ERRORI E MITI SULL’UNIVERSITA’ - RISANAMENTO E UNIVERSITÀ - PREMIARE POCHE UNIVERSITÀ - RETTORI PER SEMPRE - PER SEGUIR VIRTUTE E CONOSCENZA - LA RICERCA SCIENTIFICA: UTILE, INUTILE O CHI LO SA? - UNIVERSITÀ, UN SISTEMA UNICO - PRIMO SCIOPERO CONTRO L’ESECUTIVO - RICERCA, 230 MILIONI IN PIÙ - IL GRANDE RITORNO DELLE MATRICOLE - IMPARARE AD IMPARARE, - LO SPRECO NON È SOLO COLPA DEGLI ATENEI VEDI SEDICENTI CENTRI D'ECCELLENZA - PERCHÉ INTERNET HA BISOGNO DI UNA CARTA DEI DIRITTI - SE RESTA A SECCO IL MIT ITALIANO - PITAGORA ADDIO, NIENTE PIÙ GENI SOLITARI - CORRENTE SENZA CAVI - ======================================================= OPPI: L’ASSESSORE ALLA SANITÀ SBAGLIA I CONTI - TELEMEDICINA, LE CORSIE SPECIALI - CACCIARI: PREGHIERA TERAPEUTICA? DA ATEO SONO AFFASCINATO - RFID CONTROLLA IL DIABETE - SANITÀ: IL PROFESSOR CAGETTI IN PENSIONE - I RISCHI DELLA SCELTA GENETICA - CON I KIT PORTATILI IL DNA COMINCIA A PARLARE - NEGLI OSPEDALI USA LA MUSICA IN CORSIA FA GUARIRE PIÙ IN FRETTA - L’ICT AL SERVIZIO DELLA SALUTE - CARTELLA CLINICA, QUALE FUTURO? - VERONESI: TRA DIECI ANNI ADDIO ALLA CHEMIO - STOP AI TRAPIANTI, IL VECCHIO CUORE BASTERÀ - CARTELLA CLINICA, QUALE FUTURO? - VERONESI: TRA DIECI ANNI ADDIO ALLA CHEMIO - STOP AI TRAPIANTI, IL VECCHIO CUORE BASTERÀ - VACCINO CONTRO I TUMORI AL COLON-RETTO - II SAN RAFFAELE INVENTA IL FARMACO PERSONALIZZATO - LONDRA: DIVENTA REATO TENERE IN VITA IL MALATO A OGNI COSTO - NEVROTICI O DISPONIBILI: È SCRITTO NEI GENI - GENETICA, SESSO E INVECCHIAMENTO - NEANDERTHAL E HOMO SAPIENS - UNA RISONANZA MAGNETICA CONTRO IL LUPUS - ======================================================= ____________________________________________________ Corriere della Sera 14 nov. ’06 ERRORI E MITI SULL’UNIVERSITA’ Non servono più soldi senza nuove regole di FRANCESCO GIAVAZZI Le università nella maggior parte dei Paesi europei, non solo in Italia, funzionano in base a quattro principi, tutti sbagliati: l’istruzione universitaria non è pagata dalle famiglie, ma dai contribuenti; il contratto di lavoro e le regole di assunzione dei docenti sono quelli del pubblico impiego; le leggi e le procedure che regolano le università sono spesso centralizzate e quasi sempre rigide; le retribuzioni dei professori non sono differenziate e il fine più o meno esplicitamente dichiarato della politica universitaria è l’equiparazione della qualità dell’insegnamento e della ricerca tra i diversi atenei. La discussione sul futuro delle università è piena di miti che negli anni hanno prodotto politiche per lo più sbagliate. E non è una sorpresa, perché i professori hanno un forte incentivo ad impedire che ciò che non funziona venga corretto e talvolta cercano di proteggere i propri privilegi usando la loro influenza anche comeopinion makers. Una tipica lamentela è la mancanza di risorse: «I nostri stipendi sono miseri e in più non ci sono soldi per la ricerca». Innanzitutto non è vero (si vedano i confronti di Roberto Perotti tra costi e produttività nelle università in Italia e Gran Bretagna, che Alberto Alesina ed io abbiamo spesso citato). Ma perfino se il problema fossero le risorse, buttare più denaro in queste università senza prima cambiare le regole arcaiche che le governano significherebbe aumentare sprechi e privilegi, perpetuare un sistema che impedisce la concorrenza fondata sul merito, non migliorare la ricerca. Prima dei finanziamenti conta la struttura degli incentivi: in Italia una volta entrati nell’università ci si resta per sempre, anche chi non fa più nulla. Lo stipendio cresce solo con l’anzianità, il merito è irrilevante: perché fare uno sforzo per eccellere? Le nomine sono governate da un complesso procedimento burocratico che implica innumerevoli «giudici» scelti in tutto il Paese. Questo processo dovrebbe «garantire » la scelta dei migliori, ma non è così. In realtà i «giudici» favoriscono i gruppi d’interesse interni e i loro protetti, invece di privilegiare la qualità della ricerca o dell’insegnamento. E’ vero che nell’università i giovani sono pagati poco, ma queste retribuzioni fanno parte di un patto implicito: in cambio della cattiva paga chiunque abbia un posto lo mantiene automaticamente. Non c’è bisogno di produrre ricerca di buon livello. E poiché le retribuzioni sono basse i presidi chiudono gli occhi di fronte a insegnanti pigri e assenteisti e a scarsa ricerca. È certamente vero che alcune ricerche sono costose, che i buoni cervelli non sono a buon mercato. Ma solo introducendo un po’ di concorrenza tra le università le risorse si sposteranno dalla mediocrità all’eccellenza. Non sorprende più nessuno che le università americane attirino i migliori studiosi d’Europa. Ciò che è sorprendente di fronte a questa fuga di cervelli è il potere della lobby dei professori universitari — spesso gli stessi che pontificano sul beneficio della concorrenza in altri settori — nel bloccare le riforme. «Luoghi comuni», diranno molti miei colleghi, «l’università è molto cambiata». Vorrei crederlo. Se davvero lo fosse il ministro Mussi avrebbe un modo semplice per dimostrarlo: assegni una quota significativa delle risorse in base alle valutazioni che il suo stesso ministero, tramite il Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca (Civr), ha appena svolto. Da questo anno accademico, non «in futuro» come invece ha annunciato. ____________________________________________________ Corriere della Sera 14 noV. ’06 RISANAMENTO E UNIVERSITÀ Caro direttore, la consapevolezza che occorresse un giro di boa per ricondurre il bilancio dello Stato lontano da scogli contro i quali rischiava di naufragare — e con lo Stato, sia chiaro, l'intero Paese — si sta finalmente facendo strada. E va salutato con rispetto il senso di responsabilità che stanno dimostrando le istituzioni: anzitutto regioni, comuni, province, ministeri. di TOMMASO PADOA-SCHIOPPA Fare ordine nella spesa pubblica, rimediare alla penuria rinunciando al superfluo è faticoso, per le persone come per le istituzioni. Tuttavia questo sforzo può costituire l'occasione, forse irripetibile, per migliorare la qualità dei servizi pubblici e rendere il Paese migliore e più competitivo. A questo compito, come è naturale, non può sottrarsi neppure il mondo delle Università e della ricerca, proprio perché è un mondo al quale è indispensabile destinare risorse crescenti nel tempo. Che vi sia ancora qualche spazio per risparmi su spese superflue, pur dopo le riduzioni di stanziamento degli ultimi anni — cioè per rendere più fruttuose le risorse di cui le Università attualmente dispongono — è opinione talmente diffusa da non richiedere chiose. Non capita di incontrare un solo docente universitario che non si dichiari convinto di ciò, con riferimento alle cose che conosce da vicino: che è poi l'unico modo per conoscere davvero la realtà. Soprattutto vi è la consapevolezza dell'esistenza di profonde asimmetrie: nella distribuzione del personale docente e non docente, nella qualità delle prestazioni didattiche e scientifiche, nella disseminazione delle sedi, nelle condizioni di accesso dei giovani alla ricerca. E vi sono carenze gravi nell'edilizia come nelle strutture residenziali per gli studenti. Il compito da svolgere per le Università, nell'esercizio della loro autonomia, è davvero impegnativo. Due premesse. L’Italia non spende significativamente meno degli altri Paesi sotto il profilo della ricerca pubblica; il preoccupante divario è nel settore della ricerca privata. La spesa per studente in Italia è sì inferiore a quella di altri Paesi, ma in Italia si tiene conto anche degli studenti fuori corso e all’estero no. Università e ricerca sono settori di tale importanza da esigere la massima chiarezza riguardo alle strategie e alle risorse che il governo intende perseguire e mobilitare. L'obbiettivo di potenziarle e non certo di sacrificarle è per il governo essenziale. Per questa ragione il governo, e il ministro Mussi in particolare, ha fatto e sta facendo in questi giorni ogni sforzo per rispondere in modo positivo, nei limiti di un bilancio impegnativo e contrassegnato dal rigore, a richieste che in gran parte sono fondate. Il Fondo ordinario per il sistema universitario, che nel 2006 era calato rispetto al 2005, tornerà a crescere nel 2007, sia pur di poco: da 6,9 miliardi a 7 miliardi di euro, con un aumento di 89 milioni. Quei 7 miliardi sono esentati dal meccanismo di accantonamento previsto per tutti gli altri ministeri (un meccanismo che, ove applicato anche agli atenei, avrebbe sottratto loro circa 1,2 miliardi nel triennio). Circa le risorse per il finanziamento dei vari progetti, si sono stanziati circa 2,1 miliardi nel triennio, di cui 1,1 sono costituiti dal Fondo per il finanziamento della ricerca. Soprattutto, viene rimosso il blocco delle assunzioni di giovani ricercatori sia nelle università sia negli Enti di ricerca e viene resa possibile la stabilizzazione dei ricercatori precari degli Enti. Uno specifico stanziamento è stato disposto per il reclutamento di giovani ricercatori: 7,5 milioni nel 2007, 30 milioni annui a decorrere dal 2008. Per il diritto allo studio è stato previsto un incremento di 10 milioni di euro a partire dal 2007. Rimane il punto rappresentato dalle risorse di funzionamento messe a disposizione del ministero, la cui dotazione è stata oggetto di una riduzione percentuale pari a circa il 12 per cento che potrà essere ripartita al fine di contribuire al contenimento della spesa pubblica. Il meccanismo di accantonamento-flessibilità opera per circa 200 milioni nell' area degli Enti di ricerca (Cnr, Enea e altri) ed è questa l'unica area di vera criticità. Riconosco che la questione è delicata e assicuro che si cercherà di intervenire con appositi correttivi. Troppo poco? Troppo poco, purtroppo. Ma abbastanza per sottolineare — nell'anno di una severissima e indifferibile correzione dei conti pubblici — che ricerca e formazione avanzata dei giovani sono priorità forti del governo. Ministro dell’Economia e delle Finanze ____________________________________________________ Corriere della Sera 15 nov. ’06 PREMIARE POCHE UNIVERSITÀ La Finanziaria priva l' Università di 250 milioni di euro (decreto taglia-spese del 20%). «Un errore madornale» secondo il ministro Mussi. E i rettori «così non ce la facciamo più». Ma risparmiare è necessario, ne sono convinti anche i professori, ha scritto il ministro Padoa-Schioppa al Corriere (12 novembre). E poi il fondo ordinario crescerà (nel 2007, ma appena un po' ) e c' è uno stanziamento per i giovani ricercatori. Nella sua replica a Padoa-Schioppa il ministro Mussi scrive che se si tiene conto dell' inflazione, la riduzione arriva al 25% («vuol dire fermare dei laboratori e uscire dai progetti internazionali»). I rettori hanno ragione. Però... È passato solo un mese da quando The Times ha pubblicato la classifica 2006 delle prime 200 università del mondo. Prima è Harvard, poi ce ne sono due dell' Inghilterra (Cambridge e Oxford), e nelle prime 20 altre sette degli Stati Uniti, la scuola di economia di Londra, l' Università di Pechino, la scuola normale superiore di Parigi, una di Singapore. Nelle prime 200 ci sono 7 università della Svizzera, 10 dell' Olanda, 10 della Germania. E ce ne sono della Spagna, della Svezia, della Danimarca e poi, dell' India, della Cina, della Russia, della Corea. L' Europa ha 88 grandi università soprattutto per merito dell' Inghilterra, della Francia, dell' Olanda che hanno professori eccellenti, studenti da tutte le parti del mondo e ricerca di primo piano. L' Italia in questa classifica è al numero 197 con La Sapienza di Roma che perde 72 posizioni rispetto all' anno scorso. «Una delle ragioni che spiega il successo delle università inglesi - dice il rapporto del Times nella parte dedicata alle università inglesi - è che in Inghilterra i fondi del governo vanno tutti a un piccolo numero di università». In Italia i soldi del governo vengono distribuiti a tutte le università più o meno allo stesso modo. Professori bravi ce ne sono. Ma come può un professore anche bravissimo lasciare il segno senza una buona organizzazione? Da noi si diventa professori per concorso, vinto il concorso, è fatta, che si sappia insegnare o che si faccia ricerca importa poco. L' età dei docenti aumenta in modo preoccupante, ma i giovani sono solo il 4 per cento per l' 1 per cento appena della spesa, e i migliori vanno all' estero. Così non si può andare avanti (i rettori lo ripetono da anni). L' Università va rifondata. E la Finanziaria - come scrive Padoa-Schioppa al Corriere - è l' occasione per farlo. I soldi che il governo ha messo a disposizione bastano. Basta darli alle università che hanno dimostrato di saper far bene. Che dovrebbero essere libere di usarli come vogliono, libere di assumere i professori bravi e di pagarli come vogliono, e di potersi liberare di chi non sa insegnare. Per rifondare l' Università basta un decreto fatto di tre articoli 1. si toglie valore legale alla laurea 2. i professori si assumono senza concorso e si dà più spazio ai giovani. 3. si danno più fondi a chi stabilisce rapporti di collaborazione (veri) con le università più forti dell' Europa e opera con le stesse regole. Tutto qua. Tagliare a tutti senza giudizio di merito sarebbe un delitto. In questi giorni l' Accademia Nazionale degli Stati Uniti ha pubblicato un rapporto sullo stato delle università americane. Comincia così: «Nonostante ce ne sia enorme bisogno, le nostre università stanno perdendo capacità e talenti (e non ci sono abbastanza prospettive di carriera per le donne che vogliono fare scienze, ingegneria e matematica)». Se negli Stati Uniti, dove ci sono 55 università nelle prime 200 ci si preoccupa di perdere competitività, cosa dovremmo dire noi che ne abbiamo una? (e quando mai ci siamo preoccupati di non avere in cattedra abbastanza donne?) Per rifondare l' Università serve che il governo cambi strategia proprio lungo la linea che suggerisce Padoa-Schioppa («vi è la consapevolezza di profonde asimmetrie nella qualità delle prestazioni didattiche e scientifiche», ministro, perché non provare a correggerle, allora?). Le università davvero buone dovrebbero avere molto di più, altre dovranno accontentarsi di molto meno (gli strumenti per farlo, lo ha ricordato Mussi, ci sono). Certo, quelle università che vengono dal nulla, quelle fatte per compiacere qualche politico, quelle fatte di professori nati e cresciuti sempre lì, quelle dovranno chiudere. Per un' operazione così però l' impegno del governo non basta. Bisogna coinvolgere la gente, e gli studenti, e i professori. Ma i rettori la appoggerebbero una legge così? Remuzzi Giuseppe _____________________________________________________ Le Scienze nov. ’06 RETTORI PER SEMPRE Alcuni atenei stanno cambiando il loro statuto per consentire ai rettori in carica un terzo mandato: un'interpretazione dell'autonomia universitaria che lascia perplessi Negli ultimi tempi si sta assistendo a un moltiplicarsi delle iniziative di modifica degli 8 "s's statuti delle Università. L'oggetto di tanta attenzione non sta, come sarebbe da aspettarsi, nella ricerca dì soluzioni organizzative che migliorino il funzionamento e i risultati degli atenei, nella ricerca e nella didattica. Al contrario, i nostri senati accademici sembrano preoccupati solo di prolungare la durata del mandato delle cariche, e in particolare dei rispettivi rettori; in particolare ancora, di assicurare ai rettori attualmente in carica la possibilità di candidarci per un ulteriore mandato rispetto a quanto previsto dallo statuto. Per raggiungere l'obiettivo la fantasia che viene dispiegata è straordinaria: si va dai prolungamento della durata delle cariche per rutti gli organi all'introduzione di norme transitorie che esentano dal limite del secondo mandato consecutivo per il rettore (è questa la situazione di partenza già fissata a suo tempo dalla maggior parte degli statuti) colui che è in carica al momento dell'approvazione della modifica statutaria. Anche l'Università di Perugia sembra voler seguire questa strada: dopo aver allungato, nel 2004, il mandato a quattro anni si propone ora, con norma transitoria, di non conteggiare il primo perché è stato di durata diversa. Fino alla raffinatezza di modifiche assolutamente ad personam, come nel caso della possibilità dell'attuale rettore di essere rieletto, ma solo per due anni, mentre gli altri candidati, se eletti, resterebbero in carica per quattro (Trento) o dell'eleggibilità per un terzo mandato del rettore in carica alla data di approvazione della modifica, ma solo se costui viene eletto nella prima votazione, perché a cominciare dalla seconda votazione la candidatura decade (Brescia). Questa prassi non ha trovato alcun serio ostacolo nel ministro Moratti, che non ha esercitato il suo compito di controllo, né ha impugnato davanti al giudice amministrativo norme così clamorosamente illegittime, se non altro per l'evidente conflitto di interessi causato dalla coincidenza personale tra coloro che proponevano o approvavano le nuove norme e i loro destinatali Si tratta ora di impedire che la tendenza segnalata prenda piede. Anzi, si tratta di invertire decisamente la rotta. I nostri atenei devono non incoraggiare, ma combattere la concentrazione delle cariche nelle stesse persone per tempi troppo prolungati. Lo stesso fondamento dell'autogoverno delle Università sta nel riconoscimento alle comunità scientifiche della capacità di assicurare un continuo ricambio tra coloro che svolgono il loro compito fondamentale, la ricerca e l'insegnamento, e coloro che, per periodi limitati, sottraggono tempo prezioso alle attività scientifiche e didattiche per dedicarsi alla cura di interessi generali, assumendo cariche organizzative, di indirizzo (gli organi di ateneo e di facoltà) e di gestione (i direttori di dipartimento). In questo modo, non solo i professori restano sempre attivi sul piano scientifico, ma si evitano pericolose concentrazioni di potere e si formano quadri sempre nuovi in grado di assumere, a rotazione, gli incarichi organizzativi e gestionali. A favore del prolungamento della durata delle cariche viene avanzato l'elemento dell'esperienza. Perché privarsi di rettori, presidi, direttori che abbiano dato buona prova, garantendo all'ateneo, alla Facoltà e al dipartimento risultati positivi? L'argomento non convince: se anche quel titolare può vantare qualche buon risultato gestionale, egli ha sicuramente Fallito nell'assicurare una sua sostituzione non traumatica da parte di colleghi messi in grado, attraverso la partecipazione alle scelte e la conoscenza dei problemi, di assumere la carica senza creare pericolose soluzioni dì continuità. A ben vedere la china intrapresa rivela una forte involuzione del funzionamento delle Università. Da un lato perché si alimenta il mito di retto- ri «demiurghi» assolutamente insostituibili, dall'altro perché le modifiche statutarie sono avanzate a favore di rettori in carica, in grado di condizionare pesantemente i) voto degli organi con potere statutario, a cominciare dai presidi. E qui si svela la vera sostanza della tendenza in atto, che si pone come conseguenza diretta della deriva gestionale (e spesso personale) delle competenze affidate dallo statuto al rettore. Questi non è più la massima rappresentanza della comunità scientifica, l'organo che assicura la politica generale dell'ateneo, guidando i suoi massimi organi collegiali. Egli è in realtà il dispensatore di minuti Favori, spesso elargiti attraverso l'interpretazione compiacente delle norme (o la loro continua modifica); è un padre-padrone che dispone di un'amministrazione centrale pienamente al suo servizio (grazie anche al rapporto fiduciario che stabilisce con il direttore amministrativo); è un detentore di un forte potere reale, che è pericoloso contrastare, a pena del sacrificio di interessi di rilievo (di facoltà, di area scientifica, di scuola). Più si allunga la durata in carica del rettore o la possibilità di cumulare mandati, più si consolidano maggioranze e interessi che ne hanno assicurato l'elezione, più si allontana la possibilità di un ricambio fisiologico o di un equilibrio nella cura degli interessi interni all'ateneo. Per fermare questa deriva, il nuovo ministro dell'Università e della ricerca scientifica Mussi ha già in mano lo strumento del rinvio con osservazioni di modifiche che vadano nel senso di un non motivato prolungamento della durata delle cariche. Già domani il Ministro potrebbe dichiarare che intende usare il suo potere di controllo per arginare la tendenza, ottenendo l'effetto di un arresto del fenomeno in corso. Ma forse occorre trarre una lezione dalla vicenda, per fissare l'opposto principio della non reite-rabìlità di tutte le cariche universitarie, a partire da quella di rettore. Un solo mandato, magari più lungo (cinque o sei anni), indurrebbe le comunità acca-demiche a scegliere con maggiore attenzione i pro- pri rappresentanti, e dovrebbe garantire che l'incarico sia svolto con il massimo dell'imparzialità, senza dover curare gruppi definiti di interessi in vista della propria rielezione. Per Far questo, però, è Forse il caso che lo Stato si riappropri, in piena coerenza con la norma costituzionale sull'autonomia universitaria, del potere di fissare per legge la durata in carica dei rettori, sottraendo questa materia all'autonomia statutaria delle Università, dopo la pessima prova che esse hanno dato nel suo uso. Uno scandalo? Una pericolosa [imitazione dell'autonomia? Non direi, se si considera l'autonomia statutaria degli enti locali, che - circondata di garanzie costituzionali ancora più forti di quella delle università (l'autonomia locale è politica, quella universitaria solo funzionale) - non tocca l'intera materia degli «organi di governo» che la Costituzione ha voluto fissati, quanto ad articolazione, composizione, durata in carica, competenze e sistemi di elezione, in modo unifonne dalla legge dello Stato e non dagli statuti locali. __________________________________________________________________ Il Sole24Ore 16 Nov. ‘06 PER SEGUIR VIRTUTE E CONOSCENZA Si può vivere la passione per la ricerca e farne un mestiere? I fatti dicono che... DI GUIDO ROMEO spirare a vivere di sapere non è un A "folle volo" come quello di Ulisse, eroe della conoscenza (o, dantescamente, "canoscenza"). In Italia, a dispetto dei limitati finanziamenti alla ricerca e degli stipendi dei ricercatori sempre sotto la media europea, i ragazzi che aspirano a intraprendere la camera scientifica possono trovare luoghi dove si costruisce sapere e si vive la propria passione. A patto di scegliere formazioni dei eccellenza e tracciare rotte originali che intersecano i laboratori pubblici e privati, grandi aziende e start-up, in Italia e all'estero. Un percorso complesso, che pochi al momento dell'iscrizione a una facoltà sembrano ancora riuscire a immaginare o che forse scoraggia molti. Appena il iz percento dei ragazzi italiani tra i 16 e i 20 anni è sicuro di iscriversi a una facoltà scientifica, un 20 percento ci sta pensando e un 33 percento lo esclude, mentre il restante 35 percento non pensa affatto all'Università, secondo un'indagine dell'Osservatorio scienza tecnologia e società di Trento. A scoraggiare è la percezione delle materie scientifiche come "difficili" o "noiose", ma chi guarda a studi scientifici lo fa spesso per una passione nata alle superiori. "Tra i ragazzi che, nei cinque anni di superiori, hanno avuto accesso a un laboratorio di chimica, di scienze o di informatica, il 23,6 percento è sicuro di iscriversi a un corso di laurea scientifico" osserva Massimiano Bucchi, coordinatore della rilevazione. Più che con sconti al momento dell'iscrizione in facoltà la motivazione agli studi scientifici si nutre perciò di strutture permanenti e programmi articolati negli anni della scuola dell'obbligo, ma di cui meno del 4o% degli studenti italiani delle superiori sembra poter beneficiare. Non c'è quindi da stupirsi se, nella generale riduzione di iscrizioni all'università che nel 2005/2006 secondo l’Istat hanno segnato un -4,5 percento rispetto al 2004/05 e ha investito anche i corsi triennali esplosi negli anni precedenti, il gruppo scientifico sia il più colpito, con picchiate fino a -12% per l'ambito chimicofarmaceutico. A pesare sui ragazzi è certamente anche la percezione della ricerca e dei ricercatori in Italia, non molto qualificante secondo un'altra rilevazione dell'osservatorio trentino. Per il 53,3 percento degli italiani la ricerca scientifica non ha abbastanza fondi nel nostro Paese, il35 percento pensa che gli stipendi siano troppo bassi e il 19,4 percento ritiene che faccia carriera solo chi è raccomandato. "Bisogna trovare nuovi modelli di formazione - spiega Patrizio Bianchi, rettore dell'Università di Ferrara ed economista industriale talvolta capovolgendo quelli tradizionali e scommettendo sulla selezione ela qualità". Partendo dalla constatazione che oggi la ricerca fondamentale è in presa diretta con le sue ricadute tecnologiche e non ci sono più fasi di "ricerca applicata", l'ateneo estense è stato riorganizzato da Bianchi guardando attentamente al mondo esterno e ai processi di trasferimento tecnologico. La governance dell'ateneo non è più in mano al senato di 22 accademici, ma a nove consiglieri. Il corso di fisica sperimentale è diventato "fisica delle tecnologie innovative" con un programma messo a punto in collaborazione con le imprese e la Fondazione Aldini Valeriani. Un cambiamento apprezzato dagli studenti, le cui iscrizioni al corso sono passate da sette a 75 negli ultimi anni. Anche i programmi di inserimento nel mondo del lavoro sono stati rovesciati. "Il recruiting non esiste più - spiega Bianchi - perché sono gli studenti che scelgono le aziende dove andare in base alla propria formazione". Intorno al campus ferrarese sorgono oggi 16 spin-off, otto di ambito bimedico e altrettante attive nelle scienze dei materiali e l'elettronica nelle quali l'età media è 35 anni, 70 iniziative di trasferimento tecnologico e Stamina un gruppo di laboratori che ospita 60 ricercatori specializzati nelle cellule staminali che sta già sperimentando applicazioni cliniche per i malati cardiaci. A dispetto della spesa per studente universitario che negli atenei italiani è appena 7.241 euro fanno contro gli oltre nove mila in Francia e i quasi novemila in Germania, oggi cominciare a studiare da ricercatore in Italia potrebbe rivelarsi un ottimo investimento. "Tra cinque o sei anni avverrà un vero e proprio ricambio generazionale nel mondo della ricerca italiana per il pensionamento della fascia più anziana dei ricercatori - spiega Davide Bassi, rettore dell'Università di Trento ciò promette di aprire ottime opportunità a chi esce da una formazione di alto livello e qualificata. Ma bisogna sapersi mettere alla prova seguendo strade molto innovative". Per stimolare le iniziative dei più giovani Bassi ha istituito nel suo ateneo un premio 5o K sul modello del Mit statunitense che ogni anno assegna 5omila euro alle migliori idee dei ricercatori con meno di 35 anni. In collaborazione con Microsoft l'ateneo trentino ha anche-avviato un centro di ricerche dove si mira a raddoppiare il numero dei docenti stranieri che sono già il 5 percento del totale. Partono quest'anno un master in nano e micro sistemi elettronici e nel campo della biologia computazionale che si sta rivelando uno degli strumenti di base per la biomedicina. Un altro segnale positivo, secondo Bassi, è il debutto a gennaio dell'attività dello European research council che ha una dote di sette miliardi di euro per il finanziamento della ricerca e delle start-up. Percorsi estremamente qualificanti sono stati messi a punto anche presso la Sissa di Trieste, considerata in tutto il mondo una scuola di eccellenza nelle scienze dure, nelle tecnologie dell'informazione e nelle neuroscienze da dove molti "cervelli" negli ultimi anni sono stati richiamati oltre atlantico. A Trieste però il rettore Stefano Fantoni considerala mobilità internazionale di neolaureati e neodottorati un percorso indispensabile della loro formazione ma sottolinea che l'Italia deve darsi gli strumenti per attirare questi e altri "cervelli" dall'estero con stipendi migliori e risorse per la ricerca. A Pisa l'eccellenza è diventata parte integrante del "brand" della Scuola Normale all'avanguardia nelle nanotecnologie e che investe molti in un ristretto numero di studenti con criteri rigorosamente meritocratici. La meritocrazia dovrebbe investire presto anche tutto il sistema universitario con l'entrata in funzione dell'Anvur, l'agenzia nazionale per la valutazione della ricerca varata con un decreto collegato alla Finanziaria (Dl 262/2006) e molto attesa. "L'ingiustizia peggiore nei confronti di chi fa ricerca è il taglio indiscriminato - sottolinea Bassi - chi fa bene va premiato, chi rende poco no, come a scuola e come già avviene nel resto del mondo". guido. romeo@gmail.com www.observa.it ____________________________________________________ La Stampa 12 nov. ’06 LA RICERCA SCIENTIFICA: UTILE, INUTILE O CHI LO SA? I si lamenta giustamente che la ricerca scientifica in Italia è poco sostenuta (e quasi solo da denaro pubblico) ed anche poco valorizzata: non solo dalle imprese, ma all'interno stesso dell'Università, dove troppo spesso l'attività di ricerca è considerata una attività secondaria, da fare nel tempo libero e senza risorse organizzative, prima ancora che finanziarie. Non basta tuttavia chiedere più risorse se non si mette in piedi un meccanismo di valutazione decente e affidabile, da cui far dipendere sia le scelte di finanziamento, che l'allocazione di risorse (finanziarie, ma anche di tempo e organizzative), che la definizione dello standing ufficiale dei gruppi di ricerca, dipartimenti, università. Invece il mondo universitario ha dapprima vissuto con sospetto e scetticismo il primo serio (pur con molti difetti) esercizio di valutazione mai fatto su scala nazionale nella nostra università (il Civr), e poi ha accettato senza la più piccola reazione negativa, anzi forse con un certo sollievo la cancellazione di quell'esperimento. Le valutazioni del Civr non hanno infatti avuto alcuna conseguenza pratica. Anzi, i due Ministri del vecchio e nuovo governo si sono trovati mirabilmente concordi sia a non darvi seguito che a cancellare il Civr per procedere alla creazione di una nuova agenzia di valutazione, senza che siano stati discussi pubblicamente i motivi di quella che di fatto è una vera e propria bocciatura dell'esercizio Civr. Ancor meno ci sono state reazioni da parte del mondo della ricerca universitaria alla innovazione nelle procedure di valutazione dei grandi progetti di ricerca nazionali (i cosiddetti Prin) finanziati dal Miur. Fino allo scorso anno, un comitato di garanti (i cui criteri di nomina per altro sono sempre rimasti misteriosi) sottoponeva ciascun progetto alla valutazione di due-tre studiosi con competenze specifiche in quel campo. Gli studiosi erano scelti tra tutti i docenti e ricercatori di ruolo della specifica area disciplinare ed anche tra studiosi stranieri. Certo era possibile che non tutti i valutatori fossero adeguati. E qualcuno anche si sarà fatto influenzare da valutazioni «di scuola» o semplicemente idiosicrasiche. Ma la soluzione «innovativa» introdotta dal Ministro Moratti, e confermata senza una piega dal Ministro Mussi, è quanto di peggio si possa immaginare e dà un colpo decisivo alla credibilità della cosiddetta valutazione. C'è sempre un comitato di garanti, con un rappresentante per ciascuna macro-area disciplinare. Ciascun garante coordina una «sezione di studio» composta da cinque fino a undici persone, a seconda del numero dei progetti pervenuti. Non è chiaro come queste persone siano state scelte, visto che non c'è stato nessun bando, né richiesta di candidatura: solo una telefonata dal Ministero di un funzionario che richiedeva la disponibilità. Questo sparuto gruppo di persone giudica tutti i progetti della macro-area, indipendentemente dalle proprie specifiche competenze. Il numero di progetti per area va da 71 per l'area delle scienze politiche e sociali a 596 per l'area delle scienze mediche (che saranno valutati da ben undici esperti tuttofare). Il tempo a disposizione è poco più di un mese. E' chiaro come nessuno dei valutatori coinvolti avrà il tempo di esaminare a fondo un numero così grande di progetti. E tanto meno avrà le competenze di farlo per tutti. Se va bene, nel migliore dei casi ci sarà una sola persona in tutta l'«area di studio» in grado di valutare pertinenza, originalità, validità scientifica, congruità dei costi, di un particolare progetto. Viceversa vi saranno molti scambi di favori tra valutatori, che avranno un potere enorme sull'intero gruppo dei colleghi esterni all'area di studio. Il tutto nel silenzio e forse anche nell'ignoranza generale. Non so quanti siano coloro che si sono rifiutati di partecipare come valutatori a questo grottesco e intellettualmente umiliante «giudizio di dio», anche se ne conosco qualcuno. Ma apparentemente non vi è stata difficoltà a trovare chi li sostituisse. Così, tra silenzi e complicità, lentamente, affonda il sistema della ricerca italiana. _______________________________________________________ Avvenire 19 nov. ’06 UNIVERSITÀ, UN SISTEMA UNICO A MARGINE DELLA PROPOSTA DE CECCO SULLA DISTINZIONE FRA ATENEI PUBBLICI E PRIVATI GIUSEPPE DALIA TORRE* In un articolo intitolato "Una ' proposta per l'Università", pubblicato da "La Repubblica" mercoledì 15 novembre, Marcello De Cecco prende lo spunto dalla discussione sulla legge finanziaria per suggerire ai ministri dell'Università e dell Economia alcuni interventi in materia universitaria, al fine di migliorare il sistema italiano di formazione superiore. Tra gli altri suggerimenti, vi è anche quello di abolire il contributo -peraltro modesto, rispetto alle risorse poste in bilancio dai singoli Atenei interessati - che lo Stato dà annualmente alle "Università private" e, più in generale, di risolvere il rapporto che associa queste Università al sistema universitario pubblico, per quanto attiene alla selezione ed al reclutamento dei docenti, alla loro nomina ed alle loro retribuzioni, al loro trattamento di quiescenza e quant'altro. «Così finalmente - afferma De Cecco - le università private si troveranno libere di contrattare stipendi e di assegnare docenze al proprio personale, di praticare cioè quel sistema di libero mercato che tanti tra i loro docenti predicano». Nulla da dire, in linea generale, sull'opinione per cui una netta distinzione tra sistema universitario pubblico e sistema universitario privato sarebbe più favoritiva sia dell'uno che dell'altro. E un'opinione come le altre, di cui soltanto la concreta esperienza potrebbe dimostrare la fondatezza, soprattutto in rapporto all'interesse generale, che giustamente De Cecco individua con l'assicurare «ai nostri giovani concittadini l'educazione e a tutta la popolazione il livello di ricerca che meritano gli abitanti di un paese civile e che essi pagano con le loro imposte». C'è tuttavia un piccolo particolare, che ha però il suo fondamento nientemeno che nella Costituzione. Perché questa nell'art. 33 distingue, per quanto riguarda l'istruzione inferiore, tra scuole statali (secondo comma), scuole private (terzo comma), scuole paritarie (quarto comma), mentre nell'ultimo comma dice soltanto che le istituzioni di alta cultura, le università e le accademie hanno diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato. Dunque la Costituzione mentre per le scuole contempla due sistemi, del tutto separati e indipendenti l'uno dall'altro, quello dell'istruzione pubblica (scuole statali e paritarie) e quello dell'istruzione privata (scuole private), viceversa per l'istruzione superiore non distingue tra pubblico e privato ma prevede un unico sistema universitario nazionale, evidentemente pubblico, caratterizzato dall'autonomia dei singoli Atenei. Di qui nasce l'integrazione, nel sistema universitario nazionale, tra Università istituite dallo Stato e da Università istituite da privati; di qui di conseguenza che è più corretto parlare di Università statali e Università non statali, entrambe componenti dello stesso sistema ed entrambe chiamate ad assicurare un servizio pubblico. Da questo punto di vista l'attuale formulazione dell'art. 53 della Finanziaria, che esclude solo le Università statali dagli accantonamenti indisponibili di quote del finanziamento ordinario, costituisce un precedente grave, nella misura in cui viene ad intaccare il sistema unitario discriminando al suo interno tra Atenei, e almeno di riflesso un provvedimento di dubbia costituzionalità. Senza contare che parte consistente del finanziamento - ripetesi assai limitato - previsto per le Università non statali dalla legge n. 243 del 1991, è destinato a coprire oneri propriamente statali, come ad esempio, l'esonero tasse e contributi degli studenti meritevoli che non rientrano in posizione utile nelle graduatorie regionali per le borse di studio (art. 34 Cost. diritto allo studio). Per queste ragioni, come è ben noto alle autorità ministeriali e sostanzialmente da esse condiviso, è necessaria la modifica dell'art. 53 della Finanziaria, nel senso di ricomprendere anche le Università non statali nelle eccezioni ivi previste. *Rettore dell'Università Lumsa Vice Presidente della Conferenza dei Rettori __________________________________________________________________ Il Sole24Ore 18 Nov. ‘06 PRIMO SCIOPERO CONTRO L’ESECUTIVO Ricerca, in piazza con i Cobas anche i confederali - Epifani: non vedo atteggiamenti amici Primo sciopero contro l'Esecutivo ROMA Decine di migliaia di ricercatori, universitari e studenti sono scesi in piazza ieri, chiamati a raccolta in differenti cortei indetti dai sindacati confederali, dai Cobas e dall'associazionismo studentesco, con un unico obiettivo: protestare contro i tagli della Finanziaria. «È stato il primo sciopero contro questo Governo - ha detto il leader della Cgil, Guglielmo Epifani intervenendo a Roma alla manifestazione dei lavoratori dell'università e della ricerca -. Saranno contenti coloro che dicevano che con il Governo di centro-sinistra abbiamo un atteggiamento da Governo amico: non è così. Non è stata una decisione facile, ma è stata una decisione giusta. Spero che il Governo comprenda e cambi su questo la politica economica e anche la Finanziaria». Più risorse da investire in ricerca e formazione, stabilizzare i circa 3omila precari del comparto e reperire le risorse per il rinnovo del contratto della scuola: sono queste le parole d'ordine del corteo organizzato da Cgil, Cisl e Uil e dalle rispettive organizzazioni di categoria. Nel farsi portavoce del malcontento della categoria Epifani ha lanciato un messaggio al Governo: «bisognava salvaguardare gli investimenti su università e ricerca e fare sacrifici in altri settori». Nella replica, il ministro dell'Università e della Ricerca, Fabio Mussi, ha difeso l'operato del Governo: «Alla fine abbiamo trovato 230 milioni, molti di più di quanti preventivati nella manovra, è stato fatto tutto il possibile, forse non tutto quanto era necessario, ma c'è stata attenzione da parte dell'esecutivo». Ma la difesa del ministro non ha convince i leader sindacali. Il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, considera lo sciopero «un fatto sacro santo», perché le risorse stanziate «sono insufficienti, anche pervia dei tagli del decreto Bersani». E aggiunge: «Dopo l'appello di illustri personaggi come la Montalcini, anche con il nuovo stanziamento del Governo, siamo ben lontani dalle reali necessità degli atenei». Sulla stessa lunghezza d'onda il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, che chiede: «Come si può parlare di sviluppo se la ricerca e l'Università continuano ad avere il posto destinato alle cenerentole?». Secondo la Uilpa-Url con la manovra gli enti pubblici di ricerca subiscono un taglio di 3oomilioni, che si aggiunge per una buona parte a quello già derivante dal decreto Bersani di luglio (stimato in circa il iz% dei bilanci), mentre i meccanismi per stabilizzare i posti di lavoro nel 2007 riguarderebbero solo So lavoratori. La giornata di ieri è stata caratterizzata anche dalla mobilitazione dei sindacati di base che hanno indetto uno sciopero generale, affiancato da numerose manifestazioni. In 35omila, secondo le stime Rdb-Cub, hanno manifestato in 30 piazze d'Italia «per una vera redistribuzione della ricchezza», contro «lo "scippo" del Tfr», per «il rilancio della previdenza pubblica e l'assunzione di tutti i precari». A Roma, Milano, Torino e Napoli le mobilitazioni più significative, con la presenza di precari di call center, dipendenti delle ditte di pulizie, della sanità, studenti medi e universitari. Inoltre per un'altra iniziativa, la giornata mondiale di mobilitazione studentesca, circa 250mila studenti hanno sfilato in tutta Italia. «A fronte di una Finanziaria che non ci soddisfa - ha spiegato l'Unione degli studenti - chiediamo una legge quadro nazionale sul diritto allo studio, più fondi per la scuola pubblica, per l'edilizia scolastica e l'autonomia scolastica». G. Pog. __________________________________________________________________ Il Sole24Ore 18 Nov. ‘06 RICERCA, 230 MILIONI IN PIÙ Mussi: «Primo anno di sacrifici, nei prossimi risorse adeguate» Marzio Bartoloni ROMA Una boccata d'ossigeno di 230 milioni per far rifiatare il pianeta della ricerca pubblica e dell'università scese ieri in piazza per manifestare contro i tagli pesanti della Finanziaria. È questa la dote che il ministro della Ricerca e dell'Università - pressato anche dagli scienziati, a cominciare dal premio Nobel Rita Levi Montalcini è riuscito a rastrellare in extremis grazie al maxiemendamento del Governo. Un "bottino" magro, che copre solo in parte le sforbiciate della manovra, ma che dovrebbe tenere a galla il settore in attesa di giorni migliori: «Passato questo primo anno di sacrifici - ha promesso, ieri, Mussi -, la legislatura sarà caratterizzata dall'impiego di adeguate risorse perché università e ricerca siano uno dei tratti dell'Italia che verrà». La speranza è di conquistare qualche risorsa in più al Senato. La battaglia finale è solo rinviata. Va meglio sul fronte della ricerca privata dove le aziende che investono in «ricerca industriale e sviluppo pre-competitivo» conquistano un credito d'imposta del 10% dei costi. Col miraggio di uno sconto maggiore (il 12%) nel caso in cui l'impresa decida di allearsi con università ed enti pubblici di ricerca. Le aziende avranno anche la possibilità di accedere alle risorse del nuovo Fondo 'del ministero dell'Università e della Ricerca (il «First»), che avrà una dote di quasi un miliardo per i prossimi tre anni (30o per il 2007 e il 2oo8 e 36o per il 2009). Dal maxi-emendamento arriva anzitutto una buona notizia per il pianeta degli enti di ricerca (dal Cnr all'Asi fino alfInfn) l'esclusione dai tagli (circa 30 milioni) sanciti dal decreto Bersani della scorsa estate sulle spese di gestione (bollette, affitti, canoni). Le note dolenti riguardano, però, la mannaia calata sui budget (da cui sono esclusi gli atenei): la Finanziaria prevede, infatti, un taglio netto del 12% sui finanziamenti statali che solo per il 2007 vale 207 milioni. E che il maxi-emendamento dovrebbe recuperare solo in parte (per circa ioo milioni). Non va molto meglio sul fronte degli atenei colpiti anche loro, la scorsa estate, dalla "dieta" del decreto Bersani (circa 140 milioni). Il maxi- emendamento, anche in questo caso, prevede un recupero solo parziale di risorse: vale circa 70 milioni. Qualche segnale positivo, infine, per le assunzioni: nasce infatti all'Economia un fondo con una dotazione di 20 milioni per la «stabilizzazione» di ricercatori, tecnologie tecnici. Mentre altri 7,5 milioni serviranno a fmanziare un piano straordinario di assunzioni di nuovi "cervelli" negli enti di ricerca. __________________________________________________________________ L’Unione Sarda 12 Nov. ‘06 IL GRANDE RITORNO DELLE MATRICOLE Prese d'assalto soprattutto Ingegneria, Scienze matematiche e Scienze politiche Crescono le immatricolazioni, diminuiscono gli studenti e i fuori corso. E il quadro che emerge dai dati sulle iscrizioni per l'anno accademico 2006-2007 nell'ateneo di Cagliari. Se infatti dopo tre anni il totale degli studenti scende sotto quota 37 mila (gli iscritti sono 36.627), quest'anno sono aumentate le immatricolazioni: 5.461, per un più 382 rispetto al 2005- 2006. E le matricole hanno preso d'assalto soprattutto Ingegneria (896 nuovi studenti), Scienze matematiche, fisiche e naturali (729) e Scienze Politiche (727). Ma tutte le facoltà hanno avuto un incremento di immatricolazioni: gli unici corsi in controtendenza sono Farmacia (91 matricole in meno) e Lettere (-72). Un ateneo che sembra godere quindi di buona salute, nonostante i problemi economici che la Finanziaria potrebbe far aumentare. Tra gli indicatori positivi anche quello dei fuori corso. Un numero che prosegue la sua corsa al ribasso: nel 20042005 erano 17.686, l'anno scorso sono scesi a 17.302 imo ad arrivare sotto la soglia dei 17 mila (16.543, il 46 per cento della popolazione studentesca) nei dati universitari aggiornati al 6 novembre. Anche se non si può ancora parlare di successo, perché per ogni studente in corso ce n'è uno che non è in regola con gli esami. Tra le facoltà è Medicina quella col più alto numero di ragazzi in regola: 1.703 su 2.476, il 68 per cento. Sopra il sessanta per cento anche Scienze politiche (65 per cento) e Farmacia (64). Rimandati gli studenti di Scienze della formazione e di Lingue (con il 49 per cento di fuori corso), Lettere e Ingegneria (con il 50 per cento di studenti non in regola con gli esami). La maglia nera la indossa Giurisprudenza: il 56 per cento degli universitari è in ritardo e quindi costretto a iscriversi fuori corso. Il polo più numeroso resta quello di Ingegneria con 6.415 studenti, tra matricole, regolari e fuori corso. Seguono Scienze della formazione (5.033) e Giurisprudenza (4.256), mentre i corsi di studio più intimi sono quelli di Farmacia (1.408) e Lingue (1.934). Quest'ultima ha anche la popolazione studente più giovane (sotto i trent'anni): nell'anno accademico 2005-2006 erano solo quindici gli ultra trentenni, davanti a Farmacia con diciotto. Età media più alta in Scienze della formazione (ben 232 gli studenti sopra i trent'anni), in Scienza politiche (146) e Lettere e filosofia a (110). E in un momento dove è necessario lavorare per pagarsi gli studi, nell'Universita di Cagliari l'anno scorso c'erano più di duemila studenti iscritti part time. MATTEO VERCELLI _______________________________________________________ Liberazione 17 nov. ’06 IMPARARE AD IMPARARE, come si riforma la conoscenza II dibattito sul declino del sistema formativo italiano, in primis le università, rimane spesso chiuso tra rettori e ministri. Non solo studenti e precari ma l’intera società dovrebbe sollecitare un'inversione di tendenza. Oggi giornata mondiale del diritto allo studio di Andrea Capocci La crisi dell'università e della ricerca italiana non dipende certo dalla legge finanziaria che oggi è in discussione nelle aule. Tutttavia, la manovra firmata dal governo Prodi e benedetta dai sindacati confederali («l'unica possibile» disse Epifani al suo varo) aggrava la situazione. Anche se la Finanziaria cambierà ancora fino al voto finale, il suo segno è ormai chiaro: gli investimenti in università e ricerca non aumenteranno in termini reali rispetto al passato, né si darà soluzione al problema storico della precarietà del settore. La catena della responsabilità però risale a ritroso nel tempo: il dicastero Mussi non inverte l'indirizzo già avviato nell'era Moratti, studenti e ricercatori precari ripetono che la riforma più dannosa fu quella firmata da Berlinguer nel governo ancora precedente (l'introduzione del modello universitario anglosassone soprannominato "3+2": un triennio per imparare un mestiere e un biennio riservato alla conoscenza di base), e si potrebbe andare ancora più indietro. La profondità della crisi, per la verità, facilitava e complicava ad un tempo la missione del ministro Mussi. Bastavano timidi segnali per,suggerire un'inversione di tendenza, ma occorreva ammettere il fallimento complessivo di quel modello di didattica e di ricerca. Entrambe le speranze sono state deluse e ora il governo ne raccoglie i frutti: le proteste provenienti dal suo elettorato più affezionato, quello colto e solitamente mansueto che frequenta dipartimenti e laboratori. Eppure, sebbene risorse in più avrebbero permesso all'università di tamponare le emergenze che riguardano gli oltre cinquantamila precari che lavorano in atenei e enti, non basta iniettare fondi in una struttura che funziona male. L'università e la ricerca hanno infatti perso credito nella società e risulta sempre più difficile giustificare l'investimento pubblico, pagato dalle tasche dei contribuenti, o tasse di iscrizione sempre più alte, che gravano sulle finanze delle famiglie. Anche le mobilitazioni rischiano di apparire corporative, soprattutto se giungono dagli stessi responsabili della cattiva gestione, come i rettori delle 77 università italiane o i dirigenti degli enti di ricerca divenuti ormai fabbrica di precarietà. Non ci si riferisce solo alla condizione dei lavoratori della conoscenza, le cui vicende sono note e saranno rappresentate nelle piazze di oggi. Gli stessi studenti, nell'attuale modello di università, entrano nel mercato del lavoro più precari di un tempo. L'accento posto sulla formazione professionalizzante, quella del triennio assicurato a tutti, prepara (forse) risorse umane pronte all'uso che però rimangono indifese quando il primo impiego (molto probabilmente precario) finisce e la specializzazione acquisita si rivela già obsoleta. AL contrario, una solida preparazione di base, che dia strumenti critici per interpretare i linguaggi messi al lavoro nella produzione economica, si rivela uno strumento prezioso di autodifesa nel mercato del lavoro precario. Lo ammettono oggi gli studiosi dei sistemi formativi: «imparare ad imparare» vale più di una singola specializzazione, e consente di sopravvivere in un contesto cangiante. Ma evidentemente la riforma Berlinguer aveva altri obiettivi, più vicini alle miopi esigenze della Confindustria italiana. Non stupiscano dunque le ultime cifre sulle immatricolazioni, che mostrano un calo sensibile delle nuove iscrizioni all'università, o le percentuali risibili di lauree brevi, di scarsissimo valore. Nei corridoi delle università, il fallimento della riforma Berlinguer è constatato in modo quasi unanime, ma l'adesione al processo di Bologna, in cui tale indirizzo fu intrapreso a livello europeo; sembra una, vincolo inscindibile. L'accordo di Lisbona, che impone maggiori investimenti nella ricerca pubblica, viene violato a cuor più leggero. Ognuno ha la sua idea di Europa, evidentemente. C'è chi, soprattutto sul Corriere della Sera di questa settimana, invoca maggiore concorrenza tra le università, attraverso un sistema di valutazione che devii i finanziamenti pubblici laddove la "performance" è migliore e riduca gli atenei meritevoli di sostegno dello stato: Il corollario è l'abolizione del valore legale del titolo di studio. E' noto che anche nel governo questa linea è gradita. Può essere un sistema, ma occorre essere chiari: in questo modo lo Stato rinuncia a fornire un servizio universale, quello dell'educazione universitaria, costringendo gli studenti ad accontentarsi di università di serie B o a sacrifici eccessivi pur di raggiungere una sede universitaria all'altezza del nome, visto che la nomea conterà più del titolo. Ma con l’attuale welfare italiano, in cui i diritti sociali sono riservati al "posto fisso" in via di estinzione, studiare e contemporaneamente sopportare la precarietà che caratterizza metropoli come Roma o Bologna diventerà una missione per molti impossibile. La precarietà dei ricercatori è dunque solo un effetto della generale dequalificazione descritta, e la loro stabilizzazione è condizione necessaria, sì, ma non sufficiente al rilancio dell'università. Occorre un'inversione di marcia complessiva, che restituisca alla conoscenza un prestigio sociale condiviso (oggi è quasi un fastidio). Certo, occorre dare garanzie ai quarantamila docenti a contratto che, per poche centinaia di euro fanno (sì, l'anno), svolgono le principali funzioni didattiche. Così come le prospettive a breve termine dei ricercatori non consentono più di intraprendere programmi di ricerca ambiziosi o "scomodi". Ma bisogna pur ripensare il ruolo dell'università in una società che voglia valorizzare davvero la conoscenza e farne motore di sviluppo. Sulla proprietà intellettuale delle idee, ad esempio, si svolgono battaglie planetarie da parte di colossi economici privati che vanno dall'industria della comunicazione alle aziende farmaceutiche, e che ricadono sui consumi quotidiani dei cittadini; ma le università, che producono i saperi di base e vivono della loro libera circolazione, sembrano non accorgersene ed accettare supinamente le regole del mercato globale. La valutazione del lavoro intellettuale che si svolge negli atenei e negli enti di ricerca non è una missione da "tecnici" alla ricerca del modello migliore, ma dovrebbe coinvolgere l'intera società: visto che ci mette i soldi, avrà diritto di sapere a cosa serve l'università? Invece il dibattito rimane chiuso fra rettori e ministri. II declino culturale è presupposto di quello economico, non una sua conseguenza. Eppure, si propone di adattare le università alle priorità miopi dell'imprenditoria italiana, celebre per la sua incapacità di innovazione e di investimento a lungo termine. Le rivendicazioni dei precari e degli studenti non dunque vanno interpretate come un bastone fra le ruote per le future riforme. E' proprio da quella domanda di conoscenza e di diritti, invece, che l'Italia pub sperare in uno svecchiamento del sistema complessivo. Ps: mentre scrivo, apprendo che un lavoratore precario di un ente di ricerca, l'Istat, è stato investito da un furgone fuori controllo piombato su una manifestazione contro la finanziaria, e solo per caso non si è fatto troppo male. Finora, questo l'unico investimento certo sui precari della ricerca. _______________________________________________________ Il RIformista 14 nov. ’06 LO SPRECO NON È SOLTANTO COLPA DEGLI ATENEI BASTA VEDERE I SEDICENTI CENTRI D'ECCELLENZA UNIVERSITÀ. LA DENUNCIA DI PADOA-SCHIOPPA «C'è ancora qualche spazio per risparmi su spese superflue da parte delle università». Così crede il ministro dell'Economia che interviene su questo terna con una lunga lettera al direttore pubblicata sul Corriere della Sera di domenica scorsa. A sostegno della sua tesi egli cita, tra l'altro, le «asimmetrie nella distribuzione del personale docente e non docente, nella qualità delle prestazioni didattiche e scientifiche, nella disseminazione delle sedi, nelle condizioni di accesso dei giovani alla ricerca». E' difficile contraddire queste considerazioni. Eppure c'è qualcosa che non torna nell'analisi del ministro. Sia pure in tono garbato, e senza troppi accenti polemici, egli attribuisce interamente alle università la responsabilità degli sprechi, e i compito di porvi rimedio «nell'esercizio della loro autonomia». Dietro le parole moderate del ministro si sente l'eco delle posizioni massimaliste, e delle sommarie analisi comparative, di alcuni economisti che ritengono che la cura migliore per il sistema universitario pubblico sia la diminuzione indiscriminata dei finanziamenti, seguita da un provvidenziale intervento del «mercato». In realtà, molti dei problemi cui accenna il ministro non sono risolvibili dalle singole sedi, senza, quantomeno, una collaborazione attiva del governo. Prendiamo ad esempio il problema della distribuzione del personale. Tra le sedi in maggiore sofferenza ci sono certamente i due megatenei di Roma, La Sapienza, e di Napoli, la Federico II. Una percentuale altissima del personale di queste sedi (il 44,2% per Roma e il 39,4% per Napoli) è impiegato in «attività assistenziali», cioè nei servizi ospedalieri. Quante delle spese per questo personale dovrebbero essere a carico del ministero della Salute? Più precisamente, il compito di contenere le spese ed evitare gli sprechi, per questo personale sanitario, non dovrebbe spettare alle autorità che si occupano della salute, nel quadro di una programmazione regionale e nazionale, invece che a senati accademici che sono competenti per distribuire le risorse per la didattica e la ricerca? Sempre per il personale, possiamo citare uno «spreco» evidenziato dal divario nella pro porzione tra personale docente e personale tecnico e amministrativo nelle sedi del nord e in quelle del Mezzogiorno. Ad esempio, al Politecnico di Milano ci sono 6 non docenti per ogni 10 docenti, ma all'Università della Calabria, i non docenti sono, in proporzione, quasi il doppio, cioè 11,5 per ogni 10 docenti. Quanta di questa disparità è dovuta a movimenti di personale assunto dalle sedi del nord, che torna a casa attraverso un trasferimento di comodo, propiziato da una raccomandazione politica? Il problema di uffici pubblici con personale in eccesso (nel sud) o con insufficiente personale (nel nord) è un problema di tutta la pubblica amministrazione, che difficilmente potrà essere risolto dalle singole sedi universitarie, se non viene affrontato, a livello nazionale, per tutto il pubblico impiego (ad esempio fornendo al nord facilitazioni per l'alloggio degli impiegati pubblici, come propose un tempo Sabino Cassese). Quanto alla disseminazione delle sedi, dobbiamo ricordare che non sempre questa comporta un aumento di costi e di sprechi. Ad esempio, è naturale che la formazione universitaria degli infermieri, un compito attribuito solo di recente alle università, possa, e debba in molti casi, avvenire in sedi decentrate, con vantaggi per le strutture sanitarie che ospitano le scuole e per la sede universitaria che le promuove. Invece la responsabilità di interi atenei sorti dal nulla, senza una ragionevole previsione di un corpo studentesco adeguato, è interamente ascrivibile al parlamento e ai governi che si sono succeduti a partire dagli anni Ottanta. Alcuni atenei sono sorti con lo scopo primario di fornire occupazione attraverso posti di personale tecnico ed amministrativo e di dispensare contratti di appalto per la costruzione degli edifici. Una volta assolto questo compito ci si è accorti che mancavano gli studenti per riempire gli edifici e i fondi per la loro manutenzione ordinaria. Come può un ateneo che si trova in queste condizioni risalire con le proprie forze, e senza un aiuto dal governo, a una condizione di relativa efficienza? Infine non è certo responsabilità delle sedi universitarie, la disseminazione di sedicenti centri di eccellenza per la didattica e la ricerca, istituiti per decreto, sulla base di rapporti più o meno clientelari con singoli professori "eccellenti". Forse è proprio in questi ambiti che si annida la maggioranza delle «spese superflue» di cui parla il ministro dell'Economia. ____________________________________________________ La Repubblica 14 nov. ’06 PERCHÉ INTERNET HA BISOGNO DI UNA CARTA DEI DIRITTI STEFANO RODOTÀ CHI si interessa ai diritti nel mondo globale da ora in poi dovrà tenere d’occhio con un po’ più di attenzione quel che accade e accadrà intorno ad Internet. Detto così, può sembrare una banalità. Internet è il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, cresce in maniera esponenziale, avvolge l’intero pianeta, ha già raggiunto i cento milioni di siti, ed è ovvio che sia un luogo dove si manifestano conflitti che incidono sui diritti individuali e collettivi. Ma due settimane fa ad Atene, nel corso di una conferenza organizzata dall’Onu e dedicata proprio al governo di Internet, sono state messe sul tavolo alcune carte che fanno pensare all’avvio di una fase almeno parzialmente nuova. Le notizie più clamorose riguardano grandi potentati, come Microsoft e Google, che con i loro annunci hanno messo in evidenza come la questione dei diritti cominci a penetrare anche nei fortilizi muniti, e insensibili, delle grandi multinazionali. Uno dei maggiori dirigenti di Microsoft ha fatto sapere che, se il governo cinese continuerà nella sua opera censoria, nella persecuzione dei bloggers, la sua società potrebbe “riconsiderare” la sua presenza in quel paese. Una affermazione, questa, da valutare con molta prudenza, per l’importanza grandissima del mercato cinese e per gli investimenti già effettuati. E tuttavia questa mossa rivela due cose. Che la campagna degli attivisti per i diritti su Internet comincia a dare qualche frutto, scuote anche Microsoft, che di essa non può disinteressarsi pure per ragioni di immagine, rilevanti dallo stesso punto di vista del mercato. E che Microsoft intende negoziare, esercitando una pressione pubblica sul governo cinese, forte di un potere “politico” che manca ormai agli Stati nazionali. Diversa, e sostanzialmente arrendevole, la posizione di Google. Vinton Cerf, uno dei padri fondatori di Internet ed oggi dirigente di spicco di quella società, ha detto chiaramente che le imposizioni di Pechino vengono accettate per non privare i cinesi delle opportunità che, comunque, Google è in grado di offrire loro. Ma anche questa posizione è assai significativa. Mette in evidenza che le libertà su Internet sono a rischio, che in assenza di un quadro di garanzie istituzionali le regole le produce solo la logica di mercato e che questa non esita a sacrificare i diritti dei cittadini. La forza delle cose travolge così le resistenze di quanti continuano ad opporsi all’ipotesi stessa di una Carta dei diritti per Internet, temendo che in questo modo si impongano vincoli che la storia libertaria della Rete non vuole sopportare. Una posizione di retroguardia. Non fa i conti con una realtà che vede ogni giorno crescere le situazioni in cui i diritti in rete sono compressi, e non solo dagli Stati autoritari, ma da un Occidente che utilizza l’argomento della lotta al terrorismo per imporre lunghe conservazioni dei dati riguardanti ogni forma di comunicazione elettronica, consegna di informazioni delicate ad autorità di polizia, schedature delle persone. Ignora, poi, che le costituzioni, le carte e le dichiarazioni dei diritti sono sempre state l’opposto delle limitazioni delle libertà, rappresentando proprio lo strumento che ha consentito la garanzia e l’espansione dei diritti. Ad Atene è stato possibile cogliere il segno di una maturazione, che ha fatto emergere in tutte le discussioni il tema della libertà in Rete ed ha dato ai sostenitori della necessità di una Carta dei diritti uno spazio ed una legittimazione che permettono di parlare dell’inizio di una fase nuova. Naturalmente, questo non vuol dire che il cammino da seguire sia quello che, in passato, ha portato all’approvazione di costituzioni e carte dei diritti. Queste sono sempre state il frutto di iniziative dall’alto, si trattasse di costituzioni “octroyées”, concesse dal sovrano, o approvate da assemblee costituenti. La natura stessa di Internet si oppone all’adozione di questo schema. Internet è il luogo della discussione diffusa, delle iniziative che vogliono e possono coinvolgere un numero larghissimo di persone, dell’elaborazione comune. Qui possono aver ragione i critici, se si pensa che alla Carta dei diritti si possa arrivare attraverso le procedure tradizionali delle convenzioni internazionali, con gli sherpa dei ministri degli esteri che producono una bozza da sottoporre poi all’approvazione all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. La Carta per Internet non può che essere il risultato di un processo, che ad Atene è appena cominciato. Lì si sono materializzate alcune “dinamic coalitions”, gruppi interessati alla preparazione di un documento (non una bozza prefabbricata di Carta dei diritti) da mettere su Internet e sul quale aprire una discussione davvero globale. Non è una mossa velleitaria, perché questo processo potrà essere scandito e controllato grazie alle nuove riunioni annuali dell’Internet Governance Forum, già previste dall’Onu (la prossima nel novembre 2007 a Rio de Janeiro). E il Governo italiano ha fatto una mossa azzeccata annunciando una riunione internazionale a Roma dedicata esclusivamente al tema della Carta dei diritti. Sarà un processo lungo, e non facile. Ma, per avere risultati, non sarà necessario attenderne la conclusione. Sono possibili tappe intermedie, intese parziali, dichiarazioni per grandi regioni del mondo o per specifiche materie. Già oggi esistono esempi, e proposte. L’Unione europea è l’area dove più è strutturata la protezione dei dati personali, e dalla cui esperienza possono essere tratte indicazioni importanti per la stesura della Carta dei diritti (sì che appare opportuna e necessaria una iniziativa generale delle istituzioni europee, del Parlamento in primo luogo). Proprio la tutela della privacy può esser terreno propizio per sperimentare più rapidamente regole comuni, nello spirito della Dichiarazione di Venezia del 2000, ripresa l’anno scorso a Montreux nella conferenza mondiale delle autorità garanti. Sempre ad Atene, con una richiesta per certi versi più significativa delle parole sulla presenza in Cina, Microsoft ha chiesto una Carta delle Nazioni Unite per la tutela dell’identità digitale. E intanto si moltiplicano le iniziative per tutelare su Internet la libertà d’espressione, l’anonimato. Ma è necessario andare oltre i tradizionali schemi delle convenzioni internazionali. Bisognerà integrarli con strumenti che consentano l’adesione di organizzazioni di cittadini e delle stesse imprese, utilizzando modelli già sperimentati, ad esempio, per garantire la circolazione internazionale delle informazioni. In questo modo sarà possibile stimolare più direttamente l’attenzione e la partecipazione di una molteplicità di attori sociali, rendendo concreta quella che viene chiamata una impostazione multistakeholders, con il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati. Questa è la via che può portarci alla Carta dei diritti, Intanto, mimando la definizione di Internet come “rete delle reti”, si può mettere a punto un “quadro dei quadri di principi già esistenti”. Da qui può nascere una “mosaic law”, un mosaico composto da diversi elementi normativi che progressivamente si compongono in un comune contesto istituzionale. Mettere al centro la Carta dei diritti ha un altro, urgente obiettivo. Bisogna uscir fuori da una schizofrenia politica ed istituzionale che continua retoricamente a parlare della libertà su Internet, mentre questa viene concretamente limitata e violata. Solo una convinta e puntuale affermazione dei diritti in Rete può indicare quali sono i principi inviolabili in un sistema democratico, e salvaguardare davvero quella libertà. __________________________________________________________________ Il Sole24Ore 14 Nov. ‘06 SE RESTA A SECCO IL MIT ITALIANO Istituto italiano di tecnologia IL taglio alle spese di funzionamento delle Università, se confermato, rischia di fare una vittima illustre: l'Istituto italiano per la tecnologia, lanciato nel 2003 come il Mit italiano da Giulio Tremonti con l'ambizione di attrarre i migliori talenti in circolazione. Il capitolo di spesa relativo all'Iit del tagliaspese infatti non assegna alcun fondo per il zoo7 all'ente che ha appena allestito i suoi laboratori a Genova e che come chairman della Fondazione che lo possiede ha Gabriele Galateri e come consiglieri di amministrazione Paolo Scaroni, Gianfelice Rocca, Alberto Alesina, Giuseppe Vita, Roger Abravanel, Remo Pertica e il rettore dell'Università Eth di Zurigo,Konrad Osterwalder. Nel comitato esecutivo siedono Vittorio Grilli (presidente), Giuseppe Cerbone (vicepresidente) e Roberto Cingolani (direttore scientifico). La motivazione informalmente comunicata agli interessati è persino banale: avete in banca 8o milioni di curo del fondo istitutivo, andate avanti con quello e nella prossima finanziaria si vedrà. II fatto è che l'incertezza sul futuro e la difficoltà di capire l'impatto delle nuove norme rischia di compromettere proprio quell'attrazione di cervelli che doveva essere il fattore distintivo dell'Iit. L'Istituto ha impiegato 2 anni per nascere, cioè darsi lo statuto e avere i primi fondi, e meno di un anno per trovare una sede, assumere 15 ricercatori italiani (di cui la metà di ritorno da esperienze all'estero) e 15 stranieri.Ha siglato accordi con nove centri italiani di ricerca tra cui il Politecnico di Milano, la Normale di Pisa e l’Ebri della Rita Levi Montalcini ed ha in registrazione già due brevetti: un "cucciolo di robot" per l'automazione industriale e una resina che farà da occhio artificiale per le fotocamere digitali. L'allarme degli amministratori non è peregrino, perché di fatto l’Iit non ha (ancora) spese di funzionamento da tagliare ma investimenti importanti da completare, a cominciare dalla strumentazione dei laboratori. Intanto un tarlo distrae i ricercatori, soprattutto gli stranieri e gli italiani reduci da esperienze estere: e se per l’Iit il tagliaspese fosse solo un pretesto per il solito reality politico all'italiana, visto che abbiamo ìl peccato originale di essere nati per iniziativa di un ministro del centrodestra e ora governa il centro sinistra e le ripicche in Parlamento sono pane quotidiano? Si tratta di un dubbio da eliminare subito, se possibile. A. De. __________________________________________________________________ Il Sole24Ore 19 Nov. ‘06 PITAGORA ADDIO, NIENTE PIÙ GENI SOLITARI Archimede Pitagorico non ha futuro: o fa squadra o rischia di perdere. Cristiana Compagno ne è convinta. Docente di strategia d'impresa all'Università di Udine, 46 anni, presidente della giuria dell'edizione zoo6 del Premio dell'innovazione, ha pubblicato un volume intitolato «Ricerca scientifica e nuove imprese». Professoressa, hanno futuro il genio solitario o l'imprenditore che punta all'innovazione casalinga? Sicuramente no. Oggi l'innovazione è il prodotto sistemico di interazioni tra attori, istituzioni, competenze e risorse diverse. E caratterizzata dall'integrazione di tecnologie e di competenze scientifiche eterogenee e dall'esigenza di innestare su queste, risorse e conoscenze complementari di tipo manageriale in grado di governare gli aspetti economico gestionali dell'innovazione. Risorse e competenze complesse ed eterogenee non possono essere contenute nella figura solitaria dell'innovatore inventore. Serve in sostanza una vera cultura dell'innovazione che si scosti dal modello del passato? Bisogna generare una vera e propria responsabilità collettiva 3elfinnovazione, un impegno diffuso che deve accomunare imprenditori e imprese, lavoratori, consumatori, attori pubblici, istituzioni di ricerca e formazione. In questi anni si è cercato di superare il problema del trasferimento tecnologico con gli spin off. Rimangono uno strumento valido, secondo lei? Gli spin off sono senza dubbio una cosabuona, ma bisogna pensare in qualche modo a blindarli. Mi spiego. Lo spin off tradizionale vede il ricercatore o il gruppo di ricercatori molto impegnati nella loro attività principale, che è appunto lo sviluppo di un progetto specifico. Questo rischia di far perdere di vista il fatto che l'azienda, perché di un'azienda si tratta, deve comunque dialogare con i suoi potenziali clienti, farsi capire, costruirsi un capitale di credibilità e di fiducia. Poi resta anche il grande problema delle risorse finanziarie. Per questo bisogna giocare d'anticipo e individuare già in fase di studio di fattibilità gli strumenti più appropriati per fronteggiare gli elementi di criticità che potrebbero pregiudicare il successo dell'iniziativa. C. Pas. Cristiana Compagno Docente di strategia d'impresa ____________________________________________________ Le Scienze 15 nov. ’06 CORRENTE SENZA CAVI Allo studio al MIT una nuova tecnologia di alimentazione elettrica La tecnologia wireless è sempre più diffusa. E forte di questo successo sta pensando di estendere il suo campo d’azione, passando dalla sola trasmissione dati alla trasmissione dell’energia che serve per far funzionare l’apparecchio stesso. A eliminare il cavo di alimentazione per la periodica ricarica delle batterie di laptop, cellulari e altri apparecchi domestici ci sta pensando un gruppo di ricerca del Massachusetts Institute of Technology (MIT) diretto da Marin Soljacic che ha illustrato i loro studi all’American Institute of Physics Industrial Physics Forum (IPF) in corso a San Francisco sotto gli auspici dell’American Institute of Physics. Ovviamente, che l’energia possa essere trasferita a distanza è in sé un fatto banale, il problema è piuttosto l’efficienza del trasferimento. Essa non è garantita né da una tecnologia che preveda prima la trasformazione della corrente elettrica in radiazione luminosa e poi la successiva riconversione in energia elettrica (che richiede oltretutto una linea di mira perfettamente sgombra) né dal ricorso all’ordinaria radiazione elettromagnetica, che si disperde nell’ambiente e potrebbe comportare rischi. Soljacic ha pensato che il fenomeno dell’induzione a corto raggio - quella che ha luogo per esempio in qualsiasi trasformatore - potrebbe trasferire energia anche su distanze un poco maggiori, delle dimensioni di una stanza, a patto di far assumere al campo una forma opportuna. Invece di irradiare l’ambiente con onde elettromagnetiche, un trasmettitore di potenza dovrebbe riempire lo spazio circostante di un campo elettromegnetico “non radiativo”, dal quale l’energia verrebbe prelevata da un apposito apparecchio progettato per “risuonare” con esso, mentre l’energia non assorbita dal ricevitore dovrebbe venire riasorbita dall’emettitore. "All’inizio non era né chiaro né ovvio se il sistema potesse realmente funzionare, soprattutto per i limiti imposti dai materiali attualmente disponibili” ha detto Soljacic, ma secondo i calcoli e le simulazioni sviluppate dal suo gruppo di lavoro, quanto meno l’alimentazione senza cavi di piccoli elettrodomestici potrebbe essere una realtà non troppo lontana. ======================================================= ____________________________________________________ La Nuova Sardegna 17 nov. ’06 OPPI: L’ASSESSORE ALLA SANITÀ SBAGLIA I CONTI Oppi: paghiamo la gestione in cambio di entrate incerte di Augusto Ditel CAGLIARI. Questa volta, l’affondo alla Dirindin, viene da Roma, Camera dei deputati. Sette deputati del centrodestra (la prima firma è quella di Giorgio Oppi) fanno le pulci all’assessore regionale alla Sanità sui dati della nuova ripartizione dei fondi nazionalità sarda, che i parlamentari definiscono «erronei, che servono solo a fare propaganda». E, in una nota, i parlamentari d’opposizione motivano la loro denuncia con tutta una serie di cifre. «In primo luogo - sostengono Giorgio Oppi, Mauro Pili, Antonello Mereu, Bruno Murgia, Carmelo Porcu, Piero Testoni e Giuseppe Cossiga - bisogna dare spiegazioni sull’incremento che l’assessore attribuisce al proprio personale merito politico. Gioverà ricordarle che il fabbisogno indistinto è passato dai 1.825.109.102 euro del 2001 ai 1.991.833.491 del 2002, poi 2.159.258.358 del 2004, al 2.357.013 del 2005, segnando, cioè un incremento costante intorno ai 140/150 milioni di euro, anno dopo anno. Ma non è questo il dato rilevante sul quale la Dirindin dovrebbe riflettere. L’assessore si sarebbe dovuta preoccupare di capire che la cifra fissa e predeterminata assegnata alla Sardegna (che oggi è prevista all’art. 102 della legge finanziaria) è di 974 milioni di euro (che diventeranno 993 nel 2008 e 1012 nel 1009). Un dato che costringe a rinunciare all’incremento ben maggiore che la Sardegna ha sempre avuto». Il centrodestra fa presente che «nel 2006 la quota del Fondo sanitario nazionale è stata di 954 milioni di euro: l’aumento va calcolato su questa cifra e non su altre. Dunque l’incremento della compartecipazione statale è di 20 milioni di euro e non di 135, come erroneamente detto dalla Dirindin, che si basa su un dato globale che per la Sardegna, ormai, non esiste più. Ancora: pare curioso considerare come un successo politico il fatto che le ulteriori entrate in materia sanitaria deriveranno dalla compartecipazione dell’Iva sui consumi prodotti in Sardegna. Insomma, lo Stato costringe la Regione sarda a finanziare la spesa sanitaria con le proprie entrate. Denari che, se vanno alla sanità, non vanno a finanziare altri comparti». Nel documento, i parlamentari ritengono che «la Dirindin dimentica di commentare è che il deficit della sanità (i dati del 2006 non li conoscimao perché inspiegabilmente, pur essendo ormai arrivati alla fine dell’anno, non sono ancora in possesso neppure della commissione competente ed al Consiglio regionale!) è così come nel 2005 intorno ai 300 milioni di euro. Basteranno le risorse di compartecipazione dell’Iva?». Quindi, l’appello finale. «L’assessore dovrebbe convincersi con animo sgombro è che i parlamentari sardi lavorano per reperire risorse per l’isola ed incrementare in maniera stabile i fondi destinati alla Sardegna. Soprattutto si preoccupano di non erdere gli incrementi annuali. Dif- ficile accettare lezioni da chi ci accusa ingiustamente di non essere stati presenti: al contrario, nei momenti in cui si decidevano i riparti del fondo sanitario la Sardegna non è mai stata assente. Anzi. Noi pensiamo che esserci accollati l’intera gestione della Sanità in cambio di un’entrata incerta, rappresenti un danno per la Sardegna». _______________________________________________________ MF 14 nov. ’06 TELEMEDICINA, LE CORSIE SPECIALI Salute Le soluzioni per cartelle cliniche elettroniche, telemedicina e consulti a distanza. Che interessano anche le banche Snellisce i processi aumenta il livello d2 sicurezza delle cure, offre al paziente prestazioni migliori Ma si fa sentire anche sui conti di ospedali e aziende perchè è in grado di contenere i costi fino al 30% ed è un'ottima occasione di business di Mila Cataldo Lo scenario di Codice 46, dove le assicurazioni Sphinx controllano l'intera società, in un nuovo mondo in bilico tra Huxley e Orwell è solo fantascienza. La telemedicina è invece realtà. Snellisce i processi, aumenta il livello di sicurezza, offre al paziente prestazioni migliori, contiene i costi del 30% ed è un'ottima occasione di business. Mentre la telemedicina di prima generazione era orientata all'emergenza anche per i limiti tecnologici, oggi piattaforme friendly, wireless, wearable (facili da usare, senza fili e indossabili) permettono di dare maggior supporto al paziente. «Non esistono alternative a questa evoluzione», spiega Alberto Sanna, Responsabile dei Servizi per la salute e la persona dell'Istituto Scientifico San Raffaele di Milano, «le tecnologie ci sono basta solo creare sinergie tra mondi in apparenza lontani dal sistema sanitario, assicurazioni e banche, che possono ampliare la loro offerta con servizi a valore aggiunto, ma anche grande distribuzione supermercati e aziende di prodotti alimentari», per sviluppare insieme un modello di business il cui obiettivo sia la prevenzione e ponga in primo piano il paziente, impedendo usi impropri dei dati o violazioni della privacy. Anche Shai Misan, AD Medic4all, azienda leader nei servizi di telemedicina, ribadisce: «Oltre a banche e assicurazioni che svolgono un importante ruolo di protettori della riservatezza dei dati personali e hanno interesse ad accrescere la fidelizzazione dei propri clienti con servizi a valore aggiunto, sono coinvolti anche le telecomunicazioni grazie alla posizione di forza nel billing e quei settori che si occupano del mercato dell'area benessere: fitness/sport, dietologia e alimentazione di qualità, viaggi». Le partnership 13213 sviluppate da Medic4al1 hanno generato un incremento dei margini lordi correnti tra il 5-12%, ottenuti con il cross selling, il miglioramento del la retention, l'acquisizione di nuovi clienti. UniCredit private banking, per esempio, ha inserito con successo alcuni servizi tele medicali nel package value programme a canone fisso, offrendo benefici bancari e non, come la cartella clinica elettronica e alti livelli di protezione in viaggio. Anche Uniqa Assicurazioni ha introdotto servizi di telemedicina di Medic4all perché le polizze si arricchiscono di modalità di supporto alla cura innovative e di qualità, facendo guadagnare tempo all'assicurato specie in caso d'intervento chirurgico e in fase post-ricovero. Tra i prodotti offerti da Medic4all c'è la Cartella Benessere oppure la Bilancia Online e il servizio connesso: un nutrizionista con cui concordare il programma alimentare. La bilancia memorizza i dati e via computer o telefono li trasferisce al medico, con cui vengono stabiliti colloqui con la frequenza desiderata. II costo è sui 20 euro al mese per un servizio personalizzato di dieta controllata. Infine la clinica da polso con varie funzionalità: misurazione della pressione, lettura glicemica, elettrocardiogramma, ecc. Tutto si risolve per via telematica. II valore è sui 40 euro al mese per 3 anni di servizio, compresi i colloqui con un medico più volte l'anno. La telemedicina è un settore in continua evoluzione e muta col progredire dell'information technology. «Con il termine telemedicina ormai si intende una medicina della condivisione del dato clinico ad ampio spettro, dalle numerose iniziative 13213 (consulti qualificati, teleconferenze, operazioni chirurgiche teleguidate), a quelle B2C come la nostra Cartella Salute», racconta Dario Esiliato, socio di doMed, una start-up tecnologica italiana che fornisce soluzioni innovative a supporto dell'healthcare. La Cartella Salute è un prodotto semplice destinato all'utente finale, non così esperto di nuove tecnologie. Ha lo scopo di raccogliere dati sanitari, o informazioni da gestire in caso di emergenza (allergie, patologie croniche, farmaci assunti abitualmente), a un costo di 20 euro l'anno. Tre gli strumenti a disposizione: la card, autocompilata, che reca all'interno parametri scelti all'attivazione; l'executive summary, un documento con lo stato di salute del paziente in italiano e in inglese, stampabile su carta; un codice per accedere on-line a una sintesi dei dati sanitari del paziente, solo a scopo di visione. La Cartella Studio è un'altra proposta doMed: uno strumento gestionale completo, concepito per un uso professionale e condiviso di immagini digitali, anamnesi e terapia, per teleconsulti. La privacy del paziente è tutelata perché i dati anagrafici sono slegati da quelli sanitari. Utta la storia clinica del paziente viene trasferita con un click, a un costo di 160 caro l'anno. In ambito 13213 doMed fornisce un servizio per monitorare i pazienti non autosufficienti. Come nel caso del Centro Geriatrico Polifunzionale San Pietro di Monza, gestito dalla cooperativa sociale La Meridiana. «La soluzione fornita da doMed ci consente di dare in tempo reale informazioni, di realizzare un monitoraggio dei pazienti per controllarne le funzioni vitali», dice Alberto Attanasio, Responsabile Marketing La Meridiana. «I collegamenti mobili o mi-fi permettono la costante rilevazione da remoto e la trasmissione e gestione dei dati a distanza da parte del medico». Risultato: il personale può coordinarsi in maniera efficiente ottimizzando gli spostamenti; gli operatori agiscono in modo più efficace e rapido perché già preparati a fronteggiare l'emergenza. I vantaggi nello sviluppo e nell'applicazione della telemedicina sono tanti: aumento dell'efficienza del processo di erogazione della prestazione sanitaria; ottimizzazione dei tempi degli specialisti; riduzione dei costi di trasferta dei pazienti; diminuzione dei ricorsi impropri ai servizi ambulatoriali da parte di pazienti con patologie croniche; riduzione dei costi nelle fasi di anamnesi, archiviazione dati, condivisione e uso a più livelli dei referti; tempestività della diagnosi e d'intervento nel processo terapeutico; aumento del livello di prevenzione e migliore qualità di vita dei pazienti (che riduce ricoveri in ospedale e spese sostenute dalle strutture sanitarie). L’impiego della telematica e della telemedicina spesso rappresentano non tanto un miglioramento assoluto quanto un compromesso necessario, che affronta con realismo il problema di una sempre più forte richiesta di salute e qualità economicamente sostenibile», afferma Roberto Ongaro Direttore Generale di Rizzoli Ielemedicina. Oggi assistiamo a un progressivo allungamento della vita media. L’Istat rivela che nel nord Italia quasi il10% della popolazione ha più di 75 anni (poco meno nel sud del paese), e in questa fascia la disabilità raggiunge il 30%. Le patologie croniche rappresentano l’80% delle malattie che colpiscono la popolazione e circa il70% dei costi della sanità pubblica in Italia è correlato alla degenza del malato in ospedale. La storia clinica di un paziente è di fondamentale importanza. Questa mole d'informazioni non può essere conservata in forma cartacea, né archiviata in data base obsoleti. II mercato del software, in continuo fermento delinea scenari rivoluzionari. Le tecnologie di ultima generazione, le rich internet application consentono di trasmettere e condividere non so1o documenti testuali, ma anche radiografie, ecografie, Tac ed elettrocardiogrammi, ad alta risoluzione. E’ il caso di Flex di Adobe un vero e proprio ambiente di sviluppo e di pubblicazione della cosiddetta famiglia Web 2.0, che permette di sviluppare soluzioni di telemedicina, interfacce usabili per applicazioni sottostanti, mantenendo efficacia e ricchezza di presentazione. «Il linguaggio è ottimizzato per contenuti testuali, integrati con immagini, filmati, audio, che migliorano l’usabilità delle capacità web» così Esiliato spiega la scelta di doMed a favore di tecnologie Adobe. Con Flex è possibile visualizzare una gran quantità di immagini, disponendone senza dover fare ogni volta il refresh della pagina. In più l'applicazione è stabile basandosi su un modello distribuito che trasferisce gran parte del calcolo al client dell'utente. « Flex è un'interfaccia applicativa utile nella gestione di documenti clinici», racconta Andrea Valle, direttore tecnico Adobe, «con Flex non è necessario installare nulla, basta un browser e un plug in Flash». Perché i dati clinici del paziente non vengano usati in modo scorretto è importante la sicurezza e la protezione dei dati sensibili. «Senza la firma digitale non potrebbe esistere una cartella clinica elettronica», conclude Valle. «Le informazioni sono sempre sicure e sotto controllo. I contenuti sono cifrati e accessibili solo al soggetto autorizzato». A tal scopo si va dal semplice uso di password a soluzioni più sofisticate di gestione centralizzata e dinamica. ____________________________________________________ Corriere della Sera 17 nov. ’06 CACCIARI: PREGHIERA TERAPEUTICA? DA ATEO SONO AFFASCINATO MILANO - Lo considerano un filosofo laico alla André Malraux, scrittore e politico francese che amava ripetere: «Je suis un athée naturellement catholique» (ossia «Io sono un ateo naturalmente cattolico»). Così Massimo Cacciari, sindaco di Venezia e professore di estetica all' Università Vita Salute del San Raffaele di Milano, è stato invitato dall' Associazione medici cattolici italiani (Amci) a confrontarsi con l' ultima tesi choc in arrivo dagli Stati Uniti: la preghiera non è solo una medicina dell' anima, ma ha anche un effetto terapeutico per il fisico. È un' affermazione provocatoria, domani mattina al centro di un convegno organizzato dall' Amci in Assolombarda, che a sorpresa non fa storcere il naso neppure all' ateo Cacciari: «Certamente per i fedeli raccomandarsi a Dio ha un effetto consolatorio anche e soprattutto nella malattia - osserva -. Da filosofo guardo con interesse e meraviglia, nel senso più nobile e alto dei due termini, chi s' affida a Dio per guarire». Secondo una ricerca condotta dall' American Academy of Family Physicians, una delle più importanti associazioni mediche degli Usa, il 99 per cento dei medici di famiglia è convinto che credere possa avere effetti sulla guarigione. «La preghiera intesa come richiesta di esaudire i propri desideri è spesso condannata dalla filosofia e considerata indegna per chi davvero è convinto dell' esistenza della divinità - osserva Cacciari -. Al contrario, chi si rivolge al proprio Dio per adorarlo senza pretendere nulla in cambio può essere paragonato al filosofo che si mette al servizio e alla ricerca della verità. Ma contrapporre polemicamente i due modi di pregare è sbagliato perché, lungi dallo snobbarlo, considero l' effetto consolatorio della preghiera affascinante anche per gli atei. Parlare dei suoi effetti clinici spetta, invece, ai medici». Negli ultimi dieci anni almeno 200 pubblicazioni su riviste mediche anglosassoni hanno esaminato il valore terapeutico della fede. «Per affermare scientificamente che la preghiera è una medicina del corpo sono necessari ulteriori studi clinici - ammette Giorgio Lambertenghi Deliliers, presidente dell' Amci di Milano -. Ma senza dubbio rivolgersi a Dio è un elemento di conforto». In un suo contributo all' interno del volume «Il medico di fronte al miracolo», Cacciari sosteneva che il vero miracolo è la fede stessa. Inutile, forse, meravigliarsi del resto. _______________________________________________________ MF 14 nov. ’06 RFID CONTROLLA IL DIABETE Salute Brevettato un chip impiantabile che misura automaticamente i livelli di glucosio nel sangue Il sistema trasmette i dati a uno scanner senza fili Rimangono dubbi sulla privacy di Silvia Fabiole Nicoletto Un microchip impiantabile a radiofrequenza sensibile ai livelli di glucosio nel sangue. È questa la novità che è stata recentemente brevettata dalia VeriChip corporation, azienda realizzatrice del primo chip impiantabile sottopelle per l'identificazione da remoto approvato tempo fa dalla Food and drug administration. Ora l'azienda pare aver trovato il modo di sfruttare la discussa tecnologia a beneficio di chi soffre di diabete. Il brevetto del chip è stato depositato presso l'ufficio brevetti statunitense, un primo passo verso la futura commercializzazione. Il monitoraggio costante dei livelli di glucosio è fondamentale per i pazienti diabetici e il metodo tradizionale, che consiste in ripetute punture sulle dita, è invasivo, doloroso e spesso poco accurato. Il chip impiantabile appena brevettato sfrutta la tecnologia Rfid o Radio frequency identification, i cui dispositivi sono costituiti da un lettore e da uno o più trasmettitori capaci di comunicare tra loro mediante un segnale modulato a radiofrequenza. Sono paragonabili a piccole etichette intelligenti che trovano già applicazione in aziende, esercizi commerciali e grande distribuzione per migliorare la gestione dei prodotti, velocizzare le operazioni commerciali, rintracciare l'origine di particolari prodotti, controllare gli accessi a luoghi riservati. L’identificazione personale o la tutela della salute sono altre potenziali applicazioni che però si scontrano ancora con il delicato problema della protezione dei dati personali. Il chip, che verrebbe inserito nel corpo con una siringa, è dotato di un trasmettitore passivo, un sensore per il glucosio e un circuito integrato che permette a chiunque di determinare i propri livelli di glucosio senza provare alcun dolore. II dispositivo trasmette in modo rapido e accurato i valori del glucosio a uno scanner senza fili che mostra il valore misurato; una volta installato può quindi essere impiegato per rivelare in tempo reale la situazione del paziente con un apposito scanner del segnale Rfid. Essendo di tipo passivo, l'apparato non necessita di alcuna batteria o manutenzione per poter operare nel corso del tempo perché l'energia necessaria al suo funzionamento viene fornita dal ricetrasmettitore che, attraverso l'antenna, genera un opportuno campo magnetico a radiofrequenza. liazienda, che detiene la licenza esclusiva per quanto riguarda la tecnologia applicata ai dispositivi impiantabili nell'uomo, è consapevole del lungo lavoro ancora necessario per arrivare alla commercializzazione del prodotto: tempo e investimenti serviranno per lo sviluppo, la sperimentazione clinica e infine l'approvazione da parte degli enti regolatori. Le possibilità di applicazione della tecnologia in genere sono peraltro numerose: sistemi di questo tipo risultano particolarmente utili quando per letture di dati senza il contatto diretto lettore-oggetto da identificare e quando è necessaria massima sicurezza nel trasferimento dell'informazione. Ma è proprio la sicurezza dei dati personali trasmessi che desta non poche perplessità: esiste infatti la possibilità di una violazione della privacy e di possibili forme di controllo sulle persone. I chip approvati a uso umano, infatti, sono potenzialmente leggibili da molti lettori di radiofrequenze; questo significa che potrebbero servire per raccogliere innumerevoli dati sulle abitudini dei consumatori a fini promozionali o per tracciare i percorsi effettuati, controllarne la posizione geografica o verificare quali prodotti usano, indossano o trasportano. ____________________________________________________ L’Unione Sarda 13 nov. ’06 SANITÀ: IL PROFESSOR CAGETTI IN PENSIONE Dopo oltre trent’anni di direzione (prima nel reparto di Patologia chirurgica e poi in Clinica chirurgica), lo scorso primo novembre il professor Marino Cagetti ha lasciato l’attività per raggiunti limiti di età. Gli succede alla direzione della Clinica chirurgica dell’ospedale San Giovanni di Dio (della Asl numero 8) il professor Alessandro Uccheddu, suo allievo. _______________________________________________________ La Repubblica 14 nov. ’06 I RISCHI DELLA SCELTA GENETICA PETER SINGER IL PROGRESSO della conoscenza comporta spesso vantaggi e svantaggi. Quello della fisica nucleare negli ultimi sessanta anni è un chiaro esempio di questa verità. Nei prossimi sessanta anni potrebbe diventarlo la genetica. Ai nostri giorni vi sono aziende che si offrono di fornire, dietro pagamento, un'analisi genetica a chi la richiede. Esse sostengono che conoscerla servirà alla persona interessata a vivere più a lungo e meglio. Sarebbe possibile, per esempio, prevedere checkup particolari per individuare segni precoci delle malattie per le quali si è più a rischio o cambiare la dieta per limitare questi rischi. Di frante a una aspettativa di vita non buona, la persona interessata potrebbe contrarre ulteriori assicurazioni sulla vita o persino andare in pensione prima del previsto per avere il tempo di fare ciò che ha sempre desiderato. I difensori della privacy si sono adoperati, con un discreto successo, per impedire che le compagnie d'assicurazione possano richiedere test genetici prima di accettare una polizza vita. Ma se le persone hanno accesso a test che le compagnie d'assicurazione non possono richiedere e se, venendo a conoscenza di particolari condizioni sulla base di test genetici, queste persone contraggono polizze vita aggiuntive senza comunicare i test eseguiti, si è di fronte a una frode nei confronti degli altri contraenti di polizze vita. I premi dovranno aumentare per coprire le perdite e coloro che hanno una buona prospettiva genetica potrebbero scegliere di non accendere polizze vita per evitare di finanziare chi commette una frode, facendo aumentare ulteriormente i premi. Quando la selezione riguarda i figli solleva quesiti etici ancora più profondi. Non sono una novità. Nei paesi sviluppati, i test che di routine sono consigliati alle donne di una certa età, uniti alla maggiore possibilità di abortire, hanno ridotto significativamente l'incidenza di sindromi come quella di Down. In alcune regioni dell'India e della Cina dove le coppie desiderano a tutti i costi un figlio maschio, l'aborto selettivo è la forma estrema di sessismo ed è stata praticata con una tale incidenza che i maschi dell'intera generazione che si avvicina all'età adulta rischiano di non trovare delle partner femminili. La selezione dei figli non deve necessariamente riguardare l'aborto. Da diversi anni ormai, tra le coppie a rischio di passare ai figli malattie genetiche, alcune fanno ricorso alla fecondazione in vitro, generando embrioni che possono essere testati per il gene difettoso, per poi impiantare nell'utero della donna solo quelli che ne sono privi. Ora questa tecnica viene usata anche per evitare di passare ai figli dei geni che rappresentano solo un rischio maggiore di sviluppare un certo tipo di cancro. Poiché tutti hanno in sé qualche gene avverso, non esiste una linea precisa tra la selezione per evitare di far nascere un bambino con i rischi testé menzionati di contrarre una certa malattia e la selezione per avere bambini con prospettive di salute rosee. Conseguentemente, la selezione genetica si sposterà inevitabilmente verso un miglioramento dal punto di vista genetico. Per molti genitori, niente è più importante del dare al figlio il miglior avvio possibile nella vita. Comprano loro giocattoli cari per massimizzare il potenziale di apprendimento e spendono molto in scuole private o per il sostegno extra scolastico nella speranza che lui o lei eccellano nei test che consentiranno loro di essere ammessi alle università di élite. Potrebbe essere dietro l'angolo il momento in cui saranno identificati geni che accrescerebbero le possibilità di avere successo in questi ambiti. Molti condannano ciò come un risorgere dell’eugenetica, l’idea, molto diffusa nella prima parte del ventesimo secolo, che i tratti ereditari dovessero essere migliorati con interventi attivi. Questo risorgere, in un certo senso, è reale e, nelle mani di regimi autoritari, la selezione genetica può rassomigliare all'orrore delle prime manifestazioni dell'eugenetica, con il loro corollario di politiche odiose e pseudo scientifiche e, in particolare, alla "pulizia etnica". Nelle società libere, in quelle a libero mercato, tuttavia, l'eugenetica non sarà imposta in maniera coercitiva dallo Stato per il bene della collettività. Sarà, invece, il risultato delle scelte dei genitori e delle dinamiche del libero mercato. Se questo porterà a una popolazione più sana, più intelligente e con una maggiore capacità di risolvere i problemi, ciò potrà essere un bene. Ma anche se le scelte dei genitori saranno per il bene del loro figlio, potrebbero comunque comportare dei rischi oltre a vantaggi. Nel caso della selezione del sesso, è facile capire come la scelta dei singoli genitori per ciò che possono ritenere il meglio per il proprio figlio, possa avere come esito un danno per i figli nel loro insieme, al contrario di ciò che accadrebbe se nessuno potesse scegliere il sesso del nascituro. Qualcosa di simile potrebbe succedere con altre forme di selezione genetica. Giacché un'altezza fisica superiore alla media è associata a un reddito sopra la media e nella statura c'è una chiara base di tipo genetico, non è fuori luogo immaginare che ci saranno delle coppie che sceglieranno di avere figli più alti. Il risultato potrebbe essere una sorta di "corsa agli armamenti" che porterebbe a bambini sempre più alti con conseguenti maggiori costi ambientali derivanti dai consumi necessari per nutrire esseri umani più robusti. L'implicazione più allarmante di questo tipo di selezione genetica, tuttavia, è che solo i ricchi saranno in grado di permettersela. II divario tra i ricchi e i poveri, già ora una sfida alle nostre idee di giustizia sociale, diventerà un ostacolo che le sole pari opportunità non saranno in grado di superare. Nessuno di noi dovrebbe accettare questo tipo di futuro. Ma impedire che ciò accada non sarà facile, perché esigerà che il miglioramento genetico non sia disponibile per nessuno 0 accessibile per tutti. La prima opzione richiederebbe una imposizione con la forza nonché, dal momento che i paesi non accetterebbero che altri ne ricavassero un vantaggio competitivo, un accordo internazionale perché si rinunciasse ai benefici che questo miglioramento potrebbe portare. La seconda opzione, l'accesso universale, richiederebbe un livello senza precedenti di assistenza sociale per i poveri e scelte straordinariamente difficili su cosa finanziare. L'autore è professore di bioetica all'Università di Princeton. Ha scritto, assieme a Jim Mason, The Way We Lat. Why OurFood Choices Matter (Le nostre scelte alimentari: perché contano). _______________________________________________________ La Stampa 15 nov. ’06 CON I KIT PORTATILI IL DNA COMINCIA A PARLARE SI MOLTIPLICANO LE APPLICAZIONI, DAI CIBI AI NUOVI FARMACI, FINO AL «PROGETTO GENOGRAPHIC» Giordano Stabile UN kit di analisi portatile, con un microprocessore, ci permetterà di riconoscere una farina fatta con grano transgenico da una naturale. Un suo parente stretto, invece, ci dirà se siamo potenzialmente allergici a un farmaco o quale antifiammatorio è più efficace. Aggeggi ad alta tecnologia che renderanno felici i difensori delle biodiversità, anche quella umana, ma che nascono da un progetto figlio della globalizzazione. La parola chiave è bioinformatica, scienza che unisce due campi del sapere in vorticoso sviluppo: genetica ed elettronica. In mezzo secolo siamo passati dalla scoperta del Dna alla mappatura del codice genetico di molte specie, compresa la nostra. Nello stesso arco di tempo calcolatori pesanti 35 tonnellate e capaci di 500 operazioni al minuto sono diventati computer portatili milioni di volte più potenti. Una coincidenza fortunata. Il Dna umano è formato da 3.200.000 «basi», caratteri di un alfabeto composto da sole quattro lettere: i nucleotidi. Leggere il nostro Dna significa ricostruire questa sequenza: per riuscirci sono stati creati computer «sequenziatori» in grado di farlo sempre più rapidamente. E per trovare dentro una sequenza di Dna le porzioni che più ci interessano sono stati sviluppati software basati su algoritmi che rendono automatico il riconoscimento. La multinazionale che ha fatto i maggiori investimenti in questo campo è l’Ibm. Una leadership che ha come ritorno sia prestigio scientifico sia ricadute commerciali, ormai a portata di mano. Tutto ruota attorno al progetto Genographic, la mappatura del Dna umano che Ibm sta sviluppando in collaborazione con la National Geographic Society. Il progetto dovrebbe concludersi nel 2010 e gettare luce definitiva sull'evoluzione della nostra specie, sulle sue origini e le sue migrazioni. Mentre gli antropologi della National Geographic cercavano il Dna tra le tribù più sperdute, Ibm ha messo a disposizione la capacità analitica dei suoi supercomputer e centinaia di migliaia di kit di analisi (costo: 70 euro, ordinabili su Internet: www.nationalgeographic.com/genographic) attraverso i quali chiunque può partecipare alla mappatura: basta prelevare un campione di saliva e mandarlo al centro Genographic di Houston. I primi dati hanno permesso di confermare che il genere umano si è sviluppato in Africa e da lì ha colonizzato gli altri continenti. Ma non è solo l'antropologia a essere interessata. «Si aprono enormi prospettive nel campo della medicina - spiega Ajay Rayyuru, senior manager del Computational Biology Center nel centro di ricerca dell'Ibm a Yorktown -. I dati ci stanno portando a individuare tutti i sottogruppi della specie umana, gli aplotipi. Sapere a quale aplotipo appartiene una persona farà compiere un passo in avanti verso la "medicina individuale"». Finora sono stati individuati una trentina di gruppi. «In futuro potremo sviluppare medicine adatte a ogni aplotipo - continua Rayyuru -, ma anche capire perché si sviluppa una data malattia e se una persona è predisposta ad ammalarsi». Sarà una medicina «predittiva». L'idea dei ricercatori è quella di studiare una serie di aplotipi in persone malate di diabete, per esempio, e di confrontarli con quelli di persone sane: se si scopre che un aplotipo è più frequente nei malati, lo si potrà analizzare più in dettaglio ed eventualmente sfruttarlo per predire il rischio di malattia. L'altra ricaduta di Genographic è lo sviluppo del «bar coding». Per capire come si sono spostati gli esseri umani negli ultimi 150 mila anni i ricercatori hanno dovuto individuare porzioni di DNA che non cambiavano nel corso dei millenni. Si chiamano «maker»: i migliori si trovano in piccole porzioni del cromosoma Y negli uomini e nei mitocondri cellulari (pezzetti di Dna che sovrintendono ai processi di respirazione nelle cellule, formati da sole 20 mila lettere, o «basi», più facili da analizzare) nelle donne. Seguendo questi maker, si ricostruisce l'evoluzione dei sottogruppi. Ma i marker potranno essere usati anche per il riconoscimento di altre specie. Nel centro di ricerca dell'Ibm a Bari, per esempio, si studiano possibili applicazioni in agricoltura. Se si individua il maker di un tipo di grano o di uva, si può capire se una determinata farina è fatta con quel grano e se un determinano vino viene da quell'uva. Un bel paradosso: l'informatica che aiuta l'agricoltura tradizionale. Ritaglio _______________________________________________________ La Stampa 15 nov. ’06 NEGLI OSPEDALI USA LA MUSICA IN CORSIA FA GUARIRE PIÙ IN FRETTA Si diffondono in molte istituzioni gli esperimenti con l'arteterapia «abbassa l'ormone dello stress e aumenta la produzione di endorfine» Christine Larson Un giorno il cercapersone di Judy Nguyen è impazzito. AL Tallahassee Memorial Health Care, in Florida, un bambino di due anni doveva fare un ecocardiogramma, un'immagine a ultrasuoni del cuore. Nguyen si è precipitata nella sala d'attesa e, dopo aver incontrato il paziente e la sua famiglia, ha mostrato al piccolo quali strumenti avrebbe usato durante l'esame: una chitarra, un pupazzo e un tamburo. Come terapista musicale dell'ospedale, Judy offre ogni mese da 350 a 400 sedute di musicoterapia. Quel giorno ha cantato una vecchia canzone popolare negli Usa come «Old MacDonald Had a Farm» e, con l'aiuto di un burattino, ha spiegato al piccolo il funzionamento della sonda: «Gli ho raccontato di come doveva togliersi la maglietta e mostrarci i suoi muscoli e del gel che gli avrebbero messo sul petto». Mentre il tecnico eseguiva il test, la terapista suonava la chitarra e il bambino giocava con il tamburo. Il risultato: niente pianti e grida, solo un paziente tranquillo e sereno. Dal mito alla realtà Judy fa parte di una corrente di pensiero - oggi in forte crescita - che associa la musica, la scrittura e le arti visive al trattamento clinico del paziente. Mentre nei secoli passati fuso delle arti, all'interno di un processo di guarigione, veniva associato a pratiche religiose, ora una serie sempre più numerosa di studi dimostra che il loro ruolo non può limitarsi a placare indoli scatenate: il sollievo dal dolore e le guarigioni più rapide sono un dato di fatto. Da un'indagine della «Joint Commission on Accreditation of Healthcare Organizations» è emerso che 2 mila ospedali negli Usa finanziano programmi di arte-terapia. E non solo. Molte istituzioni offrono anche corsi di letteratura, pittura e scienze sociali e molti ospedali creano giardini e gallerie d'arte terapeutici e spingono i ricoverati a scegliere le riproduzioni di opere e capolavori per arredare le loro stanze. «Ci sono ormai molte prove del fatto che i pazienti coinvolti in attività artistiche sopportano meglio le cure e le difficoltà della malattia», spiega Harry Jacobson del «Medical Center» della Vanderbilt University a Nashville, Tennessee. Dolci ninnananne Il trend si diffonde: il nuovo «Louis Armstrong Center for Music and Medicine» - che è una sezione del Beth Israel Medical Center di New York - studia gli effetti della musicoterapica sui bambini asmatici e su adulti con problemi cardiaci e polmonari. «Le terapie funzionano più rapidamente, se accompagnate dalla musica», spiega la direttrice, Joanne Loewy. Sul «Journal of PeriAnesthesia Nursing» ha dichiarato che le ninnananne sono più efficaci di qualsiasi sedativo nell'addormentare i bambini prima di sottoporli a elettroencefalogramma. Non è un caso che negli ultimi anni i camici bianchi (e molti pazienti) vogliono rendere la medicina più umana. «Essersi focalizza ti sempre di più su tecnologie ipersofisticate ha spesso trascurato l'aspetto umano ed emozionale», sottolinea Nancy Morgan, direttrice del «Lombardi Comprehensive Cancer Center» della Georgetown University, a Washington DC, dove i malati possono partecipare a lezioni di danza oltre che a gruppi di scrittura, scultura e disegno. Sia la scrittura sia le arti visive, infatti, giocano un ruolo nel ridurre il dolore e molti sintomi delle malattie. Il motivo? Probabilmente danno al paziente un modo per ridurre lo stress e per «processare» molti traumi. E' stato nell'86 che James Pennebaker - psicologo della University of Texas-Austin - ha scoperto che scrivere le proprie esperienze traumatiche migliora le condizioni di chi soffre di problemi cronici. Ora applica questa metodologia a un gruppo di marines di ritorno dall'Iraq. Non c'è da meravigliarsi, quindi, se si moltiplicano gli ospedali che hanno lanciato gruppi di scrittura per aiutare la guarigione, fisica e psicologica. Il centro cSutter Health» di Sacramento, in California, propone incontri creativi all'interno dell'«Arts and Medicine Program», in cui i partecipanti scrivono racconti e poesie e li leggono ad alta voce, mentre i compagni sono invitati a commentare. «Avevo un paziente con una grave forma di asma - racconta uno degli assistenti, Maxine Barish-Wreder -. Ora è migliorato». Reazioni nel corpo Oggi gli scienziati stanno cominciando a studiare quello che avviene nel nostro organismo quando scriviamo una lettera, dipingiamo un autoritratto o ascoltiamo la nostra canzone preferita. La psicologa Denise Sloan della Temple University di Philadelphia, Pennsylvania, ha dimostrato che, dopo aver svolto una serie di esercizi di scrittura, i soggetti presentano livelli molto bassi di cortisolo, l’ormone dello stress che può avere degli effetti sul sistema immunitario. Ed è sorprendente che uno studio su un gruppo di malati di AIDS, che quotidianamente compongono poesie o racconti, abbia rivelato come le loro quantità di cellule-T siano più alte dello standard. «Abbiamo concluso che la musica possa provocare cambiamenti neurologici in specifiche parti del cervello», dice Mark Jude Tramo, neurologo della Harvard Medica School e direttore dell'cInstitute for Music and Brain Science» di Boston; Massachusetts. Queste zone, infatti, sono associate alle sensazioni di benessere. «La musica è uno stimolo potente, tanto che ascoltarla può aumentare la produzione delle endorime, che sopprimono il dolore, e di immunoglobuline, che contribuiscono a rafforzare il sistema immunitario». I benefici si sono dimostrati tangibili in 111 donne malate di cancro: secondo lo studio sul «Journal of Psycho-Oncology» di Daniel Monti, direttore del «.Tefferson-Myrna Brind Center of Integrative Medicine» del Thomas Jefférson University Hospital di Philadelphia, i pazienti che partecipano alle sedute di arte-terapia dormono meglio e sono più rilassati. Risparmi per gli ospedali Le prove dei poteri benefici dell'arte sono esplose nel momento in cui ospedali e società di assicurazione tagliano i costi e l'arte-terapia si rivela di aiuto. La musica suonata dal vivo in un reparto neonatale aiuta i bambini prematuri e contribuisce a fare sì che possano essere portati a casa 12 giorni prima, facendo risparmiare all'ospedale 12 mila dollari al giorno, dice Jayne Stanley, musicoterapeuta della Florida State University. E' chiaro che le arti non possono rimpiazzare le cure mediche. E tuttavia sono di aiuto. D'altra parte la musicoterapia non è una disciplina improvvisata: per praticarla negli Usa occorrono un master e un anno di praticantato. E gli studi proseguono. I legami tra arte e scienza sono al centro del programma «Art and Humanities Medical Scholars»: a organizzarlo è la Standford University. Copyright US News and World Report AmericanArt Therapy Association: http://www:arttherapy.org/ Art Therapy Italiana: http://www:arttherapyit.org/ International Expressive Arts Therapy Association: httpa/www.ieata.org NYC Art Therapy: http://www.rtycart therapy.com/ Artists Helping Children: http://www.artists helpingchildren.org/ _______________________________________________________ Management della Sanità nov. ’06 L’ICT AL SERVIZIO DELLA SALUTE II cittadino è co-responsabile dei processi assistenziali e di cura che lo riguardano. E va incoraggiato ad utilizzare a) meglio i molti strumenti oggi a sua disposizione Nel numero scorso abbiamo visto l’evoluzione del settore della sanità elettronica da "informatica medica" a dell’informatica sanitaria a e-sanità (e- health), fino alla imminente "sanità in rete" (connected health). Abbiamo visto che si comincia a guardare con un occhio nuovo ai percorsi assistenziali e ai modelli organizzativi innovativi, e quindi alla continuità dell'assistenza, all'integrazione tra servizi sociali e servizi sanitari, alle reti per patologia, con (n'attenzione Particolare verso le fasce deboli di popolazione. Abbiamo anche approfondito una valutazione quali-quantitativa sui possibili interventi mirati a migliorare (a qualità e l'appropriatezza del processo assistenziale, rivolti soprattutto agli operatori sanitari. IL CITTADINO IN RETE Vogliamo qui affrontare un'altra tematica emergente della sanità in rete: contribuire a rendere corresponsabile il cittadino - paziente nella gestione della propria salute (consumer empowerment, patient engagement). Da una parte un uso appropriato dell'ICT può avvicinare i cittadini al sistema sanitario, favorendo la comunicazione con gli operatori c un accesso più appropriato ai servizi. Dall'altra può influire in nodo positivo sugli stili di vita e sull'aderenza alle terapie O prevenzione attiva). Inoltre può promuovere la consapevolezza dei propri diritti e la trasparenza delle decisioni e degli atti assistenziali. I servizi possono essere concepiti in nodo da superare per quanto possibile il digital divide, utilizzando in modo coerente diversi canali (es. internet, SMS, totem, palmari, sportelli unificati, call centres;, basati sui principi e conoscenze comuni. L'autonomia del Paziente può giovarsi anche di apparecchiature domotiche sempre più sofisticate (strumenti di misura, sistemi di allarme e di controllo, sistemi di comunicazione dedicati). Ovviamente la disponibilità di servizi non è in grado da sola di modificare il comportamento dei cittadini: si tratta piuttosto di una nuova opportunità da affiancare ai canali esistenti. Gli interventi possono riguardare diversi aspetti: - la comunicazione con operatori sanitari; - l'accesso all’informazione sulla salute; - la competenza adeguata sulla salute e sulle pratiche amministrative - le comunità di pazienti; - l'autogestione della propria salute, secondo le proprie capacità. IL PATIENTE EMPOWERMENTE SECONDO L’OMS La regione europea dell'Organizzazione Mondiale della Sanità ha adottato una descrizione del patient empowerment(PE), basata sulla dichiarazione del Foro Europeo delle Associazioni Mediche (Dubrownik, aprile 2004): .. Il PE è rivolto a supportare l'autonomia del paziente per tutti gli aspetti che riguardano la sua salute" .. "riconosce che il PE è rilevante per stabilire una collaborazione tra medico e paziente, accetta che questo concetto abbia benefici per i pazienti e per i medici in quanto può migliorare l'aderenza del paziente ai trattamenti e la comprensione della propria condizione, nota che il PE include anche la responsabilità del paziente verso la propria salute, riconosce che la struttura del sistema sanitario può costituire un vincolo per l’implementazione del PE (es. per la mancanza di tempo o la limitatezza delle risorse?, incoraggia i medici a individuare i molti fattori (es. educazione, età, cultura, tradizioni, genere, condizioni economiche) che possono influenzare il PE, nota che l'approccio basato solo sulla regolamentazione ha un effetto limitativo nel promuovere il PE e riconosce il valore nel definire accordi su questo argomento attraverso il dialogo tra il pubblico e i medici " ALCUNE SOLUZIONI ICT PER IL PE Lo sforzo maggiore non è finanziario, ma politico e organizzativo. Infatti il ritorno economico diretto non è lo scopo principale: si tratta di interventi strutturali di medio-lungo periodo per aumentare la soddisfazione degli utenti, per renderli partecipi e consapevoli del processo di cura, per migliorare la qualità complessiva dei processi assistenziali, che alla fine porterà ad un impatto sensibile sia sulle risorse impiegate, sia sullo stato di salute della popolazione. La tabella 1 riporta alcuni esempi di interventi che mirano a facilitare il coinvolgimento proattivo del cittadino-paziente verso la propria salute. A questi interventi andrebbe aggiunto il libretto personale elettronico (PHR; Personal Health Record), uno strumento ancora poco diffuso. Nella versione più semplice è un sita web sicuro, in cui le informazioni vengono inserite dal paziente stesso; nelle versioni più complesse è alimentato direttamente dalla documentazione elettronica originale. La versione elettronica del libretto sanitario ad uso dei cittadini può comprendere, oltre ti dati clinici, diverse altre componenti: gestione appuntamenti e scadenze, catalogazione efficace della posta elettronica, annotazioni del paziente, schede informative e questionari mirati ai principali problemi del paziente. Nel numero scorso abbiamo visto che è possibile. caratterizzare i benefici e la fattibilità di ogni linea d'azione secondo una griglia esplicita di fattori, che riguardano quattro dimensioni: i fattori economici diretti, i benefici sistemici, la fattibilità tecnologica e la fattibilità culturale. Per ogni fattore, può essere attribuito un punteggio da 1 (non significativo) a 4 (molto favorevole), rendendo confrontabili le valutazioni soggettive effettuate da diversi esperti e permettendo di sintetizzare un punteggio complessivo per ogni dimensione. In tabella 2 viene mostrata una possibile valutazione del complesso di interventi sul coinvolgimento del cittadino elencati in tabella 1. Una sintesi grafica della valutazione viene riportata in figura l, messa a confronto con l'analisi riportata nel numero scorso sugli interventi sul percorso assistenziale e le azioni per il coinvolgimento del cittadino non hanno riscontri economici diretti, ma diversi servizi sono già attivi o possono essere messi in atto presto. e troverebbero un'ottima accoglienza. Possono avere un forte impatto sul sistema sanitario nel lungo peri0do, soprattutto sulla prevenzione attiva delle conseguenze delle malattie croniche; e l'ottimizzazione dei processi assistenziali mediante l’ICT può anch'essa portare nel lungo periodo a benefici per il sistema sanitario e la salute dei cittadini, ma richiede ancora dei progressi negli aspetti culturali e presenta ostacoli nell'implementazione su larga scala. _______________________________________________________ Management della Sanità nov. ’06 CARTELLA CLINICA, QUALE FUTURO? Grazie alle nuove tecnologie il percorso clinico dei pazienti conosce nuove dinamiche, ed è al centro di un'accelerazione dei processi. Se ne é parlato a Milano all'evento organizzato dall'Aidos Passato, presente e futuro di uno strumento di uso comune, che oggi beneficia dell'impatto delle nuove tecnologia. (l tema della cartella clinica, nelle sue accezioni sia di contenuto che di forma (più o meno elettronica) è stato oggetto di due giorni di convegno promosso dall’Aidos, Associazione Italiana Documentazione Sanitaria tenutosi presso l'Istituto Europeo di Oncologia di Milano, e presieduto da Leonardo La Pietra, Direttore Sanitario dell'Istituto Europeo di Oncologia di Milano. Gli oltre 200 intervenuti hanno assistito agli interventi di esperti internazionali, medici e professionisti in ambito Ict che hanno tracciato le) stato dell'arte della cartella clinica, con diversi spunti di interesse. Elio Guzzanti, Direttore Scientifico dell'Ircc "Oasi" (Enna), che ha aperto le letture magistrali, ha affermato che: "La cartella clinica è sempre stata, sin dai suoi esordi, uno strumento finalizzato alla continuità assistenziale, uno spazio nel quale collocare anche le informazioni, in fase di dimissione, dedicate espressamente al paziente e al medico curante. La cartella rispecchia il comportamento tenuto da medico e paziente durante la degenza. In pratica, se compilata con attenzione, riesce ad andare in profondità nel vissuto del paziente. Secondo il mio parere il medico, quando si trova a compilare i campi di un documento del genere, il medico diventa anche un po' enologo, deve avere la capacità di comprendere tutto ciò che sta dietro al paziente, e in questo senso avere una visione olistica del soggetto". Da un punto di vista prettamente tecnologico, le aziende sanitarie e gli ospedali si stanno muovendo per informatizzare uno strumento che, abbiamo visto, necessita molta flessibilità. I fornitori di servizi It si stanno muovendo in questo senso, ma il cammino è all'inizio, come spiega Francesco Pinciroli del Politecnico di Milano: "Poca è la soddisfazione degli utenti nei confronti delle applicazioni informatiche. Tra le ragioni vi sono anche persistenti incapacità degli strumenti di soddisfare le esigenze che i medici hanno". Si tratta, forse di cambiare mentalità: mentre la compilazione a penna di una cartella cartacea, la raccolta eseguita fisicamente a mano in un faldone di documenti e lastre, sono azioni che chiunque esegue con facilità, "L'introduzione delle tecnologie dell'informazione costringe ad abbandonare aspetti di gestione spesso avvertiti come molto utili e naturali". Tra i bisogni ultimi che non possono essere disattesi, vi sono ovviamente le funzioni che sono utili a curare meglio il paziente e che sono insostenibili da svolgere a mano. Da un punto di vista generale, e anche informativo, gli scopi di compilazione di una cartella sono molteplici, e a volte conflittuali: "Da quello di testimonianza notarile a quello di `evocatore negli utenti di conoscenze implicite pregresse, allo scopo di 'archiviazione'. Per questo motivo la flessibilità è fondamentale, nel momento in cui viene richiesto alla tecnologia di adattarsi alle richieste dei medici". IL FASCICOLO SANITARIO PERSONALE La diffusione della telematica e dell'accesso tramite rete alle cartelle Cliniche elettroniche fa prevedere la realizzazione di tre tipi di strumenti, il Fascicolo Sanitario Personale, il Libretto Sanitario Personale e la lavagna di interazione. E’ l'opinione dell'Unità Sanitaria Elettronica dell'Istituto di Tecnologie Biomediche fel CNR di Roma, nelle parole di Angelo Rossi Mori: 1l Fascicolo Sanitario Personale - FaSP - è la cartella clinica virtuale di un assistito, che permette agli operatori di accedere a una sintesi di tutte le informazioni cliniche rilevanti dalla nascita in poi, indipendentemente dalla struttura sanitaria in cui sono state raccolte. E da quegli stessi dati sarà possibile estrarre indicatori di processo e di outcome tempestivi e affidabili che, resi opportunamente anonimi, potranno essere usati per scopi di sanità pubblica e per la governance delle strutture. La realizzazione del Fascicolo richiede un'infrastruttura di base per la condivisione di documenti clinici in rete in modo sicuro, un controllo degli accessi, la gestione delle anagrafiche degli assistiti, dei professionisti e delle strutture". Il Libretto Sanitario Personale è stato finora realizzato in modi estremamente diversi. Nella forma più semplice si tratta di un sito web in cui il cittadino ricopia i propri dati. Forme più evolute prevedono l’integrazione a partire dal Fascicolo Sanitario Personale, La lavagna di interazione, conclude infine Rossi Mori: "E' uno strumento di collaborazione, che facilita la sincronizzazione delle attività tra le diverse tipologie di attori che agiscono contemporaneamente sul cittadino-paziente. Lo strumento può essere esteso anche agli aspetti sociali, di competenza nei comuni. A differenza del FaSP, la lavagna è concepita per seguire il ciclo di vita di Una prestazione in percorsi assistenziali collaborativi: prescrizioni, prenotazioni, esecuzioni, rapporti. In Italia le regioni stanno predisponendo l'infrastruttura per il l’Asl a partire dai principi di riferimento sviluppati da Innovazione Italia per conto del ministero dell'Innovazione, mentre in Spagna alcune regioni hanno già iniziato la fase operativa". I BENEFICI DELL'INFORMATIZZAZIONE - Sostenibile controllo di qualità dei dati, che deve essere eseguito al momento della loro raccolta nel modo più automatico possibile - capacità di archiviare grandi quantità di dati - affidabilità, la laboriosità e la flessibilità delle interrogazioni consentite, anche se rimangono semplici - elevata velocità di esecuzione delle operazioni informatiche. _______________________________________________________ La Repubblica 17 nov. ’06 VERONESI: TRA DIECI ANNI ADDIO ALLA CHEMIO Veronesi: ecco gli obiettivi della maratona Airc per il 2007 ELENA UUSI ROMA - "Dai geni del cancro nascono nuove cure". Con un paradosso che dischiude un messaggio di speranza, l’Airc (Associazione italiana per la ricerca sul cancro) promuove anche quest'anno la sua giornata nazionale per la cura dei tumori. «I geni malati e le proteine da essi prodotte sono il vero bersaglio delle cure - spiega l'oncologo Umberto Veronesi - e puntando sui farmaci intelligenti manderemo in soffitta le vecchie terapie, che tanti effetti collaterali provocano ai pazienti. Un paio di quinquenni, e la parola chemioterapia sarà solo un brutto ricordo». L'Airc, insieme alla consorella Firc (Fondazione italiana per la ricerca sul cancro) da sola in Italia finanzia il40 per cento delle sperimentazioni nel campo dei tumori. «Solo in Gran Bretagna i privati hanno un ruolo altrettanto importante» ha detto Maria Ines Colnaghi, direttore scientifico dell'Airc, nel lanciare la maratona annuale per la raccolta fondi. A trainare la campagna, come accadde da 12 anni a questa parte, sarà la Rai. Dal 20 al26 novembre in programma appuntamenti di sensibilizzazione nei confronti della malattia, con testimonial famosi disposti a raccontare la loro battaglia personale e ricercatori pronti a impugnare il microfono per descrivere nel concreto il loro lavoro. I tumori colpiscono in Italia ogni anno 250rnila persone. «Le percentuali di guarigione – ha spiegato Veronesi - raggiungono oggi il 60 per cento, ma noi siamo convinti di poterle portare molto più in alto». La staffetta perla raccolta fondi avrà il suo culmine il weekend del 25 e 26, con il tabellone che in diretta Tv aggiornerà il bilancio dei fondi garantiti alla ricerca. Le donazioni si possono effettuare dal sito www.airc.it, attraverso il numero verde 800350350 o digitando il 48545 (in questo caso ci sarà un addebito automatico di 2 0 5 euro nella bolletta). E che investire nella ricerca paghi è dimostrato proprio oggi dai risultati ottenuti contro il cancro del colon-retto da un'équipe dell'Istituto Tumori di Milano, guidata da Ermanno Leo. La sperimentazione, che per il momento è limitata a 9 pazienti particolarmente gravi, ha dimostrato che è possibile scatenare il sistema immunitario dell'organismo contro le cellule del tumore, senza coinvolgere quelle sane. Punto di partenza è stata la scoperta - avvenuta negli anni scorsi sempre all'Istituto Tumori - di una proteina presente in grandi dosi solo nelle cellule malate (la survivina). Con un vaccino disegnato ad hoc, Leo e i suoi colleghi hanno insegnato al sistema immunitario a riconoscere e attaccare le cellule dove la survivina è presente. «E' solo un primo passo - ha commentato Leo - ma ci avviciniamo al momento in cui potremo disporre di un vaccino curativo contro il tumore del colon-retto». Il test conferma che è sui geni - e sulle loro proteine - che occorre puntare per combattere i tumori. _______________________________________________________ Libero 17 nov. ’06 STOP AI TRAPIANTI, IL VECCHIO CUORE BASTERÀ In Inghilterra diversi pazienti colpiti da grave insufficienza circolatoria sopravvivono da anni col semplice aiuto di una perfetta pompa cardiaca e di un cocktail di farmaci personalizzati Data Pagina Foglio GIANLUCA GROSSI Vincere la insufficienza cardiaca grave è possibile solo con un trapianto cardiaco. Ma oggi grazie al lavoro di un gruppo di medici dell'Imperial College e del Brompton Hospital di Londra si può pensare seriamente di mantenere in vita anche pazienti destinati alla sostituzione dell'organo cardiaco. La notizia è pubblicata sulle pagine della rivista New England Joumal of Medicine. Gli studiosi anglosassoni quattro anni fa hanno preso in cura quindici giovani colpiti da grave insufficienza cardiaca: la loro vita era appesa a un filo e solo un trapianto avrebbe potuto salvargli dalla morte. Tuttavia i medici inglesi hanno tentato una strada diversa. Una strada che nell'88 percento dei casi si è rivelata efficace. Infatti hanno applicato ai pazienti malati di cuore una pompa cardiaca (collegata all'aorta, al ventricolo sinistro e a una batteria esterna) con un cocktail di farmaci specifico in grado di vincere l'atrofia del muscolo miocardico. Il risultato è stato stupefacente. Undici dei quindici pazienti trattati hanno recuperato la funzione cardiaca e ad otto di essi è stata rimossa la pompa cardiaca dopo un solo anno dal test. Risultato: otto sono ancora in buone condizioni di salute, quattro hanno dovuto sottoporsi a trapianto e tre sono deceduti a causa di complicazioni. Prima di questo esperimento si erano già ottenuti interessanti risultati con la sola applicazione della pompa cardiaca. Attualmente le pompe cardiache che aiutano il ventricolo sinistro a pompare sangue nell'organismo hanno raggiunto livelli di perfezione assoluta. Ma di solito questo sistema viene impiegato solo per chi è in attesa di trapianto: in sostanza la pompa cardiaca serve esclusivamente da ponte temporaneo tra lo stato di insufficienza cardiaca cronica e l'innesto di un organo nuovo. Per conseguenza il successo della nuova terapia è in gran parte dovuto ai farmaci e consentirebbe di sopperire alla carenza perenne di argani. Le medicine impiegate per aiutare il cuore a riprendere. la sua funzionalità sono soprattutto gli ace-inibitori,: i sartani, i diuretici e ì- betabloccanti. Sono tutti farmaci impiegati di consueto per tenere sotto controllo la ipertensione. Gli ace-inibitori bloccano l’enzima che converte l’angiotensina I in angiotensina II, ormone legato alla sclerosi dei vasi. I sartani sono antagonisti dell'angiotensina II. I diuretici aiutano ad eliminare i liquidi corporei abbassando il carico ai danni delle arterie. Infine i beta-bloccanti, sono antagonisti della noradrenalina e servono a ridurre il battito cardiaco. _______________________________________________________ Avvenire 17 nov. ’06 VACCINO CONTRO I TUMORI AL COLON-RETTO Prima sperimentazione a Milano MILANO. Addestra i linfociti, i «soldati» del sistema immunitario, e li arma contro le ricadute del cancro, «congelandone» la crescita ed evitando metastasi. Sono i risultati preliminari di un vaccino terapeutico italiano contro il tumore del colon-retto, la seconda neoplasia killer tra uomini e donne con 45mila nuovi casi e 18mila morti fanno solo in Italia. I primi successi del siero, un «prodotto artigianale» messo a punto e prodotto dalla Fondazione Irccs, istituto nazionale tumori di Milano, sono stati anticipati ieri e saranno illustrati agli scienziati durante il settimo simposio internazionale dell’Areco (Associazione per la ricerca europea in chirurgia oncologica Onlus) che si terrà da domani nel capoluogo lombardo. La prima fase della sperimentazione - spiegano Ermanno Leo, presidente Areco e direttore dell'Unità operativa di Chirurgia dei tumori colo- rettali dell'Int, e Giorgio Parmiani, capo della Struttura complessa di Immunoterapia dei tumori - è stata autorizzata su 15 pazienti «giunti all’ultima spiaggia», ed è partita nel giugno 2005 grazie ai fondi offerti da Areco con il contributo dell'Associazione italiana per la ricerca sul cancro (60mila euro). II vaccino, che si inocula sotto pelle, contiene frammenti di due proteine presenti sulla superficie delle cellule tumorali. Dei 9 malati coinvolti, 5 hanno completato il ciclo di vaccinazione: in tutti il tumore è stato bloccato e in due individuata una reazione immunitaria specifica. _______________________________________________________ Libero 17 nov. ’06 II SAN RAFFAELE INVENTA IL FARMACO PERSONALIZZATO La pillola intelligente Dall'ospedale medicine su misura contro ansia, vertigini, sclerosi e tumori LORENZO MOTOLA Una medicina creata su misura del paziente per curare le malattie del cervello. Questa l'innovativa idea dei ricercatori del San Raffaele di Milano, guidati in questa operazione dal professor Giancarlo Corni, direttore dell'istituto di neurologia sperimentale. «Ogni medicina» dice Corni «ha in sè degli effetti positivi e degli effetti negativi sull'organismo. Il nostro tentativo è quello di ridurre al minimo quelli negativi approfondendo la conoscenza del paziente e intervenendo in modo chirurgico sulle patologie». In pratica, i medici del San Raffaele sono oggi in grado di effettuare una accurata analisi - della struttura molecolare della materia grigia del malato e di creare così un farmaco personalizzato. I vantaggi essenzialmente sono due: si migliora l'efficacia della cura e si minimizzano gli effetti collaterali. «L'analisi molecolare - spiega il professor Corni - consente di individuare i meccanismi in base ai quali si sviluppa una malattia in ciascun individuo. Una volta che si conosce il modo in cui la patologia aggredisce il nostro corpo, è possibile costruire in laboratorio un farmaco ad hoc in grado di curare la specifica malattia nel singolo malato». Alla creazione del "farmaco intelligente" partecipa in prima persona anche il paziente stesso. Il malato è, infatti, tenuto a spiegare nei minimi particolari come il suo corpo e la sua mente reagiscono alla patologia e, successivamente, alla terapia. «Oltre a ridurre la tossicità del farmaco - spiega l'ex ministro della Salute Girolamo Sirchia - questo sistema consente di evitare di somministrare sostanze nocive senza ragione. Per esempio, capita che il principio attivo di determinati medicinali non abbia alcun effetto su alcuni individui. Analizzando il genotipo del paziente di evita così di utilizzare medicine inutili». Secondo i ricercatori del S.Raffaele, questo nuovo tipo di cura risulterà particolarmente indicata per affrontare patologie quali l'insonnia, l'ansia, la depressione, le vertigini, demenze e dipendenze psichiche, la sclerosi multipla, i tumori cerebrali, la distrofia muscolare e gli ictus. RICERCATORI DOMANI Questo nuovo progetto dei ricercatori del S.Raffaele verrà presentato sabato nell'ambito dell'iniziativa "porte aperte alle neuroscienze". Per un giorno i laboratori di ricerca dell'ospedale milanese potranno essere visitati da tutti. La mattinata sarà dedicata agli studenti. «La prima parte del progetto riguarda i "ricercatori del domani - spiega il professor Corni - I ragazzi potranno vedere coi loro occhi come e dove si effettua una ricerca medica e confrontarsi con questa realtà per valutare le loro future potenzialità». Nel pomeriggio il S.Raffaele potrà quindi essere visitato da chiunque. Più di trenta seminari verranno tenuti da alcuni dei più importanti neurochirurghi italiani e con loro i cittadini potranno confrontarsi per approfondire la loro conoscenza sul funzionamento del cervello umano. «Il nostro obiettivo - spiega il professor Corni - è quello dì rendere migliore l'approccio dei pazienti con l'ospedale, reso spesso ostico da una scarsa conoscenza della medicina». «Ogni medicina ha in sè degli effetti positivi e degli effetti negativi sull'organismo. Il nostro tentativo è quello di ridurre al minimo quelli negativi approfondendo la conoscenza del paziente e intervenendo in modo chirurgico sulle patologie» _________________________________________ il Giornale 19 nov. ’06 LONDRA: DIVENTA REATO TENERE IN VITA IL MALATO A OGNI COSTO Erica Orsini da Londra Rischieranno il carcere i medici britannici che praticheranno l'accanimento terapeutico. Questo almeno è ciò che prevede il Mental Capacity Act, un nuovo pacchetto di leggi in vigore in Gran Bretagna dalla prossima primavera, destinato a regolamentare la condotta «etica» di medici, infermieri e assistenti sociali. Tra le novità della riforma, promossa dal ministro della Giustizia Lord Falconer con il pieno sostegno di quello alla Sanità Patricia Hewitt, quella che sta già facendo molto discutere è l'intenzione del governo laburista di dare potere legale alle volontà dei pazienti che, in piena facoltà d'intendere e di volere> abbiano lasciato una disposizione scritta in cui si esprime il desiderio di non venire tenuti in vita artificialmente. Da quanto spiega il Daily Mail, il Mental Capacity Act affronta la questione del diritto a morire mettendosi dalla parte del paziente che richiede di esercitarlo, ma obbliga tutti gli operatori sanitari a rispettare queste volontà, pena una condanna penale per violenza (fino a cinque anni di carcere) o nella migliore delle ipotesi un risarcimento danni. Una pre sa di posizione netta, quella, di Falconer, che a molti non piace per nulla. I più critici ritengono che la sua approvazione equivalga ad un muto e vigliacco assenso all'eutanasia, concetto forse troppo forte sul quale legiferare ma che in questo modo viene fatto «passare dalla porta sul retro». Certo, la legge di Lord Falconer dice anche che i medici possono dichiararsi obiettori di coscienza e rifiutarsi di «staccare la spina» per ragioni religiose e morali, ma continua affermando che saranno costretti a passare il caso ad altri colleghi senza troppi dubbi etici. «Così aumenta il rischio - ammonisce ancora il Mail - che la famiglia o gli amici del paziente che ha chiesto di essere lasciato morire, privati di un'eventuale guadagno finanziario derivante dalla sua morte, siano sempre più portati a trascinare in tribunale il medico che si è rifiutato di ucciderlo». «Molte disposizioni da parte dei pazienti sono state sottoscritte ignorando completamente le loro implicazioni letali o l'esistenza di cure alternative -ha dichiarato Jacqueline Laing, insegnante di diritto alla London Metropolitan University -. Questa legge tende solo a criminalizzare i medici che tentano di salvare una vita». Sarà vietato 'accanimento terapeutico In primavera scatteranno le nuove norme NUOVA LEGGE ____________________________________________________ La Nuova Sardegna 15 nov. ’06 NEVROTICI O DISPONIBILI: È SCRITTO NEI GENI Pubblicato lo studio Progenia condotto dal team del professor Cao MILANO. Nel cuore della Sardegna, a Lanusei, Elini, Arzana e Ilbono, abitano persone che possono essere considerate veri laboratori genetici viventi. I geni di 6000 di loro, come quelli di tutti, possono influenzare il rischio di sviluppare malattie, o le caratteristiche fisiche come altezza e colore dei capelli. Ma nel DNA di questi sardi gli scienziati sono riusciti a leggere un legame in più: quello tra i geni e il comportamento umano, come l’atteggiamento nevrotico, la disponibilità verso le altre persone o l’essere estroversi. Un’influenza del genoma (almeno in parte) ereditabile, che sembra più spiccata per le donne. La scoperta arriva dallo studio Progenia, recentemente pubblicato su Plos Genetics, condotto del team di Antonio Cao del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Cagliari e finanziato dal National Health Institute, l’istituto per la salute americano. Lo scopo dei ricercatori era quello di identificare, nel DNA degli abitanti di questi paesini sardi, delle zone che fossero geneticamente importanti per l’insorgere di alcune malattie comuni, come l’ipertensione o il diabete. Ma la ricerca si è focalizzata anche sui tratti della personalità di questi abitanti, come la disponibilità o l’estroversione, per un totale di 98 tratti quantitativi. Perchè proprio gli abitanti di questi paesini sardi? Perchè «i tratti, specialmente quelli più complessi, possono essere influenzati da una molteplicità di fattori sia genetici che ambientali - si legge nello studio -. In popolazioni relativamente isolate, come quelle di questi paesini sardi, c’è un’omogeneità sia genetica che ambientale maggiore, e questo facilita le analisi». «Quello che abbiamo trovato - spiegano i ricercatori - è una componente genetica correlata in maniera significativa con ciascuno di questi tratti. In media, i geni possono spiegare il 40% della variabilità di 38 diversi parametri del sangue (come ad esempio il livello del colesterolo buono HDL, o di quello cattivo LDL); il 51% della variabilità di 5 misure antropometriche (come altezza, peso e circonferenza vita); il 20% di 20 diverse misure di funzione cardiovascolare, e il 19% di 35 diversi tratti della personalità». In pratica, per fare qualche esempio: il livello di colesterolo cattivo di una persona è in media dovuto al 40% dai geni, e al 60% da fattori ambientali; l’altezza, al 51% dai geni e al 49% dall’ambiente; e la disponibilità verso altre persone al 19% dai geni, e all’81% dall’ambiente. E se le differenze dei parametri fisici come altezza e peso sono quasi ovvie, tra uomo e donna - continuano gli scienziati - le differenze nel comportamento lo sono un pò meno: l’ attitudine a sviluppare nevrosi, ad esempio, o la tendenza ad essere estroversi, è influenzata dai geni al 30% per le donne, ma solo al 20% per gli uomini. Sembra addirittura esserci un legame tra la variabilità di questi parametri e l’età della persona: «Ad esempio - si legge nello studio - i nostri risultati mostrano che un tratto come la pressione sanguigna ha una bassissima ereditarietà in individui con meno di 40 anni, mentre la correlazione è più forte in persone over 40. La nostra idea è che, a tutte le età, gli alleli (cioè le possibili varianti di un gene) possano nel tempo accumulare l’effetto che hanno su determinati tratti». In questo modo si spiegherebbe perchè gli scienziati’leggono’ una possibile ereditarietà di alcuni tratti solo da una certa età in su. Quel che rimane da fare in studi futuri, concludono i ricercatori, è analizzare l’ereditarietà per quei tratti che sono sensibili ai principali fattori ambientali, come i farmaci per la pressione alta, il fumo di sigaretta o il consumo di alcool. ____________________________________________________ La Repubblica 18 nov. ’06 GENETICA, SESSO E INVECCHIAMENTO "Nel 2056 non avranno più misteri" di LUIGI BIGNAMI Spiegheremo il piacere, faremo luce sull'origine dell'universo ma difficilmente avremo un incontro ravvicinato con gli alieni UNA QUANTITA' illimitata di organi di ricambio, la possibilità di parlare con gli animali, anche se difficilmente potremo avere un contatto con gli alieni. Queste sono alcune delle previsioni su come sarà il mondo tra 50 anni. Le "anticipazioni" sono state fatte da alcuni tra gli scienziati più importanti al mondo, dallo psicologo Steven Pinker, al filosofo Dan Dennett, dall'astronomo Sir Martin Rees al responsabile della missione europea a Marte Colin Pillinger. L'inchiesta è stata realizzata dalla rivista New Scientist in occasione dei 50 anni della sua fondazione. Una visita di extraterrestri su dischi volanti sembra del tutto improbabile anche se gli esperti si dicono convinti che presto ci sentiremo meno soli nell'Universo. Freeman Dyson dell'Institute for Advanced Study di Princeton così commenta i vani sforzi fin qui fatti per cercare i nostri vicini di casa: "Sembra davvero che la vita intelligente sia più rara di quanto abbiamo sperato, ma ciò non dimostra che non esiste vita superiore nell'Universo. Una volta che troveremo la prova dell'esistenza degli extraterrestri, sarà più semplice venire in contatto con loro perché avremo coscienza di cosa stiamo cercando". Paul Davies, fisico all'Arizona State University a Tempe, ipotizza a riguardo che non dobbiamo necessariamente cercare lontano. "Ci potrebbero già essere degli alieni proprio qui, sotto il nostro naso. La maggior parte della vita è microbica ed è difficile dire quanto si scopre un nuovo microbo se questo sia terrestre o meno. La ricerca extraterrestre è appena agli inizi. Se fossero qui, presto li identificheremo". Ma quanto diversa rispetto a noi potrebbe essere la vita extraterrestre? Chris McKay della Nasa risponde: "Tanto quanto c'è diversità tra un inglese e un cinese". Entro 50 anni la vita dell'uomo sulla Terra sarà profondamente trasformata grazie a vere e proprie fabbriche di organi umani. Entro 2056, persino la medicina più avanzata dei nostri giorni sembrerà come qualcosa di barbaro. Secondo Bruce Lahn, genetista alla University of Chicago non ci sarà più la necessità di prelevare organi da persone morte. Gli organi umani si faranno crescere in animali, quali i maiali, ad esempio. Spiega: "Quando un paziente avrà bisogno di nuovo organo - un rene, ad esempio - il chirurgo si metterà in contatto con un allevatore, gli fornirà il profilo immunologico del paziente e in poche ore lo si potrà avere sul tavolo operatorio. Un organo che probabilmente rimarrà al di fuori di ogni trapianto comunque, sarà il cervello". Molto probabilmente entro il 2056 sarà possibile sintetizzare medicine in grado di far crescere alcuni organi. "La rigenerazione del cuore, ad esempio, è dietro l'angolo. Sembra davvero che ciò sarà possibile entro 5-10 anni da oggi e così sarà possibile anche per alcuni arti. Entro 50 anni sarà possibile far rigenerare quasi l'intero organismo", sostiene Ellen Heber-Katz del Wistar Institute di Philadelphia. Il trattamento di fertilità e la comprensione globale della riproduzione sessuale potrebbero trasformare il sesso esattamente come la pillola anticoncezionale rivoluzionò il baby-boom. Lo sostiene Carl Djerassi della Stanford University il quale aggiunge che le donne estenderanno il periodo riproduttivo di almeno un decennio grazie alla conservazione del tessuto ovarico e degli ovuli estratti in gioventù. Tra 50 anni verrà svelato completamente il mistero che si nasconde dietro il piacere sessuale e si risolveranno tutti i problemi legati alle malattie sessuali. Lo sostiene Beverly Whipple, segretario generale del World Association for Sexual Health. La fisica delle particelle subatomiche, l'astronomia e l'astrofisica faranno luce sulla nascita della vita e dell'universo. Circa 14 miliardi di anni fa il Big Bang diede origine all'universo e da allora si è raffreddato ed espanso, creando la materia che ha originato i pianeti, le stelle e le galassie. Ma la causa del Big Bang è un mistero. "Oggi possiamo spiegare cosa successe nell'Universo un secondo dopo il suo inizio, ma le nostre teorie si fermano di fronte al grande bang. Tuttavia ci sono buoni motivi per sperare che questo cambi", ha detto Sean Carroll, fisico teorico al Caltech. "Conoscendo più a fondo l'Universo l'uomo metterà le basi per costruire le prime colonie al di là del nostro pianeta", sostiene Richard Gott, della Princeton University all'università di Princeton, il quale continua: "Tra 50 anni si cercherà di creare una colonia autosufficiente su Marte. Essa dovrebbe servire in caso di catastrofe globale del nostro pianeta". Entro il 2056 non si arriverà certamente all'elisir di lunga vita, ma gli scienziati prevedono di riuscire a capire i meccanismi molecolari complessi che governano l'invecchiamento delle nostre cellule. Richard Mugnaio, professore di patologia alla University of Michigan prevede: "Tra 50 anni vi sarà la prima generazione di centenari che avrà salute e forza come oggi ce l'ha la maggior parte dei sessantenni". Daniel Pauly, direttore del Fisheries Centre at the University of British Columbia ipotizza che gli uomini riusciranno, attraverso un dispositivo a vivere le emozioni e "i pensieri degli animali". Questo ci farà capire cosa provano gli animali quando li maltrattiamo o addirittura li uccidiamo per cibarcene. E allora diventeremo tutti vegetariani. ____________________________________________________ La Repubblica 16 nov. ’06 NEANDERTHAL E HOMO SAPIENS Ricostruita un'enorme parte del Dna da un fossile. Due studi confermano: non ci fu scambio genetico fra i due ominidi contatti rari e nessun "incrocio" Comune il 99,5 per cento del codice. La separazione da un antenato comune avvenne 516 mila anni fa Una statua che riproduce l'uomo di Neanderthal al museo di Mettmann in Germania WASHINGTON - L'uomo di Neanderthal e l'antenato dell'uomo moderno hanno avuto contatti ravvicinati rari, anche se hanno convissuto a lungo, e si sono separati da un comune antenato circa 500.000 anni fa. La scoperta arriva grazie alla ricostruzione di un'enorme parte del Dna (oltre un milione di lettere del codice genetico) ricavato da un osso di gamba dell'estinto uomo di Neanderthal, che smorza la teoria secondo la quale le due specie avrebbero avuto scambi di materiale genetico. Il sequenziamento di una parte del genoma di Neanderthal è stato annunciato dalle due riviste scientifiche Nature e Science, che questa settimana pubblicano i lavori eseguiti con due tecniche diverse dalle équipe di Svante Paabo del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia, e da Edward Rubin del Department of Energy Joint Genome Institute di Walnut Creek, California. I ricercatori coordinati da Paabo hanno analizzato oltre un milione di paia di basi di Dna di un fossile di Neanderthal di 38.000 anni fa ritrovato a Vindija in Croazia, confrontandolo con il genoma umano e di scimpanzè, mentre gli scienziati guidati da Rubin hanno ricostruito 65.250 paia di basi. I due lavori, che portano a risultati coerenti tra loro, dimostrano anche che con le tecniche oggi a disposizione è possibile ricostruire la sequenza completa del codice della vita di specie estinte. Paabo ha annunciato di poter completare la sequenza completa del Dna dell'uomo di Neanderthal in due anni. L'uomo di Neanderthal e l'homo sapiens, la nostra specie, sono ominidi derivati da un antenato comune e hanno coabitato in Europa ed Asia occidentale fino a circa 30.000 anni fa. Tra gli scienziati si è discusso a lungo se le due specie si siano "incrociate" o meno nel corso della coabitazione. Con le nuove tecniche a disposizione anche i fossili recuperati in cattive condizioni hanno cominciato a "parlare". Dalla loro analisi i ricercatori sperano di trovare molte risposte: l'uomo di Neanderthal parlava? Di che colore aveva la pelle e i capelli? Che rapporti ha avuto con l'antenato dell'uomo moderno? I due studi, seguendo metodi diversi, hanno entrambi rivelato che il genoma di Neanderthal e il nostro sono identici per oltre il 99,5 per cento, che le due specie si sono originate a partire da un antenato comune circa 516 mila anni fa e che Neanderthal deriva da una popolazione ancestrale molto piccola di circa 3.000 individui analogamente a quanto già supposto per la nostra specie. I dati raccolti sembrano escludere un fenomeno di incrocio tra le due specie, di cui altrimenti sarebbe rimasta traccia sul Dna. ____________________________________________________ Le Scienze 18 nov. ’06 UNA RISONANZA MAGNETICA CONTRO IL LUPUS La sperimentazione sui topi potrebbe aprire la strada a utili applicazioni sull'essere umano La spettroscopia a risonanza magnetica (MRS) potrebbe costituire un metodo non invasivo per monitorare i sintomi neuropsichiatrici in pazienti affetti da lupus. È questa la conclusione di uno studio effettuato su topi di laboratorio da un gruppo di ricercatori della Wake Forest University School of Medicine e presentato all’annuale convegno dell’American College of Rheumatology tenutosi a Washington. La MRS è strettamente imparentata con la risonanza magnetica (MRI) usata nelle tecniche di imaging e utilizza intensi campi magnetici e radioonde a bassa energia per ottenere informazioni biochimiche sul corpo. Il test viene fatto in una macchina a MRI a cui viene collegato lo spettrometro per misurare le variazioni nei livelli di metaboliti come il glutammato e la glutammina. "A causa della sua non-invasività e ripetibilità, la MRS potrebbe essere utile in un programma di studio volto a scoprire farmaci utili contro il lupus neuropsichiatrico”, ha spiegato Nilamadhab Mishra docente di reumatologia della Wake Forest University e coordinatore della ricerca. “Non esistono attualmente biomarcatori per il lupus neuropsichiatrico e ciò impedisce sia la diagnosi clinica sia la scoperta di nuovi farmaci per il trattamento di questa patologia.”