VARATA DAL GOVERNO L' ANVUR. CONTROLLERÀ LA QUALITÀ DEGLI ATENEI - UNIVERSITÀ, DALLA CRUI OK, ALL'ANVUR - UNIVERSITÀ, CHI VALUTA CHE COSA - ATENEI: LO SCANDALO DEGLI ESAMI PILOTATI - PARENTOPOLI, QUEGLI ATENEI A CONDUZIONE FAMILIARE - DOCENTI IN AMERICA, LA DIASPORA SI INTERROGA - QUALCHE ARGOMENTO CONTRO LE «QUOTE ROSA» - MODIFICA DELLO STATUTO, FALLISCE IL BLITZ DI MISTRETTA - ATENEO, PRECARIO UN DIPENDENTE SU TRE - PIANTE SPAZZINE BONIFICANO I METALLI - SVOLTA NELL’ATENEO DI SASSARI: PREMI ALLA PRODUTTIVITÀ DEI PROF - IL MICROCHIP VA IN ANALISI - IN POCHE MANI I FRUTTI DELLA RICERCA - PIÙ INTERATTIVITÀ, PIÙ RISULTATI - E-LEARNING, LA NUOVA STAGIONE - SE I DOTTORANDI ITALIANI NEGLI USA HANNO LA SINDROME DI TROISI - ECCO GLI SCIENZIATI CHE SMASCHERANO TUTTE LE BUGIE SULL'ENERGIA «PULITA - ================================================= LA CARICA DEI MALATI IMMAGINARI - IN PAZIENTE ATTESA - GLI STUDENTI:IL CANCRO NON È COLPA DEL FUMO - GLI AFFARI MILIONARI DELLA SANITÀ PRIVATA - USA: MAMMOGRAFIE SOLO DOPO I 50 ANNI - TUMORI, UN HOTEL PER ASSISTERE I MALATI - MORTI IN CORSIA, L'INCUBO DEI MEDICI - ERRORI MEDICI DIPENDEREBBERO 14 MILA MORTI ALL'ANNO - GLI AVVOCATI: CONDANNE RARISSIME - LE CLINICHE CONTRO LA REGIONE - E LE CELLULE DEL SANGUE CURANO IL DIABETE - UN VACCINO CONTRO LA COCAINA - L’ENDOSCOPIO AGUZZA LA VISTA - CHEMIO SENZA DOLORE PER COMBATTERE I TUMORI - RINATI LIBERI DALL'INSULINA - TALASSEMIA: CACCIA AL FERRO NEL CUORE - UNA RETE CONTRO LA SCLEROSI - MASCHIO INUTILE: SPERMA DAL MIDOLLO DELLA DONNA - COSÌ HO SCOVATO L' ERRORE CHE TAGLIAVA LE GAMBE AI MALATI - ================================================= ______________________________________________________ Corriere della Sera 6 Apr. ‘07 VARATA DAL GOVERNO L' ANVUR. CONTROLLERÀ LA QUALITÀ DEGLI ATENEI Nasce l' Agenzia per valutare le università Mussi: finisce l' era «più iscritti, più soldi» ROMA - «Una rivoluzione, credetemi, sarà una vera rivoluzione», dice il ministro Fabio Mussi. L' Agenzia nazionale di valutazione dell' università e della ricerca (Anvur) varata ieri dal consiglio dei ministri, promette di dare un colpo di freno al proliferare di atenei e di corsi di laurea improponibili, con il solo scopo di acchiappare studenti. Finisce l' era del «più iscritti, più soldi». «Un' innovazione di grande portata - ripete Mussi -. Le risorse andranno a chi se le merita». L' Agenzia di valutazione sarà un organismo autonomo al cui vertice ci saranno sette illustri professori, due stranieri nominati da agenzie straniere e cinque italiani nominati dal ministro ma scelti unicamente sulla base di criteri scientifici. Insomma, cinque persone «eccellenti», sulle quali anche il Parlamento dirà la sua. «L' Agenzia - spiega il professor Giovanni Ragone del Miur - sceglierà da sè i criteri di valutazione. Noi gli diciamo che cosa dovrà valutare». E cioè: la qualità didattica, la qualità della ricerca, i servizi agli studenti, la capacità di darsi degli obiettivi e di raggiungerli, il contributo al contesto territoriale (imprese ed enti locali). «Prevediamo di triplicare i fondi, che quest' anno si aggirano attorno ai 5 milioni di euro, già dalla prossima Finanziaria». Se l' Agenzia sarà autonoma nello scegliere i criteri del giudizio, «il ministro - continua Ragone - si aspetterà valutazioni adeguate e credibili. Il principio è far competere gli atenei, per cui si è scelto di non seguire la strada della valutazione dei singoli ricercatori, che oltretutto sono 80 mila, ma di spingere le università a fare una buona politica di accreditamento, altrimenti si perdono soldi». Qui infatti, la grande novità. Chi ottiene ottime valutazioni, chi migliora nell' arco di un determinato periodo di tempo, riceverà più soldi dallo Stato. Altrimenti, potrebbe addirittura perderli. Spiega Ragone «La logica è: evitare il provincialismo, evitare il giro dei soliti professori, aprirsi all' estero. E non commettere errori. Se sbagli, perdi i soldi». L' Agenzia avrà anche un altro importantissimo compito: quello di dire sì o no all' apertura di nuovi atenei e all' attivazione di nuovi corsi di laurea. Iossa Mariolina ____________________________________________________ Italia Oggi 07 apr. ’07 UNIVERSITÀ, DALLA CRUI OK, ALL'ANVUR DI BENEDETTA P. PACELLI Consensi, ma anche qualche rilievo. La neonata Agenzia di valutazione del sistema universitario e degli enti di ricerca, appena approvata dal consiglio dei ministri (si vede Italia Oggi di ieri), che dovrà passare al vaglio delle commissioni parlamentari competenti per il prescritto parere e che promette di riportare trasparenza nel mondo universitario, continua a suscitare qualche polemica. Eccezion fatta per il presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane Guido Trombetti che plaude al provvedimento targato Fabio Mussi, auspicando che l'agenzia vada a regime nel più breve tempo possibile. Ma soprattutto, ha spiegato il presidente della Crui, «mi auguro che il suo funzionamento sia immune da quelle pesantezze burocratiche che tanto spesso, nel nostro paese, hanno frenato nel pubblico le migliori intenzioni». L'auspicio è insomma che chi guiderà la macchina della valutazione ne faccia uno strumento snello ed efficiente e non una sovrastruttura in più. Commenti positivi anche da parte dì Andrea Ranieri responsabile nazionale dei Ds per il sapere e l'innovazione, secondo il quale la nascita dell'agenzia è un buon modo per collegare «alla valutazione una parte dell'incremento dei finanziamenti per gli atenei». «Per far funzionare al meglio l'intero sistema credo che possa essere positivo collegare il trasferimento di una parte di questo incremento di risorse, fino al 30%, ai risultati della valutazione». Valutazione necessaria anche per il responsabile di An per la scuola e l'università Giuseppe Valditara che però considera grave la previsione di una nomina governativa di tutti i componenti dell'Agenzia di valutazione perché in questo modo «è evidente il pericolo di condizionamenti governativi sull'autonomia universitaria». Conferma i suoi dubbi, anche a fronte dell'ultima stesura del testo, l'Associazione nazionale dei docenti,universitari (Andu) che vede nell'Agenzia uno strumento che può limitare l'autonomia delle singole università. «Una preoccupazione», ha spiegato Nunzio Miraglia coordinatore nazionale dell'Aridu, «condivisa anche dai rettori». Ma in particolare ha sottolineato Miraglia «.tutto questo rende ancora più evidente come l'autonomia dei singoli atenei può essere tutelata validamente solo difendendo l'autonomia dell'intero sistema nazionale delle università. E la tutela», ha concluso, «può essere assicurata solo con un organismo di autogoverno eletto direttamente da tutte le componenti universitarie». ____________________________________________________ Il Sole24Ore 14 apr. ’07 UNIVERSITÀ, CHI VALUTA CHE COSA di Fiorella Kostoris Come sorpresa pasquale, finalmente il Consiglio dei ministri ha approvato e inviato alle Camere il regolamento dell'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur). L'obiettivo è rilevante e ambizioso, perché la valutazione diventa un diritto/dovere delle Università e degli enti di ricerca. Diritto di essere valutati in relazione ai risultati conseguiti e dovere di sottoporsi, in quanto istituzioni pubbliche o comunque sostenute da trasferimenti pubblici, al giudizio di tutti gli stake holders. Su questa valutazione si gioca buona parte del futuro dell'istruzione e della ricerca in Italia. Purtroppo, è lecito dubitare che l’Anvur possa realizzare questo scopo potenziando il criterio meritocratico. Per almeno tre motivi. Innanzitutto, la sua indipendenza, pur dichiarata nelle norme, rischia di essere minata dalla mancanza di terzietà rispetto al Governo, nonché, in una certa misura, rispetto alle burocrazie ministeriali, accademiche e politiche. Tutti i sette membri del suo Consiglio direttivo sono scelti direttamente o indirettamente dal ministro dell'Università e a lui o al suo ministero riportano, segnalano, propongono. Inoltre, secondo l'ultima versione del regolamento, essi sono tenuti a sottoporre i programmi annuali di attività e i documenti riguardanti la scelta dei metodi di valutazione al parere di un Comitato consultivo, prima non previsto, formato da membri designati dai vertici delle Università, degli enti di ricerca, delle accademie e perfino da rappresentanti degli studenti e delle parti sociali. Nel disegno di legge sullo stesso tema, presentato dai Ds nella passata legislatura (primi firmatari Luciano Modica e Walter Tocci), questo problema non sussisteva perché si intendeva istituire un'autorità indipendente, garantita nella terzietà e obbligata alla trasparenza e pubblicità degli atti. Modica, attualmente sottosegretario al Miur, ancora il 5 gennaio 2007 ribadiva al Sole 24-Ore con rimpianto il fatto che in questa fase la soluzione dell'Agenzia risultava «l'unica strada percorribile». Il che appare paradossale, dato che tutti ne sembrano, per motivi opposti, scontenti: dai sindacati che vorrebbero minori «poteri forti politico-accademici», alla Conferenza dei rettori che, con parere unanime del 29 marzo 2007, lamenta la subordinazione dell’Anvur al ministro, sebbene «anche le attività di competenza del ministero siano oggetto di valutazione». In tale contesto, a poco servirà che il regolamento preveda dopo tre anni una valutazione dell'operato della stessa Agenzia da parte di un'apposita commissione internazionale. In secondo luogo, non c'è sufficiente separatezza tra l’Anvur e i nuclei di valutazione interna delle Università e degli enti di ricerca, in quanto le norme assegnano all'Agenzia il ruolo di svolgere su di essi funzioni non solo d'«indio e vigilanzas ma anche di «coordinamento» degli interventi, principalmente quando questi richiedano «confronti nazionali e internazionali sia quantitativi che qualitativi». L'Agenzia non si limita, dunque, come sottolineato anche da un documento del 9 febbraio 2007 dell'Accademia dei Lincei, a predisporre criteri generali di valutazione ai quali i nuclei interni si debbono attenere. AL contrario la sua azione si estende fino a comportare interferenze tra vigilanti e vigilati, potenzialmente in grado di creare collusioni dannose a un giudizio meritocratico. A evitare ciò non basta certo l'attenzione, pur lodevole, che il regolamento pone nell'evitare conflitti d'interesse tra i membri del Consiglio direttivo, cui si chiede il tempo pieno, incompatibile con qualsiasi rapporto di lavoro, anche a titolo gratuito, con Università, enti di ricerca, ministeri, autorità e altre agenzie governative. In terzo luogo, diversamente che nella proposta Modica-Tocci di poco più di un anno fa, le competenze dell'Anvur sono oggi circoscritte sia nella valutazione dei singoli ricercatori, sia nell'assegnazione delle risorse in base a criteri meritocratici. Sul primo punto, il regolamento itnp&ne all’Anvur solo di giudicare la qualità,del reclutamento del personale delle Università e degli enti; scompare invece qualunque riferimento alla valutazione della ricerca individuale. Sul secondo punto, il regolamento stabilisce che «l'Agenzia determina e propone al ministro parametri di ripartizione per l'allocazione dei finanziamenti statali», ma non dispone nulla, mentre nel disegno di legge Ds all'Autorità spettava il compito, sulla base dei risultati della valutazione, di distribuire una quota del 2% del fondo annuale per il finanziamento ordinario. Ammontare non elevato, ma comunque concreto e di alto valore simbolico. Senza voler fare il processo alle intenzioni, non è di buon auspicio che in questo primo anno il Governo abbia ignorato, pur molto apprezzandoli, i risultati del Civr ai fini della ripartizione delle risorse per la ricerca, mentre invece essi avrebbero dovuto costituirne l'indispensabile premessa, secondo le dichiarazioni del passato Esecutivo. Oggi, se adottate, tali procedure rappresenterebbero un significativo elemento di raccordo con l’operatività iniziale dell’Anvur: in tali negligenze o ritardi, non vorremmo scorgere un persistente, sintomo di difficoltà i politica ad attuare anche nel nostro Paese la valutazione seria e incisiva, che non puo’ più essere rinviata. TRE PUNTI NON CHIARITI Insufficiente indipendenza, confusione di ruoli e ,competenze troppo circoscritte rischiano di far naufragare il progetto ____________________________________________________ L’Espresso 12 apr. ’07 ATENEI: LO SCANDALO DEGLI ESAMI PILOTATI I vincitori dei concorsi universitari indicati con due anni d'anticipo. E messi nero su bianco in alcuni appunti scritti a mano. E ora sul tavolo dei magistrati di Bari AL concorso di Bari doveva andare così: promossi Portincasa, Zignego e Anti. Commissari Palasciano, Gentilini e Bernardo. E così è andata. A Napoli, invece, Salvatore e Terzolo ce l'hanno fatta, così come da prospetto. Mentre Giustino non è riuscito a prendere l'idoneità. In fondo anche questo era preventivato: accanto al nome del promesso idoneo, seconda riga a destra, c'è infatti un bell'asterisco. In nota si legge: « Incertezza per commissario ». In un fascicolo della Procura di Bari ci sono due paginette che rischiano di mandare gambe all'aria il mondo accademico italiano. Due foglietti, scritti a penna dal professor Giuseppe Palasciano, ordinario di Medicina interna a Bari, nei quali si disegna l'esito di 16 concorsi banditi da dieci atenei di tutta Italia: si tratta di posti da ordinario e associato in Medicina interna dei quali una lobby di baroni conosceva l'esito prima ancora che fossero banditi. I magistrati ne sono certi. L'originale di quei due foglietti è agli atti della Procura. Palasciano li ha spediti via fax a un collega il5 marzo del 2000, così come riporta la data in cima al foglio. I concorsi saranno banditi due mesi dopo e si concluderanno, in media, dopo un anno. Come facevano a sapere in antìcipo l'esito delle prove? « O prevedono il futuro o quei concorsi erano decisi a tavolino», dicono gli inquirenti. Che hanno iscritto nel registro degli indagati dieci professori universitari per associazione a delinquere, falso, abuso d'ufficio e interesse privato in atti pubblici. Bari, Cagliari, Napoli, Padova, Pisa, Roma, Trieste, Messina, Milano Bicocca, Palermo, Trieste: concorsi pilotati nelle università di mezza Italia. Accanto al nome dell'ateneo, nella tabella venivano riportati i nomi dei tre futuri idonei e, tra parentesi, quello del commissario interno garante. Almeno a leggere gli appunti, ci sarebbe una divisione scientifica tra le varie cordate. «Ho detto a quello: io ti do un'idoneità e tu cosa dai a me?», chiede un professore a un collega in una delle conversazioni registrate. Prevedevano tutto. «De Pergola va da Trieste a Pisa qualora venga meno Tondi », scrive Palasciano in una delle note. Calcolavano tutte le variabili. «La situazione dei due ruoli di Roma», si legge, «è incerta: i posti saranno banditi: ». E ancora: «Esistono accordi veri?». A queste domande sta cercando di dare risposta la Procura di Bari che ha cominciato a indagare sulla cupola di Medicina interna un anno e mezzo fa. Sulla scrivania dei pm Emanuele De Maria e Francesca Pirrelli arrivò allora la denuncia di un docente che raccontava cosa stesse accadendo in un concorso da ordinario, bandito le non ancora concluso) dall'Università di Bari. Da allora sono partiti 18 mesi di intercettazioni telefoniche e ambientali, con i baroni che percepiscono il pericolo e per parlare tra loro si danno appuntamento nelle stazioni di servizio o si mandano bigliettini firmati solo con l'iniziale del nome. Una settimana fa scoppia la bolla: vengono sequestrati computer e carte negli uffici di professori di tutta Italia. In dieci ricevono un avviso di garanzia. C'è Palasciano e c'è Pier Mannuccio Mannucci, ordinario a Milano e direttore della Clinica medica del Policlinico: è il presidente di commissione del concorso di Bari. Riceve l'avviso di garanzia l'ex prorettore dell'ateneo pugliese, Franco Dammacco. E lo riceve anche Ettore Bartoli, professore di Novara: il suo nome, lo chiamano "il Burattinaio", è spuntato anche nell'inchiesta della Procura di Bologna, sempre sulla cupola di Medicina interna, 12 concorsi in tutta Italia. I pm scoprono nuove carte. Trovano una lettera in cui un candidato viene cassato perché troppo di sinistra. E si apre un nuovo filone di indagine: ì professori non vedono l'ora che entri in vigore il nuovo sistema concorsuale, voluto dal ministro Moratti. Le commissioni si decidono su scala nazionale, gli amici ci sono ovunque. ____________________________________________________ il Giornale 11 apr. ’07 PARENTOPOLI, QUEGLI ATENEI A CONDUZIONE FAMILIARE AL Sud le cattedre di alcune facoltà universitarie sono appannaggio di interi casati che controllano i concorsi e così moltiplicano gli incarichi Guido Mattioni Se al Sud Italia la famiglia conta molto, forse a Bari conta più che altrove. E se poi si va a curiosare dentro all'Università... be' bisogna ammettere che le preoccupazioni dei vescovi non hanno proprio motivo di esistere. Qui, nel secondo ateneo più grande del Mezzogiorno, dopo quello di Napoli, la famiglia conta, eccome. E soprattutto sa contare, con una spiccata predilezione per le moltiplicazioni: delle cattedre. Dando così anima, ma soprattutto corpo, a una Parentopoli accademica che non ha forse uguali in Italia e che fino a qualche anno fa era rimasta indenne, sotto il vestito buono di concorsi, fatti apparentemente a norma di legge. Ma una legge probabilmente sbagliata, tra i cui paletti è facile fare slalom: organizzando combine, scambiandosi favori, aprendo spazi davanti ai propri ascari e chiudendoli invece per ostacolare gli altri, quelli senza pedigree, magari facendo arrivare loro anche proposte dissuasive. Quelle, come diceva don Vito Corleone, «che non si possono rifiutare». Il risultato è una mappa dell'insegnamento che soprattutto in certe facoltà baresi sembra essere diventata, nel corso degli anni, proprietà privata di pochi casati i cui esponenti occupano interi corridoi, se non piani. Come a Economia e commercio, dove regnano i Girone, i Dell'Atti, i Fatarano, ma soprattutto i Massari. A portare il cognome Girone, oltre al capofamiglia Giovanni, ex rettore per due mandati (in tutto sei anni), sono i suoi tre figli Francesco, Gianluca e Raffaella, a cui si aggiungono però anche la moglie Giulia Sallustio e il genero Francesco Campobasso. Stessa facoltà, altra famiglia, con Angelo, Antonio, Gabriele e Vittorio Dell'Atti. Anche se il record indiscusso è sempre quello dei Massari, quasi una squadra di calcio che schiera (in piedi) Fabrizio, Antonella e Manuela, oltre a Giansiro, Gilberto e Lanfranco (accosciati). Numeri da far impallidire i Tatarano, che si limitano al professor Giovanni e ai figli Marco e Maria Chiara. Ma ora la magistratura si è fatta più occhiuta. Vuoi per le tante voci cittadine divenute ormai polifonia, vuoi soprattutto per le denunce circostanziate che planano sui tavoli della Procura sempre più fitte, come i caccia Zero giapponesi sulle portaerei di Pearl Harbor. Sicché adesso, nei corridoi dell'ateneo pugliese, per qualcuno comincia a tirare una brutta aria. Anche per i cosiddetti intoccabili - ed è cronaca di poche settimane fa - con dieci indagati eccellenti, tra cui sei ordinari del dipartimento di Medicina interna finiti nel mirino del sostituto procuratore Emanuele De Maria per un sospetto concorso di primariato al Policlinico universitario, svoltosi a Bari nel marzo 2005. I nomi locali sono quelli di Francesco Dammacco, Salvatore Antonaci, All’redo Tursi, Antonio Capurso, Giuseppe Palasciano e il potentissimo Riccardo Giorgino. Quest'ultimo, ex primario di endocrinologia, è tra l'altro l'ennesimo esempio di padre .premuroso, dato che la sua poltrona è passata al figlio Francesco dopo che questi aveva fatto una doverosa seppur breve «deviazione» a Chieti in seguito a un concorso vinto e svoltosi - guarda tu le coincidenze! - a Bari. Del resto qui è ormai una tradizione, con quasi il40% dei figli dei primari che insegnano a vario livello la stessa materia dei padri. Quanto a Palasciano, è la prova provata di come si possa arrivare allo stesso risultato percorrendo strade più lunghe, che però si incrociano. Così suo figlio Fabrizio, evidentemente più appassionato a 'ossa millenarie anziché a. quelle dei malati, è dottorando in Archeologia a Foggia, dove è preside la professoressa Franca Pinto Minerva; il cui rampollo Francesco è invece specialista in medicina interna a Bari nello staff di papà Palasciano. «Nessuno vuole dire che portare un certo cognome significhi automaticamente essere un cattivo professore - dice Romana Francesca Moscaggiuri, presidente del Consiglio degli Studenti - ma non è altrettanto vero che quello stesso cognome debba essere una garanzia». E si dice seriamente preoccupata, Romana Francesca, a nome di tutti i ragazzi, per il rischio che questo emergente malcostume finisca per «svaluta re» il loro sudato pezzo di carta. Preoccupazione che all'inizio del 2005 era stata anche dell'ex preside di Economia, il professor Carlo Cecchi, che pochi mesi prima di morire aveva lasciato la sua eredità di uomo integerrimo, d'altri tempi: due cartelle scritte al computer e datate 17 gennaio, con cui lanciava l'allarme su un altro grave sospetto, quello di un mercato degli esami con un preciso e dettagliato tariffario. Due cartelle da cui era scaturita un'altra indagine penale, ancora in corso. Ma sono proprio i vincoli di sangue ad alimentare in primo luogo questa Concorsopoli o Parentopoli che dirsi voglia. Lo è quel «Tengo famiglia» che il grande Leo Longanesi proponeva di sostituire come motto nazionale in luogo di «Repubblica fondata sul lavoro». Un malcostume che è anche figlio di troppe mammechiocce, terrorizzate dall'ipotesi di vedersi allontanare i propri pulcini. La conseguenza è quella «cosa folle» di cui ha parlato l'economista Giacomo Vaciago. Ovvero «che da noi si diventa ricercatori, poi associati e infine ordinari, tutto nella stessa università in cui si è stati studenti. Non succede in nessun altro Paese al mondo. Siamo malati di provincialismo, di familismo e di nepotismo». E come ha dimostrato il caso di Bologna, citato nella prima puntata di questa inchiesta, si tratta di una malattia che non affligge soltanto il Sud, ma anche il Nord. Senza dimenticare il Centro. Prendiamo l'università romana della Sapienza, per esempio. Dove il prorettore vicario, nonché professore ordinario e preside di Medicina e Chirurgia 1, Luigi Frati, non si sente mai solo dato che anche sul posto di lavoro ha sempre attorno a sé i figli Giacomo e Paola, entrambi professori associati, e perfino la moglie Luciana Rita Angeletti, che insegna Storia della medicina; più che una facoltà, una dépendance di casa. Non gli sono da meno il rettore Renato Guarini, attorniato dalle figlie Maria Rosaria e Paola; e il suo predecessore Giuseppe D'Ascenzo, che ha a portata d'occhio il figlio Fabrizio, ordinario di Economia. E la musica non cambia se si passa all'altro -ateneo romano, quello di Tor Vergata, dove il rettore Alessandro Finazzi Agrò, ordinario di Medicina e chirurgia, ha visto entrare entrambi i figli: Enrico come ricercatore di Neurologia ed Ettore come professore ordinario nel dipartimento di Studi romanzi della facoltà di Lettere e filosoia. E si potrebbe continuare così, di padre in figlio, con decine e decine di casi analoghi, dalle Alpi alle Madonie. Rischiando la noia, prima ancora che la rabbia. Il record dei Massai! nell'università barese: addirittura in sei sono diventati docenti In Puglia è arrivata la magistratura: finiti in un inchiesta dieci «professoroni» Alla Sapienza di Roma il rettore Renato Guarini lavora insieme con le due figlie E il pro rettore vicano si ritrova come colleghi due figli e pure la moglie ______________________________________________________ Corriere della Sera 12 Apr. ‘07 DOCENTI IN AMERICA, LA DIASPORA SI INTERROGA DIBATTITO Per due giorni si riuniscono a Washington gli studiosi italiani che insegnano negli Usa Bencivenga: «Nuova lobby». Schiavone: «Risorsa preziosa» Forse lavorando all' estero è più agevole, per uno studioso italiano, comprendere quali sono i tratti qualificanti della nostra identità nazionale. È l' ipotesi avanzata sulle pagine del Corriere da Ernesto Galli della Loggia, il 18 febbraio scorso, a proposito del progetto avviato dall' Istituto di Scienze umane (Sum) per creare una rete dei docenti italiani di materie umanistiche che operano in Nordamerica. Un' iniziativa che trova un primo importante momento di verifica domani e dopodomani a Washington, dove si sono dati appuntamento 130 professori universitari invitati dal Sum. Il convegno, che si tiene all' ambasciata italiana negli Usa e presso la Georgetown University, vede presenti molti nomi illustri: da Claudio Magris a Remo Bodei, a Gae Aulenti. Si parlerà di letteratura, filosofia, diritto, antropologia linguistica, storia, politologia. Lo scopo è porre la prima pietra per la costruzione di un ampio canale di comunicazione tra i 244 nostri connazionali che insegnano negli atenei degli Usa e del Canada: «Uno straordinario patrimonio di sapere italiano che s' identifica come tale - dichiara al Corriere il direttore del Sum, Aldo Schiavone - e che potenzialmente costituisce una risorsa enorme per il nostro Paese». L' idea ha suscitato un notevole interesse, e non solo tra gli accademici (circa 180 hanno aderito al progetto del Sum, anche se non tutti potranno recarsi al convegno). L' ambasciatore italiano negli Stati Uniti, Giovanni Castellaneta, ha insistito perché l' appuntamento fosse spostato a Washington da New York, dove in un primo tempo era stato programmato, per poterlo ospitare. E gli sponsor privati hanno contribuito generosamente, tanto che il Sum non spenderà un euro dei suoi fondi pubblici per finanziare l' incontro. «Speriamo che le imprese confermino la loro disponibilità - dice ancora Schiavone - perché per noi si tratta solo di un primo passo. Vogliamo invitare questi docenti a svolgere seminari ed altre attività in Italia, favorire gli scambi di notizie e la circolazione delle idee al loro interno, promuovere pubblicazioni comuni. Potrebbe nascere anche una rivista o un bollettino, magari soltanto in forma elettronica». Non tutti però hanno gradito. In netta controtendenza si colloca un intervento di Ermanno Bencivenga, docente di filosofia presso l' Università della California (sede di Irvine), uscito ieri sulla Stampa. Il docente rifiuta la qualifica di «esule dal Belpaese» e afferma di non considerarsi un «cervello in fuga», perché l' essere italiano «è solo un capitolo» della sua vicenda intellettuale. Inoltre l' iniziativa del Sum gli appare sospetta di lobbismo corporativo, secondo la logica per cui in Italia «ogni gruppo di quattro gatti tende a organizzarsi in gruppo di pressione». «Sono critiche francamente infondate - replica Schiavone - perché il lavoro che abbiamo avviato non ha nulla a che vedere con l' allarme per la cosiddetta "fuga dei cervelli", espressione che a me non piace per niente. Né tanto meno ci proponiamo obiettivi di tipo lobbistico. E neppure pretendiamo di sostituirci al governo nel compito di valorizzare a vantaggio del Paese il grande "giacimento culturale" costituito dai docenti italiani all' estero. Si tratta invece di mettere in contatto e far interagire un insieme di studiosi altamente qualificati per allestire una rete permanente d' irradiamento del sapere italiano in Nordamerica, della quale il Sum possa rappresentare il punto di riferimento stabile». Le osservazioni di Bencivenga riguardano anche un altro punto, l' accento posto sull' istruzione d' eccellenza, verso la quale si mostra molto critico. A suo avviso va rivalutata l' università di massa: «Piantiamola - scrive - con le reti accessibili a pochi privilegiati e ritorniamo con entusiasmo e passione in aule aperte a tutti». È evidente la frecciata al Sum, nato nel 2002 proprio per offrire ai laureati un' opportunità di qualificazione superiore all' interno del sistema pubblico. Schiavone giudica «provinciale» questa polemica: «Non amo la parola eccellenza. Il Sum fa alta formazione postdottorale: non ha senso autoproclamarsi eccellenti, sono gli altri che devono giudicare il nostro lavoro e verificarne la validità. Osservo però che in tutto il mondo l' università presenta diversi livelli di specializzazione. In America è pacifico che esista una differenza tra i college minori e Harvard o Yale. L' università di massa è necessaria, ma non le si può chiedere di garantire una formazione di qualità molto elevata, per la quale servono centri appositi. Noi vogliamo essere una di queste istituzioni: si può criticare il modo in cui cerchiamo di svolgere questo compito, ma non credo si possa negare l' utilità del nostro obiettivo». * * * PROTAGONISTI Carioti Antonio ______________________________________________________ Corriere della Sera 10 Apr. ‘07 QUALCHE ARGOMENTO CONTRO LE «QUOTE ROSA» A proposito delle «quote rosa» ovvero della riserva per legge di cariche elettive alle donne, vorrei osservare che, nonostante la benevolenza apparente del Parlamento, un provvedimento che imponesse di garantire posti al gentil sesso mi parrebbe in contrasto con il principio di uguaglianza, sebbene l' articolo 3 della Costituzione, che sancisce tale principio, sia ambiguo e perfino contraddittorio perché il primo comma (uguaglianza legale) non si concilia con il secondo (uguaglianza materiale). Comunque a me pare una verità di per sé evidente (Thomas Jefferson) che favorire le donne come tali costituisca una discriminazione appunto in base al sesso, perciò vietata dalla Costituzione due volte, in quanto attribuisce un vantaggio alle femmine e uno svantaggio ai maschi. Aggiungo che le donne degne di questo nome non approvano affatto questa pseudoparificazione ottenuta mediante una protesi legislativa non solo indubbiamente incostituzionale, ma anche d' implicito significato maschilista e paternalista. Roma Pietro Di Muccio de Quattro Caro Di Muccio de Quattro, le «quote rosa» sono una variante della politica che gli americani cominciarono a praticare parecchi anni fa sotto il nome di «affirmative action». Per superare la discriminazione di cui sono vittime alcune minoranze etniche (in particolare i neri), il governo degli Stati Uniti decise di favorire la loro carriera con qualche incentivo e qualche penalizzazione, soprattutto nei mestieri e nelle carriere che godono di benefici statali. Il settore in cui gli incentivi e le penalizzazioni vengono maggiormente praticati è naturalmente quello della educazione. L' operazione ha dato risultati buoni e cattivi. È accaduto che i neri e altre minoranze si scontrassero con minori ostacoli. Ma è accaduto altresì che alcune università, chiamate a esaminare candidature di docenti, scegliessero il professore di colore invece del bianco, anche se la qualità del primo era inferiore a quella del secondo. In Europa invece si è preferito applicare, soprattutto in politica, il metodo delle quote. Paradossalmente è un sistema che in altri tempi fu utilizzato con animo opposto: quello di impedire che certe minoranze fossero presenti, soprattutto nelle università, con percentuali «troppo» elevate. E' il caso dell' Impero zarista dove il numero degli ebrei nelle università statali fu soggetto a una sorta di calmiere. Ed è il caso dell' Urss che adottò lo stesso metodo per alcuni gruppi etnico-nazionali dell' Unione. Sono d' accodo con lei: il sistema delle quote rosa è certamente illiberale anche e soprattutto perché sovrimpone il criterio dell' equilibrio fra i generi a quello del merito. Ma esistono altre ragioni, più sostanziali. Le donne formano una categoria sociale particolare. Nelle società europee sono state spesso oggetto di una evidente discriminazione, anche giuridica. La famiglia è stata lungamente regolata dai principi della «patria potestà» e della trasmissione dei beni ai figli maschi. La donna ha avuto il diritto di voto soltanto nel Novecento. Le prime lauree femminili risalgono agli inizi del secolo scorso. E nel mondo dell' educazione vi furono anni, non molto lontani, in cui le insegnanti venivano relegate nelle aule delle scuole elementari. Ma la letteratura cortese le ha esaltate. Le monarchie non hanno esitato a collocarle sul trono. La Chiesa le ha santificate. Il culto mariano le ha nobilitate. La letteratura e l' arte ne hanno riconosciuto, anche se tardivamente, i talenti. Mi rendo conto che il loro potere, quando l' hanno conquistato, era troppo spesso il risultato della loro attrazione o della loro situazione familiare. Ma pochi contemporanei pensarono che Isabella di Castiglia, Elisabetta d' Inghilterra, Caterina de' Medici o Caterina di Russia fossero esseri inferiori. Vi è poi un' altra considerazione, caro Di Muccio, di cui occorre tenere conto. Il metodo delle «quote rosa» è fondato sul principio «femminista» che le donne vogliano, tutte o quasi, fare il mestiere degli uomini. E ignora il fatto che molto donne siano soprattutto desiderose di fare quelli per cui hanno una insostituibile vocazione naturale. Fare la madre è un mestiere. Educare i figli è un mestiere. Governare la famiglia è un mestiere. Pretendere che le donne facciano soltanto quelli è maschilismo. Supporre che quei mestieri siano meno importanti di una carriera politica o aziendale, è stupido. Romano Sergio ______________________________________________________ L’Unione Sarda 6 Apr. ‘07 MODIFICA DELLO STATUTO, FALLISCE IL BLITZ DI MISTRETTA Università. Infuocata riunione del Senato accademico, poi manca il numero legale Discussione sui mandati di rettore e presidi: salta la seduta Cariche da quattro anni per rettore e presidi, non eleggibili per più di due mandati consecutivi. La proposta ha suscitato critiche e dubbi. Il blitz è fallito. L’ennesimo attentato allo statuto dell’Università per cambiare durata e mandati delle cariche a rettore e presidi di facoltà non è riuscito. Nell’ultima seduta del senato accademico allargato è stata proposta la modifica di due articoli: quando si è intuito che la variazione sarebbe potuta andare buca, alcuni presidi hanno abbandonato l’aula facendo mancare il numero legale. Se fosse passata la proposta i mandati consecutivi sarebbero scesi a due, con un aumento degli anni di carica, da tre a quattro. Questo avrebbe consentito anche al rettore, Pasquale Mistretta, di chiedere al ministero un anno in più di rettorato. la proposta Attualmente il rettore (dopo le due modifiche negli ultimi cinque anni) può restare a capo dell’Università per quattro mandati consecutivi, da tre anni. Per i presidi le cariche consecutive possono essere tre. Durate eccessive a detta di tutti. Così un mese fa, è stato dato incarico alla commissione statutaria di avanzare delle proposte di modifica. Nell’ultima seduta del Senato accademico allargato, subito dopo la votazione della cessione degli edifici del Policlinico all’azienda mista, l’aula, a sorpresa, si è trovata davanti la discussione di modifica dell’articolo 68 e 82. Nel primo caso si sarebbe voluto portare le cariche elettive di rettore e presidi da tre a quattro anni, riducendo i mandati consecutivi da quattro a due. Con il secondo articolo non si sarebbero azzerate le situazioni attuali. i rischi Proposte che non sono piaciute. Dalle prime indicazioni di voto si è intuito che non si sarebbe raggiunta la maggioranza. Così per evitare una bocciatura, alcuni presidi presenti si sono alzati facendo mancare il numero legale. Il rettore era uscito dall’aula prima della presentazione delle proposte. Tra le perplessità maggiori la durata delle cariche: quattro anni sarebbe, secondo i critici, un tempo eccessivo. Inoltre, con una forzatura, l’attuale rettore avrebbe potuto chiedere, al ministro dell’Università una proroga di un anno al suo mandato. i dubbi Un altro passaggio poco chiaro quello relativo all’articolo 82 per non azzerare le cariche attuali, evitando così che il rettore e i presidi che avessero raggiunto il limite si potessero ripresentare. I maligni non si sono fidati: una volta approvata la prima modifica chi avrebbe garantito che sarebbe passata anche la seconda? Meglio non rischiare. Così con la votazione che stava andando verso la bocciatura, qualche preside, particolarmente seccato, ha lasciato la seduta. Matteo Vercelli la storia L’ultima volta due anni fa: così Mistretta si poté ricandidare Nel 2002 ci fu il passaggio da due a tre mandati consecutivi. Poi, nel 2005, la nuova modifica che portò il numero massimo a quattro. La storia dello statuto dell’università di Cagliari in questi ultimi anni è fatta di modifiche che hanno avuto quasi sempre come oggetto gli articoli sulle cariche del rettore, per permettere a Pasquale Mistretta di arrivare al sesto mandato e a diciotto anni di regno senza soste. Per questo quando i "senatori" si sono trovati davanti la nuova proposta sono rimasti perplessi. Tra i più critici i rappresentati degli studenti (una parte ha dichiarato che avrebbe votato contro, l’altra che si sarebbe astenuta). Diversi i contrari tra i docenti e gli amministrativi. Tutti d’accordo i presidi. C’è chi ha visto in questo blitz un tentativo di Mistretta di allungare di un anno il suo governo (eletto con uno statuto che prevede una carica triennale, in caso di un’estensione a quattro potrebbe chiedere una proroga al ministro). Ma in molti hanno il sospetto che la manovra sia soprattutto pilotata da alcuni presidi in vista delle prossime elezioni per il rettorato. Avere davanti quattro anni di governo, anziché tre, sarebbe molto meglio. (m.v.) ______________________________________________________ L’Unione Sarda 10 Mar. ‘07 ATENEO, PRECARIO UN DIPENDENTE SU TRE L’allarme dei sindacati: «Cresce l’esercito dei collaboratori» Cgil, Cisl e Uil a fine marzo hanno proclamato lo stato d’agitazione di tutto il personale dell’Università. Il prossimo passo sarà lo sciopero. Università. Su mille e novecento contratti, settecento sono a tempo determinato Un esercito di collaboratori e precari: all’Università, su poco meno di mille e novecento dipendenti, un lavoratore su tre non ha un contratto a tempo indeterminato. Tra co.co.co. (nell’ateneo di Cagliari sono più di seicento) e dipendenti occasionali (un centinaio) il precariato si è radicato negli uffici dell’amministrazione, nei laboratori, nelle aule delle facoltà, e nel Policlinico. Una situazione (aggiornata al 31 dicembre 2006) che non piace ai sindacati che stanno chiedendo al rettore impegni concreti per sconfiggere il problema. «Le Università - replica Pasquale Mistretta - non rientrano nel capitolo della legge finanziaria sulla stabilizzazione dei precari che riguarda gli enti pubblici. Dunque dobbiamo agire con programmi annuali, basandoci soltanto sulle nostre risorse». I DATI Tra personale tecnico e amministrativo e socio sanitario sono 1.165 i dipendenti con un contratto a tempo indeterminato su un totale di 1.876. Una piccola parte è rappresentata dai dirigenti (dodici) e dalle così dette elevate professionalità (sessanta). La conta prosegue con la categoria "D" (338 dipendenti), con la "C" (578, la fetta più grossa tra i lavoratori universitari) e con la "B" (174 stipendi). I PRECARI Le note dolenti arrivano con i numeri dei contratti a tempo determinato e con le collaborazioni. Nel primo caso la cifra a fine anno scorso arrivava a 104, compresi 31 lavoratori socio sanitari a tempo nell’azienda del Policlinico e nove braccianti agricoli impegnati nell’Orto botanico. La situazione più impressionante è però quella dei co.co.co. in piedi nel 2006: 607. Un terzo del personale impiegato nell’Università. LE CRITICHE I sindacati, davanti a questa situazione, picchiano duro. Nel mirino il rettore. Cgil, Cisl e Uil, a fine marzo, hanno proclamato lo stato d’agitazione di tutto il personale per la mancata concertazione sulla creazione di nuove direzioni e sullo spostamento di dipendenti da un ufficio all’altro senza interpellare le organizzazioni sindacali. Ma le motivazioni del primo passo verso lo sciopero non finiscono qui, arrivando a toccare anche il problema del precariato. «Si continua - attaccano Pino Calledda (Cgil), Tomaso Demontis (Cisl) e Ivana Locci (Uil) - a stipulare co.co.co. senza attivare le commissione paritetica. Inoltre da tempo abbiamo chiesto i dati completi, e aggiornati, sullo stato di occupazione nell’ateneo senza ricevere risposta». I sindacati non hanno gradito neanche il silenzio da parte dell’amministrazione centrale sulla richiesta di informazione «sui compensi fuori contrattazione». Nei prossimi giorni Cgil, Cisl e Uil potrebbero portare nuove accuse ai vertici dell’Ateneo per i numerosi precari in busta paga. «Serve una politica di stabilizzazione». LA REPLICA Mistretta garantisce il suo impegno per risolvere il problema, ricordando però che «l’Università non rientra tra gli enti pubblici inseriti nella legge finanziaria sull’assorbimento dei precari». Dunque «non avremo risorse economiche», anche se sono in corso trattative a livello nazionale per «evitare che gli atenei restino tagliati fuori dal provvedimento». Dunque la lotta al precariato passerà per forza dalla programmazione annuale decisa dall’Università cagliaritana: «Possiamo decidere di assumere alcune persone solo con le nostre forze», ricorda Mistretta. Il rettore dedica poi un capitolo a parte sui co.co.co.: «non hanno un orario rigido perché gli viene pagata la prestazione. Anche loro comunque hanno superato una selezione e possono rientrare in un piano di assunzioni». Matteo Vercelli ______________________________________________________ La Nuova Sardegna 5 Apr. ‘07 PIANTE SPAZZINE BONIFICANO I METALLI Antinquinamento: una nuova tecnica dell’Università di Cagliari consente di ripulire i siti dismessi Piombo e zinco resi inerti con la meccanochimica e la fito-stabilizzazione LUCIANO ONNIS CAGLIARI. La Sardegna all’avanguardia nel mondo per la bonifica dei suoli minerari inquinati da metalli pesanti: questo grazie a un’innovativa tecnica messa a punto da ricercatori dell’Università di Cagliari. Il nuovo sistema, basato sulla meccanochimica, consiste in un procedimento in apparenza anche abbastanza semplice: lo sgretolamento all’interno di speciali mulini delle porzioni di terreno inquinato, con successiva selezione dei metalli inquinanti come piombo e zinco che vengono di fatto “immobilizzati” definitivamente e messi nella condizione di non poter più rilasciare le sostanze nocive. Certo, a dirsi sembra una cosa abbastanza facile, ma in realtà la tecnica è abbastanza complessa e per i non addetti ai lavori piuttosto ostica da assimilare. C’è però da avere fiducia: lo staff di trenta ricercatori che ha lavorato all’innovativo sistema per quattro anni e mezzo, con il coordinamento del docente della facoltà di Ingegneria Giacomo Cao, è di assoluto livello e non c’è alcun dubbio che sarà presto applicato sul campo con risultati - promettono i tecnici - straordinari. I siti minerari che hanno fatto da laboratorio sperimentale sono quelli di Montevecchio, nell’Arburese-Guspinese, e di Barraxiuta, a Domusnovas (Iglesiente). Ma altri riscontri sono stati raccolti in diverse parti dell’isola dove le aree minerarie non mancano. Gli aspetti tecnici del progetto di ricerca chiamato Nuove tecnologie per la bonifica e il ripristino ambientale di siti contaminati» sono stati illustrati ieri mattina a Cagliari in un workshop organizzato a conclusione del relativo Progetto Pon (costo complessivo di poco superiore ai due milioni e mezzo di euro fra ricerca e formazione) che ha visto partner l’Università cagliaritana con il suo Centro interdipartimentale di ingegneria e scienze ambientali, i dipartimenti di Ingegneria chimica e materiali e di Geoingegneria e tecnologie ambientali, il Crs4 e l’impresa privata Scilla. In realtà le nuove tecniche di disinquinamento presentate dallo staff del professor Cao sono quattro: alla meccanochimica si aggiungono l’elettrocinesi, il getto d’acqua e la phytoremediation, quest’ultima davvero singolare perchè si basa su processi di fito-estrazione e di fito-stabilizzazione promossi da particolari specie vegetali in grado di estrarre o ridurre la biodisponibilità dei metalli pesanti in suoli contaminati. Gli studi hanno confermato che questa tecnica è particolarmente adattabile al sito minerario di Montevecchio proprio per la presenza in loco di idonee specie vegetali. La soddisfazione dei partner del progetto è tanta e legittimamente manifesta. In apertura del workshop, il prorettore dell’ateneo cagliaritano Franco Nurzia ha ricordato che «le strategie ambientali per il futuro passano per le sinergie fra centri di ricerche, imprese e istituzioni come l’Università» e che «la Sardegna sta già marciando da tempo in questa direzione, con risultati lusinghieri». In sintonia con Nurzia il vicepresidente del Crs4 Franco Meloni «Occorre uno sforzo per unire la ricerca accademica con il mondo delle imprese» e il rappresentante della Scilla (società con sede a Cagliari e Cairo Montenotte, in Liguria), Fabrizio Garau. A chiudere la dettagliata relazione del coordinatore scientifico del progetto, Giacomo Cao: «I risultati ottenuti rappresentano un dato scientifico di assoluto valore internazionale». ______________________________________________________ La Nuova Sardegna 5 Apr. ‘07 SVOLTA NELL’ATENEO DI SASSARI: PREMI ALLA PRODUTTIVITÀ DEI PROF Stimoli per rendere la ricerca più internazionale e dare visibilità alle indagini migliori PIER GIORGIO PINNA SASSARI. Produttività scientifica e premi. Concetti sino a qualche tempo fa impensabili per i docenti. Almeno nelle università italiane. E che ora cominciano invece a fare il loro ingresso nelle aule accademiche. In Sardegna, le prime applicazioni concrete. Nell’ateneo di Sassari in questi giorni venti professori hanno ottenuto un riconoscimento per l’attività svolta: cinquemila euro ciascuno. Appartengono un po’ a tutte le facoltà, ma alcuni settori sono più rappresentati di altri. In ogni caso, quel che conta è l’avvio di un processo innovativo. Trend che punta a riconoscere un risultato apprezzabile sul piano remunerativo per chi lavora meglio. LA REGIONE Due i primi in graduatoria. Per l’area scientifico-sperimentale Plinio Innocenzi, ordinario nel dipartimento di architettura e pianificazione. Per quella umanistica Momo Zucca, anche lui ordinario, ma di storia romana, archeologo, direttore dell’Antiquarium di Oristano e del Centro interdisciplinare di studio delle province romane. Il quadro di riferimento richiama esperienze all’estero già da tempo divenute patrimonio comune per generazioni d’insegnanti. Nell’isola tutto nasce, per il momento, in chiave sperimentale. S’inserisce in una fitta serie di relazioni instaurate tra l’università turritana e la Regione. Accordi in virtù dei quali l’amministrazione pubblica ha invitato i due atenei isolani a istituire precisi percorsi. Tutti tesi a incentivare i docenti di maggior valore. I TRAGUARDI Le intese, nel caso del capoluogo del Nord Sardegna, hanno portato a due sviluppi differenti. Il primo fa capo all’insieme di strumenti fissati con il programma visiting professor: nel 2006 duecentocinquantamila euro e quest’anno ben due milioni destinati ad assicurare l’arrivo nell’ateneo sassarese di decine di specialisti di altre università, con un interscambio di conoscenze utilissimo. La seconda situazione in divenire, come spiega il prorettore Attilio Mastino, delegato alla ricerca, concerne invece i centomila euro destinati ai docenti appena premiati. L’obiettivo finale di queste scelte innovative? Semplice, tutto sommato. E chiarito molto bene nello stesso regolamento per la distribuzione dei riconoscimenti: «promuovere la competizione tra i ricercatori» e «stimolare l’internazionalizzazione». In particolare il premio è rivolto a coloro che, «attraverso una produzione ampia e di qualità elevata, contribuiscono significativamente alla visibilità dell’ateneo». Per due mesi hanno così lavorato due distinte commissioni esaminatrici. Una per l’area umanistica, presieduta dal docente di diritto internazionale Paolo Fois. L’altra per quella scientifico-sperimentale, guidata dal professor Giuseppe Madeddu. Alla fine di un complesso lavoro di analisi è stata stilata una graduatoria. All’inizio comprendeva diciannove candidati specialisti della prima area e cinquantuno della seconda. I NOMI Tra loro sono stati scelti i venti premiati nelle ultime ore. Ecco, esclusi i primi due piazzamenti, l’elenco completo. Area umanistica: Baingio Pinna, Maria Sotera Fornaro, Francesco Lippi, Giuliana Altea, Luigi Matt, Antonietta Mazzette. Area sperimentale: Pier Andrea Serra, Quirico Migheli, Andrea Porcheddu, Roberto Paroni, Antonio Piga, Diego Francesco Calvisi, Ugo Della Croce, Maria Pina Dore, Bruno Golosio, Alberto Alberti, Franca Deriu, Marco Diana. Le due commissioni, alla fine, hanno suggerito una serie di modifiche migliorative, sull’attività di selezione, del regolamento per il prossimo bando di quest’anno, che sarà pubblicato in estate. Sin da questo momento, però, è di estremo interesse conoscere i criteri utilizzati finora per la scelta dei ricercatori da premiare. I punteggi che ciascun docente si vede attribuire derivano infatti da precisi coefficienti di valutazione. LE DECISIONI Un primo fattore di analisi è legato alle pubblicazioni fatte da ogni candidato negli ultimi anni. Per la sola area scientifica, in questo senso, si tiene conto del numero delle citazioni degli articoli quale emerge dalle banche dati nazionali e internazionali. Al termine la commissione esaminatrice, su questo specifico aspetto, dà un giudizio: buono, distinto oppure ottimo. Gli altri punteggi derivano da elementi diversi. Per esempio, soggiorni in centri di ricerca all’estero per un periodo di tempo superiore a sei mesi. Oppure i finanziamenti ottenuti per la propria ricerca. O i brevetti, naturalmente per l’area sperimentale. E, ancora, i riconoscimenti conseguiti su scala italiana e mondiale, l’età (più si è giovani più il voto è positivo), i giudizi (oscillanti tra buono ed eccellente) assegnati dal Centro di valutazione nazionale, oggi già trasformato in un’agenzia con funzioni pressoché analoghe. LE PROSPETTIVE A Sassari sono ora allo studio nuove forme di meritocrazia. Come informa ancora il prorettore, in relazione a questa specifica programmazione, si parla di altri duecentomila euro. «Le somme sono riservate a sette coordinatori nazionali e a venticinque locali che otterranno finanziamenti ministeriali per i progetti di ricerca d’interesse nazionale nell’anno accademico in corso - è la conclusione di Attilio Mastino - In questa circostanza, però, i riconoscimenti non sono personali, ma destinati ad alimentare le indagini scientifiche dei vari settori». Insomma, un complesso di percorsi innovativi, ad ampio spettro. Tutto per tentare di allineare l’università sarda, e più in generale quella italiana, ai processi di sviluppo internazionali. ____________________________________________________ Il Sole24Ore 12 apr. ’07 IL MICROCHIP VA IN ANALISI Allarme all'aeroporto per un virus. Aviaria o bioterrorismo? Che sia l'uno 0l’altro, tra poco potrebbe essere riconosciuto sul posto grazie a un labori chip, un minilaboratorio chimico-fisico realizzato su un unico chip. Tra i laboratori nel mondo che ne hanno sviluppato o ne stanno sviluppando, l'Istituto italiano di tecnologia (Iit) di Genova ne ha brevettato uno, il cui prototipo è stato realizzato dall'unità di ricerca dello stesso istituto localizzata all'interno del National nanotechnology laboratory del CnrInfm di Lecce. Grande quanto una moneta da 5o centesimi di euro, il prototipo ha il pregio di rivelare in tempo reale e precisione, non solo l'identità di molecole biologiche, ma anche la loro quantità. Il dispositivo può trovare applicazione per analisi in diversi campi: diagnostico, chimico, farmaceutico, ambientale, agroalimentare, con un rapporto prezzo/prestazioni interessante. Questo non solo perché la miniaturizzazione consente di utilizzarlo con minime quantità di reagenti e di campioni da esaminare, ma anche perché è possibile realizzare parti del dispositivo con materiali polimerici plastici di basso costo e con l’impiego di tecniche litografiche innovative, chiamate soft lithography. Tecniche particolarmente convenienti per fabbricare strutture con dimensioni che vanno da 30 nanometri,(miliardesimi di metro) a 100 micrometri (milionesimi di metro). Indicate con l'aggettivo "soft" perché si applicano a materiali soffici, come strati di molecole organiche, polimeri o materiali che hanno proprietà molto simili a quelle della gomma, detti elastomeri. Questi ultimi hanno anche la caratteristica che, se bucati con una siringa, si risigillano da soli una volta che l'ago è fuoruscito. Nel caso particolare del Uniochip dell'Iit, la soft lithography ha permesso di realizzare geometrie particolari nei materiali deformabili polimerici usati per costruire i pozzetti in cui si introducono le molecole da riconoscere. Il materiale polimerico che riveste l'interno del pozzetto ha anche la funzione di essere attivo otticamente e su di esso vengono immobilizzate le molecole che devono fare il riconoscimento (molecole sonda). Il metodo usato per l'identificazione sfrutta un segnale di fluorescenza, che si genera solo quando la molecola incognita e quella usata per il riconoscimento sono a distanza di pochi nanometri l'una dall'altra. Il fenomeno fisico alla base del processo è detto fret (fluorescence resonance energy transfer) perché le due molecole che si sono legate in seguito al processo di riconoscimento entrano in risonanza come due diapason e il conseguente trasferimento di energia dall'una all'altra produce il segnale di fluorescenza. Un'applicazione in campo farmaceutico potrebbe essere quella che interessa Sanofi-Aventis, la seconda azienda del settore in Italia. La compagnia, che da tempo collabora in questo ambito col laboratorio di Lecce, userebbe il Uiochip per identif care, in modo rapido e univoco, i nuovi microrganismi che i suoi laboratori generano quando, tramite agenti chimici o fisici, provocano modifiche nel genoma di patogeni conosciuti. L'uso del 1aU on chip potrebbe, per esempio, rendere più rapida la produzione industriale di nuovi antibiotici. «È importante sottolineare come, grazie alla collaborazione tra laboratori di ricerca e industria, sarà possibile valutare in modo rapido e affidabile la funzionalità dei chip prototipi e i vantaggi effettivi del sistema innovativo rispetto alle tecniche standard utilizzate dalle aziende specializzate - dice Roberto Cingolani, direttore scientifico dell'Iit -. Per quanto riguarda poi il trasferimento del processo di produzione del dispositivo dal laboratorio all'industria sono in corso trattative, così come per la sua commercializzazione, che si prevede possa cominciare nei prossimi anni, dopo la consueta fase di accurati test di funzionamento». ROSANNA MAMELI Nasce il minilaboratorio chimico fisico grande come 50 centesimi di euro ____________________________________________________ Il Sole24Ore 12 apr. ’07 IN POCHE MANI I FRUTTI DELLA RICERCA L'attuale normativa se non si interviene con nuove leggi rischia di condizionare campi come genetica e medicina ANDREA MONTI a colloquio con ALESSANDRO LONGO A regnare è ora la confusione. È l'anarchia che può preparare l'arrivo di un nuovo ordine, tale da incidere sui pilastri della società, nei prossimi anni. Dove un gruppo di aziende potenti riuscirebbe a dettare le sorti della medicina, della ricerca, Fino a 'diventare "Signori della Vita". È lo scenario che attende nei prossimi anni, se non si interviene subito con nuove leggi. Tocca fare chiarezza una Volta per tutte sui reali confini del diritto d'autore, che minaccia di estendersi ad altri campi, anche alla genetica. Bisogna risvegliare la coscienza delle persone, "piuttosto appannata", su questi temi. Sono questi i punti dell'allarme lanciato a Nova2q. da Andrea Monti, avvocato e massimo esperto di diritto nell'hi-tech, nonché organizzatore della prima conferenza italiana dedicata in modo trasversale a biotecnologia e diritto. L'immagine che Monti disegna del futuro può ricordare visioni orwelliane o persino cyberpunk, ma «anche se solo una piccola parte di ciò che temo si dovesse avverare, sarebbe comunque troppo». Per capire quello che abbiamo di fronte cominciamo da un esempio, di attualità, «emblematico della confusione regnante sui temi del diritto d'autore». Un'ordinanza del Tribunale di Roma, a marzo, ha obbligato Telecom Italia a fornire alla casa discografica -tedesca Peppermint Jam Records 3.636 nominativi di utenti Adsl. «Peppermint ha presentato una perizia di parte secondo cui dagli indirizzi Ip di quegli utenti è stato fatto peer tò peer di opere protette. Ha bisogno dei log di Telecom per associare a quegli indirizzi un nome, su cui eventualmente rivalersi». Il Tribunale ha accolto la richiesta di Peppermint, solo per «un errore di traduzione nel decreto legislativo con cui l'Italia recepisce la direttiva europea 2008/. Nella direttiva c'era scritto che in questi casi bisognava presentare "serious evidence", prove fondate del reato, per obbligare il provider a rivelare l'identità degli utenti. In Francia è stato tradotto bene (nel decreto che recepisce), con "preuve". In Italia è stato tradotto con "seri elementi". Così Peppermint, senza prove fondate (tale non è una perizia di parte, perché manca di contro-verifica), ma con "seri elementi" che testimoniano il reato, è riuscita a ottenere ragione in un Tribunale italiano. Ovviamente, come Al cei (associazione per la difesa delle libertà civili nell'era digitali) «abbiamo segnalato l'errore di traduzione, anche al Governo, ma nessuno si è curato di correggerlo, stimandolo poco importante. Alla prova dei fatti si sbagliavano». Il pericolo, ora, è che in virtù di questi presuppostile lobby riescano a fare passare il principio secondo cui «i provider siano considerati responsabili del traffico dei propri utenti. E quindi costretti a scegliere tra essere sceriffi della rete o complici dei pirati. Di questo passo, i provider rischiano di trovarsi, in prospettiva, spalle al muro con un'alternativa: bloccare il peer to peer o essere denunciati dai detentori di diritto d'autore». L'esempio dimostra tre cose, secondo Monti, i quali sono i nodi portanti della questione. Primo, la scarsa attenzione che ancora la società civile e la politica hanno per questi temi. Secondo, la confusione che regna sul diritto d'autore. Terzo, «dimostra come varie lobby stanno riuscendo a costruire principi giuridici, a livello comunitario, a loro favorevoli. E quando le norme passano in Italia a volte ulteriormente peggiorate- non ci puoi più fare niente». Bisognava pensarci prima, quando il dibattito era ancora nell'ambito comunitario. Com'è adesso nel caso di un altro esempio portato da Monti: «la direttiva comunitaria Ipred2 sulla proprietà intellettuale». Il Parlamento si esprimerà a riguardo, per eventuale approvazione, il 28 aprile. Monta ora in internet una protesta contro le novità inscritte nella direttiva. «È pensata contro i prodotti contraffatti che arrivano dall’estremo oriente. Il problema è che con il pretesto di proteggere la moda, sono stati inserite altre cose. Per esempio, si dà facoltà alle lobby di affiancare i pubblici ministeri nelle indagini. Come fosse una polizia privata». Non solo, secondo Monti la direttiva mostra al massimo livello quella confusione pericolosa che regna intorno al diritto d'autore. «Utilizza il termine "proprietà intellettuale" (da proteggere), mettendovi dentro cose diversissime: le opere e le invenzioni. Il problema è che si conferma così una deriva molto rischiosa, voluta dalle lobby: l'estensione del diritto d'autore anche a cose che opere non sono. Cioè le proprietà industriali». Il passaggio è sottile, ma va compreso bene perché è il nocciolo della questione che tanto impatto potrebbe avere sulla società. Solo sul diritto d'autore c'è stata una convenzione internazionale tra i Paesi. Non c'è stato invece dibattito sulla cosiddetta "proprietà intellettuale", per la quale quindi «l'Europa sta adottando tacitamente una definizione che è di un organo di parte, la Wipo (World Intellectual Property Organization, agenzia delle Nazioni Unite), secondo la quale questo termine racchiude sia il copyright sia le proprietà industriali delle aziende». È una svolta a cui si sta arrivando per gradi; «già ora sono protette da diritto d'autore cose che non sono opere e dove non è individuabile nemmeno un "autore" nel senso comune del termine». Per esempio, i database. «Ci sono database contenenti informazioni che sono pubbliche e che non appartengono a un privato. Ad esempio, sentenze giuridiche. Anche se il contenuto è pubblico, non posso estrarlo dal database e divulgarlo. Violerei il diritto d'autore dell'editore del database». Una volta inserite nel contesto di un database, quindi, quelle informazioni da pubbliche diventano, di fatto, proprietà di un privato. Secondo Monti, l'editore ha diritto a creare un business su quel database, vendendo il programma; ma la normativa non dovrebbe consentirgli di proteggere quei contenuti, già dichiarati pubblici, tramite diritto d'autore. Lo stesso problema, che impedisce a idee di pubblica utilità di circolare, investe i database della ricerca scientifica e medica. Non solo, adesso si va verso una svolta ulteriore in conseguenza di questo concetto allargato del diritto d'autore: «che qualsiasi contenuto, in quanto digitalizzato in un formato proprietario, debba essere protetto dal copyright». È una materia su cui urge chiarezza normativa. Investe in primis la biotecnologia, gli studi sulla genetica. Ad oggi i ricercatori non posso no brevettare una nuova sequenza di geni appena individuata, perché la normativa non la considera "invenzione", bensì "scoperta". Fatta la legge, trovata la scappatoia: «basta mettere questa sequenza in un file dal formato proprietario, di cui si detengono i diritti, e di fatto sì ottiene così la protezione del diritto d'autore sulla propria scoperta». Per esempio: un'azienda scopre la sequenza genetica che cura il cancro o che crea nuovi organi; la mette al riparo in un file e chiede, a medici e ricercatori che la vogliono leggere, di pagare la licenza del software necessario per accedervi. Estende così alla sequenza dei geni il diritto d'autore detenuto sul software e sul formato. «In questo modo, tramite l'informatica si ottiene un potere sulla vita delle persone. Si diventa "Signori della Vita"». Sono scenari a venire, certo. Ma le leggi attuali già li consentirebbero. Il problema rischia di esplodere presto, perché "la biotecnologia sta accumulando scoperte che hanno appena raggiunto una massa critica". La soluzione? «Fare norme che delimitino il diritto d'autore. Per impedire che ne siano protette, anche indirettamente, informazioni importanti per la società e la vita, come quelle sul Dna. I beni come le informazioni devono essere considerate "cose", oggetto di proprietà e non opere creative. Così in casi estremi possono anche essere espropriate dallo Stato per il bene comune ____________________________________________________ Il Sole24Ore 14 apr. ’07 PIÙ INTERATTIVITÀ, PIÙ RISULTATI L'ideale é lavorare online in gruppo e con la guida di un tutor di fiducia nell’e-learning aumenta, ma è evidente che studia re in aula sia comunque più gratificante». Lo afferma Patrizio De Nicola, docente d sociologia dell'organizzazione l'Università La Sapienza di Roma ed esponente di primo piano dell’e-learning nostrano. Le s e parole rimarcano la natura b ended, tipica variante della for azione a distanza in salsa italiana. Nel nostro paese a formazione in aula è difficile a abbandonare. A suo avviso è un retaggio culturale che ci pone una condizione di arretrate~ m za rispetto al resto del mondo? Nella formazione non è possibile eliminare completamente l'aula. Oggi si par a di formazione "anche" a distanza. Ma in alcuni momenti il gruppo-classe si deve incontrare. C'è una questione formativa psicologica alla base. Quali sono gli scenari attualmente presenti nella formazione a distanza? Oggi ci sono forze contrastanti: C'è un filone pensato per le aziende che si concretizza in moduli formativi ben costruiti con animazioni grafiche. L'idea è di impegnare il dipendente nella mezz'ora libera dal lavoro. È un modulo molto amato dalle Risorse Umane delle grandi aziende perché permette di investire in un corso che viene poi replicato a migliaia di persone. Il vantaggio è sul numero. L'altro modello cerca di proporre a distanza le dinamiche in aula di formazione. Non contano i moduli didattici, ma il livello di interattività. Cosa si intende per interattività? Ci si riferisce alla presenza del tutor online, alle attività di forum o di chat. È un modello ad alta intensità di manodopera. Quale modello sarà quello che maggiormente si imporrà in un prossimo futuro? Il secondo è il più promettente, anche se ancora sperimentale. Il livello di interattività sarà il futuro, ma ciò richiede forti investimenti economici, perché implica una presenza di formatori ad hoc, un'interazione tra studenti e la realizzazione di eventi anche asincroni con appuntamenti seriali di apprendimento collaborativo. Diciamo che significa essere online quando ci sono anche gli-altri. L'Europa della formazione a distanza che modello predilige? Esiste un modello europeo di formazione che ha fatto scuola anche fuori dal nostro continente e che prende spunto dai movimenti dei cognitivisti. Implica la presenza online del tutor. Lei parla di Europa che fa scuola, ma l'America sull’e-learning ha la meglio. Le nuove tecnologie della formazione parlano americano? In America l'e-learning nasce nelle università dove c'è manodopera e dove si è ricostruita la classe a distanza, mentre in Europa il fenomeno ha coinvolto un contenuto altamente strutturato con fruizione individuale. Qui da noi non sono state le università a creare l'e-learning, ma le imprese. Il modello americano diversamente da quello europeo, implica più formazione che addestramento. L'Europa dell'e-learning presenta tante anime. Perché !paesi scandinavi sono considerati un modello, tanto da fare letteralmente scuola anche da noi? Su quale substrato si basa questa eccellenza nord-europea? Le grandi università scandinave sono i riferimenti perché sono state pioniere. Nel Sud-Europa l’e-learning è arrivato tardi perché spagnoli e italiani, ad esempio, scontano un ritardo temporale sulle nuove tecnologie. D'altronde, in Italia i primi corsi si scontravano con la scarsa cultura informatica dei partecipanti. Quali sono le difficoltà dell'elearning del domani? Io credo che si vada verso una formazione a distanza personalizzata, anche con tutoraggio uno a uno, ma credo che il vero ostacolo non sia rappresentato dalla scarsa cultura informatica, quanto dal costo. La spesa si ammortizza in base al numero dei partecipanti. Più parliamo di personalizzazione e più aumentano i costi. «L'ostacolo non (a cultura informatica ma il costo che aumenta con 1a personalizzazione» 411,9:La spesa totale. Investimenti 2006 delle imprese italiane (milioni di euro) 18,6: Gli utenti. Percentuale di occupati già coinvolti in attività di e.learning 23,7: Il mercato mondiale. Stima di spesa 2006 per Idc (miliardi di dollari) ____________________________________________________ Il Sole24Ore 11 apr. ’07 E-LEARNING, LA NUOVA STAGIONE Il modello misto aula-lezione a distanza si dimostra vincente Giampaolo Colletti Ma c'è 'una nuova generazione di la oratori che si sta formando distanza. Bancari che frequentano corsi, medici alle prese con virtual patients,business- man che fanno Oba online. Ma nella formazione a distanza si trova un pò di tutto. Persino restauratori che imparano nuove tecniche utilizzando ambienti virtuali. La nuova stagione dell'e-learning fiorisce con una consapevolezza, maggiore all'ombra del web 2.0, lontana dagli entusiasmi della prima bolla speculativa internettiana. Le aziende lo hanno intuito e gli ad etti ai lavori cercano di intercettare i bisogni di un'utenza molto variegata. Si formano online sia profili aziendali medio-bassi, che figure strategiche poste in ruoli chiave. Rispetto all'erogazione indistinta del passato, oggi la formazione non è indiscriminata. Il target è viene intercettato tramite una personalizzazione dell’offerta che é costosa, ma efficace. Si va dal broadcasting al narrow casting. Le diverse piattaforme tecnologiche aiutano a mirare target specifici. Si giunge addirittura al mobile wireless learning, ultima frontiera dell'apprendimento, grazie ai nuovi dispositivi mobili. Almeno in Italia la parola d'ordine è blended learning. L'aula reale, ben radicata nella formazione nostrana, non scompare ma si affianca a quella virtuale, implicando anche il supporto telefonico o il tradizionale workshop: «In Italia abbiamo una notevole capacità di gestione di tutoraggio. Il tutor è strategico. È un facilitatore», afferma Mauro Meda, direttore generale dell’Asfor, ente certificatore. Tutoring significa anche, nell'e-learning europeo, comunità di pratica, che permette un reale processo di apprendimento. «Da noi la preferenza per la formazione d'aula fa sì che l’elearning sia solo una parte. È necessario il momento di confronto. Perciò i nostri accreditamenti non sono percorsi totalmente online». Il modello blended cerca di competere con gli approcci (e i numeri) vincenti della formazione a distanza americana. La mappa della diffusione dell'e-learning evidenzia, in termini di utenti e di fatturato, la posizione dominante degli Usa, seguita da Regno Unito, Svezia, Finlandia e Norvegia. A favore del trend statunitense giocano la tipologia organizzativa di molte aziende multinazionali decentrate su un vasto territorio e una componente culturale che simpatizza con le nuove tecnologie. Soprattutto nelle università e negli istituti di ricerca. Anche in Italia il fenomeno presenta eccellenze, soprattutto legate alle grandi imprese. Dall'osservatorio . sull'e-learning 2006 Aitech-Assinform emerge che la spesa complessiva da noi è stata di 411,9 milioni di euro, con un incremento del 12.7% rispetto al 2004. Le previsioni per il 20o6 vedono il potenziamento della formazione a distanza nelle grandi imprese, con una stima di479 milioni di euro, che rappresenterebbe una crescita del 16.2 percento. «Le grandi aziende sono ancora il vero motore della crescita e puntano sull'e- learning perché coniuga bene il senso di urgenza per competere su assi temporali più brevi che in passato», afferma Roberto Liscia, docente del Politecnico di Milano e vice-presidente Aitech-Assinform. L'e-learning è ideale per la formazione manageriale perché presenta strumenti di simulazione. Perciò si sta sviluppando verso i quadri e l'alta dirigenza. Il panorama non è tutto roseo, aggiunge Liscia. «Le piccole e medie imprese sono poco sensibili e i dati sono in leggera flessione. E nemmeno la Pa ha fatto investimenti adeguati». Secondo, invece, l'ultima indagine Isfol Indaco-Lavoratori, tra gli occupati solo il 32,7% ha fatto formazione e, di questi, solo uno su cinque è stato partecipe di attività di e-learning (18,6%). «Le metodologie e-learning risultano ancora sotto utilizzate», afferma Roberto Angotti, ricercatore Isfol. Numeri ancora esigui, ma qualità essenziale. Soprattutto per la formazione di alta dirigenza. Il corsista Mba online ha una provenienza aziendale e geografica diversa. « Si tratta di manager tutti laureati e occupati da almeno quattro anni - precisa Meda di Asfor -, con grandi ambizioni e in fase di forte crescita professionale, dislocati lontano dai centri metropolitani e provenienti da realtà disparate. Anche perché staccare la spina garantendo la presenza fissa in aula a volte è un privilegio esclusivamente di chi è inserito in contesti multinazionali». Le aziende che erogano e-1earning si stanno moltiplicando, protese tra offerta tecnologica e produzione di contenuti. E si accentua anche 1a ricerca. È il caso della realtà internazionale Giunti Labs. La divisione Giunti Interactive sviluppa progetti cofinanziati dalla Comunità Europea. Ad esempio, i medici radiologi inglesi per formarsi a distanza utilizzano un pezzetto di tecnologia italiana. ____________________________________________________ il Riformista 14 apr. ’07 SE I DOTTORANDI ITALIANI NEGLI USA HANNO LA SINDROME DI TROISI UNIVERSITÀ. LA «FUGA DI CERVELLI» NON È UN BUON SINTOMO. MA NEANCHE L'ATTENDISMO NADIA URBINATI C'è paura di «emigrare», si vuole solo «viaggiare». I ricercatori del nostro paese temono lo sradicamento e soprattutto il rischio di bruciarsi i ponti per un eventuale ritorno. Perché nel nostro sistema accademico, statico, l'immobilità é considerata un valore, la mobilità no Washington. Nella lettera d'invito all'incontro con i docenti italiani che insegnano nelle università americane, il primo nel suo genere mi sembra, Aldo Schiavone mi chiedeva di «riflettere sulla mia vicenda intellettuale di studiosa formatasi in Italia, e poi inseritasi in un ambiente culturale e accademico per tanti aspetti così diverso» da quello italiano. Non so se la mia esperienza sia di qualche interesse - come ogni esperienza è unica e difficilmente generalizzabile; la mia in particolare, così inconsueta e eccezionale, perché la mia decisione di partire per gli Stati Uniti vent'anni fa non fu una decisione di emigrazione - mi è difficile pensare a come si possa razionalmente decidere di emigrare. Stavo completando il dottorato all'Istituto Universitario Europeo e l'America era per me un paese lontanissimo (oggetto molto più spesso di critica che non luogo ideale). Comunque, senza voler emigrare sono diventata un'emigrata. Senza nessuna affiliazione universitaria e con una scarsissima familiarità con la lingua mi sono trovata in un paese che non mi ha mai chiuso le porte, almeno non non prima di avermi dato l'opportunità di provare me stessa. Non ci sono al mondo paragoni possibili con nessun paese; non mi interessa qui cercarne la ragione: se per l'enorme ricchezza di risorse, la vastità del territorio 0l’etica della responsabilità individuale. Mi interessa precisare che non è a questa situazione ideale che l'Italia può concretamente ispirarsi, perché inimitabile e ineguagliabile. Una riflessione più utile che a partire dalla mia esperienza vorrei proporre è invece quella relativa all'emigrazione e agli effetti perversi che il timore dell'emigrazione può creare, e crea, nelle nuove generazioni, ovvero in chi prende oggi la decisione di partire. Questo timore, spesso fortissimo, mette in evidenza un vizio o un ostacolo nel sistema accademico e della ricerca italiano che è molto marcato anche se può essere corretto o rimosso; anzi, sarebbe nell'interesse del sistema che venisse rimosso. Quando sono arrivata negli stati uniti, nel 1987, la presenza di accademici nelle discipline non scientifiche e non legate direttamente alla lingua e storia italiane, era decisamente minoritaria. Ancora oggi penso che si contino sulle dita di una mano i docenti con formazione italiana che insegnano teoria politica negli Stati Uniti. Ma nel corso di ' questi anni, alcune cose sono cambiate. Per esempio, è cominciata una nuova forma di presenza italiana quella di studenti italiani che presentano domanda per essere ammessi a corsi di dottorato nelle università statunitensi. Personalmente ho sempre cercato di sensibilizzare i colleghi italiani affinché indirizzino bravi studenti verso le università americane, e in particolare Columbia. E devo dire con soddisfazione che nel dipartimento di Scienze Politiche dove lavoro, contiamo oggi tre dottorandi italiani. Si tratta per me di un fatto molto importante; del mio modo di dare un contributo al mio paese, o meglio a quelle persone del mio paese che ritengo siano meritevoli di studiare a Columbia. Il mio non è un gesto di parzialità; molto più semplicemente seme in grado di leggere e valutare i certificati di attestazione dei voti rilasciati dalle nostre università e questo fa la differenza, perché può te nere aperto il fascicolo di un brave candidato che in altre circostanze verrebbe chiuso perché difficile da decifrare. Il mio aiuto è quindi molto tecnico. Comunque sia, l'ammissione d - studenti italiani al dottorato mi h~ fatto conoscere una realtà che è in quietante: il timore dell'emigrazione ha un fortissimo potere deterrente sui giovani i quali preferiscono spesso sacrificare il loro futuro pur d non dover emigrare. Non è difficile intuire il senso di sradicamento e esclusione che la condizione dell'emigrazione provoca - ricordo spesse la famosa battuta di Massimo Troisi un napoletano che "viaggiava" ma non voleva essere un emigrato; non è difficile capire immediatamente che questi giovani sono messi di fronte a un problema esistenziale e psicologico difficile, un problema che non dovrebbero avere. Gli studenti ammessi al dottorato a Columbia provengono da tutti i paesi del mondo e la notizia dell'ammissione è per loro una fonte di reale soddisfazione e gioia. Ma gli studenti italiani sono insieme felici e preoccupati perché temono di non poter più tornare in Italia. Sanno ancora prima di prendere la decisione di partire per gli Stati Uniti che il ritorno potrà per loro essere un problema, per l'ovvia e perenne scarsità di risorse e quindi di opportunità di reclutamento nell'accademia italiana; ma anche, anzi soprattutto, perché è noto che nell'accademia italiana vige la pessima regola di considerare l'immobilità come un bene da premiare e la mobilità come un male; se poi si tratta di mobilità in un'università americana, allora si tratta di un "lusso" da punire. Chi va a studiare all'estero, i nostri ragazzi lo sanno e lo temono, rischia di dovere diventare un emigrato contro la propria volontà, come se debba essere punito con l'esclusione quello che viene considerato un privilegio che chi resta in Italia non si è potuto concedere. Questa è una condizione riprovevole che, mentre produce sofferenza in chi la subisce, non fa del bene al paese. Se l'India o la Cina sono oggi paesi di tanto successo economico è in parte anche perché non hanno emigrazione intellettuale: i loro studenti vengono a perfezionarsi nelle università americane 0 occidentali ma per tornare nei loro paesi, non per emigrare. La risorsa della cultura non è in quei paesi solo un bene personale di chi la possiede, ma è anche un bene generale. Il ritorno dei ragazzi che vengono a studiare negli Stati Uniti non deve poter essere un problema - è nell'interesse del sistema Italia, oltre che nel loro. *Docente di Teoria politica alla Columbia Università ____________________________________________________ il Giornale 8 apr. ’07 ECCO GLI SCIENZIATI CHE SMASCHERANO TUTTE LE BUGIE SULL'ENERGIA «PULITA» Nino Materi Catastrofisti contro «rassicuratori». Una guerra stucchevole che, negli ultimi anni, ha raggiunto vertici tragicomici. Ne volete la prova? Entrate in una qualsiasi libreria e soffermatevi sullo scaffale riservato al tema «Ambiente»: troverete due categorie di titoli equamente suddivisi tra chi prospetta una Terra «ormai sull'orlo del baratro» e chi vede per il nostro Pianeta «nessun elemento di preoccupazione». Sbagliano entrambi, ovviamente. Peccato che un libro che si ispirasse à una mediana posizione di buonsenso non venderebbe una sola copia. E allora via con gli opposti estremismi su inquinamento, effetto serra, desertificazione, scioglimento dei ghiacciai al grido di «Siamo tutti condannati», oppure «Tranquilli, ce la faremo». In questo contesto è importante che ci sia qualcuno in grado di fare da «bussola» tra il Nord della menzogna e il Sud delle verità infusa: un ruolo di equilibratore dei punti cardinali scientifici che da anni l'associazione «Galileo 2001» ricopre col prestigio dei suoi aderenti. E proprio questi, il 4 aprile, hanno inviato una lettera aperta al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: un testo dalle firme «trasversali», sottoscritto da esperti di varia estrazione accademica e di diverso orientamento politico. Nomi noti nella comunità scientifica accomunati dalla convinzione che la realtà non corrisponde ai sogni; i sogni di chi pensa di risolvere il problema dell'energia del futuro affidandosi al potere taumaturgico di parole magiche come «biocarburanti», «eolico», «fotovoltaico». Una sorta di fantastica Centrale Naturale con piante, vento e sole che entrano da un'immaginaria «porta A» ed escono da una «porta B», altrettanto immaginaria. Ed è da questo sentire comune che è nata la lettera firmata dal prestigioso gruppo di cervelli aderenti a «Galileo 2001», impegnata da sempre nella lotta «per la libertà e la dignità della scienza». Cosa dicono gli scienziati di «Galileo 2001» al presidente Napolitano? Innanzitutto gli fanno notare tre principali bluff ambientali che vanno sotto i nomi di «biocarburantii», «eolico» e «fotovoltaico»: guarda caso proprio i comparti energetici sui quali il governo Prodi sta stanziando i finanziamenti più ingenti. Un'operazione boomerang secondo i 49 firmatari del documento, tra cui personaggi del calibro di Umberto Veronesi, Umberto Tirelli, Tullio Regge e Franco Battaglia: «Dal punto di vista degli impegni assunti con la sottoscrizione del Protocollo di Kyoto, rileviamo che l'Italia si è impegnata a ridurre entro il 2012 le proprie emissioni di gas-serra del 6.5 per cento rispetto alle emissioni del 1990. Poiché da allora le emissioni italiane di gas- serra sono aumentate, per onorare l'impegno assunto dovremmo ridurre quelle odierne del 17 per cento, cioè di circa 1/6. In considerazione dell'attuale assetto e delle prospettive di evoluzione a breve medio termine del sistema energetico italiano, il suddetto obiettivo è tecnicamente irraggiungibile nei tempi imposti». Soprattuto se poi si avrà la testardaggine di imboccare strade sbagliate, tre delle quali non mancano di essere sottolineate nella lettera indirizzata al Quirinale. «Per sostituire il 50% del carburante per autotrazione con bioetanolo, tenendo conto dell'energia netta del suo processo di produzione, sarebbe necessario coltivare a mais 500.000 kmq di territorio, di cui ovviamente non disponiamo. Anche coltivando a mais tutta la superficie agricola attualmente non utilizzata (meno di 10.000 kmq), l'uso dei biocarburanti ci consentirebbe di raggiungere meno del 2% degli obiettivi del Protocollo di Kyoto. «Sostituire con l’eolico il 50% della produzione elettrica nazionale da fonti fossili significherebbe installare 80 GW di turbine eoliche, ovvero 80.000 turbine (una ogni 4 kmq del territorio nazionale). Appare evidente il carattere utopico di questa soluzione (che, ad ogni modo, richiederebbe un investimento non inferiore a 80 miliardi di euro). In Germania, il Paese che più di tutti al mondo ha scommesso nell'eolico, i 18 GW eolici - oltre il 15% della potenza elettrica installata - producono meno del 5% del fabbisogno elettrico tedesco. «Per sostituire con il fotovoltaico il 50% della produzione elettrica nazionale da fonti fossili sarebbe necessario installare 120 GW fotovoltaici (con un impegno economico non inferiore a 700 miliardi di euro), a fronte di una potenza fotovoltaica attualmente installata nel mondo inferiore a 5 GW. Installando in Italia una potenza fotovoltaica pari a quella installata in tutto il mondo, non conseguiremmo neanche il 4% degli obiettivi del Protocollo di Kyoto». L'alternativa proposta dagli scienziati di «Galileo 2001»? Il Nucleare. «Per sostituire il 50% della produzione elettrica nazionale dafonti fossili basterebbe installare 10 reattori del tipo di quelli attualmente in costruzione in Francia o in Finlandia, con un investimento complessivo inferiore a 35 miliardi di euro. Avere 10 reattori nucleari ci metterebbe in linea con gli altri Paesi in Europa (la Svizzera ne ha 5, la Spagna 9, la Svezia 11, la Germania 17, la Gran Bretagna 27, la Francia 58) e consentirebbe all'Italia di produrre da fonte nucleare una quota del proprio fabbisogno elettrico pari alla media europea (circa 30%)». Una posizione destinata a rimanere isolata in un Paese dove le amministrazioni locali gareggiano per inserire nei cartelli di ingresso alla città la scritta «Comune denuclearizzato». Non servirà a produrre energia pulita, ma fa tanto ambiental-chic. ================================================= ______________________________________________________ Corriere della Sera 12 Apr. ‘07 LA CARICA DEI MALATI IMMAGINARI C'è qualcuno disposto a scommettere una nocciolina sulla «ricetta» del presidente degli Ordini dei Medici Amedeo Bianco e dei sindacati, che hanno suggerito di delegare al «paziente» l'auto-certificazione della propria malattia per i primi tre giorni? Fossimo in Gran Bretagna, dove l'ex ministro Aitken è finito in galera per aver detto d'aver pagato lui il conto dell'hotel Ritz dove aveva incontrato due principi sauditi, benissimo. Ma qui? Per farsi un'idea di cosa succederebbe basta un giretto negli archivi: 126 capifamiglia inquisiti a Locri per avere imbrogliato sull'esenzione dal ticket, 859 persone (tre milionarie) denunciate a Enna perché dichiarando il falso avevano il «reddito minimo di inserimento», 321 «comunali» napoletani indagati per essersi aumentati lo stipendio inventandosi a carico suoceri e cugini. È facile appellarsi, ignorando le migliaia di truffe sui bonus bebè (370 a Voghera, 860 a Treviso, 250 a Perugia ...) al senso civico degli italiani e bla bla bla. Ma c'è qualcuno che davvero, pur di sottrarsi alla chiamata al senso di responsabilità di Pietro Ichino, è disposto ad affidare il diritto a marcar visita (oggi, qui, con queste leggi e con questi condoni) agli stessi malati immaginari sui quali troppi medici chiudono entrambi gli occhi? Conosciamo l'obiezione: basta fare leggi severissime. Sì, ciao: non c'è in Italia una parola ormai svuotata di ogni senso quanto «severissimo ». Ci vorrebbero un governo deciso a fare scelte impopolari (scansate sia a sinistra sia a destra), una maggioranza e una opposizione sgravate da partitini pronti a cavalcare le proteste di piazza, un sindacato coraggioso disposto a ridiscutere il suo ruolo di feroce guardiano dell'intoccabilità, sempre e comunque, del posto di lavoro. Dove sono? Anni fa la corte dei conti inglese denunciò scandalizzata che i bobby londinesi, immersi nel traffico sotto la pioggia, mancavano 14,4 giorni l'anno a testa. Da noi, dice la Ragioneria Generale, i giorni di assenza per malattia, permessi retribuiti e scioperi nel 2005 nel comparto pubblico sono stati mediamente (dai lavori più pesanti ai più eterei) 21 giorni e mezzo nel caso delle donne, quasi 13 degli uomini. Con picchi sconcertanti: rispettivamente 38,01 giorni di assenza pro capite delle donne e 23,67 degli uomini nelle agenzie fiscali, 34,23 e 20,29 alla Presidenza del Consiglio, 30,12 e 15,83 nel servizio sanitario, 27,51 e 18,89 nei ministeri, 25,87 e 15,85 nelle regioni e negli enti locali. Sono passati quasi vent'anni da quanto Sergio D'Antoni sbuffava contro i carabinieri («sarebbe meglio se impiegassero il tempo contro la criminalità organizzata ») rei di aver setacciato centinaia di assenteisti nei ministeri dove, secondo Pierre Carniti, i dipendenti s'erano «autoridotti l'orario di lavoro, arrivando in ufficio in ritardo e uscendo in anticipo» e contavano nei dicasteri su «118 bar interni, 52 supermercati, 15 agenzie di viaggi, 35 studi medici, una quindicina di sportelli bancari e centinaia di negozietti, più o meno clandestini». Venti anni di nobilissime dichiarazioni di intenti, dette e ridette, sull'obbligo morale di premiare i bravi e punire i furbi. Eppure due giorni fa lo stesso assessore al personale del comune di Napoli ha dovuto ammettere che non solo i dipendenti di 13 assessorati su 16 ma la netta maggioranza dei 12.960 «municipali» partenopei non timbrano il cartellino. E l'idea del sindaco di Giugliano (la terza città campana per abitanti) di combattere l'assenteismo obbligando gli impiegati a firmare con l'impronta digitale la loro presenza è stata bocciata dai sindacati così: «Non siamo mica alla Nasa o alla Cia!» Novecento chilometri più a nord, nel frattempo, grandinava sul «re dei trapianti» di fegato delle «Molinette » di Torino Mauro Salizzoni. Che in uno sfogo a La Stampa, aveva osato dire che nel suo ospedale, «come altrove, c'è una marea di infermieri che non fa nulla. E se non sono il 50 per cento, saranno il 40». Ma come: lui? Vicino a Rifondazione Comunista? «Io sono di sinistra, difendo i lavoratori e non gli imboscati! C'è gente che meriterebbe la medaglia, per quanto dà all'ospedale. E altri che dovrebbero essere stanati». Non l'avesse mai detto! «Quello si è montato la testa perché è finito due volte in Tv. E' meglio che faccia il luminare, senza parlare di cose che non conosce», l'ha bacchettato il delegato Cisl, Alfredo Ventre. Quanto all'accusa al sindacato d'aver «messo il veto» agli incentivi ai più bravi e volonterosi, il segretario torinese rifondarolo Gianni Favaro, dopo aver spiegato che «il sindacato non può fare l'ispettore », non ce l'ha proprio fatta a trattenersi. I premi non gli piacciono, dice, «perché in genere vanno ai leccaculo, spioni, ruffiani e baciapile». Con una sinistra così, immaginatevi la fifa che devono provare i fannulloni... di GIAN ANTONIO STELLA ______________________________________________________ L’espresso 15 Mar. ‘07 IN PAZIENTE ATTESA Da tre a dodici mesi: tanto si deve aspettare per le prestazioni del servizio pubblico. Ma non per chi può pagare Quattro mesi per poter iniziare una radioterapia. Tre per fare una biopsia e accertare una malattia oncologica. Ancora: 400 giorni per una mammografia, 210 per essere visitati da un cardiologo e 150 da un diabetologo. Continua con questi ordini di grandezza la mappa dei tempi che i cittadini devono attendere per ottenere prestazioni, spesso salvavita, dal Servizio sanitario regionale stilata dal Tribunale di diritti del malato-Cittadinanza attiva col suo rapporto "Pit-Salute 2007". A segnalare un'emergenza che non si sana se è vero, come mostra il rapporto, che le lamentele dei malati in materia di liste d'attesa crescono senza sosta da dieci anni e nel 2006 sono aumentate del 2,4 per cento, nonostante proprio quet'anno sia entrato in vigore il cosiddetto "Piano di contenimento dei tempi d'attesa" siglato con un accordo Stato-Regioni. Ma la consueta litania sulle liste di attesa registrata dal Tribunale dei diritti del malato, quest'anno si arricchisce di un dato nuovo quanto inquietante. I malati, nelle loro segnalazioni, non solo denunciano i tempi lunghi, ma raccontano come quella che doveva essere una rivoluzione di modernità si sia trasformata in una sistema iniquo come non mai, sia pure previsto dalla legge. Il sistema è quello del cosiddetto intramoenia, ovvero quel regime che stabilisce, dentro la struttura pubblica, due liste d'attesa: quella lunga mesi e mesi e gratuita, e quella rapida ma a pagamento. Non importa quale sia la richiesta, la risposta quando ci si rivolge a una struttura sanitaria pubblica o convenzionata per prenotare un esame diagnostico, una visita specialistica o un intervento chirurgico è sempre la stessa: se paghi fai in fretta, se no aspetti. Per molte prestazioni si può aspettare. Per altre, no. È quanto succede in ambito oncologico, ovvero per quelle terapie che, per loro stessa definizione, prima si fanno, più alte sono le probabilità di sopravvivere al grande killer. Così una signora, dopo essere stata operata in un centro oncologico milanese, viene avvisata della necessità di effettuare il prima possibile un ciclo di radioterapia: per il servizio pubblico, però, "prima possibile" significa dopo tre mesi. In intramoenia, invece, la terapia può partire subito, alla tariffa di 8 mila euro. Un'attesa ancora più lunga è quella prospettata in un importante ospedale settentrionale a una paziente pugliese con adenocarcinoma ovarico. Secondo il medico che la visita, l'intervento chirurgico è urgente, ma il primo posto utile nel canale pubblico è disponibile solo dopo sei mesi. Per l'operazione in intramoenia bastano un paio di settimane e 14 mila euro. E questo non è neppure un limite massimo: c'è chi per un intervento per cancro dell'utero ha dovuto sborsare 25.742 euro. La questione delle doppie liste assorbe da sola circa un quarto delle segnalazioni giunte al Tribunale. Nell'anno appena trascorso, le prestazioni acquistate in intramoenia hanno riguardato nel 70 per cento dei casi esami diagnostici (ecografie, risonanze magnetiche, mammografie, amniocentesi) e visite specialistiche, e nel 25 per cento dei casi interventi chirurgici (tre quarti dei quali in ambito oncologico, seguito da quello ortopedico). «Per alcune visite, soprattutto in angiologia, fisiatria, cardiologia, oculistica, ortopedia, urologia e ginecologia, il ricorso alle prestazioni in intramoenia è così frequente da far apparire il regime di assistenza pubblica del tutto teorico», dichiara Alessio Terzi, vicepresidente del Tribunale per i diritti del malato. In altre parole, le liste d'attesa sono così lunghe che non c'è altra scelta se non quella di mettere mano al portafogli. Dalle segnalazioni al Tribunale emerge che per tre cittadini su quattro quella di rivolgersi a un professionista in regime intramurario è considerata non una libera decisione, ma una scelta imposta e dettata dalle necessità. E, per questo, vissuta come un'ingiustizia. Non solo: che le liste siano lunghe e non accorciabili è ormai un luogo comune anche per il personale addetto alle prenotazioni. Tanto che nell maggior parte dei casi è proprio il centro prenotazioni dell'ospedale o della Asl a suggerire di « andare a pagamento ». In altre situazioni, al limite dell'etica professionale, invece, è il medico stesso a far intendere, o addirittura ad affermare in modo esplicito, che sarebbe meglio scegliere questa strada, perché un'attesa troppo lunga potrebbe compromettere le condizioni di salute. Proviamo allora a immaginare cosa pensa un malato oncologico che sa di dover far presto, inerme di fronte alle inefficienze del Servizio sanitàrio e terrorizzato da una diagnosi che, se non è più sempre sinonimo di condanna a morte, è comunque, sempre, l'annuncio di un calvario da affrontare il più rapidamente possibile. In queste circostanze il medico ha gioco facile a insistere sul principio "prima si fa, meglio è", che per il paziente suona come: «Se pago, la mia possibilità di sopravvivenza aumenta». Non solo: nel servizio pubblico è assolutamente impossibile organizzare il lavoro in modo da permettere a un paziente di essere sempre seguito dallo stesso medico. Questa ineludibile necessità organizzativa risulta in un aumento del disorientamento del malato e dell'idea di non essere seguiti al meglio. Così, è spesso il medico a suggerire di ricorrere all'intramoenia per poter essere accompagnati da lui per tutto il percorso terapeutico. E i cittadini che chiamano il Tribunale denunciano che spesso i medici insinuano che per chi paga non sia diversa solo l'attesa, ma anche il tipo di prestazione ottenuto. «Non c'è da stupirsi se i pazienti, che si sentono proporre due tempi d'attesa e due prezzi diversi per prestazioni effettuate nello stesso posto, con le stesse attrezzature, dallo stesso personale, si sentano vittime di una vera e propria truffa», dichiara Giulia Mannella, responsabile del servizio Pit SaIute. Quasi il 20 per cento dei cittadini che hanno contattato il Tribunale ha giudicato le spese sostenute per prestazioni in intramoenia troppo alte rispetto alle proprie possibilità economiche. Per di più, è anche molto difficile riuscire a capire se la cifra pagata è davvero congrua. «Ogni azienda ospedaliera dovrebbe esporre un tariffario delle prestazioni intramurarie, ma sono poche quelle che lo fanno davvero e in ogni caso spesso si tratta di tariffe minime», afferma Mannella. Così, se le visite specialistìche costano in genere tra gli 80 e i 100 euro, c'è anche chi per una visita endocrinologica si è sentito chiedere 400 euro. In diagnostica, le tariffe possono variare dai 150-200 euro per un'ecografia agli 800 di una risonanza magnetica, mentre per gli interventi chirurgici le cifre sono così alte che spesso i pazienti devono chiedere prestiti a finanziarie, parenti o amici. Il risultato, come denunciava il "Rapporto Ceis", il Centro di studi economici sanitari dell'università romana Tor Vergata, è che nel 2006 le spese sanitarie hanno fatto cadere sotto la soglia di povertà 300 mila famiglie, e che altre 940 mila famiglie subiscono gravi danni economici a causa di costi sanitari catastrofici, superiori al 40 per cento della propria capacità di spesa ______________________________________________________ La Nuova Sardegna 7 Mar. ‘07 GLI STUDENTI:IL CANCRO NON È COLPA DEL FUMO» Sconcertante risultato di un'indagine tra ottocento studenti delle scuole superiori Quasi la metà degli intervistati dice: il male si trasmette per via genetica CAGLIARI. Quattro ragazzi su dieci ne sono convinti: il cancro è un male che si trasmette per via genetica. Quindi controllare i fattori di rischio - il fumo, l'alimentazione, l'ambiente di lavoro - non incide sulla possibilità di ammalarsi di tumore. Predestinati, dunque. Condannati senza appello a una vita da vivere sull'orlo di un abisso mortale. La ricerca scientifica mondiale certifica il contrario: sul pericolo-tumori la predisposizione genetica pesa soltanto per il dieci per cento, il resto è legato ai fattori esterni. Ma il messaggio dominante resta quello: è tutto scritto nei geni, non puoi farci niente. E l'esito del test condotto dal docente di oncologia dell'Università Ezio Laconi su ottocento studenti di cinque istituti superiori della città lo conferma: prevale il fatalismo, conseguenza di un'informazione superficiale, comunque slegata dalla realtà scientifica. Che Laconi è deciso a contrastare: «Siamo spesso di fronte a semplificazioni eccessive - spiega - che provocano disorientamento fra i cittadini in un tema come quello della salute, troppo importante perchè possa essere affrontato con leggerezza». Il test condotto nelle scuole è volutamente semplicissimo. Laconi, con la piena collaborazione dei dirigenti scolastici, ha distribuito fra gli alunni delle quinte liceo scietifico e delle terze liceo classico una scheda in cui il quesito veniva posto in termini secchi: «In poche parole - spiega il ricercatore - si è chiesto ai ragazzi di fare la somma di tutte le informazioni che arrivano loro in vario modo sull'argomento e di dare una risposta complessiva». Ovunque - con percentuali diverse - gli studenti hanno risposto in maggioranza che i tumori derivano da fattori esterni, ma con una percentuale che va dal 31% (Alberti) al 48% (Siotto) hanno 'votato' per la seconda opzione: il cancro è sempre nel dna. Valutazione errata, come spiega Laconi: «Come tante altre malattie i tumori sono associati a molteplici fattori di rischio, ma in termini pratici si possono raggruppare in due categorie principali. Sono quelli prevenibili, legati a fattori esterni, e quelli non prevenibili, che si ereditano alla nascita. E' evidente quanto sia importante questa distinzione». Non distinguere significa trascurare il controllo delle proprie abitudini di vita, significa fumare decine di sigarette al giorno malgrado la ricerca internazionale abbia chiarito che il fumo provoca il cancro al polmone. Significa nella sostanza abbandonarsi a un destino che - come spiega Laconi - in nove casi su dieci è tutt'altro che segnato: «Oggi sappiamo che le predisposizioni ereditate dalla nascita hanno un ruolo determinante solo in pochi casi - avverte l'oncologo - eppure si legge e si sente parlare spesso, anche nell'ambito della comunità scientifica, di fattori genetici implicati nell'origine dei tumori umani, un messaggio che tradotto dal grande pubblico mette in relazione diretta la costituzione genetica di ciascuno di noi con il rischio di sviluppare questa malattia». Messaggio scorretto «che - a giudizio di Ezio Laconi - rischia di intralciare gli sforzi fatti per un'efficace prevenzione dei tumori». Il test condotto sotto controllo statistico nelle scuole cagliaritane (Siotto, Dettori, Pacinotti, Alberti e Michelangelo) avrà un seguito: «Incontreremo gli studenti per discutere i risultati e per spiegare il significato della domanda che è stata loro rivolta». Un intervento di informazione destinato nelle intenzioni a correggere le convinzioni legate a messaggi superficiali e frammentari: «Se è vero che sapere che i tumori sono legati al fumo o all'alimentazione non genera automaticamente comportamenti virtuosi - conclude Laconi - è altrettanto vero che partire dall'idea che tutto sia legato ai geni preclude ogni margine di intervento, anche a livello personale. Ecco perchè l'iniziativa del test non è rivolta solo a raccogliere dati, ma anche a informare». (m.l) ______________________________________________________ Repubblica 5 Mar. ‘07 USA: MAMMOGRAFIE SOLO DOPO I 50 ANNI Sotto accusa i danni provocati dalle radiazioni. In Italia tendenza già in atto: esame gratuito e consigliato alle donne tra i cinquanta e i 69 anni Svolta dei medici Usa: può salvare molte vite, ma è anche pericolosa ELANA DUSI ROMA - «La mammografia può salvare molte vite. Ma ci sono anche potenziali pericoli. Non crediamo che questo esame debba essere consigliato comunemente se non dopo i 50 anni». L´American College of Physicians, che raccoglie 120mila specialisti di medicina interna, con un articolo sugli Annals of Internal Medicine fa marcia indietro rispetto alle linee guida correnti. Le raccomandazioni attuali, adottate dalla American Cancer Society, consigliano infatti l´esame una volta ogni due anni sopra ai 40 anni di età. Gli internisti americani nel loro articolo puntano il dito contro i danni provocati dalla radiazioni durante la mammografia. Gli oncologi d´altra parte sottolineano l´importanza della diagnosi precoce. L´esame ai raggi X riesce infatti a individuare tumori molto piccoli e trattabili con relativa semplicità. «In Italia la mammografia tra i 50 e i 69 anni fa parte dei livelli essenziali di assistenza. Non solo è gratuita, ma viene promossa dalle Regioni che invitano le donne a presentarsi in ospedale per l´esame» spiega Eugenio Paci del Centro per lo studio e la prevenzione oncologica di Firenze. Ma non tutti gli assessorati hanno organizzato le campagne di screening. Sette regioni raggiungono solo una copertura parziale, mentre Calabria, Puglia e Sardegna non hanno effettuato alcuna attività per la prevenzione del cancro al seno tramite la mammografia, secondo i dati diffusi dal ministero della Salute relativi al 2005. «Al di sotto dei 50 anni - spiega ancora Paci - la mammografia è meno utile perché il seno è fibroso e la percentuale di grasso è ancora bassa. I risultati in molti casi non sono sufficientemente chiari e contemporaneamente l´incidenza di tumori al seno è bassa in quell´età. Anche se la dose di radiazioni non è realmente pericolosa, il rapporto fra costi e benefici diventa più difficile da determinare». In Italia l´esame è gratuito anche tra i 45 e i 50 anni, ma questa fascia d´età non è oggetto di alcuna campagna di screening. La mammografia viene prescritta dal medico se ritenuto necessario, nel momento in cui compaiono dei noduli al tatto o nella famiglia della donna si registrano precedenti di cancro al seno (alcuni geni che fanno aumentare il rischio di ammalarsi si trasmettono infatti da una generazione all´altra). L´Italia, rispetto alla media europea, ha un´incidenza bassa di tumore al seno. Il vantaggio, che condividiamo con Grecia e Spagna, è dovuto anche allo stile di vita dei popoli mediterranei. Ma a controbilanciarlo interviene il basso numero di figli (o comunque i parti in età sempre più matura) che viene considerato un fattore negativo. «Campagne di screening e strumenti avanzati hanno fatto aumentare il numero di diagnosi negli anni» spiega Stefania Salmaso, direttrice del Centro nazionale di epidemiologia dell´Istituto superiore di sanità. «Ma contemporaneamente la mortalità è in calo perché le terapie sono più efficaci che in passato». ______________________________________________________ L’Unione Sarda 7 Mar. ‘07 GLI AFFARI MILIONARI DELLA SANITÀ PRIVATA Inchiesta. Nei centri specialistici e nelle cliniche lavorano duemila persone: «Ma adesso si rischiano i tagli» - Sette case di cura su nove sono senza Rianimazione Un doppio binario molto speciale. La sanità privata è un gigante che macina soldi e potere, spesso sotto insegne politiche blasonate, cognomi importanti che da sempre svettano negli organigrammi dei partiti. Dai consiglieri regionali Alberto e Vittorio Randazzo al sindaco Emilio Floris, passando per le famiglie Pirastu e Corona, con una nutrita pattuglia di professionisti che ruota attorno. Sparsi tra Cagliari e provincia lavorano centoquaranta centri che si occupano di analisi, riabilitazione e specialità varie, più nove cliniche private. Tutti insieme l'anno scorso hanno presentano alla Regione un conto di centocinque milioni, euro più euro meno. Le cliniche incassano la fetta più sostanziosa, sessantotto milioni, stando al dato del 2006. I nove fortini della sanità privata - sei a Cagliari, due a Quartu, uno a Decimomannu - non sono più inespugnabili, tanti avrebbero bisogno di un lifting profondo. Basta dire che su nove soltanto due hanno la Rianimazione, il Policlinico Sant'Elena e Villa Elena. Le clinicheQuarant'anni di storia e qualche incertezza sul futuro. Non sono più i tempi di Mario Floris e Paolo Ragazzo, quando la Regione pagava profumatamente in base ai giorni di ricovero. Oggi il tariffario è fisso, i capi carismatici hanno ceduto il passo a figli e nipoti. Ragazzo si è spinto più in là, cedendo una clinica e dando l'altra in gestione. «Non è una situazione facile», ripetono in coro. E in tempi strettissimi sbarcherà in Sardegna, a Olbia, un concorrente temibile come il San Raffaele. Una strategia difensiva potrebbe essere mettersi insieme, crescere e investire, ma l'argomento non è all'ordine del giorno. «Legati a questo settore ci sono circa duemila posti di lavoro in tutta la Sardegna, millequattrocento tra dipendenti e consulenti a Cagliari e dintorni» - dice Franco Meloni, presidente regionale dell'associazione italiana ospedalità private (Aiop) - «Potrebbero esserci tagli agli organici. La Regione ci ha imposto una riconversione in tempi stretti, e noi siamo pronti ad affrontarla nei limiti delle nostre possibilità». L'ex manager del Brotzu sostiene che la sanità privata non è vecchia e inadeguata: «Nel complesso è al passo coi tempi, forse alcune parti hanno bisogno di essere riviste. In questi anni molte case di cura sono andate incontro a ristrutturazioni importanti». Se obietti che ormai si sono ridotte a controlli di routine e interventi di piccolo calibro, replica così: «Non facciamo trapianti di fegato e non abbiamo questa ambizione. Nel nostro campo abbiamo fatto investimenti notevoli in apparecchiature moderne come la Tac, la risonanza magnetica». Il presidente dell'Aiop parla della Rianimazione: «È un'attività che serve per un certo tipo di chirurgia. Certo, sarebbe meglio averla, ma ha costi molti alti, e la Regione non riconosce quelle spese». Le cliniche sarde hanno 980 posti letto, 740 a Cagliari. «Su 722 cancellati in Sardegna, 580 sono delle case di cura. L'abbiamo fatto presente e ci hanno garantito che tenteranno di rivedere i numeri». Viste con le lenti del sindacato, le cliniche private sono centinaia di buste paga, alcune a rischio. Ugo Pilia (Funzione pubblica-Cgil) ammette: «Hanno necessità di essere riorganizzate, anche perché devono avere un ruolo nella sanità dell'isola, sono private ma pagate con soldi pubblici. La nostra preoccupazione è che il ridimensionamento possa provocare problemi di tipo occupazionale». È tempo di nuovi investimenti, «di studiare una strategia di medio termine»: «È vero che hanno ridotto il raggio di attività. Vent'anni fa la prima Tac la acquistò una clinica privata e il settore pubblico si adeguò. Oggi la situazione è diversa, molto diversa». Più cauto Guido Deidda, segretario territoriale Funzione pubblica-Cisl: «In linea di massima le case di cura sono tutte presentabili. Quando il pagamento regionale era legato alle giornate di ricovero, più i pazienti rimanevano in ospedale più l'imprenditore guadagnava. Oggi, col pagamento per specialità, la Regione verifica cartella clinica per cartella clinica». In condizioni del genere «il rischio è l'occupazione». Deidda è convinto che la concorrenza del San Raffaele sia temibile per tutti: «Può creare problemi alla sanità pubblica e a quella privata». Centri specialisticiL'anno scorso l'Asl 8 ha pagato 38 milioni. «L'1,4 per cento del bilancio del servizio sanitario» - ribatte Pinello Lo Nardo, segretario regionale dei sindacati autonomi professionisti medici italiani (Sapmi) -. Siamo una goccia nell'oceano. Con i nostri centri riusciamo a ridurre significativamente le liste d'attesa, senza contare che nella sola provincia di Cagliari lavorano duemila persone». Non accetta l'etichetta di settore mangiasoldi (pubblici), la sua verità l'ha scritta su pagine di giornale pubblicate a pagamento: «Abbiamo presentato un ricorso al presidente della Repubblica per i contratti che la Regione ci ha costretto a firmare. Lavoriamo col tariffario congelato dal 1998 erogando il cinquantadue per cento delle prestazioni pubbliche. È indispensabile rivedere le tariffe». La RegioneUna tesi confutata dall'assessore regionale alla Sanità Nerina Dirindin: «Un decreto nazionale precisa che le tariffe del 1996 sono ancora valide. Anzi, la Finanziaria di quest'anno prevede che tutta le prestazioni specialistiche siano erogate con uno sconto del due per cento, il venti per le analisi di laboratorio». Ha individuato tre anomalie nella sanità privata. Prima: «Le cliniche private sono quasi tutte nell'area metropolitana di Cagliari e hanno una capacità ricettiva molto più ampia del necessario. Il tasso di occupazione del cinquantacinque per cento significa che per metà dell'anno i letti sono vuoti». Seconda: «Il trentuno per cento dei ricoveri è inappropriato, a fronte di un venti per cento del Policlinico, ventiquattro del Brotzu, diciassette dell'Asl 8, tenendo presente che la media nazionale è il diciannove per cento». L'ultima: «Il novantacinque per cento della riabilitazione è nelle mani dei privati, quindi va potenziata l'offerta pubblica. Sino ad oggi i rimborsi sono stati erogati senza sostanziali controlli, le regole per le verifiche erano piuttosto carenti». Adesso la Regione ha deciso quali prestazioni incrementare e quali ridurre: «Abbiamo definito ciò che ci serve, non prendiamo più tutto quello che ci mettono nel carrello della spesa». La battaglia sulla sanità privata è solo all'inizio. Paolo Paolini (3 - continua) 06/04/2007 Oggi il settore privato incassa oltre cento milioni dalla Regione. Tra accuse di inadeguatezza e piani di sviluppo, si gioca una partita nella quale hanno un ruolo la salute dei cittadini, i soldi e la politica. ______________________________________________________ L’Unione Sarda 4 Mar. ‘07 TUMORI, UN HOTEL PER ASSISTERE I MALATI Via Jenner. L'edificio, con diciotto posti letto, è costato due milioni e mezzo di euro - Nell'Hospice potranno dormire anche i familiari dei pazienti A guardarlo, adesso che è ancora deserto, sembra un hotel a quattro stelle, con diciotto camere con bagno e tv, e con un bel giardino intorno. Dopo Pasqua invece aprirà le porte ai malati terminali di tumore e alle loro famiglie. Ieri, in via Jenner a due passi dall'ospedale oncologico Businco, c'è stato il taglio del nastro della prima struttura di ricovero extraospedaliero (Hospice) in Sardegna, che funzionerà ventiquattro ore su ventiquattro. L'altra, inaugurata la scorsa estate a Nuoro, è aperta solo di giorno. l'edificioIl giardino intorno all'edificio a due piani cerca di far dimenticare che a poche centinaia di metri ci sono strade trafficate (l'asse mediano e via Cadello). Una volta dentro, una hall accoglie pazienti e visitatori. Al piano terra trovano posto stanze e aree comuni di socializzazione e di svago (piccoli soggiorni e aree di lettura), e ambulatori e studi medici. Al primo e secondo piano ci sono le stanze per i pazienti (diciotto camere singole, molto spaziose, con tv e servizi igienici, e una poltrone letto per i familiari), ma anche ambulatori per visite e controlli. i malati«L'Hospice - hanno spiegato il direttore della Asl 8, Gino Gumirato, e l'assessore regionale alla Sanità, Nerina Dirindin, durante l'inaugurazione - è una struttura di accoglienza e ricovero per i malati terminali oncologici, con patologie tumorali, che richiedono terapie curative e di supporto. L'unico intento è quello palliativo, cioè di controllo dei sintomi e delle alterazioni sul malato». Il ricovero sarà possibile quando non ci saranno più le condizioni per l'assistenza a casa. L'Hospice servirà anche per un periodo di sollievo momentaneo per la famiglia. «I pazienti - ha detto Emilio Lai, responsabile della struttura - potranno essere ricoverati da un minimo di cinque giorni a un massimo di un mese». Si prevede di dare accoglienza a circa duecento malati all'anno. il personaleOltre a Lai, l'équipe medica sarà formata da Franco Savasta, da diciotto infermieri, uno psicologo, due fisioterapisti e cinque operatori sociosanitari. Non ci saranno nuove assunzioni ma uno spostamento del personale della Asl 8. i costiL'opera, progettata nel 2003, è costata due milioni e seicentomila euro: due milioni e centomila euro con fondi regionali, quattrocentomila della Asl 8. «Per la gestione - ha sottolineato Gumirato - sono stati inseriti in bilancio due milioni di euro all'anno. Un milione e trecentomila serviranno per pagare gli stipendi del personale, il resto per gli altri costi compresi quelli dei farmaci». Gumirato ha ricordato che il progetto «è stato ereditato dalla precedente amministrazione e che l'Hospice è stato costruito in un punto strategico, vicino all'ospedale oncologico Businco e al futuro centro di radioterapia». l'accoglienzaÈ stata allestita anche una mostra di opere d'arte di tre pittori sardi. «Il primo paziente - ha concluso l'assessore - potrà essere ricoverato dopo Pasqua». Matteo Vercelli 05/04/2007 La struttura, costruita vicino al Businco, sarà controllata da un'équipe di medici, infermieri, fisioterapisti e uno psicologo. Via Jenner. Taglio del nastro nell'Hospice, la struttura può mantenere fino a duecento pazienti all'anno Ora anche i malati terminali hanno una casa d'accoglienza q Diciotto posti letto e una degenza media di venti giorni. Previsti spazi peri familiari Da oggii malati oncologici hanno una nuova struttura di supporto e assistenza extraospedaliera. Ieri mattina, in via Jenner,è stato inaugurato l'Hospice: un luogo di accoglienzae ricovero per malati terminali, generalmente pazienti affetti da tumore. Il centro potrà garantire terapie curativee di supporto con esclusivo intento palliativo. Valea dire: una struttura che avrà come obiettivo primario quello di lenire le sofferenze dei malati. DOTATO DI DICIOTTO posti letto, con una degenza media stimata intorno ai venti giorni, potrà ospitare ogni anno circa duecento pazienti. Ogni camera è dotata di un posto letto per i familiari. Resta inteso che l'abitazione dei pazienti è il luogo privilegiato delle cure lenitive. Ecco perchè il ricovero nell'Hospice sarà riservato a tutti quei casi in cui non sia possibile l'assistenza in casa. O per l'ag gravarsi di un sintomo che non può essere più gestito attraverso un programma di assistenza domiFRANCESCA MANCINI ciliare. Nella struttura ci sarà un equipe multidisciplinare: due medici, diciotto infermieri, uno psicologo, due fisioterapisti e cinque operatori sociosanitari. Dell'equipe di cura farà parte integrante anche la famiglia del degente, nei tempie nei modi in cui potrà essere presente. Lo stabile, circondato da un giardino,è su tre piani: il piano terra è stato destinato sia alla socializzazionee allo svago (soggiorno, cucina, sale lettura), che all'assistenza (ambulatorie studi medici). Il primoe il secondo piano ospitano invece le stanze peri degentiei loro familiari. Le camere, curate nel dettaglio, sono confortevolie dotate tutte di servizi igienici. Al taglio del nastro hanno partecipato l'assessore alla Sanità, Nerina Dirindin e il direttore generale della Asl Gino Gumirato. Per realizzare l'Hospice sono stati utilizzati circa 2milionie 600mila euro: la Regione ha investito 2milionie 180 mila euro, mentre la Asl 8 ha finanziato l'ini zi at iva con circa 420mila euro. 3 Il nuovo Hospice di via Jenner Cinzia Isola cagliari@epoli s.sm ______________________________________________________ L’Unione Sarda 12 Mar. ‘07 MORTI IN CORSIA, L'INCUBO DEI MEDICI Inchiesta. Aumentano querele e richieste di risarcimento ai camici bianchi. Polizze assicurative: prezzi alle stelle - Ecco come la paura condiziona le prestazioni sanitarie Anni fa il British medical journal portò il tema dell'errore medico all'attenzione dell'opinione pubblica in modo suggestivo. «Quante persone rimarrebbero su un aereo», chiese la prestigiosa rivista utilizzando i dati sanitari, «dopo aver sentito dal comandante, prima del decollo, che la possibilità di arrivare a destinazione sani e salvi è del 97 per cento e che la possibilità che il personale compia un errore grave è del 6,7%?». Pochi partirebbero, ovvio. Nessuno se fossero veri i dati diffusi di recente dall'Associazione italiana anestesisti a un convegno sul Risk management: dagli errori medici dipenderebbero 14 mila morti all'anno: 38 al giorno. Il maggior numero di errori si commetterebbe in sala operatoria (32%), a seguire nei reparti di degenza (28%) e nei pronto soccorso (22%). spese da recordNon è un caso che le spese delle Asl per assicurare i propri dipendenti e quelle degli specialisti per tutelarsi contro i rischi professionali siano aumentate esponenzialmente negli ultimi cinque anni: la Asl 8 versa alla Ergo assicurazioni 2.187.000 euro all'anno, l'Azienda ospedaliera Brotzu paga ai Lloyds 796.352 euro. Ma le polizze aziendali coprono solo la responsabilità civile verso terzi. Se i medici vogliono coprirsi davvero le spalle dai rischi più gravi - e lo fanno quasi tutti - versano un'integrazione mensile che varia da 500 a 5000 euro all'anno a seconda della specializzazione. Ma se è vero che aumentano le richieste di risarcimento danni a medici è altrettanto vero che le cause penali si risolvono quasi sempre a loro favore: sette querele su dieci vengono archiviate e delle 30 che arrivano a giudizio 25 si risolvono con un'assoluzione. le categorie a rischioCapire quali sono le categorie che rischiano di più è semplice: basta verificare chi paga di più all'assicurazione. Nell'ordine: chirurghi estetici o plastici, chirurghi generali, anestesisti, ginecologi e ostetrici. «I chirurghi estetici pagano il 150% in più di premio rispetto ai chirurghi normali», spiega Pierandrea Mudu, agente generale della Milano assicurazioni. Il motivo lo spiega Mondino Ibba, presidente provinciale dell'ordine dei medici: «Mentre tutti gli specialisti hanno, per legge, l'obbligo di garantire che l'intervento si svolga nel migliore dei modi e con i migliori mezzi, chi ha a che fare con l'estetica o con la ricostruzione ha l'obbligo del risultato». rischio speculazione A Cagliari le richieste danni sono decuplicate negli ultimi dieci anni. Tanto da indurre il presidente dell'ordine ad affermare una cosa grave: «Spesso il ricorso al giudice è un affare economicamente conveniente». Chiedere i danni ai medici, insomma, per molti sarebbe diventato un modo per guadagnare soldi. «Spesso ci sono atteggiamenti vagamente o spiccatamente speculativi», conferma Marcello Lao, avvocato. Certo non è sempre così, anzi. La verità, spiega Guido Manca Bitti, avvocato tra i più richiesti dai medici, è che i parenti di pazienti morti per cause non chiare hanno comprensibili aspettative di giustizia. E spesso si rivolgono alla magistratura perché non hanno la possibilità anche economica di pagare gli specialisti cui chiedere accertamenti costosi. Più semplice sporgere querela». Stando ai dati diffusi dalla Asl 8 nel 2006 le procedure di sinistro aperte sono state 47. Pochissime rispetto alle cause. diminuisce il rischioIl problema è la reazione dei medici alla pressione costante. Dice Lao: «Più se ne parla sui giornali più aumentano le querele». E più i medici prendono le contromisure, rischiando sempre meno, a discapito dei pazienti. Chiaro l'esempio dei ginecologi che ricorrono sempre di più al parto cesareo, meno pericoloso di quello naturale. errori del sistemaMa allora come si giustificano i 38 morti al giorno? «L'80 per cento degli errori attribuiti ai medici in realtà dipende da difetti del sistema e solo il 10 da errori umani», spiega Ibba citando James Reason, uno dei più ascoltati psicologi del lavoro mondiali. Tradotto: scarsità o imperizia degli infermieri, problemi igienici, difetti dei macchinari. Il problema, tuttavia, non è solo la quantità di richieste di risarcimento o di querele. Ma anche l'entità dei danni richiesti. «Molte compagnie non assicurano più i medici perché può bastare un mega risarcimento per mandare una società in tilt». Altre hanno ricontrattato le polizze anche decuplicando i premi. Risultato: i medici pagano di più. Anche i pazienti. Fabio Manca ______________________________________________________ L’Unione Sarda 12 Mar. ‘07 ERRORI MEDICI DIPENDEREBBERO 14 MILA MORTI ALL'ANNO: Secondo l'Associazione italiana anestesisti dagli errori medici dipenderebbero 14 Mila Morti All'anno: circa 38 al giorno. L'Ordine: «Otto casi su dieci dipendono da difetti del sistema». «Costi esagerati per chi ha stipendi medi» Gianni Serra, 44 anni, è un chirurgo. Opera al Brotzu, chirurgia generale. Moglie medico, ginecologa. Se è vero che le loro specializzazioni sono le più querelate, è una famiglia a rischio elevato di denuncia. Ciononostante a Serra non è mai capitato niente di spiacevole: «Giusto una volta sono stato chiamato come persona informata dei fatti. Era morta, in circostanze particolari, una donna che tempo prima avevo operato di emorroidi. Poi l'inchiesta è stata archiviata». Serra ha sempre avuto l'assicurazione personale da quando era specializzando. «All'inizio pagavo 750 mila lire poi è raddoppiata: 800 euro e mi garantiva 1,5 milioni di massimale. Ora servono tra i 3500 e i 4000 euro». Per dare un'idea dell'incremento dei costi. Serra ha una polizza aziendale, come tutti i colleghi dell' ospedale più grande dell'Isola. «Ma copre solo il rischio generico. Per garantirmi contro la colpa grave devo versare 800 euro in più all'anno. Il problema», spiega, «è che il contratto aziendale ha massimale complessivo di 25 milioni di euro all'anno per tutto il personale. E la polizza ha una franchigia di 300 mila euro entro la quale non viene riconosciuto il rimborso. Oltre queste cifre dobbiamo garantirci noi». Serra rivela che «alcuni colleghi che hanno già avuto contenziosi hanno grande difficoltà a trovare una compagnia che li assicuri e se la trovano costa un'enormità. E chi ha uno stipendio medio può essere portato a ridurre le attività che possano comportare rischio di risarcimento». Aumenta, rivela Serra, «anche il numero dei conflitti risolti in via stragiudiziale». Cioè il medico paga perché la causa si chiuda. (f. ma.) ______________________________________________________ L’Unione Sarda 12 Mar. ‘07 GLI AVVOCATI: CONDANNE RARISSIME «Scrivere tutto e spiegare il più possibile ai pazienti». Guido Manca Bitti, avvocato con esperienza pluriennale nella difesa di medici, lo consiglia sempre ai suoi clienti. «Più si scrive, meno possibilità ci sono di interpretazione del proprio operato». Vero è, paradossalmente, che più si informa il paziente, specie se deve subire un intervento rischioso, più lo si predispone a tachicardia, ipertensione e, dunque, al pericolo di effetti collaterali o controindicazioni. I medici lo sanno. E sanno che se per qualunque ragione un loro paziente morirà o avrà danni più o meno gravi dovranno difendersi in un'aula di giustizia. «La giurisprudenza in materia è completa, il problema è che i magistrati spesso si trovano una grande mole di procedimenti da valutare e questo è un peso», spiega Manca Bitti. Patrizio Rovelli, altro principe del foro, analizza innanzitutto l'aspetto umano. «Così come molti medici finiscono sul banco degli imputati è altrettanto vero che molti di loro vengono poi assolti magari dopo un lungo ed estenuante processo che, è giusto ricordarlo, costituisce già di per sé una vera e propria sanzione». Anche Rovelli cita la giurisprudenza più recente: «Le sezioni unite della Cassazione hanno espresso un orientamento rigoroso e garantista affermando che sussiste colpa medica solo quando risulti provato "con un rilevante grado di certezza processuale" che l'errore diagnostico o terapeutico sia stato causa dell'evento dannoso subito dal paziente. Proprio per questo motivo ogni singolo caso impone un approfondito accertamento peritale che a volte può essere anche particolarmente complesso. Sono quindi da evitare», prosegue l'avvocato, «le troppo facili generalizzazioni. E ci deve essere sempre un grande rispetto da parte di chi indaga e di chi giudica per la delicata funzione del medico e speciale attenzione per le particolari condizioni in cui a volte i sanitari sono chiamati ad operare. D'altro canto non vi è dubbio», conclude Rovelli, «che in determinate situazioni le scelte di chi ha nelle proprie mani la salute dei cittadini debbano essere vagliate scrupolosamente». (f. ma.) ______________________________________________________ L’Unione Sarda 12 Mar. ‘07 LE CLINICHE CONTRO LA REGIONE Sul Piano sanitario ricorso al Tar dei privati Dopo il pollice verso dei medici di base, dei docenti universitari e del personale paramedico, contro il Piano sanitario arriva un altro siluro: quello della sanità privata. Quattro mesi fa, il Piano sanitario veniva approvato dal Consiglio regionale e oggi, dopo un esame attento del documento partorito dalla Giunta, le maggiori cliniche private sarde dicono no. E presentano, attraverso lo studio legale cagliaritano di Giovanni Contu e Matilde Mura, un ricorso al Tar perché annulli la deliberazione dell'assemblea regionale. Due le censure proposte ai giudici amministrativi perché l'atto venga cancellato: l'eccesso di potere della Regione esercitato nei confronti della sanità privata e la presunta illegittimità del Piano. il fronteSono undici le case di cura private che hanno affidato l'incarico allo studio legale cagliaritano. Gli avvocati chiedono anche l'impugnazione di tutti i provvedimenti collegati al Piano. Ricorrono la casa di cura M.Tommasini srl (Cagliari), tramite il suo amministratore delegato e legale Vittorio Lamieri; la casa di cura Villa Elena srl (Cagliari), con il suo legale rappresentante Andrea Pirastu; la clinica Sant'Antonio spa (Cagliari), rappresentata dal presidente del cda Gabriele Floris; la casa di cura Sant'Anna Ostetricia Ginecologia srl (Cagliari), con il procuratore speciale e legale rappresentante Benvenuto Meleddu; la clinica San Salvatore srl (Cagliari), con il suo amministratore unico Flavio Santa Cruz; la Sant'Elena spa (Quartu Sant'Elena), rappresentata dal suo legale Alberto Scanu. Ancora: la Policlinico Sassarese spa (Sassari), rappresentata dal legale Piero Guido Bua; la Nuova Casa di Cura srl (Decimonannu), con il suo amministratore delegato Alberto Loi; la casa di cura Arco dell'Angelo srl (Cagliari), tramite il suo ad e legale rappresentante Giorgio Carboni, che gestisce anche la casa di cura Lay e la Maria Ausiliatrice. Insomma, i big della sanità privata, seppure per la stragrande maggioranza con sede nel capoluogo. le motivazioni Secondo la tesi proposta al Tar da Giovanni Contu e Matilde Mura, sia che si ritenga applicabile la nuova legge regionale numero 10 del 2006, o la norma regionale 5 del 1995, il Piano sarebbe illegittimo, perché «nella sua formazione, non è stato seguito il procedimento previsto dall'una e dall'altra legge», si dice in estrema sintesi. Le case di cura private, inoltre, contestano la legittimità del Piano sanitario regionale nella parte relativa all'attribuzione dei posti letto alle case di cura. Un'opposizione che si dipana su due percorsi: secondo lo studio Contu- Mura, la Regione non ha nessun potere di dare o togliere posti letto alle case di cura. E comunque, l'amministrazione regionale - nell'assegnare i posti letto - sarebbe incorsa in un errore di fatto perché è partita da un dato sbagliato: 1433 posti letto invece che 1561. il ricorso«Le ricorrenti sono tutte case di cura», si legge fra le 22 pagine del documento, da due giorni depositato negli uffici legali della Regione e del Consiglio, «che operano in forza di accreditamento con il Servizio Sanitario Nazionale e si trovano ad essere gravemente pregiudicate dalle disposizioni dell'impugnato Piano, il quale è illegittimo, anzitutto, perché, nella sua formazione, non è stato seguito il procedimento di legge e, inoltre, perché la Regione ha dato al medesimo Piano contenuti che esorbitano dai poteri che la legge le attribuisce». Secondo i legali «l'amministrazione regionale ha operato scelte che, per un verso, spettavano alle singole Aziende sanitarie locali». Non solo, perché avrebbe «assunto determinazioni gravemente lesive nella quantificazione della quota delle prestazioni che dovranno eseguire i privati, con l'utilizzo - si afferma - di una discrezionalità che non le spetta. Tali determinazioni, infatti, scaturiscono da elementi e presupposti rigidi e precostituiti, quali il fabbisogno soddisfabile, che non permettono l'esercizio di poteri discrezionali da parte dell'amministrazione». In conclusione, si legge nel ricorso, «tutti i provvedimenti sono illegittimi e gravemente lesivi degli interessi delle ricorrenti». il metodo«Al procedimento di formazione del Piano sanitario», affermano i rappresentanti legali delle cliniche private sarde, «hanno partecipato soggetti, che peraltro non si capisce neppure chi siano e di quali interessi siano portatori, che in realtà, non avrebbero potuto partecipare al procedimento, in quanto non contemplati nella disposizione normativa». Ancora: «la Giunta regionale, nella (impugnata) deliberazione numero 51 del 4 novembre 2005, segnala di avere organizzato numerosi momenti di approfondimento e consultazione con i soggetti sopra indicati "in armonia con il metodo concordato in Giunta per analoghi provvedimenti programmatori". Le ricorrenti non conoscono il provvedimento con il quale la Giunta ha determinato di utilizzare il predetto "metodo"». i posti letto«La complessiva riduzione della dotazione di posti letto», argomentano i legali dei ricorrenti, «è frutto di un eccesso di potere sotto i diversi profili della erroneità dei presupposti e travisamento dei fatti per quanto riguarda la determinazione attuale dei posti letto assegnati ai privati». Ci sarebbero anche uno «sviamento, un difetto di istruttoria e di motivazione nella determinazione del fabbisogno tendenziale per quanto riguarda l'assegnazione nella prospettiva del fabbisogno tendenziale». Insomma, un attacco argomentato. La parola al controricorso e poi alla sentenza del Tar. Enrico Pilia 12/04/2007 Contro il Piano sanitario regionale arriva il ricorso di undici case di cura private della Sardegna: eccesso di potere e presunta illegittimità del provvedimento, queste le motivazioni. ______________________________________________________ Avvenire 12 Mar. ‘07 E LE CELLULE DEL SANGUE CURANO IL DIABETE L'autorevole rivista Journal of thè J American Medicai Association (Jama) ha pubblicato questa settimana uno studio condotto dall'equipe di lulio C. Voltarelli dell'Università di San Paolo, in Brasile, sugli effetti del trapianto di cellule staminali adulte su pazienti affetti da diabete di tipo 1.1 risultati sono incoraggianti: attraverso il reimpianto di cellule staminali ematopoietiche, prelevate dal sangue degli stessi soggetti trattati con farmaci immunosoppressori, è stata osservata nella gran parte di essi la regressione della dipendenza da insulina per periodi variabili fino a due anni. La ricerca è stata condotta su un numero limitato di pazienti (quindici in totale, di età compresa fra i 14 e i 31 anni) che avevano appena ricevuto una diagnosi di diabete di tipo 1, la forma definita giovanile o insulinodipendente. In questa patologia, a seguito della distruzione da parte del sistema immunitario delle cellule beta pancreatiche che producono l'ormone, è necessaria l'assunzione quotidiana di insulina per monitorare il livello di zuccheri nel sangue e al momento della diagnosi, in genere, già il 60-80% delle cellule pancreatiche non è più funzionale. Nello studio si sono prima impiegati dei farmaci per disattivare il sistema immunitario, che poi ha ricominciato a funzionare nel modo corretto grazie alla somministrazione delle staminali. I nuovi globuli bianchi da esse generate, infatti, non hanno più attaccato il pancreas e impedito la produzione di insulina. Questa terapia, conosciuta come trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche, ha già dato vantaggi in altre malattie autoimmunitarie come l'artrite reumatoide, il morbo di Crohn e il lupus erimatoso. «È un dato molto preliminare ma veramente interessante», ha commentato Paolo Pozzilli, professore ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all'Università Campus Bio-Medico di Roma. «Può aprire infatti nuove prospettive terapeutiche per i diabetici di tipo 1 al momento della diagnosi. Attendiamo ulteriori risultati». (A.Tur.) ______________________________________________________ La Stampa 11 Mar. ‘07 UN VACCINO CONTRO LA COCAINA GIAN ANTONIO ORIGHI MADRID Arriva, per la prima volta al mondo, il vaccino anti-cocaina. Alla fine di quest'anno, o al più tardi all'inizio de 2008, la medicina killer della «neve» sarà testata anche in Spagna, il Paese con il più alto indice di consumo d'Europa (il 2% tra i 15 ed i 64 anni a fronte dell'1,1% nel resto del Vecchio Continente). Il medicinale - che sarà testato su 150 cocainomani in tre ospedali di Madrid, Barcellona e Valencia - è frutto di una ricerca, ancora in fase sperimentale, dell'università americana di Yale. E, stando alle anticipazioni, è efficacissima: «È come cucire la bocca ad un mangiatore famelico», assicuravano ieri i ricercatori al giornale madrileno Abc. Il clou del farmaco è basato nella terapia immunologica, ossia il vaccino amministra o genera anticorpi che «catturano» la potentissima droga nel flusso sanguigno prima che arrivi al cervello. La cocaina, come il tabacco, non provoca una risposta immunologica come succede con i virus ed i batteri che provocano le malattie. La risposta immunologica, ossia gli anticorpi, sono generati dal vaccino, che aderisce alla droga. La loro unione genera un composto chimico troppo grande per attraversare la barriera ematocefalica, l'ostacolo che produce il torrente sanguigno per proteggere il cervello. Risultato: la cocaina non produce più piacere. I pazienti che si sottoporanno alla pionieristica cura riceveranno 4 dosi del farmaco, una all'inizio del test e successivamente altre tre ad intervalli regolari. Il requisito richiesto ai malati è essere cocainomani, con o senza consumo aggiuntivo di alcol, ma non usare anche altri supefacenti oppiacei come l'eroina. Un punto importante è poi che il farmaco non sarà somministrato in funzione preventiva, ma solo su chi è già caduto nel consumo della devastante droga. «La cocaina continua a godere di una immagine mitizzata - stigmatizza Carmen Moya, responsabile antidroga della regione catalana-. Sono soprattutto i giovani a legarne il consumo con il successo sociale ed il tempo libero». «Non si tratta di una formula miracolosa, bensì di un aiuto alla disintossicazione - spiegava recentemente il professor Thomas Kosten, direttore della ricerca di Yale. Il vaccino è disegnato per generare anticorpi specifici che «imprigionano» la droga nel sangue. Si tratta di una specie di filtro tra i vasi sanguigni ed il cervello, facendo sí che la droga non arrivi a quest'ultimo. Cosí gli effetti psicoattivi, ossia lo stato euforico, non si produce». E aggiunge: «Il medicinale è sicuro e non presenta effetti secondari rilevanti. Peró non elimina il desiderio di consumare cocaina. In altre parole, il killer della polvere bianca non è una panacea. Come osserva José Pérez Cobos, coordinatore del test in Spagna e psichiatra del nosocomio madrileno Ramón y Cajal, uno dei tre che sperimenteranno il medicinale: «Nessun trattamento contro la tossicomania provocato dalla cocaina ha successo senza appoggio psicologico. È una condicio sine qua non». E precisa: «Indipendentemente dalla via scelta per consumarla, sia iniettata con una siringa, fumata come il crack o sniffata, la cocaina produce molecole piccolissime ma il vaccino assorbe la droga come se fosse una spugna, ne impedisce il passaggio al sistema nervoso eliminandone l'effetto». Negli esperimenti fatti in America si è constatato che la risposta del malato può essere variabile. «Gli effetti scompaiono completamente in alcuni cocainomani, ma la sua efficacia è minore in altri - continua lo psichiatra che da anni lotta contro le tossicomanie - Sembra che esista una variabilità individuale che valuteremo nel prossimo test spagnolo. In alcune persone ci vogliono più dosi affinché il sistema immunitario generi sufficienti anticorpi per impedire che la cocaina arrivi al cervello». Il profilo dei testandi tracciato da Pérez Cobos è quello di un adulto tra i 24 ed i 45 anni, con problemi etilici, integrato nella società ma assolutamente dipendente, anche se consuma solo nei week-end. «Il nuovo vaccino ha suscitato molte speranze tra gli esperti in disintossicazione, anche se esperimenti simili con eroinomani non hanno dato i risultati sperati», si legge su Abc. ____________________________________________________ MF 10 apr. ’07 L ENDOSCOPIO AGUZZA LA VISTA Salute Allo studio una microsonda che ingrandisce le immagini anatomiche di 450 volte Esami diagnostici più accurati che permettono di identificare la presenza di polipi e tumori in fase precoce. Sono queste le premesse sulle quali si basa EndoGytoscopy System Ecs, un'innovativa microsonda in grado di ingrandire le immagi ni delle cellule e delle strutture anatomiche di 450 volte, ossia tre volte tanto rispetto al potere massimo degli zoom della tradizionale endoscopia Questo prototipo è nella fase finale di studio preclinico presso il Dipartimento ,di tecnologie diagnostiche avanzate dell'Istituto nazionale per la ricerca sul cancro di Genova ed entro l'estate verrà sperimentato direttamente sui pazienti. All'interno della tradizionale strumentazione utilizzata per eseguire le endoscopie viene introdotto questo microscopio con una sonda che permette di osservare con accuratezza il tessuto con tempi di procedura che si allungano di circa 15 minuti rispetto a una normale indagine. «Le potenzialità che stiamo cercando di verificare riguardano principalmente la capacità dello strumento di aiutarci a mirare in modo più accurato le aree dove eseguire l'esame istologico. Lobiettivo è quello di avvicinarsi il più possibile a ciò che viene definita bioendoscopia, ossia il riuscire a catturare Immagini con precisione istologica», ha commentato Emanuele Meroni, direttore della struttura complessa di endoscopia interdisciplinare all'interno dei dipartimento genovese che sta eseguendo i test preclinici in Italia (l'altra struttura nella qua le si sta studiando lo strumento è quella di Torre del Greco di Napoli). «Per ora ci stiamo concentrando sui tumori del colon e abbiamo analizzato i tessuti di 25 pazienti. Il materiale ci arriva direttamente dalla sala operatoria e noi ne studiamo la mucosa In questa prima fase siamo già stati in grado di individuare un microfocolaio di cripte aberranti, ossia di ghiandole del colon che, in una fase precedente allo sviluppo del tumore, si presentano alterate a livello morfologico. I:esame istologico successivo ha confermato la validità di ciò che abbiamo rilevato con l'osservazione grazie alla potente sonda». Questa evidenza verrà pubblicata a breve sulla rivista Ehdoscopye apre uno spiraglio in più verso un'accuratezza diagnostica che può spingersi a dare indicazioni sul trattamento terapeutico, endoscopico o chirurgico da eseguire prima che il paziente si ammali in modo grave e sulla probabilità che sviluppi recidive. II limite maggiore dì questa tecnologia risiede proprio nell'applicazione clinica, perché studiare un tessuto all'interno del corpo umano non è così semplice come eseguire un'indagine su un campione prelevato. Quindi la dinamicità dell'esame sarà la vera battaglia che permetterà di capire se la sonda può essere un valido aiuto durante l'esecuzione prima dell'esecuzione dell'esame istologico tradizionale oppure no. «La ricerca può indirizzarsi anche verso campi non oncologici», ha continuato Meroni, «per esempio nel caso di polipi o alterazioni non tumorali delle mucose». Riuscire a rilevare la presenza di tumori o neoplasie in una fase molto precoce può risultare fondamentale anche per alcune aree del corpo dove la diagnostica è ancora piuttosto imprecisa, come nel caso di altri organi come la vescica, stomaco o bronchi dove in una zona molto piccola si possono identificare meglio alcuni marcatori morfologici di un'anomalia. Un altro campo di interesse può essere quello post chemio o radioterapia per valutare la risposta dei tessuti, anche quelli periferici, al trattamento. La sonda verrà presentata alla comunità scientifica durante la prossima mostra Milano CheckUp che avrà luogo presso la Fiera dal 6 al 9 giugno: ____________________________________________________ Il Giornale 13 apr. ’07 CHEMIO SENZA DOLORE PER COMBATTERE I TUMORI Ricercatori del Texas sono riusciti a rendere le cellule cancerogene più sensibili ai medicinali. L'approccio eliminerebbe le conseguenze negative della terapia Daniela Uva È l'ultima sfida della medicina: combattere il tumore riducendo al minimo gli effetti collaterali della chemioterapia. È una lotta contro la malattia e contro il dolore. Un gruppo di ricercatori dell'Università del Texas è riuscito a dimostrare che, utilizzando una tecnica definita Rna interference, è possibile rendere le cellule cancerogene migliaia di volte più sensibili ai medicinali utilizzati per la chemioterapia. Il nuovo approccio, definito dagli stessi scienziati una possibile rivoluziono nella terapia dei tumori, permette di utilizzare dosi talmente basse di farmaci da cancellare quasi completamente le conseguenze più dolorose del trattamento. La ricerca, pubblicata sulla rivista Nature, si basa su una tecnica, l'Rna interference appunto, in grado di inibire o spegnere del tutto alcuni geni coinvolti nel processo di sviluppo del cancro. L'équipe ha studiato più di 2lmila geni, 87 dei quali hanno dimostrato una particolare attitudine nell'influenzare l'interazione fra le cellule malate e i farmaci usati nella chemioterapia. Il Taxol, prima di tutto, sugli effetti del quale interferirebbero sei geni individuati dagli scienziati. In uno degli esperimenti più recenti è stato scoperto che, nel caso del cancro ai polmoni, la nuova tecnica rende le cellule diecimila volte più sensibili al Taxol, conosciuto anche come Paclitaxel e utilizzato nel trattamento del cancro alle ovaie e al seno. In questo modo, spiegano gli scienziati, è possibile ridimensionare di molto le dosi del farmaco e, di conseguenza, gli effetti collaterali come senso di stanchezza, nausea, abbassamento delle difese immunitarie, maggiore esposizione alle infezioni. «La chemioterapia è una tecnica invasiva - spiega Michael White, professore di Biologia cellulare all'Università del Texas -, rende le persone deboli e i suoi effetti sono spesso inferiori alle aspettative. Aver individuato geni inibendo i quali è possibile rendere le medicine più potenti, riducendo allo stesso tempo le dosi, rappresenta il primo passo verso il superamento degli effetti collaterali delle terapie». Lo studio si è basato, in un primo momento, sull'osservazione di cellule cancerogene coltivate in provetta. Il secondo passo è stato la sperimentazione sugli animali che, assicurano gli scienziati, «non è particolarmente difficile e sta dimostrando di funzionare». Ci vorranno almeno dai tre ai cinque anni per passare ai test sull'uomo. «Per il momento - continua White - la tecnica non è utilizzabile sui pazienti malati di cancro. Siamo solo all'inizio, ma questo tipo di approccio sembra essere veloce ed efficace». La ricerca è nata con l'obiettivo di capire perché alcune persone non reagiscono alla chemioterapia e perché, in alcuni casi, gli effetti collaterali sono peggiori. Gli scienziati hanno così esaminato 85mila diverse molecole di Rna - sostanza simile al Dna -, eseguendo una mappatura del genoma per individuare le parti da inibire. In questo modo si sono resi conto che alcuni geni interferiscono nella risposta delle cellule ai farmaci antitumorali. Non solo il Taxol, ma anche il Gemcitabine e il Vinorelbine. Per il momento i risultati più incoraggianti riguardano però solo il primo, come ammette lo stesso White: «I nostri studi con altri farmaci dimostrano che i geni che abbiamo individuato interagiscono in modo particolare solo con il Taxol». I medici: «Grazie a questa scoperta ora possiamo ridurre le dosi dei farmaci e quindi gli effetti collaterali» RISULTATI POSITIVI Un gruppo di ricercatori del Texas sono riusciti a dimostrare che utilizzando una tecnica rivoluzionari è possibile rendere le cellule cancerogene migliaia di volte più sensibili ai medicinali utilizzati per la chemioterapia. Ci vorranno dai tre ai cinque anni per passare ai test sull'uomo ____________________________________________________ Corriere della Sera 13 apr. ’07 RINATI LIBERI DALL'INSULINA Diabete giovanile Una cura sperimentale brasiliana sembra guarirlo In 14 pazienti «ricostruito» il sistema immunitario D ire addio alle iniezioni quotidiane di insulina: il sogno di tutti i malati di diabete. Per quattordici di loro il sogno è, per ora, realtà grazie ad una nuova tecnica di «ricostituzione» del sistema immunitario. Il diabete di tipo I (detto anche giovanile) è una malattia autoaggressiva che porta alla distruzione delle cellule del pancreas che producono insulina, ormone necessario per regolare il livello di zucchero nel sangue. Forse «resettando» il sistema immunitario si potrebbe fermare l'attacco omicida. L'impresa è riuscita ad un'equipe dell'Università di San Paolo, in Brasile, che ha appena pubblicato i suoi risultati sulla rivista dell'Associazione dei medici americani (Jama). Per centrare l'obiettivo, i ricercatori hanno scelto quindici diabetici giovani - età media 19 anni - nei quali la malattia era stata appena identificata e li hanno sottoposti ad un trattamento capace di far passare le cellule staminali dal midollo osseo nel sangue, dal quale sono state estratte e poi congelate. Hanno quindi somministrato dosi massicce di farmaci in grado di «azzerare» il sistema immunitario, iniettando infine nei malati le staminali del midollo prelevate in precedenza, che hanno gradualmente ricostituito un sistema immunitario nuovo. I risultati sono stati molto incoraggianti. Tutti i pazienti, tranne uno, erano ancora «liberi» dalla schiavitù delle iniezioni al momento della pubblicazione dello studio. In media, la cura era stata eseguita 18 mesi prima, ma in un caso si sono raggiunti i tre anni senza insulina. «Questo lavoro è molto importante perché dimostra per la prima volta che è possibile bloccare il diabete autoimmune, riportando l’orologio biologico alla condizione che precede l'esordio della malattia» commenta Camillo Ricordi, direttore dell'Istituto di ricerca sul diabete dell'Università di Miami, in Florida, pioniere della cura del diabete con il trapianto di insule, le aree del pancreas dove si trovano le cellule che secernono insulina, associato a quello di cellule staminali del midollo osseo. Un approccio, questo di Ricordi, diverso da quello brasiliano e volto a evitare la terapia antirigetto «insegnando» al midollo a non considerare estranee, e quindi a non aggredire, le cellule trapiantate, a cui resta il compito di produrre l’ormone. A San Paolo hanno invece iniettato solo staminali, e questa è una novità assoluta. «I dati sono ancora preliminari - aggiunge Ricordi - ma é un primo passo significativo, anche perché si è provata la sostanziale sicurezza del metodo, di fatto uno degli obiettivi primari dello studio». Della tecnica si parlava da un po', ma c'era una certa riluttanza ad applicarla per il timore degli effetti collaterali legati alle dosi massicce di farmaci immunosoppressori. Finora, invece, non vi sono state complicazioni importanti, e questo apre la strada a nuove ricerche. Molti, comunque, gli interrogativi ancora aperti. Non è chiaro, per esempio, il meccanismo con cui l'insulina torna a livelli accettabili. «Non si sa se il ripristino della capacità di produrre ormone sia merito delle cellule staminali iniettate o solo conseguenza dell'immunosoppressione preliminare - afferma Antonio Secchi, professore di medicina interna dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e responsabile del Programma trapianti dell'Istituto -. É già stato dimostrato che la terapia immunosoppressiva, quando la diagnosi è recente, può portare ad un recupero della funzionalità, ma transitorio che svanisce appena cessa la cura. Il vantaggio di questo lavoro è che l'effetto sembra durare nel tempo». «Nessuno studio per la cura del diabete aveva mai raggiunto un risultato del genere» aggiunge Ricordi. Servono ora ricerche più ampie, su molti più pazienti; per verificare se l'indipendenza dall'insulina sia davvero permanente, oltre che per capire meglio come si arriva a questo risultato. Non solo. Il prossimo passo sarà valutare se il trattamento è applicabile anche quando la malattia è avanzata. Proprio per questo, dovrebbero partire nuovi studi che coinvolgeranno diversi centri, tra cui quello brasiliano e quello di Ricordi, ma anche uno di Buenos Aires, e probabilmente anche l'Istituto mediterraneo per i trapianti di Palermo e un gruppo cinese. Alessandra Terzaghi Dopo averlo «azzerato» con i farmaci, il sistema immunitario viene ricostruito utilizzando le cellule staminali prelevate in precedenza Camillo Ricordi: «Nessuno studio finora aveva raggiunto un risultato così strabiliante: bisogna proseguire su questa strada» ____________________________________________________ Corriere della Sera 8 apr. ’07 TALASSEMIA: CACCIA AL FERRO NEL CUORE Anemia mediterranea Con una nuova tecnica diagnostica indagini più precise sulle complicanze della malattia, per trattamenti efficaci Nei prossimi tre anni, 2mila dei 5mila italiani colpiti da anemia mediterranea - la malattia genetica ereditaria chiamata anche Thalassemia maior -, selezionati dai 35 centri ematologici che li hanno in cura, verranno sottoposti in otto Centri di cardioradiologia (v. cartina) ad una indagine diagnostica che, utilizzando la risonanza magnetica, è in grado di evidenziare gli accumuli di ferro nel cuore, causa di fibrosi e di disfunzioni dell'organo, anche molto gravi. È il progetto Miot (acronimo di Myocardial iron overload in Thalassemia, ovvero sovraccarico di ferro nel cuore), nato dalla collaborazione tra il Centro nazionale ricerche (Cnr) di Pisa, la Società per lo studio delle talassemie e emoglobinopatie, la Fondazione Leonardo Giambrone e alcuni partner industriali del settore farmacologico e diagnostico. «In questo arco di tempo - spiega Aurelio Maggio, direttore dell'Unità operativa di ematologia II dell'ospèdale Cervello di Palermo, uno dei Centri coinvolti nell'iniziativa - potremo costruire un identikit dettagliato della malattia e delle sue complicazioni, che coinvolgono diversi organi, fra cui il fegato e il cuore. In particolare, mentre i problemi dovuti all'accumulo di ferro nel fegato sono già ben valutabili e trattabili, per il cuore, fino ad ora, abbiamo incontrato difficoltà di tipo diagnostico. Oggi, però; questi ostacoli si potranno superare grazie alla risonanza magnetica cui è stata aggiunta una modalità tecnica di interpretazione dei dati chiamata "T2 Star", messa a punto dal Cnr di Pisa». «Conoscere l'accumulo cardiaco di ferro è determinante - precisa I casi In Italia, sono circa 7 mila le persone affette da una delle diverse forme di della malattia. Di questi, cinquemila soffrono di thalassemia maior Massimo Lombardi, coordinatore dello studio e responsabile del Laboratorio di risonanza magnetica dell'Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa - per seguire nei dettagli un problema cruciale per questi malati e decidere di conseguenza la migliore terapia». L'anemia mediterranea è una malattia dei globuli rossi che, carenti di emoglobina per un difetto ereditario, sono esposti ad una continua distruzione. Quando i globuli rossi di questi pazienti arrivano alla milza vengono riconosciuti come «difettosi» e precocemente distrutti: il sangue ne resta quindi povero (da qui il bisogno di continue trasfusioni) e il ferro, che viene liberato nel sangue, va a depositarsi nel pancreas, nel fegato e nel cuore. Il trattamento della talassemia si basa, perciò, su farmaci capaci di legare il ferro e di eliminarlo, prima che questo si depositi, terapia detta ferrochelante. La somministrazione dei farmaci avviene sottocute (desferoxamina) con infusione molto lenta (12 ore) per più volte alla settimana, o per bocca con un'altra molecola più recente (deferiprone). Si è verificato, però, che le due molecole hanno differenti effetti sui due organi coinvolti: da qui la necessità di indagare con più precisione sul cuore. In Italia sono circa 7mila le persone che soffrono di una delle diverse forme di talassemia. La maggiore concentrazione di malati si trova in Sardegna, in Sicilia e nel delta del Po. In alcune regioni una coppia ogni 270 è a rischio di procreare bambini malati: Lo screening dei portatori e la diagnosi prenatale, cardini della prevenzione della malattia, devono oggi essere necessariamente affiancati dal controllo delle complicazioni nei malati in attesa di una terapia risolutiva. Il progetto Miot ha suscitato anche l'interesse di altri Paesi - come la Grecia, la Spagna, la Turchia, il Portogallo e le Filippine - colpiti anch'essi in maniera rilevante dalla talassemia. Edoardo Stucchi ____________________________________________________ il Giornale 14 apr. ’07 UNA RETE CONTRO LA SCLEROSI Gianni Clerici La sclerosi multipla è una malattia che distrugge lentamente organi e tessuti, in particolare il tessuto nervoso, nei giovani e negli adulti, provocando prima serie difficoltà nei movimenti, poi l'invalidità. Ciò spiega perché 1a Ricerca continui a studiare questa patologia e a proporre soluzioni capaci di ridurne 1a pericolosità. Il professor Giancarlo Corni, che dirige il Dipartimento di neurologia dell’Istituto scientifico San Raffaele di Milano, ha riunito nei giorni scorsi novanta specialisti con i quali ha stabilito alcune linee-guida per il trattamento della sclerosi multipla recidivante con un nuovo farmaco (nome chimico: natalizumab) già sperimentato negli Stati Uniti su Settemila pazienti. Duemila pazienti saranno trattati, sotto la guida del professor Comi,, con un nuovo anticorpo monoclonale Nei primi giorni di marzo dell'anno scorso il New Ehglahd, Journal ofMedicine ha pubblicato i risultati dello studio chimico «fliSirm», condotto su 942 soggetti affetti da, sclerosi multipla recidivante in cento centri neurologici di vari Paesi: pazienti curati tutti con ataliLUma.b per via endovenosa. Molto favorevoli i risultati: riduzione delle ricadute del 68 per cento e del rischio di progressione della malattia del 42 per cento. Oscillante tra il60 e il 90 per cento la mancata presenza di nuove lesioni. Nel corso di un altro studio clinico, invece, si erano avute complicazioni che avevano indotto le case produttrici ad una temporanea pausa di riflessione, seguita da, un importante processo di rivalutazione del farmaco (che è un anticorpo monoclonale), riammesso nel mercato americano e approvato anche in sede europea. Dice il professor Comi: «Nei giorni scorsi, a Milano, è nata una rete che permetterà a tutti i neurologi della Lombardia, di utilizzare al meglio il nuovo farmaco. (;i consulteremo continuamente e provvederemo a monitorare ogni aspetto della terapia. Il San Raffaele rappresenterà il Centro di riferimento per la. Lombardia; in futuro convocheremo i neurologi di altre quindici regioni. Pensiamo a un grande progetto, che interesserà più di duemila pazienti. Siamo convinti che si tratta di uno dei progressi più significativi registrati negli ultimi dieci anni a. favore di questi pazienti». Natalizumab è il frutto di un'alleanza tra Biógen e Dompè. Il suo meccanismo d'azione blocca il passaggio di cellule immunitarie dell'apparato circolatorio verso il cervello e il midollo spinale. I primi pazienti italiani trattati a Milano, Roma e Bari hanno visto rallentare il corso della malattia. ______________________________________________________ Repubblica 13 Apr. ‘07 MASCHIO INUTILE: SPERMA DAL MIDOLLO DELLA DONNA Esperimenti condotti sui topi studiano la possibilità di produrre sperma da cellule staminali femminili Una ricerca finalizzata a restituire la fertilità agli uomini fa discutere il mondo scientifico In futuro l'uomo sarà superfluo? DOPO la clonazione, la scienza fa un nuovo passo in avanti. Un passo che, se avrà gli sviluppi che gli scienziati auspicano, potrebbe rendere superflui i maschi per la riproduzione. Nella rivista Reproduction il Professor Karim Nayernia e la sua équipe avevano annunciato di aver creato i progenitori degli spermatozoi, a partire da cellule staminali prelevate dal midollo osseo di quattro volontari e fatte crescere in tessuti muscolari. Ora Nayernia e i suoi colleghi della Northeast England Steam Cell Institute di Newcastle, hanno aggiunto un'informazione: nei laboratori di Gottingen, in Germania, l'équipe di studiosi sta conducendo un altro esperimento su topi femmina per valutare la possibilità di ottenere sperma dal loro midollo spinale. La ricerca sta ottenendo risultati sorprendenti. Facendo crescere in laboratorio le cellule genitrici estratte dal midollo, e addizionandole di vitamina A, gli scienziati hanno riscontrato la produzione di cellule spermatogonali, ovvero cellule che dovrebbero evolvere in sperma. Tra qualche mese l'esperimento potrebbe essere esteso a delle volontarie. Ed è per questo che il professor Nayernia ha chiesto di poter proseguire i test presso il laboratorio di Newcastle, quello stesso dove è stato clonato il primo embrione umano. Lo scopo originario della ricerca era quello di restituire la fertilità a uomini che l'avessero persa a causa di trattamenti terapeutici contro il cancro. L'orizzonte si è adesso vertiginosamente ampliato e quasi ribaltato: l'ipotesi della creazione di un embrione a partire da materiale genetico appartenente a due donne si fa a questo punto molto più vicina. Queste implicazioni preoccupano lo scienziato autore della ricerca. Infatti, la necessaria cautela di fronte a studi che sollevano questioni così importanti di etica, potrebbe indurre il governo britannico a bloccare la sua ricerca oppure a sospendere l'uso di trattamenti terapeutici basati sugli esperimenti condotti dalla sua équipe. Altri studiosi, comunque, rimangono scettici sugli esiti finali di questi test. Un invito alla prudenza arriva dal Professor Harry Moore, dell'Università di Sheffield, preoccupato dalle mutazioni genetiche permanenti che queste manipolazioni di cellule staminali potrebbero innescare. Ma l'obiezione più forte arriva da Robin Lovell Badge, del National Institute of Medical Research di Londra ed è condivisa da altri esponenti del mondo scientifico che fanno notare come per la formazione dello sperma sia indispensabile il cromosoma Y, di cui è dotato esclusivamente il patrimonio genetico dell'uomo. La sola matrice femminile, pertanto, potrebbe non bastare all'autoproduzione delle cellule spermatiche. ______________________________________________________ Corriere della Sera 8 Apr. ‘07 COSÌ HO SCOVATO L' ERRORE CHE TAGLIAVA LE GAMBE AI MALATI La mia scoperta I pazienti avevano salva la vita, ma si ritrovavano paralizzati Il chirurgo Paolo Biglioli racconta come, riscrivendo l' anatomia, ha reso sicura la correzione dell' aneurisma L' arteria descritta ai primi del Novecento da Adamkiewicz era stata disegnata negli atlanti in modo sbagliato' *** Abbiamo potuto accorciare i tempi dell' operazione a venti minuti, sufficienti a togliere l' aneurisma e mettere la protesi ' Un' intuizione giusta, sulla scorta dell' esperienza può operare una piccola rivoluzione. Anche in medicina. In un' epoca di tecniche di imaging sofisticate (scintigrafie, Tac spirali e altro) capaci di fotografare il nostro corpo con una precisione millimetrica, una «riflessione» sull' anatomia, o addirittura, la sua rivisitazione pare una curiosità da patologi eruditi. Di come è fatto il corpo umano si sa tutto (o si credeva di saperlo) da cinquant' anni. Eppure qualcuno si è cimentato di nuovo con la «polverosa» materia per risolvere la contraddizione, apparentemente insanabile, di una chirurgia che salva la vita ma rischia di peggiorarne pesantemente la qualità. Scoprendo un errore di interpretazione della circolazione del midollo spinale che, una volta risolto, ha aperto la strada ad un intervento finalmente sicuro. L' artefice della piccola rivoluzione è il cardiochirurgo Paolo Biglioli, direttore scientifico dell' Istituto cardiologico Monzino (dove è arrivato nel lontano 1983) e della cattedra di cardiochirurgia dell' Università di Milano; uno, che per definizione, non si arrende. Tutto comincia alla fine degli anni Ottanta. La constatazione che le persone operate di aneurisma (uno sfiancamento, in sostanza) del tratto toracico dell' aorta - l' arteria principale del nostro corpo che staccandosi dal cuore distribuisce il sangue a tutti i distretti dell' organismo - si mettono al riparo da un' eventuale rottura, quasi sempre mortale, ma corrono il rischio di uscire dalla sala operatoria con le gambe paralizzate, non dà pace a Biglioli. «Era, all' epoca, una probabilità tutt' altro che remota: dal 4 al 10, fino al 30% degli interventi era gravato da questa complicazione: le persone operate si ritrovavano paraplegiche - racconta il chirurgo -. Una patologia drammatica e attualmente irreparabile, non ci sono cure. Alla fine, proprio per la paura di questa evenienza sia i chirurghi vascolari che i cardiochirurghi si erano allontanati dalla correzione dell' aneurisma dell' aorta nel tratto toracico, relegandola in un ruolo di "cenerentola" rispetto all' intervento sull' aorta addominale, quella che corre al di sotto del diaframma. Ad un certo punto mi sono chiesto: perché dare il rischio di paralisi come ineluttabile? In medicina non c' è niente di scontato. Evidentemente, sbagliamo qualcosa. Bisogna ricominciare daccapo». E qui scatta l' intuizione «felice» di Biglioli che capisce come quel daccapo non voglia dire cimentarsi con tecniche chirurgiche ancora più sofisticate (come fanno nel frattempo suoi colleghi senza spostare di una virgola il rischio di paraplegia), ma partire proprio da zero, mettendo in discussione conoscenze sedimentate, in primo luogo quelle anatomiche. Perché compare la paralisi, si chiede Biglioli? Evidentemente perché si crea una sofferenza del midollo spinale che resta a corto di sangue e le metodiche utilizzate finora per evitarla sono, evidentemente, sbagliate o, comunque, inutili. L' attenzione si concentra, allora, su alcune arterie che svolgono un ruolo critico nell' irrorazione di questa delicata struttura nervosa, prima fra tutte l' arteria spinale anteriore. «Può sembrare paradossale, ma nel 2002 non era ancora chiaro se questo vaso fosse continuo o meno - racconta Biglioli -. Gli studi anatomici erano stati fatti su quadrupedi, come il topo, il cane, il vitello e il gatto, e quelli sull' uomo avevano utilizzato mezzi di contrasto radiologici che tendono a dare uno spasmo che falsa il percorso del flusso sanguigno. In conclusione, metà dei lavori dava quest' arteria come continua, l' altra metà no. A questo punto ci è venuto in mente di andare a verificare le reali condizioni dell' arteria nell' unico animale bipede esistente sul pianeta che ha un sistema circolatorio sovrapponibile a quello dell' uomo, la scimmia. Grazie alla disponibilità del rettore dell' Università della montagna in Camerun, abbiamo realizzato ricerche in Africa sui macachi scoprendo, finalmente, che l' arteria "della discordia" è continua, riceve sangue in alto dall' arterie vertebrali e in basso dai rami dell' arteria ipogastrica. Non solo, abbiamo appurato anche che la principale imputata di essere all' origine della paraplegia perché irrora la parte terminale del midollo, l' arteria descritta da Albert Adamkiewicz ai primi del Novecento, era stata disegnata in modo erroneo. Un errore di trascrizione mai corretto che ha condizionato cinquant' anni di chirurgia dell' aorta toracica: si pensava che questo vaso non fosse collegato all' arteria spinale anteriore. Noi abbiamo dimostrato che lo è: in sostanza il midollo spinale dispone di un' irrorazione sanguigna molto ricca e interconnessa. Dati confermati da un lavoro che abbiamo pubblicato nel 2004, dove più di cinquanta autopsie hanno aggiornato il disegno anatomico della circolazione a livello del midollo spinale nell' uomo. Tutto questo, trasferito in sala operatoria, ci ha consentito di chiudere, noi diciamo "clampare", le arterie intercostali (che si staccano dall' aorta, n.d.r) nel tratto di aorta colpito dall' aneurisma, di asportarlo e posizionare la protesi, ripristinando poi il normale flusso sanguigno. L' irrorazione del midollo è conservata e si può lavorare a cuore battente, senza bisogno di circolazione extracorporea. L' intervento deve avvenire in non più di venti minuti; altrimenti compaiono danni. Non a caso abbiamo chiamato la nuova metodica quick clamping, chiusura veloce». Ora la quick clamping festeggia il decennale e i pazienti operati capaci di muovere perfettamente le gambe (l' incidente della paraplegia è scomparso) dopo l' intervento hanno superato i duecento e altri cinquanta sono stati operati in centri italiani e stranieri. Professore, valeva la pena di sacrificare animali per una scoperta scientifica? «Non avevamo alternative - risponde Biglioli -. Senza questa fase di sperimentazione sulle scimmie non avremmo avuto alcuna certezza. Non sono favorevole all' impiego disinvolto degli animali nella ricerca, ma in questo caso la posta in gioco era alta: intravedevamo la possibilità di risolvere una complicazione terribile. Il bene dei pazienti, credo, deve essere una priorità per un chirurgo. Senza dimenticare che l' aneurisma dell' aorta toracica compare di solito in età avanzata e l' invecchiamento della popolazione ne sta favorendo una crescita vertiginosa. Mentre sono aumentate le probabilità di identificarlo perché disponiamo di indagini non invasive, come la Tac e l' ecografia». Come ha reagito il mondo accademico a questa sua scoperta? «Inizialmente con scetticismo, - dice ancora il cardiochirurgo milanese - attribuendo la scomparsa della paraplegia alla mia abilità professionale. Allora ho girato il mondo per presentare ai colleghi questi dati. Ora ci provano anche gli altri: una bella soddisfazione». È singolare che si sia ridisegnata l' anatomia; sarebbe affascinante se anche sul cuore fosse rimasto qualcosa di ignoto. Invece si sa tutto. «Mica vero - puntualizza Biglioli -. Conosciamo ancora pochissimo della sua innervazione. Gli aritmologi fanno le loro ablazioni per interrompere i "capricci" del ritmo cardiaco; spesso hanno successo, ma in realtà operano alla cieca. Mi creda: c' è ancora tanto da scoprire. Anche sul cuore». Franca Porciani * * * Visto da vicino Un «curioso» in sala operatoria Allievo di Edmondo Malan, uno dei «padri» della chirurgia italiana, Paolo Biglioli (laurea in medicina a Modena nel 1962) inizia la sua carriera di cardiochirurgo a Sassari. Dal 1985 è direttore della cattedra di cardiochirurgia dell' Università di Milano. Autore di molte pubblicazioni scientifiche e di testi di tecnica chirurgica, è direttore scientifico dell' Istituto cardiologico Monzino di Milano. Sposato, ha tre figli: uno di questi, Federico, è chirurgo. Porciani Franca