ESPLODE LA COLLERA DEI RETTORI - LA PROTESTA DEI RETTORI: ATENEI CHIUSI AI MINISTRI - IL GIROTONDO DEI RETTORI - MUSSI ATTACCA I RETTORI: RISPETTO PER LO STATO - NEL CAMPO RECINTATO DELL'ACCADEMIA - VALDITARA(AN):MA GLI ATENEI SIANO VERE COMUNITÀ - QUELL'ABBRACCIO MORTALE CON I BARONI - UNIVERSITÀ: QUEI PARAGONI CON L'ESTERO FATTI A USO DEGLI AMICI - UNIVERSITÀ, IL PRIVATO NON È TUTTO - LA RICERCA NON SI VALUTA SOLO CON LA CONTA DELLE PUBBLICAZIONI - LE PRIORITÀ: MERITO E SELEZIONE - BIBLIOTECHE LUOGHI IDEALI PER LO SVILUPPO DELL'ISOLA - II NEPOTISMO DILAGA ANCHE NEGLI USA - LA SARDEGNA E LE BRICIOLE PER LA RICERCA - CAGLIARI: ARCHITETTURA NASCE OGGI - GLI SCIENZIATI PROCESSANO CHI UCCIDE LA RICERCA - NON MOTIVATI, QUINDI SCONTENTI - PANI: PARENTOPOLI SERVE A FORMARE LE SUE CORTI - GREENPEACE CONTRO SORU E I "PSEUDO AMBIENTALISTI" - ============================================================ MEDICO E PAZIENTE: LE PAROLE CHE MANCANO - OSPEDALI DI ECCELLENZA LE NUOVE CLASSIFICHE ITALIANE E CONTINENTALI - SANITÀ LE ASSOCIAZIONI DEI MALATI SEGNALANO PESANTI DISAGI - OPERARE E CURARE A DISTANZA ORA SI PUÒ - SIGLATO L'ACCORDO FRA BROTZU E FACOLTÀ DI MEDICINA - CANCELLATI I TICKET PER IL PRONTO SOCCORSO - I TICKET NON GUARISCONO LE MALATTIE DELLA SANITÀ IN ITALIA COME NEGLI USA - OSPEDALI IN RETE PER FARE PREVENZIONE SULLE MALATTIE RARE - ASSISTENZA AI DISABILI, IL MODELLO SARDEGNA - PEDIATRI SITO-GUIDA PER CIASCUN MEDICO - IN CONTINUO AUMENTO LE SPESE SANITARIE NEGLI STATI UNITI - GLI SCIENZIATI: BASTA CORTESIE PER LA RELIGIONE - MILANO PUNTA SUL SUPER COMPUTER - UNA BANCA. PER I DATI CLINICI - RE-IMMAGINARE LA MEDICINA - ANCHE IN OSPEDALE IL TEMPO È DENARO - PET MAMMOGRAFIA: DIAGNOSI AL,MILLIMETRO CUBO - ACIDO FOLICO INUTILE NELLE PATOLOGIE CARDIOVASCOLARI - LE MALATTIE GENETICHE SERVONO A COMBATTERE LE EPIDEMIE - LA SECONDA VITA DEI VACCINI: ARMA IDEALE CONTRO LA POVERTÀ - C'È UN OPEN SOURCE ANCHE PER IL BIOTECH - MEMS: BASTERÀ UN GESTO PER UNA DIAGNOSI ESATTA - OSSITOCINA E AUTISMO - ============================================================ _________________________________________________________ La Nuova Sardegna 15 dic. ’06 ESPLODE LA COLLERA DEI RETTORI L’università boccia il governo Stop agli inviti di ministri e sottosegretari a conferenze e incontri ROMA. Università off limits per ministri, sottosegretari e per chiunque rappresenti il governo. E’ la decisione presa ieri dai rettori come segno di protesta contro i tagli all’università e alla ricerca previsti dalla finanziaria. «Il contenuto del maxiemendamento dimostra la chiusura e la sordità del governo nei confronti delle esigenze della sola sopravvivenza delle università», hanno scritto i rettori. Da qui anche l’appello agli atenei perché «sospendano ogni invito ai membri del governo a partecipare a significative manifestazioni nelle università». Alla fine la collera dei rettori è esplosa. Dopo aver protestato contro i tagli al settore e dopo aver sperato inutilmente di vedere rimpolpati i finanziamenti alle università ieri, avuta certezza che nel maxiemendamento alla legge di bilancio non ci sarebbe stata alcuna novità positiva, i rettori non hanno esitato a reagire duramente. «Un milione e ottocentomila studenti e migliaia di ricercatori rischiano di pagare sulla loro pelle il peso delle decisioni assunte», hanno spiegato. Una reazione in qualche modo anticipata già martedì scorso, quando i rettori avevano espresso la loro preoccupazione per il fatto che il maxiemendamento venisse discusso direttamente in aula senza passare per la commissione Bilancio. «Sarebbe davvero paradossale se le richieste del sistema universitario, sostenute anche da emendamenti di maggioranza e opposizione, non dovessero essere accolte. Se così fosse la conferenza dei rettori dovrebbe inevitabilmente trarre le necessarie conseguenze», avevano avvertito. E così è stato. Silenzio dal parte del governo alla decisione presa dai rettori. Il ridimensionamento dei finanziamenti destinati a università e ricerca era già stato nelle scorse settimana oggetto di polemiche e di un duro scambio di accuse tra governo e rettori, preoccupati soprattutto dal taglio di 200 milioni di euro per le spese intermedie o per i consumi e per altri risparmi previsti nel decreto Bersani sulle liberalizzazioni. Tagli che, tra le altre cose, avrebbero messo a rischio anche il rinnovo dei contratti per migliaia di ricercatori. Tanto che perfino la senatrice a vita Rita Levi Montalcini aveva minacciato di non voler votare la finanziaria. E ieri gli studenti di destra non hanno perso l’occasione per rivolgersi alla premio Nobel chiedendole di rispettare l’impegno. Ma la solidarietà ai rettori è stata espressa da politici di entrambi gli schieramenti. «E’ una protesta da non ignorare», ha detto ad esempio il senatore dell’Ulivo Andrea Ranieri. «Questa finanziaria - ha spiegato - ha dovuto fare i conti con lo stato di bancarotta in cui il governo Berlusconi ha lasciato i conti pubblici e quindi non ha potuto risolvere questo problema che grava sulle università. Tuttavia il problema va affrontato e risolto». «Come avevamo già annunciato, per l’università è arrivata la clamorosa presa in giro», ha accusato invece il governo il senatore di Alleanza nazionale Giuseppe Valditara. «I tagli sono insostenibili, e pregiudicano lo sviluppo del sistema di ricerca pubblica, a dimostrazione che il sistema Prodi non ha a cuore il futuro dell’Italia». _________________________________________________________ Corriere della Sera 15 dic. ’06 LA PROTESTA DEI RETTORI: ATENEI CHIUSI AI MINISTRI Rivolta contro la Finanziaria. «Posti solo in platea a inaugurazioni e cerimonie ufficiali» ROMA — Vietato invitare i membri del governo a presenziare alle inaugurazioni dell’anno accademico, alle celebrazioni di illustri studiosi, alle lauree ad honorem e a tutte le più significative cerimonie organizzate dagli atenei. Ministri e sottosegretari, anche se colleghi, potranno accomodarsi in platea, non al tavolo delle autorità accademiche. L’inclusione di ministri in carica in un elenco di persone sgradite, con Fabio Mussi inevitabilmente al primo posto, è stata decisa dall’assemblea dei rettori (Crui). I RETTORI — È la risposta alla Finanziaria che «minaccia la sopravvivenza » dei 75 atenei del Paese. In un clima molto acceso, quasi di rivolta nei confronti dell’esecutivo — si è parlato di sciopero fiscale, di dimissioni in massa, di azioni legali —, i rettori hanno espresso un giudizio di durissima condanna nei confronti della manovra. Un governo che punisce l’università, che crea dif- ficoltà insormontabili nella vita quotidiana degli atenei, hanno decretato i rettori, non è più il benvenuto nelle nostre aule. Si tratta di una sorta di espulsione da un mondo, quello universitario, che si aspettava dal governo di centrosinistra una valorizzazione e che quasi non riesce a credere alle cifre della Finanziaria. «Eravamo coscienti del momento difficile — ha dichiarato il presidente dell’assemblea, Guido Trombetti, rettore della "Federico II" di Napoli —, avevamo chiesto di fare sacrifici ma di avere garantita la sopravvivenza. Invece così non si garantisce nulla. Soprattutto non si garantisce il diritto allo studio degli studenti, protetto dalla Costituzione, perché sono diminuiti anche i fondi per le borse di studio. Per questi motivi l’università — che resta un luogo aperto a tutti — non inviterà i membri di questo governo». I TAGLI — Anche nel 2007 il decreto Bersani imporrà agli atenei tagli alle spese riguardanti la gestione ordinaria: affitti, utenze, pulizie, riscaldamento, abbonamento alle riviste e via dicendo. Le somme dovranno essere ridotte del 20 per cento rispetto alle previsioni. Secondo i rettori i tagli si aggirano sui 200 milioni di euro. Il fondo di finanziamento ordinario, che serve per pagare gli stipendi — ma non gli aumenti automatici che sono a carico delle singole università e ammontano a circa 150 milioni di euro l’anno —, è cresciuto di poche decine di milioni. La protesta dei rettori, mai così dura, punta ad evitare il collasso degli atenei che nei prossimi mesi potrebbero non avere i soldi per pagare l’affitto, gli abbonamenti alle riviste e le bollette della luce. L’obiettivo è liberare l’università dal peso del decreto Bersani prima che si concluda l’iter della Finanziaria. Nessun commento da parte del ministro Fabio Mussi, che ha minacciato le dimissioni se saranno confermati i tagli all’università apparsi nella prima stesura della manovra. Il silenzio del ministro rivela forse un estremo tentativo per trovare una soluzione. I COMMENTI — La decisione dei rettori fa discutere maggioranza e opposizione. Giuseppe Valditara, An: «Per l’università è arrivata la clamorosa presa in giro. Paradossalmente la cosa più negativa è che non si intravede un’evoluzione positiva dato che si prevedono tagli ancora maggiori — oltre 200 milioni di euro — per il 2008». Andrea Ranieri, Ds, riconosce che «nella Finanziaria non si è tenuto conto delle difficoltà in cui versano le università italiane». «Una soluzione — ha proposto l’esponente Ds — potrebbe venire dal prossimo varo dell’Agenzia di valutazione, se riusciremo a dotarla delle risorse necessarie per assegnare finanziamenti agli atenei, premiando il merito delle strutture, dei docenti e degli studenti ». Matteo Renzi, della Margherita, punta il dito su un’apparente contraddizione dei docenti universitari. «Trovo esagerata ed ingiusta l’inaudita forma di protesta decisa dalla Conferenza dei rettori — ha dichiarato Renzi —. Se davvero si hanno a cuore le sorti dell’università, perché puntare il dito soltanto sull’esecutivo? Perché non andare a guardare, per esempio, cosa fanno e cosa hanno fatto alla Camera o al Senato i docenti e i rettori universitari una volta divenuti parlamentari?». IL PRESIDENTE DELLA CRUI _________________________________________________________ Corriere della Sera 15 dic. ’06 IL GIROTONDO DEI RETTORI Le minacce, no, non ce le saremmo aspettate dalla Conferenza dei rettori italiani. La protesta per le risorse negate all' Università dalla Finanziaria è legittima. Il grido d' allarme sullo stato comatoso dei bilanci universitari, lo sconcerto per l' insensibilità dimostrata nei confronti della ricerca: tutto questo è meritevole di considerazione e la maggioranza di governo farebbe male a non tenerne conto. Ma se i rettori decidono di svestirsi del loro ruolo togato e arrivano a intimare ai rappresentanti del governo di tenersi lontani dalle «significative manifestazioni in Università», è un lessico inaccettabile quello che traspare dalle loro dichiarazioni. Il governo dovrà naturalmente tener conto degli argomenti di chi teme una penalizzazione eccessiva delle Università. E il comunicato dei rettori, così virulento nei toni e nelle parole, sancisce una rottura simbolica la cui portata è paragonabile ai fischi operai di Mirafiori. Era stato infatti il centrosinistra ad appoggiare la protesta del mondo universitario contro il governo di centrodestra. «Ricerca» e «istruzione» sono state due parole chiave nella polemica dell' Unione contro una maggioranza, quella che sosteneva la compagine governativa guidata da Berlusconi, accusata di abbandonare alla deriva un universo vitale per il futuro dell' Italia. Ai rettori, vezzeggiati e assecondati per cinque anni, sono state offerte candidature alle elezioni. Il Magnifico Rettore dell' Università di Reggio Calabria, Alessandro Bianchi, è diventato ministro. Se ora i rettori si sentono traditi e percepiscono una sordità del governo sui temi della ricerca e dell' istruzione, il governo deve fare un esame di coscienza. I fischi e le contestazioni al governo, se si eccettua qualche sbavatura e caduta di stile, possono anche essere uno stimolo a cambiare, un modo per esprimere delusione per chi, anziché avvitarsi in dispute nominalistiche su ciò che si dovrà fare dopo la Finanziaria, deve fare subito tesoro degli errori commessi. Ma davvero c' è bisogno di un ennesimo girotondo, nientemeno che di un girotondo dei rettori che stona in modo così stridente con la loro funzione e la loro immagine austera? Se la spaccatura tra il mondo della ricerca e il governo è dunque un campanello d' allarme per chi ha varato una Finanziaria al di sotto delle aspettative dei rettori e dei ricercatori dell' Università, le forme e i modi della protesta non sono indifferenti, anche se lo scopo può essere condivisibile. Il metodo dell' ultimatum, l' invito ai membri del governo a non mettere piede all' Università sono appunto forme che i rettori, per la delicatezza del loro ruolo e per il carattere in un certo senso istituzionale della loro funzione, devono saper arginare per non far cadere l' Italia in una deriva caotica e civilmente disgregata che in altri tempi si sarebbe detta «sudamericana». I rettori invitino il governo nelle Università, chiedano conto delle promesse non mantenute, ripetano quanto hanno detto nella passata legislatura, e cioè che una nazione moderna non può permettersi di mortificare la ricerca. Ma evitino i girotondi. Non per risparmiare critiche al governo. Ma per risparmiare all' Italia l' ennesima brutta figura. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 12 dic. ’06 MUSSI ATTACCA I RETTORI: RISPETTO PER LO STATO ROMA - «La sospensione degli inviti ai ministri negli atenei, annunciata ieri dai rettori italiani non può cedo essere apprezzata, e chiedo, almeno per il rispetto istituzionale reciproco dovuto, che venga revocata». Il ministro dell'Università e della ricerca Fabio Mussi ha accettato le ragioni ma non le forme della protesta decisa dal l'assemblea dei rettori (Crui). Dopo averli richiamati alle loro responsabilità istituzionali, ha affrontato i problemi che sono dietro la rivolta. «La questione sollevata con maggior forza dal mondo universitario, quella relativa al taglio del 20 per cento dei consumi intermedi (cioè affitti, riscaldamento, pulizia, aule, ecc.) - ha detto Mussi -- resta Il governo dovrà trovare il modo di risolverla nel corso del 2007». Contro la decisione dei rettori, che accusano la Finanziaria di togliere ossigeno agli atenei, è intervenuto il viceministro dell'Economia, Vincenzo Visco: «Un'indicazione un po' puerile». t stato il primo a violare il «blocco» per gli esponenti del governo appena decretato dalla Crui: Visco ha partecipato ad un'assemblea sull'evasione fiscale organizzata dall'ateneo di Bologna dove è stato fischiato da un gruppo di studenti vicini ad An. «Se i corpi accademici e i rettori facessero un po' di autocritica sullo stato dell'Università non farebbero male - ha dichiarato il viceministro — Certo le responsabilità sono del governo e dei politici ma se questo Paese fosse un po'meno corporativo non sarebbe male». Intanto la linea dura dei rettori conosce le prime defezioni. L'Università di Verona ha deciso di non allinearsi. Il rettore dell'ateneo scaligero, Alessandro Mazzucco, ha invitato alla prossima inaugurazione dell'anno accademico 2006-2007 il ministro Tommaso Padoa-Schioppa, che ha accettato l'invito, anche per mostrargli da vicino i problemi dell'istituzione. «Condivido le ragioni di fondo della critica espressa dalla Conferenza dei rettori - ha spiegato Mazzucco - ma ritengo controproducenti atteggiamenti di rottura con il governo. Chi deve decidere sull'assegnazione di risorse pubbliche alle università deve prendere personalmente visione di come operano». Anche per il rettore dell'ateneo di Catania, Antonino Recca, il dialogo col governo non deve venir meno per «individuare insieme la strada che assicuri le risorse e gli strumenti necessari agli atenei. _____________________________________________________________ Il Manifesto 15 dic. ’06 NEL CAMPO RECINTATO DELL'ACCADEMIA Michele Nani Le trasformazioni nella divisione internazionale del lavoro hanno assegnato ai vecchi centri industriali un ruolo sempre più legato alla direzione, alla progettazione e all'innovazione. A quel contesto vanno ricollegate le riforme che hanno investito il mondo della scuola e dell'università, in nome del passaggio ad una «economia della conoscenza». Da vent'anni a questa parte i postulati di fondo dell'approccio «riformatore» sono chiari formazione e ricerca pubbliche debbono svolgere una funzione di servizio rispetto allo sviluppo economico e l'impresa dev'essere il modello orgaivz7ativa per aule e laboratori. Come hanno ben intuito i numerosi manifestanti che negli ultimi anni hanno occupato la scena pubblica in difesa dell'università, il primato della (presunta) razionalità e universalità dell'economia veicola in realtà corposi interessi e occulta i conflitti fra i diversi gruppi sociali interessati alla produzione e diffusione del sapere. Ed è attorno alla retorica sulla società della conoscenza che ruota il recente fascicolo delle .actes de la. recherche en sciences sociales, la rivista fondata nel 1975 da Pierre Bourdieu che raccoglie inoltre alcuni studi sulle Économies de la recherche, Come sottolineano i curatori Julien Duval e )ohan Heilbxon, l'esigenza di «riflessività», cioè di conoscenza delle condizioni che rendono possibile l'attività scientifica, si sposa in queste pagine alla consapevolezza che solo l'analisi oggettiva dei campi della produzione culturale può fondare la resistenza agli effetti perversi della mercificazione del sapere. La posta in giaco di queste trasformazioni non è infatti meramente corporativa; ma riguarda;la qualità della conoscenza e la cruciale dialettica fra autonomia ed eteronomia del mondo della ricerca. Criteri meritocratici e virtù della concorrenza sono continuamente invocati per sanare i mali dell'università: più raramente ci si interroga sulla definizione dei criteri di merita. il contributo di Paul Wouters sulle origini della «scientom ci ricorda che uno degli strumenti più diffusi di valutazione della ricerca, l'indice delle citazioni scientifiche (Sci), riposa su una serie di presupposti spesso trascurati. L'indice misura il numero di riferimenti ad un articolo presenti nella letteratura scientifica e dovrebbe tradurre il rilievo della ricerca e del suo autore. Nato negli Stati Uniti degli annî '60, il Sci prese a modello l'indice delle citazioni giuridiche, creato nel 1873 per semplificare l'operato di giudici e avvocati, nel quadro di un diritto fondato sull'autorità delle sentenze precedenti. Applicare quell'esempio al mondo della scienza significava reinterpretare il concetto di «citazione», che nel corso del XIX secolo si era diffuso in tutti gli ambiti di studio in forma di note bibliografiche. Infatti, specie nelle scienze storico-sociali, il significato dei riferimenti alla letteratura specialistica può essere molto diverso, anche all'interno dello stesso articolo, e l'indice finisce col tradurre anche i rapporti di forza accademici e non solo il rilievo scientifico. Autonomia scientifica All'idea della necessaria autonomia del campo scientifico, teorizzata da uno dei padri della sociologia della conoscenza, Robert Merton, si contrappongono oggi le tesi di chi critica la «differenziazione» della ricerca. Questa dovrebbe essere al contrario considerata un'attività produttiva come le altre, permeabile alle sollecitazioni del contesto sociale, anche in fonna di scambi economici. L'ampio studio di Erwall Lamy e Terry Shznn, dedicato ad un campione di ricercatori francesi creatori di imprese parallele ai loro laboratori, rivela che anche nei ricercatori che operano sul mercato resta la coscienza delle frontiere fra le diverse dimensioni della ricerca. Una volta che sia garantita da strutture pubbliche, l'autonomia scientifica sembrerebbe dunque reggere alle tensioni della commercializzazione. Proprio alla ricerca universitaria sono dedicati due importanti contributi. Yves Gingras e Brigitte Gemme analizzano la press) del campo scientifico su quello universitario, un fenomeno che data dall'800. Questo fenomeno spiega perché in tutti i paesi accidentali l'ultimo ciclo della formazione superiore (il dottorato o Ph.D) sia governato dalla logica della ricerca. Tuttavia l'allargamento delle scuole di dottorato in un contesto di restrizione del reclutamento e di precarizzazione della condizione post-dottorale, fa sì che solo una piccola parte dei dottorandi riesca ad entrare stabilmente nei quadri della ticerca pubblica. Si tratta di un vero spreco di risorse intellettuali, che ingenera inoltre nei giovani studiosi una percezione deformata del proprio status e un conseguente senso di frustrazione. Più in generale, è il modello ahumboldtiano» di università, nel quale i docenti sono anche ricercatori e l'insegnamento si basa sulla ricerca, ad essere chiamato in causa dalle recenti trasformazioni. Sylvia Faure e Charles Soulié dedicano il loro intervento agli effetti della «seconda massificazione scolastica» sulle differenziazioni interne della ricerca. Tracciano un quadro attento alle continuità storiche di tre grandi aree della ricerca, le scienze, le scienze sociali e le discipline umanistiche. Per quanto differenziate per reclutamento sociale, peso relativo dell'insegnamento, dotazione di infrastrutture, fonti di finanziamento e pratiche della ricerca, tutte queste aree hanno conosciuto una forte crescita dei compiti amministrativi e pedagogici, a scapito della ricerca vera e propria, un fenomeno denunciato talora come «secondar;zzaTone» dell'università (da noi: liceizzazione). In realtà queste trasformazioni sono l'effetto del mancato adattamento al secondo allargamento dell'accesso alla fon-nazione: oggi sempre più studenti frequentano le nostre università, che hanno però mantenuto dimensioni e organizzazioni adatte alle fasi precedenti. lo generale, crescono le lauree a indirizzo applicato e professionalizzante, più dipendenti dalla domanda economica e sociale e dagli sbocchi locali, ma entrano in crisi i percorsi tradizionali, legati alla ricerca scientifica pura o alle discipline umanistiche. Anche in Italia, gli studenti non sono certo invogliati a darsi alla fisica teorica o alla storia antica, quando il destino, nei migliori dei casi, sembra essere quello della precarietà o della fuga all'estero. Gli ultimi due contributi esaminano il mondo dell'editoria. John B. Thompson si sofferma sul mondo di lingua inglese e sulla crisi delle case editrici, sia quelle dedite alle monografie di ricerca (le University press} che quelle specializzate nella manualistica. Bruno Auerbach sottopone invece a vaglio critico l'idea di un specifica crisi editoriale de1le scienze storico-sociali, ricondotta generalmente all'esaurirsi delle mode intellettuali del dopoguerra e alla disaffezione degli studenti per la lettura. In realtà l'offerta di titoli è in continua crescita, proprio perché è legata all'allargamento del corpo studentesco, come testimoniano i livelli di tiratura complessivi, le vendite e l'ampliamento delle biblioteche universitarie. Le scienze disinteressate È una produzione spesso parcellizzata, che stampa talora poche centinaia di copie per titolo e viene fruita soprattutto da lettori professionisti o da studenti costretti dai programmi (di qui il ricorso al prestito e alle fotocopie), ma non raggiunge il mercato generale dei lettori colti. Dietro il discorso della crisi Auerbach legge acutamente il rimpianto «etnocentrico» degli studiosi per una lettura «disinteressata» ed «esteticv, che collocherebbe le scienze sociali sullo stesso piano della letteratura o delta filosofia, ma riconosce che accettare -la dissociazione fra funzione cognitiva e culturale delle ricerche di sociologia o storia presenta rischi e costi che pochi son disposti ad assumere. Chi potrebbe accettare, infatti, la definizione di «vera scienza» offerta agli inizi dei Novecento dal filosofo Charles Sanders Pierce e qui ripresa, come «studio delle cose inutili»? Eppure, con Emile Durkheim, anche se la «ricerca della verità per la verità» fosse una «aberrazione» o un'«illusione», il fatto che individui .e istituzioni la perseguano resterebbe comunque uri fenomeno da spiegare storicamente e socialmente. La nuova ondata di ingressi studenteschi mette a nudo la crisi e la difficoltà dell'università francese di fronte alle proposte di riforma che la vogliono ricondurre a una logica produttivista. Dunque finanziamenti privilegiati solo per la ricerca applicata, mentre cresce la nostalgia per l'attività cognitiva «disinteressata» e autonoma dai mercato ____________________________________________________________ Il Riformista 4 dic. ’06 VALDITARA(AN):MA GLI ATENEI SIANO VERE COMUNITÀ COLLOQUIO CON GIUSEPPE VALDITARA (AN) Occorre creare dei luoghi che abbiano una forte partecipazione e senso di responsabilità Autonomia e responsabilità questi i cardini concettuali intorno ai quali costruire una nuova immagine del nostro sistema universitario. Giuseppe Valditara, senatore d Alleanza Nazionale e ordinario d Istituzioni di diritto romano all'università di Torino, pensa ad una università efficiente e competitiva, ma che sappia anche rinsaldare le proprie radici culturali. Quelle radici riaffermate recentemente da Bene detto XVI nel discorso tenuto a Ratisbona: «Un discorso che ha da io centralità alla ragione, e l’università è il luogo della ragione per eccellenza, il luogo di quella speculazione che porta a raggiungere la verità delle cose». E inoltre l'università è una «comunità, dove gli studenti dovrebbero poter giudicare la didattica dei docenti, la qualità della ricerca nel suo complesso. Una comunità dove c'è una partecipazione forte, un'autonomia forte, e dove c'è merito e responsabilità Questa è appunto l’universitas». Ripensare l'università significa però scontrarsi con una forte resistenza e con l'interesse, proprio di gran parte dei sistemi pubblici, a lasciare tutto com'è. Il punto è allora rendere tutti consapevoli di un interesse maggiore, insito in un cambiamento della situazione nel senso dell'efficienza e della competitività. «Quale può essere l'interesse di ogni singola università a chiamare i professori migliori, anziché gli amici degli amici o persone che siano espressione di gruppi di potere?», si chiede concretamente il senatore Valditara. La risposta è altrettanto pragmatica: «Il fatto che professori di livello attraggono più studenti, più finanziamenti da parte dello Stato e anche da parte delle imprese, facendo ricerche che possono stimolare brevetti». Lo stesse "interesse" vale per docenti e studenti. «Quale può essere l'interesse dei professori a dare il meglio di se invece che impiegare le proprie energie altrove? Ci deve essere la possibilità di pagarli di più, e quindi di fare contratti individuali all'interno delle università coi professori che più e meglio si impegnano in didattica e ricerca Quale può essere infine l'interesse degli studenti a scegliere le università migliori e non quelle in cui si arriva più velocemente al titolo di studio? Il fatto ! di poter fare scelte consapevoli». Per fare questo «è necessaria la trasparenza nei risultati ottenuti dagli - atenei: penso ad esempio ad una anagrafe che certifichi le pubblicazioni scientifiche, i brevetti, le interazioni con il sistema economico, la rapidità con cui i laureati in quella università si sono inseriti nel mondo del lavoro». In questo insieme di interessi virtuosi dati da un'università più competitiva ci sono anche 1 imprese, «che devono avere non soltanto il supporto, in materia di sviluppo e innovazione, di strutture di eccellenza; non soltanto la possibilità di entrare a far parte pur in quota minoritaria, delle decisioni di fondo che ispirano ciascuna università; ma anche la possibilità di defiscalizzare gli investimenti fatti per sostenere programmi universitari di ricerca». Quindi ci deve essere «un'autonomia forte, con una capacità delle università di intercettare anche fondi dal privato». A tal proposito, per entrare anche nel tema della governance, «sarebbe importante inserire all'interno dei consigli d'amministrazione delle università rappresentanti di quei finanziatori ' privati che fortemente sostengono la ricerca, così come sarebbe opportuno inserire quegli ex studenti che si siano laureati brillantemente e che nella propria carriera professionale siano andati a ricoprire posizioni di grande prestigio e di grande successo professionale». Per rilanciare l'università bisogna poi creare un sistema di finanziamento che permetta una sorta di "competitività solidale" tra gli atenei: a tal proposito Valditara ha presentato un disegno di legge organico (Ddl n.1058), che prevede l'articolazione del sistema di finanziamento in tre fondi: «Un primo fondo, di finanziamento ordinario, che deve essere reimpostato sulla base di criteri meritocratici: le risorse cioè andrebbero distribuite alle singole università innanzitutto sulla base di una valutazione della qualità della ricerca e della qualità della didattica». Come garantire però l'affidabilità delle valutazioni? «Le agenzie di valutazione (che si chiamino Civr o Cnvsu o Anvur è indifferente) sono la premessa fondamentale; poi altri criteri 1 dovrebbero essere la capacità di attrazione di studenti stranieri, la capacità di relazionarsi con il mondo dell'impresa, la capacità di attrarre fondi comunitari. Allora responsabilizziamo subito le università e vincoliamo i trasferimenti sulla base della capacità di quella università di generare efficienza». Oltre a questo, il Dd11058 prevede «un fondo speciale, strategico, destinato a finanziare l'eccellenza e specifici programmi ritenuti particolarmente importanti per lo sviluppo della ricerca nel suo complesso. Infine ci deve essere un fondo per il riequilibrio, improntato però ad una logica diversa rispetto a quella che c'è stata in passato: fino adesso abbiamo dato tanti soldi ad alcune università a prescindere dal 1 raggiungimento di determinati obiettivi di miglioramento delle strutture. Questo fondo dovrebbe specificamente prendere in considerazione quelle università che partono svantaggiate, per carenze di varia natura (strutture e altro), vincolando l'attribuzione dei fondi al raggiungimento degli obiettivi previsti da un piano dettagliato e preciso di potenziamento delle strutture, concordato con il ministero». Chiarito l'aspetto politico del sistema di finanziamenti, l'università deve poi al proprio interno dare piena centralità a docenti e studenti, a quella comunità che costituisce l’anima della vita universitaria. Per quanto riguarda i docenti, Valditara parla di "flessibilità al rialzo", della possibilità cioè, da parte di ogni professore e di ogni ricercatore, «di contrattare con la singola università non soltanto aspetti retributivi, ma anche aspetti legati alla posizione, come la possibilità di usufruire di qualche mese da destinare prevalentemente alla ricerca, piuttosto che avere una certa disponibilità di strutture, come è nel sistema americano e nei sistemi più competitivi. Una maggiore flessibilità che incentivi e favorisca i docenti più bravi, i docenti più impegnati e più motivati». La chiamata dei docenti da par te delle università, inoltre, deve essere libera: «All'interno di una lista di idoneità nazionale (per cui il sistema certifica quelle competenze minime per diventare professore), spetta poi all'università chiamare chi ritiene più idoneo e più opportuno per le proprie esigenze». Per sostenere gli studenti meritevoli, infine, bisognerebbe «avviare un meccanismo in base al quale lo studente possa contrattare con l'università un pagamento differito delle tasse, da pagarsi in rate che possono addirittura pensarsi trentennali, dopo che lo studente abbia ottenuto un lavoro e abbia fatto la sua prima dichiarazione dei redditi. Non si scoraggerebbe uno studente di famiglia modesta, non si graverebbe sulle famiglie, e sarebbe un contribuito che l'università potrebbe in qualche modo farsi anticipare dalle banche». _____________________________________________________________ Il Manifesto 15 dic. ’06 QUELL'ABBRACCIO MORTALE CON I BARONI I lessici politici sono sempre «situati»: parole di rottura radicale in un contesto sono innocui zuccherini in un altro. Negli ultimi anni movimenti e conflitti sociali hanno prodotto, agito e imposto autonomamente il discorso sulla precarietà, determinandone la proliferazione semantica, introducendolo stabilmente nell'agenda politica, facendone un tema dirimente dell'ultima campagna elettorale. Fino ad arrivare a una parte del governo che si fa piazza tentando di rappresentare i precari. Il ciclo della «MayDays> è finito con il corteo del 4 novembre. Dire oggi che la precarietà è un tratto strutturale della società contemporanea, snocciolame i dati e ribadime la sua forma di vita e non solo di lavoro, è certo corretto dal punto di vista analitico, ma politicamente debole. Questo boccone è già stato masticato e deglutito dal sistema politica, l'eccedenza soggettiva - che è questione di qualità, non di quantità - non è stata eliminata, ma sicuramente addomesticata. Il tenore del discorso sulla precarietà si può spezzare sola producendo un nuovo lessico folle. Cominciamo dall'università. Ci vuole poco a essere contro la Moratti, molto di più a mettere radicalmente in discussione lo storico disinvestimento bipartisan nella formazione e nella ricerca. Ma il problema non è solo qualche milione in più o in meno nella finanziaria, bensì la struttura dell'università italiana, di cui anche Mussi è ostaggio. 5i tratta di un'istituzione pachidermica al collasso, in cui precipita un letale mix di potere baronale e riforme aziendalistiche. Il peggio del sistema feudale e del capitalismo postfordista. 155.000 precari affidano le loro speranze di diventare strutturati a un rapporto individualizzato con il barone; attendendo in coda per anni fedeli e ubbidienti. Scambiando quindi la propria libertà di ricerca é intellettuale per un concorso, formalmente pubblico, in realtà «chiamato» (così si dice nel gergo accademico) dall'ordinario. Le linee di classe nelle «fabbriche del sapere» sono dunque confuse: i baroni diventano alleati, l'unico avversario è il governo (di centro-destra). In questa chiave è leggibile la crisi delle mobilitazioni dei ricercatori precari, che hanno individuato nella casta feudale un compagno di lotta, ancorché tattico, anziché il primo avversario da battere. Si è così consegnato alla fondazione privata Cnu il ruolo di rappresentante della cittadella del sapere e custode della sacralità della Cultura. In Italia la retorica dell'università-azienda è usata come dispositivo di gestione e controllo della forca lavoro (studenti e ricercatori): di fatto non la vogliono né la destra né la sinistra, la prima impaurita dalle lobby accademiche, la seconda incarnandone una buona parte. E non la vogliono nemmeno le imprese, che preferiscono un ruolo parassitario su formazione e ricerca. Nella misura in cui i saperi diventano forza produttiva centrale e la funzione intellettuale viene riassorbita dalla cooperazione sociale, perdendo finalmente la sua aura di privilegio, la difesa della torre d'avorio è conservatrice e corporativa Serve una posizione politicamente audace e sobriamente provocatoria: il problema dei precari è aggredire i privilegi presenti nella cittadella del sapere, spingendo fino in Indo, il paradosso dell'università-azienda e trasformandola in un terreno di conflitto. Non in quanto il modello imprenditoriale sia basato sulla (nefasta) meritocrazia: sarebbe come credere alle favole del libero mercato à la Ichino o Giavazzi. Ma perché scardinare il controllo feudale vuol dire per i precari rompere i meccanismi di fidelizzazione, asservimento personale e invidualizzazione gerarchica. avere di fronte il nemico nella sua nuda forma permette di demitificare i rapporti di potere e focalizzare il conflitto. Nell'università italiana, dunque, destrutturare il governo verticale significa non frenare ma accelerare il processo della solo evocata governance, aprendo lo scarto tra govemamentalità e inflazione dei meccanismi di gestione policentrica del potere, e allargando così gli spazi per l'auto rappresentazione del precariato. la rivendicazione dei 55.000 precari di diventare strutturati nell'università, per quanto legittima, da un lato è impercorribile se continua lo storico disinvestimento da parte del sistema politico. E tuttavia non muta i rapporti di potere, rischiando anzi di rafforzarli. La linea del conflitto all'interno delle «fabbriche del sapere» si articola intorno alla lotta tra autonomia e subordinazione nella produzione cognitiva e nella gestione dei tempi di Ata Del resto, chi parla di una taylorizzazione del lavoro formativo e di ricerca coglie l'intento disciplinante delle riforme universitarie, ma dimentica l'aspetto centrale: la sua impossibilità, in quanto la produzione dei saperi sfugge ai criteri della misurazione e della serializzazione. In questo scarto si colloca l'irresolubile contraddizione piantata nel cuore del capitalismo cognitivo, che per alimentarsi dipende strutturalmente dall'eccedenza e dalla libertà del sapere vivo, ma deve continuamente controllarla e quindi negarla. L'applicazione delle rigidità contrattuali fordiste è tanto impraticabile - data la costitutiva intermittenza dell'attività cognitiva - quanto poco desiderata dalle nuove soggettività del lavoro vivo, Il problema è la conquista di tutele (reddito, mobilità, gestione di spazi e tempi), articolate in modo flessibile, per allargare la sfera di autonomia Alcune stenografiche proposte esemplificative: basta con i concorsi, la loro ideologia statalista e il controllo feudale, ma contrattazione diretta tra precari e università-azienda; rivendicazione di cospicui finanziamenti - pubblici e privati - per la mobilità e la costruzione di reti transnazionali tra studenti e precari senza il controllo dei docenti, per la pubblicazione di testi o circolazione di conoscenze fuori dal sistema della proprietà intellettuale, per attività di autoformazione liberamente scelte, interamente auto gestite e riconosciute in crediti formativi, inflazionandone così il meccanismo. P- necessario rovesciare il precariato: da figura di assenza (di diritti e stabilità), bisognoso di rappresentanza, in soggetto costitutivamente presente, dunque autonomo. Facendo della sua apparente debolezza, l'essere ai margini, il suo reale punto di forza, situato sulla frontiera dell'ambivalente spazio dell'università che si fa metropoli. Insomma, il problema non è cicatrizzare la crisi dell'accademia, ma agirla fino in fondo. _____________________________________________________________ Il Riformista 5 dic. ’06 UNIVERSITÀ: QUEI PARAGONI CON L'ESTERO FATTI A USO DEGLI AMICI Nella comparazione tra il sistema italiano e quello britannico i dati sono strumentalizzati per dimostrare una propria tesi preconfezionata Finalmente, le «sacre scritture» più volte citate negli articoli di Giavazzi, Alesina e altri economisti, che dichiarano irrimediabile la condizione dell'università italiana, e suggeriscono al governo di tagliarne i finanziamenti, sono disponibili a tutti. Lo stesso "Profeta", autore delle «sacre scritture», il citatissimo professor Roberto Perotti, ne ha pubblicato una versione aggiornata, avendo a disposizione un'intera pagina del Sole240re del 30 novembre. Si può ora discutere, in qualche dettaglio, una fonte acriticamente invocata come certa e inoppugnabile, dai teologi del Dio Mercato che continuano a dominare le pagine dei grandi quotidiani sui problemi dell'università. Si può finalmente osservare che l'articolo di Perotti è un esempio da manuale di come dati statistici apparentemente obiettivi possano essere messi al servizio di una tesi preconcetta. La tesi di Perotti è che il sistema universitario britannico è molto più efficiente e produttivo di quello italiano, come testimoniato dalla spesa media per studente e dal rapporto studenti/docenti nei due paesi. Che dire innanzitutto di questa tesi? Io penso che ci sia moltissimo da imparare dall'esperienza inglese nelle politiche dell'istruzione superiore, e in particolare dalla loro capacità di adottare politiche coraggiose e di analizzarne gli effetti per correggerne il tiro, anche radicalmente. Tuttavia un confronto diretto tra i sistemi universitari dei due paesi sulla base di dati grossolani non ha proprio senso. In Gran Bretagna il sistema universitario è, per la metà circa, costituito da università, che sono nate come istituzioni parauniversitarie, dove ai docenti non veniva nemmeno chiesto di impegnarsi nella ricerca. In molti casi l'istruzione fornita da queste istituzioni non era di livello molto diverso da quello che era offerto dai nostri migliori istituti tecnici. II grande e interessantissimo esperimento inglese di valutazione della ricerca scientifica che va sotto il nome di Rae (Research assessment exercises) ha avuto principalmente l'effetto di ribadire la distinzione tra università di serie A e università di serie B, dopo che, nel 1992, tutte le istituzioni parauniversitarie erano state formalmente promosse al rango di università. In Italia, questa distinzione è impossibile, come ha testimoniato il nostro esperimento di valutazione della ricerca, che imita quello inglese, e che si è concluso quasi un anno fa. Le nostre valutazioni hanno confermato che ricerca ritenuta «eccellente» si svolge, in ogni arca, in tutte le grandi e medie sedi universitarie. Vediamo invece come il professor Perotti riesce a utilizzare dati molto grossolani per sostenere la sua tesi. Il primo dato è il rapporto tra studenti dei corsi di laurea (esclusi gli studenti laureati) e i docenti di ruolo. I numeri così ottenuti, però, non gli danno ragione. Ci sarebbero 20 studenti per docente in gran Bretagna e 30 in Italia. Giustamente, Perotti osserva che in Italia tra gli studenti vengono contati i fuori corso, che dovrebbero pesare meno in termini di impegno didattico. Introduce quindi il parametro di studente «equivalente a tempo pieno» (etp). Per la Gran Bretagna questo significa contare gli studenti dichiaratamente a tempo parziale in proporzione al loro impegno. In Italia, invece, sono considerati a tempo parziale tutti gli studenti in ritardo con gli studi, in proporzione al ritardo. In pratica, tutti gli studenti italiani sono considerati in diversa misura come studenti a tempo parziale. Il divario tra lunghezza legale e lunghezza effettiva degli studi universitari è uno dei difetti gravi del nostro sistema, che la riforma universitaria si proponeva di correggere, e in parte ha corretto. L'assurdo era, ed è, che proprio per uno studente a tempo pieno risultava impossibile completare il corso di laurea nei tempi ufficialmente previsti. Giustamente il ministero ha introdotto, attraverso il parametro utilizzato da Perotti, una misura di questa stortura, per aiutarne la correzione, ma è una vera forzatura utilizzare questa misura per un confronto internazionale, perché molti degli studenti ritardatari sono invece effettivi studenti a tempo pieno secondo gli standard internazionali. Tuttavia nemmeno questa forzatura dei dati è sufficiente al professor Perotti per raggiungere il suo obiettivo. Anche in termini di studenti etp il rapporto studenti/docenti di ruolo risulta lo stesso nei due paesi: 15 per la Gran Bretagna, 14,9 per l'Italia. È a questo punto che Perotti è costretto, per sostenere la sua tesi, a cambiare i denominatori dei rapporti. Si aggiungono ai docenti permanenti delle università inglesi i docenti che non hanno un contratto a tempo indeterminato, e ai docenti delle università italiane i «docenti a contratto» e altre figure minori, infine ai dati sui docenti inglesi si sottraggono i non meglio determinati «docenti impegnati solo nella ricerca». A questo punto, finalmente, i dati rispondono alle aspettative del professor Perotti, il rapporto studenti/docenti scende a 9,7 per la Gran Bretagna e a 7,5 per l'Italia. Ma chi sono i «docenti a contratto» italiani che Perotti ha introdotto nel denominatore? Nelle università statali (a quelle non statali si applica invece uno speciale codicillo) sono esperti, rigorosamente esterni ai ruoli universitari, che, di regola, non sono titolari di un insegnamento ufficiale, ma sono invitati a presentare aspetti particolari, spesso applicativi, della materia insegnata. Alle loro lezioni, che si riducono a poche ore, assiste, normalmente, anche il titolare dell'insegnamento. Aggiungere queste figure al totale dei docenti universitari italiani non ha senso ai fini comparativi, ma era assolutamente necessario per dimostrare la tesi di Perotti, e cioè che i docenti universitari italiani sono troppi. In realtà il professor Perotti non manca di rilevare (con argomenti sbagliati) che l'inclusione dei docenti a contratto nel totale dei docenti italiani dà luogo a una sovrastima del numero dei docenti, ma si guarda bene dal parlarne quando tratta del rapporto studenti/docenti. Lo nota invece, confidando nella disattenzione del lettore, quando scopre che nonostante l'uso improprio, come vedremo, di un tasso di cambio artificioso, il costo medio di un docente italiano risulterebbe inferiore a quello di un docente inglese. La seconda tesi di Perotti è che in Italia la spesa per studente universitario è superiore (o almeno non troppo diversa) dalla spesa nel Regno Unito. Sembrerebbe naturale a un ignaro lettore di giornali, paragonare le due spese, in euro e in sterline, utilizzando il cambio ufficiale. Perotti, invece, astutamente introduce un'altra unità di misura il cosiddetto «Ppp (Purchasing power parities) dollar» che tiene conto del diverso costo della vita nei due paesi. Paragoni internazionali che utilizzano questa variabile hanno certamente senso se sa vogliono confrontare i livelli di consumo delle famiglie, la distribuzione del reddito disponibile, i livelli di povertà, o i salari netti. Non ha senso invece utilizzare questa variabile per paragonare la spesa sostenuta dalle università per sostenere il servizio didattico. Cosa c'entra il prezzo del pane o del latte, o comunque il "paniere" delle spese prevalenti nelle famiglie, con le spese che deve affrontare una sede universitaria? Per fare un esempio, nel determinare il Ppp dollar non si tiene certamente conto del costo del lavoro a parità di salario netto, che in Italia, in virtù di un maggiore cuneo fiscale è superiore a quello di altri paesi. Eppure il costo del lavoro al lordo delle tasse e contributi è un elemento determinante nelle spese per una attività dabour intensive come è quella didattica. II buffo è che nonostante la forzatura di scegliere le due variabili addomesticate del "Ppp dollar" e dello studente Etp, la spesa media per studente (non laureato) in Gran Bretagna, risulta del 27% superiore a quella italiana. Nel Regno Unito si spendono 4.200 "Ppp dollar" in più per ogni studente Etp. Calcolando le percentuali a scalare, come astutamente fa il professor Perotti, il divario scende al20%. Tanto basta per far proclamare a Perotti che si tratta di un «divario non drammatico». V'è un'altra interessante omissione che deve esse rilevata. Il professor Perotti non può` non ricordare che nel suo scritto originario, che utilizza i dati del 1999 2000, la spesa media per studente italiano, calcolata sempre in termini di studenti Etp e di "Ppp dollari" era molto superiore alla spesa per studente inglese. Dal 2000 al2004 la spesa media per studente Etp (non laureato) in Italia è scesa da 16.854 a 15.400 "Ppp dollar", mentre, calcolata allo stesso modo, in Gran Bretagna è cresciuta da 12.435 a 19.600 "Ppp dollar". Si sono invertite in termini di percentuali le posizioni dell'Italia e della Gran Bretagna. Per chi, come me, non crede a queste stime grossolane, queste variazioni non hanno molto significato. Come è possibile tuttavia che il professor Perotti, che sembra credere a queste stime, non abbia concluso dai suoi stessi dati che l'università italiana è avviata a un luminoso futuro avendo superato il sistema inglese in termini di efficienza? Dobbiamo alla fine chiederci come sia possibile che uno stimato economista si dedichi a simili equilibrismi con dati statistici non sufficientemente disaggregati. Come è possibile che altri stimati studiosi lo citino acriticamente? La risposta, io credo, è nelle passioni suscitate nel professor Perotti e negli altri professori che scrivono sull'università, dal vero problema che sta loro a cuore, che non sono le sorti degli studenti o del Paese, ma piuttosto l'esito dei concorsi a cattedra nelle loro discipline. Per questo dobbiamo esser grati al professor Perotti, che non si è limitato, come molti suoi colleghi, a pochi accenni al problema che gli sta veramente a cuore, ma ha pubblicato nella pagina messagli a , disposizione dal Sole24ore un piccolo saggio sulle beghe concorsuali del suo settore disciplinare. Uno scritto incomprensibile, credo, alla maggioranza dei lettori, me compreso, che testimonia però dove batte il cuore dell'autore. Se il cuore batte sulle beghe concorsuali, sui contrasti tra scuole diverse, sulle «capre» o gli «asini» che vengono promossi, scavalcando i nostri allievi, i nostri amici o noi stessi, non si può guardare con occhio equanime il sistema universitario. Il problema delle promozioni di quarantenni o cinquantenni che già insegnano nelle università è importantissimo per i diretti interessati, le loro famiglie, i loro amici e i loro sostenitori, ma è di scarso rilievo per l'università, la ricerca e gli studenti. Università La Sapienza di Roma _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 7 dic. ’06 UNIVERSITÀ, IL PRIVATO NON È TUTTO di Massimo Marrelli* Dunque non è vero che il sistema universitario italiano è sotto finanziato e meritevole quindi di un po' più di attenzione di quella che gli hanno riservata i decreti sulle spese intermedie del luglio scorso e la Legge finanziaria, in particolare nella sua prima versione. A mettere una volta ancora in guardia dai continui lamenti dei rettori e dalla tentazione di venire almeno in parte loro incontro, tentazione che sembra prendere corpo anche nelle aule del Senato, ci ha pensato, sul Sole-24 Ore del. 3o novembre, Roberto Perotti. Sulla "scientificità" delle sue argomentazioni è però lecito nutrire qualche dubbio. Esse si fondano su un confronto con il sistema universitario britannico, scelto perché pubblico, come il nostro. In realtà i finanziamenti alle Università inglesi derivano in maniera rilevante anche dal privato, mentre in Italia tale apporto è molto ridotto. Ma a Perotti preme fondamentalmente dimostrare che la situazione italiana è molto meno sacrificata di quanto si voglia far credere. Un primo indicatore da lui messo in discussione è il rapporto studenti/docenti: decisamente più alto, e quindi più sfavorevole, in Italia (circa il 50% in più di quello del Regno Unito). Ma il dato non terrebbe conto del fatto che molti studenti in Italia sono fuori corso. Le statistiche in realtà adottano un correttivo, conteggiando gli studenti fuori corso (un fenomeno, ahimè, tutto nostro, almeno in quelle proporzioni) in rapporto agli esami effettivamente sostenuti. E anche Perotti arriva ad ammettere che la spesa per studente nel Regno Unito supererebbe del 20% quella italiana. Un divario "non drammatico", a suo parere: peccato che sia proprio il divario che viene indicato come la quota minima necessaria per ridare ossigeno al sistema. Rispetto a un Fondo di finanziamento ordinario di poco più di 7 miliardi, un incremento di un miliardo e mezzo avrebbe effetti non indifferenti: a condizione beninteso di misurarne bene destinazione e uso. Ma non è su questo che verte il dissenso. Perotti non persuade neppure quando svolge il suo secondo argomento. Non solo i professori italiani non sarebbero pochi, rispetto ai loro colleghi britannici, ma non sarebbero neppure meno pagati. Perotti analizza gli stipendi medi, in entrata e, infine, al massimo della carriera, per le tre fasce di docenza: ricercatori, associati e ordinari. Egli stesso dice che l’esistenza di docenti non di ruolo non rende di facile comparabilità le due situazioni. In ogni caso riconosce che le retribuzioni d'ingresso di tutt'e tre le fasce sono inferiori in Italia; ma sostiene che da noi si progredirebbe moito più veloce, e, adducendo a riprova la retribuzione media: in effetti più elevata per il semplice motivo che l'età media dei ricercatori italiani è molto più alta di quella inglese. In Italia c'è molto meno mobilità verso la fascia più alta e quindi si rimane ricercatori più a lungo. Non sfiora il sospetto che anche questo possa essere dovuto alla mancanza di risorse e quindi al numero esiguo di posti di fascia alta e medio-alta messi a disposizione? Altrettanto può dirsi per le retribuzioni medie degli associati; mentre, per quanto riguarda gli ordinari, Perotti sa bene che, da noi, si va in pensione a 72 anni, in Inghilterra a 65. II problema degli incentivi, all'interno di una struttura retributiva, esiste sicuramente. AL riguardo si possono concepire due forme incentivanti: quelle basate sulla progressione di carriera e quelle basate sulla remunerazione collegata all'efficacia dell'attività scientifica e didattica Se la progressione di carriera fosse strettamente correlata all'efficacia della attività svolta, i due sistemi, qualitativamente, coinciderebbero. Affinché ciò sia vero è necessario, tuttavia, che le promozioni di carriera avvengano, se meritate, in tempi non biblici. Sono quindi essenziali cadenza e qualità dei criteri di selezione (comunque configurati). Un'università privata (preconizzata da Perotti) è in grado di fornire, con contratti di diritto privato, gli incentivi giusti? Il problema consiste nella valutazione dell'attività. Il mercato è in grado di giudicare le attività didattiche e di ricerca meglio di quanto possa farlo un sistema di concorsi pubblici? A questo proposito nutro fortissime perplessità. L'istruzione e la ricerca sono settori nei quali esiste forte asimmetria informativa tra gli utenti (studenti) e i produttori (docenti). Secondo alcuni autori si tratta addirittura di credence goods, beni cioè per i quali è estremamente complesso, se non impossibile, misurare la qualità. In questi casi il mercato fallisce. Non si spiegherebbe altrimenti il successo, in termini di studenti iscritti, di alcune università private della cui bassissima qualità tutti noi docenti siamo convinti. Anche se si trattasse di beni di esperienza, beni, cioè, della cui qualità è possibile sincerarsi solo dopo averli provati per un po', il costo sociale che pagherebbe la collettività (migliaia di laureati che non hanno appreso nulla e che se ne sono accorti troppo tardi) prima che si stabilisca una reputazione in grado di discriminare tra Università sarebbe altissimo. E non si adduca l'argomento che, nella situazione attuale, nel Sud solo il 4% degli studenti universitari provengono dal 20% più povero delle famiglie. E che quindi si usano le imposte dei poveri per pagare gli studi dei figli dei ricchi. Il dato è solo un riflesso di una politica del diritto allo studio del tutto inadeguata e da modificare, disponendo delle risorse indispensabili. Anche nelle Università pubbliche esiste, beninteso, 'e va assolutamente affrontato, un problema di qualità da migliorare o da ristabilire; per questo si pone l'esigenza non più prorogabile di una valutazione seria ed efficace. Mentre non capisco perché Perotti affermi che un sistema di valutazione non sarebbe in grado di correggere le distorsioni italiane (com'è che in Gran Bretagna esso funziona?), sono d'accordo con lui quando dice che la valutazione deve essere resa efficace con quote rilevanti di premialità c/o penalizzazioni. Perotti sa bene che l'Italia è uno dei Paesi che presenta un grado di mobilità intergenerazionale estremamente basso; sa altrettanto bene che tale valore è correlato positivamente con la quota di spesa pubblica in istruzione e con la qualità dell'istruzione stessa. Sa anche che tutti gli studi econometrici indicano invece una correlazione negativa tra il grado di mobilità intergenerazionale e la quota di spesa privata in istruzione. Vogliamo un Paese ancora più immobile dal punto di vista sociale? Perché non spingere invece su un'immediata ed efficace applicazione del sistema di valutazione auspicato dal ministero e dalla Crui? * Ordinario di economia pubblica, Università degli Studi di Napoli Federico II _____________________________________________________________ Il Riformista 5 dic. ’06 LA RICERCA NON SI VALUTA SOLO CON LA CONTA DELLE PUBBLICAZIONI UNIVERSITÀ 2. QUALE STANDARD ADOTTARE PER MISURARE LA QUALITÀ E w MARIA CRISTINA MaRCUZZo Si fa presto - anche se si fa sempre bene - a invocare la valutazione della ricerca come criterio per la distribuzione dei fondi pubblici o in generale per l’upgrade del sistema universitario italiano. Ma se la parola «valutazione» viene issata solo come una bandiera, si rischia di trovarsi senza compagnia. L'esperienza del Civr (Comitato interministeriale per la valutazione della ricerca) o il progetto governativo di un'Agenzia per la valutazione mostrano che esistono diversità di vedute che non possono essere semplicemente liquidate come zizzania da estirpare per far crescere l'erba buona. Lo dimostrano la presentazione di una relazione di minoranza di un autorevole componente del panel 13 (Economia e statistica) del Civr, Luigi Pasinetti, e le recenti dimissioni di Walter Tocci (responsabile Ds dell'area università e ricerca) sull'articolo della finanziaria che riguarda l'Agenzia. Misurare la qualità nel campo complesso e vario dei prodotti della conoscenza pone problemi di scelta di standard diversificati, per ambito e per approccio, disciplinare. Roberto Perotti, sul Sole24ore del 30 novembre, non sembra invece nutrire dubbi che la qualità degli articoli, in economia, si misuri immediatamente e semplicemente dalla graduatoria delle riviste in cui sono pubblicati, e che il numero delle entries in un riconosciuto repertorio di scritti (l’Econlit) sia una buona misura del valore di un ricercatore o della validità di una procedura concorsuale. Ma come viene fatto il ranking delle riviste e quali sono gli articoli che vengono censiti nell'Econlit? Nonostante aggiustamenti e ponderazioni, è stabilito in base all'Impact factor, cioè il numero di volte che una rivista viene citata (paradossalmente anche per dissentire) in riviste censite dall'Intemational citation indeX. Le distorsioni di questo strumento non coinvolgono solo le scienze sociali, ma anche una disciplina non sospetta di «leggerezza» metodologica, la matematica, come ha denunciato Alessandro Figà Talamanca in più di un'occasione. Perché giuristi, storici, filosofi e letterati non nutrono altrettanta fiducia, come alcuni economisti, nella possibilità di giudicare la qualità della ricerca dal luogo di pubblicazione e dalla conta degli articoli in repertori indiscussi? Giustamente fanno notare che verrebbero sottopesati i libri, che costituiscono un genere non proprio marginale della loro produzione. Vuol dire che questi colleghi sono nemici della valutazione? O vuol dire che valutare il lavoro scientifico e di ricerca è un'attività in cui è non è indiscusso quale sia il metro e chi lo debba tenere in mano? E poi come fa a non preoccupare l'idea che il modello culturale di riferimento possa diventare unico, con buona pace del pluralismo e dell'innovazione? Questi rilievi non devono essere interpretati come un'opposizione alla valutazione o all'impiego di metodi quantitativi per effettuarla. Anzi, proprio perché si riconosce che il sapere è per sua natura gerarchico, si vuole certezza che il riconoscimento del merito non sia unilaterale, univoco e contingente. Chi in anni passati avrebbe dato soldi a studiosi che ricercavano la spiegazione del comportamento economico nella psicologia e nelle neuroscienze? Il premio Nobel a Daniel Kahneman ha sancito l'eccellenza di una pista di ricerca che nelle riviste top altrimenti non sarebbe entrata. In altre parole, è sempre bene finanziare in base al successo di oggi, o bisogna incentivare progettualità e scommesse, magari saltando una generazione di studi? Il King's College di Cambridge, tra le prime tre università del mondo, alcuni anni fa finanziava specificatamente temi e argomenti che, non essendo "di moda", non avrebbero trovato fondi adeguati. E' un esempio di assunzione di responsabilità, ben diverso dalla conta degli articoli o la gara tra le pubblicazioni nelle riviste più citate, che viene oggi sbandierato per valutazione. Università La Sapienza di Roma _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 14 dic. ’06 LE PRIORITÀ: MERITO E SELEZIONE di Sebastiano Maffettone Quando si parla di università in Italia, si parte di solito dal presupposto che esista una ricetta in grado di risolvere la crisi, e che sia colpa soltanto delle resistenze se non si riesce ad applicarla. Quanto questa visione sia fuorviante mi è stato confermato da un incontro organizzato a Roma dal Cersdu, un centro di ricerca, da me diretto, dell'Università Luiss "Guido Carli", al quale erano presenti studiosi che hanno dato contributi significativi, come Alessandro Figà Talamananca, Raffaele Sirnone, Marco Santambrogio, Dario Antiseri, Massimo Egidi, Alessandro Ferrara. Molte le proposte interessanti: suddivisione delle università in diversi livelli, come università di studio e di ricerca; abolizione del valore legale del titolo di studio; riforma dell'edilizia universitaria; radicale cambiamento delle norme dei concorsi; riduzione del numero degli atenei; necessità di affidarsi solo parzialmente agli indici accademici internazionali; riqualificazione degli incentivi materiali e culturali e così via. Ma queste proposte non sono state in grado di configurare una soluzione unitaria. Resistendo quindi alla tentazione di lanciare un'ulteriore proposta di sostanza, mi limito qui a formularne una di metodo: prima di adottare qualunque soluzione, dobbiamo informare il pubblico sui meriti relativi delle varie università, attraverso un processo di valutazione comparativa, identificando i soggetti interessati (gli stakeholder) e i criteri di valutazione. Gli stakeholder sono innanzitutto le università- se separiamo l'istituzione in quanto tale dal corpo docente e dagli studenti - é poi tutti gli enti che hanno rapporti con il mondo universitario: il mondo del lavoro, i finanziatori della ricerca, i media, le istituzioni culturali, amministrative e politiche. La valutazione comparativa giova a tutti, perché consente di scegliere a ragion veduta. Per esempio nel caso dei finanziatori potenziali. Più complicato è orientarsi sui criteri di valutazione. Un criterio, per così dire, esterno, consiste nelle cifre dei bilanci. Quali sono i costi e i ricavi di un ateneo? Sempre più, però, i bilanci economici dovranno essere accompagnati dai bilanci sociali, i quali offrono una fotografia delle attività accademiche, in cui costi e ricavi sono commisurati a scopi più ampi di quelli puramente economico-finanziari. Le attività riguardano da un lato i servizi offerti agli studenti e ai professori, le forme di collaborazione con altre università, anche straniere, il sostegno offerto alla ricerca; dall'altro le strutture di supporto, come le aule, le biblioteche e i laboratori, l'amministrazione, il controllo di gestione e così via. A questo punto iniziano le vere difficoltà del processo di valutazione comparativa, cioè i pesi da attribuire ai criteri di valutazione e alla volontà degli stakeholder: È qui che entrano in gioco visioni teoriche diverse e interessi contrastanti. Ai professori interessano le possibilità di fare ricerca, i semestri o gli anni sabbatici pagati, i contatti internazionali, il potere di avere consulenze, e così via. Agli studenti interessa ricevere un buon insegnamento, rafforzato dal prestigio dell'università da cui provengono. Ma, se gli studenti dei primi anni chiedono soprattutto docenti scrupolosi, quelli più avanti negli studi sono maggiormente interessati alle opportunità di ricerca e ai contatti con l'accademia straniera, e quelli in uscita desiderano soprattutto trovare un'occupazione. AL mondo del lavoro interessa assumere studenti preparati e capaci d'innovazione, ma anche sostenere determinati indirizzi, offrendo borse di studio in settori specifici. A tutti però, almeno in teoria, dovrebbe stare a cuore che l'università metta da parte un falso egualitarismo e crei selezione: un mondo in cui le istituzioni accademiche non selezionano è un mondo in cui i rapporti famigliari e clientelari decidono al posto dei meriti. _________________________________________________________ L’Unione Sarda 12 dic. ’06 BIBLIOTECHE LUOGHI IDEALI PER LO SVILUPPO DELL'ISOLA Il Consiglio regionale ha approvato tre mesi fa le norme sui beni culturali, istituti e luoghi della cultura. Fino a quel momento, la Sardegna era l'unica regione italiana priva di una legge organica in materia di biblioteche. Una legge importante dunque, perché colma un vuoto legislativo durato cinquant'anni, prende atto dello sviluppo dei servizi bibliotecari registratosi negli ultimi venticinque e la loro diffusione nel territorio, attribuisce alle biblioteche il ruolo di istituti della democrazia dell'informazione e della conoscenza riconoscendo ad esse una particolare valenza strategica nel contesto dello sviluppo complessivo nella nostra Isola. La legge rappresenta anche un riconoscimento significativo all'impegno profuso da quanti, amministratori e bibliotecari, hanno creduto tenacemente nell'investimento culturale e l'hanno tradotto in servizi, partecipazione e nuove opportunità. Ma di questa legge si è parlato ben poco, perché, negli stessi giorni della sua approvazione, si consumava la rottura tra l'assessore Dessì e il presidente Soru, spostando l'attenzione dell'opinione pubblica sui temi caldi dell'attualità politica. Eppure questa legge, apprezzata da amministratori e operatori che nel loro impegno quotidiano prescindono dall'appartenenza a questo o a quello schieramento politico, merita più di una riflessione, se vogliamo attuarla con intelligenza e passione, e assumerla come punto di partenza per la creazione di un grande sistema bibliotecario regionale che alimenti costantemente la conoscenza e qualifichi i programmi di sviluppo della nostra regione. Basta soffermarsi almeno su alcuni aspetti centrali delle norme approvate: l'affermazione di finalità, principi generali che recepiscono quanto di meglio è stato elaborato dalla scienza biblioteconomia nazionale ed europea e dai manifesti dell'Unesco, nel contesto delle culture del Mediterraneo, della specialità della civiltà e dell'identità del popolo sardo. In secondo luogo, l'attuazione del decentramento di funzioni, competenze e risorse alle Province e ai Comuni, che comporta lo sviluppo della partecipazione e della cooperazione; una forte sottolineatura delle professionalità, pubbliche e private; la previsione di una progressiva integrazione delle grandi biblioteche dell'Università; il concorso degli istituti privati. Altri diranno sul sistema museale regionale. Il primo adempimento è l'istituzione dell'Osservatorio regionale, organismo tecnico scientifico con funzioni consultive e propositive per la stesura del Piano triennale di sviluppo. Sarà un carrozzone di poco conto o un laboratorio di progetti, acceleratore della programmazione e strumento di governo e valutazione dello sviluppo? Molto, ancora una volta, dipenderà dall'intelligenza e dall'impegno dei bibliotecari e degli amministratori locali. Tonino Cugusi Biblioteca "S. Satta" di Nuoro _____________________________________________________________ L’Espresso 14 dic. ’06 II NEPOTISMO DILAGA ANCHE NEGLI USA Che fine ha fatto l’American Dream?. Le opportunità non sono più per tutti. Ma per i figli dei ricchi: programmati fin da piccoli a emergere Quando AIbert Gore III, figlio del candidato presidente alle elezioni del 2000, fece domanda per entrare ad Harvard, non aveva un curriculum entusiasmante. Alla high school aveva preso voti scadenti. E nella prova di accesso all'ateneo bostoniano aveva ottenuto un risultato mediocre. Ma fu ammesso. A quei tempi il padre, lui stesso laureato ad Harvard, era in corsa per la Casa Bianca, così Alhert fu preferito a migliaia di candidati con voti molto migliori. E il figlio di r Gore non è l'unico rampollo dell'America che conta ad avere avuto un trattamento in guanti bianchi nei templi della cultura. William Frist, figlio del congressista Bill, fece domanda per entrare a Princeton nel 2002, quando il padre era leader re pubblicano alla Camera. Nella prova di accesso ebbe " i ", il voto minimo. Migliaia di candidati che avevano avuto il massimo furono esclusi. Lui passò. Negli anni prima il padre aveva fatto donazioni per milioni di dollari a quei l'università. Daniel Golden, premio Pulirzer e giornalista del "Wall Street Journal", ha scritto un libro-inchiesta ("The Price of Admission") per raccontare come gli americani —ricchi e famosi" siano disposti a tutto pur di fare entrare gli eredi, anche quando sono perfetti asini, nelle università più quotate d'America. Essere ammessi a uno degli atenei della Ivy League garantisce da oltre tiri secolo non solo una preparazione culturale solida, ma soprattutto l'accesso a una rete di amicizie e contatti sociali che saranno la base del successo futuro. Golden sostiene che fino al 60 per cento dei posti nelle università della Ivy- league sono sorridenti e un poco ignari, dal sito web della kermesse (conclusasi quest'anno da poco, il G novembre). iGEM è nato nel 2004, manco a dirlo al Mit di Boston, nel zo o5 è divenuto un evento internazionale e quest'anno i gruppi concorrenti --- tutti rigorosamente di ragazzi, convenuti nel jamboree, di fatto una specie di campo per boy scouts- --erano 37, molti americani, qua]curio europeo, e poi canadesi, giapponesi, coreani, e anche messicani, indiani, africani. Com'è possibile tutto questo? Non eravamo assuefatti all'idea che l'ingegneria genetica, ovvero l'insieme di metodi che in quasi trenta anni dì strenuo affinamento tecnico hanno permesso, tra l'altro, la produzione su larga scala di proteine terapeutiche e di piante resistenti agli erbicidi, fosse una pratica di alta sofisticazione, di difficile accesso, lenta, costosa, e dagli esiti incerti? Già agli albori della biotecnologia era chiaro che gli enzimi di restrizione e le ligasi, i bisturi molecolari capaci di tagliare e ricucire il Dna, ci avrebbero permesso non solo di capire i geni ma anche di fare della biologia sintetica, ovvero costruire e saggiare nuovi assetti genici. Questa proiezione si è tradotta tuttavia essenzialmente nella pratica, già notevole, di introdurre un gene nuovo o poco più in un organismo che ne ha migliaia, per indurlo così a comportamenti diversi, talora economicamente vantaggiosi. Poi, a un certo punto, qualcuno, forse un po' frustrato, forse un po' ingenuo, o forse un po' matto, ha cominciato a battere un'altra strada. Ha lasciato l'esperienza trentennale del biotecnologo e la cultura raffinata del biologo molecolare per abbracciare la mentalità pragmatica dell'ingegnere. Drew Endy e Tam Knight del Mit, tra gli altri, hanno prima di tutto pensato la cosa banalissima che se si voleva davvero fare della biologia sintetica bisognava cominciare a farla nel modo in cui si fabbricano le macchine, dacché ne siamo stati capaci. Ovvero, allestendo un set limitato di materiali, di forma e proprietà standardizzate, definendo una serie di regole semplici che descrivono come questi materiali possono essere combinati, e dando il tutto in mano a individui addestrati a realizzare queste combinazioni. È stato allora che alcuni laboratori, all'inizio un p& per gioco, hanno cominciato a produrre i materiali standard, i cosiddetti biobrick, mattoncini del Lego della vita che so no oggetti semplici, tipo elementi dì inizio e fine della produzione di una proteina, oppure strumenti capaci dì operazioni elementari, tipo misurare l’attività dì un gene e invertire un segnale, o, infine, che sono chassis, i telai in cui le costruzioni di biobrick vengono montate. Gli chassis sono gli stessi oggetti complessi del biotech classico, certi ceppi di cellule di batteri, di lievito, o di mammifero, nelle quali però si montano architetture modulari, anche articolate, di biobricle, e non ci si limita a inserire geni estranei per farli esprimere. E solo in seguito è giunta l'idea geniale: se, seguendo approcci standardizzati, si può costruire assemblati di biobrick dotati di finalità, macchinette biologiche, e metterli in chassis cellulari per farli funzionare, non occorre, per farlo, essere bioternologi provetti. Persino adolescenti potrebbero riuscirci; basta seguire le istruzioni, e avere in mente la macchinetta che si vuol realizzare. Quelle fatte finora dai boy scouts del biotech sono batteri che formano un biofilm funzionante come una pellicola fotografica, o che simulano delle reti neuronali, o che si muovano a comando (in un gradiente chimico), o che funzionano da sensori di arsenico, o che producono - quasi - energia elettrica, e molto ancora. Ma altri progetti sono stati realizzati in cellule umane, come quello vincitore di quest’anno, presentato da un gruppo di ragazzi sloveni. I quali hanno ingegnerizzato cellule dell'immunità con un sistema "frenante", composto da 24 nuovi biobrick, che limita l’attivazione da esposizione a batteri, talvolta causa della sepsi mortale nelle infezioni acute. E tutto ciò a costi molto bassi, con expertise improvvisati, nello spazio di un'estate, divertendosi. Non c'è dubbio che il paradigma della biologia sintetica sia stato enunciato, nel modo più. inatteso e, certamente, più elegante. Il Registry of Standard Biological Parts, il deposito dei biobrick, è accessibile sul web, e i biobrick possono essere richiesti e ottenuti facilmente da chiunque. Ma ciò che aggiunge valore a questo open source biotecnologico è il fatto elementare che i biobrick sono tutti semplici sequenze di Dna. 5e si pensa che la sintesi chimica di segmenti lunghi dì Dna ha raddoppiato di capacità ogni anno e mezzo mentre il loro costo si è dimezzato ogni anno negli ultimi tre anni, si capisce la poi tata di questa incipiente rivoluzione. Presto basterà ordinare i biobriclc per poche decine di curo, scaricare i protocolli standard, comprare un po di enzimi e mettersi a fare del bricolage genetica nel garage ripulito, certo di casa. Non si spaventino troppo, i lettori che temono un'orda montante di organismi geneticamente modificati, per di più da incoscienti ragazzini Frankenstein. La presa d'atto dì una crescente capacità ingegneristica sulla vita porterà con sé nuovi ed efficaci strumenti di controllo, assieme a possibilità di applicazione ancora in gran parte non immaginate. Dobbiamo decidere, in Italia, se del fenomeno vogliamo discutere- cosa nella quale siamo molto versati---mentre altri, nei college, o nelle start-up, a al limite nei garage del Massarhusetts ma anche vivaddio della Slovenia, costruiscono la biologia sintetica, e con essa la nuova biotecnologia. Intanto, mentre ne discutiamo, pensiamo a mandare a iGEM 2,007 anche qualcuno dei nostri studenti. Si divertirebbero, quantomeno. DI ALESSANDRO QUATTRONE _____________________________________________________________ Libero 9 dic. ’06 MEMS: BASTERÀ UN GESTO PER UNA DIAGNOSI ESATTA Sistemi elettronici che ci cambiano la vita Possono agevolare l'attività di medici, veterinari e anche degli sportivi ALESSANDRA MORI Videogiochi super tecnologici di ultima generazione, pc dotati di antifurto e air bag, telefonini che effettuano chiamate senza bisogno di schiacciare alcun tasto. Sono solo alcuni degli strumenti più innovativi che stanno facendo il loro ingresso nella nostra vita. Ma che cos'è che li rende capaci di compiere le operazioni più disparate agevolando, sempre più spesso, anche il nostro lavoro? La tecnologia dei Mems, Micro Flectro Mechanical System, ovvero sistemi micro- elettro- meccanìci. Si tratta di microingranaggi quasi invisibili, tanto sono piccoli (le dimensioni variano da 1 millimetro a qualche millesimo di millimetro) e che costano pochissimo: da 1 a 5 euro. Le applicazioni più significative si prevedono nel campo degli "accelerometri", Mems sensibili al movimento che, applicati alla vita di tutti i giorni, sono capaci di misurare i movimenti del nostro corpo, interpretarli, e quindi comunicarli a una determinata macchina. Pensiamo ai videogiochi, come la nuova consolle Wii di Nintendo. «Per giocare una partita a tennis basta mettersi davanti al monitor o alla tivù con in mano una sorta di minitelecomando e muoverlo simulando un servizio o un rovescio - spiega Luca Fontanella, responsabile marketing gruppo Mems della STMicroelectronics - In pratica il movimento viene utilizzato per comunicare». Lo stesso avviene con il telefonino Mp3 player, che si comanda con semplici movimenti delle dita: uno frontale per interrompere e far riprendere la musica, uno a destra o a sinistra per passare al brano precedente o successivo. In Corea, addirittura, c'è un te lefonino che consente di comporre un numero in rubrica associandolo a un movimento. «Posso associare il disegno di un cuore nell'aria a mia moglie, e memorizzarlo, così ogni volta che disegnerò il cuore automaticamente il telefonino chiamerà mia moglie», continua Fontanella. I Mems sono inoltre preziosi per proteggere i pc portatili da cadute e furti. Nel primo caso, un Mems interno al pc "parcheggia" la testina di lettura del disco rigido in una zona in cui non subisce danni, preservando così i dati dell'utente. In pratica é come se l'hard disk fosse dotato di air bag. In caso di furto, invece, il salvaschermo con accelerometro riconosce il movimento estraneo e lo segnala, ad esempio attraverso un altoparlante interno allo stesso pc. Esistono poi accelerometri capaci di riconoscere stati anomali del nostro corpo (es. caffeina, adrenalina, che modificano il modo in cui il corpo si muove). Nel campo della zootecnia viene usata questa tecnica per capire quando le mucche sono in calore: in questo caso infatti hanno una quantità di ormoni nel sangue molto elevata per cui l'allevatore, sapendolo, accorcia il periodo non fertile dell'animale. Non è tutto. Gli accelerometri potrebbero anche essere indossati, aprendo la strada a nuove applicazioni. È il caso degli sport caratterizzati da movimenti ripetitivi come pattinaggio e ginnastica. «Con un accelerometro indossato gli atleti - dice Fontanella - possono confrontare i loro movimenti con quelli del maestro o con quelli codificati dai giudici e verificare dove servono miglioramenti, senza l'uso delle videocamere». E ancora. I Mems potrebbero essere molto utili ai vigili del fuoco, che comunicano tra loro con radio Tetra. «Queste radio potrebbero essere dotate di accelerometro: così se un pompiere entra in un edificio in fiamme, il caposquadra, da fuori, può seguire su un monitor i suoi movimenti, controllare se porta una persona o se cade. E quindi inviare i soccorsi». Un'applicazione valida anche per il controllo degli anziani in casa da soli: in caso di cadute un accelerometro collocato in un telefonino o in una collana potrebbe inviare una richiesta di aiuto. _________________________________________________________ Le Scienze 6 dic. ’06 OSSITOCINA E AUTISMO La sperimentazione ha avuto buoni risultati anche nel migliorare la capacità di dare un significato emotivo al linguaggio La notizia è stata data all’annuale convegno dell’American College of Neuropsychopharmacology: opportune dosi di ossitocina, quando somministrate per via intranasale o endovenosa, possono avere significativi effetti su pazienti autistici adulti. "Gli studi effettuati sugli animali hanno mostrato che l’ossitocina svolge un ruolo importante in molti comportamenti, tra cui le relazioni a due tra genitore-adulto e adulto-adulto, la memoria sociale, la cognizione sociale, la riduzione dell’ansia e i comportamenti ripetitivi”, ha spiegato Jennifer Bartz, ricercatrice della Mount Sinai School of Medicine. Solo recentemente tuttavia è stata considerata la possibilità di somministrazione di questa sostanza, in particolare a soggetti autistici. Questi ultimi, infatti, sembrano mostrare sintomi connessi proprio con il sistema dell’ossitocina. Nel corso dello studio una coorte di soggetti affetti dal morbo di Asperger ha ricevuto dosi di pitocina (ossitocina sintetica) o un placebo (una soluzione salina) per un periodo di quattro ore. Nel corso di tale lasso di tempo i partecipanti sono stati monitorati con particolare interesse per verificare le eventuali variazioni dei comportamenti ripetitivi, tipici della patologia, tra cui il domandare/chiedere e il toccare. Sono stati così registrati cambiamenti clinici statisticamente significativi, con una rapida riduzione dei comportamenti ripetitivi nel corso della somministrazione, mentre non si è riscontato alcun effetto nel gruppo placebo, il che suggerisce un effettivo impatto sui sintomi. I ricercatori hanno poi indagato gli effetti dell’ossitocina sulla cognizione sociale. I pazienti autistici sono spesso incapaci di percepire o leggere gli stati emotivi degli altri mediante espressioni facciali e vocali, con il risultato di una riduzione nella capacità di interazione col prossimo. Anche in questo caso si sono avuti risultati interessanti: dai test è emerso come i soggetti riuscissero a migliorare la capacità di dare un significato emotivo al linguaggio.