ALLE UNIVERSITÀ SERVE LA CURA DEL MERITO - II RITARDO ITALIANO NELL'ISTRUZIONE - PIÙ RISORSE ALL'UNIVERSITÀ MA SEGUENDO UNA STRATEGIA - BASTA UNIVERSITÀ SOTTO CASA - L' EPIDEMIA DELLE RICERCHE «TAROCCATE» - MACCHÉ PLATONE, LEGGETE ARISTIPPO E CERINTO - UNIVERSITÀ, CREDITI E FURBI IL MERCATO DEGLI ESAMI - GIRO DI VITE SULLE LAUREE FACILI - LAUREE FACILI NELL'AMMINISTRAZIONE IL MINISTRO MUSSI APRE UN'INDAGINE - BASTA LAUREE FACILI - I PRESIDI DI FACOLTÀ BOCCIANO LE SCUOLE: «SFORNANO DIPLOMI PIENI DI LACUNE» - SCUOLA, STOP ALLA RIFORMA DEI LICEI - MANCANO FONDI PER L'E-LEARNING - GIURISPRUDENZA: MASSIMO DEIANA È IL NUOVO PRESIDE - SARDEGNA, CRESCITA AL RALLENTATORE - IL CRENOS SULL'ECONOMIA SARDA - L' ATENEO DI CAGLIARI: UNO SCRIGNO DELL'ARTE - L'AZIENDA SCOPRE LA RIVOLUZIONE PERMANENTE - ======================================================= AZIENDA MISTA, IN AUTUNNO SI FA - SASSARI:UNA NUOVA CULTURA DEL SOCIALE - ANAGRAFE INFORMATICA NELL’ISOLA PER TUTTI GLI ASSISTITI ASL - IMPUTATO BISTURI - QUANTI ERRORI IN FARMACIA - ESERCITAZIONE: PRIMO SOCCORSO, PROVA SUPERATA - CENTRO SCLEROSI MULTIPLA, ALTOLÀ DEI PAZIENTI - DONAZIONI DI SANGUE: SI PUÒ FARE DI PIÙ - ALLARME IN EUROPA, GLI ANTIBIOTICI NON FUNZIONANO PIÙ - CARTELLA CLINICA CON LE SPIEGAZIONI - II CRUSCOTTO CHE GUIDA I MEDICI - SCOPERTO IL SEGRETO DELLA LEUCEMIA - ARTERIOSCLEROSI KO COL VELENO DI UN SERPENTE - ALLERGIE E TUMORI STESSI MECCANISMI - NUOVI METODI PER IL DOSAGGIO DEI FARMACI - PROIETTILI DI PLATINO CONTRO HIV E CANCRO - ======================================================= _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Giu. ‘06 ALLE UNIVERSITÀ SERVE LA CURA DEL MERITO Concorrenza e premi a docenti e ricercatori ROMA Un sistema iniquo: non riconosce il merito dei più bravi, non garantisce livelli qualificati di preparazione e favorisce invece chi appartiene a uno status sociale protetto e garantito. Sono poche righe, quelle dedicate all'istruzione dal governatore della Banca d'Italia Mario Draghi: ma é una sferzata violenta, diretta contro un apparato dove «la qualità dei risultati presenta aspetti critici». Scuola e università non passano l'esame di Bankitalia: anche se «negli ultimi dieci anni l'Italia ha ridotto il divario rispetto ai paesi più avanzati - recitano le - Considerazioni finali - il ritardo accumulato peserà ancora a lungo sul livello medio del capitale di istruzione degli italiani». Draghi cita uno studio dell’Ocse: nel 2003 le quote di diplomati e laureati italiani nella fascia tra 25 e 46 anni erano rispettivamente del 34 e del ld per cento, contro la media dei paesi Ocse del 41 e del 24 per cento. A distanza dì tre anni dal rapporto Ocse, è difficile immaginare un improvviso salto di qualità. Cerio, l'introduzione della laurea triennale, per esempio, ha ridotto il fenomeno dei «fuori corso»: ha fortemente abbassato, però, il grado medio di preparazione degli studenti. I dati citati dal governatore ricordano che a 15 anni gli studenti italiani «hanno accumulato un ritardo nell'apprendimento della matematica equivalente a un anno di scuola»: in termiini di graduatorie pese, l'Italia figura al 26° posto su 29 paesi. Ma poi, sottolinea Bankitalia, «a questo difetto di efficacia» negli studi «se ne aggiunge uno di equità: la variabilità nei livelli di apprendimento dei quindicenni colloca il nostro paese al 23° posto dell'Ocse: il successo scolastico - ammonisce Draghi --- nella scuola superiore e all'università è fortemente correlato alle condizioni della famiglia di provenienza». Sembrano osservazioni sul livello di istruzione della prima metà del secolo scorso, il dramma è che parlano della situazione di oggi. E sono difficilmente confutabili se è valida, per esempio, una delle maggiori critiche alla trasformazione in licei di tutti gli indirizzi delle superiori, voluta dalla riforma Moratti e già sospesa dal nuovo ministro Fioroni. Illudere le famiglie di mandare comunque i propri figli a un «liceo» (classico, economico, scientifico, tecnologico, etc.) - è l'obiezione sollevata - non fa che appiattire in basso il livello di preparazione, riduce la capacità degli studenti di entrare nel mercato del lavoro e favorisce così solo i giovani in condizioni agiate e con più mezzi, economici e sociali, necessari per trovare un'occupazione. «La gravità del ritardo» In 15 anni un ragazzo italiano accumula un ritardo di un anno nella matematica Nello studio la famiglia conta ancora troppo avverte il governatore «ci impone di guardare all'esperienza di altri paesi europei. quali Svezia. Finlandia, Regno Unito. che hanno sperimentato strumenti per migliorare il rendimento del sistema di istruzione e di ricerca, rafforzando la competizione fra scuole e università». Insomma, raccomanda Draghi. «prima ancora che maggiori spese, occorrono nuove regole che premino il merito di docenti e ricercatori». Chi non potrebbe essere d'accordo? Eppure, all'atto pratico, molto si è' detto ma molto poca è stato fatto su questo fronte: difficile da affrontare negli atenei e difficilissimo nelle scuole. Risale al 1999 l'ultimo tentativo di introdurre una selezione di merito per ;li insegnanti: il ministro Ds Luigi Berlinguer. però, fu travolto dalla rivolta di piazza e da allora nessuno ha osato rilanciare concretamente il tema nel timore di essere bruciato. Per gli atenei, invece, Letizia Moratti ha previsto una serie di criteri per legare i finanziamentî pubblici degli atenei ai risultati. Ma in un sistema fortemente autoreferenziale, come quello delle università, innovazioni di questo genere passano molto lentamente. Mentre crescono velocemente nuovi corsi, nuove lauree e nuove sedi: senza garantire - e in alcuni casi addirittura abbassando - quella qualità invocata con forza dal governatore della Banca d'Italia. M.LtiD. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Giu. ‘06 II RITARDO ITALIANO NELL'ISTRUZIONE La graduatoria Ocse Meno efficacia, mena equità. A quindici anni, sottolinea il governatore della Banca d'Italia. gli studenti italiani hanno accumulato un ritardo nell'apprendimento della matematica equivalente a un anno di scuola. Secondo un'indagine dell'Ocse, l'Italia figura al 26° posto su 29 Paesi. «A questo difetto di efficacia - puntualizza Draghi - se ne aggiunge uno di equità»; la variabilità nei livelli di apprendimento dei quindicenni colloca il nostro Paese ai 23° posto dell'Ocse. E il successo scolastico nella scuota superiore e all'università «è fortemente correlato alle condizioni della famiglia di provenienza». _____________________________________________________________ Europa 3 Giu. ‘06 PIÙ RISORSE ALL'UNIVERSITÀ MA SEGUENDO UNA STRATEGIA L’università italiana soffre, in prospettiva comparata, di uno strutturale sotto-finanziamento. Rispetto a paesi come Francia, Germania, Inghilterra, Australia (per non parlare degli Stati Uniti), l’università italiana ha a disposizione molte meno risorse finanziarie per la ricerca, per il personale, per il funzionamento (biblioteche, laboratori informatici, mobili, ecc.) e, soprattutto, per il diritto allo studio. È storia vecchia. Da questo punto di vista fa bene Guido Trombetti, il neo-presidente della Conferenza dei rettori, a chiedere più risorse. La Crui chiede un aumento del 10 per cento all’anno dei finanziamenti statali per un periodo di almeno 5 anni. Una richiesta forte che riprende direttamente il programma elettorale dell'Ulivo. Una richiesta certamente legittima, se si considera lo stato finanziario decisamente deprimente delle università italiane, alcune delle quali sono al limite del tracollo finanziario. Una situazione causata da costi crescenti e da risorse decrescenti. Basti qui ricordare non solo che i trasferimenti pubblici sono diminuiti, in termini reali, negli ultimi 4 anni (checché ne dica il neo-sindaco di Milano) ma anche che gli aumenti stipendiali dei docenti (do,< Uti a scatti automatici stabiliti da una legge dello Stato) non sono coperti annualmente dallo Stato stesso ma sono a carico degli atenei. Una richiesta che il governo dovrebbe cercare di onorare se intende davvero ridare slancio alla depressione in cui è caduta l'università italiana. AL tempo stesso, però, il governo dovrebbe anche disegnare ed attuare un’organica strategia che garantisca un uso oculato, efficiente ed efficace delle risorse investite nel sistema universitario. Perché. se è vero che le università italiane sono povere, è anche vero che non hanno dimostrato una grande virtù nel gestire la scarsità di risorse a disposizione. Per fare qualche esempio: hanno aperto un numero esagerato di corsi dì laurea (niente affatto a costo zero), hanno promosso indiscriminatamente migliaia di ricercatori e docenti al livello superiore (approfittando in modo licenzioso dei margini di libertà concessi dalla legge concorsuale abolita lo scorso armo dal governo di centrodestra, una legge abusata), sono stati decisamente paco selettivi nell'allocazione delle risorse, certamente poche, a disposizione per i dottorati e gli assegni di ricerca Insomma, si diano più soldi alle università ma dentro una meditata e modulata strategia che deve individuare le scelte strategiche e, al tempo stesso, dotarsi di strumenti affidabili. Per quanto concerne le scelte prioritarie il governo deve prendere alcune decisioni chiare sulla ricerca, sulla didattica e sull’autonomia universitaria. Deve, ad esempio, decidere se mantenere la logica omogeneizzante, sulla base della quale tutti gli atenei sono considerati allo stesso modo, ovvero se perseguire una strategia di differenziazione funzionale (atenei di ricerca, atenei più votati alla didattica, atenei maggiormente orientati allo sviluppo del territorio). Oppure deve decidere se è importante che la durata legale degli studi (tre anni per i corsi dì laurea e due anni per le lauree magistrali) corrisponda (per quanto possibile) alla durata effettiva (incentivando le università a laureare un numero consistente di studenti nei tempi prestabiliti possibilmente senza abbassare il livello qualitativo degli studi). O, ancora, deve decidere se aumentare il grado di autonomia degli atenei, consentendo loro, ad esempio, di decidere liberamente l’importo delle tasse studentesche ovvero di poter reclutare e promuovere il corpo docente a seconda delle proprie specifiche esigenze, abbandonando il secolare sistema pseudo-garantista del concorso pseudo-pubblico. - Per quanto riguarda gli strumenti da adottare, è evidente che ìl governo, una volta posti gli obbiettivi sistemici deve porsi nelle condizioni dì monitorare e valutare l'operato delle università. In questo senso urge l’istituzione di un’agenzia per la valutazione del sistema universitario che, seguendo il modello dell'Higher Education Funding Council inglese, valuti la performance delle università di modo che il ministero, sulla base di parametri prefissati e trasparenti possa allocare, conseguentemente, una parte consistente dei finanziamenti pubblici. Programmazione nazionale di medio periodo, valutazione, distribuzione delle risorse. Manca un tassello, strategico, imprescindibile: la riforma del sistema di governo degli atenei. L;analisi comparata ci insegna che non basta che il governo programmi e valuti ma è necessario che le università abbiano un sistema di governo capace di reagire in modo efficace e virtuoso alle richieste sistemiche. Se il governo degli atenei non viene radicalmente modificato, abbandonando gli attuali assetti corporativi e pseudo-democratici, l'introduzione del binomio programmazione-valutazione raggiunge risultati modesti (come hanno capito negli ultimi anni paesi come l’ Olanda, la Svezia, la Danimarca e l’Austria). L’attuale modo dì governare gli atenei, insomma, appare assai poco rassicurante rispetto all’utilizzo di eventuali risorse aggiuntive. Il governo deve avere il coraggio di riformare il modo di governare il sistema universitario e gli assetti istituzionali dei singoli atenei _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Giu. ‘06 BASTA UNIVERSITÀ SOTTO CASA Poco praticabili deregulation e tasse Meglio ripensare una strategia pubblica La moltiplicazione delle sedi senza coordinamento tra ministero ed enti locali porta ad abbassare la qualità Di ALESSANDRO SCHIESARO Sarebbe un disastro se ai molti problemi dell'università italiana si aggiungesse ora una polemica aspra tra sostenitori e nemici di una "visione liberista" incentrata su misure radicali. È facile prevedere che l'unico risultato sarebbe infatti l'esasperazione dei toni che ha caratterizzato la seconda parte della scorsa legislatura, mentre non si farebbero passi avanti significativi sul fronte delle riforme davvero urgenti e necessarie. Assai meglio partire da una ricognizione pragmatica di cosa è possibile fare, e presto. Prima, però, il nuovo ministro accetti ancora un suggerimento: incominci il suo mandato affrontando la dimensione più trascurata nel passato recente, quella politica nel senso proprio e autentico del termine. L'università deve ritrovare - e saper proiettare all'esterno - la sua missione di centro di elaborazione e diffusione del sapere, e insieme veicolo insostituibile di progresso personale e sociale. Questa missione si è ormai offuscata, e rischia di non essere più recuperabile se a riforme urgenti e incisive non si associa una riflessione politica e civile di alto livello, un nuovo patto tra università e Paese che riparta dai fondamentali: per chi, a che scopo, in che modo e con quali risorse deve funzionare un sistema universitario moderno, efficiente e aperto. Non porsi queste domande favorisce inerzia, approssimazione e spreco; scavalcarle di slancio., però, rende indigeribile e quindi inefficace qualunque sforzo seriamente riformista. Il sistema universitario non vive in isolamento, e non tutti i problemi che lo affliggono nascono o possono essere risolti al suo interno. Un numero elevato di studenti accede oggi all'istruzione universitaria. Dal 2000 al 2003 la percentuale è passata dal 43 al 55%. ma continuiamo a perderne molti per strada: e allora bisogna riflettere seriamente sui meccanismi di orientamento e di ammissione, oggi o inesistenti o invece rigidissimi, ma solo per alcune facoltà professionali che promettono carriere remunerative. La laurea triennale non convince, prova ne sia la percentuale abnorme di studenti che si sente in dovere di accedere alla magistrale. Colpa di come la riforma è stata applicata, certo. ma non forse anche della resistenza degli ordini professionali a dar credito ai laureati triennali? O di un sistema che ha sancito la differenza "a priori" della giurisprudenza. il gruppo con il maggior numero di iscritti, dove non esiste il 3+2? Ancora, il decentramento. Invece di portare gli studenti nelle università, si sono portate le università dappertutto (da quando è stata aperta l'Università della Valle d'Aosta., il 94% degli studenti valdostani prosegue gli studi). Nulla di male, fino a un certo punto, fino a quando, cioè. l'offerta non condiziona palesemente la domanda: di fronte a una laurea a costo zero sotto casa in pochi potranno o vorranno emigrare in cerca degli studi cui sono davvero portati o che potrebbero dischiudere un futuro professionale più attraente. Ma esiste forse una strategia coordinata tra ministero ed enti locali in materia? L'alternativa a queste storture non è offerta dalla bacchetta magica della deregulation o di un aumento delle tasse universitarie a valore di costo, e non solo perché si tratta di proposte politicamente impraticabili. A questi e altri problemi si può iniziare a porre rimedio solo nell'ambito di una sfida politica di ampio respiro che permetta la rapida trasformazione del ministero da gestore a stratega, capace da un lato di proporre agli atenei obiettivi ambiziosi ma precisi, e dall'altro di affrontare autorevolmente il rapporto con gli interlocutori esterni all'università. Di strategie pubbliche la nostra università ha ancora molto bisogno. La Gran Bretagna è un Paese assai più deregolato e liberista dell'Italia. ma a nessuno è mai venuto in mente di pensare che i soldi dei contribuenti debbano finanziare qualunque numero di studenti in qualunque corso universitario di qualsivoglia livello. Le università contrattano il numero di studenti che possono ragionevolmente formare, in quali ambiti disciplinari, e nel rispetto di parametri qualitativi controllati da un'Agenzia. Nulla dì rivoluzionario, come si vede, ma un metodo per arginare la proliferazione di sedi decentrate improbabili o corsi di laurea inutili. Lo stesso vale naturalmente per la ricerca. Esistono già una proposta di legge per la costituzione di un'Autorità indipendente presentata dall'attuale sottosegretario Modica nella scorsa legislatura, un accurato studio dì fattibilità della Crui, una prima valutazione del Civr: non dovrebbe essere impossibile fare passi avanti significativi in tempi rapidi, e far maturare anche in Italia una seria cultura del merito e della valutazione. Lo stesso si dica anche su altri fronti: la riforma dei meccanismi di governo degli atenei, la riqualificazione degli enti di ricerca, il grande e ormai ineludibile processo di ristrutturazione della docenza, l'internazionalizzazione dei nostri atenei. Tutti questi sono problemi ma anche opportunità che si possono cogliere solo se la politica ha ben chiare e sa comunicare con passione le sfide cui università e ricerca sono chiamate in un mondo che cambia in fretta e del quale l'Italia deve essere uno dei protagonisti. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 28 Mag ‘06 L' EPIDEMIA DELLE RICERCHE «TAROCCATE» Le riviste Science e Nature lanciano l' allarme: troppi scienziati bugiardi Ricerca Sempre più spesso si scopre che i dati sono falsi Altro che "Moggiopoli"! Bisognerebbe inviperirsi sul serio per "Ricercopoli". Perché la verità è questa: nel mondo ci sono scienziati che diffondono false verità. Che strombazzano ai quattro venti, pubblicano su paludate riviste e comunicano ai media ricerche dai risultati clamorosi nel campo della salute. Clamorosi e, ahinoi, inesistenti. E qui la frode fa più male ancora perché offende le speranze dei malati. A denunciare la piaga, in una sorta di autocritico outing, due illustri pulpiti della scienza: le autorevoli riviste Science e Nature Medicine. Vittime e responsabili esse stesse della diffusione di questi lavori-bufale. Il caso più eclatante? Quello del signor Woo-Suk Hwang, lo scienziato sudcoreano artefice di un "successo" (pubblicato proprio sulle pagine di Science nel 2005) degno, sulle prime, di marchiare a fuoco la storia della medicina: la possibilità di clonare le mitiche "staminali" a partire da una manciata di cellule adulte. Il castello di luccicanti promesse s' è però frantumato sotto il peso della menzogna: Hwang aveva utilizzato cellule uovo "pagando" svariate donne (dichiarò pubblicamente, invece, che non avevano ricevuto alcun compenso); due immagini, che corredavano l' articolo e che dovevano illustrare fenomeni ben diversi, in realtà corrispondevano allo stesso soggetto ripreso da due differenti angolazioni; qualcuno s' è poi accorto che i dati relativi alle 11 linee di cellule staminali (ottenute da altrettanti individui con varie malattie) in realtà s' assomigliavano molto, come se provenissero da non più di due... Perché? Perché giocarsi così faccia e carriera? Perché vendere evidenze e aspettative truccate? Giuseppe Remuzzi, direttore della sede di Bergamo dell' Istituto Mario Negri che figura anche nel comitato dei revisori del New England Journal of Medicine commenta: «Succede perché la scienza, proprio come lo sport, vive di gare accesissime, di traguardi da tagliare, di primati e premi (fondi, nel nostro caso) da conquistare. Sono ingredienti sani della competizione. Purtroppo, però, anche nella stanze della ricerca circolano personaggi che non disprezzano il doping. E allora ecco qualche informazione falsata, la percentuale "ritoccata" o la forzatura di certe conclusioni. Succede. Ma tutto ciò nulla ha a che fare con la scienza». Gli fa eco un altro rinomatissimo ricercatore italiano, Alberto Mantovani, direttore scientifico dell' Istituto Clinico Humanitas di Milano nonché immunologo dell' università milanese. «Noi diciamo, tra il serio e il faceto: "Publish or perish!". Pubblica o muori! Riuscire a piazzare un lavoro su una rivista medica significa, per il gruppo che ha firmato quello studio, prestigio e finanziamenti. È una tragica "legge della giungla", ma in nome della quale non possiamo sacrificare l' anima stessa della ricerca: quella di trovare verità solide che possano un giorno aiutare chi soffre». C' è addirittura chi ha stilato un profilo preciso di questi "esperimenti-pasticciacci". David Goodstein del California Institute of Technology ha colto tre tratti distintivi: il pressante pungolo della carriera, l' attaccamento quasi patologico a un' idea anche quando i risultati dei test la sconfessano ampiamente, il fatto di operare in un campo dove la riproducibilità dell' esperimento non sempre è possibile. Tali elementi non conducono sempre e per forza sulla "cattiva strada" ma, quando la magagna scoppia, tutti e tre quei fattori sono immancabilmente presenti. Così è stato nella vicenda di mister Hwang. A tutto ciò aggiungasi l' ombra lunga delle aziende farmaceutiche. Nel 2002, sul British Medical Journal, la dottoressa Lisa Kjaergard di Copenaghen ha vagliato con cura 159 lavori specialistici riguardanti 12 diverse branche della medicina. E cos' ha appurato? Quando il team di ricercatori opera per conto dell' industria, finisce per fornire molto (troppo) spesso un giudizio lusinghiero sull' utilità di quel certo farmaco preso in esame. La preoccupazione del dottor Remuzzi, a questo punto, è nostra: «C' è il concreto rischio che questi piccoli e grossi imbrogli allontanino irrimediabilmente dalla scienza il grande pubblico». La nota confortante? È che tali episodi, in realtà, sono pochi e, soprattutto, "emergono". «Già: il fatto che due star dell' editoria scientifica mondiale, come Science e Nature Medicine, sviscerino il fenomeno con dossier scottanti - è il commento di Mantovani - significa che ci troviamo di fronte a un sistema che "si autopulisce". Che è in grado, senza pubblici ministeri e avvisi di garanzia, di sciorinare spontaneamente nomi e cognomi e di scacciare dal gregge le pecore nere». «Non commettiamo, allora, il madornale errore - chiosa Remuzzi - di gettare in questo meschino calderone tutti gli scienziati». Perché, si sa, a far rumore è sempre l' albero che cade. Non la foresta che cresce. Edoardo Rosati La posta in gioco * * * Alberto Mantovani: «Riuscire a pubblicare uno studio su una rivista importante procura prestigio e finanziamenti» I truffatori Dati truccati o completamente inventati ERIC POEHLMAN Cinquantenne, esperto di invecchiamento e di cambiamenti metabolici in menopausa, nel dicembre del 2000 viene accusato da un tecnico del suo laboratorio, all' Università del Vermont di avere alterato i dati delle sue ricerche. L' università e l' ente federale aprono un' inchiesta. Poehlman (nella foto) nel marzo del 2005 ammette di avere alterato i risultati degli studi svolti con fondi governativi: viene bandito dall' accesso a ulteriori risorse e costretto a restituire allo Stato 180.000 dollari. Al momento attuale è in attesa del verdetto della Corte federale di Burlington, nel Vermont. Rischia cinque anni di carcere. FRIEDHELM HERRMANN Cinquantotto anni, oncologo di punta di centri di ricerca tedeschi, a Berlino, Friburgo e Ulm, nel 1998 viene accusato di aver falsificato gran parte dei suoi lavori. L' inchiesta dell' Università appura che delle sue 347 ricerche pubblicate 94 contengono dati alterati. Oggi vive e lavora a Monaco. JON SUDBO Norvegese, oncologo dell' Ospedale Radium di Oslo, nel 2005 pubblica sulla rivista «Lancet» una ricerca, stando alla quale l' assunzione di farmaci antinfiammatori riduce la probabilità di andare incontro al tumore della bocca. Sudbo (nella foto) arriva alla conclusione grazie al data-base sanitario della popolazione norvegese. Al quale in realtà non ha avuto accesso: i dati sono del tutto inventati, come ammette lui stesso poche settimane dopo. Rosati Edoardo _____________________________________________________________ Corriere della Sera 29 Mag ‘06 MACCHÉ PLATONE, LEGGETE ARISTIPPO E CERINTO I pensatori che hanno cambiato il mondo non sono neppure Aristotele e Tommaso» PROVOCAZIONI La controstoria della filosofia di Michel Onfray: cancella idealisti e credenti ed esalta gli edonisti Le storie della filosofia, anche se scritte da autori diversi e pubblicate da editrici concorrenti, raccontano da almeno due secoli le medesime cose. Sempre uguali i pensatori scelti, i testi di riferimento, le dimenticanze, le periodizzazioni, i silenzi (dietro i quali c' è sempre una censura). Insomma, nulla è più ripetitivo dei manuali che raccontano l' avventura delle idee. Queste affermazioni sono di Michel Onfray e le abbiamo compendiate dal brillante «Preambolo generale» che apre la sua Contre-histoire de la philosophie. Dei sei tomi previsti dall' editore parigino Grasset, ne sono usciti in questi giorni due: il primo dedicato a Les sagesses antiques e il secondo a Le christianisme hédoniste (pp. 336 e 352, ciascun volume euro 20,90). Due titoli che tentano un rovesciamento di prospettive storiche a dir poco curioso, che per ora giunge a Michel de Montaigne, cioè alla fine del sedicesimo secolo. Sono già annunciate la terza parte, sui libertini, e la quarta che parlerà degli «ultras» dei Lumi; l' opera giungerà a Jean-François Lyotard (il proposito è a pagina 25 del primo volume). Onfray, diventato noto in Italia soprattutto per il suo recente Trattato di ateologia (edito da Fazi), è un irriverente francese che vanta nel suo curriculum numerosi saggi esaltanti l' edonismo, il cinismo e l' amore di sé, la gioia che nasce dalla carne; insomma è un cultore dell' apologia del piacere, da quello sessuale al sollazzo gastrico. Ha scritto anche una Estetica del Polo Nord (Grasset 2002), nonché un Antimanuale di filosofia (Bréal 2001). Ora Fazi ha tradotto la Teoria del corpo amoroso. Per un' erotica solare (Grasset 2000). Soltanto un saggista siffatto poteva irridere la storia filosofica, genere che da Hegel in poi è concepito con cipiglio accademico e idealistico. Egli offre comunque spunti interessanti: la sua Contro-storia parte dagli atomisti, forse perché stavano ben bene sullo stomaco a Platone; esalta figure quali Aristippo o Diogene di Sinope, vale a dire la voluttà e il materialismo cannibale; quindi si sofferma su Epicuro e sui suoi seguaci (Lucrezio, Filodemo di Gadara, Diogene di Enoanda) forse perché gliele cantarono senza reticenze ad Aristotele. Onfray detesta i mistici del genere pitagorico, i moralisti più o meno vicini a Socrate, i platonici amanti di verità che nessuno ha mai visto o potuto toccare, i tenebrosi alla Eraclito. Preferisce l' insulto, la vita randagia, il gesto estremo. Figuriamoci quel che propone del primo cristianesimo e del medioevo. La Contro-storia ignora i pensatori-chiave e procede sbertucciando i Padri della Chiesa più dotti e considerati: niente apologeti alla Tertulliano, eliminato Gregorio di Nissa, via Agostino, cancellato Origene (ma anche il pagano Plotino) e tutto quel che odora di aristocratico; banditi Boezio, Scoto Eriugena, Tommaso d' Aquino e la Scolastica tutta, insomma nemmeno un refolo capace di evocare l' incenso. Di contro, Onfray si scatena con una serie di figure vicine allo gnosticismo che in taluni casi sono ignote ai non specialisti: ecco Simone Mago con le sue licenziosità ed ecco Basilide, il primo filosofo dell' era cristiana che nega l' esistenza di Dio così come noi la intendiamo; ecco altri «bastardi» come Valentino, convinto che le passioni non possono guastare gli eletti, o l' «eretico» Carpocrate, per il quale il mondo fu creato da angeli inferiori. E ancora: Epifanio, «un Rimbaud gnostico»; Cerinto, consacratosi alla «santificazione del ventre»; Marco il Mago, bello, ricco e sempre a caccia di donne (almeno stando a Ireneo di Lione e a quanto scrive in Contro gli eretici: opera indispensabile della quale c' è una traduzione italiana edita da Jaca Book). Analoga decostruzione di riferimenti Onfray organizza per il medioevo, andando a scovare autori allo zolfo come Amalrico di Bène, condannato nel 1210 per il suo panteismo dall' Università di Parigi, o frate Bentivenga di Gubbio, fondatore della setta dello «Spirito di libertà», nella quale erano previste anche pratiche lussuriose. Tra i molti altri, Giovanni di Brno con il suo «nichilismo integrale», una specie di «Sade medievale» che invitava a mangiare e bere senza curarsi delle proibizioni religiose, e così ci si doveva comportare con le voglie sessuali. Non sono che esempi. Con Umanesimo e Rinascimento Onfray ha buon gioco, passando dalla voluptas di Lorenzo Valla all' «onesto piacere» di Erasmo da Rotterdam, sino a giungere all' «uso dei piaceri» proposto da Michel de Montaigne. Sono pagine all' assenzio e, tutto sommato, leggere, nelle quali si fanno anche scoperte e dove l' autore non ha preoccupazioni filologiche. Pensando ai volumi prossimi, supponiamo che non avrà problemi con figure come il curato ateo Jean Méslier (morto nel 1729) che di giorno accudiva le anime in parrocchia e di sera confessava ai suoi brogliacci che la religione era utile per tenere buono il popolo, che i miracoli sono bugie et similia. O avrà buon gioco a presentare personaggi come Bonaventure de Fourcroy, arrestato nel 1698, accusato di scrivere contro la religione e di vivere nel disordine. Miguel Benítez ha dedicato a questo irriverente blasonato un saggio appena uscito dal titolo Oeuvre libertine, ove sono anche raccolti testi ricostruiti e ritrovati, compreso un quaderno contro il Papa (è pubblicato da Honoré Champion, pp. 680, euro 85). Quanto agli ultimi due secoli, le figure singolari abbondano. Althusser, maestro di marxismo che ammazza la moglie, rappresenta soltanto la punta dell' iceberg. E poi nel pensiero moderno e contemporaneo il tasso di pazzi e squilibrati è decisamente aumentato rispetto ai secoli del trionfo del cristianesimo. Ci chiediamo se questa Contro-storia altro non sia che una rassegna di personaggi messi in margine dai metodi accademici e ora reintrodotti con il gusto del dispetto. In fondo essa è una sfida a quelle opere noiosissime dal sapore di muffa, nelle quali professori benpensanti citano altri professori politicamente corretti, dove alla fine - per dirla con una battuta cinematografica - ci si cita addosso. Potrà far sorridere che si preferisca Guglielmo d' Anversa (il cui cadavere fu disseppellito e dato alle fiamme) ad Anselmo d' Aosta, ovvero opporre l' esaltatore del peccato contro-natura al dotto che cercò disperatamente di «dimostrare Dio». Ma una simile scelta è frutto di un bisogno: scardinare dei riferimenti e sostituirli con altri, meglio se opposti. Oggi le idee si cercano lontano da Platone e per la vecchiaia il lifting e le pillole della virilità hanno sostituito le meditazioni e le pratiche pie. Che dire? Anche se chi scrive non ama l' aria che tira, bisogna ammettere che è cominciata una nuova fase: il mondo sembra chiedere santi e maestri diversi da quelli che ci ha lasciato la tradizione. Onfray, in tal caso, la sa lunga.lo gnostico * * * Tra le figure che Onfray mette in evidenza e che non si trovano nelle consuete storie della filosofia c' è Basilide, il primo pensatore gnostico cristiano. Egli sostenne che il Dio di Gesù non era il creatore del mondo, ma una potenza senza nome, «inesistente», in quanto precedeva ogni esistenza. Graziano Biondi ha scritto recentemente un saggio su di lui: «Basilide» (Manifestolibri, pp. 384, 28). Torno Armando _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 28 Mag ‘06 UNIVERSITÀ, CREDITI E FURBI IL MERCATO DEGLI ESAMI di Bruno Maiorca * Da tempo va in onda nei programmi radiofonici uno spot pubblicitario di un ben noto istituto europeo di preparazione agli esami universitari, col quale si rammenta che l'esperienza professionale costituisce un credito sufficiente a ritenere superati vari esami per il conseguimento di un titolo accademico. L'appello è indirizzato a ragionieri, geometri, dirigenti d'azienda e tra gli altri a "promotori" (non meglio specificati), invitandoli a tener conto che forse sono ad un passo dalla laurea e neppure lo sanno. E dunque, il mercato degli esami è aperto alla caccia delle varie professionalità tra crediti e furberie amministrative. I fuori corso imperano, la riforma è fallita, gli studenti beffati, come scriveva su questa pagina a fine aprile Sandro Maxia. La qualità degli studi è indubbiamente scaduta, aggiungeva l'italinista cagliaritano, mentre impazza la "svalutazione del titolo triennale, che non dà accesso alle professioni che davvero contano, risolvendosi di fatto in un nuovo inganno per i giovani dei ceti meno abbienti". La riforma dell'accademia, da sempre svilita nel concreto da forze che certamente non mirano al riequilibrio sociale e culturale tra utenti in partenza diseguali, non riesce a decollare e non sarà in grado di sanare il "gap" tra il tasso dei laureati italiani e quello degli altri paesi europei di maggiore e più accreditata tradizione umanistica, scientifica e tecnologica. Svendita sottocosto degli esami, deprezzamento dei titoli di studio, clienti da spennare per un inutilizzabile "pezzo di carta", abbuoni e sconti negli esami da parte di università di malaffare accademico, tutto questo sta nelle pieghe e nelle piaghe dell'università odierna. C'è qualcuno che promette una preparazione universitaria a tempo di record, rivolgendosi agli studenti lavoratori senza obbligo di frequenza, assistendoli fino al superamento degli esami con una velocità consigliata? da 110 e lode. Nell'intervento di Sandro Maxia, a proposito dei casi limite di alcune libere università, si dice che «forse può venirne addirittura del bene, se questa corsa scellerata al ribasso darà fiato a quanti invocano l'unico rimedio possibile allo stato delle cose: l'abolizione del valore legale dei titoli di studio». Difficile consentire con la proposta dell'abolizione del valore legale dei titoli di studio, poiché ciò farebbe il gioco comunque dei ceti più abbienti e impedirebbe ai più diseredati di accedere ai più alti gradi d'istruzione. Sarebbe oltretutto la rivincita dei conservatori e della parte più illiberale dei ceti dirigenti ed intellettuali. E inoltre, se di abolizione deve trattarsi, essa dovrebbe riguardare tutti i titoli di studio, diplomi e maturità comprese. Meglio sarebbe, col nuovo governo, porre mano a un cambio di rotta della morattiana controriforma, a qualsiasi livello e non solo accademico. * insegnante e scrittore _____________________________________________________________ La Stampa 1 Giu. ‘06 GIRO DI VITE SULLE LAUREE FACILI Raffaello Masci ROMA L'iniziativa si chiama «laureare l’esperienza» e la campagna pubblicitaria attraverso la quale è stata promossa recita così; «Con la riforma universitaria chi lavora può laureare la propria esperienza. Le , università possono riconoscere l'esperienza professionale come credito formativo utile per conseguire la laurea. Ragionieri, geometri, bancari, promotori finanziari, dirigenti e professionisti potreste essere molto vicini alla laurea!». Per i molti che non riescono a darsi pace senza il titolo di «dottore» (anche quello regolato dalla legge) t'invito è 'irresistibile. Peccato che celi un rovescio della, medaglia. Milena Gabanelli, direttrice di «Report» su Raitre, nella puntata di domenica scorsa è andata a scoprire le magagne che si nascondono dietro questa iniziativa. Il senso dell'inchiesta è che le università - in regime di convenzione con molti enti pubblici: ministeri, istituti previdenziali, corpi militari eccetera - prendono per buona l'esperienza profesisonale nonché la formazione impartita da questi ultimi per i loro dipendenti, accordano «crediti formativi» (cioè abbonano esami agli interessati) e producono lauree la cui corrispondenza ad una effettiva preparazione è tutta da dimostrare. La puntata di Repor(; è stata vista anche dal neoministro dell'Università Fabio Mussi, il quale ha fatto un salto sulla sedia. Ieri era a Bruxelles, ma il suo ufficio stampa ha diffuso una nota tagliente: «Il Ministro dell'Università e della Ricerca valuterà con estrema attenzione la situazione dei percorsi abbreviati per la laurea riservati a dipendenti di vari enti e amministrazioni pubbliche, tra cui alcuni ministeri, in base a convenzioni stipulate tra questi enti e alcune università pubbliche e private». I fatti parleranno per lui, ovviamente. Quanto al fenomeno è vecchio come il cucco e ora ha semplicemente cambiato faccia. Negli anni Ottanta le pagine dei giornali erano piene della pubblicità di sedicenti università straniere (svizzere e americane per lo più) che promettevano una laurea a chi faceva un lavoro da dottore senza esserlo. Si valutava (si fa per dire) l'esperienza professionale accumulata, si traduceva in esami sostenuti e , si dava l'ambito alloro dottorale. Era una palese truffa, ma anche innocua, in quanto i titoli stranieri in Italia non sono validi se non riconosciuti di volta in volta, e quindi quella laurea serviva solo per scrivere «dott.» davanti al proprio nome sul biglietto da visita. Poi venne il decreto 509 del '99, più compiutamente recepito nella legge 448 del 2001 (riforma Zecchino-Berlinguer). L'idea era e resta potenzialmente giusta: la formazione personale non è più solo quella scolastico-accademica, ma avviene secondo percorsi personali (esperienze, corsi, master, eccetera) che, se rigorosamente certificati, possono essere tradotti in crediti formativi da spendersi in un normale corso di laurea. Una serie di convenzioni sono state attivate tra singole università ed enti pubblici: ministeri, polizia, guardia di Finanza, Inps, ordini professionali (tra cui quello dei giornalisti). Gli enti «certificano» la formazione data sotto forma di corsi, aggiornamenti e simili, e le università traducono tutto in esami sostenuti. Alla fine si è dottori. «Report» ha documentato che questa formazione non sempre viene impartita, quasi mai è adeguata e comunque mai viene valutata dalle università. Il titolo di dottore così ottenuto è tuttavia legale. Il ministro Mussi indagherà, _____________________________________________________________ Italia Oggi 31 Mag ‘06 LAUREE FACILI NELL'AMMINISTRAZIONE IL MINISTRO MUSSI APRE UN'INDAGINE DI BENEDETTA P. PACELLI Mussi apre un'indagine sulle lauree «facili» per i dipendenti della p.a. O meglio, su quegli atenei e centri di ricerca che, sulla base di convenzioni ad hoc, fanno sconti ai funzionari sui crediti universitari agevolandoli così in maniera sensibile nel raggiungimento della laurea. Insomma, percorsi abbreviati per far ottenere l'agognato titolo a dipendenti di varie amministrazioni pubbliche, tra cui alcuni ministeri, in base ad accordi stipulati tra gli enti stessi e alcune università pubbliche e private. È il ministero dell'università e della ricerca sul banco degli imputati della trasmissione televisiva, Report, che negli ultimi giorni ha sollevato diverse polemiche. Ed è lo stesso ministro dell’università e della ricerca Fabio Mussi a far sapere, in una nota diffusa ieri, che valuterà con estrema attenzione la situazione di questi percorsi abbreviati per la laurea. L'accusa parte da lontano e precisamente dalla riforma Berlinguer del 1999, che ha trasformato il vecchio sistema degli esami in quello dei crediti. Da allora, come è noto, le lauree si misurano in crediti e debiti e le università possono riconoscere crediti formativi per chi vuole iscriversi. Nel 2001, una legge modifica la Berlinguer stabilendo che i crediti vanno riconosciuti anche ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche. Così da qualche anno, è l'accusa, è un fiorire di convenzioni, cioè di accordi tra enti pubblici e atenei che diminuiscono ìl numero degli esami a chi decide di laurearsi. Di fronte a questa accusa non si fa attendere la replica del ministro Mussi che considera superficiale la valutazione degli accordi, ma soprattutto si impegna a «riscontrare e tenere nella massima considerazione», si legge nel comunicato, «come si deve a chi, sulla stampa, alla televisione o su altri media, si fa portavoce documentato dell'opinione pubblica». Il ministro tiene poi a sottolineare che l’istituzione da lui presieduta si preoccuperà di «esercitare nelle forme dovute, tutta la vigilanza e la valutazione che spetta al ministero affinché il sistema universitario italiano continui a godere della fiducia e dell'apprezzamento degli studenti e dei cittadini». Fiducia che Mussi vuole rinnovare anche con questo tipo di convenzioni tra università ed enti, che ricadono nell'autonomia degli atenei e che si intendono preservare, restituendo serietà alla norma della riforma Berlinguer-Zecchino che stabiliva la possibilità di riconoscere i crediti universitaria seconda della competenza maturata dalle singole persone nel proprio lavoro, purchè regolarmente certificata ________________________________________________________________________ il manifesto 3 giu. ’06 BASTA LAUREE FACILI Dopo un'inchiesta di Report sulle convenzioni universitarie, il ministro Mussi limita gli «sconti» sui crediti. Anche per i giornalisti Giorgio 5alvetti Laureare l'esperienza, Con la riforma le università possono riconoscere l'esperienza professionale come credito formativa utile per conseguire la laurea Ragionieri, geometri, bancari, promotori, dirigenti e professionisti potreste essere molto vicini alla laurea!». E a pubblicità radiofonica del mercato delle convenzioni tra alcuni atenei ed enti vari denunciato da Giovanna Boursier nell'inchiesta. di Report di domenica scorsa. In pratica significa, ad esempio, che un impiegato del ministero degli interni o dell'Inps può mettersi la laurea in tasca facendo pochissimi esami e con un forte sconto sulle rette, magari presso un'università privata o una piccola università che in cambio moltiplica iscritti e guadagni. L'inchiesta ha fatto molto rumore e giovedì il neoministro Fabio Mussi ha cercato di correre ai ripari. II titolare del dicastero dell'Università ha emanato un atto d'indirizzo che indica un tetto massimo di 60 crediti formativi abbonati ai convenzionati (invece che due anni di sconto su tre, solo un anno di abbuono, comunque non poco), e ha assicurato «tutta la vigilanza e valutazione che spetta al ministero» sul giochino delle convenzioni. Come dire che l'autonomia degli atenei è sacrosanta, ma con qualche doveroso limite. Significa tentare di impedire, per esempio all'Università San Pio V di Roma, di passare da 2000 a 3000 iscritti regalando 113 crediti su 180 ai dipendenti del ministero degli interni facendo pagare una retta scontata di 1800 curo al posto di 3900. Basta fare quattro conti per capire che si tratta di un giro di milioni di curo. E non è solo questione di soldi, perché avere tanti iscritti è uno dei più importanti criteri per essere riconosciuti e finanziati dallo Stato. In questo modo si genera una concorrenza verso l'abisso, gli atenei sono spinti a gareggiare a chi regala di più. Ma la laurea alla fine ha il medesimo valore. Il sistema delle regalie per convenzione, oltre ad essere profondamente ingiusto, apre uno spiraglio preoccupante sulla realtà universitaria italiana. Da anni lo Stato riduce i finanziamenti e, per contro, incoraggia la competizione tra atenei in regime di semi-libero mercato. La «innovazione» delle convenzione è stata introdotta dalla riforma Berlinguer e peggiorata da Letizia Moratti nella finanziaria del 2001. Ora il nuovo ministro tenta di correggere il tiro ma non rinnega il principio inserito nella riforma Berlinguer, che riconosce valore formativo a esperienze di lavoro «come avviene all'estero»; dove però, spesso, non c'è il valore legale del titolo di studio e ci sono altri controlli. Le lauree inglesi non sono tutte uguali, valgono di più o di meno a seconda del valore dell'università che le rilascia, che non ha interesse a dequalificarle, e contano relativamente sul mercato del lavoro e non in modo vincolante, come accade da noi, soprattutto nei concorsi pubblici. Alba Sasso, deputato dell'Ulivo, difende il valore legale del titolo di studio: «E' l'unica, difesa contro il sistema del figlio di papà che può permettersi le università migliori». Eppure deve ammettere che «in Italia la società è sempre più immobile, di casta Capita sempre più spessa che le professioni migliori si tramandino in famiglia». Le convenzioni, in questo senso, favoriscono anche un accordo perverso tra «caste» - impiegati ministeriali, forze dell'ordine, ordini professionali, compreso l'ordine dei giornalisti - e alcuni atenei, spesso privati. Non solo l'utente del servizio pubblico, il cittadino, diventa un cliente e la formazione diventa una merce. Ma vengono favorite situazioni clientelari a scapito della maggior parte delle università. _____________________________________________________________ Il Giornale di Sardegna 1 Giu ‘06 I PRESIDI DI FACOLTÀ BOCCIANO LE SCUOLE: «SFORNANO DIPLOMI PIENI DI LACUNE» Sitzia, Giurisprudenza: «Non sempre l'università può colmare le voragini culturali» Ennio Neri ca g l i a r i @ e p o l i s.s m Tanti giovani chini sui libri con la maturità alle porte. Ma il voto di diploma probabilmente sarà un numero marginale nel conto finale della loro esistenza. Almeno stando a quello che ritengono i presidi delle facoltà cagliaritane che, in linea coi professori delle università della penisola, tendono sempre più a snobbare il voto conseguito alla scuola superiore e denunciano invece un vuoto sempre più esteso nelle preparazione, nel linguaggio e nell’approccio allo studio. Va giù duro il preside di Scienze Politiche Raffaele Paci: «Non siamo per niente soddisfatti della preparazione degli studenti che si affacciano alla facoltà. Del resto, nel sondaggio Pisa (Programme for International Student Assessment, Programma internazionale per la valutazione degli studenti), i giovani sardi sono stati bocciati per quanto riguarda le capacità di base, come la logica, la scrittura e la matematica. E le loro difficoltà», prosegue, «si ripercuotono su tutto il sistema». PIÙ SOFT IL COMMENTO del preside di Medicina Gavino Faa: «Non mi piace scaricare le responsabilità su qualcuno. Preferisco prendere in esame il sistema Sardegna. È evidente che occorre mirare a quell’integrazione fra scuole elementari, medie e Università che finora è mancata. Ma ultimamente ci si sta impegnando proprio su questo fronte. Sappiamo ad esempio che gli studenti incontrino difficoltà nel trovare soluzione ai quiz a risposta multipla e con la collaborazione dell’assessorato provinciale alla Pubblica Istruzione stiamo modulando l’attività formativa sui quiz. Ma un ruolo fondamentale lo gioca anche la famiglia », conclude, «che ha il compito di spronare il figlio allo studio affinché sia competitivo nel mondo del lavoro». «Abbiamo degli studenti di eccellente livello, ma è vero che arrivano in facoltà anche ragazzi privi di qualsiasi bagaglio culturale», denuncia Francesco Sitzia, preside uscente di Giurisprudenza, sostituito ieri da Massimo Deiana, «una forbice che si è acuita negli ultimi anni anche a causa dello scioglimento di quel patto sociale che prima vigeva tra scuola e famiglia. Oggi si ha la tendenza a vedere la scuola come un ente pronto a erogare un diploma rapidamente. Ma è dif- ficile conciliare un percorso universitario facile con la realtà dura del mondo del lavoro. E troppo spesso l’università si trova a fare i conti con lacune accumulate negli anni che dif- ficilmente riesce a colmare». _____________________________________________________________ Repubblica 1 Giu ‘06 SCUOLA, STOP ALLA RIFORMA DEI LICEI Il ministro sospende la sperimentazione: troppi ricorsi e pochi progetti MARIO REGGIO ROMA — Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni ha sospeso il decreto che autorizzava la sperimentazione dei nuovi licei. È il primo colpo alla “riforma” Moratti che sarebbe dovuta entrare in vigore nel 2007. «Non intendo iniziare il mio mandato all’insegna dell’instabilità e dell’incertezza per studenti, insegnanti e genitori e con gravi contenziosi con le Regioni e l’autonomia scolastica », ha dichiarato il ministro. Plaudono tutte le organizzazioni sindacali della scuola. Le organizzazioni degli studenti ed i partiti della maggioranza invitano il ministro dell’Istruzione a riscrivere il decreto che prevede la creazione di otto licei e la scelta tra questi e la formazione professionale a 14 anni. La sperimentazione avrebbe dovuto anticipare gli indirizzi e i programmi della riforma. L’opposizione accusa Fioroni di essere succube della sinistra, mentre l’ex sottosegretario all’Istruzione Valentina Aprea, parla di «opera di restaurazione del centralismo appena iniziata». «Ad oggi sono arrivati al ministero 54 progetti di sperimentazione su circa 1.750 istituti superiori — replica Fioroni — le caratteristiche dei progetti non presentano elementi di innovazione tali da prefigurare una sperimentazione, ma sono realizzabili nell’esercizio dell’autonomia scolastica. La sospensione del decreto è un provvedimento di autotutela del ministero — conclude — in relazione ai ricorsi presentati al Tar del Lazio da 15 Regioni e alla Corte Costituzionale della Toscana. Il prossimo anno scolastico inizierà senza incertezze e confusione ». Il decreto, annunciato il 30 gennaio scorso dall’allora ministro Letizia Moratti, mandò su tutte le furie la maggioranza dei governatori regionali che solo qualche giorno prima avevano firmato un accordo nel quale il governo s’impegnava a rinviare l’entrata in vigore della riforma delle superiori a partire dal settembre del 2007. «È una decisione saggia perché la Moratti non solo era venuta meno ad un impegno formale assunto con le Regioni — commenta il segretario della Cgil Enrico Panini — ma aveva messo le scuole e le famiglie in una situazione di caos e confusione. Questa decisione non può che rappresentare un antipasto alle future misure relative alla scuola dell’infanzia, elementare, media e superiore, con il ritiro dei decreti e l’immissione in ruolo dei precari». Un incitamento ad andare avanti arriva dalla senatrice dell’Ulivo Albertina Soliani: «È arrivato il momento di sostenere l’innovazione sul campo dando fiducia alla scuola e ai territori». Il ritiro del decreto non va giù a Michele Pigliucci, segretario di Azione Studentesca, l’organizzazione di An. «Neanche insediato — afferma — il ministro ingrana la retromarcia di un sistema che già fatica a partire. La sua è solo una posizione ideologica che non condividiamo». _____________________________________________________________ Italia Oggi 1 Giu. ‘06 MANCANO FONDI PER L'E-LEARNING Lo rivela una ricerca della conferenza dei rettori, DI BENEDETTA P. PACELLI Potrebbe essere un valore aggiunto al processo di insegnamento e di apprendimento, l’elearning, il metodo che utilizza gli strumenti delle nuove tecnologie di comunicazione nel mondo dell'istruzione. Ma di fatto ancora non lo è. La causa? Troppe spese da supportare, finanziamenti al lumicino e docenti che fanno resistenza ad abbandonare i tradizionali metodi d'insegnamento. Proprio all'e-learning la Conferenza dei rettori delle università italiane ha dedicato una ricerca, presentata ieri a Roma, realizzata nell'ambito del progetto Elue (Elearning and university education), che mette a confronto il rapporto tra università ed e-learning nel sistema italiano, francese e finlandese. Ciò che appare evidente dalla ricerca è una differente sensibilità politica delle istituzioni governative nei confronti delle politiche di finanziamento di tale metodo ìn ambito universitario. Infatti se in Francia e in Finlandia, il sistema di istruzione terziaria beneficia di stanziamenti pubblici, che si attestano intorno al5% dell'intero budget annuale di ateneo, espressamente destinati alla promozione dell’e-learning, lo stesso non si può dire dell'Italia dove il ministero dell'istruzione non ha finora previsto dei fondi per questo specifico scopo. Ma lo sviluppo dell’e-learning nel nostro paese è frenato anche dalla diffidenza del corpo docente, soprattutto in termini di mancata accettazione culturale di un approccio così innovativo rispetto alle modalità d'insegnamento. Le resistenze degli accademici, spiega la ricerca, nascono poi dall'assenza di un pieno riconoscimento ai fini dell'avanzamento di carriera, del maggiore impegno richiesto dalle attività di preparazione ed erogazione della didattica on-line: questa possibilità infatti se è scarsamente diffusa in Francia, è totalmente assente in Italia. A ciò si sommano impedimenti di natura giuridica, che vanno dai temi del copyright alla proprietà intellettuale dei materiali didattici on-line. Impedimenti a cui i singoli governi ancora non hanno saputo far fronte. Nonostante tutto però, se ci si spinge ad analizzare il livello di utilizzo di tale modalità si scopre che l'e-learning è presente in due università su tre: il 64% degli atenei italiani interpellati dall'indagine ha infatti dichiarato di avere una politica per l’elearning e lo considera un presupposto fondamentale per sviluppare un approccio in materia condotto a livello unitario e non più relegato alle singole esperienze intra-ateneo. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 1 Giu ‘06 GIURISPRUDENZA: MASSIMO DEIANA È IL NUOVO PRESIDE Massimo Deiana, professore ordinario di Diritto della Navigazione, è il nuovo preside della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Cagliari per il triennio 2006-2009. Deiana è stato eletto ieri, a grande maggioranza, ed entrerà in carica il prossimo ottobre, succedendo al preside storico di Giurisprudenza, Francesco Sitzia, ordinario di Istituzioni di Diritto romano. Massimo Deiana ha quarantaquattro anni, è cagliaritano e si è laureato in Giurisprudenza con lode nel 1986. Da cinque anni è il Direttore del Dipartimento di Scienze Giuridiche. Studioso di diritto dei trasporti, di diritto aereo e marittimo, l’ex allievo di Leopoldo Tullio (con il quale ha curato alcune opere) ha al suo attivo numerosi studi e pubblicazioni in materia di porti, aeroporti, servizi di trasporto marittimo ed aereo, responsabilità vettoriali e diritti del passeggero. Da oltre dieci anni il docente di diritto dei trasporti si occupa dei problemi giuridici della continuità territoriale, sui quali ha collaborato e collabora attivamente con la Regione autonoma della Sardegna e con l’Enac. _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 30 Mag. ‘06 SARDEGNA, CRESCITA AL RALLENTATORE Presentato ieri il rapporto del Crenos. L'isola non riesce a colmare i limiti strutturali. Disoccupazione ferma al 13% È scontro Confindustria-Regione. Mea culpa di Soru L'economia sarda non cresce abbastanza per colmare i limiti strutturali. E tra Regione e industriali è scontro La Sardegna cresce poco, talmente poco che non riesce a ridurre il distacco dalle regioni più ricche del Paese. E le politiche attuate dal 1993 a oggi non sono servite a migliorare il sistema produttivo. Parola di Renato Soru che, intervenendo alla presentazione del tredicesimo rapporto del Crenos (il Centro ricerche economiche Nord-Sud), fa un mea culpa, parlando di «fallimento dei governi di sinistra e destra» e inserendo nel calderone anche la classe dirigente e le famiglie sarde. E nella sala all'ottavo piano del palazzo del Banco di Sardegna, a Cagliari, va in scena anche un duro scontro tra il presidente della Regione e il leader di Confindustria sarda Gianni Biggio, il quale punzecchia Soru su alcune questioni. A iniziare dalla formazione professionale fino al turismo: Biggio parla con scetticismo di "turismo sostenibile", spiegando che non esistono dati che dimostrino la possibilità di prescindere dalle vacanze nelle zone costiere. Sulle nuove tasse, Biggio sorvola, ma rincara la dose sull'uscita della Sardegna dall'Obiettivo uno (che garantiva maggiori contributi comunitari) chiedendo che la Regione si batta perché non vengano ridotti anche i fondi per le aree sottoutilizzate. A Soru, però, il tono di Biggio non piace e replica piccato, dicendo di essere assolutamente disponibile a incontrare Confindustria, tuonando: «Quando lei sarà presidente della Regione avrà diritto alla chiusura del convegno, ora spetta a me», dice al presidente degli industriali sardi. L'analisi di Soru è comunque dura: parla di fallimento delle politiche attuate negli ultimi tredici anni, «siamo tornati al livello del 1993» e attribuisce all'ultimo governo la colpa del mancato inserimento della Sardegna tra le regioni in "phasing out" (accompagnamento morbido) per quanto riguarda l'uscita dall'Obiettivo uno. «Siamo andati noi direttamente a Bruxelles e ci hanno accontentato semplicemente con un premio, come se non fosse un diritto per la Sardegna essere inserita in "phasing out"». Poi, Soru ricorda che bisogna fare in fretta e parla di responsabilità condivisa dell'intero sistema regionale: dalla classe politica, alla pubblica amministrazione, alle famiglie. Il rapportoLa Sardegna non cresce abbastanza. Un leggero miglioramento viene registrato soltanto quando in Italia le cose vanno particolarmente male. Il rapporto del Crenos (presieduto da Raffaele Paci), illustrato ieri dalla coordinatrice del gruppo di lavoro, Adriana Di Liberto, spiega che la Sardegna nel 2006 crescerà soltanto dello 0,8%. L'Italia andrà però più veloce, arrivando all'1,3% nel 2006. I problemi dell'isola sono i soliti: poche infrastrutture materiali e immateriali, alto livello di disoccupazione, difficoltà a posizionarsi sui mercati internazionali. Quanto all'export, infatti, la Sardegna riesce a fare ben poco, se si esclude il settore petrolchimico. E soprattutto, ha spiegato Adriana Di Liberto, arretra il settore agroalimentare. LavoroBrutte notizie anche sul fronte del mercato del lavoro: è vero che il tasso di disoccupazione è diminuito (dal 13,9% del 2004 al 12,9 del 2005), ma questo non ha riscontro nell'aumento dell'occupazione, mentre cresce il numero dei lavoratori "scoraggiati", quelli che si rassegnano a non lavorare. Tutte analisi che fanno prevedere, per l'anno in corso, un livello di disoccupazione stabile al 13%, distante dai livelli nazionali del 7,6%. Per giunta, i dipendenti a tempo determinato in Sardegna rappresentano oltre il 12% del totale (in Italia il 9,2%). spesa e formazioneLe infrastrutture materiali sono scarse, tanto che l'indice di sfruttamento è altissimo così come è forte la domanda di nuove opere. Altrettanto si può dire sul fronte della formazione. Il tasso di scolarizzazione superiore in Sardegna non va oltre il 56,7% (gli obiettivi di Lisbona parlano dell'85%), i giovani che abbandonano gli studi rappresentano il 32,6% del totale, mentre i laureati in scienza e tecnologia sono solo il 5,5%. Su questo fronte c'è da fare tanto e Biggio ha chiesto anche all'Università di voltare pagina, per avvicinarsi maggiormente alle aziende. Credito e turismoSul fronte del mondo bancario, il rapporto del Crenos mette in evidenza la difficoltà del sistema economico sardo a generare impieghi che siano superiori alla raccolta di denaro. Notizie positive, infine, arrivano dal turismo. Un'indagine basata sull'intervista a esperti, a causa della mancanza di dati di prima mano, dopo la chiusura degli enti provinciali del turismo, ha portato a prevedere, per la stagione 2006 un incremento del 2%, grazie soprattutto a un aumento delle presenze straniere. Giuseppe Deiana _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 2 Giu ‘06 IL CRENOS SULL'ECONOMIA SARDA Dopo la strategia servono atti concreti di Gino Mereu * Leggendo il tredicesimo Rapporto di Crenos sullo stato dell'economia sarda si rischia di cadere nello sconforto: non abbiamo infrastrutture adeguate, esportiamo poco e importiamo molto, la grande industria soffre di una crisi ormai storica, il tasso di disoccupazione resta stabilmente tra i più alti d'Italia e siamo tra le regioni fanalino di coda nell'Unione europea. Ma lo sconforto sarebbe giustificato solo se il nostro destino fosse inevitabilmente quello di percorrere una parabola discendente verso il sottosviluppo; sappiamo però che esistono, al contrario, progetti di crescita non solo possibile, ma anche probabile. Il programma politico del governo regionale guidato da Soru li indica con chiarezza: un modello di sviluppo sostenibile, radicali politiche di riforma, un maggior rigore per la spesa pubblica, la riduzione del debito, efficaci azioni a sostegno del sistema produttivo, investimenti nella ricerca scientifica e nell'istruzione. C'è chi dice che si tratta di una strategia proiettata sul lungo termine e che non dà risposte immediate alla crisi. Se il percorso di sviluppo avviato da questa maggioranza potesse contare fin d'ora anche su atti concreti e adeguati, potremmo affrontare l'idea del lungo termine con maggior ottimismo, poiché non si cresce all'improvviso, ma gradualmente e progressivamente se ne percepiscono gli effetti positivi. Pur nella sua banalità, questa non è un'affermazione insignificante, perché partendo da essa si riescono a creare i presupposti di un sentire comune e condiviso. Forse è proprio questo che ci è mancato negli ultimi decenni. Archiviato più di vent'anni fa il sogno del petrolchimico, ci siamo trovati a gestire un modello economico e produttivo fallimentare, estraneo al nostro tessuto sociale e culturale, e su di esso ci siamo arenati, incapaci di guardare avanti e assai spesso divisi sulla scelta degli strumenti necessari a tamponare le continue emergenze. Oggi abbiamo un progetto da cui ripartire e un buon potenziale su cui lavorare. Sappiamo che la grande industria è in crisi e che va difesa a oltranza, ma possediamo un altro patrimonio che mostra una confortante vitalità, quello delle medie, piccole e piccolissime imprese, sia manifatturiere che agricole e agroalimentari, che per crescere hanno però bisogno di alcuni elementi fondamentali: una efficace politica di programmazione, una rete di servizi e di assistenza, un sistema creditizio agile ed efficiente. Si tratta di interventi programmati da tempo e per i quali ora è necessario mobilitare risorse e avviare iniziative tangibili. Lo stesso discorso vale per lo studio e la ricerca scientifica. È fondamentale una politica di incentivazione per dare a un numero sempre maggiore di giovani l'opportunità di diplomarsi e laurearsi, ma nelle nostre Università già ci sono aree di grande eccellenza e stanno crescendo i settori delle biotecnologie applicate all'agroalimentare, alla farmacologia e alla genetica, con alcune realtà che potrebbero svilupparsi e dare risultati importanti anche sul fronte economico e del lavoro. Il tredicesimo Rapporto di Crenos sullo stato dell'economia regionale non è allarmante più di quanto lo siano stati i dodici che lo hanno preceduto, segno evidente che fino a oggi abbiamo fatto davvero poco; e forse è giunto il momento di mettere da parte gli antagonismi di bandiera per dare ai sardi un nuovo modello di crescita e di sviluppo. * Presidente del Crel _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 29 Mag ‘06 L' ATENEO DI CAGLIARI: UNO SCRIGNO DELL'ARTE Nuova ricerca di Paolo Bullita di Gianni Filippini Circa due anni fa, Paolo Bullita, responsabile nell'ateneo cagliaritano della Direzione per le reti e i servizi informatici, aveva proposto un bel volume ricco di notizie, documenti, immagini significative. Per l'evidente (seppur non dichiarato) desiderio dell'autore di non voler invadere il campo degli studiosi di professione il titolo - Note sulla storia dell'Università di Cagliari - era in qualche modo riduttivo per il sostanziale valore dell'opera. Dall'interessante lettura emergeva però la convinzione che l'autore non avesse riversato nell'opera tutti i frutti delle sue rigorose e appassionate ricerche. Cioè, che altro avesse da raccontare, da proporre. Sensazione fondata. Ecco, infatti, un secondo volume: L'Università degli studi di Cagliari. Dalle origini alle soglie del terzo millennio. Memorie e appunti ( che ha un buon livello editoriale, grande formato, carta pregiata, grafica elegante e un prezioso corredo iconografico). Paolo Bullita lo apre con un giusto richiamo alla fondamentale opera del compianto Giancarlo Sorgia, docente e prorettore dell'ateneo, autore di Lo Studio Generale cagliaritano. Storia di un'Università che è ancora oggi un insostituibile punto di riferimento: «Questo lavoro - si legge infatti nella prefazione - ha tratto ispirazione e stimolo da quell'insuperata opera». Segue una rapida indicazione sul contenuto del volume: «È il risultato di una ricognizione delle fonti storiche e letterarie più importanti, accompagnata dalla raccolta di "memorie e appunti" che vengono messi a disposizione di quanti desiderano conoscere, in maniera articolata, semplice e divulgativa, il succedersi dei principali avvenimenti che hanno scandito la storia del nostro ateneo e dei preziosi cimeli che ancora vi si conservano. Indirizzata specialmente ai giovani, l'opera vuol servire anche da contributo per quanti vorranno investigare la materia, con più competenza, è più tempo e più mezzi a disposizione, al fine di arricchire ulteriormente la conoscenza della storia della nostra antica Università». Ed effettivamente anche questo nuovo, interessante volume di Paolo Bullita si rivela contributo di notevole valore e significato. L'esposizione - che con stile asciutto si affida all'essenzialità - prende le mosse dal Cinquecento, dalla prima richiesta del Braccio reale di Cagliari ( richiesta peraltro accolta soltanto sessant'anni dopo) per ottenere l'istituzione di uno "Studio Generale". Con il solido supporto (nel testo e in appendice) di illuminanti documenti storici e di significative immagini di personaggi, opere d'arte e cimeli, Paolo Bullita disegna lucidamente tutte le principali tappe successive - sino ai nostri giorni - della progressiva crescita dell'Università di Cagliari e ne mostra il patrimonio artistico davvero eccezionale _____________________________________________________________ Corriere della Sera 2 giu. ’06 L'AZIENDA SCOPRE LA RIVOLUZIONE PERMANENTE Convegno all'Università Liuc dell’Assochange. Dai facilitatori ai change manager, come governare la flessibilità Merando (Unisys).- la priorità é prevedere e pilotare i cambiamenti Sul suo biglietto da visita non è riportata la qualifica. Eppure Salvatore Merando è uno dei top manager di Unisys. Lui si definisce «director». E spiega: «Ogni sei mesi viene rivoluzionato l'organico aziendale: inutile cristallizzarsi». Del resto la sua società ha fatto del cambiamento un cavallo di battaglia, e lo stesso Merando è tra i soci fondatori (oltre che tesoriere) di Assochange, associazione italiana di «change management». Disciplina nata in America (e diffusa in tutto il mondo negli anni 80) con l'obiettivo di traghettare le aziende nel modo più indolore possibile attraverso accorpamenti, ristrutturazioni, innovazioni tecnologiche, riduzioni di personale. In Italia solo da poco si è cominciato a capire la portata di questo strumento. «È stato tenuto un po' nel cassetto - continua Merando - ma oggi attrezzarsi per il cambiamento è indispensabile. La crescita economica dei mercati asiatici, il boom di internet, la denatalità occidentale, sono tutti fenomeni che stanno ridisegnando la mappa dell'economia mondiale». EVOLUZIONI RADICALI - Per fare il punto della situazione, Assochange ha organizzato un convegno che si terrà il 5 e 6 giugno aIla Liuc di Castellanza (Varese). Tra i temi del dibattito: come riuscire a introdurre in azienda la «change intelligence», cioè la capacità di prevedere e pilotare i cambiamenti, anziché attrezzarsi per subirli. Concettualmente, un bel passo avanti, che però qualcuno ha già fatto. Per esempio Ibm, che da produttore di hardware e software ha dato una svolta al proprio business scommettendo sulla consulenza. «Lo scorso anno abbiamo incentivato l'uscita di un migliaio di dipendenti - racconta Giovanni Sgalambro, partner strategy & change executive della società, oltre che presidente di Assochange -. Tutte persone di grande competenza, il 90% di loro dopo tre mesi aveva già un nuovo lavoro, ma il cui profilo non era più in linea con la mission aziendale. Oggi Ibm sta puntando sempre di più sui servizi e sull'assistenza ai clienti. Questo settore raccoglie ormai oltre il 50% del fatturato». Certo, evoluzioni così radicali non sono facili da attuare, né da far "digerire" ai dipendenti. Per questo, accanto al change manager, operano spesso figure di supporto con il compito di spingere il cambiamento dalla base. «In Ibm non esiste un dirigente con la qualifica di change manager - continua Sgalambro -, è il Ceo a dettare le linee guida. Però c'è un team di change agents che coordina le operazioni». La stessa cosa succede in Banca Agrileasing, che proprio in questo periodo si è trovata a dover gestire il trasferimento di tutte le società della holding (1.200 persone) in un'unica sede, alla periferia di Roma. «Ogni anno viene eletta una squadra di "facilitatori". Noi li chiamiamo apostoli, perché hanno il compito di diffondere il verbo aziendale - racconta Mariella Liverani, direttore innovazione e sviluppo -. Si tratta di persone scelte dalla base, dotate di facilità di comunicazione, che ricevono gli input dal top management e hanno il compito di spiegare ai colleghi che cosa sta succedendo e come affrontare la situazione». Proprio il coinvolgimento dei dipendenti è considerato oggi indispensabile in tutti i processi di change management. «Non bisogna limitarsi a intervenire sugli aspetti tecnici, ma bisogna considerare anche quelli sociali. Molti casi di insuccesso sono dovuti proprio alla difficoltà nel gestire entrambi questi ambiti - spiega Massimo Genova, partner della società di consulenza Rso -. Sempre più spesso la realizzazione dei progetti di change management richiede la capacità di organizzare eventi di comunicazione. Magari basati su metafore sportive, teatrali o ludiche». I PROGETTI - Che il «change management» utilizzi spesso strumenti presi a prestito da altre discipline non deve stupire. Del resto era nato sui campi di battaglia: inventato dagli psicologi americani durante la guerra del Vietnam, per aiutare i ragazzi spediti al fronte ad accettare cambiamenti traumatici. Adesso le trincee sono di altro genere, ma le dinamiche cambiano poco. Con Finmeccanica, per esempio, Rso ha avviato il progetto Rockets, missili: i giovani sotto i 35 anni considerati più brillanti e: con il migliore potenziale di crescita vengono invitati a mettersi in gioco su temi di business scelti di volta in volta dal top management. Cosa analoga fa ogni anno Italcementi: seleziona 25 giovani dirigenti e a ognuno affida l'analisi di un progetto di investimento per rilanciare l'innovazione. Squadre scelte, insomma, per obiettivi mirati. Anche se difficilmente in un'azienda lo staff deputato al cambiamento è sempre lo stesso. «Si agisce in funzione della tipologia dei progetti - conferma Marco Pederzini, responsabile program management di Emak (850 dipendenti, tra le aziende leader nella costruzione di macchine per giardinaggio e attività forestale) - È da circa tre anni che ogni nostro programma prevede componenti di change management, che vengono gestiti attraverso team dedicati, in collaborazione con chi si occupa di information technology Paola Pignatelli ======================================================= _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 30 Mag. ‘06 AZIENDA MISTA, IN AUTUNNO SI FA Dopo la dichiarazione pubblica del presidente del consiglio regionale sul piano sanitario Segue la nomina del direttore generale. E lo scorporo CAGLIARI L’azienda mista di Cagliari (e anche di Sassari), se vuole nascere deve guardare a una nuova data: quella cui arriverà il consiglio regionale con la discussione e poi l’approvazione del piano sanitario regionale. «Entro l’estate» ha promesso pubblicamente il presidente del consiglio Giacomo Spissu davanti al ministro della sanità Livia Turco. Qualche tentativo di metterla assieme prima c’è stato, ma ci sono due carte fondamentali per sapere quali dimensioni dare alla nuova struttura: la famosa razionalizzazione della rete ospedaliera e il meno noto ma altrettanto necessario recepimento della riforma Bindi. C’è delusione in Regione e nelle due università dopo l’esordio clamoroso del protocollo d’intesa cercato per anni e stilato in due mesi dall’assessore appena arrivata in Sardegna (ottobre 2004). Il protocollo traboccava speranza: tempi certi per ogni passaggio che avrebbe dovuto portare all’azienda mista funzionante il primo gennaio 2007. E’ chiaro (già da alcuni mesi) che si è sottovalutato un aspetto: senza una scelta su tutti gli ospedali della Sardegna si è capito che sarebbe stato politicamente improponibile costruire un’azienda a metà tra sistema regionale e mondo universitario. Quando è stato firmato il protocollo, infatti, si pensava che, una volta elaborato il piano sanitario regionale, in attesa della sua approvazione in consiglio, si sarebbe potuta stralciare la cosiddetta razionalizzazione della rete ospedaliera e quindi sapere su quali numeri costruire l’azienda mista. In un tempo forse troppo lungo si è capito che gli ospedali erano il ventre molle del sistema sanitario nostrano e la loro riorganizzazione forse uno degli aspetti più delicati da affrontare. Ma c’è stato anche qualcos’altro che ha frenato: la Regione non aveva ancora recepito la legge 229, la riforma Bindi, e finora non è mai stata data una regola formato Sardegna per sapere cosa fosse nella realtà operativa sanitaria un atto aziendale; che cosa un dipartimento e cos’altro un distretto. La scelta di aspettare una legge e l’altra è stata fatta in accordo assessorato- consiglio ma i tempi, alla fine, hanno messo dalla parte del torto tutti quelli che avevano avallato la scelta di procedere con ordine. Adesso i presidi di Medicina scalpitano e con loro i rettori. Ma anche il personale degli ospedali che si dice passeranno all’azienda vivono sospesi e non prendono bene le voci continuamente diffuse: vi spediranno tutti sotto gli universitari; passerete in blocco nell’azienda universitaria; non ci sarà possibilità di scelta; la carriera è finita. Anche per gli universitari c’è qualche voce di troppo, su un potere che non sarà più assoluto: finito il monopolio della ricerca; finito il carico dell’assistenza tutto sugli ospedalieri; finite le direzioni universitari di reparti popolati solo da personale ospedaliero. A proposito dei tempi, l’idea ormai ragionevole che si sta facendo strada è questa: fatto il piano sanitario si costituisce subito l’azienda mista, si nomina il direttore generale e ci si mette attorno a un tavolo per guardare il nocciolo del problema che sarà lo scorporo di strutture, macchinari, personale. Nessuno se lo nasconde: l’operazione sarà complessa. Ma con l’azienda nata e qualcuno pagato per metterla in moto (il direttore generale) il processo verrà accelerato. Per il trasferimento del personale sembra naturale avvengano gli stessi passaggi fatti altrove: non ci sarà selezione del personale che transiterà, ma, assegnati i reparti, questi trascineranno con sé gli operatori. I tecnici spiegano che, pur essendo comprensibile, non è giustificata la preoccupazione di finire «sotto» gli uni o gli altri: l’azienda è «mista», significa che le due parti convivranno e ci sarà il momento di precisare quale saranno gli strumenti per assicurare pari dignità in tutti i campi di azione (didattico, assistenziale, di ricerca). Meno semplice sarà il ragionamento sulle direzioni. C’è tempo per decidere. E stavolta è una fortuna. Alessandra Sallemi _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 1 Giu ‘06 SASSARI:UNA NUOVA CULTURA DEL SOCIALE Gli operatori rilanciano proposte e strategie alternative Come rispondere ai problemi dei più deboli: la Sardegna stringe i tempi con moderne sinergie Cambiare per favorire la nascita di un nuovo welfare: dal convegno di Sassari sulle professioni sociali sono emerse posizioni unanimi sulla necessità di una riforma profonda. E se non tutti si sono detti completamente d’accordo sui metodi per arrivare alla rivoluzione finale, l’incontro di ieri all’università è stata comunque un’occasione molto importante. Per vari motivi. Innanzitutto, perché ha consentito di mettere a fuoco con precisione problematiche oggi in attesa degli interventi più immediati. In secondo luogo, perché ha permesso un confronto tra le posizioni delle diverse categorie: sociologi, assistenti sociali, pedagogisti, educatori, docenti universitari. Infine, perché è servito a individuare i traguardi più urgenti per recuperare il tempo perduto. In altre regioni, infatti, negli ultimi anni sono stati fatti passi avanti notevoli. Invece, per troppo tempo, la Sardegna è rimasta al palo. Ma adesso, dopo il varo di provvedimenti legislativi e il successo di una serie d’iniziative, secondo molti l’isola potrebbe trasformarsi in laboratorio esemplare. Un modello da prendere in considerazione. Spiega Alberto Merler, il professore che nell’ateneo di Sassari coordina il dottorato di ricerca in Fondamenti e metodi delle scienze sociali: «La legge regionale sul riordino dell’intero settore è stata approvata in dicembre e recepisce le disposizioni della normativa-quadro nazionale. Abbiamo gli strumenti per definire la specificità di ciascuna figura. E quindi dobbiamo riuscire a far sì che la formazione universitaria si riveli in sintonia con le professioni del sociale». Aggiunge l’assessore provinciale Sergio Mundula, della Margherita: «Ci hanno dato le competenze, attendiamo mezzi finanziari e professionalità adeguate». «Sono indispensabili mutamenti profondi - incalza l’assessore comunale sassarese alle Pari opportunità, Cecilia Sechi - Perciò, insieme con l’università, tentiamo di creare basi di approfondimento culturale». Ai processi che passano attraverso operatori e istituzioni è interessata l’intera popolazione: come per la sanità, si parla di principi e diritti che riguardano tutti. Esistono però individui e nuclei familiari che hanno più bisogno di assistenza. Nell’isola sono decine di migliaia gli alcolisti, i tossicodipendenti, i disadattati, le persone sofferenti di disturbi psichici o con problemi d’integrazione e inserimento nella collettività, le coppie in crisi, gli anziani abbandonati, i senzatetto, gli emarginati. Per contrastare le forme di disagio è in azione, e non da oggi, un esercito di professionisti: 1300 assistenti sociali, un centinaio di sociologi, migliaia di educatori. Si deve in primo luogo capire se il loro numero sia sufficiente per affrontare situazioni borderline tanto diffuse. «Ma il problema cruciale - sostengono in parecchi - consiste nella qualità degli interventi, nella certezza e nella suddivisione delle competenze e nell’organizzazione delle politiche». Con studi e analisi adeguate: non a caso al termine del convegno è stato presentato il Dizionario di servizio sociale dalla stessa coordinatrice dell’opera, Maria Dal Pra Ponticelli, e dalla presidente dell’ordine regionale degli assistenti sociali, Marisa Erriu. «Il nostro è un campo che vede nuove opportunità d’informazione capillare sul territorio - chiarisce quest’ultima - Attraverso la Carta dei servizi tutti potranno conoscere il ventaglio delle possibilità offerte». E il segretario nazionale dello stesso Ordine, Vittoria Casu: «Così come in ospedale si sa chi è il medico e chi l’infermiere, nel nostro settore bisogna distinguere le differenti posizioni per poi lavorare meglio insieme: tutte le persone impegnate nel delicato campo dell’intimità esistenziale devono conoscere i confini delle loro rispettive competenze». L’assessore provinciale di Nuoro Alberto Boeddu (confluito nel movimento creato da Paolo Maninchedda dopo la separazione da Progetto Sardegna) è convinto che il nodo centrale di tutto sia l’attivazione del Plus, il piano locale unitario dei servizi: «Consentirà di migliorare le prestazioni e di eliminare utili sprechi di risorse». Arianna Cocco e Nina Guiso, della Società sarda di pedagogia, mettono l’accento sulle esigenze d’integrazione tra differenti aree d’intervento e figure operative. «Anche nei processi di formazione», sottolineano, ricordando poi le iniziative realizzate in concreto negli ultimi anni. «Come il contributo alle proposte legislative per il riconoscimento delle mansioni di pedagogisti - spiegano - O i Centri d’ascolto istituiti in via sperimentale a Quartu, Lanusei e Muravera». Il sociologo Giuseppe D’Antonio, presidente della coop nuorese Lariso, rappresenta il terzo livello d’intervento, quel privato sociale no profit che in Sardegna vede attive 250 società nel gestire servizi per conto dei Comuni. «I nostri punti fermi - dice - consistono nel rafforzare la cooperazione anche attraverso un miglioramento delle formazioni individuali, nel far nascere organismi, come le agenzie, che intercettino i sostegni europei alla progettazione, nel facilitare i rapporti col sistema creditizio e nell’aiutare i soggetti più deboli a inserirsi nel lavoro. Bisogna infine puntare su una qualificazione normativa del ruolo del sociologo che opera nel territorio, magari con l’istituzione di un Albo e di un Ordine». Pier Giorgio Pinna _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 27 Mag ‘06 ANAGRAFE INFORMATICA NELL’ISOLA PER TUTTI GLI ASSISTITI ASL Il progetto, il primo in Italia, sarè realizzato in due anni CAGLIARI. La Sardegna é la prima Regione italiana a darsi l’obiettivo di creare un’anagrafe informatica di tutti gli assistiti del sistema sanitario regionale che colleghi fra loro, e con tutte le aziende sanitarie locali, tutti i 377 comuni dell’isola. Il progetto, denominato Anasg (Anagrafe assistibili del sistema sanitario regionale), consentirà di aggiornare in tempo reale i dati sensibili di tutti gli assistiti dal sistema sanitario sardo, tenendo conto delle morti, delle nascite, dei cambi di residenza e dei medici di base. Sarà finanziato interamente con 2 milioni e 700 mila euro provenienti dal ministero delle Finanze e realizzato, in due anni, dal raggruppamento temporaneo di imprese che si é aggiudicato l’appalto, e di cui fanno parte, nelle vesti di società mandatarie, anche quattro imprese sarde: la «Faticoni» e la «Halley Sardigna» (entrambe con sedi a Cagliari e Sassari), la «Nicola Zuddas» di Cagliari e la «Olsys» di Nuoro. La società mandante é invece la «Santer spa» di Milano. L’attuazione del progetto prevede tre scadenze temporali: entro i primi sei mesi si provvederà a collegare fra loro, in via sperimentale, le anagrafi dei primi 60 comuni. Entro un anno il sistema sarà attivato in tutti i comuni delle prime cinque province, ancora da individuare. Il sistema sarà poi completato entro i successivi 18 mesi. _______________________________________________________ L'Espresso 08 giu. ’06 IMPUTATO BISTURI SANITA SOTTO ACCUSA! QUANDO A RIMETTERCI È IL PAZIENTE Troppi errori. E troppe vittime. Dalla sala operatoria agli ambulatori. Colpa solo dei dottori? No. Ma è emergenza di Luca Carra n' epidemia. L.e cause legali mosse ai medici da pazienti che si sentono danneggiati sono aumentate del 144 per cento in quasi dieci anni. E ì procedimenti in corso sono addirittura 12 mila, per una richiesta di risarcimento danni pari a circa 2,5 miliardi di curo. Una montagna di soldi che fa aumentare i premi assicurativi e pesa come un macigno sulle casse degli ospedali, che devono sborsare dai 750 mila ai 2 milioni di euro l'anno per una copertura assicurativa. Ma soprattutto una montagna di morti e feriti. Le stime, aggiornate di recente nel corso di un incontro promosso dal Cnr di Pisa, sono impressionanti: gli errori medici uccidono ogni anno circa 30 mila persone in Italia, e provocano circa 320 mila incidenti su S milioni di ricoveri ]'anno. E la nemesi medica, secondo l'ultimo rilevamento di Eurobarometro, è l'incubo degli italiani; ben il 97 per cento considera infatti l’errore medico un'emergenza nazionale. Ma cosa sta succedendo? « Ciò che preoccupa è che gli incidenti mortali, come nei recenti casi verificatisi in Sicilia all'inizio dell'arino, riguardano anche operazioni di routine, come l’appendicectomia», spiega Teresa Petrangolini, presidente di Cittadinanza Attiva Tribunale dei diritti del malato, che da dieci anni fotografa i principali errori clinici in base alle segnalazioni ricevute dai cittadini. Sulla lista nera stilata dall'associazione compaiono ai primi posti gli interventi di ortopedia (schiena e protesi d'anca soprattutto), oncologia, ostetricia, chirurgia generale e oculistica, che sommati superano il 50% delle segnalazioni. Molti incidenti avvengono anche in ambiti più complessi, come la cardiochirurgia, ma qui le segnalazioni sono minori perché forse la gente mette già ne) conto che le cose possano andar male», conclude Perrangolini. Non vanno poi dimenticati gli errori da scambio o sovra dosaggio di farmaci, che colpiscono circa .S 0 mila persone. Un'altra fotografia, speculare, è del Consorzio universitario per l'ingegneria nelle assicurazioni (C.ineas), che ha intervistato non i cittadini, ma cento direttori generali e sanitari anche sulle responsabilità degli errori: un terzo sarebbe da addebitare alla mancanza di procedure adeguate (tipo linee guida e protocolli chiari), un quarto alla cattiva organizzazione del lavoro (che comprende anche turni sbagliati e ritmi stressanti), un quinto alla scarsa attenzione e preparazione dei medici e il resto a macchine obsolete, logistica irrazionale e al caso. I: indagine sembra allora mostrare che all'origine degli errori non ci sono, come vorrebbe il luogo comune, medici demotivati e pasticcioni, ma c'è una preoccupante disorganizzazione ospedaliera. Di "rischio clinico" si parla da anni, ma in corsia è ancora un ospite ingombrante, che genera imbarazzo e paura da parte dei medici. I primi a muoversi sono stati gli statunitensi. Cinque anni fa hanno avviato un programma federale finanziato con 50 milioni di dollari, che coinvolge decine di agenzie e associazioni di malati, con una sola parola d'ordine: imparare dagli errori, registrandoli, rendendoli pubblici, studiandoli. A cinque anni dall'avvio dei programma statunitense, si cominciano a vederci risultati: ad esempio sono diminuiti i morti da iniezioni di cloruro di potassio (da quando la sostanza è stata rimossa dagli scaffali degli infermieri), gli incidenti dovuti a dosaggi sbagliati di anticoagulante, le intenzioni ospedaliere stroncate dalla applicazione di linee guida per il trattamento antibiotico prima e dopo gli interventi chirurgici. Molti ospedali americani si sono dotati di Unità di gestione dei rischio e hanno avviato un sistema di informatizzazione delle ricette, che riduce le sviste dovute anche solo alla scrittura illeggibile dei medici. Si sono diffusi i protocolli di sicurezza per !e trasfusioni del sangue, i! dosaggio dell'insulina, l'uso corretto della ventilazione meccanica e decine di altre procedure ad alto tasso di errore. Parallelamente a queste iniziative istituzionali, l'associazione statunitense degli ospedali ha stilato una lista di semplici consigli ai pazienti per salvarsi !a vita. Primo, consultarsi con il proprio medico per la scelta dell'ospedale reputato più adatto per una determinata malattia. secondo, portare sempre la lista dei medicinali che si prendono e gli esami effettuati, e via elencando. Se pragrammi simili si stanno sviluppando anche in Gran Bretagna, Svizzera, Spagna e nei paesi del Nord Europa, in Italia siamo ai primi passi. Il Dipartimento della qualità del ministero della Salute ha appena pubblicato una "Rilevazione nazionale sulle iniziative per la sicurezza del paziente" in Usl e ospedali, che fotografa la situazione al 2002. Una fotografia , invero, non entusiasmante: se infatti quasi il 90 per cento delle strutture ]la attivato un sistema per la risposta dei reclami, solo il 17 si è dotata di una Unità per la gestione del rischio clinico, e poche di più (il 2,3 per cento registrano gli incidenti critici più rilevanti. Percentuali basse, che diminuiscono ancora al Centro-Sud, e che si diluirebbero ulteriormente se fosse stato conteggiato anche quel 40 per cento di ospedali e Asl che noti hanno nemmeno risposto al questionario ministeriale. Negli ultimi quattro anni, tuttavia, qualcosa ha cominciato a muoversi. Esperienze pilota sono quelle della Toscana, dove in ogni Asl tutti reparti di anestesiologia sì sono dotati di un sistema per rilevare gli errori e stabilire procedure a prova di incidente, e del Policlinico Sant'Orsala di Bologna, che ha messo a punto un sistema di registrazione e autocorrezione dell'errore clinico. Anche se, spiega la responsabile del Servizio di medicina legale bolognese Marisa Faraca, «così abbiamo di certo ridotto gli errori, ma questa non si è tradotto in una diminuzione delle denunce, che al contrario sano in continuo aumento». L'alluvione di cause legali per malpractice non riguarda salo gli specialisti egli ospedalieri: colpisce anche il medico di famiglia. Accade sempre più e, seconda le denunce, soprattutto «per non aver diagnosticato in tempo una malattia, o per non essersi recato a domicilio in tempi ritenuti ragionevoli dal paziente», spiega Maurizio Maggiorotti, presidente di Arnami, l'Associazione medici accusati di malpractice ingiustamente. Tuttavia il 65,7% del contenzioso si risolve con un risarcimento fuori dalle aule del tribunale, mentre il 23 è penale e il 10,7 civile. «La maggior parte dei procedimenti si risolve però con l'archiviazione, con sentenza di proscioglimento del medico in udienza preliminare o con l’assoluzione, e solo pochissimi si risolvono con una condanna », dice il procuratore della Repubblica di Bologna Enrico di Nicola. L’impressione degli addetti ai lavati è quella di un contesto nebuloso in cui non sono chiare le responsabilità giuridiche. Ecco allora l'idea di istituire un Osservatorio sulla responsabîlità del medico, che avrà il compita di fornire dati certi alla preparazione di una riforma legislativa che definisca finalmente dì chi sono le responsabilità nei diversi conttesti. «La responsabilità legale degli errori in medicina è regolata dal codice civile e da una serie di sentenze, cosa che spesso non consente di attribuire chiaramente le responsabilità degli incidenti ai medici o alle strutture ospedaliere, spiega l' avvocato Natale Callipari, che ha coordinato un incontra tra specialisti all'Ospedale Sacro Cuore-Doti Calabria: «Da qui l'idea di istituire un Osservatorio nazionale, composto da giuristi e sanitari, che metterà a confronto le varie legislazione europee, arrivando a una proposta di riforma dell'intera materia ». Anche se il più delle volte la scampa, la paura della denuncia, dello stress di un processo e della macchia dì un'azione legale che si ripercuote anche sull'aumento dei premi assicurativi, porta il medico a sentirsi vittima dell'opinione pubblica e della magistratura, e a non essere disponibile alla registrazione volontaria degli errori. E lo spinge a cautelarsi, anche prescrivendo montagne di accertamenti diagnostici hi-tech a visite specialistiche, pure quando non sarebbe necessario. Gli addetti ai lavori chiamano questa medicina difensiva. Eppure, dalle ricerche emerge che il più delle volte l'errore nasce da un insieme di fattori quasi mai riconducibili alla sola imperizia e negligenza del medico C’è la fatica di un lavoro stressante come quello dell'ospedaliero, l’aggravante delle situazioni di emergenza, che inevitabilmente aumentano il tasso di errore. Ci sano, a monte della pratica clinica, falle nell'organizzazione, macchine difettose, pochi soldi e pochi letti in terapia intensiva. Ci sono anche, secondo Maggiorotti, complicazioni assolutamente imprevedibili e noti prevenibili, risposte diverse dell'organismo a trattamenti che sortiscono l'effetto sperato nel 99 per cento dei pazienti, ma non in tutti. Tipico esempio è l'infezione dopo l’impianto di una protesi, che può verificarsi nonostante siano state osservate tutte le norme igieniche e una terapia antibiotica. C'è però anche, come ricorda Teresa Petrangolinî, l'omertà e lo spirito di casta dei medici pronti a fare quadrato per difendere la reputazione dell'ospedale e del collega, che non rende certo agevole la va legale per la vittima di un danno sanitario. D'altra parte, l'aumento di litigiosità giudiziaria non semi-ira favorire i processi di correzione dell'errore medico. Anzi, probabilmente li rende più difficili, esasperando il contrasto fra medici e pazienti, meglio allora seguire l'esempio di Torino e Roma, dove per un'iniziativa congiunta dell'ordine dei medici e degli avvocati sono stati aperti sportelli di conciliazione per risolvere le controversie fra camici bianchi e cittadini. Nel primo anno di attività, ricorda il presidente dell'Ordine dei medici di Roma, Mario Falcovì,«si sona rivolti alla sportello mille cittadini. Di questi, il 30 per cento ha chiesto informazioni e consulenza. Nel 40 per cento dei casi il problema denunciato sì è risolto can il dialogo, senza richiesta di risarcimento. Nel 10 per cento è stata avviata la pratica di conciliazione, per tiri totale di 9,3 dossier. Di questi, dieci casi si sono già conclusi, 1,5 sono incorso. Resta poi il nodo dei programmi di gestione del rischia, ancora troppo pochi in Italia, a cui toccherebbe il compito di ridurre progressivamente il tasso di errore clinico ai livelli considerati standard per altri servizi, come le banche e l’aeronautica, pari a meno della O, I per cento. «Sotto questa soglia si parla di errore inevitabile, di sistema, che comunque, in una città come Chicago, equivale a due atterraggi a rischio al giorno, e in un paese come gli Usa a 32 mila lettere recapitate all'indirizzo sbagliato ogni giorno», spiega Alberto Belloccv, docente di medicina legale all’Università Cattolica di Roma. «Un sistema sanitario senza errori non è possibile, ma arrivare a un livello dì efficienza del 99,9 per cento è alla portata dì ogni ospedale, anche se per ora è poco più di un miraggio». _______________________________________________________ L'Espresso 08 giu. ’06 QUANTI ERRORI IN FARMACIA Ogni anno circa 50 mila persone finiscono in ospedale per aver preso un farmaco sbagliato, o per aver sbagliato dose o via di somministrazìone. Secondo uno studio che ha analizzato gli interventi del centro antiveleni dell'Ospedale Maggiore di Milano, l'intossicazione da farmaco avviene ne( 94 per cento dei casi fuori dall'ospedale, e riguarda in maggioranza i bambini. L'errore, quindi, viene compiuto in prevalenza dai genitori, ma con una corresponsabilità da parte di medici e farmacisti. «Una delle cause dello scambio di medicinali sano confezioni o nomi simili come il tanoxin, contro lo scompenso cardiaco, e il taroxil, un antidepressivo», spiega Paola Moro de! Centro antivelenì dell'ospedale milanese. E aggiunge: «Lo scambio può riguardare anche farmaci che prevedono dosaggi diversi per fasce d'età, ma con confezioni identiche, come fa tachipirina». C'è poi la svista del farmacista, che fornisce un farmaco diverso da quello indicato dalla ricetta. La grafia illeggibile sulla ricetta, un classico, a volte si direbbe quasi un punto d'onore del medico, trae spesso in inganno non solo nella corretta individuazione dei farmaco, ma anche nelle dosi e addirittura nella via di somministrazione. E così il centro antiveleni si trova a dover gestire casi in cui medicinali da ingerire sono stati inalati o usati come colliri, e viceversa. Ma anche con bambini in cui il comune antibiotico in sospensione (da assumere per bocca) è stato iniettato perché i! genitore ha fraintesa l'uso detta siringa dosatrice. _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 2 Giu ‘06 ESERCITAZIONE: PRIMO SOCCORSO, PROVA SUPERATA CAGLIARI. Il corso di primo soccorso per gli studenti della facoltà di medicina e chirurgia s’è concluso con un’esercitazione. Ieri promeriggio, nel piazzale del Policlinico di Monserrato, grazie a un protocollo d’intesa tra l’università e la Questura, c’è stata l’ultima lezione in cui sono state messe in pratica, su manichini, le tecniche di rianimazione e di primo soccorso imparate dagli allievi. Alla manifestazione hanno partecipato oltre duecento studenti, ma soprattutto operatori sanitari e medici, personale della polizia di Stato, carabinieri, vigili del fuoco, Croce rossa e militare, gli alpini e la Protezione civile. Erano presenti tra gli altri, il questore Paolo Cossu, il colonnello Giovanni Fiorilla del Comando provinciale dei carabinieri, il preside della Facoltà di medicina Gavino Faa, il direttore dell’istituto di anestesia e di primo soccorso e di emergenza, Gabriele Finco, i docenti del corso didattica di primo soccorso Antonio Marchi e Antonio Satta e Mario Piga, presidente del corso di laurea in medicina. Il Centro universitario di simulazione medica avanzata del Policlinico, rappresenta oggi una struttura all’avanguardia, in cui sono insegnate le migliori tecniche di soccorso. Alessandro Congia _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 2 Giu ‘06 CENTRO SCLEROSI MULTIPLA, ALTOLÀ DEI PAZIENTI «Fortemente penalizzante» il trasferimento dal Binaghi al San Giovanni di Dio Niente posti auto e tante barriere architettoniche CAGLIARI Sono cominciati gli incontri della Asl 8 con forze sociali e operatori per valutare le scelte proposte nel piano strategico aziendale e l’associazione dei pazienti affetti da sclerosi multipla ha espresso fortissimi dubbi su un trasferimento che li riguarda: passare dal comodo, spazioso, arioso Binaghi al temuto San Giovanni di Dio. Nell’ospedale di via Is Guaddazzonis dove è nato e cresciuto il Centro per la sclerosi multipla gli operatori lavorano bene e i pazienti non trovano barriere architettoniche, hanno ampi parcheggi a disposizione e ambiente ben attrezzati per le loro esigenze. Al San Giovanni si sa già di finire in un caos male organizzato, senza parcheggi e con i posteggi riservati ai disabili costantemente occupati per il grande numero di frequentatori dell’ospedale. Secondo i soci del Vosm meglio andare al Brotzu. E meglio ancora restare al Binaghi. In un lungo comunicato il presidente dell’associazione di volontari Vosm, Paolo Kalb, spiega che il Centro per la sclerosi multipla è un punto di eccellenza anche per la ricerca scientifica e lo dimostrano le pubblicazioni fatte. La possibilità di lavorare in un ambiente spazioso adatto a non creare ulteriori problemi ai pazienti che lo frequentano è stata una conquista fatta diverso tempo fa e che non si pensava di dover mettere in discussione. Inoltre, il trasferimento c’è il rischio che tolta l’identità di centro regionale alla struttura e con questa definizione il «paziente di sclerosi multipla può continuare a godere dei diritti dovuti al suo stato, che sono assenza di barriere architettoniche, parcheggi per disabili, esiguità dei percorsi dall’ingresso della struttura per raggiungere i luoghi della diagnostica e della terapia». I volontari hanno fatto un sopralluogo al San Giovanni di Dio per verificare le difficoltà di accesso e le hanno trovate tutte. Compreso quello di dover percorrere senza possibilità alternativa i 500 metri di percorso dall’ingresso al reparto. «Già hanno grosse difficoltà chi ha problemi di handicap anche nell’ingresso del reparto di dermatologia, futura sede del centro di sclerosi multipla... al Binaghi il paziente è autosufficiente, in una struttura del genere non lo sarebbe». L’associazione dei pazienti dubita dell’opportunità di rifare il reparto in funzione di una struttura come il Csm perché il San Giovanni dovrà transitare alla futura azienda mista Regione-Università e quindi ci si chiede come mai la Asl decida di spendere denaro in una corsia che poi non sarà più sotto la sua gestione. I pazienti rappresentati dal Vosm chiedono in altre parole di restare dove sono perché finora ci sono stati bene e perché, se va avanti il programma di ristrutturazione del Binaghi, così come ci sono centri per varie discipline può resistere un centro per la Sclerosi multipla già ben avviato. Naturalmente, Vosm spera che le obbiezioni sollevate possano trovare ascolto perché sarebbe una gran brutta stagione quella si profilerebbe in una struttura che non potrà mai uguagliare quella che forse si sarà costretti a lasciare. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 28 Mag ‘06 DONAZIONI DI SANGUE: SI PUÒ FARE DI PIÙ L' intervento Sono 1.062.000 mila i donatori di sangue dell' Avis che in un anno, nel 2005, hanno permesso di raccogliere 1.776.000 sacche di sangue, il 75% della raccolta totale, che è di 2.450.000 donazioni. Sono dati incoraggianti, considerando un leggero aumento (1,9%) rispetto al 2004. Ma la 70ª assemblea generale dell' Associazione, tenutasi a Bellaria, si è conclusa anche con qualche perlessità. Per diversi motivi. Ancora oggi Italia e Europa devono importare un terzo del loro fabbisogno di plasma ed emoderivati. Ogni anno, inoltre, nel periodo estivo si assiste a un' emergenza sangue. Questo vale soprattutto per alcune aree, tra cui Sardegna e Lazio (specialmente Roma). La gente va in vacanza, ma non la Sanità: la richiesta di sangue per trasfusioni, interventi chirurgici e trapianti resta, infatti, immutata. Per evitare tutto ciò, Avis promuove una cultura della donazione improntata alla periodicità e alla continuità. Il gesto della donazione di sangue non può ridursi a un semplice atto volontaristico compiuto una tantum. La donazione in momenti fissi dell' anno (da 2 a 4 volte, in base al sesso e allo stato di salute) deve riguardare tutti. Un altro campanello d' allarme è rappresentato dall' età media sempre più elevata dei donatori. In questa direzione, Avis ha curato diverse iniziative nelle scuole e nelle università. In collaborazione con il Sism (Segretariato italiano studenti di medicina) e le altre associazioni del Civis (Comitato interassociativo del volontariato italiano del sangue) le 28 Facoltà di medicina italiane hanno dedicato una settimana alla sensibilizzazione sul dono del sangue. Alla crescita complessiva del numero di donatori e all' abbassamento dell' età media potranno senza dubbio contribuire - come già accade - le comunità di immigrati. In molte città italiane, dove questa presenza è rilevante, Avis ha lanciato apposite campagne (ad esempio. a Prato e Livorno) che stanno dando buoni risultati e favorendo l' integrazione. Per continuare a crescere, nel numero dei donatori di sangue e nella consapevolezza dell' atto della donazione, il nostro Paese ha bisogno di tutti: giovani, uomini e donne dai 18 ai 65 anni, italiani di nascita e d' adozione. Da ultimo invitiamo il Governo a concludere gli atti amministrativi che daranno attuazione alla nuova legge sul sangue, approvata nell' ottobre scorso, per dare alle Associazioni più forza e ai donatori e riceventi più tutela e sicurezza. Andrea Tieghi, presidente Avis nazionale CHIUDI _____________________________________________________________ Libero 28 Mag ‘06 ALLARME IN EUROPA, GLI ANTIBIOTICI NON FUNZIONANO PIÙ DOMANI, A VENEZIA, CONGRESSO MEDICO INTERNAZIONALE SUL GRAVE PROBLEMA VENEZIA Gli antibiotici oggi più diffusi, ovvero le cefalosporine a largo spettro, non funzionano più? Non sono più in grado di combattere i microrganismi nocivi per la nostra salute? Così sembra. Secondo l'allarme lanciato da illustri scienziati di diversi Paesi europei, gli agenti patogeni hanno infatti almeno parzialmente vanificato l'efficacia dei suddetti farmaci, creando nuovi meccanismi di resistenza, noti con il nome ESBEL (extended-spectrum of beta-lactamases). C'è quindi la necessità di trovare quanto prima forme terapeutiche alternative. Per discutere di questo grave problema è stato indetto u n Congresso medico che prenderà il via domani a Venezia (fino al31 maggio). All'appuntamento, organizzato dalla ESCMID (European Society of Clinical Microbiology and Infectious Diseases), interverranno i più autorevoli esperti europei del settore, fra i quali l'italiano Giuseppe Cornaglia, del Dipartimento di Patologia dell'Università di Verona, lo spagnolo Javier Garau, l'inglese David Livermore e lo svedese Ragnar Norrby. Nel corso del convegno si farà il punto della situazione europea in materia di resistenza agli antibiotici e delle sue conseguenze pratiche nell'immediato futuro per quanto riguarda le possibilità terapeutiche e di sanità pubblica. Verrà inoltre affrontato un altro problema importante: la diffusionedi infezioni causate da batteri multiresistenti che, un tempo limitate all'ambito ospedaliero, si stanno oggi propagando anche nelle comunità sociali, creando gravi difficoltà ai medici di famiglia che vi devono far fronte. g.d.s. _____________________________________________________________ La Repubblica 29 Mag ‘06 CARTELLA CLINICA CON LE SPIEGAZIONI Messa a punto dal Cnr una lettera di dimissione interattiva che, tramite suoni, commenti vocali, filmati, immagini e animazioni, offre al paziente affetto da cardiopatia ischemica un valido strumento per capire la propria malattia e il processo dì cura. II progetto, denominato "My HeartlIl Mio Cuore", ha vinto il premio Pirelli International Arward per la comunicazione della scienza. Cercare di ridurre la distanza culturale tra paziente e medico, tra cittadini e struttura sanitaria è la motivazione del progetto realizzato da Giuseppe Andrea L'Abbate dell'Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa. "La difficoltà di comunicazione medico-paziente appare evidente se proviamo a leggere le prime righe di una lettera di dimissione cardiologica", spiega il ricercatore del Cm-: "Si dimette in data odierna il signorX.Y. di anni Z con diagnosi di infarto miocardico acuto anteriore in paziente con occlusione totale del tratto prossimale della coronaria discendente anteriore rivascolarizzata con angioplastica primaria ed impianto di stent.." Parole incomprensibili per la maggior parte delle persone., che di fatto si affidano al medico quasi fosse uno stregone o un mago". Con l'ausilio di "My Heart" è possibile "tradurre", senza rinunciare al rigore scientifico, la tradizionale lettera di dimissione" riaffermando la centralità del paziente i! quale è spesso tenuto a firmare il cosiddetto consenso informato pur non avendo raggiunto la necessaria consapevolezza della propria malattia. Il progetto si divide in cinque capitoli le informazioni di base sulla cardiopatia ischemica, di cui la più nota espressione è l'infarto; viene poi riportata la situazione cardiologica del paziente accompagnata da un modello grafico che la rende esplicita: gli altri capitoli contengono gli esami strumentali attraverso i quali è stata raggiunta la diagnosi, la terapia, ed infine un'agenda dei controlli cardiologici successivi, www.ife.cnr.it/ricerca/mhpro.html (Lorenzo ) _____________________________________________________________ Italia Oggi 30 Mag ‘06 II CRUSCOTTO CHE GUIDA I MEDICI Sanità Da TechSana il sistema per gestire la cartella clinica e inviare l'allarme al momento giusto Lo usano già l'Ospedale di Cosenza e quello di Tunisi: segue i percorsi di cura e consente di ridurre gli errori umani, In arrivo anche a Milano e Firenze di Cimato Se in Italia sono circa 32 mila le persone che muoiono ogni anno a causa di errori medici, negli Stati Uniti la cifra sale a 195 mila Ecco perché di recente l’Organizzazione mondiale della sanità ha diffuso un documento che propone un modello di approccio integrato in tutte le patologie croniche. Questo Chronic care model si basa su piattaforme informative che devono avvalersi di sistemi di allarme per il medico, consentire un'efficace archiviazione dei dati e assicurare un feed back per gli specialisti Un modello simile è già stato messo a punto dall'azienda italiana TechSana ed è stato sperimentato con successo in due strutture ospedaliere, una italiana,l'altra tunisina. Si tratta di un software denominato Cruscotto dei percorsi di cura (Cpc) in grado di gestire la documèntazione di ogni paziente. Questo sistema utilizza le linee guida riconosciute dalla comunità scientifica ed è configurato in modo da attivare meccanismi di alert per ridurre ll rischio di errore umano. «La spesa informatica nella sanità italiana è inferiore al 3%», ha commentato Francesco Beraldi, presidente di TechSana, in un convegno organizzato dall'Ambasciata italiana a Tunisi Non solo, di frequente i medici non gradiscono questi applicativi, perché li trovano troppo rigidi, «invece questo software aiuta il dottore nello stabilire quale sia la terapia più idonea, ma gli permette anche di discostarsi dalla linea guida stabilita», ha commentato Salvatore Palazzo, direttore dell'unità di oncologia dell'Ospedale Mariano Santo di Cosenza, il primo a sperimentare il Cpc. Ora la piattaforma, che ha un costo medio tra i 70 e i 90 mila euro il,primo anno (dal successivo la spesa si riduce del 30%), verrà probabilmente impiegata in altre due strutture, presso la Fondazione Michelangelo di Milano, che ha sede all'Istituto dei tumori, e nella Scuola di specializzazione di medicina dello sport dell'università degli Studi di Firenze. La Fondazione utilizzerà la piattaforma come strumenti di archiviazione dei dati provenienti da studi multicentrici «Fino a ora», ha affermato Pinuccia Valagussa, responsabile della gestione degli studi clinici, «queste informazioni venivano raccolte su schede cartacee». A Firenze, invece, l'obiettivo è quello di implementare un database per aiutare i medici nella gestione dei pazienti «Avere a disposizione diversi parametri relativi a un numero ampio di soggetti», ha spiegato Giorgio Galanti, direttore della Scuola di specializzazione, «ci permetterebbe di comprendere meglio quali cause determinano un infortunio e quali sono i soggetti. a rischio». E che il problema dell'errore umano sia molto sentito è testimoniato dall'esperienza laziale. «Nella nostra regione», ha affermato Edoardo Narduzzi, amministratore unico :di Laziomatica, «si sta mettendo a punto un sistema tecnologico in grado di rilevare i rischi e di farci arrivare a un vero e proprio rating di ospedali e Asl». _____________________________________________________________ La Repubblica 1 giu. ’06 SCOPERTO IL SEGRETO DELLA LEUCEMIA Il ruola dell’espartina",la molecola che porterebbe alla mutazione dei globuli bianchi. Ricerca ita Ecco come si scatena il cancro del sangue. "Ora la cura e più vicina ARNALDO D'AMICO ROMA- Un passo in più, decisivo, è stato appena compiuto nella comprensione delle cause - e quindi nelle cure - della leucemia mieloide acuta, la forma grave e più diffusa di cancro del sangue con 3mila nuovi casi l'anno in Italia. Dopo la scoperta del "colpevole", il gene che causa la malattiaquando alterato, ora è svelatala "dinamica del delitto", come il gene killer scompigli i delicati equilibri dentro il globulo bianco fino a farlo divenire canceroso. La scoperta ha meritato la copertina del numero di giugno della rivista scientifica Usa Blood. Autori Brunangelo Falini, 54 anni, ematologo dell'Università di Perugia, ideatore e coordinatore della ricerca con Niccolò Bolli, Maria Paola Martelli, Cristina Mecucci e Nicoletti. «Circa un anno fa avevamo scoperto che alla base delle leucemie mieloidivi è una lesione genetica», racconta Falini. «Tale mutazione consiste nel cambiamento di poche lettere dell'alfabeto del Dna in cui è scritto il gene della nucleofosmina. Avevamo osservato che questa proteina con funzioni vitali quando è "figlia" del gene mutato si dispone in maniera anomala dentro la cellula; abbiamo svelato perché avviene lo spostamento». In condizioni normali in tutte le cellule è attivo un meccanismo molecolare che trasporta proteine dal nucleo al citoplasma. A svolgere questo ruolo, è una molecola chiamata "esportina" che funziona da catapulta. L"`esportina" però sposta fuori dal nucleo solo quelle proteine, tra cui la nucleofosmina, che hanno una "sigla" molecolare, detta "segnale di espulsione", che fa scattare la catapulta. «Normalmente - spiega Falini -Ia catapulta della nucleofosmina non è molto efficiente e ciò spiega perché la proteina rimane quasi tutta nel nucleo. Nelle leucemie la parte di nucleofosmina che porta il segnale d'espulsione viene alterato dalla mutazione: ciò comporta un migliore riconoscimento da parte dell"`esportina", con un'esagerata e accelerata espulsione dal nucleo e accumulo nel citoplasma». Si attiva come una catapulta molecolare che spara colpi a ripetizione: una maggiore efficienza che ha gravi conseguenze sulla salute. Spiega ancora Falini: «Le alterazioni del sistema di trasporto della cellula potrebbero essere alla base della trasformazione cancerosa. Sappiamo che la funzione di molte proteine è regolata dalla posizione che esse occupano nei vari comparti della cellula. Poiché la nucleofosmina è coinvolta nel buon funzionamento di alcuni processi base (stabilizzazione del Dna, crescita e divisione cellulare), è probabile che il suo spostamento dal nucleo al citoplasma possa portare allo stravolgimento delle sue funzioni di supercontrollore, causando la leucemia». La scoperta, grazie al sostegno economico dell'Airc (Associazione Italiana ricerca cancro), fornisce un obbiettivo alla ricerca di farmaci "intelligenti", mirati a frenare l'iperattività dell’esportina". La nucleofosmina è un "guardiano" del Dna e la sua mancanza permette a degenerazione verso la forma cancerosa el nucleo delle cellule c'è una "catapulta" che riconosce, e aggancia la nucleofosmina e la lancia in continuazione nel citoplasma Nei malati di leucemia mieloide acuta la "catapulta" è più veloce e nel nucleo c'è meno nucleofosmina del normale La "catapulta" funziona molto di più nei malati ma non presenta anomalie _____________________________________________________________ Libero 1 Giu. ‘06 ARTERIOSCLEROSI KO COL VELENO DI UN SERPENTE BERKELEY Il mocassino acquatico è uno dei serpenti più velenosi degli Stati Uniti. Il rettile è lungo fino a un metro e mezzo e appartiene al gruppo dei crotali. Abile nuotatore, frequenta le paludi, i ruscelli e gli stagni, e si nutre di pesci, anfibi e uccelli. Ora degli scienziati hanno scoperto che da esso è possibile ricavare dei principi attivi in grado di combattere le malattie cardiovascolari oltre a consentire bucati perfetti. Lo studio è stato portato avanti da Davin Iimoto dell'università della California. Lo scienziato ha osservato che nel veleno del mocassino acquatico (Agkistrodon piscivorus conanti) sono contenute molte sostanze anticoagulanti, che possono essere impiegate per scopi diversi: da rendere fluido il sangue degli esseri umani (si pensa alla realizzazione di farmaci destinati ili prevalenza a soggetti ipertesi e a sciogliere le placche degli arteriosclerotici) a smacchiare, come nessun altro detersivo, indumenti impregnati di sangue. In particolare Iimoto ha individuato questa duplice capacità W un enzima, il quale si attiva in presenza di determinate sostanze che, presenti nell'organismo umano, interagiscono con esso. La sua azione viene esplicata soprattutto sulle molecole di fibrina, le stesse che con sentono alle ferite fresche di trasformarsi in "crosta" (che finisce poi completamente disgregata). In questo caso la finalità dell'ipotetico farmaco sarebbe quella di rendere il sangue il più possibile fluido, in modo da tenere lontano il rischio di emboli e occlusioni varie a livello circolatorio che potrebbero predisporre a gravi danni cerebrali e cardiaci. Il mocassino acquatico è uno dei serpenti più pericolosi che vivono negli Stati Uniti: Virginia, Florida, Messico, Arkansas. Il veleno dell'animale contiene molte proteine e polipeptidi con attività biologica. Di questi le più note sono le neurotossine delle quali finora ne sono state riconosciute circa 70. Le neurotossine agiscono bloccando la trasmissione degli impulsi nervosi al sistema muscolare. Un altro gruppo di tossine agisce sulle membrane cellulari. Gianluca Grossi @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@ ____________________________________________________________ Repubblica 1 giu. ’06 ALLERGIE E TUMORI STESSI MECCANISMI Angiogenesi e fattori di crescita dei vasi responsabili dell'infiammazione. Studio dell'ateneo di Napoli di Giuseppe Del Bello L'angiogenesi, il sistema che favorendo la formazione di nuovi vasi, si è dimostrato fondamentale per la proliferazione delle cellule neoplastiche e, quindi, per l'accrescimento dei tumori, sarebbe ampiamente coinvolto nello sviluppo e, soprattutto, nella cronicizzazione delle malattie allergiche. Lo rivelano gli ultimi studi compiuti dall'équipe di ricercatori universitari che fa capo al professor Gianni Marone, ordinario di Immunologia alla Federico II di Napoli e presidente del Collegium Internationale Allergologicum. La scoperta aggiungerebbe nuovi tasselli alla comprensione dei meccanismi cellulari alla base delle allergie. I fattori di crescita dell'endotelio vascolare (VEGF, Vascular Endothelial Growth Factor) e i loro recettori (VEGFR-1, VEGFR-2 e VEGFR-3) sono stati catalogati come importanti regolatori della proliferazione e differenziazione dei vasi sanguigni e dei vasi linfatici, prevalentemente nella crescita dei tumori e nella insorgenza delle metastasi. "La neovascolarizzazione è alla base del rimodellamento tissutale delle vie respiratorie, sia a livello nasale che polmonare", spiega oggi Marone, "ma non c'è da stupirsene visto che dalla nascita e fino all'ultimo respiro, la nostra vita si basa sull'angiogenesi". La teoria smantella in parte le acquisizioni scientifiche che fino a oggi avevano guidato gli specialisti nell'identificazione delle malattie allergiche e della loro ciclica riacutizzazione. "Le cellule immunitarie che si riteneva producessero solo istamina", continua il docente, "in realtà producono anche fattori angiogenici come il VEGF e il PLGF". Quest'ultimo fu clonato dal gruppo di ricercatori del Cnr guidato da Graziella Persico ma, mentre lei l'aveva individuato nella placenta, il team di Marone ha scoperto che entrambi originano dalle cellule immunitarie responsabili dell'infiammazione. "I risultati dei nostri studi hanno dimostrato che VEGF, PLGF e i loro recettori sono presenti in alcune specifiche cellule del sistema immunitario", precisa Marone, "in particolare, sarebbero i basofili del sangue periferico a esprimere elevate concentrazioni di VEGF-A e specifici recettori di tipo VEGFR-2, identificando anche nei mastociti umani presenti a livello polmonare e sinoviale alti valori di VEGF-A". In sintesi, quando si verifica la sensibilizzazione allergica, queste cellule stimolano la produzione dei fattori angiogenici che, a loro volta, aumentano la vascolarizzazione degli organi bersaglio, polmone, cute e mucose, rendendole costantemente infiammate. Della teoria si è discusso anche a New York durante il meeting dell'American Society Academy of Immmunology, per lo sviluppo di terapie innovative nel trattamento delle malattie allergiche attraverso anticorpi monoclonali che bloccano il Vegf o il Plgf o, anche, i loro recettori sulle cellule immunitarie. Ma il sistema potrebbe rappresentare anche una nuova linea di ricerca terapeutica per combattere tante altre patologie: polmonari (asma bronchiale, broncopneumopatie croniche ostruttive, carcinoma polmonare) e reumatiche (artrite reumatoide). "Con questi presupposti, così promettenti, il settore farmacologico potrebbe trarre enormi vantaggi dalla disponibilità di terapie biologiche e farmacologiche già in studio avanzato nell'ambito della modulazione della angiogenesi neoplastica". _____________________________________________________________ La Stampa 31 Mag ‘06 L’OMS: TROPPI I SEDENTARI E MOLTI SI AMMALANO. ECCO LE REGOLE-BAS Le terapie salvavita? Ballare e fare le scale C’E’ una terapia che non costa nulla, o quasi, ed è uno straordinario salvavita: il movimento o più precisamente l'esercizio fisico moderato. E’ fondamentale per curare molte patologie che ci affliggono e che spesso hanno le caratteristiche di vere e proprie epidemie: dal diabete all’ipertensione, dall’aterosclerosi all’obesità, dall’osteoporosi alle malattie cardiovascolari. Eppure quasi sempre trascuriamo questa semplice soluzione: l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha calcolato che l'esagerata sedentarietà - un fenomeno in continuo aumento - provoca quasi 2 milioni di morti ogni anno e questo errato stile di vita è alla base del 10-16% dei casi di tumore al colon e di diabete e del 22% dei casi di ischemia cardiaca. I dati rivelano che almeno il 60 % della popolazione mondiale non si sforza di fare nemmeno l’esercizio minimo raccomandato, vale a dire 30 minuti di attività moderata ogni giorno, e in questi individui il rischio di malattie cardiovascolari aumenta di 1,5 volte. I costi correlati all'inattività sono stimati a oltre il 9% di quanto spende ogni anno il fondo sanitario nazionale USA, una cifra che ormai supera i 75 miliardi di dollari. Per tutti questi motivi - spiega Stefano Balducci, endocrinologo dell’Università La Sapienza - si sta affermando il principio della «fitness metabolica», ossia l'esercizio fisico considerato non soltanto come efficace strumento di prevenzione, ma anche come valida terapia, associata alle cure mediche classiche, per il controllo dei fattori di rischio in chi soffre di malattie di origine metabolica. I fisiologi sostengono che, se un esercizio fisico opportunamente distanziato è di un'intensità tale da aumentare il lavoro del cuore, serve da allenamento per il sistema cardiovascolare. In altre parole, la natura dell'esercizio fisico relativamente intenso ha poca importanza, purchè sia interessata una porzione abbastanza estesa della massa muscolare totale. In queste condizioni si verifica una riduzione dell'ipertensione arteriosa, della sintesi del colesterolo LDL (quello cattivo) e un aumento di quello «buono» (HDL), oltre al contenimento dello stress e a un più semplice mantenimento del peso-forma. Infine, si mantiene bassa anche la glicemìa, perché si verifica un maggior consumo di glucosio da parte dei muscoli. Come se non bastasse, migliora la funzione respiratoria e si contribuisce alla prevenzione dell'osteoporosi. La FADE, la Fondazione Epatologia, ha poi dimostrato che, se nell'evoluzione dell'epatite C è indispensabile il trattamento con i farmaci, è anche importante insegnare ai pazienti uno stile di vita salubre. Se queste sono le premesse, l’attività fisica può essere svolta in diversi modi. Non è indispensabile frequentare piscine, fare corse estenuanti, sudare con attrezzi ginnici. Si può anche decidere di svolgere con maggiore frequenza e impegno alcune normali attività quotidiane: 30-45 minuti di giardinaggio, mezz'ora di ballo, 15 minuti di scale. E' dimostrato, per esempio, che 10 mila passi al giorno sono un mezzo efficace per stimolare l'organismo all'utilizzo degli zuccheri e dei grassi in sovrabbondanza. Da questo punto di vista, se il lavoro diventa sempre meno fisico e sempre più smaterializzaro, quello della casalinga (oltre a essere spesso un secondo lavoro) è sicuramente tra i più dispendiosi dal punto di vista energetico e quindi tra i più salutari: lavare i panni per un'ora produce un consumo di 238 calorie, pulire i vetri 224, spolverare o rifare i letti 196, pulire i pavimenti 170. Tra le attività lavorative sono più dispendiose soltanto quelle del carpentiere (240 calorie ogni ora), del taglialegna (480) e del minatore (493). Il consumo di circa 150 calorie al giorno equivale ai 30 minuti di attività fisica moderata che tutte le organizzazioni sanitarie suggeriscono di fare, come minimo, ogni giorno, per mantenersi in forma e allontanare il più possibile i guai che derivano dal sovrappeso, dal diabete e dalle malattie cardiovascolari. Renzo Pellati _____________________________________________________________ Le Scienze 1 Giu ‘06 NUOVI METODI PER IL DOSAGGIO DEI FARMACI Sono stati approvati dal Centro europeo per la convalida dei metodi alternativi Il Centro europeo per la convalida dei metodi alternativi alla sperimentazione animale (ECVAM) ha approvato sei nuovi metodi di prova alternativi per alcuni farmaci e sostanze chimiche. I nuovi test, effettuati su colture cellulari anziché su animali, permettono di determinare con maggior precisione il grado di tossicità dei farmaci antitumorali, rendendo i prodotti più sicuri e diminuendo i rischi di sovradosaggio. Uno dei test approvati - Colony Forming Unit- Granulocytes-Macrophages (CFU-GM) - rende più preciso il dosaggio di alcuni farmaci a elevata tossicità utilizzati nella chemioterapia per la cura del cancro; esso è stato messo a punto da un gruppo di ricerca internazionale coordinato da Augusto Pessina dell’Università Statale di Milano. Questo nuovo test, che utilizza colture di cellule da midollo osseo di topo e cellule da sangue di cordone ombelicale umano, offre un maggior grado di precisione, riducendo l’incertezza dovuta alla estrapolazione animale/uomo, e fornisce una base più razionale per determinare le dosi cliniche e valutare i limiti di esposizione umana. I trial clinici di fase I (che hanno l’obiettivo di ricercare la dose massima di farmaco tollerata nell’uomo) dovrebbero essere resi più precisi e meno pazienti dovrebbero correre il rischio di essere trattati con dosi di farmaco a elevato rischio. Il 30% dei farmaci fallisce durante i trial clinici su pazienti a causa degli effetti tossici, nonostante siano stati eseguiti preventivamente tutti i test tossicologici sugli animali. _____________________________________________________________ Le Scienze 1 Giu ‘06 PROIETTILI DI PLATINO CONTRO HIV E CANCRO La tecnica studiata su una proteina coinvolta nella replicazione del virus dell'AIDS Sul numero odierno di Chemistry & Biology, alcuni ricercatori della Virginia Commonwealth University riferiscono che una proteina con domini a dita di zinco, nota come NCp7, può essere inibita quando venga esposta a un complesso contenente platino. Essi hanno in particolare osservato che quando la proteina dell’HIV NCp7 interagisce con il platino, la porzione della molecola che contiene lo zinco viene espulsa dalla catena proteica. Ciò determina una perdita della originaria struttura terziaria (la forma) da parte della proteina, ossia di una caratteristica essenziale per svolgere i suoi compiti biologici. Questo processo di spiazzamento attivo richiede la progettazione di un farmaco a base di platino che abbia elevata affinità per la struttura proteica da colpire, in modo da portare a contatto il platino con la porzione a dita di zinco. Nello specifico caso discusso nell’articolo, la proteina in questione è una di quelle responsabili della proliferazione del virus dell’HIV. “Quando colpiamo i virus con un certo farmaco, col tempo essi possono diventare resistenti a quel trattamento. È quindi importante individuare nuovi processi biologici e nuove proteine che possano fungere da bersaglio”, ha detto Nicholas Farrell, uno dei coordinatori della ricerca. Secondo Farrell, inoltre, questa scoperta potrebbe in futuro essere applicata anche per colpire selettivamente proteine a dita di zinco coinvolte nella diffusione del cancro.