LO SCIOPERO FISCALE DEI RETTORI: NON RIDAREMO I SOLDI ALLO STATO - UNIVERSITÀ POVERA DI QUALITÀ - AI CONCORSI NON VINCA IL MIGLIORE - L'UNIVERSITÀ DEGLI IPOCRITI: La Soluzione È Privatizzare - PRECARI RICERCATORI, IL GOVERNO DÀ I NUMERI - IL LABORATORIO CREATIVO DELL'UNIVERSITÀ - SULL'UNIVERSITÀ IL GOVERNO AFFONDA LA MERITOCRAZIA - EUROPA, IL REBUS RICERCA - L'ITALIA, UN CAPITALE DI TALENTI SPRECATI - STANCHI DELL'UNIVERSITÀ DI MASSA - INTERNET COME UNA DROGA - IL FLOP DELLE LAUREE TRIENNALI - CARO LAUREATO. NOVANTA MILIONI PER UN INGEGNERE - E-LEARNING: IN ORDINE SPARSO - 135.700.000 EURO: L’UNIVERSITÀ DI CAGLIARI CAMBIA VOLTO - UNA UNIVERSITÀ DI SANTI E DI BARONI - CITTADELLA WI-FI: DA MARZO INTERNET GRATIS E SENZA FILI - ========================================= INVADENZA GENETICA: QUANDO LA SCIENZA DIVENTA RELIGIONE - LA SANTA ALLEANZA DI TUTTI I MEDICI SARDI - SANITÀ: TORNANO LE VECCHIE MUTUE - PATOLOGIE RARE? NON TANTO I MALATI SONO DUE MILIONI - SORPRESA, LA SANITÀ ITALIANA È COMPETITIVA - I TUMORI E I DIRITTI DI CHI SOFFRE - IL SALUTO DI CAGETTI, UN CHIRURGO AL SERVIZIO DELLA CITTÀ - ATTACCO ALLA FIBROSI CISTICA - SESSUALMENTE LE DONNE ITALIANE SONO LE PIÙ SODDISFATTE D'EUROPA - UN SORRISO NUOVO DI ZECCA - ODONTOIATRIA ESTETICA: LE STRATEGIE - L'EUROPA APPROVA LA RICERCA SU EMBRIONI E STAMINALI - BOOM DI SIFILIDE IN TUTTE LE REGIONI - I TRAPIANTI D'ORGANO PIÙ SICURI ORA SI FANNO IN ITALIA - IL CASCO È UN BENE PERÒ CI SONO MENO DONATORI DI CUORE - FUORI DI TESTA - I PERICOLI DELLE MICOSI INVASIVE. - L'ATOMO CONTRO I GAS SERRA - VINO SARDO, ELISIR DI LUNGA VITA - ECCO IL TEST SALVAVITA PER GLI ASMATICI - IN OSPEDALE IL 38% ARRIVA DALL'EST - OSTEOPOROSI, INDIVIDUATO IL REGOLATORE DELLA DENSITÀ OSSEA - MORBO DI HUNTINGTON E LIVELLI DI COLESTEROLO - COME LA NICOTINA ALTERA IL CERVELLO - LE PRINCIPALI CAUSE DI MORTE NEL 2030 - ========================================= ____________________________________________ Corriere della Sera 3 dic. ’06 LO SCIOPERO FISCALE DEI RETTORI: NON RIDAREMO I SOLDI ALLO STATO Il via dal numero uno di Padova (vicino all'Unione), poi Tor Vergta e Modena MILANO - A dire «disobbedienti», nel Nordest che ha assistito alla nascita delle tute bianche di Casarini, tutto verrebbe in mente tranne l'ermellino di Vincenzo Milanesi, rettore dell'ateneo di Padova. Eppure la disobbedienza è lì, nero su bianco, nella delibera del Consiglio d'amministrazione: calcolato in 7 milioni di euro il «taglio» imposto dal decreto Visco-Bersani al funzionamento ordinario 2007-2009, «il Cda ritiene impossibile versare per il momento quanto previsto dalla norma "tagliaspese"». Uno sciopero fiscale in piena regola, contro un provvedi_ mento che colpisce bilanci già sofferenti. E più d'uno ha deciso di seguirne l'esempio. LA PROTESTA - «AL Cda ho detto solo: non possiamo disdire i contratti già firmati. Se non paghiamo l’Enel, ci tocca la penale e il blocco delle attività. Sa, Padova non ha un clima che induca a stare senza riscaldamento, d'inverno». Non è un barricadero il professor Milanesi, rettore dal 2002, una vicinanza non dichiarata al centrosinistra (in città lo ricordano ad accogliere il pullman di Prodi, e a un certo punto si vociferò di una sua candidatura per la Margherita). La sua è una decisione presa «senza pervicacia ideologica»: negli ultimi anni Padova ha già restituito oltre 4,5 milioni, rosicchiati dalle spese di funzionamento. «Ma qui, appunto, non si considera la diversità fra atenei; capirei se si agisse su chi supera certe soglie, magari attivando il rappresentante del ministero dell'Economia nel Collegio dei revisori dei conti,..». Invece, le forbici del decreto calano per tutti: -10% sui consumi intermedi (bollette, vigilanza, manutenzione) del 2006, -20% sulle previsioni di bilancio 2007. Sono i soldi che Padova ha deciso di non restituire, con una delibera trasmessa ai dicasteri di Economia e Sviluppo economico. E a quello dell'Università, «ben consapevole della ragionevolezza di questa posizione». Reazioni ufficiali, nessuna. Milanesi è ottimista, ma con giudizio: «Nel Discorso sul metodo, Cartesio diceva che il senso comune è la cosa più diffusa sulla Terra. Purtroppo, a volte il buon senso fa difetto ai politici». SULLE ORME DI PADOVA-La «disobbedienza civile» che soffia dal Nordest non sembra dispiacere ai rettori: «Abbiamo approvato la stessa delibera, per 5-6 milioni di euro - dichiara Alessandro Fi nazzi Agrò, che governa Tor Vergata dal 1996 -. Tagliare significa chiudere un giorno alla settimana. Qui c'è il policlinico, i laboratori: che faccio, spengo il condizionamento ai topi? II decreto, poi, si applica anche alle risorse proprie degli atenei: una misura kafkiana...». Una scelta a rischio, «ma la nostra è una linea di difesa. Se l'autorità giudiziaria mi dicesse che sono un malfattore, non avrei difficoltà a rimettere il mandato. Altrimenti, per stare a galla, dovrei fare falsi in bilancio. No, grazie». Gian Carlo Pellacani, dal 1999 alla guida dell'università di Modena e Reggio Emilia, sottoscrive: «Credo che questo decreto sia anticostituzionale. Noi facciamo come Padova, martedì porterò la delibera in cda. Non restituiremo 2 milioni di euro». A Bologna la cifra è più alta, «circa 8 milioni- fa il punto il rettore Pier Ugo Calzolari -. Per ora nessuna delibera formale, ma in settimana affronteremo il tema del bilanciò. E valuteremo con attenzione anche questa possibilità». L'APPELLO DELLA CRUI - Tra chi ha chiesto copia della delibera padovana c'è anche Stefania Giannini, Università per Stranieri di Perugia, 6.000 studenti non italiani (non finanziati dal fondo ordinario) su 8.000 «e un bilancio di 33 milioni. Il taglio del 10% si può sopportare, il20% sarebbe devastante. Sugli enti di ricerca un ripensamento c'è stato, ma per noi?». L'interrogativo serpeggia tra i «magnifici», e infatti la Conferenza dei rettori, spiega il presidente Guido Trombetti, «ha chiesto che l'università sia sottratta al Bersani, al pari di scuola ed enti di ricerca. Certo non è il 2007 l'anno adatto per il rilancio, ma almeno niente tagli... Mi sembra, comunque, che ci sia grande ascolto; ho fiducia che le nostre istanze saranno accolte». «Noi questa speranziella la coltiviamo - conclude Marco Pacetti, Politecnico delle Marche (tagli previsti: 1,5 milioni) -. Ma come extrema ratio, stiamo pensando al ricorso alla Corte costituzionale. Insieme a Padova e ad altri atenei». Gabriela Jacomella ___________________________________________________ Il Sole24Ore 30 Nov. ‘06 UNIVERSITÀ POVERA DI QUALITÀ LE RESISTENZE AL CAMBIAMENTO il confronto con la Gran Bretagna evidenzia l'inadeguatezza italiana di Roberto Perotti Si ripete spesso che in Italia si spende troppo poco per l'università e che ciò sia la causa principale della bassa qualità della didattica (tanti studenti, pochi docenti) e della ricerca (pochi fondi a disposizione e troppi impegni didattici). Quanto c'è di vero in questo? Un modo per appurarlo è confrontare 63 atenei statali italiani con il sistema universitario britannico. Quest'ultimo è un valido termine di paragone perché è anch'esso interamente pubblico, ma con un'organizzazione per certi versi profondamente diversa da quella italiana e con una produttività scientifica superiore. LA DIDATTICA E GLI STUDENTI La didattica ha ovviamente una componente qualitativa che è quasi impossibile misurare. Ma due utili, seppure imperfetti, indicatori quantitativi sono il rapporto studenti/docenti, che mostra quanto siano seguiti in media gli studenti> e la spesa per studente, che esprime la disponibilità di risorse. La tabella in alto a destra contiene alcune possibili versioni del rapporto studenti/docenti (i dati si riferiscono al zoo4-o5 per il Regno Unito, al 2003- 04 per l'Italia). Nella prima riga, il rapporto tra studenti undergraduate (cioè esclusi gli studenti di scuole di specializzazione e di corsi di master e dottorato) e docenti di ruolo in Italia è circa il 50% più alto che nel Regno Unito (dove ho considerato di ruolo i docenti con contratto permanente): 30 studenti per ogni docente in Italia contro 20 nel Regno Unito. Ma questo dato, spesso citato, non tiene conto del fatto che molti studenti in Italia sono iscritti ma non frequentano. Il numero di studenti "equivalenti a tempo pieno" (Etp) viene calcolato attribuendo a uno studente chepassasoloili5% dei crediti previsti nell'anno cui è iscritto un peso del 15%, e così via La seconda riga mostra che il rapporto fra studenti undergraduate Etp e i docenti di ruolo è identico nel Regno Unito e in Italia. Non è dunque vero che nel Regno Unito gli studenti siano più seguiti; e non è vero che i docenti in Italia siano oberati di impegni didattici rispetto ai colleghi britannici. In entrambi i Paesi vi sono poi docenti non di ruolo; inoltre soprattutto nel Regno Unito molti professori si dedicano esclusivamente alla ricerca. Il rapporto tra studenti un dergraduate Etp e professori totali (di ruolo e non di ruolo) che non si dedicano esclusivamente alla ricerca è più basso in Italia (terza riga). Se si includono tra gli studenti anche quelli di scuole di specializzazione, master e dottorato, il rapporto rimane più basso in Italia (quarta riga). Infine, non tutti i docenti insegnano a tempo pieno; il rapporto tra studenti totali Etp e docenti totali Etp (quinta riga) rimane più basso in Italia (si tenga però presente che il calcolo dei docenti Etp in Italia è piuttosto aleatorio). La tabella al centro a destra mostra la spesa totale per studente Etp. Nel 2004- 05 per ciascun studente undergraduate nel Regno Unito si spendevano 19.600 dollari, a parità di potere d'acquisto; in Italia, il 20% in meno: 15.400 dollari. Anche in termini di studenti totali Etp la spesa italiana è circa il 20% inferiore a quella britannica Un divario, quindi; non drammatico. I DOCENTI Passiamo ora ai docenti. tv ero che sono sottopagati in Italia? La prima riga della tabella in basso a destra, con dati desunti dai bilanci delle università, mostra che le remunerazioni medie per docenti di ruolo e non di ruolo sono simili nei due Paesi. Tuttavia, in Italia la retribuzione media per docenti non di ruolo è molto difficile da determinare; e la retribuzione media italiana è certamente sottostimata Limitandoci quindi ai docenti di ruolo, la seconda riga dice che la remunerazione media per i docenti di ruolo in Italia è molto più alta della spesa media per docente nel Regno Unito (dove però si considerano tutti i docenti, perché la retribuzione media per docenti di ruolo non è isolabile). Un indicatore più diretta è il confronto tra le retribuzioni tabellari dei docenti di ruolo nei due Paesi ai vari livelli accademici. La tabella qui sopra per ogni livello accademico confronta i minimi e i massimi tabellari (colonne l e 2) e le retribuzioni medie effettive (colonna 3) in Italia con le stesse grandezze di un campione di 10 università britanniche (colonne 4,5 e 6) e nell'Università di Oxford (colonne 7 e 8; i dati delle università britanniche sono desunti da un'inchiesta sui compensi nelle università del Commonwealth). Ne emerge un fenomeno evidente: la remunerazione di entrata (ricercatore non confermato e gradino iniziale di lecturer A) è effettivamente più bassa in Italia; tuttavia da noi si progredisce molto velocemente, cosicché la retribuzione massima ma soprattutto quella media dei ricercatori sono molto più alte. Analogamente, lo stipendio d'ingresso di un associato non confermato è lievemente inferiore allo stipendio minimo di un senior lecturer. ma anche in questo caso la progressione è molto - più elevata in Italia, tanto che lo stipendio medio degli associati italiani è superiore a quello massimo dei senior lecturer a Oxford. Il messaggio è chiaro ed è confermato anche da un confronto con le retribuzioni dei docenti statunitensi in un lavoro che ho scritto con Stefano Gagliarducci, Andrea Ichino e Giovanni Peri: in Italia i docenti di ruolo sono> W media, meglio pagati che nel Regno Unito; tuttavia, sono meno remunerati i docenti giovani e con poca anzianità, cioè proprio quelli che sono tipicamente più produttivi e più motivati a fare ricerca, per stipendiare moltissimo i docenti più anziani, indipendentemente dalla loro produttività scientifica. Esattamente l'opposto di quanto si dovrebbe fare per incentivare la ricerca seria. Invece di prendersela con il ministro dell'Economia, i ricercatori giovani e produttivi sottopagati e gli studenti dovrebbero protestare Contro i rettori che chiedono sempre soldi ma difendono a oltranza uno status quo indifendibile: un sistema basato esclusivamente sull'anzianità dì servizio che premia i docenti fannulloni e incompetenti. ___________________________________________________ Il Sole24Ore 27 Nov. ‘06 AI CONCORSI NON VINCA IL MIGLIORE Quattro idonei su 32 chiamati da università diverse da quella che ha indetto il concorso o non rappresentata in commissione. Ben 15 idonei con pubblicazioni solo dalla 161 rivista in poi (secondo il ranking di EconLit, un database di pubblicazioni accademiche online), tre soltanto dalla 71a in poi, mentre 14 hanno almeno una pubblicazione nelle prime 70. Addirittura uno dei candidati non ha pubblicazioni su riviste straniere refereed. Questi risultati riguardano l'ultima tornata concorsuale per professore ordinario nei tre settori scientifici attinenti all'economia, iniziata nel 2003-2004 e conclusasi quest'anno. I dati sono contenuti nell'ultimo Bollettino dei concorsi che curo periodicamente. Per ogni concorso (in questo caso 16) il Bollettino considera le pubblicazioni di ogni candidato e di ogni commissario, oltre a varie indicazioni biografiche. Il Bollettino è consultabile su www.igier.uni-bocconi.it/perotti. Altre informazioni elaborate nell'ultimo Bollettino: 14 dei 32 idonei sono candidati interni. Di essi, nove hanno pubblicazioni EconLit solo dalla 161 in poi. Riguardo ai professori esaminatori, nelle 16 commissioni sette hanno un totale di zero pubblicazioni tra le prime 70 EconLit e uno ha zero pubblicazioni nelle prime 160. Per valutare questi dati in prospettiva, è importante notare che le discipline economiche sono in qualche misura un'isola felice nel panorama universitario italiano (insieme ad altre discipline formalizzate come fisica, matematica, ingegneria) perché essendo molto internazionalizzate si prestano a un minimo di controllo sulla qualità della produzione scientifica. Inoltre, questi dati ovviamente possono dire poco sulla pratica dei concorsi. Alcuni concorsi hanno tre o quattro candidati per due idoneità, perché è già noto a tutti che i candidati interni vinceranno. In certi concorsi, alcuni candidati vengono dissuasi (magari con qualche telefonata "amichevole") dal presentarsi, per non rovinare la festa Altri candidati vengono obbligati a presentarsi, anche se non hanno alcuna speranza, per salvare le apparenze dl un concorso serio, in cambio délla promessa di un appoggio in futuro. Un'analisi econometrica di 40 concorsi negli stessi tre settori di scienze economiche è contenuta nel mio lavoro The Italian University System: Rutes vs. Incentives (scaricabìle da www.igier.uni-bocconi.it/perotti). II lavoro mostra fra l'altro che, in media, essere un insider nell'università che ha indetto il concorso aumenta la probabilità di ottenere l'idoneità nella stessa misura di 13 pubblicazioni in riviste internazionali sottoposte alvaglio della professione (riviste refereed). Conclusione: i concorsi sono irriformabili. ___________________________________________________ Il Sole24Ore 30 Nov. ‘06 L'UNIVERSITÀ DEGLI IPOCRITI: La Soluzione È Privatizzare CONCORRENZA E MERITO di Roberto Perotti Nonostante i continui lamenti dei rettori, il problema dell'università italiana non è la mancanza di risorse, ma come vengono distribuite. Come mostrano le tabelle a pagina li, rispetto al sistema inglese (preso a confronto perché completamente pubblico, come gran parte di quello italiano) gli studenti italiani non sono meno seguiti né i professori sono meno pagati. L'università italiana è però meno produttiva; la soluzione che tutti invocano è il binomio di concorrenza e merito. A parole, chi potrebbe opporsi? Ma in pratica, concorrenza e merito significano penalizzare chi non produce e premiare chi fa bene: in altri termini, i "soldi devono seguire la qualità", a livello sia di ateneo sia di individui. E qui cominciano le difficoltà. Concettualmente, ci sono due metodi per far ottenere questo risultato. Il primo è applicabile in un sistema pubblico, e in una certa misura è stato adottato nel Regno Unito. Prevede che una quota dei finanziamenti alle università venga distribuita in base alla valutazione della ricerca e della didattica. Ciò funziona solo se i fondi così allocati sono sostanziali (il 30% del totale nel Regno Unito) e distribuiti impietosamente a pochi atenei eccellenti, promuovendo così una distinzione netta fra quelli di serie A e quelli di serie B. Inoltre, è necessario liberalizzare assunzioni e stipendi; niente più concorsi né tabelle retributive, quindi: ognuno fa ciò che vuole. Intestardirsi nell'impossibile missione di riformare i concorsi è una strada senza uscita: i concorsi hanno fallito miseramente e qualsiasi cambiamento è stato e sarà facilmente aggirabile da chiunque voglia usarli a fini clientelari. Gli atenei devono poter competere per accaparrarsi i ricercatori migliori, pagando, se lo ritengono opportuno, uno scienziato superstar di 3o anni il doppio di un ordinario di 6o anni che non ha mai pubblicato niente: in che altro modo si esprime la concorrenza? I ricercatori migliori portano prestigio, studenti e finanziamenti; ciò a sua volta stimolerà gli altri docenti a fare buona ricerca e buona didattica. Riguardo a quest'ultima, niente più 3+2 e altre formule centralizzate e cervellotiche, ognuno sceglie liberamente e chi ha successo attira studenti e finanziamenti e verrà imitato, chi fallisce cambia o scompare. L'università italiana ha dunque bisogno di abolire i concorsi, liberalizzare stipendi, assunzioni e didattica, far pagare agli studenti più abbienti il costo dei servizi che ricevono, finanziare chi opera bene, lasciare scomparire chi opera male. E tutte queste riforme vanno attuate insieme: misure ben intenzionate ma isolate non cambieranno niente, anzi, possono facilmente peggiorare la situazione. Se si liberalizzano assunzioni e stipendi ma non si cambia il modo di finanziamento, chi oggi assume i fagli degli amici ne approfitterà per coprirli anche di soldi. Per evitarlo, i finanziamenti devono premiare la qualità, cosicché chi assume in modo clientelare ne paghi le conseguenze. Oppure, se aumentano le rette studentesche ma non cambia il sistema di assunzioni e retribuzione, il barone locale continuerà ad arruolare incompetenti e a offrire corsi scadenti: gli studenti se ne andranno ma il suo stipendio continuerà a salire per anzianità esattamente come prima. Oppure ancora, se si introduce un sistema di valutazione ma non si attribuisce alle università libertà di assunzione e remunerazione che strumenti gli si dà per competere e a cosa serve la valutazione? Realisticamente, tutte queste riforme non saranno mai attuate in Italia, se non marginalmente e inutilmente; anzi, con effetti controproducenti. È utopistico pensare di valutare e confrontare centralmente la didattica di un docente di veterinaria a Trento e di un docente di filosofia a Catania E decine di università italiane non producono alcuna ricerca di rilievo e offrono una didattica spaventosa: all'Agenzia della valutazione creata dalla Finanziaria verrà mai consentito di negare loro (seppure gradualmente) il 3o% dei finanziamenti attuali, condannandole alla fine che meritano? 0 quando mai si permetterà a un giovane di guadagnare il doppio di un anziano e a un ateneo di organizzarsi come vuole e assumere chi vuole? Le riforme politicamente fattibili sono, al più, un brodino caldo. Invece di continuare ad autoingannarci, forse faremmo bene a pensare al secondo metodo per introdurre la concorrenza e il merito: privatizzare. Certamente anche questa è una strada di difficilissima praticabilità politica, ma almeno ha efficacia non illusoria. In un sistema privato, se dei baroni promuovono incompetenti o insegnano male, l'ateneo perde studenti e rette, prestigio, commesse e finanziamenti. Alla fine ne risentono i baroni stessi: la loro retribuzione scende, il loro prestigio accademico diminuisce e se l’ateneo è costretto a chiudere perdono il posto di lavoro. Questa è la migliore assicurazione contro clientelismi e inefficienze e il modo più certo per garantire che le esigenze dei consumatori (gli studenti e le loro famiglie) siano tenute in considerazione. Sento già le grida di indignazione: l'università solo per i ricchi? Non tutti però sanno che al Sud solo il 4o,,. degli studenti universitari provengono dal 20% più povero delle famiglie: il sistema attuale è un Robin Hood al contrario che usa le imposte dei meno abbienti per finanziare gli studi gratuiti dei ricchi. Non è difficile fare meglio: un'università privata con un sistema statale di borse di studio e prestiti condizionati al reddito, e con restituzione graduata a seconda del guadagno post-laurea, come in Australia 1 ricchi pagheranno finalmente il costo dell'investimento in educazione, mentre i meno abbienti potranno "ente ottenere un servizio decente. La privatizzazione non solleva, dunque, problemi di equità. Pone, però, un problema più sottile: se l0 Stato sussidia le rette dei meno abbienti, questo induce gli atenei ad aumentarle per appropriarsi dei sussidi agli studenti, come avvenne in Cile negli anni 90. Affrontare questo problema richiede un'analisi seria e non facile, ma senz'altro più produttiva che ostinarsi a proporre aggiustamenti marginali e inutili su un sistema fallimentare. L'università, tutti lo riconoscono, ha bisogno di è concorrenza e merito; in altre parole, di mercato. Nel clima culturale attuale questa parola è però un anatema: ci si illude di poterne replicare i lati positivi con l'ennesimo tentativo di pianificazione illuminata, evitando però gli antiestetici effetti di mercificazione della cultura che ci vogliono propinare quei sempliciotti degli yankees. Quest'iJlusione continua a costarci cara: è ora di riconoscere la necessità di un cambiamento radicale e discutere gli aspetti concreti del nuovo sistema. raberto.perottiCa unibocconi.it ___________________________________________________ Il Manifesto 30 Nov. ‘06 PRECARI RICERCATORI, IL GOVERNO DÀ I NUMERI Licenziare i precari per ridurre il precariato non sembra essere una proposta di sinistra, sfortunatamente è contenuta in una disposizione della finanziaria, confermata nel maxiemendamento. Infatti una disposizione impone che negli enti pubblici, e in particolare negli enti di ricerca, la spesa per contratti a tempo determinato e co.co.co. non superi per il 2007 il40% di quella in essere nel 2003. Gli effetti di ogni norma devono essere giudicati dal contesto in cui si applica. Anche se sono convinto che sia insensata in generale, mi limiterò a discuterla per gli enti di ricerca, dove la situazione mi è molto chiara per diretta esperienza personale. Qui l'effetto principale sarà di ridurre a zero il numero di contratti rinnovati e di nuovi contratti a tempo determinato, in quanto la sola spesa per il personale precario non in scadenza supera di gran, lunga il 40% del 2003 e non ci sono più margini di manovra. Infatti una norma del genere potrebbe anche essere utile per combattere il precariato se gli enti di ricerca fossero liberi di procedere a assunzioni a tempo indeterminato; tuttavia questo non è: un altro artico lo della finanziaria pone dei limiti molto stretti sulle nuove assunzioni che, a parte interventi straordinari, sono proporzionali ai pensionamenti e possibili solo a partire dal 2008. Limitare contemporaneamente sia i contratti a tempo indeterminato sia quelli a tempo determinato e co.co.co., implica necessariamente dover licenziare gli sfortunati precari il cui contratto scade nel 2007 (in alcuni enti di ricerca- per esempio nel Cnr - molti precari il cui contratto scadeva nel 2006 sono stati più fortunati in quanto hanno avuto il loro contratto prorogato, il30 dicembre del 2005, per altri cinque anni, senza nessuna valutazione di merito, per evitare gli effetti di un'analoga norma contenuta nella finanziaria 2006,, che riduceva la percentuale al 60% del 2003). Non rinnovare i contratti in scadenza è particolarmente grave negli enti di ricerca, dove esistono molti contratti fatti per due anni rinnovabili per altri due e il rinnovo è sempre stato, a meno di inconvenienti gravi, un fatto del tutto formale. Non parliamo poi dei ricercatori più giovani, cui questa norma sbatte la porta in faccia per diversi anni in quanto le poche assunzioni a tempo indeterminato sarebbero monopolizzate dai colleghi più anziani Si tratta dunque di una norma folle, che non comporta nessun risparmio in quanto non incide sul bilancio totale a disposizione degli enti ma ne vincola in maniera irragionevole l'utilizzo; questa disposizione deve essere semplicemente eliminata: è una delle tante eredità funeste del governo Berlusconi che Fattuale governo esita a cancellare e che a volte peggiora. In un qualunque paese ragionevole, prima di proporre una norma del genere sarebbe stato eseguito uno studio dettagliato degli effetti, dei vantaggi e degli svantaggi di un tale provvedimento per decidere se la percentuale più opportuna sia ì140% o per esempio il75%. Questo studio non è stato fatto, la percentuale è stata scelta in maniera del tutto arbitraria dall'ignoto estensore della norma, ignorando i problemi reali. È triste dover osservare che molti provvedimenti di questo governo si basano su percentuali scelte in maniera cervellotica, indipendenti dal dominio concreto di applicazione; come per esempio il taglio del 20% dei consumi intermedi, il taglio del 12,7 % delle spese ministeriali, disposizioni da applicare in maniera uniforme a tutti i settori della spesa pubblica senza distinzioni di comparto e senza entrare nel merito. Il governo si limita a dare i numeri. Un vecchio slogan del '68 diceva d'immaginazione al potere». Sembra che ora questo sogno si stia realizzando, ma sotto forma di incubo. *Docente di fisica teorica Università di Roma La Sapienza ___________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Dic. ‘06 IL LABORATORIO CREATIVO DELL'UNIVERSITÀ Giovani, preparati, inventivi, raccolti in 36 squadre e con uri idea da realizzare diventano La sera di venerdì iG dicembre era tutto uno stringersi di mani e scambiarsi pacche sulle spalla. Adriano Marconetto (Electro power systems), Patrizio Bortolus (Smart Clot) e Raffaella Bisson (Dreamlight) ricordano perfettamente quando poco meno di un anno fa sono saliti insieme sul palco per ricevere il Premio Nazionale per l'innovazione. Per vivere quel momento, ovvero per essere riconosciuti come le migliori start up tecnologiche del 2oo5; i tre neoimprenditori avevano un progetto, una idea innovativa che aveva già superato le Business Plan Competition organizzate localmente dalle università italiane. Ricordano i flash dei fotografi, l'eccitazione per l'interesse suscitato ma soprattutto ricordano la notte di quel venerdì. Quando Marconetto, Bisson e Bortolus-rispetdvamente primo, secondo e terzo classificato - si sono si sono fermati un istante per domandarsi: «E adesso?». «E adesso si fa sul serio: ecco quello che ci siamo detti e non abbiamo perso tempo», racconta Marcónetto, uno dei due fondatori di Electro power systems. In poco meno di un anno da quel fatidico z G dicembre, le vite dei tre innovatori sono cambiate. Il punto di partenza comune era il progetto, giudicato vincente e innovativo. Ma occorreva fare di più. Era il momento di mettere le gambe all'idea, di trasformare l'intuizione in business. A distanza di un anno è decisamente troppo presto per trarre bilanci. Certamente a qualcuno di loro è andata meglio che ad altri. Ma tutte e tre le storie raccontano bene da punti di vista differenti le difficoltà e le soddisfazioni del mestiere dell'innovatore. «Per cominciare - ricorda Marconetto - in questo ultimo anno è successo di tutto. Siamo diventati una azienda nel vero senso del termine. Abbiamo una nostra sede con laboratorio e fabbrica ad Albignano (Torino). Attravérso un round di finanziamento abbiamo raccolto 2,5 milioni di euro grazie a un investitore industriale e sottolineo industriale. Il che ci ha permesso di crescere in numero così dai quattro componenti iniziali siamo passati a 22, quasi tutti ricercatori». AL Premio Nazionale per l’Innovazione,' erano arrivati grazie a un protipo, un generatore a celle combustibile che utilizza idrogeno per sviluppare energia elettrica e termica. «Uno dei due power system, quello che funziona a 7 Kw ha superato la certificazione Ce e così da progetto è diventato prodotto fatto e finito, pronto per il mercato». Una corsa contro il tempo; spiega l'imprenditore. Negli Stati Uniti c'erano già molte aziende che si occupano di celle combustibile. Per bruciare le tappe e realizzare prima di altri un prodotto, la Electro power systems ha sfruttato le competenze di carattere universitario e imprenditoriali presenti nel territorio. «So che sembra una frase da convegno ma la nostra fortuna è stato il rapporto con il territorio-spiega Marconetto -. In un prodotto come un power systems ci sono molti componenti di elettronica e meccanica. In Piemonte il know how di questo tipo c'è. Per questo abbiamo sviluppato progetti di collaborazione con 2,5 imprese piemontesi. Chiedendo loro non semplicemente di fornire componenti ma di aiutarci a sviluppare soluzioni ad hoc. In questo modo abbiamo realizzato in due anni quello che altre imprese sviluppano in cinque anni». Anche per Patrizio Bortolus, uno dei quattro imprenditori alla guida del progetto Smart Clot, la chiave di volta è stato il rapporto con il territorio. Per le mani avevano il progetto di uno strumento, chiamato appunto Smart clot (coagulo intelligente), capace di identificare in maniera semplice e veloce il rischio di infarto o di emorragie. Un'apparecchiatura che non esiste sul mercato, in grado di monitorare tutte e cinque le fasi di formazione del trombo e il conseguente infarto. «La nostra avventura - racconta il giovane imprenditore (3q. anni) - non sarebbe iniziata se non fossimo andati a bussare al Cro, il Centro di riferimento oncologico di Aviano. Nei cassetti di questo centro di eccellenza giaceva il progetto di Smart Clot. Ci siamo subito resi conto che era l'idea giusta. E loro. si sono dimostrati subito favorevoli a svilupparla con noi». In un anno, è stata fondata la società, Sedicidodici srl in omaggio al giorno in cui hanno vinto il premio. E sempre in un anno è stato depositato il brevetto, diviso al 50% tra l'impresa e il centro di ricerca. «Ora siamo alla fase più difficile -racconta -. L'estensione del brevetto a livello mondiale - Pct (Patent cooperation treaty) - ha portato via molto tempo e denaro. Finalmente possiamo dedicare i prossimi sei mesi per costruire il prototipo». La missione, spiega, è di renderlo grande quanto un computer per essere utilizzato anche sulle autombulanze. Poi si passerà alla validazione scientifica e alla distribuzione in cinque centri di eccellenza. «Se mi guardo indietro - riflette Bortolus - ringrazio il giorno che mi sono rivolto al Cro di Aviano. Là è nato tutto, dal dialogo tra imprenditori, ricercatori e istituzioni. Se non ci fossimo incontrati probabilmente lo Smart Clót sarebbe ancora in un cassetto». Ancora nel cassetto è invece il progetto Dreamlight, il mappatore tridimensionale del potere e della geometria delle lenti ottiche: «Un conto è pensare un prodotto, un altro è creare un’azienda racconta Raffaella Bisson, 33 anni, l'ingegnere elettronico che più di tutti crede in questo progetto. «Quando siamo partiti, sapevano di essere molto piccoli rispetto ai nostri concorrenti. Eravamo in quattro, due ingegneri e due ricercatori. Siamo riusciti a costituire la società poi però ci siamo divisi con i due ricercatori che hanno scelto di restare all'università. Complici i limiti imposti dal dipartimento universitario che lasciava poco spazio per lavorare al nostro progetto. Ma anche per volontà dei ricercatori che non se la sono sentila di rinunciare al posto e di rischiare risorse proprie». Raffaella ricorda con amarezza quei giorni: «Probabilmente è mancato il coraggio. Cercando all'università un team di sviluppo capace di portare avanti il progetto mi sono scontrata con una mancanza di mentalità imprenditoriale. Si preferisce il posto sicuro, oppure avere alle spalle un cliente capace di coprire tutte le spese senza alcun rischio d'impresa. Ma noi invece non ci siamo arresi». Raffaella Bisson è ancora a caccia di competenze universitaria. E nel frattempo non è restata con le mani in mano. Ha trovato un investito re e parallelamente lavora in una impresa che si occupa di software gestionali per ottici. «Così da un lato tengo un piede nel settore dall'altro raccolgo risorse per realizzare un pre-protipo. Continuo a lavorare al progetto tutte le sere e il sabato e la domenica. Certo riflette con un po' di amarezza - se l'università fosse più aperta...». Ora il testimone passa ai 36 neo-imprenditori che si sfideranno lunedì prossimo a Udine nell'edizione di quest'anno del Premio nazionale per l'Innovazione. Progetti diverse, storie diverse, per tutti una sfida non semplice. Ma tutti lunedì sera si chiederanno: «E adesso? Germogliano le idee. La storia di copertina è dedicata ai ragazzi nominati per il «Premio nazionale per l'Innovazione» che sarà assegnato il 4 dicembre prossimo all'università di Udine. ___________________________________________________ Il Riformista 28 Nov. ‘06 SULL'UNIVERSITÀ IL GOVERNO AFFONDA LA MERITOCRAZIA I LIMITI DELL'AGENZIA MINISTERIALE L'onorevole Walter Tocci, responsabile Ds per Ricerca e università, ha rassegnato le sue dimissioni perché il «risultato» della manovra è «insoddisfacente» nel campo di sua competenza, non solo e non tanto perché nella finanziaria «permangono tagli agli enti [di ricerca] e all'università», quanto soprattutto perché «la parte normativa è inadeguata... L'istituzione dell'apposita Agenzia per la valutazione è ancora una semplice aggiunta al vecchio sistema burocratico e non è ancora assunta come la leva fondamentale per riformarlo... La strada del merito non solo sarebbe la più adatta a governare lo specifico della ricerca, ma sarebbe anche la più semplice da attuare». Pur tra le molte differenze, questa impostazione è condivisa da numerosi, autorevoli professori universitari: per citarne uno, Francesco Giavazzi sostiene sul Corriere della sera del 14 novembre 2006 che se davvero volesse spostare i fondi per la ricerca «dalla mediocrità all'eccellenza... il ministro Mussi avrebbe un modo semplice per dimostrarlo: assegni una quota significativa delle risorse in base alle valutazioni che il suo stesso ministero tramite il Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca (Civr) ha appena svolto. Da quest'anno accademico, non "in futuro" come invece ha annunciato». Le parole chiave Civr e Agenzia richiedono un approfondimento. Con il decreto n. 2206 del dicembre 2003, il ministro Moratti affida al Civr il compito di svolgere il primo esercizio nazionale di valutazione ex post della ricerca italiana, relativo al triennio 2001-2003, sulla scia dell'inglese Research assessment exercise, giunto dopo 20 anni alla sua quinta edizione. La signora ministro si impegna poi ad allocare un terzo dei finanziamenti ordinari dell'università e degli enti di ricerca secondo l'ordinamento meritocratico di tali strutture fornitole da un board dì 7 membri del Civr; questo si appoggia sui giudizi di 20 panel di area appositamente creati, uno per ciascuno dei 14 settori di ricerca definiti dal Cun più 6 aree speciali, i quali, a loro vol ta, si basano sulla valutazione indipendente di almeno due esperti, di cui un quarto stranieri, su ognuno dei migliori prodotti di ricerca autoselezionati, area per area, dalle strutture. L'esame da parte dei panel della performance scientifica nelle varie aree di ricerca delle 102 principali strutture del nostro Paese (incluse tutte le 77 università, tra statali e legalmente riconosciute) termina nel dicembre del 2005, avendo coinvolto 150 panelisti, 6 mila esperti, circa 18 mila prodotti, con un costo complessivo di 3 milioni e mezzo di euro: per la prima volta nella storia del nostro Paese, nel gennaio 2006 un rapporto scritto identifica, per ognuno dei 20 settori disciplinari, un ordinamento quantitativo completo delle strutture, in ragione della valutazione ex post dei prodotti di ricerca di quell'area. Nonostante nel rapporto conclusivo dei panel emergano dalla valutazione, area per area, le migliori come le peggiori strutture, e ciascuna sia con piena trasparenza e inflessibilmente giudicata in un ranking numerico, nessuna di esse lamenta ingiustizie. Anzi, da più parti si esprime la speranza che innovazioni ancor più profonde conseguano dal rapporto finale del board del Civr, destinato a dare un giudizio circostanziato delle strutture, dunque una valutazione non più soltanto area per area (purtroppo tale rapporto finale è ancora in attesa di essere presentato al ministro Mussi, per poter poi divenire di dominio pubblico): ad esempio Gianni Toniolo scrive il21 marzo 2006 sul So1e240re che, grazie al Civr, «enti, dipartimenti, facoltà si stanno interrogando sui motivi dei propri successi e dei propri fallimenti... sui costi di una politica di assunzioni e promozioni attenta a parametri (scuole, vicinanza ideologica, appartenenza alla sede, anzianità di servizio) diversi da quelli dell'eccellenza scientifica. Si tratta di novità non da poco. Ma i cambiamenti di mentalità, di cultura, durano poco se non sono sostenuti da incentivi adeguati e necessari, il 1° [essendo] l'assegnazione dei finanziamenti alla ricerca sulla base delle valutazioni di un Civr trasformato in Autorità indipendente per la valutazione della ricerca». Nell'iniziale giorno di primavera di quest'anno, quando Toniolo così si esprime, molti ritengono che, se il centrosinistra tornasse, di lì a qualche giorno, al governo, il principio della valutazione nella ricerca uscirebbe rafforzato, perché la proposta di legge dei Ds del gennaio 2006 (con primi firmatari l'allora senatore, oggi sottosegretario al Miur, Luciano Modica e l'onorevole Walter Tocci) prevede l'istituzione di quel la specifica Autorità, cui riserva la funzione sia di effettuare «sulla base dei risultati delle sue attività di valutazione, la ripartizione tra le università e tra gli enti di ricerca di una quota» dei loro finanziamenti ordinari, sia di determinare «procedure, metodologie e tempi operativi», necessari alla valutazione periodica dell'attività dei singoli ricercatori. Viceversa, il decreto legge n. 262 del nuovo esecutivo, definitivamente convertito in legge il 23 novembre 2006, da un lato istituisce non un'Autorità indipendente bensì una mera Agenzia ministeriale (chiamata Anvur), solo dotata di «personalità giuridica dì diritto pubblico» e, dall'altro lato, ne sancisce la diminutio, perché la priva dei principali compiti sopra menzionati nella proposta di legge Modica-Tocci. Rimane soltanto che «i risultati delle attività di valutazione dell'Agenzia costituiscono criterio di riferimento per l'allocazione dei finanziamenti statali all'università e agli enti di ricerca». In aggiunta, i fondi annui assegnati all'Agenzia sono di poco superiori a quelli per il2006 di uno dei due Comitati (il Cnvsu), che, con il Civr, confluisce nell'Agenzia, mentre al Civr medesimo, cui nel frattempo si chiede di procedere al secondo esercizio di valutazione triennale della ricerca per il periodo 2004-2006, la Finanziaria non sembra dare alcun quattrino nel 2007. Infine, l'indebolimento dell'Agenzia è confermato dalla lettera che l’ll novembre 2006 il consigliere del ministro Mussi, Giovanni Ragone, invia a una sigla sindacale, da sempre ostile alla centralità della valutazione della ricerca nella proposta Modica- Tocci, affermando che «quote crescenti del finanziamento pubblico andranno distribuite fra le strutture in relazione ai risultati... su decisione del governo, non dell'Agenzia... L'Agenzia, almeno in un primo tempo, dovrà provare a valutare i risultati delle strutture e dei progetti», non (aggiungo io) dei singoli ricercatori. Dopo 440 anni pare, dunque, ancora prematuro il tentativo di concretizzare quell'aspirazione allegorica, magistralmente illustrata da Paolo Veronese nella lunetta affrescata della Villa palladiana di Maser, dove «l'Oblio scopre il Merito». (fiorella.kostoris@tin.it) ____________________________________________ Repubblica 3 dic. ’06 EUROPA, IL REBUS RICERCA TIMOTHY GARTON ASH SEDUTO assieme ai miei colleghi accademici nella dorata scomodità dello Sheldonian theatre di Oxford questa settimana, a discutere della futura gestione della più antica università di Inghilterra mi è venuta in mente la considerazione di GK Chesterton che la tradizione è la democrazia dei morti. Un professore di scienze politiche ha osservato che Oxford è una"cooperativa di lavoratori" da 800 anni e questa imponente cifra tonda ha continuato a ricorrere nel corso del dibattito della Congregation, il parlamento sovrano dell'università. Chi si oppone all'ingresso di membri esterni nelle strutture gestionali dell'università lo fa in nome dell'autogoverno democratico e della libertà accademica. I sostenitori della proposta di riforma citano norme moderne per 1a responsabilità esterna e la trasparenza delle istituzioni destinatarie sia di fondi pubblici che di donazioni caritatevoli. Questa volta hanno vinto gli oppositori della riforma, ma si andrà forse al voto per posta di tutti i più di 3.700 membri del parlamento universitario. Le particolari questioni organizzative in ballo sono complesse, ma l'interrogativo più ampio che pende sul dibattito di Oxford è semplice. Si tratta di stabilire se l'Europa disporrà tra vent'anni di università di ricerca di livello mondiale. Attualmente Oxford e Cambridge sono le uniche università europee a figurare in tutte 1e classifiche delle prime dieci università del mondo, altrimenti dominate dalle università americane. Ma anche Oxford e Canibridge reggono solo per miracolo. Se 1e cose andranno avanti così senza dubbio retrocederanno. IL soft power della storia, della bellezza, del mito e di una ricca tradizione intellettuale riesce a controbilanciare solo in parte l’ hard power delle spese superiori, dell'organizzazione e dell'innovazione. La mia vita accademica è divisa tra Oxford e Stanford, e noto la differenza ogni volta che attraverso l'Atlantico. Durante la mia permanenza a Stanford quest'anno l'università stava dando gli ultimi ritocchi ad una nuova campagna di raccolta fondi con l'obiettivo di incassare entro la fine del 2011 la somma di 4,3 miliardi di dollari, avendo già ottenuto impegni di finanziamento per circa 2,2 miliardi. Già ora Stanford beneficia di un finanziamento doppio rispetto ad Oxford. Le rette in media sono cinque volte superiori a quelle richieste da Oxford che, dato il tetto imposto dal governa alle tasse universitarie, calcola di perdere circa 5.000 sterline per ogni studente iscritto. Oxford mantiene numerosi bonus, non da ultimo quello di rappresentare una tradizione intellettuale particolare, uno stile comune di pensiero e discussione, meticoloso, empirico, scettico, ironico, di cui si è fatto ampio sfoggio nel dibattito alla Sheldonian Theatre. Ma oggigiorno una quantità spaventosa del tempo accademico di Oxford è presa da procedure burocratiche, molte delle quali direttamente o indirettamente imposte dal governo e dalle preoccupazioni economiche. Trovo che i docenti universitari a Stanford passino molto meno tempo a parlare di denaro rispetto alle loro controparti di Oxford, avendone a disposizione una maggiore quantità. Trovo anche che le grandi università americane, sia pubbliche che private, Berkeley come Stanford, hanno più fiducia in se stesse. Raramente dubitano di avere un ruolo vitale nello sviluppo delle rispettive società, alla pari delle imprese, dei tribunali, dei media o degli enti erogatori di prestazioni sanitarie. Dietro tutto questo c'è una questione di più ampia portata. La Gran Bretagna, come la Francia e la Germania, spende solo l'1,1 per cento del Pil per l'istruzione terziaria. Gli Stati Uniti spendono il2,6 per cento, di cui l’ 1,4percento deriva da fonti private e l'1,2 per cento da finanziamenti pubblici. In altri termini la spesa pubblica americana per l'istruzione superiore è maggiore della nostra spesa complessiva, pubblica e privata. L'Europa chiacchiera di"economia basata sulla conoscenza", loro fanno i fatti. E sono seguiti, con grinta, dalle economie asiatiche in crescita. Che fare? Una alternativa sarebbe che i contribuenti europei pagassero notevolmente di più per le loro maggiori università nazionali. È un'ipotesi probabile quanto l'eventualità che il Colosseo si sposti a Nottingham. Un'altra opzione per l'Europa sarebbe la condivisione delle risorse. È avvenuto con notevoli risultati nei laboratori di fisica delle particelle del Cern, culla del Web. Ma non riesco a immaginare che un grande paese europeo accetti di veder collocare l'unico dipartimento europeo di storia di livello mondiale in Francia, a patto che l'unico dipartimento di geografia di livello mondiale si trovi in Germania. La terza opzione è quella verso cui Oxford si sta orientando, al solito, per vie traverse: un modello che combini finanziamento pubblico e privato, senza asservirsi al modello delle grandi università americane, che hanno 1e loro pecche, ma traendo alcuni spunti dal loro operato. Gli spunti saranno diversi a seconda dei casi. Nel caso di Oxford prenderemo una serie di iniziative strettamente connesse. Organizzeremo la nostra campagna di raccolta fondi, che ad Oxford vuol dire coordinare le iniziative dei college e dell'università centrale. A giudizio di Sir Peter Lampi un filantropo che ha studiato a fondo la questione, Oxford raccoglie contributi da meno del 10 per cento dei suoi ex alunni, mentre Princeton li ottiene da più del 60 %. È una cosa assurda e la colpa è soprattutto nostra, anche se qualche modifica alla normativa fiscale sulle donazioni caritatevoli sarebbe d'aiuto. Poi chiederemo al governo e al parlamento britannico di portare 1e tasse universitarie diciamo a 10.000 sterline l'anno, il che equivale a circa due terzi del livello di Stanford contro il quinto attuale. Il ministro delle finanze e probabile futuro premier Gordon Brown ha detto che prenderà in esame la proposta almomento di rivedere, nel 2008,l’attuale tetto imposto alle rette e uno degli obiettivi non dichiarati della proposta di riforma gestionale di Oxford è proprio quello di favorire questa possibilità. L'aumento delle tasse universitarie esige un altro tipo di intervento, praticato dalle migliori università americane, ovvero fornire adeguate borse di studio ai molti studenti promettenti che non potrebbero permettersi di affrontare rette del genere. Nel contesto britannico significherà anche raddoppiare gli sforzi per far sì che gli studenti di estrazione meno abbiente e provenienti dalie scuole statali non siano scoraggiati dalla combinazione di elevate tasse universitarie, l' onere dei prestiti statali per mantenersi agli studi e l'immagine di una Oxford da damerini (ben lontana dalla realtà di oggi). La prassi americana di offrire agevolazioni per l'ammissione ai figli di ex alunni e di generosi donatori, che ha permesso a George Bush di entrare a Yale, sarebbe del tutto inaccettabile qui. Perché Oxford è, dopo tutto, una città europea. Sono queste 1e cose che determineranno il futuro di Oxford. La riforma gestionale proposta è semplicemente un mezzo per raggiungere un fine più ampio. Potrà sembrare un atteggiamento ossequioso alle richieste del governo, ma l'obiettivo a lungo termine è opposto: renderci meno dipendenti dallo stato e più in grado di mantenere l'eccellenza accademica e l'indipendenza partendo dalle nostre risorse e a modo nostro. Ecco perché (in caso ancora ve lo chiediate) personalmente appoggio la riforma, con tutte le sue imperfezioni. Se Oxford saprà compiere questi passi cruciali riuscirà forse a mantenere 1a posizione di università di ricerca di livello mondiale. Mala scelta non si pone solo aivotanti di Oxford. Sipone anche agli elettori britannici e, più in generale, alle società europee. Queste ultime sceglieranno forse alla fine di preferire l'istruzione superiore di massa, a libero accesso, a basso costo, come bene sociale e di abbandonare l'aspirazione che le università europee hanno nutrito da quando Wilhelm von Humboldt inventò il modello della moderna università duecento anni fa, ovvero coniugare l'insegnamento universitario alla ricerca di livello mondiale. Se andremo avanti così, di certo faremo quella fine. Facciamo almeno in modo che l'Europa, come Oxford, apra un ampio dibattito e operi una scelta consapevole. (traduzione Emilia Benghi) www.timothygartonash.rom ___________________________________________________ Il Sole24Ore 29 Nov. ‘06 L'ITALIA, UN CAPITALE DI TALENTI SPRECATI SANATORIE L'assunzione senza concorso di 300mila precari risponde a criteri sociali, ma allontana una volta di più la professionalità nella pubblica amministrazione ECONOMIA DELLA CONOSCENZA Il RUOLO DEGLI «INTANGIBILL›, Paesi capaci di far nascere atenei di qualità e attenti alla ricerca, il Governo, dopo aver messo l'università tra le istituzioni o la competitività - Si a Politiche per atrarre i cervelli, prioritarie, oggi ridimensiona l'impegno e sorvola sulla selezione innovazione richiede investimenti e risorse umane preparate: decisive le scelte meritocratiche di Riccardo Viale Perché oggi si parla così tanto di economia della conoscenza? Agli inizi del secolo scorso la crescita del capitale tangibile (strutture fisiche, macchinari, risorse naturali, eccetera) per ora lavorata contribuiva per i due terzi all'aumento della produttività del lavoro. Tale contributo è sceso alla fine del ventesimo secolo a un quinto. Cosa ha preso il suo posto? È stata la crescita della quota di un altro tipo di capitale, chiamato intangibile, costituito dalla conoscenza e dal capitale umano (in particolare istruzione, formazione, ricerca tit sviluppo, miglioramento delle strutture organizzative). Oggi lo stock di questo capitale è largamente dominante su quello tangibile (in Usa nel 1990 32.819 miliardi rispetto a 28.525 miliardi di dollari). Cosa significano questi dati? Che i Paesi più in grado di generare buone università, ricerca, formazione, organizzazioni e servizi validi sono anche quelli più competitivi a livello economico. Il concetto di economia della conoscenza era stato introdotto negli anni 6o dallo studioso austriaco Fritz Machlup ed è stato ripreso più volte da vari studiosi, fra cui Kenneth Arrow, fino al suo ingresso anche nelle analisi dell’Ocse ad opera di Dominique Foray. Perché si parla dell'economia della conoscenza separata da quella dei capitali tangibili? Per una serie di caratteristiche peculiari di questo bene: è difficilmente eseludibile, cioè chi lo produce non riesce ad evitare che i suoi benefici vengano appropriati anche dagli altri; non è rivale, cioè il suo consumo non porta al suo esaurimento; è cumulativo, cioè da questo bene se ne producono altri. Per capire le tre proprietà si pensi agli esempi della legge della termodinamica, del teorema di Talete o di una mappa geografica. Chiunque ha potuto utilizzarli dopo la loro scoperta, innumerevoli volte, per risolvere problemi e generare nuova conoscenza. Opposte caratteristiche sono tipiche di un bene materiale come qualsiasi prodotto di consumo. L'economia della conoscenza di cui tutti parlano, ma pochi almeno in Italia vogliono realizzare, pone però delle condizioni. Una delle più importanti e, per il nostro Paese, più difficile è che il capitale umano deve essere selezionato su base meritocratica. Poiché la conoscenza ha bisogno, per essere generata, di menti ben preparate e formate devono essere promossi e incentivati i più capaci in questo particolare tipo di produzione. Quindi i Paesi che sono in grado di formare e attirare i migliori talenti sono quelli che hanno le economie della conoscenza più competitive. Vi sono, a riguardo, vari indicatori che correlano positivamente talento e professionalità creative con il tasso di sviluppo economico e tecnologico. Siamo alla guerra dichiarata dei talenti e del merito. Anche in Italia tutti, a destra e a sinistra, sembrano mettere come obiettivo prioritario delle politiche pubbliche l'economia della conoscenza. Ciò avviene sempre nei programmi elettorali e viene dimenticato, puntualmente, nella prima Finanziaria. Prendiamo l'università. Ora sappiamo che vi è una evidente correlazione fra qualità dell'insegnamento accademico e performance economica di un Paese come di un singolo laureato. I Paesi che hanno migliori università, secondo gli indicatori convergenti delle varie graduatorie internazionali, sono anche quelli che hanno più capacità innovativa e di crescita. Il nostro governo, dopo avere messo nel suo programma l'università, fra le principali priorità della sua azione, si sta comportando come i governi precedenti nel momento delle scelte. Non sta incidendo significativamente, in senso meritocratico, sulle regole dell'organizzazione didattica e scientifica dell'università e ha, nello stesso tempo, indebolito finanziariamente l'intero sistema. Questa scarsa attenzione ai criteri di merito per selezionare e promuovere il capitale umano la si riscontra, poi, in un'altra misura presentata in questi giorni nella Finanziaria. Si prevede l'assunzione senza concorso di 3oomila unità di personale precario appartenenti agli enti locali, nazionali e alla scuola. Questa gigantesca sanatoria, senz'altro motivata dalle migliori finalità di tipo sociale, non farà che ridurre, ulteriormente, il livello di professionalità presente nella pubblica amministrazione e creare aspettative perverse ai giovani impegnati a orientarsi nelle scelte per il proprio futuro di lavoro. Quanti anni luce separano il nostro Paese dalla profezia di Winston Churchill nel suo discorso del 1943 all'Università di Harvard: «Gli imperi del futuro saranno imperi della mente». ___________________________________________________ Europa 29 Nov. ‘06 STANCHI DELL'UNIVERSITÀ DI MASSA Dalla Chiesa ai rettori: prestiti d'onore e abolizione del valore legale del titolo Visto da Bologna il mondo dell'università italiano sembra più vecchio. Sarà che è la sede della più antica università del mondo. Sarà che i rettori, anche in borghese, senza tocco e toga, si fanno riconoscere. Sarà che se uno di loro, Angelo Provasoli della Bocconi, prova a raccontare come ha fatto lui, tutti lo ascoltano stupiti, un po' scettici e molto molto invidiosi. Doveva essere un’occasione per fare il punto, mettere in fila qualche idea da recapitare al ministro. Si è trasformato in una seduta di autoanalisi con i rettori a chiedersi perché, ancora una volta, l'Accademia resta 1a bella addormentata, un potere senza potere, l'illustre dimenticata. Sì, perché la Moratti era la Moratti. E pazienza. Con Berlusconi la diffidenza era di pelle, ampiamente ricambiata Ma dal Professore, uno di loro e per di più di Bologna, ci si aspettava di più. E invece niente. "f università oltre la -Finanziaria" era il titolo del seminario a porte chiuse organizzato Nando dalla Chiesa, sottosegretario a ministero dell'università, e ospitato Fabio Roversi Monaco, presidente della fondazione CarisUo, già magnifico dell'Alma mater. Oltre la Finanziaria, appunto. Zero a zero e palla al centro. Anche perché, prima di lamentarsi, le università italiane hanno parecchio da farsi perdonare e i tantissimi rettori presenti lo ammettono, prendendo alla lettera l’invito di Dalla Chiesa a «una discussione libera, per dirsi cose che anche alla conferenza dei rettori non si dicono». Nessun processo, per carità. Ma lo stato di salute dell'università italiana promette male. E non per le graduatorie internazionali («basta chiamare qualche premio Nobel e si risale») che le vedono sempre galleggiare tra metà classifica e zona retrocessione, ma perché la qualità media si è abbassata, la ricerca è quella che è, i concorsi spesso una farsa, la governance è vecchia di trent’anni, la burocrazia rema contro. Sembra di capire che l’ università di massa, nobile conquista degli anni Sessanta, sia in piena crisi da inflazione. Troppi corsi di laurea, troppi docenti, troppe sedi, troppi voti alti, troppi studenti iscritti e ancora pochi laureati. I:autonomia universitaria (un valore, concordano tutti) è scoppiata in mano agli atenei che hanno aperto sedi e corsi di laurea un po' ovunque. Gustoso il racconto del rettore di Genova, Gaetano Bignardi, che ha dovuto resistere alle pressioni politico-clientelari per non aprire una sede di agraria ad Albenga, in una regione dove non c'è un solo podere e gli studenti interessati a sementi e coltivazioni sono due. Ben venga, allora, la moratoria del ministro Mussi che ha detto stop alla moltiplicazione anarchica di sedi, corsi e lauree. Oggi siamo a 77 atenei, 450 sedi, 5434 corsi di studio. Resta il fatto che così non va. Che fare? Certo, servono più fondi (c'è chi invoca un cuneo fiscale per l’Università nella Finanziaria delfanno prossimo), ma c'è bisogno di una scossa. È Andrea Cammelli, fondatore dì Alma Iaurea, a snocciolare un po' di cifre. Da un paio di anni si assiste a un calo delle iscrizioni, solo in parte spiegabile con il calo demografico. L’università di massa ha di fatto aumentato la mobilità Uilità sociale (tre laureati su quattro vengono da famiglie di non laureati) e aumentato l’occupazione (a cinque anni dal titolo quasi tutti hanno un lavoro) ma i laureati spesso finiscono nei call- center. La laurea è tornata a essere solo un foglio di carta. Perché con il3+2 ci si laurea più in fretta e con voti tanto alti che le imprese non li considerano più un biglietto da visita per i mondo del lavoro. Il biennio di specialistica di specialistico ha ben poco. Serve più selezione all’entrata e più meritocrazia nei percorsi di studio «perché l’Uuniversità torni ad essere per i capaci e i meritevoli». CHI FA DIDATTICA E CHI FA RICERCA La sensazione è che l’Accademia, pur gelosa della propria autonomia, sia incapace di riformarsi da sola, e attenda dal governo una mano, un indirizzo, un sistema di regole nuove, l’indicazione delle priorità. Lo si capisce quando l’illustrazione del modello Bocconi (governance e reclutamento "all'americana") è seguita da un coro di "come vorrei essere al tuo posto, "che invidia", "come sarebbe bello". Una nuova governance è la parola-mantra che ripetono un pó tutti ma che nessuno ateneo è in grado di darsi da solo. «Dubito che gli atenei possano trovare al proprio interno le forze per organizzarsi in modo nuovo - ammette il rettore di Bologna Calzolari-. Oggi ci sono 150 organi, ogni decisione richiede processi spaventosi». «Autonomia senza competizione non ha senso», spiega Provasoli della Bocconi dove autonomia significa docenti a chiamata, stipendi variabili, fund raising. Anche in Italia, e con trent’anni di ritardo, si potrebbe andare verso un sistema di separazione tra teaching university (con vocazione alla didattica) e resarch university (che puntano sulla ricerca) sul modello anglosassone. Non tutti devono fare tutto: ogni ateneo dovrà concentrarsi su quello che sa fare meglio in un sistema a geometria variabile. Ma non basta. Se si vuole un sistema di qualità (soprattutto per specialistica e dottorato) servono più soldi e nessuno più s'illude che lo stato possa pagare tutto a tutti. «l’università non può costare come rasilo nido, il futuro è sempre un investimento», dice Dalla Chiesa che rilancia coraggiosamente due proposte «politicamente cruciali», sulle quali il consenso politico a sinistra non è così scontato: prestiti d'onore e borse di studio più ricche e selettive («non c'è criterio di merito per l’accesso al primo anno e il reddito è spesso infedele») e la possibile abolizione del valore legale del titolo di studio, un ballon d'essai che gela una platea che lo considera ancora un tabù, per innescare un processo virtuoso di competizione tra gli atenei e perché «ogni università abbia i migliori docenti che può permettersi». II TABÙ DELLE TASSE «La nostra didattica sta peggio della nostra ricerca», ammette il ministro Arturo Parisi di passaggio al seminario, e Patrizio Bianchi, rettore a Ferrara, lancia una provocazione: «Un dentista ci costa 30 mila euro l’anno e ne paga solo due. Perché io devo pagare la preparazione di un dentista, quale contributo dà al nostro sistema? Serve un progetto-paese. L’errore tragico della Finanziaria e del decreto Bersani è stato di riportarci a discutere di tagli di spesa come se il problema dell’università italiana fosse quello. Ci stiamo mangiando consensi». Oggi più del 90 per cento del Fondo di finanziamento ordinario se ne va per pagare gli stipendi al personale di ruolo. Probabilmente si andrà verso un progressivo innalzamento delle tasse universitarie. Fondi per la ricerca possono arrivare dalle fondazioni bancarie e dalle imprese perché il mercato dei ricercatori è sempre più mondiale e un giovane cervello va dove ci sono i fondi. «Mentre noi mandiamo i nostri giovani Erasmus in Romania perché costa meno», confessa il rettore di Camerino. Anche il reclutamento dei docenti e i percorsi di carriera devono cambiare, come sottolinea Ferdinando Latteri, ex rettore di Catania e responsabile università della Margherita: la legge del 1980 è superata nei fatti, e nel 2015 una valanga di docenti ordinari se ne andrà in pensione. Un’occasione irripetibile per voltare pagina. Il modello degli anni Sessanta è in crisi: troppi docenti, troppi corsi e pochi laureati, mentre servono più soldi, qualità e una selezione mirata _______________________________________________________ Il Sardegna 1 dic. ’06 UNA UNIVERSITÀ DI SANTI E DI BARONI: PUNTANO INTERE FAMIGLIE DI DOCENTI Parentopoli. Ricercatori, professori associati, docenti di ruolo: nelle facoltà a regnare sono le “dinastie” I Corrias in cattedra sono addirittura cinque in tre dipartimenti diversi: un vero record Una Università di santi, di poeti e di “baroni”. E di intere famiglie che occupano le poltrone del potere, gli scranni della docenza nelle facoltà più frequentate. Parentopoli è davvero “Unica” perché su 2500 dipendenti si vedono intere famiglie al lavoro e alberi genealogici che si intrecciano. Tra nobiltà e pezzi pregiati che nascono e si formano, curiosamente, spesso all’interno delle stesse famiglie. Gli studenti lo sanno: diventare ricercatore universitario è più difficile, per chi non ha un cognome illustre alle spalle. Uno, due, tre, quattro, cinque docenti universitari che fanno parte di una sola famiglia: al campanello c’è scritto Corrias.Un cognome ben conosciuto sia dagli studenti di Giurisprudenza che da quelli di Economia e Scienze politiche. Un puzzle familiare dagli incastri perfetti: la mamma è Maria Corona Corrias, che è sorella di Giovanni Corona, docente di Trasporti e presidente del Ctm di Cagliari. Lei, che insegna storia delle dottrine politiche in Scienze politiche, è sposata con Piergiorgio Corrias, docente di diritto del lavoro, uno degli esami più “tosti” della facoltà. A lor volta mamma Corrias e papà Corrias hanno due figli, col sangue del docente universitario: Paolo Corrias insegna Diritto delle assicurazioni, un esame che invece è nato proprio in coincidenza col suo arrivo in viale Fra Ignazio. Mentre Massimo Corrias inculca il diritto del lavoro negli studenti della vicina facoltà di Economia e commercio. MA LA FAMIGLIA Corrias non è certo l’unica nell’Università dei “baroni ”. Ad esempio Carla Seatzu, classe 1971, è ricercatrice presso il dipartimento di Ingegneria elettrica ed elettronica. Giovanissima come il fratello Francesco Seatzu, che invece è già docente di diritto internazionale, ma nella facoltà di Giurisprudenza. E dietro c’è anche un papà che la carriera universitaria la conosce bene: Sebastiano Seatzu è infatti professore ordinario di analisi nel dipartimento di matematica e informatica, in Ingegneria come la figlia. Forse allora ha ragione il rettore Mistretta che ieri aveva detto: «Ci sono moltissimi parenti all’Università, spesso è una questione di fiducia: se sono validi, perché non assumerli? Spesso i figli illustri finiscono nel tunnel della droga per complessi di inferiorità nei confronti dei padri. Io stesso ho un figlio che è ricercatore in Ingegneria, ma non l’ho mai favorito e non è neanche professore associato». INTANTO Maria Concetta Pisano, nella Parentopoli di Unica, precisa la posizione delle sue due figlieValeria e Stefania asia. «Faccio parte del Senato accademico- aggiunge- ma a differenza di molti altri le mie figlie sono entrate all’Università con contratti a tempo determinato e con regolari selezioni pubbliche. Valeria è una pedagogista esperta, ha fatto anche master all’estero, è una tutor nel settore della disabilità, è stata assunta con un cococo dopo un concorso nel quale si era piazzata decima. Stefania invece lavora alla segreteria studenti e anche lei è stata presa dopo una selezione, e ha un contratto a tempo. La verità è che nell’università cagliaritana ci sono oltre 400 precari, e io al Senato accademico sono la prima a combattere il precariato». E forse proprio quei precari si chiedono come mai ci siano così tanti parenti, nell’organico dell’ateneo cagliaritano. E molti qualificati neo laureati restano fuori dai dottorati, dove- anche in questo caso- gli assegni volano spesso per i parenti illustri. E c’è chi giura che l’elenco delle genealogie sia ancora pieno di sorprese. Jacopo Norfo _______________________________________________________ L’Unione Sarda 29 Nov. ’06 INTERNET COME UNA DROGA Uno studio dell’Università di Stanford La grande rete peggio della droga INTERNET COME UNA DROGA. E tra le più potenti. La grande rete sta creando una forte dipendenza tra i suoi navigatori abituali, provocando veri e proprie crisi di astinenza e compromettendo le relazioni con il prossimo. Almeno secondo l’ultimo studio dell’Università di Stanford, in California, uscito su Cns Spectrums (www.cnsspectrums.com), una delle più autorevoli riviste americane di neuropsichiatria. Basta pensare che il 6 per cento degli intervistati ha confessato che l’uso eccessivo di internet ha fortemente compromesso le proprie relazioni familiari e sociali, portando in casi estremi anche alla separazione tra coppie prima ben affiatate. Ma non solo, la dipendenza dal web ha aumentato anche l’assenteismo al lavoro e ha portato addirittura a trascurare l’igiene personale e i figli. Secondo gli studiosi un’ora di internet diminuirebbe i contatti con i familiari di 24 minuti, mentre ridurrebbe il sonno di quasi 12 minuti. Gli intervistati hanno dichiarato che circa metà del tempo trascorso online lo si passa a controllare o scrivere e-mail ed a chattare su programmi come Messenger o Skype. Tra i giovanissimi sono invece molto diffusi i giochi on line, che permettono di sfidarsi in simultanea da tutti i continenti. (ale. t.) _______________________________________________________ L’Unione Sarda 29 Nov. ’06 IL FLOP DELLE LAUREE TRIENNALI La maggioranza degli studenti sceglie il biennio specialistico Senza lavoro, si resta all’università Mi piacerebbe che la Moratti mi spiegasse con quale criterio ha progettato la riforma universitaria! Si disse che l’Italia si doveva allineare agli standard europei e la durata dei corsi di laurea fu ridotta a tre anni. Salvo che la laurea triennale, a detta dei docenti, vale poco più di niente, per cui è indispensabile sobbarcarsi altri due anni per conseguire una laurea specialistica. Ma la cosa che più mi fa infuriare è che la Triennale non viene equiparata alla Quinquennale, pur dando la stessa preparazione! Il carico è identico: il piano di studi del vecchio ordinamento prevedeva 25 esami, quello della Triennale ben 40! Smettiamo di insinuare che la Triennale non serve a niente: prendete visione del Dpr 328 del giugno 2001, che indica molto chiaramente le numerose competenze che tale laurea conferisce dopo aver sostenuto l’esame di Stato! Lettera firmata La Riforma universitaria che ha introdotto il cosiddetto 3 + 2 (in realtà il sistema è ben più complesso) non è stata varata da Letizia Moratti. Il Decreto 509 risale al 1999 e porta la firma di Ortensio Zecchino, ministro dell’Università nei due governi D’Alema. Fa parte di un percorso, concordato a livello europeo, che dovrebbe armonizzare i sistemi di istruzione superiore e rendere comparabili i titoli di studio entro il 2010. Nell’Europa della Conoscenza, i cittadini dovrebbero potersi spostare per studio e per lavoro vedendosi riconoscere dovunque le competenze acquisite. Ignoro a che punto siamo di questo ambizioso e nobile programma. In Italia la riforma aveva però un’altra valenza particolare: avrebbe dovuto formare una classe di giovani che entrassero più velocemente nel mercato del lavoro con una preparazione superiore al diploma. Ma su questo piano è un fallimento: tutti le ricerche (su Internet se ne trovano diverse) confermano che due terzi dei triennalisti proseguono gli studi. Non solo, si orientano più spesso verso la laurea specialistica che non verso il Master di primo livello, che dovrebbe indirizzare a una professione. Ragionano quindi con la mentalità del vecchio ordinamento. Perché? Le ipotesi sono molte. Secondo il Consiglio nazionale degli ingegneri, le aziende non assumono laureati triennali perché non sanno quali mansioni possano svolgere, e con quali responsabilità. Altri sottolineano che l’Università resta un parcheggio per chi non trova lavoro, e probabilmente questo è vero in Sardegna. Il problema è complesso e non può certo essere affrontato in questa rubrica. Un ultimo chiarimento è però indispensabile: la laurea triennale non dà affatto la stessa preparazione delle lauree quadriennali e quinquennali del vecchio ordinamento, che infatti sono legalmente equiparate a quelle specialistiche del nuovo. Daniela Pinna _______________________________________________________ Corriere della Sera 25 Nov.’06 CARO LAUREATO. NOVANTA MILIONI PER UN INGEGNERE la formazione universitaria costa cara allo Stato : una 20a di milioni all' anno per ogni studente Caro.laureato Novanta milioni per un ingegnere (v.d.c.) Novanta milioni per creare un ingegnere, 60 per un laureato in giurisprudenza e quasi 45 per un diplomato. La formazione universitaria costa cara allo Stato: una ventina di milioni all' anno per ogni studente. Anche il Cun ha posto attenzione ai costi, nell' elaborare il piano delle facolta' di ingegneria, e da quest' anno puntera' sul recupero di efficienza degli atenei lombardi. Intanto, dalle prossime settimane decollera' il programma di coordinamento regionale delle diverse facolta' . Le ultime cifre sulle iscrizioni evidenziano un incremento per le facolta' scientifiche e una flessione per quelle letterarie. "Negli ultimi tre anni il numero delle immatricolazioni e' aumentato oltre le previsioni, sia nella sede centrale sia in quelle periferiche", ha detto il professor Marcello Fontanesi, preside di Scienze all' Universita' degli studi di Milano, con gemmazione di corsi (Fisica, Chimica e Matematica) a Como, intervenendo al convegno "Universita' : sviluppo, cooperazione e risorse", svoltosi nei giorni scorsi al casino' di Campione. Al simposio hanno partecipato, oltre ad Antonio Ruberti, gia' ministro dell' Universita' e della Ricerca scientifica, i rettori degli atenei di Milano, Pavia e Brescia. ___________________________________________________ Il Sole24Ore 27 Nov. ‘06 E-LEARNING: IN ORDINE SPARSO Formazione a distanza. Uno studio Ue evidenzia livelli di sviluppo diversi peri corsi universitari In assenza di regole generali prevalgono le sperimentazioni A CURA DI Loredana Oliva Il professore si alza molto presto al mattino, decisamente prima dello studente. Mentre quest'ultimo, caffelatte in una mano e mouse nell'altra, si trascina in pantofole e pigiama, davanti al video dei suo pc, il docente-tutor, è già li pronto. Rasato di fresco, abbigliamento casual, sprizza energia da tutti pori; e uscendo da un'animazione colorata apostrofa il suo allievo puntandogli familiarmente il dito della mano destra «How are you? Are you ready?». Negli Stati Uniti si usa lo stile friendly e qualche volta il ritmo del videogame, per coinvolgere gli studenti in una sessione d'insegnamento a distanza. Poi arrivano le banche dati, i materiali da acquisire, le esercitazioni interattive, e più recentemente anche chat eblog.In alcune università il contatto rimane virtuale, e gli incontri vis à vis con i professori si contano a fine corso sulle dita di una mano; per le grandi distanze, e dell'e-learning pensato come uno strumento che può avvicinare la provincia dell'Ohio alla Columbia University. Nella nostra più piccola Europa tutto è permesso o quasi. La modalità più usata, che calibra Internet e supporti tecnologici con la presenza in aula e il contatto con il docente, è solitamente blended, integrata cioè con un massimo del 50% di aula virtuale. Nonostante gli sforzi della Commissione europea con i progetti di campus virtuali, azioni trasversali e consorzi tra atenei, non c'è una regolamentazione unitaria. Persiste la nebulosa di sperimentazioni e iniziative autonome di cattedratici che portano avanti la causa, senza un vero supporto a livello istituzionale. In Italia più che in Europa. Tra le iniziative di promozione dell'e-learning avviate dalla Ue c'è il progetto Elue, che presenta i risultati di un'indagine della Conferenza dei rettori delle università italiane, dalla Conference des presidents d'université francaise e da Finnish virtual university sugli atenei dei rispettivi Paesi. Finlandia, Francia e Italia a confronto sulle politiche, le risorse, le tecnologia utilizzate e il grado d'innovazione. È evidente una diversa sensibilità politica delle istituzioni governative nei confronti delle politiche di finanziamento dell'e-learning. Infatti, in Francia e Finlandia, il sistema d'istruzione universitaria si avvantaggia di stanziamenti pubblici espressamente destinati alla promozione dell'e-learning, contrariamente a quanto avviene in Italia. In Finlandia dal 2001, il ministero dell'Istruzione ha assegnato annualmente agli atenei nove milioni di euro per lo sviluppo delle università virtuali, così sono stati realizzati negli anni quasi mille corsi online, equivalenti a circa 2.500 settimane di studio. In Francia negli ultimi dieci anni, sono stati adottati due tipi di provvedimenti: il sostegno ai progetti degli atenei come parte delle strategie di accordo tra il governo e le università; il finanziamento dei progetti comuni interuniversitari di sviluppo di risorse multimediali, di digital campus, università digitali regionali e la creazione di ambienti di lavoro digitali. In Italia invece gli atenei hanno autonomamente scelto di destinare parte del proprio budget a tali attività, senza guida legislativa né aiuto finanziario. Si distinguono due eccezioni: il progetto CampusOne della Crui che ha promosso, tra il 2001 C il 2004, anche l'adozione delle nuove tecnologie per la didattica e il decreto Moratti-Stanca (17 aprile 2003) che istituisce in Italia le università telematiche, attualmente oggetto di qualche ripensamento: «I benefici sono di poco conto, non si prevedono incentivi agli atenei» sottolinea la ricerca Crui Elue. Lo scenario finlandese è quello più sviluppato per la reale diffusione dell'e- learning nelle università, del contenuto tecnologico e innovativo. La Francia si distingue per la partecipazione a network e a piattaforme internazionali, nonché sul fronte tecnologico, con l'acquisto di attrezzature, sviluppo della rete, e per un'importante attività di ricerca. ITALIA« POCHI CASI ALL'AVANGUARDIA Solo il 10 per cento di iscritti Se nel confronto con Francia e Finlandia, l'Italia sembra fare da fanalino di coda, non mancano gli esempi d'innovazione. Il numero di studenti italiani che usufruiscono di istruzione a distanza indica un fenomeno circoscritto: le 77 università italiane non attirano più del 10% degli iscritti nei corsi a distanza. Gli utenti di didattica a distanza lo fanno in atenei che praticano in misura rilevante la videoconferenza o la didattica via web, anche con tecnologie innovative. Come a dire, pochi ma buoni. È un fatto che l'esperienza di CampusOne, il progetto di o-1earning attivo nel triennio 2ooi-aoo4, abbia coinvolto 70 atenei, con un investimento di i8o milioni di euro e che abbia lasciato un'eredità importante in termini di sviluppo e durata dei progetti, oggi portati avanti dalle singole università. Maturano in alcuni atenei italiani progetti di piattaforme tecnologiche innovative per l'e-learning e sistemi sofisticati che possono stare al passo con l'esperienza internazionale: dall'Università di Udine, al Politecnico di Milano, Tor Vergata (Roma), tra le altre. Una vera autorità in materia è Furio Honsel, rettore dell'università di Udine, che vede nell'uso dei sistemi digitali una grande opportunità per l’e-learning: «Il digital learning permette di incrementare la flessibilità della didattica sia in termini di tàrget di studenti che di accessibilità spaziale e temporale - dice - ma non solo, pensiamo alla modularità, la riusabilità e dei materiali e la tracciabilità. Tutto ciò conduce a una didattica di qualità migliore, più centrata sullo studente». EFMD CEL _______________________________________________________ L’Unione Sarda 1 dic. ’06 135.700.000 EURO: L’UNIVERSITÀ DI CAGLIARI CAMBIA VOLTO Per gli atenei sardi sono in arrivo 135.700.000 euro per progetti che potenzieranno i centri per l’alta formazione e la ricerca nell’Isola e garantiranno agli studenti più diritti e servizi, a cominciare dall’aumento dei posti letto nelle residenze universitarie degli Ersu di Sassari e Cagliari. Ieri a Roma è stato firmato l’Accordo di programma quadro (Apq) in materia di istruzione, che rafforza la politica della Giunta regionale a sostegno della formazione universitaria con interventi per 50.450.000 euro di fondi Cipe, cui si aggiungono altri fondi della Regione, dell’Università di Sassari e dell’Ersu di Cagliari. Questi i punti qualificanti dell’accordo. POLO TECNOLOGICO L’intervento previsto è di 10 milioni di fondi Cipe di euro per il Polo tecnologico in via Is Maglias. È prevista la costruzione di alcuni edifici per il potenziamento e la qualificazione delle strutture universitarie dedicate alla didattica, con specifico orientamento verso gli aspetti tecnologici. L’obiettivo generale è favorire una didattica innovativa, rivolta sia agli studenti delle facoltà tecniche e scientifiche (Ingegneria e Architettura), sia al sistema delle imprese e dei servizi operanti in Sardegna che necessitano di attività formativa e di riqualificazione. STRUTTURE RESIDENZIALI L’intervento per le strutture residenziali dell’ateneo cagliaritano, gestite dall’Ersu, è di 90.500.000, di cui 15 milioni di fondi Cipe, 12.500.000 di fondi regionali, 63 milioni di fondi Ersu e permute. Riguarda la realizzazione di 1.500 nuovi posti letto, nell’area della Ex Sem per un migliaio di posti letto e per un’altra area - ancora da individuare - per il Polo ingegneristico e di Sa Duchessa con altri 500 posti letto e una mensa. Un intervento di 100 mila euro è stato destinato allo studio di fattibilità per un sistema regionale di residenze universitarie a Cagliari e Sassari, che dovrà valutare il patrimonio edilizio nelle due città più adatto a ospitare le residenze. POLO DI ALTA FORMAZIONE Un intervento da 100 mila euro è previsto per uno studio di fattibilità per la realizzazione di un Polo di alta formazione dedicato all’area economica del Mediterraneo, che acquista un valore strategico dal momento che nei prossimi sei anni la Regione ricoprirà l’incarico di Autorità unica di gestione del programma ENPI dell’Unione Europea, per la cooperazione nel Mediterraneo. il resto dell’isola L’intesa prevede il potenziamento del polo di Bonassai per la ricerca e la formazione in agraria e veterinaria dell’università di Sassari, con 30 milioni di euro, di cui 20 milioni di fondi Cipe e 10 milioni dell’ateneo sassarse. Un milione 200.000 euro di fondi Cipe, infine, sono stati destinati al potenziamento di una rete di scuole di eccellenza per il turismo, che comprende gli istituti alberghieri di Arzachena, Oristano, Alghero. _______________________________________________________ La Nuova Sardegna 30 Nov. ’06 LA SANTA ALLEANZA DI TUTTI I MEDICI SARDI Il neo comitato: «Senza di noi, con chi realizzano il piano sanitario?» CAGLIARI. Un’alleanza mai vista prima tra universitari e ospedalieri, primari e precari, medici di ambulatorio e medici di famiglia si è presentata ieri mattina all’universalità della sanità sarda per dire: ben arrivato al piano sanitario regionale, siamo preoccupati di come verrà applicato, è indispensabile che la Politica promuova un’azione di «clinical governance». Si tratta di una specie di bacchetta magica presente nella letteratura internazionale sulla gestione sanitaria che in sostanza raccomanda, anzi, impone, il pieno coinvolgimento degli operatori, soprattutto quando si chiedono loro cambiamenti culturali in qualche caso epocali. Per la Sardegna, nel piano sanitario alla discussione del consiglio regionale, di epocale c’è l’addio alla medicina cosiddetta ospedalocentrica; l’abolizione dei doppioni di reparti e specialità; il controllo capillare della spesa. Quel che ieri i nove rappresentanti degli operatori sanitari sardi hanno spiegato (con l’introduzione di Fabio Barbarossa, Fimmg) è questo: il risparmio deve essere perseguito ma, per spendere il giusto e migliorare la qualità della medicina praticata in Sardegna, bisogna ascoltare anche chi conosce i problemi perché li vive. Come ha illustrato Luigi Maxia, Cimo, a proposito della pediatria sarda: «Noi riscontriamo ogni giorno l’inappropriatezza dei ricoveri, che causano aggravi di costi ingiustificati, e sono numerosi i genitori che portano fuori i propri bambini per metterli in apparati migliori dei nostri, con una conseguente maggiore spesa per la Regione: chiediamo di essere ascoltati perché è necessario uscire dalla frammentazione in cui si trova la pediatria qui da noi a vantaggio dei piccoli pazienti e in linea con leggi e convenzioni internazionali che finora sono stati lettera morta». Giulio Rosati, preside della facoltà di Medicina di Sassari, non ha potuto fare a meno di notare una contraddizione: nel piano c’è un paragrafo dove si dice che la sanità sarda ha raggiunto buoni livelli negli anni grazie al profondo senso di responsabilità degli operatori, nonostante la completa assenza di indirizzi, ma questo non è bastato perché le indicazioni arrivate dagli operatori venissero, se non accolte, almeno considerate. Così potrebbe succedere che le due facoltà di Medicina sarde non avranno come insegnare agli studenti radioterapia, geriatria, farmacologia clinica perché nel piano sanitario nelle nascenti aziende miste Regione-Università queste discipline non figurano: «Ma la grande novità è che i medici sardi non intendono lamentarsi - ha spiegato il preside di Cagliari Gavino Faa - bensì formare una rete che, purtroppo, nel piano sanitario esiste solo come enunciazione. Come si fa a tenere fuori dalla rete per l’Oncologia le due università? Hanno escluso i due atenei, e poi si scopre che a Olbia, al San Raffaele, ci sarà Neuroscienze: non era a Cagliari una delle eccellenze nel mondo?». Marcello Angius dell’Anaao: «L’esigenza fondamentale di condividere le scelte con gli operatori che sono a contatto con i bisogni della popolazione non è stata tenuta in conto nei palazzi della politica. A nostro parere il piano lascia troppe deleghe alla politica, vale a dire gli assessori e i funzionari che amministrano le aziende: questa libertà deve essere regolamentata attraverso il confronto con i cittadini e gli operatori». Luciana Cois, Cgil-Medici: «Siamo favorevoli all’ipotesi di deospedalizzare, ma crediamo non si possa partire con un territorio disorganizzato in modo endemico. Occorre ottimizzare i distretti affinché non siano solo filtro, ma alternativa valida all’ospedale. E poi, per uscire dall’attuale disgregazione, occorre che nei distretti ci siano anche altri medici oltre quelli di base e occorre che si investa in tecnologie nel territorio». Giampiero Andrisani, Fimmg: «Il piano sanitario regionale è un atto dovuto, male che non ci sia stato in passato, ma visto il mancato coinvolgimento degli operatori, con chi verrà portata avanti questa programmazione?». Enrico Giua, Anpo: «Bisogna affrontare il precariato: chi va in pensione viene sostituito da medici reclutati per chiamata diretta e con contratti a termine da 22-26 mila euro lordi l’anno, senza ferie, senza congedi malattia e aggiornamento. Di questo passo nel servizio sanitario pubblico ci saranno solo queste figure». Enrico Dovarch, Sumai: «Il problema è il metodo col quale portare avanti le cose: è più facile decidere senza consultare nessuno. Ascoltare le persone mette di fronte ai problemi». _______________________________________________________ L’Unione Sarda 2 dic. ’06 CITTADELLA WI-FI: DA MARZO INTERNET GRATIS E SENZA FILI Monserrato. Università Comodamente seduti su una panchina, all’aria aperta, sarà possibile navigare su Internet senza fili e cavi telefonici. Il primo campus universitario che partirà con il sistema Wi-Fi è la cittadella di Monserrato. Una volta collaudato il sistema di sicurezza, entro marzo, gli studenti potranno utilizzare Internet gratuitamente nell’ampio spazio all’aperto a due passi dall’aula magna. Ma entro la fine del 2007 tutto l’Ateneo sarà investito dalla rivoluzione tecnologica: anche nei poli di Ingegneria, di Sa Duchessa, dell’Orto botanico, del Palazzo di scienze e in tutta l’area di viale Fra Ignazio (facoltà di Giurisprudenza, Economia e Scienze politiche) saranno attivati i sistemi del Wi-Fi. Il primo progetto ad andare in porto, appunto quello della cittadella universitaria di Monserrato, chiamato Mc2 (Mobile computing campus), è stato presentato ieri. Grazie a circa 787 mila euro di fondi europei dal Programma operativo nazionale 2000-2006, e al cofinanziamento dell’Università di Cagliari (con poco meno di ottanta mila euro), oltre a creare gli spazi Wi-Fi, si è proceduto al collegamento della rete telematica della cittadella con quella a fibre ottiche del comune cagliaritano. «Un’iniziativa della facoltà di Medicina ? ha sottolineato il coordinatore del progetto, Vincenzo Piras, presidente del corso di laurea di Odontoiatria ? a disposizione non solo del Policlinico ma di tutta la cittadella». Mc2 ha permesso di rendere innovativa (e meno dispendiosa) la rete telematica del polo universitario di Monserrato: «Prima ? ha ricordato Roberto Porcu, responsabile dei servizi informatici dell’Ateneo ? esistevano due reti, una per uso amministrativo e una per utilizzo scientifico. Dunque più difficile da controllare, più costosa e che non permetteva di aprire nuovi servizi, come le aule informatiche. Oggi, con il nuovo progetto che ha collegato la cittadella con la sede universitaria di via Marengo, esiste una sola rete di collegamento che viaggia a una velocità fino a venti volte superiore alla vecchia». Questa la parte più costosa del Mc2. Poi c’è il Wi-Fi: «Siamo nella fase dei test ? ha evidenziato Porcu ? ma entro marzo, quando il sistema sarà sicuro, gli studenti potranno navigare su internet senza fili, nello spazio all’aperto della cittadella. Magari in una comunity virtuale che speriamo di attivare in breve tempo». E, grazie a un progetto della Regione, il servizio Wi- Fi partirà, entro il 2007, anche in altre facoltà universitarie nel centro di Cagliari. (m. v.) ================================================== _______________________________________________ La Nuova Sardegna 24 nov. 06 INVADENZA GENETICA: QUANDO LA SCIENZA DIVENTA RELIGIONE di Ezio Laconi E’ di una settimana fa la notizia, pubblicata sulla Nuova Sardegna, che anche comportamenti quali l’essere nevrotici o disponibili sono inesorabilmente caduti nella sfera di influenza della genetica, che è diventata ormai una sorta di religione della scienza. Il dato da cui prende spunto la notizia, frutto di un lavoro scientifico diretto dal prof Cao, dice in realtà esattamente il contrario: quei comportamenti sono infatti attribuibili in larga misura all’ambiente; tuttavia, per ragioni che mal si conciliano con l’esigenza di obiettività della scienza, il titolo dell’articolo sul giornale recitava: “nevrotici o disponibili: è scritto nei geni”. E così dopo l’alcolismo, l’omosessualità, e, ovviamente, la possibilità di sviluppare il cancro o l’arteriosclerosi, anche il nostro comportamento è tutto già scritto: a noi non resta che svegliarci ogni mattina (se i geni ce lo permettono) e lasciare che si avverino le scritture. Saremmo niente più che involucri contenenti informazione genetica, la quale decide più o meno tutto di quello che noi siamo e diventeremo. La Sardegna poi sembra sia diventata uno degli epicentri del nuovo credo religioso, con tanto di cattedrali e cardinali officianti, anche nel tentativo di capitalizzare al massimo sulla peculiarità dei Sardi dal punto di vista genetico. Non è un caso che si sia svolto a Cagliari un mese fa il Congresso mondiale di Genetica Psichiatrica, nel corso del quale si è potuto affermare tranquillamente che anche la capacità di apprezzare un’opera d’arte è, in fondo, scritta nei nostri geni! Questa cultura, o pseudo-cultura, del dio-gene, che detta così può apparire ridicola, sta in realtà permeando profondamente i nostri orientamenti medico- scientifici e più in generale il nostro senso comune. Da una parte significa senso di impotenza e fatalismo, perché a tutto quello che sta scritto nei geni, quasi per definizione, ci dobbiamo inchinare, e a poco servono i nostri sforzi per cambiare il corso degli eventi. Volenti o nolenti, questo è il messaggio essenziale, scientificamente e socialmente devastante, che viene diffuso sia tra la cosiddetta gente comune, che anche tra i medici che non hanno la possibilità di accedere a informazioni di prima mano. Dall’altro si alimenta un’operazione culturale fondata sul mito del gene ideale, del prototipo perfetto con cui ciascuno di noi si dovrebbe confrontare e a cui dovremmo aspirare, (motivo ricorrente nella cultura occidentale, almeno da Platone in poi); un mito che, oltre ad essere molto pericoloso, è anche scientificamente infondato. Io studio il cancro. Il cancro dipende da cause ambientali in oltre il 90% dei casi. Quando questo si capì, diversi decenni fa, si trattò di un dato di enorme portata, in quanto si apriva la speranza di poter intervenire e cambiare il corso delle cose. Un significativo passo avanti rispetto ai secoli precedenti, in cui si pensava che il cancro fosse conseguenza di una maledizione divina. Una credenza che, paradossalmente, oggi ritrova spazio nella cultura del dio-gene. Vi sono, a Cagliari e in Sardegna, degli ottimi genetisti. E’ urgente che si facciano carico di questi temi e che si assumano la responsabilità di correggere queste pericolose storture, anche a costo di rinunciare a una parte dei finanziamenti alla ricerca genetica. Ne guadagnerà la scienza, la stessa ricerca genetica e più in generale la qualità del dibattito culturale nella nostra comunità. Il che non è poco. _______________________________________________________ Corriere della Sera 2 Dic. ’06 SANITÀ: TORNANO LE VECCHIE MUTUE sanita' , i contributi non aumentano tornano le vecchie mutue, restano i ticket regionali. ma i medici ospedalieri confermano lo sciopero. le novita' contenute nel decreto delegato esaminato ieri dal governo. riforma sanitaria Tornano le vecchie mutue, restano i ticket regionali. Ma i medici ospedalieri confermano lo sciopero TITOLO: Sanita' , i contributi non aumentano ROMA . Nel futuro della sanita' c' e' anche un pezzetto di passato: un ritorno alle vecchie mutue, rivedute e corrette. Strutture promosse da organizzazioni di categoria o anche solo da associazioni di cittadini che stipuleranno convenzioni per l' erogazione di certi servizi sanitari, scegliendo un ospedale o un laboratorio piuttosto che un altro. Motore di concorrenza e, promette il governo, di maggiore efficienza, piu' alta qualita' e minori costi. E questa una delle novita' contenute nel decreto delegato esaminato ieri dal governo. Un obiettivo programmatico ancora da definire nei dettagli, che si affianca a misure piu' immediate. Il governo ha rinunciato all' aumento dei contributi sanitari e ha corretto l' autonomia impositiva delle Regioni, riducendola ma in lieve misura: gli enti locali potranno comunque imporre ticket su pronto soccorso, ricoveri e day hospital. Unico correttivo: una preventiva conferenza Stato.Regioni con l' obiettivo di coordinare gli interventi, evitando di lasciare l' iniziativa alle singole Regioni, con il pericolo di penalizzare l' utente. Con queste integrazioni, concordate ieri in un incontro tra governo e sindacati che ha preceduto la riunione serale del Consiglio dei ministri, il decreto delegato sulla sanita' va ora all' esame delle commissioni parlamentari per poi tornare a Palazzo Chigi, dove avra' il via libera definitivo. E il terzo della serie, dopo fisco e pensioni: ora manca solo il pubblico impiego. Giuliano Amato conta di fare tutto entro Natale, in anticipo rispetto ai tre mesi previsti dalla legge. Le Usl, fortemente ridotte nel numero (in pratica coincidenti con le province), diventano vere e proprie aziende guidate da una dirigenza "tecnica": direttore generale, sanitario e amministrativo scelti sulla base di albi nazionali. Saranno solo un centinaio le aziende ospedaliere, legate a requisiti di specializzazione. La novita' che in futuro si rivelera' piu' determinante per il nuovo assetto del sistema sanitario italiano riguarda l' assistenza indiretta. Il decreto introduce un regime competitivo nel sistema di erogazione dei servizi. Ospedali, ambulatori e laboratori pubblici e privati, attualmente convenzionati, entreranno in concorrenza tra loro. Le Usl, una sorta di holding finanziarie, sceglieranno le strutture erogatrici, in base alla quantita' e alla qualita' delle prestazioni, vale a dire in base al fatto che il cittadino effettivamente vi ricorra. Ma non e' tutto qui. Nel decreto e' previsto che possano costituirsi soggetti collettivi (mutue, consorzi, associazioni di categoria) a cui i cittadini possano scegliere di ricorrere in alternativa alle Usl. Questi soggetti collettivi, pero' , non erogheranno direttamente i servizi, come previsto nella bozza presentata dal ministero della Sanita' , ma negozieranno le prestazioni con le strutture pubbliche o private autorizzate. Obiettivo: "Fare dell' utente un contraente e non un suddito" come ha detto lo stesso Amato. Scompare la guardia medica affidata finora al neolaureato: il servizio sara' agganciato al medico di famiglia. La riforma, pero' , e' conte. stata dai medici ospedalieri: l' Anaao, il loro maggiore sindacato, ha confermato ieri, dopo un incontro con Giuliano Amato, lo sciopero gia' proclamato per il 16 dicembre, bocciando le misure relative agli ospedali, alla dirigenza medica e ai rapporti ospedale.universita' . Un altro "no" da parte di Elena Marinucci, socialista e presidente della commissione Sanita' al Senato. Antonella Baccaro Baccaro Antonella ____________________________________________ Libero 3 dic. ’06 PATOLOGIE RARE? NON TANTO I MALATI SONO DUE MILIONI" Meeting mondiale di Bergamo Colpiscono i bambini, dice Remuzzi, ma sono fonte di scoperte Giovedì e venerdì scorsi si è svolto a Ranica, nella sede bergamasca del Centro di Ricerche Cliniche per le Malattie rare "Atdo e Cele Daccò", il secondo convegno mondiale dedicato alla SEU. Una trentina di relatori, &a i massimi esperti internazionali del ramo, hanno approfondito tutti gli aspetti del problema e della ricerca a riguardo. Le due giornate sono state dedicate alla SEU di origine batterica e a quella, ancora più rara e ancora più grave, di origine genetica. L'organizzazione del congresso è di Giuseppe Remuzzi, primario di Nefrologia all'Ospedale di Bergamo e coordinatore delle ricerche del Centro Daccò. Era il 1982 e negli Stati Uniti i fast food andavano già forte. Per la prima volta e con sorpresa dei ricercatori, una strana epidemia colpi cinquanta persone che avevano tutte mangiato hamburger. La malattia derivava da un batterio chiamato Escherichia coli, normalmente presente nell'intestino dell'uomo, ma che in alcuni casi si può distinguere in una sottospecie in grado di causare malattie. Tra queste ne esiste una detta Sindrome Emolitico Uremica (SEU). È una malattia rara e cioè, secondo la classificazione scientifica, colpisce meno di5individuiogni 10 mila. La SEU è una malattia che causa la formazione di trombi nel sangue, i quali occludono il rene e ne impediscono il funzionamento, obbligando il paziente a sottoporsi a dialisi o addirittura ad un trapianto. Abbiamo rivolto a Remuzzi alcune domande sul tema Dottor Remuzzi, il primo dubbio che viene spontaneo assistendo a questo convegno è il seguente: che senso ha studiare le malattie rare quando vi sono patologie più gravi e diffuse? «Anzitutto queste malattie sono effettivamente rare, ma messe insieme costituiscono un numero importante: sono infatti cinquemila le malattie che appartengono a questo gruppo e rappresentano circa il 10% della patologia umana. In Italia possiamo stimare circa due milioni di persone colpite da una di esse. Il secondo motivo è che di queste malattie non si occupa nessuno. Noi abbiamo cominciato a farlo per primi, riuscendo ad influenzare la legislazione: oggi ci sono una legge italiana e una europea che incentivano questi studi. Infine, studiando le malattie rare si imparano cose utili per le malattie frequenti: scoprire le cause dell'infarto o del diabete, che possono essere diverse e diverse tra loro, non è facile se si affrontano tutte insieme. Viceversa, studiando una malattia rara è possibile capire come una lieve alterazione di una proteina causi un certo problema e magari quel problema è una tra le molte cause dell'infarto o del diabete». Nel convegno si è sottolineato che l’utilizzo di molte terapie può essere rischioso. E non sempre si ricorre al trapianto, alla dialisi. Dunque cosa si può fare per prevenire questa malattia? «Per la SEU di origine genetica, abbiamo da poco ottenuto un importantissimo risultato, individuando un gene nuovo associato alla malattia, che peraltro non crea problemi di trapianto e quindi apre nuove strade di cura Per la SEU infettiva, invece, che deriva da alimenti esposti al batterio, l'unica soluzione sicura è quella dell'irradiazione degli alimenti stessi prima di confezionarli». Di che cosa si tratta? «È un procedimento che negli Stati Uniti ormai applicano sistematicamente: si tratta di esporre gli alimenti a raggi gamma, raggi X o a una corrente di elettroni. In questo modo, si eliminano i batteri patogeni che potrebbero esserci, senza rendere radioattivi gli alimenti. _______________________________________________________ MF 28 Nov. ’06 SORPRESA, LA SANITÀ ITALIANA È COMPETITIVA Basta con i luoghi comuni. Nonostante tutto, il sistema sanitario italiano può ancora vantare un buon rapporto qualità/prezzo. Soprattutto se raffrontato ai maggiori Paesi industrializzati. La buona notizia è arrivata ieri dall'Università Bocconi di Milano, dove è stato presentato il rapporto «Salute e sanità a confronto. Indicatori Ocse 2005». Secondo il documento, la spesa sanitaria pro-capite italiana è leggermente inferiore alla media Ocse, in linea con quella britannica e decisamente più bassa di Germania e Francia. Soltanto la Spagna spende meno di noi. E nonostante questo, il tasso di mortalità nel Paese resta inferiore a quello di Spagna, Francia, Germania e Regno Unito, nonché della stessa media Ocse. Confortanti - anche in previsione dell'eventuale introduzione di un ticket per instillare nella cittadinanza il dovere di non ammalarsi - i dati sulla durata media della vita (sembra che ancora una volta soltanto gli spagnoli siano in una posizione migliore della nostra, dato che vivono più a lungo di noi) sulla riduzione del fumo e dell'alcool e sull'obesità che riguarda solo l'8,5% della popolazione. Un'inezia in confronto al 23% dei cittadini britannici o al 12,9% dei tedeschi. «Il sistema italiano - ammonisce tuttavia lo studio - non sembra correttamente strutturato per affrontare l'evoluzione demografica e dello stato di salute dei cittadini: progettato per curare le manifestazioni acute, si trova a dover affrontare l'emergenza cronicità». Inoltre il Paese soffre ancor a di un eccesso di medici e di una carenza di infermieri e la spesa cresce più veloce delle possibilità di finanziamento pubblico. «È il momento di pensare a una soluzione strutturale», ha chiosato il ricercatore del Cergas Bocconi, Paolo Tedeschi. Un pensiero analogo a quello degli operatori della sanità privata scesi ieri in piazza per minacciare di passare all'occupazione delle strutture nel caso in cui la vertenza per il rinnovo del contratto non si chiuda nei prossimi giorni. 28/11/2006 20 Pag. Finanza e Mercati La proprietà intelletuale è riconducibile alla fonte specificata in testa alla pagina. Il ritaglio stampa è da intendersi per uso privato SANITA' NAZIONALE - Rassegna Stampa 28/11/2006 - 28/11/2006 34 _______________________________________________________ Repubblica 26 Nov. ’06 I TUMORI E I DIRITTI DI CHI SOFFRE UMBERTO VERONESI Il grande progresso della scienza che celebriamo con la giornata nazionale per la ricerca sul cancro dell'Airc è che dalla conoscenza dei geni che sono all'origine del cancro stanno nascendo le nuove cure che lo guariranno. Ma i geni non amano e non hanno paura di morire, mi ha detto un giorno una paziente. La gente teme che le nuove terapie delle molecole perdano di vista l'orizzonte della persona e releghino nel silenzio un rapporto con i medici che già ora manca, in molti casi, di dialogo e di comprensione. IL CANCRO non è mai una questione puramente biologica, ha ricordato in questi giorni Gianfranco Ravasi, e l'ambiente asettico dell'approccio medico non deve diventare asetticità umana. Ma se già oggi quando entriamo in ospedale a volte diventiamo dei numeri (il numero del nostro letto o della nostra cartella clinica), che succederà quando la nostra cura verrà decisada un computer sulla base di un microchip che contiene la fotografia molecolare della nostra malattia, ma non certo l'immagine della nostra sofferenza? Il dubbio è legittimo ma la verità è l'esatto contrario. Nell'epoca del Dna decide chi soffre. La conoscenza genetica introduce una revisione culturale della malattia, basata su una visione razionale, che riporta la persona malata, con le sue specificità, al centro della riflessione. Lo studio dei geni ci ha i n segnato che ogni essere vivente rispecchia la natura: il Dna dell'uomo non è poi tanto diverso da quello di un filo d'erba. Questo è vero nella salute e nella malattia e dunque vale anche per il cancro. Basta con il binomio malattia-maledizione, malattiapunizione e soprattutto malattia-mistero. La cellula neoplastica è una cellula « sprogrammata», che non segue l'ordine armonico del resto del nostro corpo. E' così non per magia, ma perché l'assetto dei suoi geni è diverso rispetto a quello normale e tale diversità è dovuta a un'alterazione che uno o più di essi hanno subito. Per questo ogni tumore è diverso in ogni malato, un po' come sono diversi i nostri organi, anche se molto simili: il mio cuore o il mio stomaco non è identico a quello di nessun altro. L'obiettivo delle nuove terapie è di andare a riparare quell'alterazione specifica per ogni neoplasia e riconvertire la cellula malata alla normalità: questo sono i «farmaci intelligenti» alcuni dei quali già sono utilizzati in clinica e a centinaia sono in sperimentazione nel mondo. L'obiettivo del medico, di conseguenza, non è più di scacciare i fantasmi, ma di spiegare gli aspetti conosciuti di un enigma biologico, quale è il tumore, di discutere i perché di una terapia piuttosto che un'altra, di seguire il malato passo dopo passo e decidere con lui. Le terapie molecolari segnano la fine del principio dello «standard», cioè le cure generalizzate e tossiche, e moltiplicano le opzioni terapeutiche personalizzate, i cui limiti e le cui frontiere sono poste dalla persona malata, dalla sua percezione della malattia, dal suo progetto di vita e dalla sua capacità di autodeterminarsi. Questo impone alla società di ripensare alla sua etica della cura, ma in primo luogo alla medicina di rivedere completamente i suoi rapporti con i malati. Non bisognerà più curare gruppi di pazienti, ma occorrerà imparare invece a curare la persona, abbandonando il concetto di «protocollo» che, stabilendo regole generali di trattamento, può essere rassicurante, ma può anche imporre terapie molto tossiche a malati che non ne beneficeranno. Non sarà facile a livello formativo, ma il medico dovrà essere sempre più psicologo, saper capire la persona malata, perché chi ha di fronte non è «un» paziente, ma «il suo» paziente, con cui stabilire un lucido patto di fiducia per prendersi cura di lui per tutta la durata della malattia. _________________________________________________ L’Unione Sarda 26 Nov. ’06 IL SALUTO DI CAGETTI, UN CHIRURGO AL SERVIZIO DELLA CITTÀ San Giovanni. Pensione Settemila cagliaritani sono passati sotto il suo bisturi, sdraiati nel lettino della sala operatoria di chirurgia dell'ospedale San Giovanni di Dio. Avvocati, sindaci, vescovi, ma anche operai e commercianti. E nei suoi trentotto anni di lavoro ha visto cambiare, in alcuni casi in meglio in altri in peggio, il servizio sanitario in città. Ora il chirurgo Marino Cagetti, veneziano di origini, romano di studi e formazione, e cagliaritano d'adozione, è stato costretto a lasciare per raggiunti limiti d'età la direzione della clinica chirurgica di via Ospedale. Al suo posto ci sarà Alessandro Uccheddu, suo allievo. Ma dopo una vita passata in sala operatoria Cagetti ha ancora voglia di dare il suo importante contributo: «Dopo un periodo di riflessione ? ammette - penso che andrò a lavorare in una clinica privata. Insieme alle passeggiate in montagna, la chirurgia è la grande passione della mia vita». Una passione che non ha trasferito ai suoi quattro figli (un libero professionista, un avvocato, un odontoiatra e una ricercatrice): «Gli ho sempre sconsigliato di fare il medico. Troppo impegnativo. Io invece ho seguito le orme di mio padre, che è stato primario a Venezia». Marino Cagetti è nato a Venezia nel '34 e ha effettuato gli studi a La Sapienza di Roma, sotto l'ala del clinico chirurgo Pietro Valdoni. Nel '68 il trasferimento a Cagliari, come aiuto del professor Sandro Tagliacozzo. Da quel momento inizia la carriera di Cagetti, con il primariato di Patologia chirurgica e poi della Clinica chirurgica. «L'arrivo a Cagliari è stato traumatico ? ricorda ? in una struttura antiquata. Ho dovuto dipingere i corrimani della clinica e dormire in un sottoscala perché non avevamo una stanza per i turni notturni». Poi le cose sono migliorate: «C'era tanto entusiasmo e si viveva in istituto, dalle 7,30 alle 22,30. Anche i giovani lavoravano con tanta energia. Anche perché il futuro era roseo. Non come adesso, dove molto dipende dalla politica». Parola di uno che ha fatto parte di centinaia di commissioni per gli esami di primariato in chirurgia in giro per l'Italia. Oggi i problemi che lascia sono una strumentazione obsoleta ("Inammissibile avere macchinari per la Tac di vent'anni") e un senso di ingratitudine: «Prima c'era un senso di rispetto e gratitudine. Oggi tutto sembra dovuto». Chissà se la realtà della sanità privata, che Cagetti abbraccerà presto, sarà diversa da quella pubblica. (m. v.) ___________________________________________________ Il Sole24Ore 27 Nov. ‘06 ATTACCO ALLA FIBROSI CISTICA Salute Sono in fase avanzata gli studi su due antibiotici che contrastano le infezioni polmonari Anche l'utilizzo di insulina a lento rilascio mostra risultati incoraggianti Novità interessanti in arrivo per chi è affetto da fibrosi cistica, una malattia genetica a carattere cronico evolutivo che richiede trattamenti costanti e intensi. Se fino a qualche decennio fa l'aspettativa di vita non superava l'età infantile, oggi i progressi della ricerca hanno permesso di allungare la sopravvivenza media alla quarta decade. «Benché non esista ancora una terapia risolutiva, è in atto una serie di promettenti trial di fase III, che potrebbero ampliare ulteriormente la qualità e la durata di vita dei pazienti», spiega Cesare Braggion, responsabile del Servizio fibrosi cistica dell'Ospedale Meyer di Firenze e presidente della Società italiana fibrosi cistica. Due antibiotici in sperimentazione, la tobramicìna e la colistina in polvere, da somministrare per inalazione, promettono tempi più rapidi di efficacia nel contrastare le infezioni polmonari connesse alla malattia. La fibrosi cistica è una patologia causata dalla mutazione di un gene che determina malfunzionamento della proteina Cftr, un canale regolatore del passaggio di ioni cloro nella membrana delle cellule epiteliali che rivestono internamente organi quali bronchi, pancreas, intestino, ghiandole del sudore, dotti biliari. l;anomalia nel trasporto di ioni cloro da parte delle cellule epiteliali provoca una concentrazione di sali e determina un'alterazione delle ghiandole esocrine, le cui ' secrezioni (muco, sudore, bile, succo pancreatico, lacrime) diventano sempre più dense e vischiose. Ne deriva un danno progressivo degli organi coinvolti con rischio di ostruzione bronchiale e infezioni polmonari, ristagno di bile nel fegato, occlusione intestinale, insufficienza pancreatica. «Oggi i farmaci di nuova formulazione tendono in due direzioni: mirano a correggere e attivare la proteina canale malata, oppure stimolano un canale alternativo a quello malato per ripristinare la funzionalità di trasporto degli ioni cloro», spiega Braggion. A questa seconda categoria appartiene il Denufosol, molecola in fase III sintetizzata dalla società americana Inspire pharmaceuticals, che dimostra di idratare le vie aeree stimolando le secrezioni di cloro e liquido sulla superficie dell'epitelio respiratorio. Due molecole già in uso stanno offrendo inoltre risultati interessanti allo scopo di rendere le secrezioni più fluide e scorrevoli e ridurre i danni ai polmoni. Si tratta della tradizionale soluzione ipertonica salina somministrata per via inalatoria e della molecola D-Nase, enzima ottenuto con tecnica ricombinante. «In Italia è infine in corso uno studio importante per valutare l'efficacia dell'uso di insulina a lento rilascio in pazienti con fibrosi cistica e intolleranza al glucosio, condizione che precede il diabete, una delle complicanze tardive più frequenti della patologia. L’indagine, che coinvolge 12 centri specializzati italiani e il centro di epidemiologia e bio statistica dell'Ospedale Gaslini di Genova, propone di migliorare il quadro glicometabolico del paziente compensando il deficit insulinico, con monitoraggio dei parametri di indice di massa corporea e della funzionalità respiratoria. La carenza di insulina, imputabile alla degenerazione delle beta-cellule pancreatiche, dà infatti origine a un peggioramento dello stato nutrizionale e quindi a una maggiore probabilità di infezioni polmonari. «Quando tuttavia il danno d'organo (solitamente polmone o fegato) è troppo avanzato rimane la possibilità del trapianto, che negli ultimi tempi ha offerto risultati migliorati e incoraggianti», conclude Braggion. «La sopravviventitia a cinque anni ha raggiunto il 60-65% per il trapianto di polmone e percentuali anche superiori per quello di fegato, in linea con gli interventi connessi ad altre malattie». ___________________________________________________ Libero 29 Nov. ‘06 SESSUALMENTE LE DONNE ITALIANE SONO LE PIÙ SODDISFATTE D'EUROPA Battute solo dalle sudamericane che danno all'erotismo lo stesso ruolo vitale del cibo GASPARE DI SCLAFANI Le italiane danno al sesso più importanza di tutte le altre donne europee. Nell'82 per cento dei casi lo considerano un fatto Il importante", in grado di migliorare e rafforzare una relazione. Nel resto d'Europa a pensarla così sono invece solo il 75per cento. Le donne di casa nostra, inoltre, nel 21 per cento dei casi arrivano ad attribuire alla vita sessuale un autentico ruolo di toccasana - ufficialmente "molto importante" -mentre ad avere un atteggiamento analogo in Europa sono in media solo il17 per cento e nella vicina Francia addirittura il13 per cento. Non è tutto. Le italiane sono anche più appagate delle altre della loro vita sessuale. Solo il 18 per cento delle nostre connazionali desidererebbe infatti una relazione più intensa e soddisfacente, mentre le "inappagate" del resto d'Europa raggiungono quota 33 per cento, il che significa un bel terzo della popolazione femminile. Questi alcuni dei dati più significativi di una ricerca Ipsos - "Sex and Modem Woman" - commissionata da Bayer HealthCare, che è stata presentata ieri al Teatro dell'Arte di Milano dal sociologo Enrico Finzi, la sessuologia Roberta Giommi e Vincenzo Mirone, direttore della Clinica Urologica dell'Ospedale Federico II di Napoli. Di chi il merito, se le italiane sono - o almeno si dicono - più soddisfatte delle altre donne europee? Devono ringraziare la leggendaria virilità del maschio latino? L'indagine non lo dice. Ma è evidente che gli uomini italiani sono in grado di coinvolgere più di altri le loro partner che, sempre secondo i risultati della ricerca, nell'92 per cento dei casi pongono alla base di una vita sessuale appagante la spontaneità e, in misura di poco inferiore (89 per cento), un dialogo esplicito e sincero. L'inchiesta, ideata per indagare sulle percezione della vita di coppia da parte delle donne di oggi, è stata compiuta a livello mondiale, coinvolgendo la popolazione femminile di ben quattordici Paesi, dall'Arabia Saudita all'Australia, dai Brasile alla Corea, dalla Turchia al Venezuela. Diciamo subito che ben tre quarti delle donne intervistate, in ogni angolo del pianeta, hanno riconosciuto al sesso un ruolo importante, in grado di influire profondamente nelle relazioni con il proprio partner. Male più "focose" sono risultate le donne dell'America Latina - al primo posto le venezolane, seguite dalle messicane – che ben nel 41 percento dei casi (contro una media mondiale del 29 per cento, la già citata media europea del 17 e quella italiana del 21) hanno confessato di dare alla passione amorosa quasi lo stesso ruolo vitale del cibo. L'inchiesta ha toccato anche un altro argomento rilevante: l'atteggiamento femminile nei confronti delle disfunzioni sessuali del maschio, in particolare quella erettile. Ebbene, in tutto il mondo, l'atteggiamento più negativo è quello delle donne latino-americane - ancora loro - che considerano questo tipo di problemi alla stregua di una maledizione divina. Anche le donne italiane, nel 76 per cento dei casi, vedono nella disfunzione erettile un ostacolo per l'intera coppia, e sono in poche (32 per cento) quelle che, superando il pudore, affrontano l'argomento con il partner, cercando insieme la soluzione. Ed è un peccato che la percentuale sia così bassa dato che l'amore - di solito - si fa in due, ed esistono ormai terapie e farmaci in grado di fare miracoli. Secondo le italiane i loro compagni sono premurosi, attenti e molto disponibili Sessualmente le donne italiane sono le più soddisfatte d'Europa riproducibile. ___________________________________________________ La gazzetta del mezzogiorno 30 Nov. ‘06 UN SORRISO NUOVO DI ZECCA DENTISTI E RICERCA. Un tempo esistevano solo i «ponti» e le protesi: oggi ci sono gli impianti dentali Impiantologia, da domani esperti a confronto a Bari 11 implantalagia nuova, moderna frontiera della scienza medica che studia e cura le patologie dei denti e della bocca. Si celebrerà a Bari nell'Hotel Excelsior, domani 1 e sabato 2 dicembre, il prima simposio di odontoiatria dedicato al terna: implantalogia, la tecnica dei carico immediato». I..' organizzazione appartiene al Dipartimento di Odontostomatologia e chirurgia orale dell'Università di Bari in collaborazione can l’Andi. Il programma dei lavori prevede che sia il professor Antonio Quaranta, preside di facoltà ad accogliere e salutare i congressisti. Dopo di lui interverrà il professor Felice Roberto Grassi (direttore del Dipartimento di odontostomatolagia e chirurgia dell'Universit3 di Bari), cui seguiranno i contributi di altri docenti ed esperti. Per decenni i ponti e le protesi sono stati l'unico trattamento possibile per sostituire i denti mancanti. Oggi gli impianti dentali offrono un'eccellente alternativa che permette di riavere denti simili a quelli naturali. uI: irnplantologia - spiega il professor Grassi - è una branca dell'odontoiatria che si occupa della sostituzione di elementi dentari con impianti in materiale biocompatibile. Carico immediato post-estrattivo significa estrarre i denti cornpromessi e sostituirli con impianti e corone (capsule) nella stessa seduta. L'implantologia moderna ha completamente rivoluzionato l'approccio della riabilitazione dei pazienti soprattutto anziani, dando stabilità a protesi che da sempre hanno causato problemi di stabilità. Ora attraverso l’implantologia a carico immediato si vive una nuova fase in cui si può dare stabilità e qualità di vita in poche ore ribassando addirittura la vecchia protesi del paziente» «Nell'ambito dell'implantologia cosiddetta estetica - prosegue il professar Grassi - è indubbio che l'estetica di un dente compromesso risulti migliorata granzie all'impianto a carico immediato». «Grazie alle tecniche di rigenerazione ossea, agli innesti, alla distrazione e espansione ossea - conclude il direttore del Dipartimento di (7dantpstomatologia - è possibile impiantare denti dove non vi è sufficiente presenza ossea. I riempimenti nel seno mascellare con osso del paziente e/o di banca e l'espansione, sono armai tecniche consolidate. Cori urta buona curva di approfondimento in una struttura universitaria, anche attraverso corsi post- laurea, è possibile ottenere un eccellente grado di successo presso quasi tutti gli studi dei medici-odontoiatri». E’ noto che il bisogno di cura delle patologie orali, rientra nella sfera dei bisogni primari, almeno nelle società occidentali avanzate. Prima o poi, gran parte della popolazione ricorre alle cure odontoiatriche. Il dottor Francesco Sarttoro presidente dell'Andi afferma: «Oggi si va diffondendo l’ idea che vi sia una diminuzione di accesso alle cure per una serie di fattori contingenti. II problema va posto in riferimento ai parametri che stabiliscono la scelta dell' odontoiatra di fiducia. L'odontoiatra -dice Santoro - considera la qualità delle prestazioni, la professionalità, il valore essenziale per il suo lavoro. Questo è un aspetto importante e fondamentale, ma, il più difficile da cogliere da parte dell' utente». Le chirurgia implantale rappresenta un passo in avanti per la odontoiatria. «Il simposio di Bari - spiega il presidente dell'Andi - analizzerà i progressi della ricerca nella disciplina implantologica a carico immediato. Non più tempi di attesa per il carico dell' impianto endosseo, ma, nei casi in cui le indicazioni la consentano, l’ immediata applicazione della protesi fissa. Si illustreranno le tecniche per realizzare questa metodica, attraverso protocolli operativi standard, valutando le reali condizioni del paziente» «Particolare rilievo -conclude Santoro - sarà dato alle implicazioni di medicina legale (odontoiatria forense) che nello specifico riguardano l’ obbligo del buon risultato, assimilando la chirurgia implantale alla chirurgia estetica. Inoltre - conclude - si evidenzierà il ruolo del personale di studio, per quel che attiene l'operatività e la relativa sterilizzazione della strumentazione chirurgica». ___________________________________________________ Panorama 30 Nov. ‘06 ODONTOIATRIA ESTETICA: LE STRATEGIE FATTORI DI CRESCITA PER RICOSTRUIRE I DENTI. Interventi o macchinette invisibili per riallinearli. Metodi professionali o fai-da-te per renderli smaglianti. Persino il lifting delle gengive. Ecco cosa si fa per una bocca perfetta. • di MARIELLA BOERCI e CHIARA PALMERINI ultimo accessorio dell'industria cosmetica è lo snap-on smile, sorriso istantaneo su misura. Si sceglie la dentatura preferita, che sia quella di Julia Roberts o Tom Cruise o una più anonima bocca perfetta, e in tre mesi si ottiene il sorriso desiderato. Niente anestesie, trapani, operazioni. È una specie di calco da indossare sopra i denti «per un matrimonio, un'intervista di lavoro, o per imitare una celebrity», come ha dichiarato Philip Lewis, il dentista dell'Isola di Wight, in Gran Bretagna, che per primo ha importato la tecnica dagli Usa. Non è l'unica novità per ottenere una bocca da sogno. Alla London smile clinic fanno interventi di design per trasformare anche la dentatura più impresentabile in un sorriso da copertina. Gli interventi, progettati al computer e seguiti passo passo dal paziente prima che si passi all'azione, comprendono corone in ceramica, sollevamento delle gengive, applicazione di ponti e impianti. Se c'è qualcosa su cui gli esperti sono d'accordo è che un bel sorriso dipende sì da denti bianchi e regolari, ma anche da gengive sane e da una bocca armoniosa. Senza ricorrere a interventi horror e restauri ispirati alle star, su cui non pochi esperti nutrono dubbi, oggi la strategia del sorriso si può perseguire anche in Italia correggendo i difetti di denti, labbra e gengive. Prima mossa, una bocca sana Se denti e gengive non sono sani, inutile pensare a interventi di ingegneria sul sorriso. L'igiene della bocca è il primo passo: lavarsi i denti tre volte al giorno dopo i pasti, usare il filo interdentale, pulizia dei denti due volte l'anno. Diversamente si rischiano i danni prodotti dalla placca, quel misto di saliva, residui di cibo e cellule morte terreno di crescita per i batteri. Se non rimossa con lo spazzolino, in pochi giorni si mineralizza e forma il tartaro; e le tossine dei batteri provocano infiammazione, la gengivite, il cui sintomo è il sanguinamento. «Non esistono gengive delicate, come a volte si sente dire. Se ci si spazzola i denti e sanguinano, sono infiammate» avverte Roberto Weinstein, docente di odontostomatologia all'Università di Milano. Se avanzata, la gengivite ' causa arrossamenti e gonfiore. j Fino a qui, il danno è reversibile con ! una pulizia accurata. Ma con il tempo può j evolversi nell'infiammazione dell'apparato di supporto dei denti, osso e legamenti: la parodontite, che una volta veniva chiamata piorrea. A questo punto, i rime- j di salvasorriso si fanno più invasivi.; Se il danno è fatto Se l'osso è eroso in modo circoscritto, I per ripararlo esistono interventi chirurgi- in anestesia locale. « Si incide la gengiva, si rimuove il tessuto malato e si inseriscono materiali che consentono la rigenerazione dell'osso» dice Weinstein. Le prime tecniche erano basate su innesti di osso prelevati dal coroo del paziente. Oggi si usano membrane in Gore-tex o collagene, cui sono associati innesti di osso autologo combinato con biomateriali come l'osso deproteinizzato di origine bovina. Sono in sperimentazione sostanze come il Pdgf, fattore derivato dal sangue che stimola la crescita delle cellule del parodontole Bmp-2, bone morphogenetic protein. Se la parodontite è avanzata, o in caso di traumi, ci sono gli impiantì, così sofisticati da imitare alla perfezione i denti naturali. Qui le novità si susseguono. « Le viti dell'impianto in titanio sono trattate con bagni galvanici, elettroforesi o acidi per renderle più ruvide e velocizzare il processo di integrazione con l'osso» spiega Massimo Simion, docente di parodontologia all'Università di Milano. Anche la chirurgia è più affidabile. «Si fa la tac al paziente, al computer è ricostruita in tre D la cresta ossea senza denti e si valuta la posizione degli impianti. Poi si crea una specie di dima chirurgica da inserire in bocca, che guida le frese dell'operatore» specifica Simion. «Ciò permette di preparare in anticipo la protesi da collocare sugli impianti. Una volta si aspettava per quattro mesi perché l'impianto si integrasse con l'osso. Oggi si dimezzano i tempi e i denti artificiali si inseriscono subito» dice Weinstein. NIENTE PIÙ FERRETTI Con l'età i denti tendono a sovrapporsi, e un leggero accavallamento rischia di trasformarsi in difetto. Poi ci sono i problemi trascurati. Insomma, la cura della macchinetta tocca anche da adulti. E a molti l'idea dei ferretti non va giù. Per renderli un po' più estetici, da tempo ne esistono alcuni in cui i bracket, gli attacchi da fissare sui denti, sono in ceramica trasparente. Non sono però invisibili, e il filo che tira i denti è in metallo. Una soluzione è l'apparecchio linguale, quello che ha portato anche Cruise per raddrizzare il sorriso. «Gli attacchi sono fissi, ma ancorati sulla superficie interna dei denti » precisa Antonia Cortella, specialista in ortognatodonzia. I limiti: è necessaria qualche sofferenza in più; costano abbastanza; serve più tempo per correggere il difetto; ogni seduta dura più a lungo. Infine gli attacchi sull'interno dei denti possono causare, specie all'inizio, fastidiose ulcerazioni alla lingua. Nel caso di difetti non troppo gravi, c'è un'altra opzione: le mascherine invisibili. «Si fa al computer lo studio del difetto e dello spostamento per correggerlo, poi vengono create mascherine sequenziali in resina sottilissima, cambiate dall'ortodontista ogni 4-6 settimane. La durata della terapia dipende dalla gravità del caso, in genere non supera i 15-18 mesi, dice ancora Cortella. PIÙ BIANCHI DI COSÌ... Denti bianchi come la porcellana in natura non esistono, ma il sorriso che più bianco non si può è una richiesta diffusa. E come tale, nei paesi anglosassoni (dove è nata) è già stata catalogata: hleachore3da, cioè dipendenza da bleaching (sbiancamento). Ne soffrono celebrity e persone comuni. Soprattutto i più giovani, ormai dipendenti dai trattamenti fai-da-te: dai dentifrici sbiancanti alle strisce a base di perossido d'idrogeno, alla penna, al gel. Avverte Massimo Agnello, dentista estetico: «Lo sbiancamento ha anche un impatto psicologico dal momento che permette di cancellare decenni di macchie». Fidarsi del fai-da-te? Sì, a patto di non aspettarsi gli stessi risultati dello sbiancamento professionale. Basato su due tecniche: il laser, «che usa forti concentrazioni di perossido di idrogeno che però può essere dannoso senza garantire un risultato stabile; lo sbiancamento classico, con formelle e gel. In tre sedute regala un sorriso sicuro e più bianco in tre tonalità (e fino a otto- nove). TUTTI IN FILA Non sempre i denti sono allineati. I canini a volte sono lunghi, gli incisivi si accavallano o sono troppo spaziati. È possibile ricostruire il sorriso senza ricorrere all'ortodonzia? Sì, con la coronopiastica, il rimodellamento e il riallineamento dei denti ottenuto grazie a una resina estetica, il composi to, senza toccare, limare o devitalizzare nessuno dei denti. «II metodo lascia integra la naturalezza del sorriso e del dente» osserva Gianfranco Aiello, presidente dell'Accademia estetica dentale italiana, contrario alla moda di capsule e faccette. Con un forte abbassamento dei costi (da 1.000 a 3 mila euro, secondo l'entità del l'intervento, contro i 2-3 mila di ogni capsula in ceramica) e una durata pressoché illimitata {al contrario delle corone, da rinnovare ogni 6-10 anni). Con la corono plastica, dice Aiello, «si cambia il sorriso in due o tre ore. Senza anestesia, a meno che i ritocchi non siano molto vicini alle gengive, e con un effetto ottico sorprendente, che gioca su luce e volumi». II composito si usa anche per ricostruire denti spezzati o distrutti senza dover ricorrere a corone, ponti o implantologia: si fa in due sedute con un costo tra 400 e mille euro. II LIFTING DELLE GENGIVE Non basta avere denti bianchi e allineati. Un sorriso perfetto non scopre più di 2 0 3 millimetri di gengiva. E di colore roseo, guai alle macchie scure. E allora? Esiste il lifting anche per le gengive. Con un bisturi e frese piccolissime perché il laser consente di controllare alla perfezione il taglio. Occorrono circa 40 minuti per asportare l'epitelio macchiato dalla melanina e una decina di giorni perché si riformi la nuova gengiva. Non solo: quando le gengive sono irregolari o coprono i denti, si ricorre al bisturi per ridurle, riposizionarle e modificare il disegno delle arcate, per una chiostra dentale più simmetrica e armoniosa. Bastano dieci giorni: «Il segreto» dice Aiello «è la perfetta guarigione delle ferite». Secondo l'Accademia di estetica dentale, la chirurgia gengivale riguarda circa il 20 per cento dei pazienti. La cornice finale I parametri di un bel sorriso includono le labbra: la cornice che racchiude una chiostra di denti bianchi e allineati. E che, per essere perfetta, ha regole precise. Spiega Luigi De Sisto, chirurgo plastico: «Deve avere una giusta dìstanza dal naso, un sufficiente volume del vermiglio, un contorno definito, un tessuto morbido. Oggi nuovi acidi ialuronici, in piccole quantità e in sedute ravvicinate, consentono di raggiungere le dimensioni desiderate e di distendere le rughe senza sacrificare la naturalezza delle labbra». Per mantenere i risultati, basta un'iniezione ogni 8-10 mesi. Quello che sconsiglia (De Sisto è consulente del Tribunale di Milano) sono i filler non riassorbibili e i mix di prodotti non noti: «Ho visto tanti di quei disastri...» • (ha collaborato Claudia Boselli) ___________________________________________________ Libero 1 DIc. ‘06 L'EUROPA APPROVA LA RICERCA SU EMBRIONI E STAMINALI DAL 2004 IN ITALIA È QUADRUPLICATO IL TURISMO PROCREATIVO PER OTTENERE UN FIGLIO IN PROVETTA L'Europa darà soldi alla ricerca sulle cellule staminali adulte o embrionali umane. Nei Paesi dove la legislazione lo consente, dunque, si spenderanno, fino al2013, 2013,54 miliardi di curo. Il progetto, approvato a Bruxelles, ha spaccato il parlamento. La questione, infatti, aveva provocato uno stallo fra i Paesi membri, alcuni dei quali si erano opposti a questa possibilità. La situazione si è sbloccata quando l'Italia ha annunciato il ritiro della sua adesione alla pregiudiziale etica sulla ricerca sostenuta da Germania, Polonia, Slovenia, Austria e Malta. Una componente trasversale di eurodeputati italiani ieri ha insistito sul divieto all'uso di cellule staminali, anche dopo l'approvazione del programma quadro. L'emendamento firmato da Carlo Casini (Udc), Patrizia Toia (Margherita), Mario Mauro (Fi) Roberta Angelilli (An) è però stato giudicato inammissibile. «Si dimostra ancora una volta l'inquietudine della cultura europea riguardo alla questione antropologica quando si discute dell'embrione umano», ha commentato l’eurodeputato Carlo Casini (Udc). I parlamentari hanno assicurato, però, che il programma non finanzierà la clonazione umana a fini riproduttivi. E mentre il dibattito sulle staminali infuoca a Bruxelles, l'Osservatorio sul turismo procreativo di Roma pubblica i dati e dimostra che l’Italiaha delegato all'estero la Sanità. Dal 24 febbraio 2004 a oggi sono quadruplicati (da 1.066 a 4.173) i viaggi delle coppie infertili che vanno oltre Italia per avere un figlio in provetta. La legge da noi consente la fecondazione assistita solo a chi è sterile o è affetto da infertilità non altrimenti rimovibile; proibisce la fecondazione eterologa, cioè quella ottenuta con ovuli o seme non appartenenti alla coppia; stabilisce che possono accedere alle tecniche di fecondazione assistita solo le coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi; vieta il congelamento degli embrioni; proibisce la diagnosi pre impianto e la ricerca scientifica sugli embrioni. Per aggirare questi ostacoli sempre più cittadini italiani si rivolgono a strutture straniere. La Spagna è il Paese più gettonato (in 1.300 si sono rivolti ai medici iberici). Seguono Belgio (i75) e Svizzera (740). In aumento l’affluenza verso Austria, Repubblica Ceca, Slovenia e Grecia. ________________________________________________________ Libero 1 dic. ’06 BOOM DI SIFILIDE IN TUTTE LE REGIONI : gliindici più alti a Roma e a Milano E’ riesplosa la sifilide in Italia: i casi raddoppiano di anno in anno. In tutte le regioni: gli indici più alti a Roma e Milano. E in tutte le categorie sociali: uomini e donne, eterosessuali e omosessuali. Alto il numero tra i transessuali e le prostitute. Ma non mancano gli insospettabili. Ci sono le cifre ufficiali ma è immenso il sommerso. La notizia giunge nella giornata conclusiva del XX Congresso Anlaids a Roma. Nel Lazio si è passati dai 44 casi del 1994 ai 73 nel 2001 fino ai 323 del 2004. In particolare, a Roma al San Gallicano se fino al2000 si diagnosticavano fra 10-16 casi all'anno, nel 2004 se ne sono registrati 118. Un altro esempio. A Milano al Centro delle Malattie Sessualmente Trasmesse dell'Ospedale Maggiore i nuovi casi di sifilide sono passati da 20 nel 2000 a 180 nel 2002. ____________________________________________ Libero 1 dic. ’06 I TRAPIANTI D'ORGANO PIÙ SICURI ORA SI FANNO IN ITALIA I pazienti arrivano da tutta Europa. Dopo l'intervento ritornano a vivere normalmente, perno nello sport Fegato, reni, cuore, mani, pancreas, intestino: ormai si può trapiantare di tutto, persino la faccia. Manca soltanto il cervello... «No, non il solo cervello», mi corregge il professor Umberto Cillo, responsabile dell'Unità di Chirurgia Epatobiliare del Centro Trapianti di fegato dell'Università di Padova. «Oltre al cervello, non si possono trapiantare i testicoli. Per legge. E il motivo è semplice: perché sono organi che rappresentano gli elementi identificatori della personalità dell'individuo. Il cervello per ovvie ragioni. In quanto ai testicoli, essi contengono le cellule che possono trasmettere il corredo genetico. Se li trasferissimo su un altra persona, i figli avrebbero il corredo genetico del donatore». Ma tecnicamente l'intervento sarebbe possibile? «Di per se, per quanto riguarda i testicoli, il trapianto sarebbe semplicissimo», è la risposta di Umberto Cillo. «Diverso è il discorso per il cervello. Oggi non è neppure ipotizzabile. Già sarebbe un bel passo avanti n'uscire a riparare un danno neurologico: tanti handicappati costretti sulla sedia a rotelle potrebbero riacquistare l'uso delle gambe. Forse un domani sì riuscirà in questa impresa, con l'aiuto delle cellule staminali. È su questa strada che si sta procedendo, affiancando alla chirurgia sostitutiva, ossia quella dei trapianti, quella rigenerativa che punta sull'aiuto delle staminali per riparare i danni di un organo. Un passo ulteriore sarà quello dell'ingegneria tessutale alla quale, sempre grazie alle staminali, sarà dato il compito di costruire veri e propri organi. Incontriamo il professor Cillo a Padova, all'apertura del 30° Congresso Nazionale della Società Italiana Trapianti d'Organo: una tre giorni, iniziata ieri , che è una specie di full immersion nella trapiantologia, in cui si fa il punto di tutti i problemi che riguardano il settore anche in una prospettiva futura. Oltre duecento i relatori, fra i massimi esperti nazionali e internazionali del settore. A presiedere il convegno è il professor Davide D'Amico, direttore del Dipartimento di Scienze Chirurgiche e Trapianti d'Organo dell'Ospedale di Padova, che ieri mattina, prendendo la parola nell'aula Magna di Palazzo del Bo', dopo aver ricordato le finalità dell'importante appuntamento scientifico ha tra l'altro rivolto un particolare saluto a uno degli ospiti di maggior spicco, il chirurgo giapponese Kichi Tanaka, che è stato poi insignito della laurea Honoris Causa. La motivazione? Tanaka, importando la tecnica dalla sua università di Kyoto, nell'ottobre 1997 ha eseguito a Padova, assieme allo stesso D'Amico e a Umberto Cillo, il primo trapianto di fegato in Italia da donatore vivente (il ricevente era un bambino croato di 11 anni), aprendo la strada a questo tipo di interventi nel nostro Paese. Ma qual è la situazione dei trapianti in Italia? C'è ancora carenza di donatori? «Fino all'inizio degli anni Novanta - spiega il professor Cillo, che è anche vicepresidente del Congresso - in quanto a donazioni l'Italia era il fanalino di coda assieme alla Grecia. Oggi siamo il secondo Paese dopo la Spagna. Eravamo esportatori di pazienti, siamo diventati importatori. Vengono da noi dalla Francia, dalla Germania... Qui, a Padova, ne arrivano molti anche dall'Est Europeo, dai Balcani...». Molti sono convinti che un trapiantato sia costretto a una vita di serie B. E davvero così? «E una credenza da sfatare», risponde Umberto Cillo. «Una persona che ha subito un trapianto, anche di un organo importante come il cuore, ha davanti a se una vita normalissima. Ricordo un bambino al quale avevo trapiantato il fegato quando aveva 8 anni. Dieci anni dopo si è presentato alla visita di leva ed è stato subito dichiarato "abile e arruolato"». Al Congresso, uno dei relatori, il professor Giuseppe Ramazzi, ha ricordato il caso del giocatore di basket americano Alonzo Mouring, di Miami, che tre anni dopo aver ricevuto un cuore nuovo gioca ancora nella sua squadra con successo. Resta ancora irrisolto il problema del rigetto. «Si sta cercando una strada - aggiunge Ramazzi - per cercare di "convincere" l'organismo a riconoscere come suo l'organo trapiantato. Finora i tentativi hanno avuto un successo relativo. Si è però scoperto che in alcune persone trapiantate dopo un certo numero di anni il rigetto non si registra più». 409* Ma non è tutto. «In una quota di circa il 15 per cento dei bambini questo accade già naturalmente», dice a sua volta Cillo. «Si tratta di scoprire il meccanismo che entra in gioco, per cercare di replicarlo». ____________________________________________ Libero 1 dic. ’06 IL CASCO È UN BENE PERÒ CI SONO MENO DONATORI DI CUORE (,d.&) Anche se il numero di donatori in Italia è aumentato, è tuttora largamente insufficiente. Per quanto riguarda il fegato, i pazienti che annualmente sono iscritti nelle liste d'attesa di trapianto sono circa 1500, quelli che riescono a ottenerlo un migliaio. Per il cuore la situazione è peggiore. L'obbligo di indossare il casco in moto o in motorino ha ridotto notevolmente il numero dei giovani morti in incidente. Una fortuna. Ma non per i malati in attesa di trapianto di cuore. «Di fronte alla carenza di organi», spiega il professor Cillo «abbiamo cercato di ingegnarci. Per esempio, siamo diventati i primi in Europa nello "split liver", il trapianto di fegato parziale- in pratica utilizziamo porzioni di uno stesso fegato, che come si sa ha la possibilità di rigenerasi, per due trapianti in persone diverse. ____________________________________________ Sole24Ore 1 dic. ’06 FUORI DI TESTA Gli estropisti stanno cercando il modo di riversare il contenuto del cervello in una macchina. In questa maniera sperano di diventare immortali, salvaguardare il patrimonio naturale della Terra e colonizzare altri pianeti. Un'utopia?, si chiede eruce Davidson PER CHI COME 1L SOTTOSCRITTO è nato negli anni 60, decennio iniziato col botto più forte che l’umanità ricordi, grazie a quel tappo di champagne che partì verso lo spazio con dentro Yuri Gagarin, questi sono tempi difficili. I giornali sembrano pergamene medioevali: titoli su Maometto, editoriali sulle gesta dei Crociati, dibattiti sullo scontro di civiltà. Più che il Duemila, sembra il Milledue. Viene naturale chiedersi: ma il Futuro, quello con le astronavi e il beam me up Scotty di Star Trek, quello del Duemila anno zero, quello che tutti aspettavamo, accidenti, che fine ha fatto? Magari non arriverà mai. Oppure è già qui e non ce ne siamo accorti. Forse il futuro, come sostiene l'editorialista del «New York Times» Thomas Friedman nel suo ultimo libro The world is flat è come Babbo Natale: va a far visita solo a quelli che ci credono. E, credendoci, hanno ancora voglia di mettere fuori dalla porta i dolci per le renne. L’impressione è che siano sempre di meno. È di qualche anno fa il monito lanciato da Bill Goy (fondatore di Sun Microsystems) sulle pagine di «Wired». Prevedeva un futuro così rovinoso da minacciarne la sopravvivenza dell'umanità. Nei mesi scorsi Francis Fukuyama, membro del Pcb, Comitato di Bioetica creato da George W. Bush, si è scagliato sui giornali di tutto il mondo contro «l'idea più pericolosa: la liberazione della razza umana dai suoi vincoli bioiogici-. Perché tanto allarme? Perché il Futuro con la F maiuscola sta arrivando davvero. E c'è una comunità di scienziati, filosofi, sociologi, ingegneri (e qualche genio) che lo aspetta a braccia aperte. Si chiamano estropisti, transumanisti. Sono sparsi in giro per il pianeta. [n un mondo in cui la maggior parte di noi sembra voler solo guardare indietro, o al massimo appena oltre la punta del naso, loro pensano, e progettano, a lungo termine. Gente come Danny Hillis, cofondatore di Thinking Machines Co. e presidente della fondazione Long Now. In Nevada sta costruendo un monumento-orologio gigantesco (un prototipo in scala è al Science Museum di Londra) progettato per durare diecimila anni. Un modo per ricordare a tutti «la pietosa corta durata di attenzione della nostra società». I padri del movimento estropista sono Max More, fondatore dell'Extropy Institute, e Nick Bostrom, ricercatore del l'Università di Oxford che nel 1998 ha dato vita alla World Transhumanist Association (Wta). I membri sono uomini e donne che hanno una fiducia assoluta nella tecnologia. Convinti che l'unico modo per garantire la sopravvivenza della specie sia di continuare ad autoevolverci, insistendo sul progetto "cervello". Quello che abbiamo intrapreso decine di migliaia di anni fa inventando il linguaggio e poi scrittura, stampa, computer. Perché quando si guardano allo specchio i transumanisti vedono oltre la maschera di trucco e vestiti, vedono delle coraggiose scimmiette che hanno fatto miracoli, ma che per continuare a farli necessitano di un potente upgrade. Questo è il momento giusto. Come spiega John Garreau (editor del «Washington Post») nel suo recentissimo Radica( Evolution, il futuro è il Grin: la convergenza di quattro tecnologie (Genetica, Robotica, Infotech, Nanotecnologia) che non solo garantiranno la crescita della Curva Tecnologica (la legge di Muore prevede il raddoppiamento ogni 18 mesi delle prestazioni dei microprocessori) ma la sua trasformazione, entro il 2030, in linea retta. Un momento epocale, chiamato Singolarità, in cui entrerebbe in gioco la legge di Kurzweìl (nel XXI secolo l'equivalente di ventimila anni di progresso al tasso di sviluppo del XX). II mondo si popolerebbe di robot, super computer auto-evolventi e agli esseri umani di acquisire nuove facoltà sensoriali, come quelle dei delfini o dei pipistrelli cyborg transumani che con il passare del tempo sarebbero sempre meno scimmie e sempre più macchine. Grazie al mind-upload (il trasferimento di una mente umana in una macchina pensante) nascerebbero i primi postumani. Senza più bisogno di respirare o nutrirsi, questi esseri immortali potrebbero subito colonizzare altri pianeti (con corpi artificiali specificatamente adattati alle condizioni di quei pianeti) e iniziare quel processo di esplorazione galattica che secondo gli estropisti è il vero motivo della nostra esistenza nell'universo. I vantaggi sarebbero notevoli anche a livello ecologico e demografico. Miliardi di noi (non più esseri umani, ma piuttosto entità umane, avatar digitali) potrebbero vivere a tempo indefinito, studiare e lavorare dentro giganteschi computer orbitanti, restituendo enormi aree del pianeta alla biodiversità. Nel 2000 è nato Viridian, un nuovo movimento ecologista che propone di coniugare la teoria di Gaia con la tecnologia. ( technogaian ritengono che l'unica speranza per il pianeta sia una politica di "riconciliazione ecologica" basata su un uso massiccio della tecnologia. Proposta appoggiata - con cautela - persino da Greenpeace. il Paradiso in terra grazie alle macchine? Sembra fantascienza. Ma proprio gli allarmi lanciati dagli scettici (che il movimento accusa di bioluddismo) indicano che la strada è aperta. In Inghilterra lo scienziato Kevin Warwick sta mettendo a punto innesti cibernetici che permetteranno agli umani di acquisire nuove facoltà sensoriali, come quelle dei delfini o dei pipistrelli. All'Institute for Molecular Manufacturing di Los Altos, California, stanno costruendo respirociti, clottociti e microbivori, nanorobot che potranno prendere il posto di globuli rossi, piastrine e globuli bianchi. Per quattro paralitici americani è già una realtà il brain-9ate, dispositivo impiantato nel cervello che permette loro di pilotare con la mente macchine esterne. Secondo lames Hughes, direttore dell'Institute for Ethics and Emerging Technologies, «la linea di confine tra vita ____________________________________________ Il Giornale 2 dic. ’06 I PERICOLI DELLE MICOSI INVASIVE. SOTTO ACCUSA CANDIDA, ASPERGILLUS E FUSARIUM Gianni Mozzo Le infezioni fungine invasive sono più frequenti di quanto si creda nella popolazione generale ma diventano pericolose nei pazienti il cui sistema immunitario è impoverito da trattamenti farmacologici di lunga durata, per esempio dalla chemioterapia. L'aumento dei pazienti immunosoppressi verificatosi negli ultimi anni ha drammaticamente incrementato l'incidenza di micosi invasive. Dato che le micosi invasive sono -difficili da trattare, ciò ha determinato un aumento di morbilità e di mortalità, prolungate ospedalizzazioni e aumento dei costi assistenziali. La diagnosi di micosi invasiva è fondamentale per prescrivere il trattamento più adatto. La biopsia e la coltura dei tessuti infettati rappresentano le modalità più importanti per diagnosticare la maggior parte delle micosi invasive. La terapia mirata viene usata quando è nota l'identità dei patogeni e il clinico può così esprimere il trattamento più adeguato. Una molecola innovativa (nome clinico: posaconazolo) è un'arma nuova per combattere le infezioni fungine invasive. Studi clinici hanno confermato la sua efficacia su agenti fungini che sono responsabili delle micosi più gravi come quelle da Aspergillus e Pusarium. «La disponibilità di questo nuovo farmaco offre alla comunità medico-scientifica una nuova opzione per la prevenzione e per la terapia di infezioni fungine gravi in pazienti già gravemente compromessi dalla patologia di base in cui l'infezione fungina rende ancora più critiche le condizioni generali, con esiti spesso letali» ha affermato il professor Claudio Viscoli, ordinario di Malattie infettive all'università di Genova. Mai come per i pazienti immunocompromessi vale comunque il principio del «prevenire è meglio che curare». Sulla base di questa considerazione il professor Livio Pagano, dell'Istituto di ematologia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, ha affermato che «questa molecola ha numerose positive caratteristiche, come è stato dimostrato da studi multicentrici che ne hanno permesso la registrazione con l'indicazione alla profilassi antifungina. Vanno ricordate, in primo luogo, l'ottima biodisponibilità e la bassa tossicità di posaconazolo, ma soprattutto il suo ampio spettro di azione, che include anche un'attività contro gli zigomiceti»: II 9 novembre scorso l'Agenzia europea del farmaco (Emea) ha riconosciuto a posaconazolo anche l'indicazione alla profilassi, in pazienti ematologici ad alto rischio per lo sviluppo di micosi invasive. Tra questi i pazienti con neutropenia prolungata a seguito della terapia di induzione per leucemia mieloblastica acuta o sindromi mielodisplatiche, e pazienti sottoposti a trapianto allogenico di cellule, in trattamento immunosoppressivo ad alte dosi. Una situazione nella quale lo sviluppo di un'infezione micotica invasiva si associa ad una mortalità altissima: dal 50 al90 per cento. La chemioterapia e le cure post-trapianto favoriscono gravi infezioni fungine che possono rivelarsi mortali I pazienti con ridotte difese immunitarie rischiano di contrarre infezioni fungine gravi che oggi si possono curare ____________________________________________ Sole24Ore 3 dic. ’06 L'ATOMO CONTRO I GAS SERRA «Per salvare l'ambiente servono meno sprechi e il nucleare pulito» Marco Niada LONDRA. Dal nostro corrispondente «Siamo ancora in tempo per salvare l'ambiente senza grandi sacrifici, a patto di accrescere l'efficienza dell'uso di energia. Con risparmi enormi. Dobbiamo poi considerare il nucleare pulito, poiché le fonti alternative possono sostituire solo in minima parte gli idrocarburi fossili». Di passaggio da Londra, dove il rapporto Stern sul cambiamento climatico ha spinto Tony Blair a porre l'ambiente in cima all'agenda politica, Paolo Scaroni, 6oenne amministratore delegato di Eni, ha avanzato alcune proposte, anche in virtù di un'esperienza preziosa, avendo guidato in precedenza Enel, il colosso elettrico italiano. Eni, peraltro, ha appena avuto dall’Onu luce verde per un progetto a Kwale in Nigeria, dove eliminerà la combustione del gas che esce durante l'estrazione del petrolio (effetto torcia), riciclandolo in una centrale elettrica a ciclo combinato da 48o Mw a beneficio dell'economia locale. Il rapporto Stern ha suonato l'allarme, ma, a partire dall'ex vicepresidente Usa Al Gore, crescono le messe in guardia sull'effetto serra. Pensa che siano fondate? Sul tema ci sono argomenti pro e contro, avanzati da illustri scienziati. Personalmente, credo che una trasformazione sia in atto, poiché assistiamo a una crescita senza precedenti della temperatura terrestre. Il protocollo di Kyoto contribuisce a una soluzione? Kyoto ha indicato un percorso, ma è stato poco più di un esercizio di maieutica. AL meglio Kyoto ci permetterà, entro il 2012, risparmi equivalenti a 1/8 dell'aumento delle emissioni della sola Cina. A prima vista il problema pare insolubile. La tecnologia ci offre soluzioni che possiamo adottare senza cambiare sostanzialmente il nostro modo di vivere. La prima, che non suscita controversie, è l'uso efficiente dell'energia. La seconda è il nucleare, che suscita controversie ma, grazie a tecnologie che dominiamo, permette di produrre energia come, quando e quanto ci serve. Infine le energie alternative, che sono da perseguire, ma possono rimpiazzare i combustibili fossili limitatamente. Passiamole in rassegna una alla volta. Nel primo caso il potenziale di risparmi è enorme, dalle abitazioni, ai trasporti, all'industria, all'elettricità. Un esempio: se tutti in Occidente fossimo dotati di auto che consumano 20 km con un litro risparmieremmo l'intera produzione dell'Arabia Saudita. Bisogna poi pensare che un eccesso di sprechi ha un costo politico in termini d'insicurezza. Oltre a uno economico e sociale: chi guida un grande Suv deve sapere che aumenta la domanda di prodotti petroliferi, dunque i prezzi del carburante per il pescatore del Mozambico, aumentando il divario tra Nord e Sud. Su questo fronte gli Usa sono in cima agli sprechi.. Un americano consuma mediamente 26 barili di petrolio l'anno. Un europeo 12. Se gli americani consumassero come gli europei si risparmierebbe l'equivalente della produzione dell'Arabia Saudita. Anche noi europei potremmo scendere però facilmente a io barili a testa. Se tutto ciò accadesse i consumi mondiali (i Paesi sviluppati pesano per il 70%) scenderebbero del 20%. Ciò tra l'altro permetterebbe l'allungamento della vita degli idrocarburi fossili dagli attuali 70 a 100 anni, beneficiando una generazione in più. Che non è poco. Gli Usa non paiono propensi a tagliare i consumi. Dico solo che non è un problema insolubile. In Europa la maggiore tassazione ha moderato i consumi. Passiamo alle altre fonti: alternative e nucleare. Un kilowattora convenzionale costa 5-7 centesimi di euro. Con l'energia fotovoltaica (solare) siamo a 28-60 centesimi. Per quanto si potrà scendere, il divario è ampio. Prendiamo i biocombustibili: se coltivassimo tutta l'Italia a colza (da cui si estrae il biocarburante) copriremmo il 14% dei consumi petroliferi nazionali o il So% dei consumi di gasolio per autotrazione. Quanto all'eolico, crede che l'Italia sia un Paese ventoso? Sulle 8.760 ore di un anno, nel posto più ventoso d'Italia un mulino funzionerebbe 2.500 ore, contro le 4mila della Spagna o le 6mila delle isole Shetland. E in Spagna, dove l'energia eolica è molto diffusa, copre solo il 7% dei consumi. Resta il nucleare... Le nuove tecnologie hanno consentito passi da gigante. In Italia, al netto dell'idroelettrico, se soddisfassimo la domanda con il solo nucleare, oggi avremmo 3o reattori in dieci siti. Scorie di un anno riempirebbero in volume una stanza di 3oomq e potrebbero comunque venire "riprese" per un successivo trattamento nel caso nuove tecnologie consentissero passi in avanti. E poi l'atteggiamento sul nucleare sta cambiando. Pensi che un importante esponente di GreenPeace in America si è convertito al nucleare pulito. Davanti ai danni potenziali dell'effetto serra molti verdi stanno rifacendo l'esame di coscienza... «Con l'aiuto decisivo della tecnologia possiamo accrescere l'efficienza energetica» «Le fonti alternative sono da perseguire ma non sostituiranno il combustibile fossile» Capo azienda. L'amministratore delegato defl'Eni. Paolo Scaroni, 60 anni _______________________________________________________ L’Unione Sarda 30 Nov. ’06 VINO SARDO, ELISIR DI LUNGA VITA Un team di ricercatori londinesi individua la molecola che aiuta le arterie Secondo "Nature" il nostro rosso aiuta la longevità C’è una stretta correlazione fra la longevità di alcune popolazioni della Francia e della Sardegna e il consumo, moderato, di vino rosso. Lo sostiene uno studio pubblicato dalla rivista scientifica Nature condotto da Roger Corder, direttore del Queen Mary’s School of Medicine di Londra, insieme ad altri sei ricercatori. Il vino rosso inibisce infatti la sintesi dell’endotilina-1, responsabile dell’indurimento delle arterie e colpevole dell’aterosclerosi coronarica, e quindi, grazie ad alcune molecole, protegge il sistema cardiovascolare. La particolarità dello studio di Roger Corder, visto che i benefici effetti del vino sono già stati scientificamente provati, è che mette in relazione il consumo di un certo tipo di vino rosso con la longevità di due popolazioni: una vive nella zona di Gers, nel sud est della Francia, vicino ai Pirenei, l’altra in Sardegna, nel Nuorese e in modo particolare nell’Ogliastra. In entrambe le zone il processo di vinificazione avviene secondo metodi tradizionali e simili che prevedono una lunga macerazione delle uve. Questo processo - hanno accertato il professor Corder e i suoi collaboratori - favorisce la formazione di molecole scientificamente chiamate polifenoli e Opcs cui è collegata una riduzione del rischio di patologie coronariche. In Francia gli studiosi si sono riferiti al censimento fatto nel 1999, riscontrando un alto numero di persone, soprattutto uomini, oltre i 75 anni. Per la Sardegna il riferimento è stata l’area centrale del Nuorese su cui da anni ormai sono in corso studi per stabilire le cause della longevità delle popolazioni locali. In particolare è stato un articolo pubblicato su una rivista scientifica a richiamare l’attenzione del professor Corder sulla Sardegna. Era il 2004. Lo studioso venne venne nella nostra isola, parlò con i ricercatori, visitò quelle zone acquistando un notevole quantitativo di vino da varie cantine. Li ha poi esaminati nei suoi laboratori londinesi comparandone la composizione con decine di altri vini provenienti da altre parti della Sardegna ma anche dall’Australia, dalla Francia, dalla Grecia, dalla Spagna, dagli Stati Uniti e dal Sudamerica. A indagine conclusa ha compilato una sorta di graduatoria dei vini dove più alta è la concentrazione delle molecole che favoriscono la dilatazione dei vasi sanguigni e prevengono l’aterosclerosi. Il vino prodotto nella zona di Gers occupa la prima posizione di questa originale hit paradedel vino genuino. La Sardegna centrale è al secondo posto. Per l’industria vinicola di questa zona dell’Isola, che proprio di recente ha avuto importanti riconoscimenti a livello nazionale, le conclusioni scientifiche raggiunte dallo studio Corder possono rappresentare un valore aggiunto di notevole importanza. Un riconoscimento «doc» avallato dalla scienza. Roger Corder non è nuovo a questo tipo di ricerche. Già nel 2001 «Nature» pubblicò un suo studio sugli effetti benefici del vino rosso nella prevenzione delle malattie cardiache. Più di recente era stato il professor Gerry Potter, leader del team della «Leicester De Montfort University», a pubblicare sul «British Journal of Cancer» i risultati di una ricerca secondo cui una molecola che si trova nei grappoli d’uva usati per produrre il vino rosso si trova il resveratrolo, prodotta dalle viti come autodifesa: un fungicida naturale. I ricercatori hanno scoperto che nell’organismo umano si converte in una sostanza che riduce l’aggressività delle cellule tumorali e ne blocca la proliferazione agendo selettivamente. Questa ricerca ha punti di contatto con quella di Roger Corder: entrambi sono arrivati alla conclusione che le più interessanti sostanze terapeutiche si trovano nelle parti solide del grappolo (gambi, bucce e acini) che macerano nel processo di vinificazione del rosso. Non un vino qualsiasi quindi e comunque da bere moderatamente. Questo è il messaggio degli scienziati. _______________________________________________________ L’Unione Sarda 28 Nov. ’06 ECCO IL TEST SALVAVITA PER GLI ASMATICI Un questionario per aiutare gli asmatici a respirare meglio e a tenere sotto controllo la propria malattia: è questa l'ultima novità in tema di lotta contro l'asma, patologia respiratoria che rappresenta attualmente la terza causa di morte in Italia. Il questionario, denominato "Asma Control Test" (ACT), è stato presentato ieri nella sede dell'Ordine dei medici di Cagliari dal presidente dell'ordine Mondino Ibba, dal direttore sanitario dell'Asl 8 Giorgio Sorrentino, dal dirigente di Asma Sardegna (nonché rappresentante di Federasma) Nicola Pirina e dalla responsabile della struttura "Asma e malattie allergiche respiratorie" dell'ospedale Binaghi Simonetta Mereu. «Malgrado l'asma incida pesantemente sulla qualità della vita dei malati e sulle casse della sanità pubblica (630 milioni di euro spesi ogni anno), finora i pazienti non avevano a disposizione strumenti per esercitare un autocontrollo sui sintomi ? spiega Simonetta Mereu ? Per colmare la lacuna è stato ideato l'Asma Control test: un questionario, certificato dalla società italiana di medicina respiratoria, che permetterà di quantificare in modo semplice, economico e preciso il controllo dell'asma». Il test sarà eseguito negli ospedali, negli ambulatori e in farmacia. Le domande alle quali i pazienti dovranno rispondere sono cinque: 1) nelle ultime quattro settimane quante volte l'asma ti ha impedito di fare ciò che avresti fatto normalmente al lavoro, a scuola o a casa? 2) Quante volte hai avuto il fiato corto? 3) Quante volte i sintomi (fischio, tosse, dolore al petto) ti hanno svegliato di notte o più presto del solito al mattino? 4) Quante volte hai usato il farmaco di emergenza (salbutamolo) per inalazione o per aerosol? 5) Quanto credi di aver tenuto sotto controllo la tua asma? «Il test sarà utilissimo ? assicura il direttore generale dell'Asl 8 Giorgio Sorrentino ? e si affiancherà ai programmi che vengono seguiti nei centri specializzati». A questo proposito Sorrentino ha ricordato l'eccellenza rappresentata dalla Divisione di Pneumologia II dell'ospedale Binaghi. «Nel 2006 sono stati fatti 250 accertamenti di asma e ne sono stati monitorizzati a livello ambulatoriale 800 casi». In Sardegna l'asma colpisce l'8 per cento della popolazione adulta e il 10 per cento dei bimbi in età pediatrica. In Italia gli asmatici sono cinque milioni (25.000 i ricoverati ogni anno) mentre nel mondo sono 150 milioni (180.000 all'anno i morti secondo l'Oms). «Purtroppo siamo lontani dal raggiungimento dell'obiettivo, che è il controllo totale dell'asma ? ammette Simonetta Mereu - Oggi infatti solo il 5 per cento dei soggetti asmatici può affermare di avere un controllo soddisfacente sui sintomi». Paolo Loche _______________________________________________________ Il Sole24Ore 28 Nov. ’06 IN OSPEDALE IL 38% ARRIVA DALL'EST Nel 2004 quasi 420mila degenze per una spesa a carico del Ssn di 725 milioni Sono aumentati del 46% in quattro anni e hanno toccato quota 359.540 i ricoveri a carico del Ssn negli ospedali italiani degli immigrati regolari. La spesa (nel 2004) è stata di 659,543 milioni con tariffe medie per ricovero di 1.834 euro, il 25% in meno che per i cittadini italiani (2.450 euro). Il ricovero più "gettonato" è quello per il parto (il 30,3% del totale), mentre il 37,7% dei ricoverati arriva dai Paesi dell'est Europa e il Marocco è lo Stato estero più frequente di provenienza dei pazienti, seguito da Albania, Romania e Cina. La Lombardia, col 23,4% del totale, è la Regione che ha offerto in assoluto più prestazioni ospedaliere. Cresce la presenza di immigrati extracomunitari regolarizzati in Italia, e cresce naturalmente anche la domanda di salute da soddisfare. Diritti acquisiti che lo Stato riconosce e che il Ssn ha il dovere di soddisfare. Uno spaccato, quello dell'assistenza ospedaliera agli extracomunitari, che tuttavia è rimasto a lungo inesplorato, nonostante per le stesse Regioni rappresenti un elemento fondamentale per calcolare il fabbisogno sanitario annuo. A scattare un primo ed esauriente check del fenomeno è adesso un rapporto appena sfornato dal l'Agenzia per i servizi sanitari regionali (Assr). Una fotografia (2001-2004) che elenca anche tutti i ricoveri che il Ssn e il ministero dell'Interno garantiscono anche a stranieri indigenti (28.182 a carico del Ssn, altri 16.770 sui fondi del Viminale): insomma, altri 44.900 ricoveri per altri 100 milioni di spesa, che tuttavia è soltanto in minima parte riconosciuta agli enti che la garantiscono. Altri 4.677 ricoveri pagati dal Ssn riguardano infine gli italiani residenti all'estero. Nel complesso, dunque, i ricoveri per gli immigrati (regolari e non) a carico dello Stato sono 419.889 e valgono 725 milioni. I quasi 360mila ricoveri (93.760 in day hospital) degli immigrati regolari a totale carico del Ssn, spiega il rapporto dell'Assr, presentano valori di spesa inferiori soprattutto per l'età media più bassa degli extracomunitari: il 67% dei ricoveri interessa cittadini tra 15-44 anni. Dopo i Paesi dell'est Europa, la maggiore provenienza sono l'Africa (il 28%), l'Asia (14,47%) e l'America centro meridionale (11,51%). Ma ci sono anche stranieri che pagano per i ricoveri: lo studio ha calcolato 10.730 ricoveri. È la cosiddetta "mobilità in entrata": il Ssn, in questo caso, incassa 27,9 milioni. R. Tu. _______________________________________________________ Libero 28 Nov. ’06 OSTEOPOROSI, INDIVIDUATO IL REGOLATORE DELLA DENSITÀ OSSEA Dagli Usa un primo grande successo ROBERTO MANZOCCO Nel 1994 un cittadino americano - il cui nome è tuttora coperto da anonimato - venne coinvolto in un incidente automobilistico, senza però riportare alcuna ferita o frattura; le radiografie effettuate in ospedale e un approfondito studio realizzato da Karl Insogna (direttore dello Yale Bone Center, a New Haven) rivelarono però come lo scheletro di questo paziente fosse caratterizzato da una densità ossea ben otto volte maggiore rispetto a quella di una persona normale. Ossa quasi indistruttibili, insomma, ma che portavano con sé uno spiacevole effetto collaterale: il soggetto in questione non era infatti in grado di nuotare, e ciò per il fatto che quando entrava in acqua tendeva ad affondare proprio a causa del peso del suo scheletro (un fenomeno che in precedenza la medicina non era mai riuscita a spiegare). A parte ciò, l'eccessiva densità ossea non produceva particolari disturbi, e quindi l'uomo venne dimesso. Sei anni dopo lo stesso Insogna venne a sapere da alcuni colleghi di altri casi simili e decise allora di rintracciare il suo paziente originario e di prendere in esame anche i suoi parenti; studiando i soggetti così rintracciati - tutti caratterizzati da ossa super-dense e da una curiosa mascella molto squadrata - lo scienziato Usa e il suo team identificarono le basi genetiche di tale condizione anomala, e per la precisione un'area molto ristretta situata nel cromosoma 11. All'epoca la suddetta regione cromosomica era troppo lunga per essere sequenziata con le tecnologie allora disponibili, tuttavia Insogna si accorse che un altro gruppo di scienziati - Matthew Warman e i suoi colleghi della Case Western Reserve University - avevano scoperto una particolare mutazione in uno specifico gene (nome in codice, Lrp5) che sembrava provocare l'effetto contrario, vale a dire una densità ossea molto bassa; lo scienziato della Yale University si chiese allora se Lrp5 potesse essere responsabile anche della condizione da lui studiata. A questo punto molti altri gruppi di ricerca si fecero avanti e iniziarono a riportare casi analoghi da loro identificati in ogni parte degli Stati Uniti, una quantità di persone che finì per ammontare a decine di famiglie. Le ragioni della soddisfazione - confortate anche dalle conoscenze ottenute nel medesimo periodo tramite il Progetto Genoma Umano - sono ovvie: identificare un singolo gene in grado di regolare la densità ossea e imparare a manipolarlo avrebbe consentito di trovare una cura per svariate patologie dell'apparato osseo, a partire dall'osteoporosi. E così nel 2001 Mark Johnson - che si occupava proprio della suddetta malattia presso la Creighton University - riuscì a localizzare con precisione la sede del gene Lrp5. Dopo questa scoperta molte équipe scientifiche di tutto il mondo cominciarono a condurre studi comparativi sul funzionamento di Lrp5 negli esseri umani e nelle cavie, e negli ultimi quattro anni le informazioni disponibili su di esso sono cresciute a dismisura, anche se gli interrogativi da risolvere sono ancora molti. Iniziata con un fortuito incidente d'auto, l'analisi di Lrp5 potrebbe portare quindi alla messa a punto di una terapia per l'osteoporosi in tempi relativamente brevi, e a questo proposito Insogna e Johnson sono piuttosto ottimisti. _______________________________________________________ Le Scienze 1 dic. ’06 MORBO DI HUNTINGTON E LIVELLI DI COLESTEROLO Comprendere il meccanismo di tossicità è ritenuto un passo chiave per trovare un trattamento della malattia Si è guadagnata la copertina della rivista “Human Molecular Genetics” la ricerca svolta presso la Mayo Clinic, grazie alla quale si è scoperta un’interazione proteica che potrebbe spiegare in che modo il morbo di Huntington aggredisce il cervello. Si tratta di una proteina mutata che, interagendo con un’altra, determina un notevole accumulo di colesterolo nel cervello. "Il colesterolo è essenziale per promuovere la rete di connessioni tra le cellule del cervello e nel mantenere l’integrità della loro membrana. Sia il livello di colesterolo sia la sua distribuzione nei siti opportuni della cellula sono essenziali per la sopravvivenza dei neuroni”, ha spiegato Cynthia McMurrary, biologa molecolare della Mayo Clinic. “Aver scoperto che la proteina mutata del morbo di Huntington sconvolge il sistema di distribuzione del colesterolo e determina un accumulo di questo lipide nei neuroni ci fornisce un risultato chiave per capire i meccanismi attraverso i quali si sviluppa la malattia. E comprendere il meccanismo di tossicità è il primo passo per sviluppare trattamenti di cura.” I ricercatori della Mayo hanno osservato l’accumulo abnorme di colesterolo nelle cellule neuronali in coltura e nei cervelli dei modelli animali. Hanno trovato che ciò succede solo quando la proteina di Huntington mutata viene espressa insieme con la molecola caveolina-1. Quest’ultima è la maggiore proteina strutturale delle vescicole, note come caveole, che catturano il colesterolo e lo trasportano dentro e fuori le membrane neuronali. Quando i ricercatori hanno silenziato l’espressione della caveolina, i neuroni che codificano per la proteina di Huntington mutata hanno smesso di accumulare colesterolo. _______________________________________________________ Le Scienze 29 Nov. ’06 COME LA NICOTINA ALTERA IL CERVELLO I cambiamenti del metabolismo cerebrale visualizzati grazie alla spettroscopia protonica Per la prima volta un gruppo di ricercatori dell'Università di Bonn, in Germania, è riuscito a realizzare uni studio di imaging cerebrale che correla metaboliti cerebrali e dipendenza da nicotina. I ricercatori hanno sfruttato la spettroscopia magnetica nucleare a protoni, che è in grado di misurare il metabolismo cerebrale a livello cellulare e di fornire dati dettagliati sui metaboliti cerebrali. I risultati – presentati al convegno delldell’Associazione radiologica del Nord America in corso a Chicago - hanno mostrato che le persone nicotino-dipendenti hanno concentrazioni significativamente più basse dell’amminoacido N- acetilaspartato (NAA) nella regione della corteccia del cingolo anteriore, un’area coinvolta nella gestione dei processi cerebrali legati al piacere e al dolore. L’entità di tale dimunzione, inoltre, è risultata correlata con il numero di sigarette mediamente fumate all’anno. “Bassi livelli di NAA sono stati considerati indicatori di una disfunzione neuronale o assonale” ha osservato Christian G. Schütz, uno degli autori, che ha ricordato come essi si riscontrino anche in disturbi dell’umore, in altre patologie psichiatriche e in casi di deipndenza da altre sostanze da abuso. Anche le concentrazioni di colina risultavano inferiori alla norma nella corteccia del cingolo anteriore e in misura più marcata nelle fumatrici che nei fumatori. La colina ha un ruolo di primaria importanza nel mantenimento di un corretto metabolismo della membrana cellulare, e livelli eccessivamente bassi di esssa possono preludere alla rottura della membrana stessa. Per contro nei lobi frontali dei fumatori la concentrazione di creatina totale (tCr) appariva superiore a quella dei nicotino-dipendenti che stavano utilizzavando cerotti alla nicotina; anche in questi peraltro, livelli superiori di tCr si sono dimostrati predittivi di una ricaduta. _______________________________________________________ Le Scienze 27 Nov. ’06 LE PRINCIPALI CAUSE DI MORTE NEL 2030 In aumento anche i decessi legati alla depressione Nel 1993, la Banca Mondiale finanziò uno studio, il Global Burden of Disease Project, che – condotto da ricercatori della Harvard University e dell’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) – fornisse una stima complessiva globale dei casi di morte e malattia classificati per età, sesso e causa. Di quello studio ora sono state aggiornate le proiezioni, che vengono pubblicate sull’ultimo numero di Plos Medicine. Le proiezioni contemplano tre possibili scenari, in relazione allo sviluppo socio-economico mondiale: uno scenario di riferimento, uno scenario pessimistico che presuppone un più basso tasso di sviluppo, e uno ottimistico in cui tutti gli indicatori mostrano un rapido miglioramento. In tutti e tre gli scenari, da qui al 2020 la speranza di vita media aumenterà in tutto il mondo, mentre diminuirà la mortalità infantile dei bambini al di sotto dei cinque anni. Anche il numero di morti per malattie infettive diminuirà, con l’eccezione dell’AIDS, il numero delle cui vittime continuerà ad aumentare, così come quello dei morti per patologie non infettive, patologie cardiache e tumori in primo luogo, tanto che nel 2015 il numero di decessi correlati a patologie indotte dal fumo supererà del 50 per cento quello dei decessi da AIDS. Nello scenario pessimistico nel 2030 le prime tre singole e specifiche cause di morte dovrebbero essere AIDS, depressione e infarto, mentre quello ottimistico prevede che al terzo posto si piazzino, spodestando l'infarto, gli incidenti stradali il cui numero potrebbe salire sensibilmente proprio in seguito ai progressi socio-economici.