per cento le sedute delle sale operatorie delle Cliniche Universitarie. Mancano gli anestesisti. L'organico ottimale ha un buco di sette unità cui si è aggiunta in questi giorni la perdita di un professionista unanimemente stimato per le sue qualità professionali e l'attaccamento al lavoro: il dottor Giampiero Silvetti. Forse poco gratificato dal suo lavoro, certamente desideroso di fare altre esperienze, si trasferirà a Tempio per assumere la direzione del reparto di Anestesia e rianimazione del locale Ospedale civile. Una decisione che sicuramente la direzione sanitaria conosceva da tempo ma di cui ha mostrato di accorgersi solo alcuni giorni fa quando ha disposto la riduzione dell'attività operatoria. Da martedì 18 possono essere utilizzate quotidianamente solo tre delle sei sale del complesso operatorio di viale San Pietro. La riduzione del cinquanta per cento degli interventi riguarda anche le due sale delle Clinica ginecologica che si trovano in un altro edificio. Il provvedimento deciso dalla Asl e notificato nei giorni scorsi a tutti i titolari dei reparti chirurgici sta suscitando un'autentica rivolta. Nei giorni scorsi il responsabile sanitario della Asl n.1 Bruno Contu ha ricevuto alcuni direttori di clinica per discutere del problema. Alle proteste dei sanitari la risposta è quella che dalla Asl arriva ormai per tutti i settori come un nastro registrato: «non abbiamo risorse». La risposta è stata di incredulità: «cosa facciamo, mandiamo i pazienti a casa?». La buona volontà della Asl sembra stia per concretizzarsi con la promessa di destinare all'attività delle cliniche chirurgiche due anestesisti, uno dei quali a tempo determinato. In questo modo il problema non verrà risolto e le emergenze saranno sempre dietro l'angolo. Gli anestesisti infatti devono garantire la loro presenza non soltanto in occasione delle sedute operatorie. L'anestesia infatti è prevista anche nella diagnostica quando i pazienti devono essere sottoposti ad esami complessi od invasivi. Di conseguenza qualche unità viene sempre sottratta alla disponibilità dei chirurghi che non ce la fanno più ad andare avanti in queste condizioni. Vorrebbero lavorare nelle condizioni di serenità necessarie per affrontare un lavoro che richiede nervi saldi e squadre motivate. Sono costretti invece ad affrontare emergenze quotidiane che dovrebbero essere di esclusiva competenza della burocrazia. Qualcuno ha deciso di dire basta. Il direttore della Cattedra di Chirurgia plastica, il professor Gianvittorio Campus, ha interrotto l'attività ambulatoriale. Deve smaltire una lista d'attesa chiusa al 2003. A cosa serve programmare altri interventi? La situazione è destinata ad aggravarsi ulteriormente quando, a giugno, verrà definito l'accorpamento del reparto ospedaliero di urologia con quello delle Cliniche universitarie. Alla Asl si sfregheranno le mani per il risparmio di bilancio. E i pazienti? Non sembrano un problema per chi gestisce la sanità sassarese. Gibi Puggioni ____________________________________________ La Repubblica 24 apr. ’06 AIDS, I FARMACI CHE BLOCCANO LA REPLICAZIONE VIRALE Le speranze accese dal Tipranavir, un nuovo prodotto della tedesca Boehringer Ingelheim, che apre la strada ad un'ulteriore via d'attacco all'Hiv: il problema centrale è fermare la proteasi, un enzima necessario perché gli agenti infettivi penetrati nell'organismo completino il loro ciclo vitale MICHELA DE JULIO Nuove speranze per i malati di Aids grazie ad un farmaco prodotto dalla tedesca Boehringer Ingelheim, che ha recentemente ricevuto anche da parte dell'Agenzia italiana del farmaco l'approvazione e alla vendita. Tipranavir, questo è il nome del prodotto, agisce bloccando la proteasi, un enzima necessario a completare il processo di replicazione virale. E' in grado di penetrare nelle cellule immunitarie infette e inibire la replicazione di parecchi ceppi di virus Hiv, resistenti ad altn prodotti. Scientificamente il farmaco si presenta come un inibitore non-peptico delle proteasi ed è indicato per il trattamento di associazione dell’infezione da Hiv-1 in pazienti adulti, già fortemente pre trattati, infetti da virus resistenti a più di un inibitore della proteasi. «L'Hiv resta ancora oggi una patologia dall'elevato tasso di mortalità che richiede un accesso tempestivo alle nuove opzioni terapeutiche», spiega Sergio Daniotti, countrymanager del gruppo Boehringex Ingelheim Italia. «La resistenza ai farmaci è una delle maggiori sfide che pazienti e medici devono affrontare nel trattamento dell'Hiv. La resistenza si sviluppa a seguito di mutazioni virali e impedisce un'efficace soppressione della replicazione virale». Nell'ambito di due studi clinici condotti su larga scala, il Tipranavir si è mostrato efficace nel trattamento di pazienti Hiv-positivi, il cui virus aveva sviluppato resistenza ad altre terapie. Secondo l'azienda, nei pazienti che hanno sperimentato un trattamento antivirale, il Tipranavir fornisce una maggior riduzione del carico virale. La Boehringer Ingelheim ha le sue radici a Stoccarda, dove nel lontanissimo secolo dei lumi e delle innovazioni, i componenti della famiglia Boehringer inaugurarono una tradizione che a tutt'oggi è rimasta intatta, visto che nonostante le 144 affiliate in 45 paesi e circa 36.000 dipendenti, resta un'azienda di proprietà familiare che intende restare lontana dall'idea di quotarsi. Oggi Boehringer Ingelheim è un'azienda farmaceutica pura con le sue divisioni di farmaci da prescrizione (+17% le vendite nel 2005 a 7,2 miliardi di euro), consumer health care, ovvero farmaci da banco (+8% a circa 1,1 miliardi di euro) e veterinaria (+8% a 360 milioni di euro). Da sempre è all'avanguardia nel biotech e il 2005 ha segnato un'importante tappa per l'apertura di uno stabilimento a Vienna adibito alla produzione di farmaci antivirali, nel quale l’ azienda tedesca ha investito circa 80 milioni di euro. I risultati del 2005 confermano una quota di mercato mondiale pari al 2%, al 14° posto nel comparto. Lo scorso anno ha investito 1,4 miliardi di euro in ricerca e sviluppo, il 10% in più del 2004. L'utile operativo è cresciuto dei 40% a più di 1,9miliardi di euro (l;4rniliardi). Il numero complessivo di addetti è salito di 1.900 unità portandosi a un totale di 37.400 (+5,3%). I risultati sono stati positivi anche in Italia, dove Boehringer Ingelheim ha chiuso i12005 con un fatturato di 395 milioni di euro, contro i 328 dell'anno precedente. Complessivamente l'azienda è cresciuta del 23% (per vendite ad euro costante). Questa dinamica di crescita è stata marcata negli Stati Uniti, dove il tasso di crescita è stato pari al 33%. E' questa l'arca che ha più contribuito ai risultati con un fatturato netto di 4,6 miliardi di euro. Il contributo dell'Europa è stato di 3,1 miliardi mentre quello di Asia, Australia e Africa di 1,9 miliardi. Alessandro Banchi; l'italiano che è presidente del consiglio di amministrazione, spiega: «Boehringer Ingelheim è entrata nel gruppo delle primarie aziende farmaceutiche internazionali non solo in termini di crescita ma anche di utili. Lo sviluppo della nostra azienda è caratterizzato da stabilità e continuità,. Quello appena concluso è stato per noi un esercizio buono da ogni punto di vista». Per il futuro si presenta un quadro positivo: tra i prodotti in fase di sviluppo ce ne sono diversi promettenti in varie aree terapeutiche. Un'azienda tedesca a guida italiana fra le prime dei mondo per fatturato ____________________________________________ La Repubblica 24 apr. ’06 BIOMEDICALE, È ALLARME ROSSO "ITALIA LEADER, MA IN AFFANNO" Settori come la cardiochirurgia, la dialisi e gli strumenti per la terapia intensiva soffrono ritardi nei pagamenti e la burocrazia MASSIMILIANO DI PACE Roma L’Italia è ancora leader in alcuni settori come la cardiochirurgia, la dialisi e gli strumenti per la terapia intensiva. È quanto afferma Stefano Rimondi, responsabile del settore biomedicale di Assobiomedica, l'associazione di Confindustria che riunisce 180 aziende con 10 000 addetti, di cui 60 produttive, operanti, oltre che nei settori della cardiologia (pace maker, valvole cardiache, defibrillatori, stent), della dialisi (macchine, filtri, tubature), e delle macchine per la rianimazione, anche nell'ortopedia (protesi), e nella chirurgia (macchine cuore-polmone, ossigenatori, bisturi), mentre sono minori le presenze industriali sul fronte della diagnostica. Il mercato biomedicale vale, secondo i dati di Assobiomedica, circa 5 miliardi di euro, di cui 2,5 per i dispositivi medici, 1,5 per strumentazione per analisi, e 1 miliardo per altre apparecchiature. Quasi l'80 per cento del mercato proviene dalla domanda delle strutture sanitarie pubbliche. Un settore che, nonostante abbia a Mirandola, in provincia di Modena, il più importante polo produttivo d'Europa, con 80 aziende e 4.000 addetti, registra una bilancia commerciale sempre più negativa, e questo per alcune circostanze, come spiega Rimondi: «Le imprese italiane hanno maggiori difficoltà rispetto ai competitori esteri, in particolare americani e tedeschi, a causa di un mercato domestico che si caratterizza per un forte ritardo nei pagamenti, in media di 315 giorni, ed m alcuni casi estremi, come le Regioni Lazio, Campania e Sicilia, addirittura di 600 giorni». «Con questa situazione - continua a spiegare il rappresentante di Assobiomedica - gli oneri finanziari crescono notevolmente, e impediscono di effettuare adeguati investimenti per la ricerca, tanto che, secondo le nostre stime, basterebbe ottenere pagamenti a 90 giorni, per triplicare gli investimenti m ricerca». Ma i problemi non finiscono qui. Il fatto che le gare indette dalle autorità sanitarie siano esclusivamente basate sul prezzo, ed impostate come se si trattasse di un acquisto di beni indifferenziati, crea problemi agli operatori, in termini di difficoltà a creare gamme dei dispositivi molto ampie, per far si che i medici possano poi trovare delle soluzioni personalizzate in funzione delle esigenze del paziente. Le minori spese per ricerca, in genere pochi punti percentuali rispetto al fatturato, e l'assenza di fondi pubblici, non creano certo le premesse per il mantenimento di posizioni di leadership. D'altronde anche il rapporto con le università ed il mondo medico non è dei più ideali, come ammette Rimondi: «In Italia vi è una eccessiva burocratizzazione delle procedure che consentono ad un nuovo dispositivo, una volta che è stato autorizzato all'immissione in commercio, di essere testato, cosi da individuare le condizioni ottimali per il suo impiego. Il risultato è che anche su questo fronte le imprese registrano difficoltà, per non parlare della formazione continua del personale medico, che di fatto, attraverso le sponsorizzazioni, sono a carico dell'industria, non essendoci d'altronde fondi pubblici per l'organizzazione degli eventi scientifici nei quali presentare i risultati delle sperimentazioni». A questo si aggiunge che manca una vera collaborazione, nel campo della ricerca, tra aziende private ed università, anche perché queste ultime non hanno i fondi sufficienti. Più in generale da Assobiomedica lamentano che il settore viene percepito dalle autorità pubbliche più come un centro di costo, invece che un fattore di sviluppo. Ciononostante non mancano i risultati della ricerca, come la valvola cardiaca percutanea, su cui sta lavorando Sorin, la multinazionale italiana quotata in Borsa. Si tratta di una valvola che, invece di essere impiantata attraverso un'operazione, può essere innestata portandola a) cuore attraverso le vene, e la sperimentazione di questa valvola dovrebbe partire tra alcuni mesi. A Mirandola, ____________________________________________ L’Unità 24 apr. ’06 MALATTIE INVENTATE, IL BLUFF DELL'INDUSTRIA FARMACEUTICA FAR CREDERE a una persona sana che è malata, medicalizzando aspetti naturali della vita. È un modo per allargare il mercato dei farmaci. Ed è quello che, secondo alcuni, sta avvenendo in questi anni • di Nicoletta Manuzzato Vendere sempre di più è il dogma del mercato. Per aumentare i consumi (e quindi i profitti), niente di meglio che una buona campagna pubblicitaria in grado di creare nuovi bisogni. Succede anche nel campo della medicina: nel mondo anglosassone la chiamano disease mongering, espressione che potremmo tradurre con «vendita della malattia». II metodo è semplice: basta medicalizzare aspetti naturali della vita, come la menopausa; trasformare disturbi lievi in malattie serie o dipingere come patologie semplici fattori di rischio, quali il colesterolo alto e l'osteoporosi. Il tema è all'ordine del giorno. Dall’11 al 13 aprile ne hanno discusso a Newcastle, in Australia, medici, ricercatori, farmacologi, associazioni di consumatori. E sempre in aprile la rivista Plos Medicine ha dedicato ben undici articoli alla trasformazione dei medicinali da strumenti di salute a beni di consumo. «Un tempo a orientare il lavoro dell'industria farmaceutica erano i medici, i ricercatori. Oggi è il marketing che detta le regole», afferma il professor Silvio Garattini, direttore dell'Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri. «Per più di 5.000 malattie rare sono apparsi in cinque anni solo venti nuovi farmaci, mentre per il trattamento dell'ipertensione abbiamo in circolazione circa 360 confezioni di una sola classe (ve ne sono altre quattro)». Proprio l'ipertensione è uno dei settori di punta dell'offerta farmaceutica. «Certo - spiega Garattini - se si abbassano i livelli di normalità per la pressione sanguigna, come quelli per la colesterolemia o per la densità ossea, prima o poi tutti avremo bisogno di qualche pillola. E gli antidepressivi? Dal livello dei consumi sembriamo un paese di depressi. In realtà la vera malattia depressiva, che va curata, colpisce un numero relativamente basso di persone. Per gli altri si tratta di stati depressivi, provocati da un lutto o da un'avversità: eventi che fanno parte della vita e che andrebbero affrontati come tali. Lo stesso discorso vale per la moda degli integratori alimentari, dei prodotti per la vecchiaia o per la memoria, degli antiossidanti, una moda priva di ogni evidenza scientifica». Le distorsioni sono presenti già a monte. Attualmente la maggior parte dei medicinali viene approvata in sede europea dall'Emea (European Agency for the Evaluation of Medicinal Products), che fa riferimento alla Direzione Generale dell'Industria, anziché alla Direzione Generale della Sanità, come sarebbe più logico. «L'approvazione si basa su tre criteri; la qualità, l'efficacia e la sicurezza - afferma Garattini - non è necessario però fare confronti, dimostrare il valore aggiunto di un nuovo farmaco: questo facilita l'immissione in commercio di prodotti sostanzialmente identici a quelli già esistenti. E poi c'è il grande segreto che circonda i dati scientifici, il mancato accesso alla documentazione farmacologica, alla documentazione clinica originale». Una volta approvato, il prodotto deve essere presentato agli addetti ai lavori. Gli strumenti della comunicazione (dai congressi alle pubblicazioni del settore) sono in gran parte in mano all'industria e questo spiega perché, tra tutti gli studi su un nuovo farmaco, hanno maggiori probabilità di giungere alla stampa quelli favorevoli, a scapito di quelli che mettono in luce gli aspetti negativi. Vi è poi la presentazione «porta a porta»: in Italia sono presenti quasi 35.000 informatori farmaceutici, ciascuno dei quali deve contattare ogni giorno otto medici. Gli informatori sono pagati anche in base agli aumenti delle vendite: non ci si può aspettare che reclamizzino gli effetti tossici di un farmaco o la sua inutilità. Le grandi compagnie giustificano la loro corsa al profitto con gli alti costi della ricerca. «Le cifre rese note dalla stessa industria farmaceutica smentiscono questa affermazione - puntualizza Garattini - Mentre le spese per la promozione superano i130% del fatturato, quelle destinate alla ricerca rappresentano meno del 10%». E vengono indirizzate a settori in grado di garantire un immediato ritorno economico e di proteggere dai rischi del mercato. Niente malattie rare, dunque, e niente malattie del Sud del mondo (dalla lebbra alla malaria), dove gli ammalati sono tanti, ma non sono in grado di pagare. «Anche nei paesi ricchi, chi studia i farmaci per i bambini? È più semplice trattarli da piccoli adulti e calcolare la dose in base al peso corporeo; ma i bambini sono organismi in via di sviluppo, non hanno le stesse caratteristiche degli adulti. Chi si occupa di studiare rimedi per i pazienti resistenti alle comuni terapie farmacologiche? Sono troppo pochi. E cosi via...» afferma il professor Garattini. Che conclude con l'esempio dell'aviaria. «Sono stati comperati vaccini senza sapere se saranno veramente necessari, invece di usare quei soldi per sanare le aree che costituiscono i serbatoi della malattia, risolvendo il problema una volta per tutte». ____________________________________________ L’Unità 24 apr. ’06 DALL'EREZIONE ALLA DEPRESSIONE IL PRIMO A PARLARE DI «DISEASE IVIONGERING», ovvero di commercializzazione delle malattie, fu l'americano Lynn Payerin un libro del 1992. La sua definizione di questo nuovo temine era «cercare di convincere persone in buona salute che sono malate o persone con una malattia lieve che sono molto malate». II tutto con il fine di allargare il mercato dei farmaci. La rivista Plos Medicine (una rivista che, pur seguendo i rigidi criteri di valutazione delle pubblicazioni scientifiche, ha deciso di offrirei suoi articoli gratuitamente su internet) ha dedicato uno speciale con 11 articoli all'argomento e segnala alcuni casi di «disease mongering». II Viagra, ad esempio, è stato trasformato, da un farmaco utile nel caso delle disfunzioni erettili dovute a problemi medici (come il diabete o le lesioni della colonna dorsale) in un prodotto che gli uomini «sani» possono usare per migliorare la loro capacità di avere un'erezione e mantenerla per lungo tempo. La casa farmaceutica che produce il Ritalin (il farmaco d'elezione perla discussa sindrome da deficit d'attenzione e iperattività che negli ultimi anni è stata diagnosticata a moltissimi bambini),avrebbe creato negli Stati Uniti un canale di informazione specifico con gli insegnanti per facilitare la diagnosi della sindrome. C'è poi il caso dei «disordine bipolare» che da malattia con un quadro sintomatico preciso è diventata una patologia in cui far rientrare anche momenti di umore triste. O la sindrome delle gambe senza riposo che, attraverso una campagna pubblicitaria diretta o fatta attraverso la stampa, diventa il nome sotto cui riportare anche sintomi di un'ansia passeggera che ci impedisce distare fermi. ____________________________________________ Avanti 26 apr. ’06 OCCHIALI DA SOLE: RISCHI PER ANZIANI E BAMBINI Dati e consigli pubblicati dalla "Commissione difesa vista" sull'uso delle lenti protettive A quasi un mese dall'inizio della primavera e dopo aver archiviato anche le festività pasquali con relative gite fuori porta o brevi vacanze - quest'anno in Italia per lo più all'insegna del cattivo tempo • ci si appresta ad entrare nel pieno della bella stagione, con tanta voglia di sole, week-end al mare e vita all'aria aperta. È proprio . questo il momento in cui torna a farsi sentire l'esigenza di proteggere in modo adeguato la nostra vista dagli effetti nocivi delle radiazioni solari. Se ormai sembra definitivamente entrata nelle nozioni comuni degli italiani la consapevolezza della necessità di salvaguardare la salute della pelle, schermando la parte dannosa dell'irraggiamento con l’utilizzo di apposite creme e lozioni a base di filtri solari, non altrettanto avviene per quanto riguarda la protezione degli occhi dai raggi Uv. Ai riva cosi puntuale il monito di Commissione difesa vista che, in una recente indagine, fornisce dati aggiornati sull'argomento e stila un utile décalogo che i consumatori sono invitati a tener presente al momento dell'acquisto di un paio di occhiali da sole. In particolare, la ricerca; condotta da Commissione difesa vista in collaborazione con l'Istituto Piepoli e il Cnr, dimostra come siano i bambini e gli anziani le categorie più a rischio: tra i più piccoli, infatti, in una fascia d'età compresa tra i 6 a i 10 anni, solo l’11% utilizza gli occhiali protettivi. La situazione non migliora se si prende in considerazione la categoria degli over 55 e degli anziani: solo il 10% degli italiani, infatti, dopo i 55 anni acquista un paio di occhiali da sole e spesso il criterio che regola la scelta non tiene in debito conto la qualità del prodotto, in particolare delle lenti. Di frequente infatti gli occhiali vengono acquistati. nei luoghi di villeggiatura, magari nelle bancarelle che espongono merce di dubbia qualità: Questo perché, in fondo, non si è ancora pienamente -coscienti dell'importanza che l'uso di un idoneo sistema di protezione della vista riveste ai fini della prevenzione di importanti patologie. Per quanto riguarda i più giovani, bisogna anche pensare che i danni provocati dai raggi UV svelano i propri effetti a lungo termine. È quanto sottolinea Maria Antonietta Blasi, professoressa associata dell'Università dell'Aquila è consulente Cdv: "Atteggiamenti superficiali nella protezione della vista dai raggi Uv nei bambini possono dar luogo, a lungo termine, all'insorgere di vere e proprie patologie oltre a provocare, in senso lato, la degenerazione del cristallino o della retina. Molti dei disturbi oculari in età avanzata sono il risultato di danni subiti a lungo termine, fin da piccoli. Pertanto, un'adeguata informazione e un'accurata prevenzione in tal senso risultano d'obbligo". La protezione è dunque indispensabile ad ogni età, ma in particolare una corretta- informazione in tal senso dev'essere dispensata a partire dall'età scolare, per evitare danni in là negli anni. D'altro canto, oggi più che mai, soprattutto tra i giovani, si tende a vedere negli occhiali da sole principalmente un accessorio alla moda e sono quasi esclusivamente criteri di tipo estetico a orientare la scelta al momento dell'acquisto. È invece bene sapere che non tutti gli occhiali da sole sono uguali sia per la qualità del prodotto, sia per l'effettiva efficacia in rapporto alle condizioni soggettive della vista di chi li indossa. A livello normativo, la legislazione europea parla chiaro. E relativamente semplice dovrebbe essere riconoscere un buon occhiale dà sole. Affinché risulti un valido strumento di protezione dai raggi ultravioletti; a prescindere dalla sua gradevolezza estetica, l'occhiale deve riportare, in un apposito foglietto illustrativo di accompagnamento e tramite marcature sulla montatura, le proprie caratteristiche fisiche, sia meccaniche che ottiche,, quelle del filtro solare delle lenti é i requisiti dei filtri per l'esposizione diretta al sole. Per risultare conformi, infatti, gli occhiali devono superare una serie di test di idoneità per uso generale, cui segue la marchiatura Ce. So16 con tale denominazione l'occhiale può essere commercializzato, in quanto rispondente. alle vigenti normative europee. Nello specifico; la nonna Uni En 1836 indica ben cinque categorie di filtri delle lenti solari, cui corrispondono altrettanti numeri da 0 a 5. La categoria 0, ad esempio, indica un filtro da utilizzare con cielo coperto e in interni; la categoria 2 un filtro adatto ad una media luminosità solare; la categoria 4 un filtro protettivo per una luminosità solare molto intensa. Le radiazioni solari - afferma Massimo Trevisol, ottico optometrista e consulente di Cdv - sono responsabili del precoce invecchiamento del nostro . organismo; tanto della pelle quanto degli . occhi. Pertanto, è importante utilizzare occhiali protettivi certificati e occorre verificare la tipologia e la qualità delle lenti. Ad esempio, se le persona che li indossa soffre di un disturbo visivo; dovrà optare per una lente solare graduata, altrimenti si può adottare una lente neutra. Anche il colore delle lenti svolge un ruolo fondamentale e va scelto conformemente all'anatomia del proprio occhio: gli ipermetropi dovrebbero prediligere colori freddi quali il grigio o il verde, mentre i miopi toni più caldi quali, per esempio, il marrone". Alla base dei consigli forniti dalla Commissione difesa vista per proteggere al meglio la vista dall'esposizione solare, dev'essere dunque la consapevolezza che gli occhiali da sole non sono superflui ma indispensabili: preservano dagli effetti dannosi dei raggi Uv e dai fastidi del riflesso solare. Non bisogna pensare inoltre che gli occhiali da sole siano utili solo agli adulti: bambini e anziani, spesso inconsapevolmente; risultano esposti ai danni dei raggi Uv più di quanto si creda. Nell'acquisto di un paio di occhiali da sole occorre, prima di tutto, verificarne la qualità, segnalata dalle apposite marcature di cui si è accennato. Gli occhiali, infine, devono essere indossati anche all'ombra, perché i raggi solari, in particolari condizioni di incidenza su alcune, superfici quali sabbia o altre superfici riflettenti, risultano dannosi anche se filtrati. ____________________________________________ Libero 29 apr. ’06 FARMACI, CODICE A BARRE PER EVITARE IL RIGETTO SAN RAFFALLE DI MILANO L'applicazione sviluppata nell'ambito della terapia genica dell'emofilia MILANO Ci sono geni e geni. Quelli di certi cervelli italiani (tutt'altro che in fuga) e quelli inseriti a scopo terapeutico nelle cellule del nostro organismo. Quando i primi studiano i secondi, può nascere una scoperta capace di rivoluzionare la ricerca medico-scientifica. Come è accaduto al San Raffaele di Milano. Dove il direttore dell'Istituto Telethon per la Terapia genica, Luigi Naldini, affiancato da Brian Down, giovane ricercatore canadese, ha trovato soluzione a un problema cruciale: il rigetto dei geni introdotti a scopo curativo nei soggetti affetti da patologie ereditarie. E la scoperta sta in un codice. Ma occorre una premessa. Nella terapia genica, il gene-farmaco viene inserito nelle cellule del paziente e va ad aggiungersi a quelli ereditati, invece, in forma patologica. Cosi da correggerne il difetto, ovvero il malfunzionamento responsabile della malattia. II tutto ha buon esito se il gene terapeutico è trattenuto stabilmente, dovendo raggiungere un numero di cellule sufficiente alla cura. Nel caso fosse rigettato, come accade per un trapianto non compatibile, la cura non serve. Il motore di questa rivoluzionaria sperimentazione è stato lo stesso Istituto milanese. Che aveva conseguito un primo successo su una grave forma di immunodeficienza genetica. Benché replicata a Parigi e Londra, tale conquista è rimasta però necessariamente limitata a quelle malattie genetiche caratterizzate da deficit immunologico. In altre patologie, come quelle emofiliache o metaboliche, dove il sistema immunitario è funzionante, il gene farmaco è infatti rigettato in tempi brevi. Riconosciuto e considerato un intruso, al pari di un virus, viene espulso. Di qui, la recentissima e ulteriore rivoluzione degli studi di Naldini. «Si tratta una strategia potentissima», dice lo scienziato, «anche se il concetto su cui si basa non è una scoperta nostra». Nonostante il paragone sia del tutto sproporzionato allo spessore della scoperta, si tratta di un "codice a barre", al pari di quelli che identificano i prodotti al supermercato. Aggirando l'ostacolo, il gene-farmaco viene marcato, prima della somministrazione, con una sequenza di basi attaccata alla sua coda. Il codice permette che sia riconosciuto unicamente da alcuni particolari miero- geni (in gergo, micro-RNA), coli un ruolo fondamentale nei processi cellulari. «II gene», spiega Naldini, «viene allungato da una sequenza di basi chimiche, le stesse che lo compongono, le quali sono lette dai miero-geni, che si comportano come un apparato di scansione. Sono loro a spegnerlo e nasconderlo al sistema immunitario, suo principale ostacolo». Ricapitoliamo. E come se il gene-farmaco venisse selezionato dalle cellule dove i miero-RNA sono presenti, rendendosi invisibile al sistema immunitario. Oltre che libero di essere riconosciuto dalle cellule degli altri tessuti, dove deve svolgere l'azione terapeutica. Il team di Naldini ha sperimentato il "codice a barre" su topolini da laboratorio. Con esiti sorprendenti, nessun segno di rigetto o sintomo di altra patologia. Ora la strategia è in fase di applicazione su modelli di malattie come l'emofilia, senza escludere di potersi aprire a nuove terapie per patologie congenite o acquisite, cancro compreso. E si prevede la sperimentazione clinica entro due o tre asmi. Alessandra Stoppa ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 23 apr. ’06 PILLOLA KILLER DELLA CELIACHIA. SOLO NELL’ISOLA I CASI DIAGNOSTICATI SONO DUEMILA I suoi effetti illustrati a Porto Cervo dal direttore della ricerca, Alessio Fasano LUCA ROJCH PORTO CERVO. Sarà una pillola a riaprire il cassetto del pane per milioni di celiaci. Serviranno ancora un paio d’anni, ma la pastiglia miracolosa, la stampella chimica che ridarà una vita normale e piena di carboidrati a milioni di persone è già in fase sperimentale sull’uomo. La speranza arriva da uno studio fatto negli Usa dall’équipe di Alessio Fasano, direttore del biology research centre all’università del Maryland. Il ricercatore italiano ha concentrato le sue ricerche su questa malattia. La sua pillola è ora sotto l’esame della “food and drug administration”, che la testa su volontari con ottimi riscontri. La patologia è scomparsa in chi assume la compressa. Scorpacciate di pasta e panini non hanno nessun effetto sui soggetti che prendono il farmaco. I risultati sono stati annunciati dal padre della pastiglia miracolosa, Alessio Fasano, in un convegno internazionale organizzato dall’associazione italiana celiaci, a Porto Cervo. L’incontro è servito anche per fornire le cifre sui pazienti sardi. Nell’isola è allarme rosso, sono 2mila i casi diagnosticati, ma si ipotizzano più di 16mila pazienti. L’incidenza è quasi il doppio di quella nazionale: un caso ogni 80 persone. Nelle zone dell’interno si ha un vero e proprio record negativo. Manca ancora uno screening sulla popolazione, ma analisi a campione hanno dato risultati sconfortanti. In provincia di Nuoro su 156 controlli in 6 sono risultati positivi. Sotto accusa è sempre il dna dei sardi che mette assieme primati di longevità e tare ereditarie. Diabete, sclerosi multipla e anemia mediterranea hanno un’incidenza record nell’isola. «Nelle popolazioni insulari dove il dna è rimasto cristallizzato - spiega Fasano- gli errori presenti nel codice genetico non sono stati diluiti attraverso la mescolanza». La celiachia è una malattia delle società industrializzate. Ma non si può ridurre a una semplice intolleranza al glutine. «La rivoluzione è cominciata quando abbiamo smesso di considerare questa patologia come un disturbo alimentare, ma siamo riusciti a comprenderne la sua origine genetica autoimmune - dice Fasano -. Questa malattia è in realtà un incidente. È figlia di una scoperta non contemplata nel nostro codice genetico: l’agricoltura. 7mila anni fa l’uomo ha inventato la coltivazione ed è riuscito a produrre quantità di frumento che l’organismo non era preparato a sintetizzare. L’evoluzione aveva portato l’individuo verso un’altra direzione. Ecco perché la celiachia colpisce solo l’uomo e non gli animali». Dalla ricerca si creano nuove prospettive anche per la cura di altre patologie. Celiachia, diabete e sclerosi multipla sono legate tra loro a doppio filo. «Il futuro è nel vaccino - spiega il consigliere nazionale dell’associazione celiachia, Gianfranco Alloni -. Ma ci vorranno ancora 10 anni. Aspettiamo l’arrivo della pillola della trasgressione, da prendere in occasioni speciali». In attesa di questo Viagra della pastasciutta i celiaci devono continuare a fare lo slalom tra i cibi proibiti. «Il farmaco blocca l’effetto tossico dei farinacei - spiega Fasano -. Agisce sulla “zonulina”, la proteina che regola l’assorbimento del glutine nell’intestino. È una specie di chiave che apre le porte tra le cellule. L’intestino è protetto da una barriera di cellule, nei celiaci la protezione non c’è, e le porte che dovrebbero rimanere chiuse e impedire che il glutine venga assorbito, restano spalancate». ____________________________________________________________ La Repubblica 26 apr. ’06 CANCRO, I PROGRESSI Convegno mondiale a Washington sui tumori: nonostante i successi, per battere la malattia ci vuole ancora tempo di Adriana Albini * In oncologia impariamo dalla cardiologia: è il messaggio lanciato poco tempo fa dallo studioso britannico Jack Cuzick in un editoriale su "Lancet Oncology". L'articolo, dal titolo provocatorio: "Chemoprevenzione del cancro, è tempo di raggiungere i cardiologi", esorta gli oncologi ad arrivare agli incoraggianti cali di mortalità ottenuti dai colleghi mediante farmaci che abbassano il rischio. Ad incoraggiare la medicina preventiva negli Usa c'è invece un giornalista, una delle voci più sentite e autorevoli, che ha indagato in modo critico sui "numeri" dell'epidemiologia dei tumori. Clifton Leaf, Direttore Esecutivo di "Fortune Magazine", rivista molto letta negli USA, è spesso ospite dei convegni sui tumori, da quando ha realizzato l'articolo intitolato: "Perché stiamo perdendo la guerra contro il cancro (e come vincerla)", che sta avendo un incredibile impatto sugli oncologi e l'opinione pubblica. Sopravvissuto ad un linfoma, Leaf ha sciorinato, ad un recente convegno mondiale sulla prevenzione a Saint Gallen, le cifre impressionanti di una guerra che, nonostante le molte battaglie vinte, rischia di sconfiggerci. Dunque, prima di aggiornare sulle nuove scoperte e armi da ingaggiare, ecco un po' di numeri. Ogni anno nel mondo si registrano 10 milioni di nuovi casi di tumore e circa 6 milioni di decessi nel 2004, 7,6 stima per il 2005. Tra 15 anni, nel 2020, si prevedono 15 milioni di nuove diagnosi (+50%): per questo, secondo Leaf, rischiamo di perdere questa guerra che lui definisce di "logoramento". Il bilancio infatti non torna perché, mentre si allunga l'aspettativa di vita per chi è malato, aumenta il numero dei nuovi malati e l'incidenza media sale più della sopravvivenza. La curva di mortalità per tumori, per esempio negli USA, cresce più rapidamente dell'incremento di popolazione. Ciò dipende da vari fattori. In particolare, i tumori si verificano con maggior frequenza con l'avanzare dell'età; a parte quelli infantili sono una "malattia dell'anziano" e quindi, con l'allungarsi della vita, si verificano con più probabilità. Dobbiamo dunque lavorare a questa forbice, diminuendo i nuovi casi. Se si mette d'impegno, la scienza è in grado di sconfiggere le malattie prima ancora che si presentino. Pensiamo ai vaccini che hanno tenuto sotto controllo, nel caso del vaiolo, praticamente debellato, le malattie infettive infantili. Non solo: come accennato all'inizio, l'andamento in calo per ciò che riguarda un altro tipo di malattia cronico degenerativa è un impressionante esempio di successo della ricerca e della medicina: dal 1950 al 2002 la mortalità causata dai disturbi cardiovascolari è diminuita del 60% e si avvia a sfiorare il 70% di meno. La guerra di "trincea" contro il cancro è estremamente costosa, quindi sempre più discriminante tra "ricchi e poveri", e anche per tale motivo bisogna cambiare strategia. Secondo l'Economist, la terapia oncologica negli USA è costata nell'ultimo anno 69 miliardi di dollari. Per ogni farmaco da usare in terapia occorre un decennio per lo sviluppo, eppure tre quarti dei fattori portati in sperimentazione non sono efficaci nel prolungare l'attesa di vita. Questo concetto è confermato da un interessante e dibattuto articolo pubblicato qualche mese fa da Giovanni Apolone e Silvio Garattini, dell'Istituto Mario Negri di Milano, sul British Journal of Cancer. La maggior parte dei successi ottenuti nell'abbassamento della mortalità in Europa sarebbe dovuta alla prevenzione, più che ai trattamenti farmacologici. Allora cosa fare? Le parole chiave sono essenzialmente tre: Prevenzione, Diagnosi Precoce, Terapie efficaci e meno tossiche, unite all'impegno nella ricerca. Di tutto questo si è parlato approfonditamente nel recentissimo Meeting Annuale dell'Associazione Americana per la Ricerca sul Cancro - AACR di Washington DC, che ha registrato la partecipazione di 16.000 delegati. Sottoponiamo in questa pagine all'attenzione dei lettori alcuni dei punti "caldi" emersi. * Vicedirettore scientifico Istituto Tumori, Genova ____________________________________________________________ Le Scienze 26 apr. ’06 LE BASI MOLECOLARI DELLA RESISTENZA AGLI ANTIBIOTICI Scoperte dai ricercatori dell'Istituto Pasteur di Parigi La multiresistenza agli antibiotici costituisce un grave problema di sanità pubblica e una sfida per la biologia. Una delle principali vie di disseminazione di queste resistenze è il trasferimento fra batteri di una classe di elementi mobili particolari, detti integroni, che sono i portatori delle resistenze. In un lavoro pubblicato sull’ultimo numero di Nature, un gruppo di ricercatori diretti da Deshmukh Gopaul e Didier Mazel dell’Istituto Pasteur di Parigi e del CNRS sono riusciti a fornire un modello dei complessi meccanismi che spiegano come gli integroni si propagano con enorme efficienza in una popolazione di batteri. In particolare, grazie a studi cristallografici hanno potuto osservare che alcuni integroni possono assumere in certe circostanze una struttura tridimensionale particolare, che costituisce una condizione necessaria per il loro riconoscimento da parte degli enzimi di ricombinazione (integrasi) e per lo scambio di materiale genetico fra batteri. Il lavoro apre una nuova strada nella ricerca di trattamenti in grado di arginare la diffusione delle resistenze nei batteri. ____________________________________________________________ Le Scienze 26 apr. ’06 TERAHERTZ PER "VEDERE" I TUMORI DEL SENO In caso di mastectomia, l'esame dei tessuti può essere effettuato immediatamente Una nuova e promettente tecnica di imaging per combattere i tumori del seno è descritta sull’ultimo numero della rivista “Radiology". Si tratta di uno scanner in grado di spingere la radiazione elettromagnetica che emette nel dominio dei terahertz, permettendo di esaminare tessuti rimossi durante un intervento chirurgico di eradicazione di un carcinoma mammario e, in particolare, di evidenziare se i margini delle zone asportate sono privi di cellule tumorali. “Abbiamo trovato che la radiazione a terahertz può permettere di distinguere in modo affidabile tra il tessuto normale e il tumore, anche quando questo sia in uno stadio molto precoce. Questa tecnologia potrebbe essere d’aiuto al chirurgo per identificare immediatamente i tessuti tumorali residui, minimizzando la necessità di procedure chirurgiche ulteriori”, ha spiegato Vincent Wallace, che ha partecipato allo studio di messa a punto del nuovo dispositivo presso l’Addenbrooke’s Hospital di Cambirdge. In effetti la velocità operativa rappresenta un grosso vantaggio dal punto di vista clinico. Attualmente, l’esame istopatologico richiede diversi giorni. Così il chirurgo non può sapere immediatamente dopo l’operazione di mastectomia se l’esito è favorevole o meno. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 23 apr. ’06 PREGHIERA A MANI GIUNTE SI GUADAGNA IN SALUTE Da vent' anni varie ricerche ne dimostrano le proprietà terapeutiche sul tono dell' umore, sulla pressione e sul cuore O rmai non sono più segnalazioni aneddotiche; siamo di fronte ad una vera e propria "terapia" della preghiera. Sono più di trent' anni che studiosi, prevalentemente americani, ma non solo, si interrogano appassionatamente sul tema: la pratica religiosa allunga la vita, fa ammalare di meno, fa guarire prima? In sostanza è una cura? Uno dei ricercatori che ha fornito le prime risposte al quesito è stato lo statunitense Herbert Benson, professore di medicina alla Harvard Medical School, pioniere degli studi - correva l' anno 1967 - sull' effetto benefico della meditazione sulla respirazione e sulla pressione alta, lavori che non sempre hanno trovato entusiasta la comunità scientifica. Ma in seguito altre ricerche condotte con rigore hanno dimostrato che fra i malati ricoverati in Unità coronarica per un infarto, quelli che pregano o hanno, comunque, il conforto della fede, approdano più velocemente alla convalescenza. Altre, meno convincenti, ipotizzano che la preghiera, se associata ad una dieta equilibrata, possa far regredire le placche aterosclerotiche nelle arterie e riesca, addirittura, a frenare la progressione del tumore alla prostata. Senz' altro attendibile, invece, la ricerca che comparve nel 2002 sulla rivista British Medical Journal sugli effetti benefici del rosario, rigorosamente in latino, coordinata da Luciano Bernardi dell' Università di Pavia. Se recitato ogni giorno e con grande partecipazione da persone sofferenti di scompenso cardiaco cronico, sembra capace di regolarizzare il battito del cuore e la pressione. Il beneficio sarebbe dovuto alla ripetitività (si devono recitare per tre volte 50 Ave Maria) della litania che facilita la sincronizzazione del respiro con il ritmo del cuore, con una migliore ossigenazione del sangue. All' Università di Cambridge in Gran Bretagna, il neurologo John Teasdale ha scoperto che la meditazione abbinata alla psicoterapia riesce a curare certe forme di depressione cronica. Una delle sue pazienti, una scrittrice figlia di due sopravvissuti all' Olocausto, grazie a questo trattamento è riuscita a fare a meno dei farmaci che l' avevano, come una schiavitù, accompagnata per tutta la vita. La passione per la meditazione terapeutica, tipicamente americana, ha contagiato perfino i tedeschi. A Essen, in Germania, ricercatori seguono ormai da cinque anni circa 3.000 persone che soffrono di malattie di cuore, di disturbi intestinali, ma anche di patologie tumorali. Tutte si sottopongono periodicamente ad un programma di meditazione, con risultati che sembrano significativi: molti migliorano. Ma dove sta il meccanismo benefico della meditazione o della preghiera, dove agisce? Sul cervello, probabilmente. Se lo sono chiesto, ovviamente, gli specialisti delle neuroscienze. Come Andrew Newberg della Scuola di medicina dell' Università della Pennsylvania, negli Stati Uniti, che ha utilizzato vari metodi di imaging cerebrale per scoprire quali aree del cervello sono coinvolte. Ha potuto dimostrare così che quanto più la persona è infervorata dalla preghiera tanto più si attivano nel cervello le aree frontali e quelle limbiche, deputate le prime alla concentrazione e all' attenzione, le seconde all' elaborazione delle emozioni. Contemporaneamente cala l' attività nei lobi parietali, fondamentali nel mantenere l' orientamento nel tempo e nello spazio. La complessità di questi circuiti cerebrali spiegherebbe perché la preghiera, così come la meditazione, permettono alla persona di sentirsi in una dimensione trascendente, in contatto con il sovrannaturale, lontani dalla realtà. In questo filone di studi si inseriscono le ricerche della baronessa inglese Susan Greenfield, neuroscienziata di chiara fama, che sta conducendo una serie di esperimenti sull' influenza della fede sulla soglia del dolore al Centro per la scienza della mente dell' Università di Oxford. Intanto la pratica della meditazione in America sta diventando sempre più popolare. Non sono più soltanto attori famosi a trarne benefici, Richard Gere, Goldie Hawn e molti altri, ma a Fairfield, nello Iowa, addirittura gli studenti delle scuole. F.P. Il rosario Una ricerca ha dimostrato che, recitato ogni giorno, fa star meglio i malati di scompenso cardiaco La meditazione Abbinata alla psicoterapia sembra essere di grande aiuto alle persone che soffrono di depressione Porciani Franca ____________________________________________________________ Corriere della Sera 23 apr. ’06 GLI ITALIANI SOFFRONO TROPPO Contro il dolore cronico vengono prescritti soprattutto farmaci antinfiammatori: solo al 9% dei malati si danno oppiodi deboli STRUMENTI Sono 15 milioni gli italiani che ogni giorno si trovano ad affrontare problemi di sofferenza e dolore fisico a causa di malattie, ma la terapia del dolore in Italia è ancora ai pali. Lo rivela una ricerca condotta in Europa dall’Associazione italiana per lo studio del dolore (www.aisd.it), che ha evidenziato anche le differenze di assistenza tra Paese e Paese. In Italia poco meno di un quarto della popolazione accusa sofferenza (uno su 5 è la media europea) e la metà dei malati soffre 10 anni prima di curare il dolore. «Ma la cura è spesso inadeguata — dice Giustino Varrassi dell’Aisd — e la metà dei pazienti abbandona il trattamento». Il dolore cronico nel nostro Paese è trascurato per diversi motivi, come spiega Cesare Bonezzi, responsabile del Centro di terapia del dolore della Fondazione Maugeri di Pavia: «L’utilizzo degli antidolorifici più potenti, come morfina e oppiacei, per il controllo del dolore cronico non legato alla malattia neoplastica, risente di pregiudizi e inadeguata conoscenza dell’efficacia e degli effetti collaterali di tali farmaci. A ciò si aggiunge una scarsa distribuzione sul territorio di Centri per la terapia del dolore». Precisa il dottor Furio Zucco, responsabile della terapia del dolore all’ospedale di Garbagnate (Milano): «Una intesa Stato- Regioni, nel 2001, ha varato un provvedimento sulla terapia del dolore, con l’obiettivo di creare "Comitati per l’ospedale senza dolore", senza però nè obblighi nè corrispettivo economico. ? Oppioidi:farmaci come la droga ? Promesse nel nuovo Piano Sanitario ? Gli indirizzi dei centri contro il dolore Di fatto, ogni Regione ha interpretato a modo suo l’accordo, alcune non lo hanno applicato». Ci sono, tuttavia, anche esperienze positive, come quella della Ulss 6 di Vicenza, dove Marco Visentin, direttore dell’Unità di terapia del dolore e cure palliative, ha realizzato con i medici di famiglia e gli specialisti una rete che può far fronte alla forme di dolore provocato da diverse cause: dal mal di schiena, alle neuropatie, dalle vasculopatie, alle malattie reumatiche, fino alle malattie tumorali. «Oggi il dolore — aggiunge Visentin — si può risolvere nel 90% dei casi. Per esempio, nella fase post operatoria, evitarlo significa far guarire prima e meglio». Anche il non profit si occupa del problema e per sensibilizzare l’opinione pubblica è nata la Fondazione Anna Merzagora, in memoria di una signora, morta per tumore, che soltanto nell’ultimo periodo del suo calvario ha potuto scoprire che tante sofferenze sarebbero state evitabili. «Per questo — spiega il marito, Sergio Cesa — ho voluto creare un sodalizio che promuova la conoscenza e la diffusione della terapia del dolore, realizzando anche un libretto dal titolo "Liberi dal dolore"(sul sito www.ildoloredianna.org) e avviando corsi di formazione per medici e specializzandi nel reparto di terapia del dolore della Fondazione Maugeri di Pavia». Edoardo Stucchi ____________________________________________________________ La Stampa 26 apr. ’06 LA GUERRA DEL FETO NEL FIGLIO LE COPIE DI ALCUNI GENI VENGONO «SPENTE» A SECONDA CHE PROVENGANO DALLA MADRE O DAL PADRE IL PROCESSO PUO’ CONTINUARE DOPO LA NASCITA E SPIEGA ANCHE DEPRESSIONE E AUTISMO LA gravidanza può essere l'esperienza più emozionante della vita. Ma può anche rivelarsi pericolosa. Nel mondo si stima che 529 mila donne muoiano ogni anno mentre sono incinte o di parto. E 10 milioni soffrono di malesseri, infezioni e invalidità. Per il biologo evoluzionista di Harvard, David Haig, le statistiche non fanno che aumentare il mistero che circonda questo evento: «Prendete il cuore e i reni: funzionano perfettamente per anni, mentre la gravidanza è associata a ogni sorta di problema medico. Qual è la differenza?». La differenza consiste nel fatto che il funzionamento di cuore e reni in gravidanza non riguarda più una sola persona, ma due. Ed è un processo che non si svolge in perfetta armonia. Haig sostiene che madre e feto ingaggiano una lotta inconscia per il nutrimento. La teoria, che trova sempre maggiori consensi, spiega anche una caratteristica sorprendente dei futuri bambini: le copie di alcuni geni ereditati vengono «spente», a seconda che provengano dalla madre o dal padre. E il conflitto può continuare anche dopo la nascita e influenzare perfino la vita futura, spiegando disordini psicologici come depressione e autismo. A ispirare Haig sono stati gli studi di Robert Trivers, un biologo evoluzionista dell'Università di Rutgers. Già nel ‘70 si disse convinto che le famiglie creano un conflitto evolutivo: da un lato la selezione naturale favorisce i genitori che crescono la prole più numerosa possibile, limitando quindi le risorse tra più figli; dall’altro lato la selezione naturale favorisce i geni che aiutano i bambini a intercettare la maggiore quantità possibile di risorse, più di quanta i genitori siano disposti a offrire. Oggi Haig considera la gravidanza come l’arena perfetta di questa «guerra». Se lo sviluppo nel ventre materno è cruciale per la salute futura del bambino, è plausibile che la natura favorisca i geni che permettono di sottrarre più nutrimento alla madre. Un feto, quindi, non è passivo e per questo la natura aiuta la madre a resistere alle sue incursioni. E’ un tiro alla fune. «Noi pensiamo ai geni come parti di un meccanismo sincronizzato, ma nella realtà la cooperazione viene meno». Haig è stato il primo a indicare le complicazioni della gravidanza come il prodotto di questo scontro. Una delle più comuni è la pre-eclampsia, caratterizzata da un pericoloso aumento della pressione arteriosa negli stadi avanzati della gravidanza. Questa sarebbe una strategia comune a tutti i feti, che cercano di spingere più sangue nella placenta e strappare più nutrimento. Ananth Karumanchi della Harvard Medical ha confermato l'ipotesi: nelle donne affette da pre- eclampsia c’è un livello insolitamente elevato di una proteina, la sFlt1, prodotta dal feto stesso. Haig ha elaborato anche alcune ipotesi sulle difese materne: una delle strategie messe in atto dalle donne è «spegnere» una serie di geni dei bambini. L’accorgimento si basa sul fatto che la maggior parte dei geni di cui siamo portatori forma una coppia: ereditiamo una copia dalla madre e una dal padre. In genere si comportano in modo identico: 15 anni fa, però, alcuni scienziati hanno identificato più di 70 paia di geni in cui la copia di un genitore non codifica mai una proteina. Questo processo - definito «imprinting genomico» - non è ancora del tutto chiaro, ma si ritiene che sia possibile grazie alla presenza di «maniglie chimiche» - i gruppi metilici - attaccate alle unità del Dna: alcune «maniglie» possono spegnere i geni degli spermatozoi e delle cellule uovo e questi restano spenti anche dopo la fecondazione. Uno degli esempi più significativi è rappresentato dal gene Igf2. Prodotto solo nelle cellule fetali, stimola la crescita. Normalmente solo la copia del padre è attiva. Per comprenderne meglio l'attività, gli scienziati hanno spento questa copia in alcune cavie. Risultato: la prole nasce sottopeso. E’ probabile che la copia della madre resti «silente» per evitare di rallentare lo sviluppo del feto. D’altra parte si è scoperto che le cavie incinte possiedono un altro gene, l’Igf2 r, che interferisce con l’Igf2: in questo caso è il gene del padre a essere silente, quello che deve velocizzare la crescita della prole. Se la copia della madre del secondo gene è spenta, nascono cuccioli più pesanti del 125% rispetto alla media. Ci sono anche altri geni dell’«imprinting genomico» che velocizzano e rallentano la crescita dei feti in modi simili, rafforzando la teoria di Haig. E alcune malattie sono state associate a questi geni: la sindrome di Beckwith- Wiedemann, per esempio, che provoca un’ipercrescita degli organi, predisponendo alla formazione di tumori. In alcuni casi è collegabile a una mutazione che rimpiazza la copia silente di Igf2 della madre con un copia extra di quella del padre. Ora Haig studia le implicazioni della sua teoria anche dopo la nascita: «Penso che spieghi molti tipi di comportamento». Si è scoperto, infatti, che alcuni geni «imprinted» si trovano nel cervello dopo la nascita e talvolta in età adulta. Non è un caso che una delle maggiori fonti del conflitto dopo la nascita sia rappresentata dal nutrimento che la madre dà a ogni individuo della prole. Un mammifero cresce meglio se riceve più latte. L'allattamento richiede da parte delle madri un grande dispendio di energie, che potrebbe essere impiegato in altre attività come accudire più figli. E' emerso che un certo numero di geni «imprinted» è attivo nel cervello dei bambini e si pensa che potrebbe influenzare il loro comportamento nei confronti delle madri. Nelle cavie uno di questi sarebbe il GnasXi. Di solito la copia della madre è silente. Se invece la copia paterna non funziona, i figli mettono meno forza nella poppata. Succhiano così poco latte che, a nove giorni, pesano un quarto del normale. Secondo Haig, altri geni restano «imprinted» anche nel cervello degli adulti e la loro evoluzione dipenderebbe dal tipo di gruppo in cui i mammiferi vivono. In molte specie, mentre le femmine tendono a rimanere nel gruppo, i maschi lo lasciano. Di conseguenza le femmine condividono più geni con gli altri membri del gruppo rispetto ai maschi e, se i geni materni possono favorire comportamenti di aggregazione, quelli paterni potrebbero spingere all'individualità. «Mamma e papà - spiega Lawrence Wilkinson della University of Cambridge - hanno pretese molto diverse sul nostro comportamento». [TSCOPY]Copyright «The New York Times Science» [/TSCOPY] {Testo} David Haig è un genetista evoluzionista della Harvard University e le sue ricerche d’avanguardia si concentrano sugli equilibri e sui conflitti nel Genoma, con un particolare interesse sui rapporti tra genitori e prole. LA TEORIA La maggiore conquista della genetica in 20 anni è stata la scoperta dell’«imprinting genomico», che traccia la provenienza dei geni: Haig è convinto che i «geni attivi paterni e materni» costituiscano meno del’1% del totale, ma che siano in conflitto gli uni con gli altri, costringendoci a ripensare il concetto di individuo. IL LIBRO I suoi studi sono raccolti nel saggio «Genomic Imprinting and Kinship», Rutgers, 2002. IL SITO INTERNET http://www.oeb.harvard.edu/faculty/haig/HaigHome.htm. Carl Zimmer