VALUTAZIONI DEL CIVR: BRUTTI VOTI PER SASSARI E CAGLIARI - CIVR:PERCHÉ SI PROTEGGONO. LE UNIVERSITÀ PEGGIORI - MUSSI: ATENEI IN ARRIVO DM SULLA DIDATTICA - MUSSI IL MINISTRO: BASTA PRECARI A VITA - STAGISTI: ANNI DI LEZIONI PER NULLA - SE I DOCENTI UNIVERSITARI FINISCONO SOTTO ESAME - VALUTATECI PURE MA NON SIA UNA ROULETTE RUSSA - AMERICANI AMANO L’ITALIA, NON L’UNIVERSITÀ - IL LAVORO SI ALLONTANA DALLA LAUREA - I SIGNORI DELLE MALATTIE - NON È LA SCIENZA CHE CI MINACCIA - BIOTECH, COSÌ SI UCCIDE LA RICERCA - LA PROPRIETÀ INTELLETTUALE UN NEMICO DA CANCELLARE - COME APRIRE LE PORTE AL SISTEMA DELLA RICERCA - QUANTO PRODUCE IL CNR? - AI CONFINI DELL’«IMBROGLIONICA» - ITALIA VITTIMA DELLA BUROCRAZIA - I DODICI CORSI UNIVERSITARI PIÙ RIDICOLMENTE PROGRESSISTI D'AMERICA - KEPLERO ERA UN LADRO E DERUBÒ IL MAESTRO - CURRICULUM ONLINE VERSIONE EURO - BREVETTO SARDO MIGLIORA L’ESTRAZIONE DA RIFIUTI INFORMATICI - ================================================= IL TRIBUNALE: PAGATE GLI SPECIALIZZANDI, COSTERÀ UN MILIARDO - LE CARENZE DELLE SCUOLE DI SPECIALIZZAZIONE - MARKETING SANITARIO LE RELAZIONI CON IL PUBBLICO - L’AUTHORITY DETTA LE REGOLE PER GLI SCIENZIATI - LUNGODEGENZE, ARRIVA LA STANGATA - SANITÀ, LA MAXI-SANZIONE DEL GOVERNO ALLA SARDEGNA - SANITA’:SPESE ENORMI, RISULTATI INSUFFICIENTI" - IN SARDEGNA TROPPI MEDICI MA POCHISSIMI INFERMIERI - L'ISOLA NON GODE DI BUONA SALUTE - SINDACATI, MAULLU AI VERTICI - SANITÀ, PUBBLICO E PRIVATO - LA STRAGE SILENZIOSA DELL’URANIO IMPOVERITO - DAL DENTISTA SENZA TRAPANO NÉ ANESTESIA - OCCHI SALVI SENZA TRAPIANTO - DIAGNOSTICA PER IMMAGINI: RISCHI E POTENZIALITÀ - SI AVVICINA LA CURA PERLA SLA - L’ARTRITE VA AGGREDITA SUBITO - POLMONE: LA TAC NON ALLUNGA LA VITA - POLMONI: I LIMITI DELLA DIAGNOSI PRECOCE - UN NUOVO MEZZO DI CONTRASTO: IL LATTE - UNA SPERANZA DALLA SCIENZA PER LA SINDROME DI CRISPONI - ================================================= _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 3 mar. ’07 VALUTAZIONI DEL CIVR: BRUTTI VOTI PER SASSARI E CAGLIARI In affanno le università sarde Brutti voti per Sassari e Cagliari di Pier Giorgio Pinna SASSARI. Gli esami non finiscono mai neppure per le università. E spesso vanno male. Ne sanno qualcosa Sassari e Cagliari. Strizzati come limoni dal Centro nazionale per la valutazione scientifica, spesso i due atenei demeritano: fossero studenti, non avrebbero raggiunto neanche un modesto «18». Davvero un guaio. Con gravi lacune nei processi di mobilità internazionale dei docenti. Buchi nei programmi. Voragini nelle capacità di attrarre investimenti. E con punti di debolezza nel varo di brevetti, nelle chance di collaborazione con le imprese, nei servizi socio-economici. Rientrano invece nella media italiana gli standard sulle risorse umane e finanziarie. E fra numerose ombre, naturalmente, c'è qualche luce. Il giudizio finale del Civr si è infatti concluso con la messa a fuoco di qualche obiettivo più che ragguardevole. In particolare nelle aree di eccellenza, quelle stesse che da tempo puntano su un salto di qualità definitivo e costruiscono ponti solidi con il mondo scientifico europeo e nordamericano. L’ultimo rapporto del Centro valutazioni è stato reso noto qualche giorno fa. È consultabile sul sito internet www.civr.it alla voce «news». Così come il «Primo esercizio di valutazione triennale», si riferisce al periodo 2001-2003. Con una differenza subito evidente rispetto al passato. I dati di quel primo dossier, già diffusi all’inizio del 2006, riguardavano la qualità della produzione scientifica di tutti gli atenei italiani. In quel contesto le due università dell’isola, tutto sommato, si erano difese bene. Anzi, in qualche circostanza, soprattutto a Sassari, avevano toccato vette ottimali. Come nel caso di scienze economiche, addirittura in testa alla graduatoria nazionale. Statistiche, risultati e parametri resi pubblici in questi giorni interessano invece campi diversi e, in qualche misura, più estesi. Centrati, appunto, sugli standard d'internalizzazione della ricerca, sul confronto con il mercato, sugli investimenti finalizzati all’acquisto di strumenti all’avanguardia. Dunque, un quadro di maggiore ampiezza. Commenti e notizie, a Sassari come a Cagliari, stanno cominciando a circolare in queste ultime ore. Molti docenti e ricercatori non sono infatti venuti ancora a conoscenza degli sviluppi. Chi invece ha già preso visione del rapporto mette in luce alcuni aspetti che in qualche misura sembrano mitigare un tantino giudizi così poco lusinghieri da parte degli esaminatori, soprattutto rispetto ad altre università di piccole e medie dimensioni. Primo: i dati sono sì gli ultimi disponibili ma si riferiscono comunque a qualche anno fa, nel frattempo si è quindi molto lavorato per superare il gap nei riguardi di città universitarie della penisola. Secondo: dato che è la prima volta nel Belpaese che si vigila su queste attività, in diversi casi il sistema di trasmissione dei dati non è stato all’altezza dei parametri richiesti, con conseguenti omissioni e carenze. Terzo: trovandosi sempre per la prima volta ad affrontare quest'esperienza, anche i custodi dei custodi, al Civr, ammettono a volte l’assenza di criteri adeguati per le valutazioni. Specialmente di fronte a realtà disomogenee, e di frequente uniche, come quelle che l’isola presenta nel quadro nazionale. Intanto il Centro nazionale ha già cessato di vivere con questo nome. Si è trasformato in un'agenzia stabile dalle caratteristiche sostanzialmente affini. Nell’isola comunque nessuno si vuole nascondere dietro un dito. Che l’affresco dipinto dal Civr susciti allarme in Sardegna appare evidente. Anzi, la delusione di alcuni presidi di facoltà è palese. Così come non è un mistero il diffondersi di altri timori. Le valutazioni del Centro, in passato, hanno inciso sui fondi ministeriali potenziandoli. E sebbene non si sappia quanto e se questi nuovi giudizi influiranno sui finanziamenti perché il governo non ha ancora deciso, un fatto è ormai assodato: la competitività, mai come di questi tempi, è diventata un faro per orientarsi. Guai allora a restare indietro con gli esami: i «libretti» delle due università, e non più quelli degli studenti, rischierebbero di rimpiersi di altri pericolosi spazi bianchi. Dopo i giudizi sulla qualità della ricerca gli esiti dei nuon test riguardano brevetti, ruoli internazionali, partnership esk2,m In qualche caso l’attività scientifica sia a Sassari sia a Cagliari ha raggiunto traguardi considerevoli. Buoni i giudizi soprattutto nelle aree di Agraria, Veterinaria e nelle partnership con laboratori e società private biofarmaceutiche europee e nordamericane ALTRI INDICATORI Risultati positivi solo qualche mese fa. Sulla sola produzione scientifica giudizi favorevoli per l’università di Sassari erano stati espressi pochi mesi fa nel «Primo esercizio nazionale di valutazione triennale della ricerca». In quell’occasione, ottimi voti per le scienze economiche e statistiche, l’area delle discipline biologiche e fisiche, l’antichità, i settori filologico-letterari e storico-artistico. Nelle 11 facoltà sassaresi su 167 prodotti presentati il 19,16% era stato ritenuto eccellente. Il 49,10% buono. Il 27,54% accettabile. Il 4,19% limitato. Una lettura che teneva conto di due diversi osservatori indipendenti. Obiettivo: pesare la qualità. Meno incoraggiante, in certi campi, il giudizio dato in quell’occasione dal Civr, nello stesso 2001-2003, per l’ateneo di Cagliari. L’università del capoluogo di regione aveva suscitato consensi su nanotecnologie, alimentazione, ingegneria industriale. Era invece risultata carente - rispetto alle medie italiane - in scienze politiche, fisica, chimica, storia e filosofia. (pgp) _____________________________________________________ Il Sole24Ore 11 mar. ’07 CIVR:PERCHÉ SI PROTEGGONO. LE UNIVERSITÀ PEGGIORI di Roberto Perotti e Guido Tabellini Circa un anno fa il Civr (Comitato di indirizzo per là valutazione della ricerca), ha presentato i risultati della valutazione delle università italiane. A cosa è servita questa valutazione? Per ora a nulla, se non a perdere tempo in adempimenti burocratici. E probabilmente sarà così anche in futuro. La valutazione fu avviata nel giugno aoo4 dall’allora ministro Letizia Moratti, per fornire «uno strumento utile per la programmazione e l’attribuzione delle risorse necessarie». Ma l’attuale ministro Fabio Mussi pare intenzionato a fermare tutto. La ripartizione dei finanziamenti statali alle università non sarà toccata dall’esito della valutazione. Invece si ricomincia da zero, con una nuova agenzia per la valutazione e una nuova sigla (Anvur, Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca). Perché questo immobilismo? La ragione è che non si vogliono ridurre i finanziamenti alle università peggiori. Secondò la visione del ministero, la valutazione può essere usata solo per ripartire risorse aggiuntive; i cosiddetti «fondi premiali»; í finanziamenti statali ordinari non possono essere toccati, altrimenti le università peggiori non potrebbero funzionare, Poiché oggi non ci sono risorse aggiuntive, nonostante un aumento della pressione fiscale di 1,7 punti del Pil, per ora i risultati della valutazione sono accantonati, in attesa di tempi migliori. Questa posizione è doppiamente ,erronea. Primo, perché bisogna costringere i peggiori a cambiare. A cosa serve la valutazione se i fondi già oggi disponibili sono assicurati indipendentemente da come sono utilizzati? Secondo, perché non è vero che ridurre i finanziamenti impedirebbe il funzionamento. Basterebbe consentire di alzare le tasse di iscrizione, istituendo un sistema efficace di borse di studio. Se gli studenti reagissero iscrivendosi alle università migliori, che hanno ricevuto più finanziamenti e non sono costrette ad alzare le tasse, la valutazione avrebbe raggiunto uno degli obiettivi, di indirizzare risorse e studenti nelle strutture più efficienti. Il vero problema è invece l’opposto di quello paventato dà Mussi. Tl rischio non è di condannare le università inefficienti, quanto di usare uno strumento spuntato. In alcune discipline infatti la valutazione del Civr è stata troppo poco selettiva. Abbiamo confrontato la distribuzione delle valutazioni del Civr con l’analogo esercizio del Research Assessment Exercise inglese del 2001, adattando la scala di valutazione italiana a quella inglese. In media nelle 16 aree disciplinari che abbiamo confrontato (la quasi totalità), i143% delle università inglesi ha ricevuto i due voti massimi, in una scala da uno a sette; in Italia, questa percentuale sale al 59%. In quattro aree disciplinari più dell’8o°ra delle università italiane ha ricevuto uno dei due voti massimi; in scienze dell’antichità, questa percentuale sale al 98 per cento! Per cominciare a usare i risultati di questa prima valutazione (in attesa di cor= reggere il problema nella prossima tornata) bisognerà dunque tener conto anche dell’ordine in graduatoria, e non solo del valore assoluto della valutazione; e magari sarà necessario scontare le aree che sono state valutate in modo poco credibile, come scienze dell’antichità. Il ministero non sembra nemmeno consapevole di questo problema, anzi. La nuova Agenzia ha ricevuto il mandato di valutare tutto: non solo la ricerca, ma anche la didattica, i corsi di studio, le strutture, le attività di sostegno al territorio, e così via. Ma valutare tutto e valutare nulla è quasi la stessa cosa, soprattutto se già vi è una tendenza innata ad annacquare le differenze per timore di creare disuguaglianze. L’ultima cosa di cui ha bisogno l’università italiana è un altro strato di burocrazia accompagnato da un nuovo bagno di retorica. Se il ministero vuole fare sul serio, cominci a usare i risultati del Civr - pur imperfetti - già disponibili. Se non si ha il coraggio di usare la valutazione per premiare seriamente gli atenei più virtuosi e per punire i più inefficienti (e in qualche caso corrotti), allora è meglio non fare nulla. _____________________________________________________ ItaliaOggi 7 mar. ’07 MUSSI: ATENEI IN ARRIVO DM SULLA DIDATTICA Lo ha annunciato il inilustro dell’università Mussi Atenei in arrivo dm sulla didattica DI GIOVANNi GALLI Novità in arrivo per gli atenei. Ad annunciare «una lenzuolata di provvedimenti» per la settimana prossima è stato il ministro dell’università Fabio Mussi. Parlando a Padova, Mussi ha spiegato che domani firmerà il decreto sulla riorganizzazione dell’offerta didattica. .Non si potrà, ha spiegato il ministro, «aprire un corso se non ci sarà almeno la metà del personale strutturato». In pratica non si potranno fare più di 20 esami per un triennio e 12 per il biennio successivo, Nel mirino del ministro anche le università a distanza, sottoposte a un'attenta verifica qualitativa. «Ce ne sono 12 riconosciute in Italia e 5 in procinto di essere riconosciute: ho strappato tutto, ho fermato». Via anche, ha spiegato ancora Mussi, ai crediti formativi ai dipendenti degli enti pubblici. «Ho fermato tutto perché era una specie di suk ma non di libero mercato: si sta fermi per un po', si qualifica quello che abbiamo e poi se ne riparla», ha spiegato il ministro che ha dichiarato guerra alle lauree facili. Intanto si stringono i tempi per il licenziamento del ddl sul riordino degli enti di ricerca da parte della commissione istruzione del senato, che sta vagliando il testo governativo. Entro giovedì sera, infatti, andranno presentati gli emendamenti da parte di maggioranza e opposizione. II ministro Massi punta a approvare la legge entro la primavera. Ma ci si è messa di mezzo la crisi di governo che ha imposto uno stop alla discussione del ddl in commissione. E la presentazione degli emendamenti è slittata. In 10-15 giorni la partita in commissione potrebbe essere chiusa. «Ci sono tutte le possibilità», ha spiegato Andrea Ranieri, senatore diessino e relatore del ddl, «che si arrivi ad un accordo condiviso sul testo tra maggioranza e opposizione». (riproduzione riservata) _____________________________________________________ Il Sole24Ore 4 mar. ’07 MUSSI IL MINISTRO: «BASTA PRECARI A VITA» Emilio Bonicelli BOLOGNA «Dobbiamo porre rimedio ad alcune particolarità del nostro mercato del lavoro», attraverso un confronto che deve avvenire «molto, molto rapidamente». È Romano Prodi a sottolineare l’urgenza della svolta. Il premier, rientrato a Bologna dopo la riottenuta fiducia, partecipa al convegno «Dall’università al lavoro in Italia e in Europa» in cui ALmaLaurea presenta la 9° Indagine sulla condizione occupazionale dei laureati. Uno studio da cui emergono indicatori circa un calo degli occupati a un anno dal titolo di studio insieme a minori retribuzioni e più alta precarietà. «Alcuni dati mi hanno veramente turbato», incalza Prodi. «Vedo un problema enorme di mancanza di incontro fra domanda di occupazione e tipo di offerta». L’analisi tuttavia «ci aiuta a prendere decisioni serie e più basate sui fatti». AL premier risponde subito il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, che, dal convegno di Bologna, ricorda come la prima anomalia da affrontare nel mercato del lavoro sia quella degli ammortizzatori sociali, per «adeguare il sistema italiano a quello europeo». «Abbiamo ammortizzatori di vecchia generazione, nati negli anni '60, che guardano alla grande impresa e tutelano chi ha già un'occupazione stabile. In questo modo restano scoperte le imprese al di sotto dei 15 dipendenti e il lavoro discontinuo». Damiano vuole invece introdurre «ammortizzatori che diano una tutela universale e che guardino, in questo modo, in particolare ai giovani». Fatto questo primo passo, il Governo intende affrontare anche la questione della legge Biagi. «Non vogliamo abrogare la legge 30. Vogliamo cambiarla. Ad esempio cancellando le forme più precarizzanti, come il lavoro a chiamata. C'è poi il tempo determinato e qui non possiamo consentire una ripetizione all’infinito nell’uso del lavoro a termine», precisa il ministro. Che poi aggiunge: «Non sono mai stato contro la buona flessibilità, cioè quella necessaria alle imprese per cogliere le opportunità di mercato». C'è invece una «battaglia» da condurre contro fuso della precarietà come modo per pagare meno i dipendenti e poterli lasciare a casa a piacimento. L’arma per vincere questa battaglia è quella di «far costare meno di prima il lavoro stabile e far costare più di prima il lavoro precario». Con un sogno: «Vorrei conclude Damiano - un lavoro stabile che costi una lira in meno del lavoro flessibile». Anche per il ministro dell’Università, Fabio Mussi, il problema è urgente e «al Paese serve una scossa, altrimenti l’Italia non si riprenderà mai stabilmente». Per questo Mussi chiede più investimenti per l’innovazione; annuncia una «rapida e severa manutenzione della riforma del '99»; lamenta l’eccessivo precariato nella Pubblica amministrazione e lo scarso numero di laureati tra i dipendenti delle imprese. ______________________________________________ L'Unione Sarda 5 Mar. 2007 STAGISTI: ANNI DI LEZIONI PER NULLA Disoccupati a spasso L'ultima denuncia degli stagisti inutili Due anni di lezioni più trecento ore di stage in aeroporto con la speranza, vana, di venire inseriti direttamente nel mondo del lavoro. Ma non è andata così per i venti partecipanti al corso di formazione professionale avviato nel 2003 dalla Regione, in collaborazione con il liceo classico Manno, la Sogeaal, l'Enaip e l'Università. Tutti, dopo aver ricevuto l'attestato per una qualifica non ancora riconosciuta, hanno continuato a timbrare il cartellino all'ufficio di collocamento. «L'obiettivo del corso, costato 184mila euro - spiegano due partecipanti - era quello di formare personale altamente qualificato nelle attività dei trasporti con specializzazione aeroportuali». Si sono iscritti venti giovani disoccupati, per lo più algheresi, «seriamente motivati dalla pubblicità da parte dei politici locali, sulle potenzialità dell'aeroporto - racconta Claudia, 28 anni - ma soprattutto dall'interesse manifestato dalla Sogeaal, nella persona del direttore Borlotti, alla figura professionale formata». Grande entusiasmo, insomma, unito all'aspettativa, per alcuni, di venire assunti nel terminal di Fertilia, in virtù dell'attestato rilasciato dalla Regione con la qualifica di Tecnico superiore dei trasporti delle intermodalità e delle infrastrutture logistiche. «Ma gli uffici per il lavoro non sanno nemmeno di cosa si tratta», svela Carlo, 40 anni. Molti hanno provato a presentare il curriculum in aeroporto: «ma nessuno è stato mai contattato, nemmeno per un rifiuto - aggiunge il corsista - nel frattempo però la società di gestione ha fatto nuove assunzioni di persone che non hanno qualifiche specifiche». Chi ha frequentato il corso regionale, insomma, si è trovato con un pugno di mosche in mano e si domanda che bisogno c'era di spendere una caterva di danaro pubblico per avviare 20 giovani a una professione che, nel migliore dei casi, non é richiesta dal mercato. Ma la Sogeaal, partner del progetto, difende la bontà dell'iniziativa spiegando come la figura del tecnico di sistema intermodale sia strategica «soprattutto nelle pubbliche amministrazioni - dice il direttore Umberto Borlotti - oggi nessuno ha una cognizione globale del sistema dei trasporti, e bene farebbero i Comuni e le Province a dotarsi di professionisti del settore, in grado di mettere in rete porti, aeroporti e ferrovie». Nessuna chance in aeroporto, dunque? «Se dovessi costruire un nuovo terminal mi servirebbe di certo un tecnico dei trasporti - conclude il direttore della Sogeaal - lo stage da noi è servito perché i corsisti prendessero visione delle problematiche, delle norme e dei vincoli che regolamentano un'aerostazione. Ma la collocazione la devono trovare nelle pubbliche amministrazioni». (c. f.) ______________________________________________ Repubblica 9 Mar. 2007 SE I DOCENTI UNIVERSITARI FINISCONO SOTTO ESAME VITTORIO SGARAMELLA CARO direttore, in Italia da sempre urge la riforma di università e ricerca: oggetto specifico di un dibattito un po' stantio è un nuovo ente, l'Agenzia nazionale per la valutazione dell'università e della ricerca (Anvur). La necessità aguzza l'ingegno, ripeteva mia madre. Aguzziamolo e capiamo meglio che cosa vogliamo e come ci arriviamo. Dalle discussioni in atto e dai documenti che girano emergono richieste diverse: così in un "Appello per il rinnovamento dell'università" alcuni colleghi sanciscono che "non ci può essere autonomia senza risorse, né risorse senza responsabilità, né responsabilità senza valutazione". Ben detto: auspico solo che l'autonomia sia vista come un mezzo, non come il fine di un impegno teso a migliorare la vita di tutti; e che a una corretta valutazione segua una puntuale attuazione. Altri chiedono al Ministro interventi contro un "sistema che permette di addomesticare le valutazioni". Dio sa, e così anche il Ministro, che è pur troppo vero. Una commissione dell'Accademia dei Lincei invoca "criteri che non siano mai punitivi, ma solo premiali nei confronti delle università meritevoli". Prendiamolo come buon auspicio. Siamo in tanti a aspettare un migliore sistema di valutazione nei confronti non solo dell'università, ma della docenza in generale. Questo perché, mentre la tradizionale universitas studiorum (che, dopo la Chiesa, è l'istituzione più longeva della nostra civiltà) sta faticosamente cercando di ammodernarsi, i grandi istituti di ricerca, specie nelle scienze, si stanno affermando come nuovi centri di formazione superiore. Tra i migliori la Rockefeller University di New York: il suo motto è "Pro Bono Humani Generis" e nel '44 Oswald Avery vi scoprì il Dna. Ora ospita felicemente poche centinaia di studenti e altrettanti professori, tra cui molti Nobel. Non da meno sono gli Istituti Max Planck in Germania. Nelle bioscienze emergono il Cold Spring Harbor Laboratory di New York, l'European Molecular Biology Laboratory di Heidelberg, il Molecular Pathology Institute di Vienna. Molti sorgono nei paesi orientali. E noi? In questo senso facciamo poco, meno di quel che dobbiamo e possiamo. Il discusso Istituto italiano di tecnologia di Genova è un progetto calato dall'alto e va seguito con attenzione. Certo un sistema di valutazione non autoreferenziale potrebbe darci una mano a individuare e sostenere i nostri pochi settori di reale eccellenza. Ciò sarebbe possibile in quanto la valutazione ex ante di chi si candida a insegnare e ricercare nelle scienze è più semplice che in altre discipline: i titoli da contare e pesare sono le pubblicazioni apparse su riviste internazionali in inglese, lingua franca delle scienze. Della più impegnativa valutazione consuntiva (ex post) non tratteremo qui, se non per dire che se l'ex ante è stata buona, l'ex post sarà agevolata: ma è fondamentale che parta dal basso e dalla periferia. Su questi problemi si sono già cimentati in tanti (Cnvsu, Civr...): ora spunta l'Anvur. Circolano linee-guida per il suo regolamento, che prevede un apparato di tutto rispetto: un organico stabile con direttore e consiglio direttivo di sette membri a tempo pieno, un presidente, consulenti ecc. E almeno cinque anni di durata e cinque milioni di euro l'anno di spesa. Un impegno, anche di competenze scientifiche, che rischia di indebolire un sistema già gracile. E se l'obiettivo è trovare valutatori esperti, indipendenti e efficaci, la missione è (quasi) impossibile. Troppo pochi soldi? No, troppo pochi gli esperti realmente tali! Il loro numero in Italia è così ridotto che quelli efficienti in un dato settore non possono essere indipendenti: con i candidati da valutare, o collaborano, o competono. Un'indipendenza opaca snatura la più lucida esperienza. È un fatto che da noi, più che altrove, docenza superiore e ricerca avanzata sono in crisi: ne segue che i maggiori responsabili sono coloro che le hanno valutate. Quindi, se vogliamo cambiare musica, cambiamo suonatori. Quale altra soluzione se non rivolgersi oltre con- fine? Guardiamo alle esperienze degli altri, ma anche alle nostre realizzazioni. Tra le prime ricordiamo i risultati di paesi simili a noi. L'impiego di esperti stranieri è diffuso in Spagna, Irlanda, nei paesi baltici e altrove. Da noi potrebbe anche essere un elemento di rottura, indispensabile per superare il nostro classico gattopardismo che ci fa cambiare solo per restaurare il vecchio. Ma evitiamo stucchevoli autocommiserazioni e riconosciamo a esempio le buone prestazioni dei nostri fisici, entro e fuori i confini nazionali. Evitiamo anche di resuscitare sistemi imbolsiti e pensiamo al nuovo. Si consideri una mini- Anvur, che aiuti gli enti erogatori di cattedre e fondi a istruire le valutazioni ex ante e i fruitori a stilare i consuntivi ex post, entrambi a perfezionare l'insieme delle valutazioni. E se ne contempli anche l'abrogazione, magari dopo 5-10 anni, a meno di seri motivi. Se in quel periodo la mini-Anvur avrà elaborato regole generali e reso gli enti erogatori in grado di funzionare normalmente ai diversi livelli, sarà la benemerita. Il nostro sistema docenza/ricerca di fatto s'è sinora sottratto a una seria valutazione grazie a un'abusata "libertà accademica". L'invocata "cultura della valutazione" si coniughi con una "cultura della responsabilità" e entrambe si traducano in una prassi efficiente e duratura. _____________________________________________________ Repubblica 10 mar. ’07 VALUTATECI PURE MA NON SIA UNA ROULETTE RUSSA Questo intervento è sottoscritto da un gruppo di docenti di Ingegneria IL PROBLEMA della valutazione dei professori universitari riveste grande importanza e merita un approfondimento rispetto al dibattito proposto su Repubblica che fa unicamente riferimento alle indagini condotte presso gli studenti. E' infatti certamente indispensabile e improcrastinabile che gli atenei (e in particolare quello bolognese) si dotino di strumenti propri di valutazione basati su criteri rigorosi e oggettivi. Solo nell’ambito di un quadro di riferimento più completo ovvero quando tali strumenti (in fase di predisposizione) saranno resi disponibili unitamente ai relativi risultati, può trovare una collocazione significativa la valutazione degli studenti (come ulteriore tessera - non unica - del mosaico valutativo) che risente, però, di alcune non secondarie debolezze. ILIMITI dei risultati prodotti in questo ambito possono essere infatti meglio compresi tenendo conto di una realtà italiana universitaria che soffre di significative anomalie rispetto alla quella internazionale con cui la si vorrebbe confrontare e da cui si vorrebbe prendere esempio. Va innanzitutto sottolineato che il numero di coloro che rispondono al test è del tutto casuale e spesso statisticamente non significativo. La compilazione dei questionari viene fatta in aula in un giorno "normale" dilezione con una popolazione presente variabile la cui composizione è assolutamente non verificabile. Nelle nostre università, a differenza infatti della stragrande maggioranza delle università straniere in cui gli esami si possono sostenere una o due volte al massimo e tutti nella stessa sessione finale dei periodi di lezione, si trovano contemporaneamente a lezione studenti di anni di iscrizione differenti con competenze acquisite diverse quindi con capacità di apprendere e valutare differenti. La tipologia variabile dei partecipanti è resa possibile da un sistema italiano nel quale gli studenti affrontano gli esami secondo sequenze del tutto arbitrarie alterando a piacimento l’ordine degli studi previsto. La libertà di accesso alle aule, poi, permette a chiunque, studente o meno, di compilare il questionario e di incidere sui risultati mancando ogni controllo. Va inoltre ricordato che il tempo disponibile per la compilazione è dell’ordine di 10-15 minuti impedendo ogni riflessione approfondita con il risultato di risposte spesso fra loro non congruenti. Non è infrequente il caso di risposte positive alle domande "oggettive" (il docente ha fatto lezione, il materiale didattico è sufficiente etc.) e poi una valutazione complessiva negativa del docente. Vi sono poi caratteristiche specifiche delle facoltà non tenute in conto. Sull’argomento della documentazione didattica è del tutto evidente che in alcuni campi (soprattutto scientifici) lo sviluppo impetuoso della materia rende impossibile la disponibilità di libri in materia che risultano di fatto obsoleti all’atto della pubblicazione. Solo la frequenza alle lezioni e l’uso dei lucidi forniti dal docente e costantemente aggiornati garantisce un insegnamento up-to- date. Se la qualità delle risposte fornite poi si dovesse poi valutare a partire dai campi liberi (quelli in cui gli studenti esprimono giudizi con frasi e non con crocette) la maggior parte dei questionari dovrebbe essere semplicemente cestinata: essi sono prevalentemente bianchi e, in caso di risposta, o contengono affermazioni spesso di scarsa o nessuna utilità o sono addirittura utilizzati a fini di sberleffo. Con queste premesse ogni confronto con le metodologie di indagine presso gli studenti delle università straniere è priva di significato e la potenziale gogna della pubblicazione di risultati di dubbia qualità appare assolutamente da evitare. Valutare un professore unicamente sulla base dei pareri degli studenti appare quantomeno pericoloso e le recenti notizie di docenti "licenziati" su questa base aprono uno scenario inquietante. A questo si potrebbe ovviare con una diversa metodologia di indagine che a parità di domande formulate "obblighi" gli studenti a compilare i questionari, controllando - pur nel rispetto dell’anonimato - iscrizione, identità, anno di corso etc. e dando loro un tempo sufficiente a ponderare le risposte e i giudizi: a questo fine potrebbero essere efficacemente utilizzate procedure informatiche anziché cartacee. Concludendo: nessuna avversione verso i risultati delle indagini presso gli studenti ma una doverosa cautela nella loro pubblicazione almeno fino a quando un sistema di valutazione complessivo non sia stato messo a punto. Altrimenti non ci si scosta molto da una roulette russa che può additare al pubblico ludibrio professori che del rigore e della serietà hanno fatto la propria cifra professionale e premiare altri maggiormente scaltri in termini di public relations. Giovanni Neri, Francesco Santarelti, Gianni Bei-toni, Algelo Cappello, Giorgio Corazza, Luigi Di Stefano, Roberto Guerrieri, Massimo Lanzoni, Giovanni Marro, Silvano Martello, Stefano Mattoccia, Domenico Mirri, Elisabetta Penati, Massimo Rudan, Sergio Graffi _____________________________________________________ Il Sole24Ore 7 mar. ’07 AMERICANI AMANO L’ITALIA, NON L’UNIVERSITÀ Formazione. L’analisi di Aiea Gli Massimo Di Noia Venticinquemila studenti ogni anno: questo il dato sull’afflusso di giovani americani che arrivano per studiare in Italia, emerso in occasione del congresso annuale dell’Aiea, l’associazione che raggruppa i responsabili delle relazioni internazionali di 35o Atenei del Paese tra cui istituzioni note in tutto il mondo come Harvard e Yale. Dopo la Gran Bretagna, l’Italia -ed è un dato inatteso ---si posiziona come la seconda meta di studio all’estero degli universitari Usa. La maggior parte però segue i corsi tenuti dalle sedi aperte nel nostro Paese dalle università americane: Johns Hopkins, Geargetown University, St John's ed altre. Propongono soprattutto corsi di lingua italiana e in materie umanistico letterarie. «Sono inondate dalle richieste e stanno cercando di espandersi», spiega Giorgio Marra, membro del consiglio di amministrazione della Georgetown University e presidente della Italian Language Inter Cultural Alliance (Ilica). Sono invece rari gli accordi di scambio con università italiane, tranne eccezioni come la Scuola superiore di Restauro di Firenze, considerata anche in America come un "must" per chi si forma in questa materia. Con l’obiettivo di imprimere una svolta all’intero scenario, su iniziativa dell’Ambasciata d'Italia a Washington, è stato appena costituito, come riporta il notiziario Farnesina dell’Agenzia Radiocor, un comitato bilaterale, a cui aderiscono la stessa Aiea e numerose università italiane. «Per l’industria formativa italiana si apre un importante mercato che può coinvolgere anche i nostri centri di eccellenza in campo tecnico, scientifico ed, . economico», rileva l’ambascia Giovanni Castellaneta, che aggiunge: «Occorre però che i nostri Atenei adeguino la loro offerta». Nel corso della prima riunione è emersa, ad esempio, la necessità, perle università italiane, di aumentare il numero di corsi brevi anche nei mesi estivi, di ospitare più docenti stranieri e di prevedere corsi (e siti web) in lingua inglese. «Gli studenti americani non sono molto "mondializzati" e hanno bisogno di confrontarsi con un con ten a cui sono abituati», sottolinea Uliana Gabara, presidente dell’Aiea. L’associazione prevede che nell’arco dei prossimi io anni il numero di studenti americani all’estero cresca dagli attuali 200mila a oltre un milione ; e, in questo contesto, è necessario rafforzare l’offerta di tirocini sul campo da parte delle Università italiane. «I nostri studenti si recano all’estero soprattutto per vivere delle esperienze», rileva la Gabara. Anche perché negli Stati Uniti questo aspetto ha una importanza rilevante nella valutazione dei curriculum universitari. Importanti infine i servizi di supporto per risolvere problemi pratici: ricerca di alloggio, orientamento nell’offerta di corsi. La reazione delle Università italiane presenti? Come rileva Marra è stato «di forte entusiasmo. L’incontro è servito ad aprire un orizzonte inatteso per il mondo accademico italiano». _____________________________________________________ Il Sole24Ore 3 mar. ’07 IL LAVORO SI ALLONTANA DALLA LAUREA La quota di occupati entro 12 mesi dal termine degli studi scesa dal 56,8 al 52,4% in 6 anni di Andrea Casalegno Andrea Cammelli: «La ripresa economica non riesce a coinvolgere le nuove generazioni che restano invisibili e poco rappresentate» Malgrado la ripresa economica, trovare lavoro per i neolaureati è più difficile, tanto più a tempo indeterminato. Scende la percentuale degli occupati a un anno dalla laurea: quasi cinque punti in meno negli ultimi sei anni (dal 56,8% sul totale del 1999 al 52,4 del 2005). Con il lavoro stabile è ancora peggio: otto punti percentuali in meno. L’Italia non riesce a correggere neppure gli squilibri territoriali e quelli di genere, che ci vedono ultimi in Europa. Sia a uno sia a cinque anni dalla laurea il divario donne uomini è dell’8-9% (in Francia è l’1%). Quello tra Nord e Sud, a un anno dalla laurea, è abissale: 64% contro 41% per i laureati 2005: ben 23 punti. Una differenza che sarebbe stata considerata inaccettabile, se non per un breve periodo di emergenza, persino in Germania, il Paese che dopo il i99o ha dovuto affrontare l’impresa titanica di unificare i sistemi economici della Repubblica federale e dell’ex ddr comunista. I neolaureati, in parte del vecchio e in parte del nuovo ordinamento universitario detto «3+2» (laurea triennale e «laurea magistrale») guadagnano poco. A un anno dalla laurea portano a casa in media i.o4z curo al mese quelli del vecchio ordinamento, e solo 969 curo i neolaureati triennali. Le donne ancora meno: 837 curo, contro i 1.153 dei neolaureati triennali. In media, infatti, le donne italiane guadagnano il 13% in meno nei lavori esecutivi e il39% in meno in quelli dirigenziali. Il lieve aumento nominale degli stipendi è stato eroso dall’inflazione: in potere d'acquisto un laureato nel 2005 guadagna il 5,3% in meno di un laureato 2001. I periodi di studio all’estero, i master e gli stage aziendali hanno qualche limitato effetto positivo, ma più sull’occupazione che sugli stipendi. La nostra percentuale di laureati sulla popolazione giovanile è tra le più basse d'Europa: la metà della Francia e della Gran Bretagna. Eppure a cinque-sei anni dalla laurea da noi lavora solo l’86,4% dei laureati: il valore più basso della Ue, anche se non si discosta troppo dalla media europea dell’89 per cento. Questi dati preoccupanti emergono dal IX Rapporto di ALmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati: la più ricca banca dati esistente sui laureati italiani e sulle loro prospettive di lavoro. Il Rapporto è presentato oggi al convegno «Dall’università al lavoro in Italia e in Europa», che si è aperto ieri a Bologna (si veda l’articolo qui sotto). Il convegno è organizzato da ALmaLaurea, il Consorzio universitario creato e diretto da Andrea Cammelli, che oggi riunisce 49 atenei italiani. Cammelli ha commentato amaramente così i risultati dell’indagine: «La ripresa economica non riesce ancora a coinvolgerei giovani che escono dall’università. Continua a crescere una generazione di laureati invisibile e poco rappresentata». Il Rapporto di ALmaLaurea mette in luce un secondo fenomeno preoccupante: i tempi di studio si stanno di nuovo allungando. L’analisi permette infatti di confrontare non solo i risultati occupazionali ma anche i "tempi di percorrenza" di tre settori diversi della popolazione studentesca: coloro che hanno terminato gli studi con il vecchio ordinamento (lauree quadriennali e quinquennali), coloro che sono passati dal vecchio ordinamento al nuovo, cioè i,primi studenti a conseguire il titolo triennale, e infine coloro che hanno iniziato ex novo il corso triennale (i numeri del campione sono indicati nella scheda a fianco). Il confronto è puramente indicativo, poiché i tre gruppi non sono omogenei ma permette utili riflessioni. In un prmo tempo fra i laureati triennali la percentuale di fuori corso si era drasticamente ridimensionata: un dato positivo ma, purtroppo, solo apparente: Nel 2005, infatti; i laureati triennali in corso sono stati solo il 28%, rispetto all’83% del,2004: -55%, un vero crollo: L’effetto benefico della riforma sembra, se non esaurito, certo ridimensionato. Ma torniamo al problema più grave. Perché è così difficile per i neolaureati trovare un lavoro soddisfacente? La colpa è del mondo del lavoro pubblico e privato, che, a dispetto delle belle formule sulla società della conoscenza, non riesce a valorizzarla nel contesto produttivo, di scelte sbagliate degli studenti o di un insegnamento accademico inadeguata? Probabilmente dei tre fattori insieme. Tutti conosciamo neolaureati che svolgono mansioni precarie, dequalificate, scarsamente retribuite e talenti che trovano buoni impieghi... all’estero. Anche le scelte sbagliate, però, fanno la loro parte. Il trend negativo, infatti, non è omogeneo. Ingegneria continua a portare rapidamente al lavoro, seguita dalle facoltà scientifiche, in crisi di vocazioni. Medicina, grazie alla selezione all’ingresso, assicura in pratica la piena occupazione; i lunghi anni di studio abbinati al tirocinio sono in pratica una forma di lavoro in stage o di apprendistato. Ma anche la facoltà di Giurisprudenza, che quarant'anni fa forniva una preparazione generica buona per tutti gli usi, ha coerentemente imboccato la via professionale; dopo un'iniziale incertezza ha semplicemente cassato la laurea triennale, trasformando il vecchio corso quadriennale in un percorso unico di cinque anni. E i risultati la premiano. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 4 mar. ’07 I SIGNORI DELLE MALATTIE Nel suo nuovo romanzo, «Next», che uscirà a giugno in Italia, Michael Crichton immagina un mondo futuro dominato dall’ingegneria genetica. In questo articolo denuncia 1e conseguenze dei brevetti su singoli geni i che sono stati concessi ad alcune imprese americane. E loda una legge «bipartisan» che li vuole proibire di Michael Crichton Ognuno di voi, uno dei vostri cari può morire per un brevetto su un gene che non avrebbe mai dovuto essere concesso. Vi sembra esagerato? Disgraziatamente, è fin troppo reale: I brevetti sui geni vengono usati per fermare la ricerca, ostacolare analisi cliniche, nascondere informazioni vitali a voi e al vostro medico. I brevetti sui geni rallentano la corsa del progresso medico su malattie letali. E hanno prezzi esorbitanti, un kit di diagnosi del cancro al seno per il quale basterebbero mille dollari ne costa tremila. Perché? Perché il titolare del brevetto sui geni può chiedere la cifra che vuole e lo fa. Ma non si potrebbe fare un kit che costi meno? Certo che sì, ma il titolare blocca quelli della concorrenza. Il brevetto è suo. Nessun altro può usare quei geni per una diagnosi. Di fatto, non potete nemmeno donare il gene del vostro stesso cancro al seno a un altro scienziato senza permesso. Il gene può anche esistere nel vostro corpo, ma ormai è proprietà privata. Siamo in questa bizzarra situazione per l’errore di un'agenzia governativa a corto di soldi e di personale. L’Ufficio brevetti degli Stati Uniti ha interpretato male precedenti decisioni della Corte suprema e alcuni anni fa ha cominciato - con sorpresa di tutti, compresi gli scienziati che stavano decodificando il genoma umano - a rilasciare brevetti sui geni. Per lo più gli esseri umani condividono gli stessi geni e questi si trovano anche in altri animali. La nostra costituzione genetica rappresenta l’eredità comune della vita sulla Terra. La neve, le aquile o la gravità non si possono brevettare, e non si dovrebbe nemmeno poter brevettare i geni. Eppure al giorno d'oggi un uintodeigeni del nostro corpo sono proprietà privata. I risultati sono stati disastrosi. Di solite, immaginiamo che i brevetti promuovano l’innovazione e questo perché la maggior parte dei brevetti concessi riguarda invenzioni umane. ',I geni non sono invenzioni umane, sono elementi del mondo naturale. Ne consegue che quei brevetti possono essere utilizzati per bloccare l’innovazione a danno delle terapie per i pazienti. Il morbo di Canavan, per esempio, è una malattia ereditaria che colpisce i bambini quando hanno tre mesi; non riescono ad andare carponi, soffrono di convulsioni, rimangono paralizzati é muoiono da adolescenti. Prima non esisteva un test che potesse avvertire i genitori del rischio. Alcune famiglie che conoscevano il dolore di accudire questi bambini hanno assunto un ricercatore per trovare il gene e una sua diagnosi. In tutto il mondo famiglie simili hanno donato campioni biologici e denaro per contribuire alla causa. Quando il gene è stato identificato nel 1993, le famiglie hanno ottenuto da un ospedale di New York l’impegno di offrire un esame gratuito a chiunque lo chiedesse. Ma il datore di lavoro del ricercatore - l’Istituto di ricerca del Miami Children's Hospital - ha brevettato il gene e si è rifiutato di autorizzare un'altra struttura sanitaria a offrirlo senza pagare royalty. I genitori non credevano che i geni fossero brevettabili, non avevano messo i propri nomi sul brevetto. Quindi non avevano alcun controllo sul suo utilizzo. Inoltre succede che il proprietario di un gene possegga anche le sue mutazioni, e queste mutazioni possono servire da marcatori di una data patologia. I Paesi dove non si brevettano i geni fanno diagnosi migliori che in America, perché quando molti laboratori possono effettuare le analisi, si scoprono più mutazioni e ciò migliora la qualità del sistema diagnostico. Gli apologeti dei brevetti sui geni sostengono che si tratta di una tempesta in un bicchier d'acqua, che le licenze per i brevetti si possono ottenere con facilità e a costi minimi. Questo è del tutto falso. Il proprietario del genoma (del virus, ndr) per l’epatite C incassa milioni di dollari dai ricercatori che vogliono studiare quella malattia. Non stupisce che molti altri ricercatori scelgano di studiare qualcosa di meno costoso. Ma lasciamo da parte i costi. Perché mai persone o aziende dovrebbero essere titolari di una malattia? Non l’hanno certo inventata loro. Eppure oggi più diventi patogeni sono proprietà private, compresi il bacillo dell’influenza Haemophilus influenzae e il virus dell’epatite C. E, come detto prima, i test per i geni BRCA del cancro al seno costano tremila dollari. Oh, un'altra cosa ancora: se fate quel test, la società proprietaria del brevetto può tenersi i vostri tessuti e usarli per la ricerca senza chiedervi il permesso. Non vi piace? Peccato. La verità è che i brevetti sui geni non sono benefici e non lo saranno mai. Mentre la Sars si diffondeva per il mondo, i clinici esitavano a studiarla per timore di infrangere brevetti. Non c'è indicazione più chiara di così: quei brevetti bloccano l’innovazione, inibiscono la ricerca e fanno correre rischi a tutti noi. Nemmeno il vostro medico riesce a procurarsi le informazioni indispensabili. Un farmaco per l’asma è efficace solo in certi pazienti. Ma la casa produttrice ha soffocato i tentativi, da parte di altre aziende, di sviluppare un test genetico in grado di stabilire a chi giovi e a chi no. Questi fattori commerciali ostacolano un grande sogno. Da anni ci viene promesso l’avvento di una medicina personalizzata, adatta alla nostra particolare costituzione fisica. I brevetti sui geni distruggono quel sogno: Per fortuna, due parlamentari americani vogliono che i benefici del genoma decodificato siano a disposizione di noi tutti. IL 9 febbraio scorso Xavier Becerra, democratico della California, e Dave Weldon, repubblicano della Florida, hanno presentato un progetto di legge sull’accessibilità alla ricerca genomica, che vieta la pratica di brevettare geni trovati in natura. Becerra ha tenuto a precisare che la legge non intralcia l’invenzione ma la promuove. Ha ragione. Essa alimenterà l’innovazione e ci restituirà la nostra eredità comune. Merita il nostro sostegno. (Traduzione di 5yl vie Coyaud) SI INTITOLA NEXT (pagg. 432, $ 27,95, Editore Collins Gem)il nuovo techno- _____________________________________________________ Il Sole24Ore 4 mar. ’07 NON È LA SCIENZA CHE CI MINACCIA di Lucio Luzzatto Non ho ancora letto Next,l’ultimo libro di Michael Crichton, ma a giudicare dalla postfazione dell’autore il libro ha una tesi: è assurda la pretesa di voler brevettare i geni, e le manipolazioni genetiche sono pericolose. Robin Cook, uno scrittore specializzato in fantascienza medica, aveva già trattato problemi simili: in uno dei suoi libri viene introdotto un cromosoma umano in scimmie antropoidi bonobo, allo scopo di rendere i loro organi trapiantabili in pazienti umani; in un altro si usano cellule staminali embrionali geneticamente ingegnerizzate nel tentativo di curare un direttore d'azienda del suo incipiente morbo di Parkinson. A parte qualche storia d'amore collaterale, entrambi i romanzi finiscono in disastri. Devo ammettere che trovo alcuni di questi libri piuttosto divertenti, ma guai a prenderli troppo sul serio: sul piano scientifico Jules Verne era ben più rigoroso. Mi chiedo comunque se, per la causa della ricerca, là fantascienza biologica hi-tech sia un aiuto o il contrario: Occorre distinguere almeno due questioni diverse che si intersecano. Da un lato, l’enorme contenuto emotivo di tutto quanto attiene alla genetica, che dipende –credo - dal fatto che la genetica a sua volta attiene alla riproduzione. Dall’altro, i rapporti tra potere e biotecnologia, che impatta sull’agricoltura e sulla medicina (la cui gestione viene spesso oggi chiamata, negli Stati Uniti, l’industria della salute). Un esempio di tali rapporti che Crichton mette a fuoco è quello dei geni brevettati. Per l’uomo della strada il concetto di brevetto si associa a quello di invenzione: se un ingegnere può brevettare un nuovo tipo di telescopio, sembra giusto che un biologo possa brevettare, ad esempio, una nuova metodologia per analizzare le proteine. Ma un gene umano è un segmento i Dna naturalmente presente in ogni cellula di ognuno di noi: che uri biologo brevetti un gene sarebbe come se un astronomo brevettasse un satellite di Giove da lui visto per primo. Eppure è vero che negli Stati Uniti questo è avvenuto per i geni BRC4i eBRCAa, che predispongono al cancro del seno: mentre il brevetto non è stato alla fine concesso dall’European patent office. Il risultato è che la Myriad ha un'esclusiva per i test genetici che possono rivelare mutazioni di questi geni: circa 3.00o dollari per analisi. Non è allora il,potenziale della genetica che deve spaventarci, ma piuttosto la commistione tra genetica e potere economico. Un test genetico viene effettuato, da un servizio sanitario serio, solo se una paziente lo vuole, e dopo aver ben chiarito tutte le implicazioni: ma se il test rende a qualcuno, c'è rischio che venga propagandato e venduto come un prodotto commerciale:In uno dei libri di Robin Cook uno scienziato si lascia fuorviare a compiere su un paziente un intervento alla cowboy dopo che aveva lasciato il suo laboratorio di ricerca per mettere su la sua piccola industria bio-tech. Nel 1998 il Comitato Etico (che allora presiedevo) della American society forgene therapy, aveva elaborato un documento avente lo scopo di evitare che un ricercatore, clinico o non, potesse avere, nel settore della terapia genica,un conflitto di interessi tra sperimentazione clinica da lui condotta e interessi commerciali. Il documento, sottoposto al Consiglio di presidenza dell’Associazione, non ebbe a tutta prima fortuna. Qualche mese dopo vi fu un evento tragico: nel corso di un trial clinico su una rara malattia ereditaria un giovane dii8 anni perse la vita Il responsabile del trial era azionista della ditta che produceva il vettore virale usato nel trial stesso: il documento del nostro Comitato Etico fu immediatamente adottato ed è in vigore a tutt'oggi. I romanzieri fanno bene a stigmatizzare le storture e anche i crimini che possono derivare dall’abuso della scienza; ma farebbero bene anche a far partecipe il pubblico dei meravigliosi portati intellettuali e pratici della genetica contemporanea, che ogni giorno ci fa capire meglio come l’informazione contenuta nel Dna del genoma produce un essere umano; e al tempo stesso, rivelando le mutazioni che causano malattie, aiuta a trovare nuovi modi di curarle. Sta alla comunità scientifica, e alla comunità umana ingenerale, auto- disciplinarsi per fare buon uso di questi progressi non a vantaggio di pochi, ma nell’interesse di tutti. I romanzieri dovrebbero fare conoscere al pubblico non solo i rischi legati alla COmnllSilOne tra ricerca e interessi commerciali, ma anche gli enormi progressi resi possibili dalle scoperte dei biologi ______________________________________________ Il Giornale 3 Mar. 2007 BIOTECH, COSÌ SI UCCIDE LA RICERCA Monica Marcenaro Il settore delle biotecnologie in Italia potrebbe essere una Ferrari di formula uno, o una miniera d'oro. Sono tutte d'accordo le imprese leader nel settore delle biotecnologie rosse, quelle legate alla cura della salute: gli scienziati italiani per eccellenza, capacità e creatività e flessibilità non hanno nulla meno dei loro colleghi americani e europei. Ma il sistema Paese e chi lo governa non se n'è accorto. L'assenza di capitale di rischio, le rigidità e i ritardi nelle norme che riguardano i brevetti e il trasferimento tecnologico e la mancanza di attenzione dei governi hanno fatto sì che, stando al rapporto "Beyond borders" di Ernst&Young del 2006, l'Italia sia all'ultimo posto in una lista di 14 Paesi europei per il peso che ha il biotech in rapporto al Pil. Che fare per invertire la tendenza? "Ci sono alcuni fatti importanti che potrebbero segnare una svolta". A parlare è Francesco Sinigaglia, medico, con un passato di ricercatore e di direttore scientifico a Milano ricerche, fondatore insieme ad alcuni colleghi nel 1992 di BioXell, all' avanguardia in Europa nello sviluppo di farmaci per la cura delle malattie urologiche e infiammatorie. "Da un lato, alcune regioni - precisa l'ad di BioXell, da poco sbarcata con successo alla Borsa di Zurigo - tra cui la Lombardia, dove si concentra la maggior parte delle aziende biotech, sono impegnate a sostenere lo sviluppo del settore finanziando il trasferimento di tecnologie, mettendo a disposizione fondi di avviamento, e favorendo la crescita di parchi scientifici che possano fare da incubatori". "Ma per fare emergere il biotech - sottolinea Sinigaglia - occorre un cambiamento radicale da parte delle autorità. Occorre credere in una economia basata sulla conoscenza che focalizzi le risorse dove sono necessarie, che offra benefici fiscali di lungo termine alle giovani aziende". Intanto BioXell va avanti, sfruttando la competenza nella chimica dei VD3, ormoni che hanno un ruolo molto importante nel complesso della risposta immunitaria. In attesa di un segnale sostanziale possono esserci interventi a breve termine. Ne è convinto Marco Renoldi, un passato di manager nel farmaceutico, da due anni alla guida di Amgen in Italia, facente parte della più grande società americana biotecnologica che alla fine degli anni 80 ha messo sul mercato l'eritropoietina sintetica (l'ormone che stimola la produzione di globuli rossi) per la cura dell'anemia e di alcune forme di tumori e oggi tra le prime 500 società al mondo secondo Fortune . "Quella che mi sta più a cuore è la tutela dell'innovazione - incalza Renoldi - ci sono aziende e centri capaci di fare scoperte, ma devono essere garantiti. Non è possibile che ogni Finanziaria preveda un taglio dei prezzi dei farmaci perché si drenano risorse alla ricerca". In tempi stretti il manager di Amgen Italia vorrebbe "vedere snellito l'accesso dei malati ai prodotti innovativi: dopo l ' a p p r o v a z i o n e da parte dell' Emea il nuovo farmaco è immediatamente disponibile, per esempio, in Germania, mentre nel nostro Paese possono volerci anche due anni". Anche il quadro normativo non è avanti: "Per le sperimentazioni cliniche, che nel Belpaese hanno un ottimo rapporto costoqualità, i tempi di approvazione sono ben più lunghi che non nel resto dell'Europa. Poi non c'è concertazione tra i comitati etici dei diversi ospedali - conclude Renoldi - da una parte autorizzano un progetto di studio, da un' altra magari no". Studi clinici di fase uno difficili, troppo. "In Italia la strada è troppo burocratica - conferma Luca Benatti, biotecnologo con un'esperienza ventennale nell'industria e con numerosi brevetti al suo attivo, amministratore delegato di Newron, azienda biotech nata nel 1999 da uno spin-off dell' americana Pharmacia & Upjohn - noi preferiamo andare all'estero". La società milanese, attiva soprattutto nello sviluppo di farmaci per il trattamento dei disturbi del sistema nervoso centrale, ha stretto nell'autunno scorso un accordo di collaborazione con Serono per lo sviluppo del suo prodotto leader, la Safinamide, una molecola contro il Parkinson attualmente nelle fasi finali della sperimentazione clinica. Secondo Benatti, che alla fine del 2006 ha portato Newron alla borsa di Zurigo, "perché in Italia non c'è interesse da parte degli analisti e della finanza per il biotech", quello che manca da noi sono gli uffici per il trasferimento tecnologico. "L'iniziativa del singolo ricercatore non basta: una volta che ha individuato qualcosa di nuovo, non sa come muoversi, cosa fare. Questi uffici hanno proprio il ruolo di valorizzare la scoperta portando chi ha i capitali dove esistono delle buone opportunità. Negli Usa e in Inghilterra funzionano bene" _____________________________________________________ Libero 10 mar. ’07 LA PROPRIETÀ INTELLETTUALE UN NEMICO DA CANCELLARE Associazioni internazionali, movimenti e no global contestano i brevetti dell’industria_ farmaceutica. Ma eliminarli è un freno all’innovazione ALBERTO MINGARDI 0•• Brevetti sì, brevetti no? Il lancio da parte di Sanofi Aventis di un farmaco antimalarico, concepito assieme a Medici senza frontiere (Msfl, ha riaperto il vaso mai chiuso delle polemiche sulle forme esistenti di tutela della proprietà intellettuale. L’Asaq (che nasce dalla combinazione di due antimalarici in un'unica pastiglia) non sarà coperto da tutela brevettuale. Ovvero non solo avrà costi molto bassi, come nelle intenzioni del produttore (che assicura risparmi fino al50% rispetto ai trattamenti in uso), ma essi saranno ulteriormente limati, in virtù della competizione di altri, "liberi di copiare" la medesima medicina. Dal punto di vista mediatico, è stato un doppio strike per Sanofi, che si garantisce il plauso della comunità internazionale assieme alla partnership con Msf, proprio quando l’organizzazione umanitaria ha messo nel mirino un'altra multinazionale del farmaco, Novartis. Nell’occhio del ciclone c'è il Glivec, un antitumorale il cui brevetto il governo indiano rifiuta di riconoscere - a dispetto degli accordi internazionali. In tale controversia, ormai alla pagina giudiziaria, Msf ci è saltata a piè pari, promuovendo una petizione che sa di "resistere, resistere, resistere" in salsa tandoori. Su un appello vibrante che accusa Novartis d'aver fatto causa «al Governo indiano perché permette la produzione di farmaci generici dai costi contenuti», ha incassato la scontata adesione di altri cespugli del sottobosco anti globalizzatore. A fare problema è la garanzia del brevetto, che nel mondo della farmaceutica significa sostanzialmente la sanzione di chi tenti, attraverso un processo di "ingegneria inversa", di risalire al principio che sta dietro a una medicina. È senz'altro curioso che questo ciclone si abbatta su Novartis, un'impresa attiva sul versante dei farmaci generici con la sua divisione Sandoz. Sarebbe un curioso paradosso se un'azienda fosse impegnata in una campagna votata ideologicamente a negare il diritto di esistere, a una pratica sulla quale ha innestato un suo filone di business. Purtroppo, prendendo partito Medici senza frontiere mescola due cose diverse: la questione della tutela brevettuale, e quella dell’accesso ai farmaci. I temi andrebbero tenuti ben distinti. Il brevetto è protetto perché si ritiene serva a suggellare l’incentivo ad innovare, per le aziende. Le risorse per produrre un nuovo farmaco sono ingenti, i ritorni spesso lo sono assai di meno: si tratta del genere di ricerca nella quale si sa dove si parte, ma non dove si arriva. Più imprese lavorano, nello stesso periodo, sulla stessa malattia, magari scommettendo su strategie di ricerca diverse o perfino sulla medesima. Si parte con grandi speranze, ma spesso si sbaglia. Se la volta in cui non si fallisce, il prodotto miracoloso e vincente potesse essere liberamente replicato da altri - che sosterrebbero sì i costi di produzione ma non quelli del lungo processo per cui alla produzione si arriva - il successo avrebbe un sapore più beffardo della sconfitta. È vero che stiamo parlando di un settore industriale che perviene con cadenza sempre inferiore a scoperte eclatanti, e che molto spesso le medicine nuove sono sostanzialmente votate alla gestione della cronicità, piuttosto che alla cancellazione della malattia. Ma la ricerca farmaceutica è un po' come la conquista dello spazio: è relativamente facile, nel mondo dell’aeroplano, andare sulla luna, difficile spingersi di lì in su. Diminuire gli incentivi adinnovare senz'altro non ci apparecchierà una rivoluzione. LA POVERTÀ E LA MALATTIA Il sistema dei brevetti è perfetto? Non lo è, però senza un'alternativa non si va da nessuna parte. Le altre strade proposte sottendono tutte una virata verso un modello nel quale sia lo Stato (o un'organizzazione internazionale, che degli Stati sia una propaggine) ad orientare lo sviluppo delle tecnologie. Uno scenario da "socialismo scientifico", e stavolta l’aggettivo sarebbe sincero. La domanda cui rispondere è piuttosto un'altra. Il farmaco "liberamente copiabile patrocinato da Msf e Sanofi serve davvero ad abbattere quelle barriere all’accesso che portano una malattia come la malaria ad uccidere ancora tre milioni di persone fanno? La risposta è no. No perché focalizzare l’attenzione sui brevetti, quando si parla di patolole legate alla povertà, è come parare ad un elefante con una cerbottana. Malattie come la febbre gialla, la malnutrizione, i disturbi espiratori, la stessa malaria, te ammazzano persone a milioni nel Terzo mondo, sono pesso facilmente curabili. Non v'è bisogno di "nuova" ricerca. 3asterebbero, in alcuni casi, rinedinoti a una medicina infinitamente più semplice di quella contemporanea, in altri la prevenzione. Banalmente, come era possibile per l’organizzaione mondiale della sanità so,tenere, seriamente, di essere attiva nella lotta alla malaria, quando nel frattempo patrocinava il bando del DDT? Solo nel 2006, l’OMS ha avuto il coraggio li reintegrare il pesticida al posto che gli spetta, fra gli strumenti di prevenzione di questo male. In secondo luogo, che impatto può avere, un medicinale liberamente riproducibile, in un contesto nel quale i farmaci arrivano sì in un certo Paese, ma non nelle mani di dottori e infermieri? Il fatto che non esista un sistema sanitario in senso proprio, è davvero meno rilevante della libertà di copiare? La povertà alimenta la malattia, non il contrario: l’indigenza significa non potere sostenere non solo una domanda di farmaci, ma una domanda di sanità tout court. Sussidiare i primi quando mancano le infrastrutture necessarie a farli arrivare a chi ne abbisogna va benissimo giusto per lavarsi la coscienza, ma è umanitarismo di scuola onanista. C'è poi il problema della corruzione delle élite politiche locali. Che ha due facce. In primo luogo, studi condotti in Guinea, Cameron, Uganda e Tanzania stimano che fra il 30 ed il70% delle medicine acquistate dai governi "scompaiono" misteriosamente. Non ci sono ragioni, purtroppo, per immaginare che altrove le cose vadano diversamente. Napoli è dappertutto. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 8 mar. ’07 COME APRIRE LE PORTE AL SISTEMA DELLA RICERCA DI ALBERTO MANTOVANI Il rientro in Italia dei cervelli emigrati all’estero è un tormentone ricorrente. Addirittura un "melodramma", secondo un articolo pubblicato alcuni giorni fa sulle pagine di questo giornale, dove il giornalista Marzio Bartoloni attira l’attenzione sulla sospensione del programma che stanziava fondi per convincere gli scienziati emigrati a tornare a casa. Per molti aspetti il rientro dei cervelli è a mio parere un falso problema: il fatto che i nostri ricercatori vadano all’estero non è affatto un dramma,perché questo fa parte della storia naturale di un ricercatore. È nel nostro Dna cercare nel mondo le migliori opportunità scientifiche, confrontarci con i centri d'eccellenza e con i colleghi non italiani, aumentare le nostre esperienze e conoscenze. È invece molto più preoccupante il fatte; che pochissimi stranieri vengono nel nostro Paese a fare scienza o imparare a fare scienza. Il vero problema è che il nostro è un sistema di ricerca chiuso, sia per gli italiani che rientrano sia per ì cervelli esteri che vogliono entrare. L’Italia soffre infatti di una bilancia negativa: da una parte siamo tra i principali "donatori" di scienziati in Europa, dall’altra abbiamo il più basso tasse di ricercatori stranieri che vengono nel nostro Paese, l’1% contro il 10 % degli Stati Uniti e il 4% di Germania e Regno Unito. Questo perché in Italia non esistono corsie preferenziali per un ingresso davvero produttivo di cervelli stranieri: mancano i presupposti fondamentali per attrarre gli scienziati. Siamo in presenza di un'inadeguatezza di stipendi e borse di studio, un'assenza di finanziamenti ad hoc troppi vincoli burocratici per ottenere i permessi di soggiorno, un sistema rigido, scarsamente meritocratico e non affidabile. Difetti su cui più volte ha insistito il Gruppo 2003, associazione che unisce numerosi scienziati italiani (i più citati nella letteratura scientifica internazionale) che lavorano nel nostro Paese, per promuovere una riflessione sugli elementi portanti di un sistema di ricerca moderna e sua necessità di una riforma radicale e organizzata del sistema italiano (www.gruppo2oo3.org). L’ingresso di cervelli stranieri e il rientro dei nostri sono problemi paralleli che necessitano di una politica organizzata; chi rientra - o chi vuole entrare per la prima volta - deve avere delle "facilitazioni di contesto": un percorso semplificato per quanto riguarda i permessi di soggiorno, un finanziamento iniziale per la ricerca, spazi e strumentazione adeguati, sportelli affidabili e trasparenti per i finanziamenti. Rendere disponibile untale contesto dovrebbe essere condizione e parte di una politica di questo tipo; che non può ridursi al "posto" universitario. In conclusione, un sistema di ricerca è appetibile all’estero, sia per italiani che per stranieri, soltanto se basato su affidabilità, trasparenza e meritocrazia. Essenziale sarebbe la costituzione di una o più agenzie di ricerca, un vero e proprio "sportello" credibile nel tempo. In questo senso, gli esempi da imitare non dobbiamo cercarli lontano: penso alle charities quali Airc e Telethon, che negli anni hanno saputo costituire sportelli affidabili e trasparenti e attuare politiche di ricerca e di valorizzazione dei giovani. Alberto Mantovani, 56 anni, è direttore scientifico deli'Istituto clinico Humanitas- Irccs, Università degli Studi di Milano. _____________________________________________________ L’Unità 5 mar. ’07 QUANTO PRODUCE IL CNR? POLEMICHE II presidente Pistella di nuovo accusato di cattiva gestione • Il Cnr non ha pace. E il suo presidente, Fabio Pistella, è sempre al centro di qualche bufera. Le ultime polemiche che lo riguardano sono nate nel mese di febbraio. La prima riguarda i tagli alla ricerca. Dopo la Finanziaria del 2007, il ministero taglia i finanziamenti al Cm del 5%. Questo si traduce in un taglio secco del 30% sui fondi per la ricerca operato dal presidente. I direttori degli istituti si ribellano e chiedono spiegazioni, ma il presidente replica dicendo che il taglio era l’unico possibile perché ogni altra spesa era incomprimibile. La protesta monta e dà vita a una petizione, firmata da oltre 1000 ricercatori, che oggi verrà consegnata al ministro dell’università e della ricerca Fabio Mussi. La domanda è esplicita: è il ministero che ha strangolato la ricerca o è il vertice del Cnr che lo ha fatto operando i tagli sul budget degli istituti e dei ricercatori? La seconda polemica riguarda i bilanci del Cnr. IL Manifesto dei ricercatori, un gruppo nato intorno ad un appello che aveva l’obiettivo di contrastare l’operato dell’attuale dirigenza del Cnr, presenta un documento in cui si sostiene che la Corte dei conti abbia liberamente interpretato i bilanci del Cnr per tessere le lodi della riforma Moratti-Pistella. E presenta dei dati che dimostrano come non sia vero che la riforma abbia fatto aumentare il reperimento di risorse dal mercato: non è vero, dicano, che il Cnr sia più vicino alle imprese. La terza polemica riguarda la produttività scientifica. Un ricercatore del Cnr pubblica un arti colo su Le scienze in cui si sostiene che la produttività del Cnr e degli istituti ad esso accorpati è andata progressivamente calando a partire dal 2003, l’anno in cui è stata avviata la riforma voluta dall’allora ministro Letizia Moratti e poco prima che alla presidenza dell’ente arrivasse Fabio Pistella. Pistella reagisce immediatamente mandando una lettera a tutto il personale del Cnr e alla rivista in cui si dice che si tratta di «affermazioni prive di fondamento». Secondo la sua versione, il Cnr non avrebbe subito nessun calo di produttività, ma fa uno scivolone e presenta dei dati sulle pubblicazioni deil’Inoa (Istituto Nazionale di Ottica Applicata) completamente sballati. Protestano ancora i ricercatori e Pistella cambia tattica: se anche ci fosse stato un calo della produttività la colpa non si potrebbe imputare alla mia gestione, dice. Pistella aveva già avuto problemi con il conteggio delle pubblicazioni: quando venne nominato dichiarò di essere autore di 150 articoli scientifici, ma a conti fatti ne furono trovati salo 3 nelle banche dati bibliografiche internazionali. _____________________________________________________ Il Giornale 6 mar. ’07 AI CONFINI DELL’«IMBROGLIONICA» Nel 1996 sulla rivista americana Social Text, che solitamente ospitava scritti di sociologi, psicologi e filosofi ispirantisi al pensiero postmoderno di Lacan, Deleuze, Guattari, comparve l’articolo di un fisico della New York University, Alan Sokal, intitolato Violare i confini: verso una ermeneutica trasformativa della gravità quantistica. Oltre ad affermazioni politicamente gradite alla direzione della rivista, quali aspre rampogne rivolte all’uomo bianco razzista e maschilista, il saggio era composto da proposizioni che impiegavano massicciamente una terminologia scientifica tratta dai più ardui capitoli della fisica contemporanea, però totalmente prive di senso, oppure chiaramente false. Tutto l’articolo era completamente insensato, e ciò che aveva senso era sbagliato. Si trattava di uno scherzo che ebbe grande risonanza, divertente per molti, ma non per tutti. Sokal voleva dimostrare che i lavori ospitati dalla rivista usavano arbitrariamente un linguaggio ricco di termini scientifici, tratti dalla matematica, dalla fisica e dalla biologia, che conferiscono una parvenza di scientificità, ma nascondono la reale mancanza di senso; per questo il sua saggio era parso idoneo e subito pubblicato: era perfettamente allineato con lo stile degli scritti abituali. Tutte le vicende della filosofia della scienza a partire dall’inizio del Novecento, con il convenzionalismo, il neopositivismo con le sue crisi, i vari Popper, Kuhn, Lakatos Feyerabend, Laudan sono approdate a una conclusione che pare inevitabile: non si può definire un criterio di demarcazione operativo tra le scienze forti e la restante parte della cultura. La distinzione tra scienziati puri di spirito, che ritengono la ricerca della verità incompatibile con truffe e imbrogli, e intellettuali dai codici morali un po' più lassisti è insostenibile, e questa è la seconda considerazione, da un punto di vista sociologico. Soprattutto a seguito dei mutamenti istituzionali e tecnologici realizzatisi a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, la ricerca scientifica avviene ormai in condizioni socioeconomiche tali da rendere necessaria per ogni ricercatore che voglia emergere in un mondo di una competitività parossistica la conoscenza approfondita di una nuova disciplina, l’«imbroglionica». Grazie ai suoi insegnamenti si possono imparare svariati trucchi per essere accreditati come scienziati degni di fiducia (e di soldi): metodi infallibili per ottenere un elenco di pubblicazioni chilometrico con poca fatica, come comunicare dati inventati o realizzare un plagio privo di pudore, manomettere i protocolli di laboratorio e i nastri di registrazione, rubare appunti dei colleghi con le idee ivi contenute. Infine la distinzione netta tra la scienza, nata nel Seicento con Galileo, Cartesio e Newton, chiara e rigorosa, e la cultura precedente, infarcita di magia, alchimia, stregoneria, astrologia, è errata storicamente. La scienza moderna è stata costruita anche da personaggi che non stanno né al di qua né al di là del confine, per il semplice motivo che non vi fu un confine. Le ricerche storiche hanno chiarito ormai da tempo che la separazione tra il mago (ciarlatano) e lo scienziato non è stata un evento databile, ma un processo complesso che è durato secoli e che, a ben vedere, non è del tutto terminato. Newton, ad esempio (ma è anche l’esempio più importante), manifesta caratteristiche apparentemente inconciliabili, che ne rendono impossibile la collocazione rispetto a un qualsiasi confine che dovrebbe delimitare la, scientificità. Col progredire delle conoscenze sulla sua figura, Newton appare sempre più uno studioso che affiancava alle ricerche di ottica, meccanica e astronomia, che ne hanno fatto agli occhi di tutti il protagonista della rivoluzione scientifica, un'intensissima attività in alchimia, astrologia, studio delle profezie, delle cronologie bibliche, delle filosofie più antiche, sempre preoccupato di elaborare una scienza «pia» da contrapporre a quella «empia» di Cartesio. Quale conclusione si deve trarre da quanto detto? Parrebbe di dover ammettere che l’impresa scientifica è inesorabilmente, indissolubilmente mescolata a varie forme di ciarlataneria; ce lo dicono la filosofia della scienza, la sociologia, la storia. Questo significa allora che dobbiamo rassegnarci ad accogliere nella scienza verità genuine e frodi di vario genere? La risposta mi sembra, debba essere un sì e un no. Sì per quanto detto in precedenza: in ogni momento storico quel che si definisce conoscenza scientifica. sarà un miscuglio di forme di conoscenza e modelli operativi differenti, spesso impliciti e per questo tanto più difficili da individuare. No, perché quella miscela di serietà e ciarlataneria che definiamo scienza sembra avere la capacità di espellere le verità apparenti, i risultati della fro de. Questo è un processo che può richiedere anche molto tempo. Forse l’esempio di frode scientifica più celebre è il cosiddetto «uomo di Piltdown». Nel 1912 in una cava di ghiaia a Piltdown, in Inghilterra, furono scoperte una calotta cranica di tipo umano e una mandibola di scimmia, insomma le prove dell’esistenza nel passato di un essere a metà, tra uomo e scimmia, l’anello mancante richiesto dalla teoria dell’evoluzione. Il ritrovamento fece sensazione e rapidamente venne accettato dalla scienza ufficiale. Si trattava in realtà di un falso, i cui autori non sono ancora, stati individuati (fra i sospettati il gesuita filosofo Pierre Teilhard de Chardin e Arthur Conan Doyle, il padre di Sherlock Holmes), e per oltre 40 anni i biologi hanno creduto nella verità di un albero genealogico dell’uomo alla cui base stava il fasullo uomo di Piltdown. Solo nel 1953 il geologo inglese Kenneth Oakley, impiegando le nuove tecniche d'analisi, fu in grado di dimostrare che il preteso uomo di Piltdown non era mai esistito. Certo, più di quarant'anni erano trascorsi dal ritrovamento, ma questo insegna che la verità scientifica ha bisogno di tempo per farsi strada nella palude dell’errore. La scienza mostra un carattere autocorrettivo, anzi il saper riconoscere i propri errori e porvi rimedio può essere visto come il suo carattere più specifico, quello che la differenzia da ogni forma di sapere dogmatico _____________________________________________________ Il Sole24Ore 10 mar. ’07 ITALIA VITTIMA DELLA BUROCRAZIA di Davide Tabarelli L’Italia è il quarto produttore di energia elettrica da fonti rinnovabili in Europa, con 52 miliardi di chilowattora nel 2oo6, ciò grazie alle grandi centrali idroelettriche costruite nella prima metà del '90o e alla geotermia, per la quale vanta un primato mondiale. L’Italia è anche il Paese che prima di altri ha avviato politiche a sostegno delle rinnovabili, partendo con la legge 308 del 1982 che attuava il Piano Energetico Nazionale (Pen) del 1981, seguita poi dal Cip 6 del 1992 che attuava il Pen del 1988. II decreto legislativo 79/99 (decreto Bersani) ha fra i punti qualificanti il sostegno alle rinnovabili. Un ultraventennale impegno giustificato dal fatto che l’Italia è il Paese che più di ogni altro avrebbe bisogno delle rinnovabili. Queste consentono di ridurre la dipendenza dalle importazioni di energia e noi siamo i più dipendenti dall’estero con l’85% del totale dei consumi. Le rinnovabili riducono i consumi di fonti fossili, che causano alte emissioni di C02, e noi siamo i più distanti dagli obiettivi di Kyoto. Purtroppo, siamo anche il Paese dove le politiche sono state meno efficaci. Negli ultimi io anni la produzione elettrica da rinnovabili nuove, escludendo il grande idroelettrico, è sì cresciuta di io miliardi di kWh, ma è solo un terzo dell’aumento che sarebbe stato possibile. Nella direttiva 2001/77/CE, l’Italia aveva indicato come fattibile il raggiungimento del 22% di produzione elettrica da rinnovabili. Nel 2oo6 siamo fermi al16%, lo stesso livello di io anni fa; la Germania nel, frattempo ha superato il suo obiettivo del 12%, partendo da un 5% nel 1997. Sull’eolico abbiamo realizzato 2100 MW, un decimo della Germania. Di impianti fotovoltaici ne abbiamo fatti per 5 MW, contro i isoo della Germania. Il nostro ritardo è paradossale se si considera che l’incentivo economico è il più alto in Europa. Il meccanismo dei certificati verdi, legato in maniera perversa alla vecchia tariffa Cip 6/92, garantisce un prezzo di 125 euro/megawattora, da aggiungersi all’alto prezzo all’ingrosso dell’elettricità in Italia di circa 70 euro, per un totale di quasi 20o euro/megawattora: nessuno in Europa ha simili prezzi e in Germania, quello che più ha costruito, non supera gli 85 curo. Ne risulta che i problemi non sono tanto di tipo economico, quanto amministrativo. L’ostacolo in Italia è quello dei ritardi locali. Nonostante il sostegno a parole, gli impianti a rinnovabili non sono autorizzati, perché spesso deturpano il paesaggio, come nel caso delle pale eoliche. Il tutto poi viene complicato da problemi di allacciamento alle reti elettriche. È meglio che l’Italia, prima di impegnarsi su ambiziosi obiettivi, cerchi di fare cose molto semplici e concrete, partendo dal rendere più semplice le autorizzazioni di comuni, province e regioni. Altrimenti, ci ritroveremo fra dieci anni obbligati a comprare energia elettrica da fonti rinnovabili dalla Germania, come stiamo già facendo per i permessi di emissione di C02. _____________________________________________________ Il FOglio 6 mar. ’07 I DODICI CORSI UNIVERSITARI PIÙ RIDICOLMENTE PROGRESSISTI D'AMERICA Roma. "Per la destra americana il politicamente corretto è una pacchia", scriveva nel 1993 il critico d'arte Robert Hughes. Lui, clintoniano d'acciaio, con "La cultura del piagnisteo" (Adelphi), racconta spietatamente come quell’ingombrante "cadavere del liberalismo degli anni Sessanta" sia riuscito ad appestare l’atmosfera culturale e accademica americana. ll suo testimone lo raccoglie ogni anno la Young America's Foundation, importante istituzione conservatrice con sede a Herndon, in Virginia, che dal 1995 compila la sua "sporca dozzina", ovvero i dodici corsi universitari più politicamente corretti e bizzarramente ridicoli d'America. Dodici esempi, ha detto il portavoce della Young America's Foundation, Jason Mattera, nel presentare i prescelti per l’anno accademico 200fr2007, di quanto "i professori abbiano tuttora l’ossessione di dividere le persone in base al colore della pelle, della sessualità, del genere", e di come sia diffusa, nonostante tutto, "una forte ammirazione per Karl Marx". Quest'anno il primo posto è toccato all’Occidental College di Los Angeles con l’imperdiblle corso sul fallo, grazie al quale gli studenti possono approfondire "le relazioni tra fallo e pene, il significato del fallo, il fallologocentrismo, il Fallo lesbico, il fallo ebreo, il fallo latino e le relazioni tra fallo e feticismo". A ruota l’Università di California (sempre a Los Angeles) che propone dagli anni Novanta un corso sulla "omomusicologia", nel quale si esplora come "la differenza sessuale e l’identità di genere complessa nella musica e tra i musicisti" abbiano influito sulla produzione musicale. L’Amherst College del Massachusetts si chiede seriamente, e seriamente ne dibatte in un corso: "Marx merita un'altra occasione?", e chiama a discutere del perché e percome Lénin, Stalin e Pol Pot abbiano mal applicato i principi marxisti. L’adulterio nella letteratura contemporanea è il tema del quarto classificato. Nulla d'1 male, se non arrivassero anche qui suggestioni a valanga sugli "approcci critici che collocano l’adulterio nel contesto estetico, sociale e culturale", con particolare riguardo all’analisi marxista della famiglia" e al "lavoro femminista nella costruzione del genere". AL quinto posto, riecco il prolifico Occidental College, con un corso sulla "blackness" (neritudine? Negritudine è termine politicamente scorrettissimo, dopo che per un po' pareva essere stato riabilitato). E allora via con le sezioni su "new lilaclmess", "critical blackness," "post-blackness," e "unforgivable blackness", per finire con il "feminist new black mari". AL Mount Holyoke College del Massachusetts replicano con un corso, settimo nella sporca dozzina, dedicato alla "whiteness" ("l’essere bianchi"), ovvero "l’altra faccia del razzismo". A ruota l’Università del Michigan, con un corso sul "femminismo delle native americane", ovvero su come (sul "se" evidentemente non si nutrono dubbi) si è sviluppato il "pensiero femminista" tra le indiane d'America. Nella Cornell University, nello stata di New York, si ritiene urgente sondare "l’emergere del cyberfemminismo nella teoria e nell’arte in contesti di femminismo/ postfemmúiismo e gli sviluppi tecnologici accelerati degli ultimi trent'anni del secolo trascorso". E a chiudere la lista della Young America's Foundation c'è il corso apparecchiato dallo Swarthmore College, in Pennsylvania, su come "decostruire il terrorismo" e costruire "procedure nonviolente per combatterlo". E dire che, nel 1993, Hughes pronosticava che "le acque p. c." si sarebbero "presto ritirate". (nic.tii.) _____________________________________________________ Il Sole24Ore 7 mar. ’07 KEPLERO ERA UN LADRO E DERUBÒ IL MAESTRO Il famoso fisico sottrasse dallo studio dell’astronomo Tycho Brahe, morente, gli appunti di 20 anni di scoperte e li fece suoi ANNALISA BIANCHI Praga, ottobre 1601. Nel castello di Benatky in cima alla collina, la salma del nobile Tycho Brahe, 45 anni, danese, è avvolta in un drappo di velluto scuro con lo stemma di famiglia. Mentre una piccola folla si alterna nell’ultimo saluto all’astronomo di corte e nelle condoglianze alla vedova, il suo assistente trafuga dallo studio le carte in cui lo; scienziato ha scritto i risultati di vent'anni di osservazioni del cielo. II ladro ha solo trent'anni, fino a due anni prima insegnava matematica a Graz e arrotondava facendo oroscopi, si chiama Johannes Keplero. Un nome che sarebbe rimasto scolpito a caratteri indelebili nella storia dell’umanità. Brahe l’aveva assunto sperando che il giovane professore riuscisse a dimostrare matematicamente la validità della sua ipotesi cosmologica, un compromesso fra quella tolemaica geocentrica e quella copernicana eliocentrica. Brahe, che muore otto anni prima che Galileo costruisca il primo telescopio, è il più grande astronomo sperimentale del mondo dopo il greco Ipparco, e autore di un catalogo di oltre mille stelle fisse. Ha sintetizzato una vita passata a scrutare la volta celeste in un modello nel quale il Sole e la Luna ruotano intorno alla Terra, ferma al centro dell’universo come sosteneva Tolomeo, mentre Mercurio Venere Marte Giove e Satumo si muovono atorno al Sole come diceva Copemico. II furto di quegli appunti sarà l’inizio di una nuova fase di vita che porterà Keplero a formulare le tre leggi che portano il suo nome e a godere di una fama eterna. Ed è il finale della sorprendente biografia di Francesco Ongaro "L’uomo che cambiò i cieli" (Cairo Editore), la vita di Tycho Brahe raccontata da Jep, il suo nano giullare. Un personaggio controverso, Tycho, studioso infaticabile e arrogante, generoso ma anche dispotico. Che potè godere di grandi privilegi per grazia del re danese Federico II, ma che fu poi privato perfino di un tetto dal successore. Onorato e ammirato, ma anche odiato. Quando, tre secoli dopo, i suoi resti furono riesumati, tracce consistenti di mercurio hanno suggerito che Brahe poteva essere stato avvelenato. Per conto di qualche collega invidioso della benevolenza del re, o di qualche servo vendicativo: Tycho del resto sa essere stravagante fino alla spietatezza. Si tiene per esempio un nano giullare sotto il tavolo, che mangia, come farebbe un cane, i suoi avanzi durante i banchetti e diverte i commensali raccontando storie fantastiche. Ma come un cane, Jep, povero storpio senza famiglia, ama e teme il suo padrone-benefattore, gli è fedele anche oltre la morte. È lui che nel libro ci racconta la sua storia. Tycho lo prende a servizio quando costruisce Uraniborg, il più grande osservatorio mai esistito prima, su Hven, l’isola in mezzo al mare fra Danimarca e Svezia che il re gli regala, terre e contadini compresi. Perfeziona strumenti già esistenti, perché sa che le tavole astronomiche in uso sono scorrette: se ne rende conto misurando una congiunzione Giove-Saturno, quando ha solo 17 anni. Calcola il movimento del Sole, si concentra su Marte, che ha un'orbita eccentrica. Trasferendo così l’astronomia dal mondo della geometria a quello della fisica: lui non ipotizza a priori, lui prima osserva. Come non fecero mai nemmeno Copernìco, che non vide nulla di nuovo sopra di noi, né Keplero, che tra l’altro ci vedeva male fin da piccolo. Lui accumula informazioni che altri, dopo di lui, utilizzeranno pienamente. Scopre con esattezza la durata dell’anno terrestre, al punto da rendere necessaria la riforma del calendario. Stabilisce con precisione mai raggiunta prima elementi di astronomia che ci vorrebbe un manuale per spiegare cosa sono, basti qui sapere che sono i fondamenti dell’astrofisica modema: l’obliquità dell’eclittica, l’eccentricità dell’orbita terrestre, l’inclinazione del piano dell’orbita lunare, la retrogradazione dei nodi e così via. Scardina una certezza plurisecolare: le sfere cristalline tolemaiche dentro cui si muovono ì pianeti non esistono. Le comete sono corpi celesti e non sublunari come si pensa dai tempi di Aristotele: si trovano oltre l’atmosfera. E dunque l’universo non è fisso e immutabile. Lui lo sa, perché ha visto una nuova stella, che prima non c'era, a nord-ovest di Cassiopea. La descrive in "De nova stella" l’anno dopo, 1573. Coniando un termine, "nova", che torna quattro secoli dopo, quando chiameremo novae e supenovae le stelle che all’improvviso aumentano a dismisura la propria luminosità. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 3 mar. ’07 CURRICULUM ONLINE VERSIONE EURO Emilio Bonicelli BOLOGNA ALmaLaurea fa scuola in Europa. Dopo 16 anni di vita, il Consorzio = che collega 49 università italiane, offre al mercato del lavoro 85omila curriculum vitae e compie un'analisi sistematica della condizione occupazionale dei laureati - si prepara a compiere un salto straordinario. Riprodurre lo stesso modello tra gli atenei dei Paesi dell’Unione Europea. «Le prospettive di sviluppo verso Euro AlmaLaurea sono solide e significative», afferma il presidente del Consorzio, Fabio Roversi Monaco. Una prima fase sperimentale si è conclusa con successo. Il progetto, finanziato nell’ambito del programma europeo eTen, ha consentito di incrociare domanda e offerta di lavoro su scala europea mettendo in rete curriculum vitae di ALmaLaurea e delle università di Budapest, Varsavia, Parigi, Maastricht. «L’interesse suscitato è notevole, perché al mondo non esiste nulla che sia paragonabile a quanto ALmaLaurea realizza nel nostro Paese», aggiunge Roversi Monaco. Compiuto il primo passo ora servono risorse adeguate e un paziente lavoro di raccordo per superare la "gelosia" con cui i singoli atenei custodiscono i propri dati. EuroAlmaLaurea, una volta a regime favorirebbe la mobilità dei giovani sul mercato del lavoro comunitario, consentendo «un'adeguata valorizzazione del capitale umano oltre i confini nazionali», aggiunge,Andrea Cammelli, direttore di AImaLaurea, che ha la sede centrale :nel capoluogo emiliano. ` Roversi Monaco e Cammelli parlano a Bologna in apertura ' del convegno «Dall’università al lavoro in Italia e in Europa», dove oggi verrà presentata il IX Rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati. Sono presenti az rettori di università straniere a testimonianza dell’interesse per l’espansione oltre i confini nazionali di questa modalità di rapporto dei laureati con il mondo del lavoro. Tra gli altri, Georg Winckler, presidente dell’associazione dei rettori europei e rettore dell’Università di Vienna. «Le università devono avere più responsabilità verso i laureati e domandarsi se i corsi di studio offerti siano soddisfacenti per gli studenti e adeguatamente orientati al mercato del lavoro - afferma Winckler - Un'esperienza come quella di AlmaLaurea ci aiuta in tale direzione. Proporrò l’adesione dell’Università di Vienna a questa banca dati così ricca di informazioni. Essere in rete in Europa favorirà anche una giusta concorrenza tra i diversi atenei che potranno mettere a confronto le performance dei propri laureati, una volta entrati sul mercato del lavoro, con quelle ottenute dai giovani usciti dalle altre università». Il confronto internazionale sarà utile anche per il sistema produttivo nazionale dove, secondo i ricercatori di ALmaLaurea, i laureati non sempre trovano adeguata valorizzazione. Per Francesco Ferrante, docente all’Università di Cassino e relatore al convegno, «c'è un segnale preoccupante. Nei Paesi Ocse la quota media di laureati nel mondo produttivo è circa del 16%, mentre in Italia si scende al io% della forza lavoro. Tra le piccole imprese nazionali la percentuale di laureati tra i nuovi assunti si ferma addirittura al4,4 per cento. Questa carenza di personale qualificato non favorisce certo la competitività». L’ITALIA CHE FA SCUOLA Un progetto finanziato da Bruxelles per incrociare domanda e offerta - Il modello è il consorzio creato tra i 49 atenei: in rete 850mila profili di studenti _____________________________________________________ Il Mattino 6 mar. ’07 BREVETTO SARDO MIGLIORA L’ESTRAZIONE DA RIFIUTI INFORMATICI Personal e stampanti nuova miiiiera d'oro STEFANO PISANI Scoperta una nuova miniera d'oro. Non si trova sottoterra, ma nei telefonini, nei computer e nelle stampanti. E alcuni ricercatori dell’Università di Cagliari hanno trovata il modo di estrarlo senza mettere a repentaglio salute umana e ambiente. «Ricavare l’oro e il rame dai rifiuti elettronici non è una novità - ha spiegato Paola Deplano, docente al Dipartimento di Chimica Inorganica ed Analitica dell’Università di Cagliari, che ha condotto lo studio - ma noi siamo riusciti a creare un nuovo reagente che promette di estrarre metalli nobili in modo ecologico ed economico». Un metallo nobile è quello che non si scioglie quando viene attaccato da un acido corrosivo, e che riesce a restare integro anche sotto l’azione del tempo e degli agenti atmosferici. L’oro è uno di questi, ed è utilizzato come conduttore in molte parti elettroniche di computer e 'altre apparecchiature. A contenerlo sono soprattutto le schede dei computer, ma anche i cellulari, con le Sim card e le cartucce della stampante serbano un buon quantitativo del metallo prezioso. Il processo messo a punto dagli scienziati cagliaritani impiega un reagente dal nome complesso, ditiossamide ciclica con iodio, ma funziona in modo semplice . 1 componenti elettronici da cui ricavare oro e rame vengono prima messi in contatto con acido cloridrico che scioglie i metalli non nobili. Si passa poi a una soluzione di ammoniaca e acqua ossigenata - che permette di isolare il rame - e infine si arriva alla soluzione del reagente e acetone. Alla fine di questo processo si ritroveranno in sospensione le particelle d'oro, con una purezza del 95 per cento. «Da una Sim card di circa 400 milligrammi, riusciamo a ricavare circa mezzo milligrammo d'oro» ha spiegato la Deplano. E questo reagente così efficace non è aggressivo né cancerogeno, a differenza di altre sostanze usate in procedimenti simili. Le parti elettroniche del computer che contengono più oro sono senza dubbio, a detta dei ricercatori, i contatti esposti - quelli, per intenderci, dove si infilano gli spinotti - che anche a occhio nudo rivelano la presenza dell’oro, oltre alle schede della memoria Ram e del modem. Anche l’attacco del carica batteria di un cellulare è una bella miniera e, a sorpresa, lo è anche la linguetta di plastica che strappiamo e che gettiamo via prima di installare la cartuccia della stampante. «Quella è senza dubbio la fonte d'oro più ricca. Ci sono circa 5 milligrammi dì oro per 350 grammi di plastica. E anche 125 milligrammi di rame» ha infatti rivelato la studiosa, precisando inoltre che, mediamente, da una scheda elettronica del peso di 20 grammi si ottengono circa 10 milligrammi di oro, e in generale almeno il75 per cento di tutto l’oro contenuto. A prima vista si tratta di cifre davvero esigue. Che però possano diventare importanti se si considera che ogni anno solo in Europa vengono smaltiti otto milioni di rifiuti elettronici di vario genere. Inoltre la scoperta messa a punto dai ricercatori cagliaritani offre anche una soluzione ecologica per lo smaltimento di questi prodotti che; attualmente, vengono inviati sotto forma di donazioni in Africa oppure in immense discariche indiane e cinesi. Il metallo prezioso abbonda nei componenti elettronici Messa a punto procedura più ecologica e redditizia Secondo l’Onu, ogni anno nel mondo vengono smaltiti dai 20 ai 50 milioni di tonnellate di computer, cellulari e altri strumenti In Europa ogni anno vengono prodotti otto milioni di tonnellate di rifiuti tecnologici La maggior parte dei rifiuti elettronici finisce in India e in Cina, e una parte, sotto forma di "aiuti umanitari" anche in Africa DISCARICHE E AFFARI Discariche e rifiuti: una problematica che interessa l’intero pianeta. Ma da tempo anche un enorme potenziale business, specie per quanto riguarda il riciclo di computer e apparecchiature elettroniche che armai si accumulano ovunque.. ================================================= _____________________________________________________ La Stampa 10 mar. ’07 IL TRIBUNALE: PAGATE GLI SPECIALIZZANDI, COSTERÀ UN MILIARDO Rinvia oggi rinvia domani, per pagare c'è sempre tempo. Almeno finché il conto non arriva nella versione sottoscritta da un giudice. Nei giorni scorsi il Tribunale di Roma ha condannato «la Presidenza del Consiglio dei ministri, il ministero dell’Istruzione e della Ricerca scientifica, il ministero della Salute e il ministero dell’Economia, in solido, al pagamento in favore degli attori delle somme dovute a titolo di adeguata remunerazione, oltre interessi al tasso legale decorrenti come indicato...». All’ultima riga il totale: circa 34 milioni. IN CORSIA GRATIS Denaro dovuto a 750 medici che si sono specializzati negli ospedali italiani tra il 1983 e il 1991. Hanno lavorato in corsia turno su turno per imparare sul campo i segreti di una branca della medicina. Aspiranti cardiologi, radiologi, pediatri, otorini, pneomologi che hanno lavorato - questo è il punto - a titolo gratuito. Nonostante la direttiva (28 gennaio 1982, n. 76) con cui la Comunità Europea ha stabilito che la specializzazione merita «adeguata remunerazione», specificando che bisognava pagare sin dal 1982. Al ritmo dì elaborazione tipico della burocrazia italiana, il legislatore italiano accorda la borsa di studio annuale agli specializzandi nel '91: 21,5 milioni l’anno (all’epoca, in lire). E il pregresso? Non esageriamo: «La borsa sarà corrisposta a partire dall’anno accademico 1991192», decise il ministero. Chi s'è specializzato prima pazienza. Alzata di spalle: ormai sono medici, sì metteranno a questionare per quattro soldi? LA CORTE EUROPEA E invece chi mette insieme le carte, chi si appassiona alla questione di principio, c'è sempre. Ogni tentativo di mediazione sembra inutile nonostante nel 1999 e nel 2000, con due sentenze; si faccia sentire addirittura la Corte di Giustizia Europea. Che sollecita lo Stato a saldare il debito con gli specializzandi del periodo in questione. La risposta? Ancora orecchie da mercante, forse anche contando che nell’esercito dei precari di Stato questa è una truppa anomala. Specializzandi 20 anni fa, oggi quei medici saranno professionisti affermati, camici bianchi che godono della gloria per la quale hanno regalato al servizio sanitario nazionale cinque o sei anni di lavoro gratuito. Appagati, concentrati su ben altro che non lo stipendio - mai ricevuto - quand'erano studenti. Calcalo sbagliato. Purtroppo per le casse dello Stato in questo specifico caso ci sono in circolazione 20 mila questioni di principio (contando solo gli ex specializzandi che si sono mossi per ottenere ii risarcimento). Se in 750 hanno attenuto 34 milioni (circa 11 mila euro per ogni anno di specializzazivne più gli interessi legali), 45 mila euro a testa, è facile immaginare cosa accadrà quando arriveranno a sentenza i procedimenti avviati dagli altri 19.300 «ricorrenti». Il conto potrebbe raggiungere i novecento milioni. E meno male che in questo periodo tra surplus e lotta all’evasione lo Stato incassa bene. MEDIAZIONE FALLITA Nel 2003 il senatore della Margherita Roberto Manzivne ha provato a mediare con una proposta di legge. Aveva anche trovato l’accordo con tutti: gli ex specializzandi erano pronti ad accontentarsi di 7000 euro (invece di 11 mila) per ogni anno di corso, erano disposti ad accettare metà della cifra come credito di imposta e - perfino - a rateizzare il pagamento. Manzione presenta la proposta, tutti applaudono (opposizione compresa), per qualche giorno sembra cosa fatta, poi una settimana tira l’altra e la questione specializzandi torna nel cassetto dal quale l’aveva pescata il senatore. Altri tre anni e siamo nel 2006: prima a Messina, poi a Roma cominciano a fioccare la sentenze. I precari sono precari, lo Stato ha torto. Tocca pagare. Nei giorni scorsi il governo ha definito iI nuovo contratto per gli specializzandi: riceveranno circa 22 mila euro l’anno (lordi), più una quota variabile (un altro 15%). Grande impegno sul fronte normativo, salutato come «una svolta» da più voci della politica. Dell’arretrato, naturalmente, non parla volentieri nessuna. ______________________________________________ L’unione Sarda 7 mar. ’07 La strada in salita dei giovani laureati LE CARENZE DELLE SCUOLE DI SPECIALIZZAZIONE In questi giorni i giovani laureati che frequentano le Scuole di Specializzazione per diventare Oculisti, Neurologi, Dermatologi, etc., denunciano le numerose carenze del settore e le inadempienze delle Istituzioni nei loro confronti. Da un lato chiedono una migliore preparazione professionale, e dall’altro vogliono che sia riconosciuto il servizio che prestano dentro le strutture sanitarie, chiedendo un adeguato trattamento economico. Sono richieste sacrosante, che vengono portate avanti da anni e a cui l’Università e la Regione è tempo che diano risposte soddisfacenti. Vi sono due novità importanti che aiutano in questa direzione. La prima è il riordino delle Scuole di Specializzazione stabilito dal Ministero, che porterà a una riduzione del loro numero nei diversi atenei (a Cagliari sono attualmente presenti oltre 40 Scuole). Ciò consentirà un migliore utilizzo delle risorse, concentrate su un numero ridotto di discipline, e, si spera, un normale inquadramento dell’attività didattica prestata dai docenti, che attualmente non è riconosciuta. Il tutto non potrà che migliorare la qualità della formazione, come rivendicato dagli specializzandi. L’altra importante novità è rappresentata dall’approvazione del Piano Sanitario Regionale, è cioè di uno strumento che può consentire di introdurre linee di programmazione in tema di Governo della Sanità anche nel settore delle Scuole di Specializzazione. In questo senso l’Università sarà chiamata, responsabilmente, a rinunciare al monopolio che attualmente detiene sulla gestione delle Scuole. Non è una novità per nessuno che i Direttori delle Scuole di fatto decidono in tutto e per tutto sull’attività degli specializzandi, i quali prestano la loro opera spesso nei reparti dei Direttori, fuori dalla pianta organica ma in realtà impegnati nella routine giornaliera, talvolta con carichi di lavoro tali da lasciare poco spazio all’aggiornamento professionale e alla stessa frequenza delle lezioni. Capita anche che il futuro specialista non cambi mai reparto in 5-6 anni, e che quindi apprenda da un solo “maestro”. Il che è in ogni caso un limite, come chiunque può capire. Sono situazioni ormai anacronistiche, che non giovano ad una buona organizzazione dell’assistenza, né garantiscono un efficace processo formativo dello specializzando. Occorre pertanto buona volontà e ragionevolezza per metter mano a una revisione di questi meccanismi. Università e Regioni devono cogliere questo momento di riorganizzazione dell’assetto delle Scuole per definire obiettivi condivisi per i quali lo specializzando non sia proprietà di nessuno e segua invece un percorso formativo chiaro, completo e altamente professionalizzante, attingendo a tutte le competenze disponibili, non solo nelle cliniche universitarie, ma anche negli ospedali e nel territorio. Si può fare, basta volerlo ed essere disposti a qualche rinuncia. Ezio Laconi Università di Cagliari ______________________________________________ Il Sole24Ore 4 Mar. 2007 MARKETING SANITARIO LE RELAZIONI CON IL PUBBLICO La difficile arte di comunicare con i pazienti Manca una formazione mirata - Fattore strategico per favorire la prevenzione e ridurre gli sprechi LA PROPOSTA Fabris (San Raffaele di Milano): "Un'Autorithy indipendente che garantisca l'attendibilità delle notizie e sanzioni chi fa disinformazione" Andrea Carli PAGINA A CURA DI Andrea Carli Potrebbe essere una leva di marketing, un megafono con cui comunicare le iniziative in ambito sanitario e fornire ai pazienti le informazioni di cui hanno bisogno. Potrebbe sì, ma la realtà della "Health communication" racconta un'altra storia. Se il Piano sanitario nazionale per il triennio 2006-2008 definisce la comunicazione come strumento necessario e determinante nell'ambito della prevenzione e della promozione della salute, la strada è ancora lunga. E tutta in salita. Il rilancio di questo asset è un compito che grava soprattutto sulle spalle dei manager, sia nella pubblica amministrazione sia nel privato. Giampaolo Fabris, classe 1938, presidente del corso di laurea in Scienze della comunicazione presso il San Raffaele di Milano, non ricorre a formule diplomatiche: "In tutta l'università italiana - denuncia - non esiste un corso di laurea in comunicazione sanitaria, nemmeno nelle facoltà di medicina. Chi gestisce le strutture ospedaliere proviene spesso dalla politica: non ha alcuna esperienza in questo settore. Primo: la formazione, che deve essere a 360 gradi: dalle Spa alle palestre". La realtà è amara. Tutti i protagonisti della salute hanno considerato la comunicazione come un qualche cosa di superfluo, continua il sociologo che ha anche partecipato a una "tre giorni" a Rapallo organizzata dal Consorzio Portofino Coast su questi temi: in quell'occasione il presidente, Franco Orio, ha anche consegnato al professore Umberto Veronesi il primo premio "Comunicare la salute". Le priorità erano sempre altre. "Con conseguenze devastanti - dice Fabris - sulla qualità della vita dei malati e delle loro famiglie, che soffrono la carenza di informazioni in maniera drammatica": a differenza di quanto è avvenuto in passato, oggi la salute è una variabile dipendente. "Le persone sanno - dice Fabris - che abitudini di vita sane possono prevenire e rallentare il decorso delle malattie. Se prima la salute era una delega in bianco al medico, adesso il paziente è un soggetto attivo, che cerca informazioni. Bisogna istituire un'Authority indipendente, che garantisca l'attendibilità delle notizie e sanzioni chi fa disinformazione". Occorre convincere manager e dirigenti ospedalieri ad abbandonare la logica della "Health communication" come spesa evitabile, una sorta di scure che si abbatte su un bilancio già di per sé esiguo: "La strategia di contenimento dei costi - conclude Fabris - non deve travolgere la comunicazione della salute. Che, se corretta e di qualità, può tagliare le spese di gestione delle strutture ospedaliere. Sarei contento se fosse la politica a promuovere nel sistema sanitario una cultura della comunicazione. Temo tuttavia che la sfida ricadrà soprattutto sulle spalle dei privati". Walter Ricciardi, 48 anni, direttore dell'ufficio di Igiene dell'università Cattolica e vicepresidente della neonata Società italiana di medici manager, sa che una buona comunicazione sanitaria ottimizza le performance dell'azienda. Ai camici bianchi non resta che seguire un percorso di formazione ben definito: "Il direttore generale di un ospedale - afferma - crede che per trasmettere le informazioni basti l'Urp (Ufficio relazioni con il pubblico). Guardano troppo all'aspetto tecnologico e poco alla qualità di ciò che viene divulgato". Oggi qualcosa sta cambiando. Non tanto per lungimiranza del management sanitario quanto sotto la spinta di fattori esterni: "L'incalzare dei pazienti e dei media suscita una reazione nei dirigenti". Manca ancora un progetto chiaro; intanto il tempo stringe: "Gli Stati Uniti curano molto la comunicazione della salute; in Europa - ricorda il medico manager - i Paesi Scandinavi sono all'avanguardia. E l'Italia insegue". Una buona comunicazione è in primo luogo una forma di educazione. Giuseppe Fattori, 53 anni, coordinatore della commissione Sanità e salute dell'Associazione comunicazione pubblica, rileva che ogni anno si verificano cinque milioni di morti in Europa per malattie cardiovascolari e 1,8 milioni di decessi per tumore, patologie che scaturiscono da cattivi stili di vita e che pesano sui bilanci delle sanità pubbliche in tutta Europa. Ma la comunicazione che fa prevenzione, avverte Fattori, deve rimanere estranea alle logiche di risparmio. È un asset strategico, in linea con quella che Joseph Stiglitz, 64 anni, premio Nobel per l'economia 2001 e docente alla Columbia university, con un passo in avanti rispetto alle teorie macroeconomiche classiche definisce "economia dell'informazione". Il mondo della salute è anche un immenso calderone in cui interagiscono diversi portatori di interessi. Con l'evoluzione delle terapie e delle tecnologie di comunicazione, il nucleo primario medico-paziente si dirama. Entrano in gioco aziende farmaceutiche, organi di informazione di massa, farmacisti, autorità sanitarie statali e internazionali. Ciascuno con una propria strategia di comunicazione. Risultato: il messaggio è sempre più confuso. I medici preservano il loro sapere da ingerenze esterne; i produttori di medicinali, almeno nella Ue, non possono informare il paziente su farmaci che non siano da banco. Aristotele diceva che la conoscenza consiste nel chiedersi il perché delle cose. I malati lo hanno capito. andrea.carli@ilsole24ore.com Foto: AP Foto: La forza del sorriso. Il medico statunitense Hunter "Patch" Adams ideatore della "clownterapia" che fa leva sul buon umore per favorire la guarigione _____________________________________________________ Il Sole24Ore 11 mar. ’07 L’AUTHORITY DETTA LE REGOLE PER GLI SCIENZIATI Autorizzazione generale: dal 1 aprile efficaci per medici, laboratori e enti di ricerca Antonello Cherchi ROMA Dal 1 aprile l’uso dei dati genetici dovrà tener conto delle nuove regole messe a punto dal Garante della privacy. Regole che saranno tra breve pubblicate sulla «Gazzetta Ufficiale» sotto forma di autorizzazione generale - si tratta dell’ottava; le altre riguardano il trattamento di dati sensibili in vari ambiti, dal lavoro alla sanità alle libere professioni - e avranno validità fino al 31 dicembre 2008. Si chiude in questo modo una partita iniziata nel 1999, quando il decreto legislativo 135 prescrisse, all’articolo y (poi trasfuso nell’articolo 90 del Codice della privacy), che i dati genetici, da chiunque utilizzati, potevano essere trattati solo secondo le indicazioni impartite dal Garante con un'autorizzazione ad hoc, concordata con il ministero della Salute. La complessità della materia ha dilatato i tempi e si è arrivati fino a oggi. Nel frattempo si è supplito con le regole prescritte dal Garante nell’autorizzazione 2/2002 relativa al trattamento dei dati sensibili in ambito sanitario. Proprio perché si cambia registro dopo tanti anni di attesa e poiché la partita è assai delicata - i dati genetici rivestono un ruolo sempre più importante in ambito non solo scientifico e medico (si vedano gli articoli sopra)- l’autorizzazione generale, pur diventando operativa il 1 aprile, concede comunque alcuni mesi a tutti quei soggetti che intendono continuare a usare le informazioni genetiche ma al momento non sono strettamente in linea con le nuove prescrizioni del Garante. Tali soggetti potranno continuare a operare, ma dovranno tassativamente adeguarsi alle indicazioni dell’autorizzazione entro il r ° settembre prossimo. Ogni trattamento effettuato al di fuori dei confini delineati dall’autorizzazione è illecito. La filosofia del provvedimento del Garante è - in linea con i principi di pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, tanto più quelli sensibili - di trattare le informazioni genetiche, laddove possibile, in forma anonima, così da ridurre al minimo i rischi di usi "distorti". In ogni caso, l’utilizzo di materiale genetico va sempre accompagnato da speciali misure di sicurezza (accesso ai locali controllato, ricorso a tecniche di cifratura, scambio di dati per via informatica solo attraverso la posta elettronica certificata) ed è possibile solo dietro adeguata informativa e consenso scritto dell’interessato. Quando il materiale genetico è prelevato per finalità di ricongiungimento familiare-si tratta di un aspetto innovativo, legato alla legislazione sull’immigrazione: si pensi a persone che non possono fornire documenti ufficiali sui vincoli di consanguineità - l’interessato, oltre al consenso, deve anche dichiarare preventivamente l’intenzione di volere conoscere eventuali risultati inattesi dell’esame (si pensi a una patologia). Nel caso di nascituri, il consenso per i test genetici è fornito dalla mamma e se l’esame può rivelare l’insorgenza di patologie del padre, deve essere acquisito anche il "sì" al trattamento di quest'ultimo. L’opinione del minore, laddove l’età lo rende possibile, è comunque presa in considerazione. I soggetti interessati. L’autorizzazione generale riguarda: gli esercenti le professioni sanitarie (in particolare i genetisti medici); gli organismi sanitari pubblici e privati; i laboratori di genetica medica; gli enti e gli istituti di ricerca; gli psicologi, i consulenti tecnici e loro assistenti (nell’ambito di interventi pluri disciplinari di consulenza genetica); i farmacisti; i difensori; i consulenti tecnici egli investigatori privati autorizzati (ai soli fini di investigazioni difensive); gli organismi internazionali riconosciuti dal ministero degli Esteri (ai fini di ricongiungimento familiare) MODALITÀ DI RACCOLTA Devono essere predisposte misure specifiche per accertare univocamente l’identità del soggetto a cui viene prelevato il materiale genetico e i dati identificativi devono essere tenuti separati; già al momento della raccolta, da quelli genetici Comunicazione e diffusione a I dati genetici non possono essere comunicati e diffusi e i campioni biologici non possono essere messi a disposizione di terzi (salvo eccezioni) Giustizia Per il trattamento dei dati genetici in ambito giudiziario ' sarà predisposta un'autorizzazione ad hoc PERIODO TRANSITORIO Chi vuole continuare a operare seguendo le nuove prescrizioni ha tempo per adeguarsi fino al 1 settembre ______________________________________________ L'Unione Sarda 9 Mar. 2007 SANITÀ, LA MAXI-SANZIONE DEL GOVERNO ALLA SARDEGNA "Troppe spese, 54 milioni in meno". La Regione: è tutto a posto Sulle spalle della Regione pende una sanzione da record, oltre 54 milioni di euro. L'assessorato regionale alla Sanità non ha centrato nel 2006 l'obiettivo di contenimento della spesa per i farmaci convenzionati e non convenzionati, uno sforamento - secondo il ministero del Tesoro - di circa 22 milioni e mezzo di euro. Dieci giorni fa, uno dei dirigenti del ministero guidato da Tommaso Padoa Schioppa ha informato la Regione della pesante, probabile riduzione dei contributi per il Servizio sanitario (appunto 54 milioni) se l'esecutivo non avesse provveduto entro il 28 febbraio scorso, con un atto formale, di "misure dirette a conseguire un contenimento della spesa", si legge nella e-mail del ministero, "pari a 22,421 milioni di euro". Dalla Regione c'è la certezza, grazie alla delibera del 28 febbraio, ultimo giorno utile, di aver adempiuto alle indicazioni del Governo. Soprattutto, secondo l'assessorato alla Sanità, col provvedimento legato al'uso dei farmaci "equivalenti", dal costo inferiore rispetto a quelli più pubblicizzati. Ma il funzionario incaricato del controllo sulla spesa sanitaria della Sardegna, Francesco Massicci, risponde: "Non ne so nulla". Così come i suoi collaboratori: "Non siamo a conoscenza dei provvedimenti adottati dalla Regione Sardegna". Se al Tesoro confermano l'abituale cautela e riservatezza che caratterizza il lavoro degli alti dirigenti, neanche il sottosegretario sardo, Antonangelo Casula, contribuisce a risolvere il giallo: "Ieri ho partecipato a una riunione legata alle spese sanitarie delle regioni, ma non si è parlato del caso Sardegna. Ritengo, comunque, che la nostra Regione sia a posto su questo capitolo per gli anni 2004 e 2005". Già, ma il riferimento del ministero dell'Economia è chiaro, perlomeno sulle date: in caso di mancato adempimento di misure per realizzare il contenimento della spesa, i contributi dallo Stato alla Regione per il 2006 saranno drasticamente ridotti di oltre 50 miliardi di vecchie lire. IL RICHIAMO. L'intesa Stato-Regione che tratta la spesa farmaceutica è del 23 marzo 2005. Scrive il ministero del Tesoro: "Le misure adottate dalla Regione non sono state ritenute congrue a realizzare l'obiettivo di contenimento della spesa a carico dell'amministrazione regionale. Pertanto, si resta in attesa dell'adozione delle misure dirette a conseguire un contenimento della spesa pari a 22.421 milioni". Poi l'avvertimento, in caso di obiettivo non rispettato. Anche nel caso della spesa farmaceutica non convenzionata, il Tesoro mostra il cartellino giallo: "Dall'esame del documento inviato dalla Regione, è emerso che lo stesso risulta carente e pertanto deve essere integrato con interventi diretti al controllo dei farmaci innovativi, documento da adottare con provvedimento formale della Regione entro il 28 febbraio 2007". LO SCENARIO. Tecnicamente, il lavoro chiuso all'ultimo minuto dalla Giunta regionale sarebbe ancora al vaglio dei tecnici del ministero dell'Economia. "L'utilizzo dei farmaci equivalenti", afferma l'assessore Nerina Dirindin, "favorisce risparmi per la collettività e, a parità di assistenza garantita, consentirà alla Sardegna di evitare l'imposizione dei ticket sui farmaci". Nella delibera del 28 febbraio, il presidente Renato Soru ha dato mandato al suo assessore alla Sanità di "adottare tutti i provvedimenti necessari per il sistematico monitoraggio sugli effetti degli interventi avviati" per le misure di contenimento della spesa a carico del Sistema sanitario regionale. Ma sulla corsa della Giunta pende l'avvertimento del Tesoro: "Qualora il Piano di contenimento della spesa farmaceutica venisse adottato ma non risultasse idoneo ai fini della procedura prevista, le somme riconosciute quale contributo dallo Stato al finanziamento del Sistema sanitario saranno ridotte, per l'anno 2006, di 27.416 milioni". Un macigno. La stessa cifra, come già ricordato, anche per le infrazioni sul piano di spesa per i farmaci convenzionati, quelli cioè interamente a carico della Regione. "La Regione", dice l'assessore Dirindin, "ha una spesa farmaceutica superiore a quella prevista dalla normativa nazionale, nonostante i nostri interventi negli ultimi due anni ". Una politica di forti riduzioni della spesa che, soprattutto nelle ultime settimane, ha visto i medici sardi "all'opposizione". Ora il vaglio del Tesoro, presto il giudizio finale. E NRICO PILIA ______________________________________________ Il Giornale 8 Mar. 2007 LUNGODEGENZE, ARRIVA LA STANGATA L'ULTIMA NOVITÀ DEL PATTO PER IL RISANAMENTO DELLA SANITÀ Soltanto gli anziani con un reddito inferiore a 13mila euro gratis nelle residenze assistite Anche i nonnetti non autosufficienti contribuiranno a pagare la sanità regionale. È l'ultima novità del "Patto per il risanamento, lo sviluppo il riequilibrio e la modernizzazione della sanità del Lazio" e riguarda proprio la retta giornaliera nelle residenze sanitarie assistite (Rsa) che l'anziano, ricoverato nella struttura in questione, dovrà versare, in base al suo reddito, fino a un massimo del 50 per cento dell'intero importo. Il tutto in barba alle cosiddette politiche sociali della giunta Marrazzo. Infatti le Rsa non sono altro che ospedali per il ricovero e la cura di chi non è più completamente autosufficiente e, tuttavia, sono parte integrante dell'offerta sanitaria che di qui a breve verrà elargita a pagamento per certune fasce di reddito. E non solo quelle agiate. Infatti l'anziano che verrà ricoverato in una Rsa pagherà la quota di partecipazione alla degenza a partire da un reddito equivalente ai 13mila euro fino ai 25mila, contribuendo fino al 40 per cento del costo complessivo mentre il restante 60 per cento sarà a carico del fondo sanitario. Se invece il nonnetto vanterà un reddito superiore ai 25mila euro annui gli spetterà di pagare ben il 50 per cento della spesa. Per quei pensionati sociali e per quanti beneficiano invece di un reddito inferiore ai 13mila, ci penserà il comune di residenza a versare il dovuto. E per una cifra pari al 40 per cento. Vale a dire meno rispetto a un anziano di reddito superiore a 25mila euro. Una contraddizione che ha dell'incredibile ma così è scritto nero su bianco nell'atto di giunta n. 98/2007. Va sottolineato peraltro che questa previsione è considerata "attuabile in via sperimentale". Quindi potrebbe essere anche ampliata e arricchita di nuovi codicilli vessatori. Fino a oggi difatti tra le Rsa non vengono contemplate le residenze per le terapie di riabilitazione motoria e la lungodegenza, né tanto meno i servizi sanitari di hospice. Bisognerà vedere a regime, e cioè quando verrà conclusa la riduzione dei 3mila posti letto nella capitale, come verranno valutati i parametri di impatto del provvedimento. Intanto quel che è certo è "il bisogno di valutare la spesa sanitaria sociale e familiare così si legge nel testo - per registrare a regime informazioni relative ai bisogni assistenziali e alle condizioni cliniche degli ospiti tali da valutare la congruità delle tariffe adottate rispetto all'effettivo assorbimento delle risorse". Già, chissà quanto sarà l'effettivo costo del progetto. Per adesso la Regione ha messo in conto di destinare 6milioni di euro. Tanto ci sono i cittadini, quelli che la sinistra considera "abbienti", che pagano. ______________________________________________ La Nuova Sardegna 3/3/2007 SANITA’:SPESE ENORMI, RISULTATI INSUFFICIENTI" Il manager dell'Asl 8 Gumirato lancia l'allarme: "La qualità della vita rimane ancora bassa" - Per la Regione è necessario operare nella sanità in una logica di sistema che è lontana dalla realtà attuale la qualità della vita rimane bassa: c'è qualcosa che non va - ha detto Gino Gumirato, il manager dell' Asl 8 - per questo il primo obiettivo dev'essere quello di impiegare le risorse in maniera più appropriata, senza trascurare qualità ed efficacia". Gumirato ha parlato al convegno organizzato ieri mattina dall'Ansdipp, l'Associazione nazionale dei manager del sociale, nella cornice della residenza sanitaria assistita "Monsignor Angioni", a Flumini. "Quando si parla di assistenza - ha esordito il presidente nazionale dell'Ansdipp, Damiano Mantovani - non possiamo prescindere dal ruolo etico degli addetti ai lavori, di coloro che si assumono una precisa responsabilità: avere la consapevolezza di lavorare con gli utenti che, da loro, aspettano delle risposte per un miglioramento della qualità di vita. Per questo uno degli scopi principali della nostra associazione è quello di promuovere e far crescere la cultura dei servizi alla persona, con l'obiettivo di fare sistema". Un assist subito raccolto dal direttore generale del settore Assistenza sociale della Regione, Remo Siza: "Il nuovo Piano sanitario regionale si muove anche in questa direzione, quando pone in risalto la necessità di costruire progetti comuni e fare, appunto, sistema. Si tratta di una strategia basilare, che persegue diversi obiettivi: assicurare la qualità dei servizi forniti, tutelare l'equità d'accesso all'assistenza e le cure appropriate. Non dimentichiamo poi l'importanza che riveste la personalizzazione degli interventi. Appare chiaro che l'obiettivo finale riguarda la riqualificazione della persona". Siza ha posto poi l'accento sugli aspetti peculiari che contraddistinguono il piano sanitario regionale dai provvedimenti legislativi adottati in passato: "Per fare un esempio, fino al 1988 non vi era la distinzione tra anziani autosufficienti e non autosufficienti. In seguito, proprio in base a questa discriminante, si ha l'introduzione delle comunità alloggio e delle case protette, ma dobbiamo attendere il 2001 per la nascita delle residenze sanitarie assistenziali. Sono provvedimenti positivi - ha detto Siza - ma di per sé non costituiscono nell'insieme il "fare sistema", tanto che in alcuni casi le prestazioni fornite da strutture con caratteristiche differenti, si sovrappongono a tal punto che non si nota quasi più la differenza: ecco perché, con questo piano, si vogliono ribadire e rafforzare le peculiarità proprie delle diverse strutture di assistenza". Una situazione complessa, come ha confermato il direttore Generale della Asl 8 Gino Gumirato: "È un momento difficile, inutile negarlo: le preoccupazioni riguardano i contenuti dell'offerta assistenziale, ma anche le risorse. Occorre ripensare il sistema, lo dicono anche i dati. Ad esempio, per quanto riguarda il numero di prestazioni sanitarie annuali, abbiamo una media uguale a quella di una metropoli come Milano, con una punta nel capoluogo di venti prestazioni annue. Ci sono poi realtà come Burcei: qui la media scende a cinque eppure vivono più a lungo, la qualità della vita è nettamente migliore. Per questo - ha detto Gumirato - regole e linee guida vanno riscritte, ma questo non succede nel giro di trenta giorni". Come dire: la strada da percorrere verso una sanità a misura di esigenze umane è ancora lunga. Pablo Sole ______________________________________________ L'Unione Sarda 6 Mar. 2007 SINDACATI, MAULLU AI VERTICI Il coordinamento dei sindacati autonomi dell'università ha nominato Arturo Maullu dell'Ateneo di Cagliari, già segretario generale nazionale della Cisal Università, nuovo Coordinatore nazionale dei Sindacati autonomi dell'Università in sostituzione di Filippo Porcelli. Il Coordinamento dei Sindacati autonomi è quello maggiormente rappresentativo negli atenei. ______________________________________________ Il Giornale di Sardegna 4/3/2007 IN SARDEGNA TROPPI MEDICI MA POCHISSIMI INFERMIERI Troppi medici e pochi infermieri in Sardegna: il dato è stato confermato ieri durante il convegno di inaugurazione dell'anno sanitario organizzato al Teatro Garau di Oristano dalla Federazione regionale degli Ordini dei medici chirurghie odontoiatri, alla presenza dell'a ssesso re della Sanità Nerina Dirindin. Lo sbilanciamento delle forze in campo produce effetti negativi sia sugli operatori che sui pazienti. "Nell'isolaha spiegato il presidente della Federazione degli Ordini Agostino Sussarelluci sono troppi medici sottoccupati, troppi medici precarie troppi medici costretti ad emigrare per poter esercitare la professione". Di contro, il numero degli infermieriè del tutto insufficiente, ha sottolineato il preside della facoltà di Medicina dell'Università di Sassari Giulio Rosati. La soluzione,è quella di una programmazionee di una formazione più attente alle necessità del territorioe degli utenti. ______________________________________________ Il Giornale di Sardegna 4 Mar. 2007 L'ISOLA NON GODE DI BUONA SALUTE La ricerca. Secondo l'Istat l'Isola non gode di buona salute. Ma il 10 per cento degli intervistati è soddisfatto Trascurati e pieni di acciacchi un sardo su tre: sanità malata q Il 17% della popolazione ha tre o più malattie croniche, il 14% ne ha almeno una Malati e non troppo soddisfatti del sistema sanitario. Così una recente indagine dell'Istat, basata su interviste effettuate nel corso del 2005 in tutte le regioni italiane, descrive i sardi e il loro rapporto con la salute e le strutture ospedaliere. I dati non sono molto incoraggianti: un'ampia fetta di intervistati gode di una salute decisamente peggiore rispetto al resto degli abitanti della Penisola. A fare compagnia all'isola però, sono molte regioni del Meridione. Il 9,6% della popolazione dichiara si stare "male o molto male", numeri che accomunano la Sardegna alla Siciliae insieme le mette in testa alle altre regioni del Belpaese in questo primato tutto neg ativo. IN EFFETTI,A DARE una rapida occhiata alle tabelle nelle quali gli isolani elencano tutti i loro acciacchi, non c'è da dargli certo torto. Il 17,4% della popolazione colleziona tre o più malattie croniche, con le qualiè costretto a convivere in pratica per tutta la vita, il 14,4% invece ne ha almeno una. Percentuali decisamente superioria tutte le altre regioni italiane. Una piccola porzione degli intervistati, il 2,6 % ha difficoltà nel movimento, l'1,3 nell'udito, nella parola o nella vista. Anche l'obesità, più diffusa nel Sud Italia,è da tempo una realtà anche in Sardegna: ne soffre un indice pari al 9,4 per cento della popolazione, che sia accompagna al 31,9 in sovrappeso.E come si addice ai malati,i sardi sono anche grandi consumatori di farmaci, anche se in questo primato sono superati da molte altre regioni della Penisola. Una percentuale di 29,2 è costretta ad assumere farmaci quotidianamente, mentre quasi il 50 per cento ne ha consumato nelle due settimane precedenti l'intervista. Ma lo studio rivela anche che tanti sardi tendono purtroppo a trascurare quasi del tutto la propria salute, soprattutto quelli con un'età superiore ai 65 anni, che a rigor di logica dovrebbero effettuare controlli più frequenti. Il 23% dichiara di non avere mai effettuato controlli sulla pressione nel corso di tutta la vita, il 27,9% non siè mai preoccupato del colesteroloe una percentuale quasi simile non tiene sotto controllo la glicemia. Una fetta consistente dei residenti quindi vive tutta la sua esistenza senza preoccuparsi dell'esistenza di malattie importanti e che interessano la maggior parte degli adulti. Ma il punto dolente riguarda la percezione della qualità del servizio sanitario regionale da parte dei sardi: il 28,3% dei sardi dichiara di aver notato un peggioramento nel corso degli ultimi dodici mesi, contro un 10,5 che lo vede invece in miglioramento. Nonostante questo giudizio, l'isola registra il primato del maggior numero di visite, il 29,1% della popolazione siè sottopostoa un controllo di tipo generico nelle quattro settimane precedenti l'intervista, il 63,6 ha effettuato visite specialistiche a pagamento, un primato in tutta Italia. Sono soprattutto le donne a sottoporsi più frequentementea controlli. In questo caso solo l'Umbria riescea tenere testa alla Sardegna, distanziandola di appena un punto. Silvia Casula regione@epoli s.sm 3 Attesa nel Pronto soccorso dell'ospedale Brotzu,a Cagliari _____________________________________________________ Avanti 4 mar. ’07 SANITÀ, PUBBLICO E PRIVATO Una cerca dell’Università Bocconi di Milano Non c'è una correlazione diretta tra la presenza del privato convenzionato in campo sanitario, e la spesa pro-capite complessiva. E quanto sottolinea - scrive il Velino - una ricerca elaborata dal Cergas (Centro ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale) dell’università Bocconi, in collaborazione con il gruppo merceologico sanità di Assolombarda. Presentato la settimana scorsa in occasione di un convegno con il presidente della Lombardia, Roberto Formigoni e il ministro della Sanità Livia Turco, il documento stilato dai ricercatori della Bocconi dà un colpo non indifferente all’acceso dibattito sull’importanza degli attori privati in uno dei settori più delicati della società. E il risultato, condiviso anche dal ministro, secondo i ricercatori è chiaro: "L’ aspetto più critico nel dibattito sul ruolo del privato in sanità non sembra essere la presenza di tali soggetti nel Sistema sanitario regionale, quanto piuttosto la capacità delle Regioni di governare il sistema sanitario nel sue complesso, e il ruolo dei privati in particolare". Così si legge nel teste presentato al convegno, e con le stesse parole si è espressa anche Livia Turco: "Questa ricerca è importante - ha detto il ministro -, perché fa fare un salto in avanti rispetto ai dannosi stereotipi per cui il pubblico sarebbe sole malasanità, e il privato solo ruberie. Soprattutto, ribadisce un concetto importante, che non c'è correlazione tra la spesa sanitaria pubblica pro-capite delle Regioni e l’incidenza della spesa per assistenza convenzionata e accreditata. Il punto è che laddove esiste una buona capacità del governo locale di gestire il sistema, l’integrazione pubblico-privato funziona". Parole che per molti hanno avuto il suono d un complimento al governo lombardo, apripista nel processo di accreditamento e convenzione verso i soggetti privati anche se, a domanda de giornalisti, il ministro lu smentito: "Non ho fatto complimenti a nessuno ha precisato -, ho fatto complimenti alla ricerca perchè ha studiato un fenomeno che prima non era stato studiato, e che come ministero vogliamo approfondire. Era stata istituita una commissione presso l’agenzia del servizio sanitario regionale per studiare le cosiddette sperimentazioni gestionale previste dalla legislazione precedente, questa commissione dovrà completare i suoi lavori e valuteremo i risultati" Il ministro ha comunque sottolineato la necessità di accelerare sul "completamento, da parte di tutte le Regioni che ancora non l’hanno fatto, del processo di accreditamento previsto dalla legge". Dal canto suo, il governatore Formigoni ha commentato la ricerca del Cergas sostenendo che "i dati confermano come sia del tutto superata una visione statalista della sanità, e ribadiscono come una sana e virtuosa partnership tra pubblico e privato possa sfruttare appieno le potenzialità presenti nel settore sanitario, e può abbassare i costi. Si conferma, in questo modo, anche la validità del modello lombardo, che ha precorso i tempi e che a 10 anni dalla sua attuazione si dimostra sempre più vincente". L’alleanza pubblico-privato, per il governatore, dà buone prospettive anche per il futura: "Nel campo dell’edilizia sanitaria, nel quale la Lombardia è la Regione con il più alto coinvolgimento di capitale privato, coprendo più del 35 per cento del valore dell’intero mercato nazionale. Ma anche nella ricerca e innovazione, dove il ruolo delle istituzioni deve essere quello di focalizzare le necessità e di creare strumenti adeguati che permettano ai privati di concentrare le proprie energie e risorse, umane ed economiche, dove c'è necessità. Ma anche nel risk management, che oggi più che mai è rilevante soprattutto per la sua incidenza sulla sostenibilità economica del sistema e in cui è certo che assumerà sempre maggior rilievo anche il mondo privato, in particolare quello assicurativo". _____________________________________________________ L’Unità 4 mar. ’07 LA STRAGE SILENZIOSA DELL’URANIO IMPOVERITO 45 VITTIME Come in una guerra. Solo che il nemico è invisibile. Si chiama linfoma di Hodgkin, si chiama uranio impoverito. Dai Balcani, fino alla Somalia e all’Iraq. «Non c'è evidenza scientifica tra l’esposizione ai materiali e lo sviluppo del tumore» dicono alcuni scienziati. Intanto si continua a morire di Davide Madeddu Dopo il terzo intervento si è rialzato a fatica. Dalla terapia intensiva è però uscito con le sue gambe dopo Natale. Credeva di aver superato la fase critica. Invece il linfoma di Hodgkin, il tumore con cui combatteva da cinque anni, non gli ha lasciato scampo. L’ha ucciso in cinque giomi, poche settimane fa. Amedeo D'Inverno aveva 29 anni: un'agonia di cinque anni, quattro trapianti di midollo (tre avvenuti nell’arco di pochi mesi) e poi la fine. Era nato a Salerno, si era arruolato giovanissimo nell’esercito perché «ci credeva e amava quel lavoro» e sul campo aveva conquistato la qualifica di esploratore. Era lui -11° regimento guide - che cercava di capire cosa succedeva dopo un attacco. Anche nei Balcani, caserma «Tito Banak» di Sarajevo. Amedeo avverte i primi sintomi della malattia: stanchezza, spossatezza. Pensa sia stress. Invece è il male che lo ucciderà, è il linfoma di Hodgkin. Le sue condizioni precipitano questo autunno. Lo sottopongono a due interventi. «Sembrava che stesse migliorando, invece... ». IL12 gennaio si ripresenta la malattia e nel giro di pochi giorni muore. AL suo funerale non ci sono onorificenze militari. I familiari danno la notizia della sua morte solo cinque giorni dopo le esequie: «Non avremmo sopportato l’ennesima umiliazione da quel mondo militare in cui Amedeo ha creduto e che gli portato la morte». Amedeo è solo l’ultimo, in ordine di tempo, ad essere stato ucciso dal linfoma di Hodgkin. E dal fantasma delle missioni militari: l’uranio impoverito. Una strage: 45 vittime, secondo i dati delle varie associazioni. Un nemico invisibile. Prima di lui Eddy Pallone. Aveva 25 anni. È morto nell’arco di un anno. Eddy, che era nato a Frosinone si era arruolato giovanissimo e aveva partecipato alle missioni in Kosovo. Tre anni nell’esercito prima di scoprire la malattia il 5 febbraio del 2006, al ritorno da una missione. È morto dopo un anno di agonia. I genitori hanno deciso di intraprendere una nuova battaglia per «evitare che altre famiglie soffrano». Per questo motivo, si sono affidati allo studio legale di Massimo Cammarota del tribunale Roma ed hanno presentato una denuncia alla direzione provinciale del Lavoro di Frosinone e una alla direzione sanitaria militare. Una causa allo Stato per «evitare che altri debbano pagare», hanno spiegato. I soldi che otterranno con il risarcimento «saranno utilizzati per la ricerca». Una battaglia dura simile a quella vinta dalla famiglia di Stefano Melone. ll capo velivolo elicotterista del Primo Reggimento Antares di Viterbo, veterano di molte missioni all’estero - Somalia, Libano, Albania - morto nel 2001 a 40 anni e dopo 23 anni di servizio. A distruggere la vita di Melone, sposato e padre di due bimbe, una rarissima forma di leucemia contratta nel 1996 probabilmente nel corso di una missione di pace all’estero. Un dramma che ha visto lo Stato condannato a pagare un indennizzo di 800mila euro. Un primo risultato ottenuto grazie alla battaglia portata avanti dalla moglie Paola che non ha mai nascosto la «rabbia e delusione di Stefano che si sentiva tradito dall’esercito». In Iraq e nei Balcani ci era stato anche Luca Sepe, caporal maggiore dell’esercito, stroncato a 28 anni nel 2004. All’ospedale Cardarelli era stato ricoverato nel 2001 al rientro da una missione dei Balcani: febbre, stanchezza. Un film già visto. Piú o meno come succede a Valery Melis, il caporal maggiore di Cagliari morto a 27 anni. È appena rientrato da una missione in Kosovo Valery, quando comincia ad accusare i sintomi della malattia. Pensa siano provocati dalla nuova attività che svolge. Il riposo non basta. I primi accertamenti in ospedale però indicano valori irregolari. E dai controlli più accurati arriva la conferma: linfoma di Hodgkin, che nel frattempo diviene noto come «sindrome dei Balcani». Le terapie non danno risultati, nemmeno il trapianto di midollo osseo donato dalla sorella. Gli indennizzi non arrivano. Muore il4 febbraio 2004. 1 familiari hanno citato in giudizio il ministero della Difesa. «Quando ha bussato al mio studio era un giovane forte - spiega Ariuccio Carta avvocato nominato dai genitori di Valery - ha girato tutti gli ospedali d'Italia nella speranza di poter essere curato. L’ho visto spegnersi perché non si è intervenuti in tempo». «Gli alleati l’avevano detto che i militari avrebbero dovuto usare accorgimenti durante le missioni, invece, per un motivo o per l’altro così non è stato. Il risultato? Gli anglo-americani lavoravano in un modo, invece i nostri militari, giovani ragazzi che avevano poco più di vent'anni, sono morti». Amedeo D'inverno è morto dopo 5 anni di agonia, Eddy Pallone aveva 25 anni, Stefano Melone era un veterano Gli alleati, sostengono ora gli avvocati, avevano detto che i militari dovevano usare precauzioni ma nulla è stato fatto Ora le famiglie hanno fatto causa allo Stato I soldi raccolti in caso di vittoria serviranno per la ricerca scientifica COSA È L’URANIO IMPOVERITO Dove sono i militari italiani Cosa è È l’uranio che è stato processato per estrarne l’isotopo 235 (235u), cioè l’uranio arricchito utilizzato come combustibile nelle centrali nucleari e come principale elemento detonante nelle armi nucleari. Oltre che in applicazioni civili, viene usato nelle munizioni anticarro e nelle corazzature di alcuni sistemi d'arma. Dove sono Sono 3412 i militari impiegati tra Kosovo e Macedonia, secondo i dati del ministero della Difesa. «In Kosovo dove opera la Brigata Pinerolo ci sono 2145 militari - spiega il sottosegretario Lorenzo Forcieri - e 261 carabinieri». Più basso il numero di militari presente in Bosnia dove opera la Brigata Sicilia. In questo caso, infatti ci sono 859 militari e 278 carabinieri. Decisamente più basso, invece, il numero di militari presenti nel territorio e impegnati in attività di controllo e supporto sono 80. Una presenza ridotta di militari italiani si registra anche in Albania dove, accanto ai quaranta uomini dell’esercito ci sono circa quarantacinque marinai impegnati a ValonaSalvatore I CADUTI ITALIANI Vacca Giuseppe Pintus Corrado di Giacobbe Salvatore Carbonaro Andrea Antonaci Stefano Melone Sergio D'Angelo Umberto Pizzamiglio Luca Sepe Valery Melis Fabio Porru Emiliano G. Giuseppe C. Emilio Di Zazzo Alvaro Marini Leonardo M. Crescenzio D'Alicandro Alessandro Garofalo Alberto Di Raimondo Massimo L. Eddy Pallone Valerio Campagna Cesare Boscaino Marco M. Fabrizio Vena rubrea Roberto Bonincontro Giuseppe Antonio Fotia Giuseppe B. Stefano D. Luciano Falsarone Aniello D'Alessandro Paolo Antonio Milano Fabio Senatore Alessandro M. Marco d. L. Davide Zulian Marco G. Maurizio Serra Lorenzo Nichelini Giovanni S. Gianni Faedda Antonio Vargiu Luca R _____________________________________________________ Linero 4 mar. ’07 DAL DENTISTA SENZA TRAPANO NÉ ANESTESIA Sedersi sulla poltrona del dentista presto non sarà più un incubo. Due studi americani, infatti, permetteranno di eliminare l’uso del trapano e della puntura dell’anestesia. I ricercatori dell’università di Buffalo, coordinati da Sebastian Ciancio, hanno scoperto che con l’ozono si possono curare i denti dalla carie. Questo gas, infatti, forma una patina protettiva intorno ai dente che impedisce l’attacco dei batteri e neutralizzera gli agenti cariogeni senza causare dolore Anche l’ago dell’anestesia potrebbe presto essere sostituito da uno spray nasale usato per addormentare i denti. Questo anestetico nebulizzato come effetto collaterale quello di rendere insensibili i denti superiori. Si è ancora all’inizio, ma gli sviluppi sono incoraggianti e fanno ben sperare. FABIO FLORINDI _____________________________________________________ MF 6 mar. ’07 OCCHI SALVI SENZA TRAPIANTO Medicina Con Cross-linking chi soffre di cheratocono può evitare un intervento invasivo vitamina B2 mme instillata sottoforma di gocce e la cornea esposta ai raggi UV di Annika Abbateianni Poche gocce possono salvare la cornea ed evitare il trapianto altrimenti necessario se l’occhio viene colpito da cheratocono, una deformazione della curvatura. Si tratta di una malattia genetica complessa poiché caratterizzata da una componente ereditaria bizzarra: né dominante né recessiva. A oggi non è stato ancora individuato il gene alterato che la provoca, ed è quindi difficile stabilirne l’origine; ecco perché «potrebbero esistere sia forme ereditarie sia forme sporadiche di cheratocono», spiega l’oculista Paolo Rama, primario dell’Istituto scientifico universitario del San Raffaele di Milano, oltre che uno dei massimi esperti di trapianti di cornea a livello internazionale. La patologia, data la sua natura perlopiù genetica, è diffusa in determinate aree piuttosto che in altre; basti pensare che in alcune regioni d'Italia ne soffre, una persona su 10 mila. Ma, per tranquillizzare tutti coloro che sono stati «vittime» di eccessivi allarmismi, Rama sottolinea che «per il suo carattere strano e imprevedibile il cheratocono (che può coinvolgere un solo occhio) a volte progredisce, altre rimane spontaneamente stabile nel corso dell’intera vita». Inoltre, il numero delle deformazioni della curvatura della cornea che si stabilizzano è maggiore di quelle sulle quali occorre intervenire chirurgicamente. «II cheratocono», prosegue l’esperto, «è semplicemente una predisposizione ereditaria ad avere una cornea che può, nel corso degli anni, incurvarsi, ma questo non comporta nessun rischio se non quello di un calo della «sta. Quindi, chi ci vede non deve fare nulla, mentre chi ha deficit visivi può ricorrere agli occhiali o alle lenti a contatto, finalizzati a un recupero visivo, ma non a un rallentamento del cheratocono». Per coloro che continuano a vedere male si ricorre alla chirurgia, oggi sempre più mirata e quindi minimamente invasiva Gli interventi ai quali è possibile sottoporsi sono la cheratoplastica perforante e la cheratoplastica lamellare. II primo è quello più tradizionale, nel quale l’intera cornea viene sostituita con un'altra ricevuta da un donatore, mediante trapianto. II secondo, invece, è eseguito su una sola parte della cornea, ossia quella anteriore. «Non bisogna spaventarsi sentendo la parola trapianto poiché per quanto riguarda la cornea non esistono casi di rigetto», precisa Rama, che continua: «Oggi, grazie alla preparazione e alle tecniche di cui si dispone, c'è una bassissima incidenza di complicanze (la stessa che si può avere in un intervento di cataratta) e i miei pazienti (di tutte le età perché l’operazione si può eseguire anche a 90 anni) possono già recarsi in ufficio il giorno seguente l’intervento, eseguito in anestesia locale. Ultimamente si è diffusa una nuova tecnica chiamata Cross-linking che consiste nell’instillare delle gocce di vitamina 132 (riboflavina) sulla cornea e, contemporaneamente, esporre la cornea a una luce ultravioletta. Questo comporterebbe un indurimento della cornea stessa e quindi una diminuzione della sua curvatura. Tuttavia, secondo Rama, occorre attendere ancora degli anni prima di essere sicuri della validità di questa tecnica e, soprattutto, prima di rischiare di dare false speranze ai pazienti di poter evitare il trapianto di cornea. Di fatto, non è trascorso ancora abbastanza tempo per dimostrare che il Cross-~g può essere ripetuto e che gli effetti a lungo termine dell’esposizione al raggi ultravioletti non siano nocivi. Ecco perché personalmente continuo a consigliare, nei casi necessari, il trapianto di cornea, ormai diventato un intervento di routine». _____________________________________________________ Il Sole24Ore 22 Feb. ’07 DIAGNOSTICA PER IMMAGINI: RISCHI E POTENZIALITÀ PER UN MERCATO MONDIALE DA 5 MILIARDI DI ESAMI L’ANNO Dal 30 al 50% dei test eseguiti sono in parte o del tutto inappropriati e comportano spreco di risorse e rischi radiologici a lungo termine La pandemia di inappropriatezza deriva dalla sostanziale omertà su danni e rischi cumulativi di Eugenio Picano (Dirigente di ricerca Cnr e Responsabile laboratorio Ecocardiografia, Istituto di Fisiologia clinica, Pisa) Se è evidente che c'è sempre una giustificata diffidenza, o almeno prudenza, nella valutazione inizia le delle nuove tecnologie emergenti, quando la tecnologia ormai è a casa nostra la guardia tende a essere abbassata. Nel caso della diagnostica per immagini dal punto di vista quantitativo, il mercato, e quindi anche la potenzialità di beneficio e di rischio, è enorme. Ogni anno in tutto il mondo vengono eseguiti 5 miliardi di test di immagine. Il tutto naturalmente si configura in una opportunità meravigliosa sia per il paziente che per il medico, per raggiungere i propri obiettivi diagnostico- terapeutici, ma anche in un carico che è sociale, medico, legale, radiologico, biologico ed etico. Di questo si sono occupati i grandi organi regolatori e le grandi società mediche. L’idea è che dì questi 5 miliardi di esami su scala mondiale, dal 30 al 50% sono parzialmente appropriati (potevano essere evitati) o totalmente inappropriatì (dovevano essere evitati). Le recenti direttive della Commissione europea sull’Imaging medico del 2001 e le linee guida nazionali di riferimento dell’Agenzia per i Servizi sanitari regionali e dell’Istituto superiore di Sanità pubblicate nel 2004 hanno come scopo primario la riduzione degli esami di immagine inappropriatamente richiesti ed eseguiti (oggi dal 30 al 50°1o di tutti gli esami). Questi esami «comportano spreco di risorse, allungamento dei tempi di attesa e, se eseguiti con radiazioni ionizzanti, una indebita irradiazione del paziente, con un aumento della dose collettiva della popolazione» e quindi dei rischi a lungo termine. Risulta chiaro che questo problema diventa anche un'opportunità formidabile in un'epoca di tagli e tasse per abbattere i costi e mantenere inalterato e anzi aumentare la qualità della cura. La dose di radiazioni dovuta ai comuni esami cardiologici di imaging corrisponde a più di 1.000 radiografie del torace per una scintigrafia al Tallio e a più di 500 radiografie del torace per una Tc multistrato. Sebbene non sia disponibile una valutazione diretta dell’incidenza di cancro nei pazienti sottoposti a queste procedure, il rischio stimato (spesso ignorato dai cardìologi) è di circa 1 cancro su 500 pazienti sottoposti a una scintigrafia con tallio e di 1 su 750 sottoposti a Tc. Un tale rischio è del tutto accettabile per un gruppo di soggetti opportunamente selezionati, per esami che agiscono come filtro per procedure più invasive, rischiose e costose (per esempio, angiografia coronarica e rivascolarizzazione), ma diventa inaccettabile quando quella stessa procedura viene proposta come esame di screening senza valutare il rischio assieme al beneficio. Nel caso delle indagini diagnostiche, come succede per i farmaci, spesso sono le dosi che dettano l’incidenza di effetti collaterali: nel caso del test per immagine la dose fisica di radiazione è linearmente correlata ai rischi e questi rischi rientrano in un bilanciamento di costo-beneficio da cui scaturisce l’indicazione di appropriatezza degli esami. In particolare, gli esami si definiscono appropriati quando il beneficio è molto maggiore del rischio e inappropriati quando il rischio, che sia quello acuto o quello a lungo termine, sovrasta il beneficio atteso. La misura di questo rischio a lungo termine, che poi è dominante nel caso di molti esami non invasivi, è largamente sconosciuta ai medici. I bambini sono particolarmente vulnerabili con fattore di tre o quattro volte superiore rispetto agli adulti per gli effetti biologici delle radiazioni. C'è stato nel 2001 un Official warning dell’Fda secondo cui vengono effettuate troppe tac ai bambini: negli Stati Uniti si calcola che sotto i 15 anni nel 2004 ci siano state circa 3 milioni di tac e questo viene stimato con un carico di possibile oncogenesi nell’adulto di circa 4-5.000 cancri. Ci sono naturalmente, nella buona pratica medica, delle forme strutturate dal punto di vista legale che rendono obbligatoria la comunicazione per interventi che non abbiano un rischio denominato come trascurabile. II consenso è prescritto dalla legge e ci sono leggi della comunità europea completamente recepite nella legislatura italiana. Il decreto legislativo 187 del 26 maggio 2000 recepisce il principio di giustificazione, cioè se un'esposizione non può essere giustificata dovrebbe essere proibita (articolo 3). Nel processo di giustificazione dovrebbero essere considerate l’efficacia e la disponibilità di tecniche alternative che utilizzano meno o nessuna radiazione ionizzante. Secondo quanto riportato dall’articolo 5, sia il medico che prescrive il test che il medico che lo esegue sono responsabili per la giustificazione di un test che espone il paziente a radiazioni ionizzanti e, quindi, sono ambedue responsabili di fronte a un danno potenziale di esposizione inappropriata a radiazioni ionizzanti. Ovviamente, qui si parla sempre del 30%-50% di esami inappropriati, di quelli dove il beneficio atteso è marginale rispetto al rischio-costo e non di quelli ritenuti utili, indispensabili. Il tutto è anche enfatizzato da un apparato sanzionatorio non trascurabile perché in tema di ricerca c'è l’arresto fino a 6 mesi per esposizione inappropriata di radiazioni ionizzanti e multa fino a 20,000 euro, dal punto di vista clinico l’apparato sanzionatorio è più lieve con arresto fino a 3 mesi per prescrizione inappropriata e multa fino a 5.000 euro. Nel caso del consenso informato radiologico uno dei motivi per cui c'è questa pandemia di inappropriatezza e di inconsapevolezza è che viene taciuto il segreto del danno e del rischio; noì facciamo firmare ai nostri pazienti ogni genere di consensi dettagliati con incidenze descritte al secondo decimale per un ematoma durante un cateterismo cardiaco o effetti collaterali allergici che si verificano in un caso su 5.000, ma nulla viene detto per rischi che sono anche per diversi ordini di grandezza superiori rispetto ai rischi acuti. Ma cos'è che li differenzia e che configura un'impunibilità penale o una trasparenza medico-legale? Nel caso di un rischio a lungo termine, a differenza del rischio acuto, non sarà mai possibile stabilire il rapporto di causa-effetto. Questo è un problema che ci si è posti, la legislazione se ne è occupata con una normativa che in Europa e in Italia stabilisce alti livelli di protezione e garanzia per il paziente e viene anche suggerito come comunicarlo al paziente. Per concludere, è necessario ricordare che il rischio è cumulativo e c'è bisogno di dire quale è il rischio di fronte a certe procedure con pazienti che pretendono degli esami inutili. _____________________________________________________ Repubblica 7 mar. ’07 SI AVVICINA LA CURA PERLA SLA di Arnaldo D'Amico Sono 34 le variazioni nel Dna umano che aprono la strada alla sclerosi laterale amiotrofica (Sla) o morbo di Lou Gehrig, nella sua forma più diffusa, quella non ereditaria. Un ulteriore sforzo economico nella ricerca scientifica - minimo rispetto ai costi di assistenza terminale di questi malati solo nel nostro Paese - e la cura sarebbe trovata prima o poi. E con questa finirebbero anche i drammatici dibattiti sull’eutanasia per questi malati. A identificare le radici genetiche della Sla, aprendo così la strada alla correzione farmacologica, sono stati i ricercatori dell’università Johns I- iopldns (Usa), che hanno analizzato l’intero Dna di 276 malati confrontandolo con quello di 271 individui sani. Per `mappare" il genoma di questi volontari, i ricercatori hanno utilizzato un sofisticato sistema di scansia ne genica computerizzata detto "Snp Chips". Come riporta Lancet Neurology, i geni coinvolti nell’insorgenza della forma ereditaria di Sla erano già stati individuati alcuni anni fa, mentre quelli della forma sporadica, che è il g5% dei casi, non erano ancora noti. «Anche se non siamo ancora arrivati al gene colpevole», spiega Byan Traynor, uno dei ricercatori, «ora siamo vicini a ottenere risultati per sviluppare la cura della Sla». _____________________________________________________ Il Giornale 10 mar. ’07 L’ARTRITE VA AGGREDITA SUBITO Nell’Università di Pavia è attivo un Centro di eccellenza per la cura delle malattie immuno-mediate Montecucco: «I farmaci biologici bloccano l’infiammazione e offrono buona qualità di vita» Luigi Cucchi Se la diagnosi è precoce e i trattamenti sono tempestivi e adeguati si può convivere con l’artrite reumatoide con una buona qualità di vita, evitando quelle manifestazioni degenerative che possono portare a invalidità e gravi deformità di origine articolare», afferma il professor Carlomaurizio Montecucco, uno studioso che ha dedicato la sua vita a questa malattia. Da anni ha la cattedra di reumatologia all’università di Pavia, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, un Centro di eccellenza nella cura di questa malattia. Nato a Predosa, Alessandria, originario dell’Oltrepò pavese, si è laureato a Pavia Del 1977 ed ha completato gli studi a Parigi. Dal 1985 al 1991, è stato segretario generale della Società italiana di Reumatologia, con la presidenza del professor Marcolongo e del professor TedeSCO. Il primo reparto ospedaliero di reumatologia è stato aperto a Torino negli anni Cinquanta dal professor Robecchi, poi Camillo Benso Ballabio ha istituito una struttura universitaria a Milano e Domenico Gigante a Roma. Tuttavia, solo imo a venti anni fa, molti malati colpiti da artrite reumatoide si recavano direttamente dall’ortopedico per il trattamento delle deformità. Gli stessi medici di famiglia avevano una scarsa, percezione sulle reali possibilità di cura di questa malattia e molti ricordavano ai propri pazienti che «bisogna saper sopportare il dolore». Lo sviluppo delle conoscenze scientifiche, la scoperta di nuovi farmaci, l’ottimizzazione delle cure, hanno modificato radicalmente le prospettive di questi malati. L’artrite reumatoide colpisce oltre 9,7 milioni di persone nel mondo, più di 300mila in Italia. «L’ una malattia infiammatoria cronica caratterizzata da dolore, tumefazione, rigidità, e perdita della funzionalità. Le articolazioni più frequentemente colpite - precisa il professor Montecucco - sono quelle delle mani e dei piedi. Questa, patologia può impedire le normali attività quotidiane, limitare le opportunità di lavoro e portare a gravi deformità articolari che si manifestano nel 70-80 per cento dei pazienti se non curati». Se la, diagnosi è precoce e le cure iniziano subito si può bloccare il danno dell’infiammazione. «Un ritardo di nove mesi può provocare, a distanza di due anni, un peggioramento dei danni del 35 per cento. h una malattia prevedibile che va combattuta con determinazione soprattutto oggi che disponiamo di numerosi farmaci che si sono dimostrati efficaci e ben tollerati, compresi alcuni farmaci biotecnologici. L’atrite reumatoide - prosegue il professor Montecucco - è una malattia infiammatoria immuno-mediata. Come per la malattia di Crohn, la colite ulcerosa, la psoriasi, la spondilite anchilosante, l’eccessiva produzione di "tumor necrosis factor alfa", una proteina sintetizzata dalle cellule del sistema .immunitarlo, è una delle principali cause dell’infiammazione. Una innovativa classe di farmaci, gli anticorpi monoclonali, ha dimostrato di agire legandosi a specifici bersagli e bloccando in questo modo le proteine infiammatorie o i loro recettori, evitando il danno tissutale. Un nuovo farmaco ànti-TNF alfa di origine totalmente umana (golimumab) si sta sperimentando in numerosi Paesi e sarà, disponibile a partire dal 2008-2009. I risultati presentati recentemente in un incontro di esperti a Roma, sono promettenti e verranno analizzati in dettaglio il prossimo giugno a Barcellona in occasione del Convegno europeo di reumatologia. Rispetto ai farmaci già disponibili, golimumab permette di fare somministrazioni più distanziate nel tempo e questo fatto, trattandosi di una terapia di lunga, durata, è molto apprezzato dai pazienti». A Pavia, la clinica dì reumatologia in collaborazione con la radiologia ed il laboratorio di analisi del Policlinico S. Matteo e con i medici sul territorio dell’Asl di Pavia, ha istituito una Early flrtritis Clinic, cioè un Centro che ha come obbiettivo proprio la diagnosi precoce. Questa realtà - diretta dal professor Roberto Caporali - consente di superare le liste di attesa che un tempo erano di cinque o sei mesi. 11 professor Montecucco I DATI Trecentomila italiani soffrono di artrite reumatoide (9,7 milioni nel mondo) _____________________________________________________ Corriere della Sera 11 mar. ’07 POLMONE: LA TAC NON ALLUNGA LA VITA Polmone Uno studio fa il punto sulla diagnosi precoce strumentale Lo screening di massa non migliora la sopravvivenza Ci hanno provato trent'anni fa con la radiografia del torace. Ci stanno provando ora con la Tac: l’idea è quella di individuare precocemente i tumori al polmone nei fumatori e negli ex fumatori. Ma come la lastra del torace in passato, così la più sofisticata tecnica di tomografia computerizzata non sembra salvare la vita alle persone che si sottopongono all’esame rispetto a chi non lo fa. È vero che in molti casi la Tac anticipa la diagnosi della malattia e permette, quindi, una cura precoce, ma alla fine non migliora la sopravvivenza globale. Anzi: finisce per intercettare anche tumori che non si sarebbero mai manifestati durante la vita di una persona ed espone inutilmente questi pazienti ai rischi di un intervento chirurgico. A queste conclusioni, che non sono però definitive, è arrivato uno studio appena pubblicato da Jama, il giornale dell’Associazione dei medici americani, e presentato pochi giorni fa all’Istituto Tumori di Milano da Ugo Pastorino. Il chirurgo toracico milanese ha firmato il lavoro con i colleghi americani dello Sloan Kettering Cancer Center di New York che hanno analizzato i dati di oltre 3200 pazienti (alcuni dei quali «arruolati» in Italia) di età media attorno ai 60 anni con, in media, 39 «anni di fumo» alle spalle. «I dati sono forti - ha commentato Pastorino - perché contraddicono un precedente studio pubblicato qualche mese fa sulla rivista New England secondo il quale l’esame può salvare delle vite e fanno venire meno, almeno per ora, la speranza di ridurre la mortalità grazie allo screening dei tumori in fase precoce con la Tac spirale: Probabilmente le «performance» di questa tecnica potranno essere migliorate, in futuro, ricorrendo anche ad analisi di biologia molecolare, capaci di discriminare i tumori più letali da quelli meno aggressivi». Come è possibile che studi simili diano risultati così differenti? La risposta sta probabilmente nella statistica, cioè nel metodo che si usa per valutare i risultati: un conto è prendere come riferimento la mortalità dovuta tumore che, tutto sommato, è quello che interessa di più il paziente, un conto è considerare la sopravvivenza dopo 1a diagnosi di tumore. Un aumento di quest'ultima non significa necessariamente vivere di più in assoluto, ma può significare vivere di più con la malattia, ma morire lo stesso come chi ha avuto una diagnosi più tardiva. Lo studio di Jama ha fatto riferimento alla mortalità, quello del New England alla sopravvivenza dopo la diagnosi. Per ora, dunque, non si può consigliare una Tac di routine, a carico del sistema sanitario nazionale, alle persone ad alto rischio di sviluppare la malattia, come appunto i forti fumatori o gli ex fumatori, ma si deve attendere la conclusione di altri studi, cosiddetti randomizzati (dove cioè il gruppo che si sottopone all’esame viene confrontato, nel tempo, con un altro gruppo che invece non lo fa), tuttora in corso negli Stati Uniti (50.000 persone «arruolate»), in Olanda, Belgio e Danimarca (all’incirca 24.000 soggetti) e in Italia. l Nel nostro paese sono tre: il Dante, coordinato dall’Istituto Humanitas di Milano, fITAlung della Regione Toscana e il Mild dell’Istituto Tumori di Milano, che verrà ampliato anche al centro-sud, per un totale complessivo di oltre 20.000 persone. In attesa che si chiarisca l’utilità della Tac spirale come mezzo di prevenzione del tumore al polmone (al terzo posto per incidenza in Europa; secondo i dati del 2006 forniti dallo lare, l’agenzia per la ricerca sul cancro di Lione, e al primo per mortalità, per un totale, sempre in Europa di 334.000 casi), si deve ribadire per la millesima volta la necessità di smettere di fumare. «Su sei persone che fumano un pacchetto di sigarette al giorno per 50 anni, una muore» ha ricordato Carlo La Vecchia dell’Istituto Mario Negri di Milano, ma - ha aggiunto Gianni Ravasi della Lega Italiana perla lotta contro i tumori - nel 2006, a dispetto della legge antifumo, si sono venduti un milione di chili di sigarette in più rispetto all’anno prima». Adriana Bazzi IL BIOCHIP AL DNA Analizzare cellule dei bronchi e scoprire la presenza di un tumore al polmone: promessa da biochip. Con questo dispositivo, capace di leggere il profilo genetico di cellule epiteliali ottenute con una broncoscopia, è stato identificato un gene-marker la cui presenza è spia di tumori iniziali nei fumatori. Secondo la rivista Nature Medicine la sensibilità del test, messo a punto da un team di ricercatori americani e irlandesi, è del 90 per cento. UN ESAME CHE DEVE ESSERE RIPENSATO LA RICERCA Lo studio, appena pubblicato sulla rivista Jama, ha preso io considerazione gli effetti dalla Tac annual® su 3.245 persone, fumatori e ex-fumatori reclutati in due centri americani e uno italiano. E I RISULTATI A cinque anni di distanza la modalità per tumore dei polmone fra i soggetti che si sono sottoposti alla Tac spirale è molto vicina a quella dai fumatori cha non hanno fatto l’esame, LE CONCLUSIONI Al momento attuale non è giusto consigliare ai forti fumatori e agli ex-fumatori la Tac spiralo come, esame di motine per identificare precocemente il tumore dei polmone. ______________________________________________ Le Scienze 9 Mar. 2007 POLMONI: I LIMITI DELLA DIAGNOSI PRECOCE Secondo gli autori, il maggiore effetto sulla sanità riguarda un aumento degli interventi di un fattore 10 PAROLE CHIAVE Screening tumore del polmone tomografia computerizzata Lo screening di ex fumatori con le tecniche di imaging della tomografia computerizzata può aumentare il tasso di diagnosi e di trattamento del cancro del polmone ma non porta necessariamente alla riduzione del rischio di morte. Lo studio, i cui risultati sono ora pubblicati sulla rivista JAMA, è partito dalla constatazione che lo screening con la radiografia del torace non è efficace nel ridurre il rischio di un tumore del polmone in stadio avanzato né il rischio di morte. Per questo le speranze di un miglioramento delle prognosi erano legate alla diagnosi effettuata con la tomografia computerizzata (CT), molto più accurata nel rivelare i noduli più piccoli. Insieme con i colleghi, Peter B. Bach del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York, ha esaminato l’effetto dello screening con CT in relazione alla frequenza di diagnosi di cancro del polmone, dell’ablazione chirurgica, dei casi di tumori avanzati, e dei decessi per cancro del polmone, confrontandolo con le corrispondenti frequenze in base a una diagnosi condotta con metodi tradizionali. Si è così riscontrato che i soggetti esaminati con CT avevano una percentuale di diagnosi tre volte superiore e la possibilità di subire una ablazione chirurgica 10 volte superiore. Purtroppo, però, non sono state registrate diminuzioni nel rischio di decessi dovuti al tumore. "I nostri risultati evidenziano una decuplicazione degli interventi chirurgici per tale tipo di tumore, ed è questa forse la maggiore conseguenza dello screening con CT. Se la maggioranza dei tumori allo stadio iniziale trovati con lo screening è improbabile che evolva rapidamente al punto da causare conseguenze cliniche significative o morte, allora gli interventi effettuati per rimuoverli non danno benefici tali da giustificare le morbilità risultanti”, hanno commentato gli autori. (fc) _____________________________________________________ Corriere della Sera 11 mar. ’07 UN NUOVO MEZZO DI CONTRASTO: IL LATTE Una ricerca ne dimostra l’efficacia per visualizzare l’intestino alla Tac LA NUOVA VIA Radiologi americani hanno scoperto che il latte può essere usato, in alternativa al mezzo di contrasto, per visualizzare l’intestino alla Tac Mai prima d'ora una radiografia fu tanto gradevole. Confronto col passato quasi impossibile visto che la nuova strategia per visualizzare i meandri dell’intestino non ha precedenti fra i mezzi di contrasto: punta, semplicemente, sul latte e solo intero. L’idea è venuta ai ricercatori del St Luke's Rooseve-lt hospital di New York che hanno poi avviato una sperimentazione in piena regola di cui hanno presentato i risultati a Chicago, all’ultimo congresso della società di radiologia americana. Per verificare l’efficacia del bianco «tracciante» i ricercatori hanno eseguito una Tac dell’intestino a 62 persone con il mezzo di contrasto classico per bocca e ad altri 117 ricorrendo al latte. Le quantità necessarie sfiorano il litro: da 400 a 600 millilitri nell’ora che precede l’esame, 200-400 millilitri 20 minuti prima. Ma della gran bevuta sembra valer la pena, perché le immagini ottenute sono estremamente nitide: la cavità dell’intestino appare nera e la parete dell’organo brillante. «E un'ottima idea, da perseguire, perché il latte permette una buona distensione dell’intestino - commenta Pasquale Spinelli, responsabile dell’Unità operativa di endoscopia chirurgica dell’Istituto dei tumori di Milano -. Ed è curioso che ci avesse già pensato nel lontano 1600 Gaspare Aselli, professore di anatomia all’Università di Pavia, che scoprì i vasi linfatici dell’intestino nel cane ricorrendo alla somministrazione del latte». Soddisfatti i pazienti: fra quelli che hanno preso il mezzo di contrasto il 40% afferma che avrebbe preferito il latte mentre 1'85% dei visualizzati «in bianco» sarebbe disposto a ripetere l’esame. In tempi grami per la Sanità pubblica è interessante anche il basso costo di una strategia del genere. Franca Porciani ______________________________________________ L'Unione Sarda 8 Mar. 2007 UNA SPERANZA DALLA SCIENZA PER LA SINDROME DI CRISPONI Scoperto il gene che mutando provoca una malattia rara, ma presente nella nostra isola uella pubblicata ieri dall’American Journal of Human Genetics non è solo un’importante pubblicazione di ricerca genetica su una delle più prestigiose riviste scientifiche internazionali. L’articolo è di quelli che regalano speranze e soddisfazioni. Speranze per le cure verso una delle più temibili malattie rare. Soddisfazioni per un successo della ricerca sarda. I ricercatori dell’Istituto di Neurogenetica e Neurofarmacologia del CNR di Cagliari, guidati da Laura Crisponi, in collaborazione con i colleghi tedeschi del Cologne Center for Genomics e dell’Università di Muenster, hanno condotto uno studio sull’intero genoma di 5 famiglie sarde e 3 turche affette dalla sindrome di Crisponi, riuscendo in pochi mesi a identificare il gene implicato nella patogenesi della malattia. La sindrome di Crisponi, ora è certo, è causata da mutazioni nel gene CRLF1 . L’importante scoperta è stata finanziata dall’Associazione Sindrome di Crisponi e Malattie Rare e dalla Regione. Di questa Sindrome, riconosciuta per la prima volta nel 1996 dal medico cagliaritano Giangiorgio Crisponi, sono noti pochissimi casi in tutto il mondo, la maggior parte in Sardegna. La malattia è evidente fin dalla nascita con le caratteristiche contrazioni dei muscoli facciali, in risposta a stimoli tattili esterni o durante il pianto, cui si aggiunge la camptodattilia: la costante contrazione delle dita delle mani. Cosa accade ai malati? «La maggior parte dei pazienti è deceduta nei primi mesi di vita in seguito agli effetti dell’ipertermia: febbri alte e inarrestabili. I pazienti che sopravvivono, attualmente cinque in tutta la Sardegna, sviluppano una severa scoliosi che richiede chirurgia correttiva o l’impiego del busto. Inoltre le sudorazioni intense dopo l’esposizione a basse temperature e l’intolleranza al caldo provocano ulteriori di- Q sagi». A quali risultati condurrà la vostra ricerca? «A breve termine si potranno approfondire i meccanismi fisiopatologici alla base della malattia e sviluppare i reagenti necessari per effettuare la diagnosi prenatale e una diagnosi differenziale con altre sindromi simili. In futuro la definizione della via fisio-patologica del gene coinvolto fornirà importanti informazioni per lo sviluppo di terapie specifiche per la sindrome e eventualmente anche per patologie ben più frequenti». Com’è stato possibile realizzare questo progetto? «Indubbiamente grazie alla partecipazione entusiasta, continua e generosa di tutti i componenti delle 5 famiglie sarde colpite dalla sindrome. In particolare ringrazio Emanuela Serra e Marco Sarigu che con la loro voglia di combattere contro questa malattia hanno fondato un’attivissima associazione, che porta il nome della sindrome. Inoltre vorrei ringraziare mio padre, il Professor Cao e tutti i ragazzi del gruppo di ricerca che hanno collaborato con me. In particolare: Alessandra Meloni, Gianluca Usala, Manuela Uda, Marco Masala, Mara Marongiu e Francesca Chiappe. E Giuseppe Pilia che mi ha insegnato tutto ciò che mi ha permesso di riuscire in questa impresa». L’associazione Sindrome di Crisponi e Malattie Rare, attiva dal 2005, si propone di sostenere la ricerca con raccolte di fondi e attività di sensibilizzazione e informazione. Emanuela Serra, presidente dell’associazione, non nasconde l’entusiasmo per la scoperta: «Desideriamo ringraziare tutti coloro che, in vario modo, hanno reso possibile questo risultato. Un immenso grazie lo dobbiamo alla Regione: un anno fa, con un emendamento alla finanziaria, è stata prevista l'erogazione di 50 mila euro a favore di progetti di ricerca sulla sindrome di Crisponi». Come avete contribuito al raggiungimento di questo risultato? «Il 29 Gennaio 2006 – prosegue Emanuela Serra – abbiamo contribuito all’avvio del progetto di ricerca, che aveva per obiettivo l'identificazione del gene della sindrome, con l’erogazione di 23 mila euro. In seguito copriremo una borsa di studio del valore di 11 mila euro». Quali sono le vostre speranze? «Il prossimo obiettivo è la ricerca di una cura. La nostra speranza è anche che questo risultato, di collaborazione tra il volontariato e la scienza, possa stimolare la sensibilità dei cittadini e delle istituzioni nei confronti delle malattie rarissime. Senza dimenticare che dietro alle patologie ci sono persone con problemi quotidiani». L'Organizzazione mondiale della sanità classifica circa 6 mila malattie rare, molto eterogenee fra loro sia nei sintomi che nell’origine (per l’80% genetica), ma accomunate dalla bassa frequenza. L'intero insieme di patologie rare rappresenterebbe circa il 10% di tutte le malattie croniche. Generalmente si tratta di patologie poco conosciute e a ridotta capacità di richiamo per la ricerca (che vive di progetti finanziati) e per il mercato della salute (più attratto dai grandi numeri). Questo si riflette sui pazienti e sulle loro famiglie: non a caso le informazioni su queste malattie sono più facilmente reperibili nei siti web delle associazioni – come www.sindromedicrisponi. it – che su quelli istituzionali. Le prime iniziative sulle malattie rare, nate con lo scopo promuovere la realizzazione di opportuni farmaci (detti orfani ), sono state avviate negli Usa nel 1983 ( Orphan drugs act ) poi in Giappone, Singapore e Australia. Nel 1999 il Parlamento Europeo ha riconosciuto nelle malattie rare una priorità per la ricerca e la sanità pubblica. ANDREAMAMELI