BASSI:ATENEI, IL MAL DI BERTOLDO - LATTERI: UNIVERSITA’ E NUOVI CONCORSI - LE CRITICHE DI LATTERI A MUSSI CI FANNO RIVALUTARE LA SUA PROPOSTA - BILANCI ALLARME CRUI: CONTI IN ROSSO PER GLI ATENEI - CASSE VUOTE PER ATENEI (MANCANO 1,5 MLD) - LAUREA, L’INVESTIMENTO RENDE - UNIVERSITÀ, IL «REGNO» DEI RETTORI: IN CARICA ANCHE PER 16 ANNI (A CAGLIARI) - CONCORSO PILOTATO, CATTEDRA SU MISURA A ROMA - OTORINO, UN AFFARE PRIVATO: QUELLE CATTEDRE D'ORO PASSATE DI PADRE IN FIGLIO - RICOSTRUITO IL LANCIATORE DI PACINOTTI - GOLGI: IL NOBEL DIMENTICATO - IDEE CONFUSE SUL CARBONE - PIANTARE TROPPI ALBERI UN RISCHIO PER L' AMBIENTE - L'IBM SPERIMENTA I CHIPSET DEL FUTURO DAI 6OGIGABIT - DUE SISTEMI DIVERSI DIETRO UN PAIO D'OCCHI - TORRI MULTIMEDIALI: IN RETE I MONUMETI SARDI - SARDI CON PEDIGREE - ================================================= ECCO GLI STANZIAMENTI PER I NUOVI OSPEDALI - DAL GOVERNO ECCO 472 MILIONI - I PAZIENTI BOCCIANO I MEDICI: CI TRATTANO MALE - INTRAMOENIA, DECRETO LEGGE IN ARRIVO - TURCO: NEL SETTORE PUBBLICO LE VISITE FISCALI NON SI FANNO - SAN GIOVANNI DI DIO: IL RISCHIO È CANCELLARE LA MEMORIA DEI LUOGHI - RAGGIUNTO L'ACCORDO PER GLI SPECIALIZZANDI - LA VACCINAZIONE FANTASMA DEL MINISTRO TURCO - MARITAN: VITA. PIÙ DEL DNA POTÉ LA GEOMETRIA - LO STRANO CASO DELL'INFORMATIZZAZIONE DELLA SANITÀ SARDA - MEDICI, ANCHE IL SILENZIO È UN ERRORE - MA COSÌ LA CANNABIS DIVENTA PERICOLOSA - MARIJUANA DOC, VA IN FUMO IL MITO DELL’ERBA BUONA - SCOPRIRE IL MISTERO DEL SESSO NON A LETTO, MA IN LABORATORIO - INFILTRAZIONI EPIDURALI DI CORTISONICI INUTILI - TEST GENETICI SUPERVELOCI CONTRO IL TUMORE AL SENO - PROCESSO AGLI STENT - PILL TO END MENSTRUAL CYCLE PROVOKES MIXED FEEFINGS - NEL SANGUE ABBIAMO TUTTI UNA MOLECOLA CHE BLOCCA LA DIFFUSIONE DELL'HIV - LATTE O NON LATTE - CHI HA PAURA DEL TRIAL - L’ALZHEIMER È MESSO A NUDO CO UN TEST GENETICO - TALASSEMIA, UNA DIAGNOSI PRECOCE PER VIVERE MEGLIO - IPERTENSIONE, LA CAUSA È NEL CERVELLO - KICKBOXING: PUGNI CHE «INTONTISCONO» ANCHE GLI ORMONI - ================================================= ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 19 apr. ’07 BASSI:ATENEI, IL MAL DI BERTOLDO di Davide Bassi * Condannato a morte, l'astuto Bertoldo ottenne da re Alboino la grazia di scegliere l'albero cui essere impiccato. Naturalmente la vana ricerca si protrasse finché il re annullò la condanna. Anche per l'università italiana, quando si tratta di cambiare, scatta la sindrome di Bertoldo; nessuna soluzione vabene e le critiche sono dirette a procrastinare qualsiasi azione, nel timore che possa nuocere ai propri interessi. Eppure non sarebbe difficile trovare soluzioni: basterebbe copiare da chi fa meglio di noi. Un caso emblematico è l'annunciata riforma del sistema di reclutamento dei ricercatori universitari. Le linee guida rilasciate dal ministro Fabio Mussi si ispirano al metodo di reclutamento utilizzato nella maggior parte dei sistemi universitari. Il processo di selezione è suddiviso in tre parti. Tutti i candidati sono sottoposti al giudizio di esperti esterni, ai quali si chiede di esprimere un parere indipendente. Tali giudizi consentono di fare una prima scrematura dei candidati, eliminando quelli che non soddisfano adeguati livelli di qualità. A questo punto si passa alla selezione locale; i candidati rimasti sono convocati a un colloquio con un comitato di selezione, e l'ateneo sceglie chi meglio soddisfa le esigenze della sede. Infine, dopo un congruo periodo di tempo, l’Agenzia di valutazione del sistema universitario esercita, a livello nazionale, il controllo finale. L'annuncio delle linee guida ha subito scatenato la sindrome di Bertoldo. È stata posta una grande enfasi sulla supposta macchinosità del nuovo sistema, e qualcuno è arrivato ad affermare che la presenza di giudici esterni e il controllo finale dell'Agenzia costituirebbero violazioni dell'autonomia universitaria. In realtà c'è il diffuso timore che adottare standard internazionali nei nuovi metodi di reclutamento metta a repentaglio gli equilibri esistenti. Si può discutere sui dettagli della nuova procedura di selezione, e forse ci sarà bisogno di trovare soluzioni più efficaci. Ma la discussione non può essere una scusa per dilatare i tempi di decisione e bloccare il cambiamento. Finora il ministro Mussi ha fatto molti annunci, ma ha concluso poco. Speriamo che abbia la volontà e la forza per portare rapidamente a buon fine la modifica del meccanismo di reclutamento dei ricercatori. * Rettore dell'Università di Trento ___________________________________________________________ La DIscussione 20 apr. ’07 LATTERI: UNIVERSITA’ E NUOVI CONCORSI di Carlo E. Bazzani ROMA - Ferdinando Latteri, già rettore dell'Università di Catania, oggi deputato della Margherita, responsabile del settore Università, ha aperto recentemente sulle pagine del quotidiano Europa, un dibattito approfondito sul mondo universitario ed in particolare sulle procedure d'accesso al mondo accademico sollecitando il ministro Mussi a rivedere le linee guida cancorsuali. Critica di fondo al progetto del ministro è che non risulta di immediata evidenza il tipo di studioso che si vuole selezionare con la nuova tecnica concorsuale. "L'attuazione del progetto - spiega Latteri - impedirebbe qualunque possibilità di immettere nel mondo universitario giovanissimi talenti come avviene negli altri Paesi. La proposta risulta, dunque, gravemente lesiva dell'autonomia e dell'identità dei gruppi dì ricerca esistenti nelle varie strutture accademiche. Il problema è che Mussi prova a tacitare le pressioni di chi esprime insoddisfazione per l’attuale sistema di reclutamento con rimedi peggiori del male. Nessuno, ovviamente, è convinto che il sistema attuale sia il migliore possibile. Ci auguriamo che il ministro voglia sentire al più presto i partiti e tutti coloro che possono esprimere pareri qualificati per pervenire, anche se in ritardo, al più corretto esercizio della delega disposta dalla legge finanziaria e alla distribuzione dei fondi per il piano straordinario di assunzioni". Prodi parlando nei giorni scorsi all'università di Tokyo ha affermato, tra l'altro, che per evitare là fuga dei cervelli bisogna aumentare gli stipendi ai ricercatori. Prodi ha evidenziato un problema vero e serio. Aumentare gli stipendi è sicuramente un incentivo, ma bisogna investire di più nella ricerca tout court. E' fondamentale dare nuove e qualificate opportunità ai giovani. La Margherita e il settore Università sostengono concretamente l'importanza di innovare i sistemi della formazione e della ricerca scientifica, consapevoli del ruolo centrale degli atenei italiani nella creazione di professionisti competenti e all'avanguardia con il resto d'Europa. Che cosa ne pensa dell'Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione per l'università e la ricerca? L'Anvur valuterà i risultati di atenei ed enti di ricerca, distribuendo una quota crescente di risorse finanziarie in base agli obiettivi raggiunti. Sicuramente l'istituzione di questo nuovo organismo è una svolta, che va nella direzione di promuovere la qualità. Ed è un'occasione per chiudere con la politica di distribuzione a pioggia delle risorse, che ha ridotta la competitività delle università italiane. Ci auguriamo che ci possa essere così un miglioramento effettivo delle proposte formative e dell'attività di ricerca. Quali altri interventi ritiene prioritari per migliorare il sistema universitario Credo che l'università italiana non si debba fermare alla formazione pre-laurea, ma debba piuttosto potenziare i canali della formazione post-laurea (masters, scuole di specializzazione, dottorati, ecc.). Per farlo è necessario reperire più fondi per gli atenei, puntando anche sulla capacità di raccogliere fondi privati. T nostri ricercatori devono competere con quelli degli altri Paesi con parità di mezzi e pari dignità: lo richiede il progresso scientifico in continua evoluzione. ___________________________________________________________ IL RIFORMISTA 17 apr. ’07 LE CRITICHE DI LATTERI A MUSSI CI FANNO RIVALUTARE LA SUA PROPOSTA L’UNIVERSITÀ. IL MINISTRO VUOLE MODIFICARE LA DISCIPLINA DEI CONCORSI PER RICERCATORI Sarebbe stata stato più efficace un approccio rapido e incisivo. Ma è sempre meglio che mantenere la statu quo, come vorrebbe Latteri Bertrand Russell scrisse scherzosamente che, pur non condividendo l'impianto filosofico di Platone, era portato a rivalutarlo sulla spinta delle critiche rivoltegli da Aristotele. Lo stesso vale per le critiche del mondo universitario a Mussi. Non mancano motivi di delusione per chi si sarebbe aspettato un approccio più rapido e incisivo, da parte dell'attuale ministro, nell'aggredire i mali endemici della nostra , università. Ma le critiche che spesso piovono su di lui sembrano ispirate da un mero istinto di conservazione. Ne è un esempio il recente intervento del responsabile Università della Margherita, il professor Ferdinando Latteri («Ministro Mussi, così non va», Europa, 12 aprile). L'oggetto del contendere è la proposta Mussi sulla disciplina dei concorsi per ricercatori universitari, attualmente reclutati con una procedura barocca che svilisce il merito e lascia spazi di discrezionalità solitamente utilizzati in maniera perversa. La proposta contiene diverse novità. Primo: la decisione di assunzione resta in mano all'università che ha bandito il posto, ma all'interno di limiti e disincentivi nuovi. Le assurde prove scritte dei concorsi attuali (che senso ha valutare giovani ricercatori con già alle spalle un dottorato di ricerca sulla base di un tema casuale su tutto lo scibile del proprio settore disciplinare?) sono rimpiazzate da un seminario in cui il candidato illustra la propria attività e dimostra le sue capacità scientifiche (come avviene in tutto il mondo). L’autonomia della sede locale è limitata dal giudizio preventivo di autorevoli (e anonimi) studiosi, chiamati a giudicare il curriculum e le pubblicazioni di quanti hanno fatto domanda. Sulla base di tali giudizi, la sede locale è obbligata a scartare il peggior 25 % e a chiamare al seminario il migliore 25%. Dopodiché, la scelta è del tutto autonoma. Temperata, però, da un ulteriore sistema incentivante: se, trascorsi tre anni, il ricercatore assunto non passa il vaglio dell'Agenzia nazionale di valutazione, l'università è chiamata a sostenerne i costi, visto che il ministero cessa di erogare fondi per quel pasto. Quali sono le critiche di Latteri al progetto Mussi? La prima è che così viene lesa l'autonomia delle singole università, messe nell'impossibilità di svolgere la vitale funzione di «cooptazione scientifica di giovani talenti». La seconda è che la selezione per un ruolo iniziale come quello di ricercatore non dovrebbe basarsi su titoli e pubblicazioni, ma solo sul «potenziale» dei candidati. Entrambe le critiche ricordano molto l'Aristotele di russelliana memoria. Primo punto. Non si capisce in cosa venga lesa l'autonomia della singola università, che resta libera di assumere chi vuole, tranne il limite ragionevole di evitare la "porcata" di scegliere candidati interni con curriculum inesistenti (il peggior 25%) e di dare almeno una chance ai candidati più bravi secondo standard riconosciuti (il miglior 25%). Davvero i referees anonimi (usati in tutti il mondo per valutare la qualità della ricerca) meritano di essere apostrofati come novelli inquisitori? La proposta Mussi non annulla la scelta della sede locale, ma la rende più trasparente e la accompagna con il necessario sistema incentivante (o qualcuno preferisce l'autonomia senza responsabilità a cui assistiamo oggi?). Secondo punto. In tutto il mondo, la valutazione dei docenti al livello iniziale della scala accademica avviene sulla base dei titoli, delle pubblicazioni e delle potenzialità dimostrate illustrando le proprie ricerche. Quali altri metodi esistono per valutare le potenzialità dei «giovani talenti»? I temi degli attuali concorsi? La palla di cristallo? Tra l'altro, anche l'ordinamento vigente prevede che la valutazione dei ricercatori debba basarsi in buona parte su titoli e pubblicazioni (cosa che poi non avviene, ma solo perché i candidati interni, poveracci, non hanno pubblicazioni, avendo dovuto fare di tutto, dalle lezioni del professore a compiti amministrativi, per farsi bandire un concorso). La proposta Mussi ha anche il merito di dichiararsi temporanea in attesa di istituire la terza fascia docente con il sistema statunitense della tenure track (entri a tempo e dopo un periodo prestabilito sei promosso al gradino successivo o licenziato). Altra proposta che non incontra il favore del professor Latteri, visto che non farebbe che aumentare il problema del precariato. Francamente, questo tema del precariato nell'università è evocato come uno spauracchio solo in Italia. Si pensi a due opzioni. L'alternativa A (lo standard in tatti i sistemi universitari evoluti) offre al giovane docente un contratto temporaneo, ma con un patto chiaro: finché dura il contratto sei messo nelle migliori condizioni per svolgere il tuo lavoro (buona remunerazione, status riconosciuto, disponibilità di accedere a fondi di ricerca) e dopo un periodo certo puoi chiedere di accedere al gradino successivo sulla base di una valutazione trasparente della tua produzione scientifica. Se al termine del contratto non superi la prova, o cerchi un lavoro in un'istituzione con standard di valutazione inferiori, o cambi mestiere (di solito si parla di persone che, grazie al capitale umano accumulato, non rischiano di finire sotto un ponte). L'alternativa B (il sistema vigente in Italia) offre al giovane un posto a vita, ma senza reale autonomia, mal pagato e con l'incentivo a fare il meno possibile. L’alternativa A è precaria (secondo standard italiani) e l'alternativa B no, ma dubito che qualunque giovane ricercatore che ama il proprio lavoro preferisca la seconda. L’Italia deve darsi una mossa per avvicinarsi allo standard internazionale di valorizzazione dei giovani ricercatori. Certo, per farlo, ci sarà da scontrarsi con molti interessi costituiti, con chi parlerà di «autonomia» (senza responsabilità?), di «cooptazione scientifica» (sulla base di quali criteri?) e di «lotta al precariato» (fine a se stessa?). Ma se l'alternativa è quella offerta dal responsabile università della Margherita, non ci resta che augurare lunga vita, politicamente parlando, al ministro Mussi. ___________________________________________________________ Italia Oggi 20 apr. ’07 BILANCI ALLARME CRUI: CONTI IN ROSSO PER GLI ATENEI DI PATRIZIA F'RANCESCHI Conti in rosso per le università italiane: nelle casse degli atenei mancano, ad oggi, 1,5 miliardi di euro. A lanciare un nuovo allarme, dopo i segnali di sofferenza già inviati negli scorsi mesi al governo, è ancora una volta la Conferenza dei rettori delle università italiane, che denuncia: senza questi soldi non potranno essere pagati gli aumenti stipendiali e salterà l'assunzione dei giovani ricercatori. Così i rettori fanno appello al governo e «per senso di responsabilità» fanno presente che senza provvedimenti urgenti e adeguati le università non potranno pagare gli aumenti stipendiali, né dei docenti, né del personale tecnico-amministrativo. Si tratta di aumenti stabiliti dalla legge con meccanismi che non prevedono la corrispondente copertura. In tali condizioni aggiungono i rettori, «sarà estremamente difficile che gli atenei possano trovare risorse per reclutare le decine di migliaia di aspiranti ricercatori». Con i fondi previsti dalla Finanziaria per quest'anno ne potranno essere assunti appena 500. All'inizio del 20071e università avevano già denunciato una riduzione delle risorse pari a circa un miliardo di euro, limitando peraltro il calcolo ai soli costi sostenuti nel biennio 2005/2006. ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 20 apr. ’07 CASSE VUOTE PER ATENEI (MANCANO 1,5 MLD) Istruzione. All'appello mancano 1,5 miliardi per far fronte agli oneri di legge Alessia Tripodi ROMA Atenei con i bilanci sempre più in rosso. Nelle casse delle università mancano fondi per un miliardo e mezzo di euro. In assenza di «provvedimenti urgenti e adeguati», per quest'anno si potranno assumere non più di 5oo ricercatori e non sarà possibile coprire gli aumenti stipendiali dei docenti previsti dalla legge. È il grido d'allarme lanciato ieri dall'assemblea generale della Crui (la Conferenza dei rettori), che denuncia una situazione «drammatica». «L'università è l'unica fetta del comparto pubblico per il quale non c'è la copertura degli incrementi stipendiali» ha detto Guido Trombetti, presidente della Crui, che sottolinea anche la «preoccupazione» per l'impossibilità di assumere un «congruo numero» ai giovani ricercatori, senza i quali «l'università muore» . Il sottosegretario al ministero dell'Università, Luciano Modica, parla invece di «cifra poco credibile» e ribadisce «l'impegno del Governo a sostenere gli atenei in una situazione di pesante difficoltà», anche con «lo stanziamento in Finanziaria di So milioni di euro nel prossimo triennio per l'assunzione di 1.60o ricercatori». La diminuzione di risorse per i>5 miliardi - spiega la Crui - deriva innanzitutto da un aumento delle spese per gli incrementi stipendiali pari a 64o milioni di euro. In questo modo -- fanno notare i rettori -la percentuale dei costi fissi sull'Ffo (il Fondo di finanziamento ordinario) ha raggiunto la quota dell'89% sull'intero sistema. A questi vanno aggiunti 110 milioni (dovuti ai "tagli lineari" al comparto pubblico e alla chiusura del fondo ministeriale per le "partite debitorie") e altri zoo milioni per effetto del decreto "tagliaspese". Un provvedimento, quest'ultimo, che ha tagliato i consumi "intermedi" degli atenei (luce, acqua, pulizie) del 20 per cento tra il 2005 e il 2007. Senza contare, continua ancora la Crui, l'effetto dell'inflazione sui costi di beni e servizi, che nell'ultimo biennio è stato mediamente del 5% annuo. Fin qui, precisano i rettori, il calcolo dei costi sostenuti nel biennio 2005/2006. Ma il quadro «si aggrava in maniera pesantissima» - raggiungendo quota i,5 miliardi - se si considerano anche i zoo milioni di euro necessari a coprire gli incrementi Istat 2007 per i miglioramenti economici del personale docente (+4,28%), i 100 milioni per le progressioni di carriera e ulteriori 80 milioni per il nuovo contratto del personale tecnico amministrativo, che ha registrato un incremento del 4,46% Per il solo 2007. «Se gli atenei non hanno a disposizione fondi per il cofinanziamento - spiega Trombetti – il piano triennale di assunzione del Governo, seppur degno di merito, rischia di risultare depotenziato». Ma Modica precisa che «le risorse per il reclutamento contenute nella legge dì bilancio sono aggiuntive rispetto alla somme messe a disposizione dagli atenei e derivanti anche dai pensionamenti dei docenti. E con i primi io milioni previsti per quest'anno -aggiunge il sottosegretario - saremo in grado di assumere qualche centinaio di giovani, grazie anche al nuovo regolamento sui concorsi, che sarà varato dal ministero tra maggio e giugno, a garanzia di procedure più serie e trasparenti». Ma il ministero rassicura sugli importi per i ricercatori ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 18 apr. ’07 LAUREA, L’INVESTIMENTO RENDE UNIVERSITA CAPITALE UMANO La domanda di lavoro cresce per chi é disposto anche al trasferimento di Andrea Casalegno In Italia i laureati sono il 12% della popolazione e il 14,67% della forza lavoro: assai meno che negli altri Paesi sviluppati. Come mai allora, secondo gli ultimi dati AlmaLaurea, il consorzio interuniversitario che analizza il passaggio dalla laurea al lavoro, neppure questi laureati, così scarsi, riescono a trovare occupazione úl tempi ragionevoli, tanto meno a tempo indeterminato? Vale la pena di affrontare studi impegnativi e costosi solo per accedere a un'area di parcheggio? No di certo. Siamo sicuri, però, che la domanda di laureati sia stabilmente in calo, che si sia davvero invertito un trend positivo in atto da anni, per non dire da decenni? Per fortuna non è così. La flessione nell'assunzione di laureati è un dato congiunturale che si spiega con la convergenza, nel 2005, di due fenomeni: da un lato le difficoltà dell'economia, dall'altro 1-onda anomala" di nuovi laureati causata dall'affacciarsi sul mercato del lavoro del primo ciclo di laureati triennali, conseguenza della riforma universitaria nota come «tre più due». Dal 2000 al 2005 i laureati passano da 161mila a 230mila. Se proviamo a guardare più lontano e, soprattutto, se scomponiamo il dato complessivo> il quadro cambia radicalmente. -Secondo l'ultimo Rapporto Excelsior, su 200 neoassunti dell'industria i laureati saranno sei. Troppo pochi? Vediamo. Nelle imprese farmaceutiche, però, saranno 70 su 100, 36 su 100 in quelle chimiche, 27 nelle Tlc e 13 nelle industrie meccaniche. Ad abbassare la media sono le imprese edili: 1,6 laureati su 100 neoassunti. Ma questa è la percentuale fisiologica del settore. Analogo discorso vale sul piano geografico. A Milano dal 2004 al 2005 (l'anno della "crisi") i laureati neoassunti passano dal 22,2 al38,8 per cento. Secondo una recente indagine della Camera di commercio del capoluogo, in Lombardia il rapporto tra offerta e domanda di laureati è 0,7: in altre parole, il 30% dei posti disponibili non viene coperto. E sono le imprese ad assumere: in Lombardia la domanda di laureati proviene per il 76,3% dal settore privato e solo per il 24,2% dalla pubblica amministrazione. Che manchino ingegneri, laureati in materie scientifiche e tecnici di livello intermedio non è una novità. In Italia l'Istruzione e formazione tecnica superiore, cioè post diploma, esiste da anni; ma solo sulla carta. E già il precedente Governo aveva cercato di intervenire sulle scelte offrendo un notevole sconto sulle tasse a chi si iscriveva alle facoltà scientifiche. Anche la diffusa convinzione che oggi si trovino solo lavori a tempo determinato risponde solo in parte a verità. Nelle aziende è assai elevata la percentuale di nuovi assunti che passa dal precariato al lavoro stabile. I contratti a termine si concentrano nel settore pubblico che, obbligato a tagliare le spese, ha dovuto congelare le assunzioni a tempo indeterminato. Le imprese hanno e avranno sempre più bisogno di laureati: è. una tendenza irreversibile. Ma quali laureati? Osserviamo il grafico a destra e otterremo una prima risposta. Economia, Ingegneria, le facoltà scientifiche offrono le prospettive più sicure. Un altro elemento chiave è la mobilità: i giovani più dotati devono imparare a spostarsi, a cercare anche lontano da casa le università migliori e le migliori opportunità di lavoro. Laurearsi vale la pena (si veda l'intervento in pagina di Gianfelice Rocca). Ma a due condizioni. La prima è ovvia: scegliere una professione che apra sbocchi promettenti. La seconda, non meno importante, è la qualità della preparazione. Le imprese non hanno bisogno di "lauree", cioè di pezzi di carta, ma di cervelli; e solo i cervelli formati attraverso studi aggiornati e rigorosi sono competitivi. La preparazione però non dipende solo dall'impegno degli allievi. Oggi in Italia né la ricerca né la didattica universitaria sono all'altezza delle sfide globali. Per migliorarle le recenti norme sull'Agenzia di valutazione non bastano: è necessaria un'autentica svolta meritocratica nell'assegnazione dei fondi agli atenei. Ma per adesso non se ne vede alcuna traccia. LE CONDIZIONI La maggior parte dei contratti a termine si concentra nel settore pubblico; nel privato è alta la percentuale di impiego precario che diventa stabile ___________________________________________________________ L’Unità 20 apr. ’07 UNIVERSITÀ, IL «REGNO» DEI RETTORI: IN CARICA ANCHE PER 16 ANNI (A CAGLIARI) Da Campobasso a Modena, mandati a ripetizione E a Pisa e Firenze modificano gli statuti. • di Valeria Qiglioli SEMBRA un'epidemia, quella che sta colpendo i rettori delle università italiane. Perché negli atenei ferve una particolare attività: va di moda modificare gli statuti, in proporzioni più o meno consistenti. Un'attività che ha un effetto collaterale «sui generis», dato che, per consuetudine ormai consolidata e grazie all'inserimento di norme transitorie, porta con sé la possibilità di azzerare i mandati già svolti. E, di conseguenza, di ricandidarsi alla guida dell'università dribblando le disposizioni che fissano in gran parte delle università italiane un limite di due mandati per i "magnifici". II risultato? Rettori in carica per 9, 10, anche 12 anni: a Cagliari si è arrivati a 16, con il 74enne Pasquale Mistretta che l'anno scorso ha inaugurato il 6° mandato. «È una situazione generalizzata - spiega il segretario generale della Flc Cgil, Enrico Panini - Siamo di fronte ad un bricolage istituzionale, mentre di modifica in modifica quelle dei rettori finiscono per configurarsi come cariche a vita». Caso eclatante è quello di Campobasso, dove addirittura lo statuto dell'Università del Molise non prevede un numero massimo di mandati: tanto che il rettore Giovanni Cannata è in carica dal 1995 e sta concludendo il suo 4° triennio; in questi giorni è in corsa per la quinta volta. Basta guardare indietro per rintracciare qualcosa di simile a Macerata, dove nel 2003 il rettore Febbraio ha passato la mano dopo 4 elezioni e 12 anni alla guida dell'ateneo. A Modena il rettore Giancarlo Pellacani, in virtù delle modifiche apportate allo statuto, resterà in carica fino all'ottobre 2008, lasciandosi alle spalle tre mandati triennali. Non va diversamente a Firenze, dove è in corso il lavoro di una commissione, ma una parte dei cambiamenti è già stata approvata ed ha consentito al rettore Augusto Marinelli di correre alle elezioni che lo hanno proiettato nel suo 3° mandato. Per restare in Toscana, la Scuola Normale ha mutato (più di 200 articoli modificati) nel 2006 il volto dello statuto, introducendo la possibilità di un 3° mandato, seppur corredata da una clausola che richiede la maggioranza dei 2/3 per l'eventuale rielezione. Ma che non dovrebbe ostacolare la terza ascesa (se sceglierà di correre) di Salvatore Settis, in carica dal 1999. Anche l'Università di Pisa si sta muovendo: a metà marzo sono partiti i lavori di una commissione incaricata di fare proposte su possibili modifiche. Se fossero approvate prima dell'ottobre 2008 l'attuale rettore Marco Pasquali, eletto per la seconda volta lo scorsa anno, potrebbe puntare a ricandidarsi. Ancora: Guido Fabiani, rettore di Roma III, è al 3° mandato, mentre sono in corso modifiche dello statuto; a Foggia e ad Ancona gli statuti sono già stati cambiati e i rettori sono stati eletti per la terza volta. «In questa situazione gli atenei si stanno danda regole del tutto autoreferenziali. Dietro al meccanismo delle modifiche statutarie, in molte occasioni si costruisce un sistema di alleanze che piega l'azione universitaria al raggiungimento di un preciso risultato». Il cuore della questione è l'autonomia universitaria: «Seme un'autonomia "sana", per evitare che ognuno faccia per sé - conclude il segretario Flc - E sulla durata degli incarichi c'è bisogno di una regola nazionale vincolante». II rischio di una degenerazione dell'autonomia è sentito anche dagli studenti: «È necessario - spiega Daniele Giordana, responsabile nazionale dell'Unione universitari - che governo e parlamento facciano una riflessione seria sul sistema universitario per capire come regolamentarlo: serve una verifica generale, non più politiche di riduzione del danno». Nel frattempo il fenonemo della moltiplicazione dei mandati è all'attenzione del ministero dell'università e della Crui. Che, al momento, sono impegnati nelle valutazioni del caso. ___________________________________________________________ Il Giornale 16 apr. ’07 CONCORSO PILOTATO, CATTEDRA SU MISURA A ROMA Alla Sapienza la denuncia di un docente escluso dal bando della facoltà di Sociologia: procedure ad hoc per far vincere una candidata senza i requisiti Guido Mattioni da Roma La ha mattina del 12 aprile 2006, il professor Tommaso Gastaldi, docente di seconda fascia in Scienze statistiche all'università romana ha Sapienza,, era uscito di casa, con passo particolarmente deciso. Dopo un caffè al bar, aveva imbucato due lettere assolutamente identiche nel contenuto, ma non negli indirizzi: una l'aveva inviata al proprio avvocato, l’altra a se stesso. Nella missiva, Gastaldi prevedeva, fasi ed esiti di un futuro concorso (compreso, «con assoluta certezza», il nome del vincitore) a una cattedra di professore ordinario di statistica presso la facoltà, di sociologia. Concorso di cui era stato appena pubblicato il bando, ma di cui mancavano ancora sia la nomina della Commissione giudicatrice (avvenuta poi il 29 luglio 2006) sia, per forza di cose, i nomi dei candidati. Pur senza visceri di uccelli da «leggere» come gli antichi aruspici, né sfere di cristallo da mago Otelma in cui scrutare, nelle sue lettere il professor Gastaldi (anche lui intenzionato a partecipare a quel concorso, iniziato poi il 20 ottobre 2006) le aveva azzeccate tutte: dai requisiti curriculari che sarebbero stati chiesti al nome del vincitore. Anzi, della vincitrice: la professoressa Mary Fraire, «docente per affidamento interno» della, stessa facoltà il cui preside, Luciano Benadusi, aveva bandito il concorso nominandone presidente l'amico e collega professor Alfredo Rizzi. Il quale Rizzi è coautore a firma, congiunta, proprio con la Fraire, di quattro libri di testo in materia. Per la cronaca, Gastaldi aveva fatto poi seguire la, prima lettera da una seconda, il 21 giugno 2006, ai già citati indirizzi: il suo e quello del suo avvocato, nonché fratello, Davide Gastaldi del Foro di Roma. Rispetto alla prima missiva, nella seconda c'era in più soltanto un rafforzamento nei toni provocato da sgradevoli episodi avvenuti in ateneo (con circostanze ben documentate e riferibili da testimoni) e legati proprio allo svolgimento del concorso-di là da venire: dalle scontate e abituali piogge di telefonate ed e-mail per indirizzare i voti su alcuni candidati alla Commissione, fino ai palei Suggerimenti verbali, alla luce del sole, nei corridoi dell'ateneo. Entrambe le missive sono in luogo sicuro, sigillate e recanti leggibili affrancature postali. Su di esse, con richiesta di acquisizione delle stesso, si basa l'atto di denuncia con richiesta di sequestro di tutti gli originali dei documenti riguardanti il concorso, depositato dall'avvocato Davide Gastaldi alla Procura della Repubblica. di Roma il 23 febbraio 2007 e affidato al pm Francesco Dall'Oglio. Denuncia che adombra sia sospetti di «gravi irregolarità legale: a un'imminente Procedura di valutazione comparativa» (il concorso), sia di «manipolazione del procedimento di formazione della Commissione, volto al conseguimento di un risultato deciso a priori». Con il corollario, scrive sempre il legale, della. «assegnazione della, cattedra, a, una professoressa. "assai debole" scientificamente», facendo così ritenere «che il risultato del concorso fosse di "pubblico dominio" nell'ambiente universitario già al momento stesso dell'emissione del bando». L'avvocato, che in base all'obbligatorietà dell'azione penale chiede l'avvio di un'indagine per abuso d'ufficio, interesse privato in atti di ufficio e falso ideologico, chiama in causa cinque persone. Tre sono altrettanti membri (su cinque) della, Commissione d'esame: Alfredo Rizzi, docente di statistica alla Sapienza; Tonino Scocco, direttore del Dipartimento metodi quantitativi dell'università D'Annunzio di Chieti-Pescara; e Roberta Siciliano, docente presso la Federico II di Napoli. Gli altri due sono il preside di sociologia alla Sapienza, Luciano Renadusi, e la vincitrice Mary Fraire. A proposito di quest'ultima, gli altri due componenti di Commissione, i professori Giancarlo Diana e Lorenzo Fattorini, hanno preteso che fosse messa a verbale sia, la loro valutazione comparativa assolutamente negativa, sia il fatto che, a loro avviso, la F'raire non poteva nemmeno «essere presa in considerazione ai fini della presente valutazione comparativa». Detto altrimenti: non avrebbe avuto titoli e requisiti minimi per partecipare al concorso. Doverosa precisazione, la loro, dato che dimenticarsi dei parametri rissati dalla legge non è ammesso; e dimenticarsene consapevolmente, magari per interesse personale ed economico, si potrebbe configurare come dolo. La professoressa Fraire era stata, tuttavia ammessa, dato che il «sartoriale» bando di concorso richiedeva ai candidati di allegare un numero massimo (si badi bene, massimo, addirittura a pena di esclusione) di 10 pubblicazioni. Numero bassissimo per un concorso a professore ordinario, laddove una soglia congrua si aggira di norma, su almeno 30 lavori cosiddetti «Indexati», cioè elencati negli indici di pubblicazioni internazionali come il Current Index of Statistics-(:is o il Mathscinet. E nel sito di Sociologia/Roma risulta come il curriculum della professoressa Fraire - vicina al pensionamento - elenchi esattamente 10 pubblicazioni. Non una di più, non una di meno. Coincidenza curiosa. Pubblicazioni, peraltro, di cui una soltanto indexata, risalente agli anni Ottanta e apparsa su una pubblicazione non di livello internazionale. Il professor Gastaldi, per fare un confronto, ha al suo attivo oltre 30 pubblicazioni, tutte recenti e indexate su riviste internazionali. L'ultima, per di più, dà la soluzione a un problema che era aperto, e irrisolto, da circa mezzo secolo. Ma Gastaldi, come gli altri candidati in lizza, non è stato considerato idoneo. Curioso anche questo. Così come lo è il fatto che il «Profilo didattico» inserito caparbiamente nel bando, nonostante per legge sia considerato un elemento ininfluente ai fini di una, valutazione comparativa, parrebbe essere il ritratto perfetto della vincitrice. Disegnato a stia, immagine e somiglianza. I: soprattutto prima del concorso. Il professor Gastaldi aveva anticipato sei mesi prima con una lettera all'avvocato i nomi della vincitrice e di chi l'avrebbe valutata Due componenti della commissione giudicatrice misero a verbale: non ha i titoli per partecipare ATENEO NEL MIRINO Un docente della Sapienza di Roma ha presentato denuncia alla Procura chiedendo un'indagine per abuso d'ufficio, interesse privato in atti di ufficio e falso ideologico nel concorso per l'assegnazione di una cattedra in Statistica. Secondo il professore «il risultato del concorso era di pubblico dominio» ___________________________________________________________ Il Giornale 21 apr. ’07 OTORINO, UN AFFARE PRIVATO: QUELLE CATTEDRE D'ORO PASSATE DI PADRE IN FIGLIO Guido Mattioni Drizzato bene le orecchie e schiaritevi la gola, perché qui si parla di Otorinolaringoiatria, Orl per gli addetti ai lavori e per comodità di sintesi. Nonché - specie di chi vi opera da peone, ovvero senza santi in paradiso - una delle specializzazioni accademiche dove più elevata è l'incidenza della Parentite, «validante» malattia professionale degli abitanti di Parentopoli. Validante in quanto portatrice di effetti benefici: concorsi fatti su misura, promozioni dirette o di scambio, stipendi che lievitano come brioches, carriere che scorrono veloci come sulla sciolina. Proprio di Otorinolaringoiatria fu il famoso «Concorsone» del 1988, detto anche «II concorso dei figli», considerato quasi un paradigma, la madre di tutti i concorsi truccati. Una illegalità, la sua, così manifesta da essere stata confermata in ogni grado di giudizio, fino in Cassazione. I giudici scrissero senza mezzi termini di imputati «affetti da delirio di potere» che «con cinismo autoritario che non tollerava limiti di sorta» disponevano delle cattedre della loro materia «quasi si trattasse di beni privati di loro esclusiva pertinenza». Eppure quella illegalità sentenziata scivolò poi via come acqua sul vetro per un banale cavillo procedurale. Con il risultato che tutti i condannati rimasero ai propri posti. A giudicare a loro volta in altri concorsi. Come quello, anch'esso pilotato, del 1992; o quelli contestatissimi del 2000, a Cagliari e Messina. Con candidati che, prima della prova, venivano avvicinati in angoli bui da potenti baroni o loro emissari, ricevendo intimazioni del tipo: «Cercati un ruolo pascolando a casa tua e non a casa mia». Il Concorsone fu inoltre il primo mattone di quel fortino del potere otorinolaringoiatrico che da Nord a Sud governa tuttora la specialità, non a caso una di quelle a più elevato tasso di consanguineità. Scorrendo lo Stivale, si trovano così le consolidate dinastie dei De Vincentis, con il professor Italo che ha lasciato al figlio Marco la cattedra di ordinario alla Sapienza di Roma; dei Motta a Napoli con Giovanni, storico Don Rodrigo di orecchie-naso-gola, che ha passato il testimone al rampollo Gaetano quando aveva 32 anni; mentre a Messina ancor oggi il nome che conta è quello dei Galletti, con Francesco che ha preso il posto del potentissimo papà Cosimo alla direzione dell'Unità operativa, affiancato dal fratello Bruno, associato. Passando a Nordest, ci si imbatte a Verona nel professor Vittorio Colletti, rimasto sempre avvinto alla cattedra nonostante la condanna a 18 mesi per il concorso del 92. Lui ha collocato come ricercatrice a Medicina, sezione di Anestesia, la figlia Liliana, che originariamente si era laureata in Lettere, dopo averle fatto seguire un corso in logopedia e audiologia. Una strada parallela, la loro, che finisce anche con la firma abbinata in numerose pubblicazioni che vanno così a infoltire il curriculum della signora. Due, invece, le dinastie a Milano: gli Ottaviani, rappresentati ora da Francesco (figlio di Antonio), direttore della cattedra e dell'unità operativa al Sacco; e i Pignataro, con papà Oreste, direttore della clinica universitaria e il giovane Lorenzo (diventato ordinario nel luglio 2002). AL maggio di quello stesso anno risale l'idoneità come associato di Stefano Di Girolamo, figlio del professor Alberto, direttore della clinica di Orl all'ateneo romano di Tor Vergata; mentre è del marzo 2003 il concorso vinto dal barese Nicola Quaranta (all'epoca 32enne) e protagonista insieme al padre Antonio di quello che è stato ironicamente battezzato il «Caso Ottanta» (appunto: Quaranta più Quaranta). Antonio, eletto preside di facoltà, ha lasciato al rampollo la direzione della scuola di specializzazione; e dal momento che nella stessa divisione lavora ora anche la dottoressa Susana Fernandez-Vega in Quaranta, moglie spagnola di Nicola e inevitabilmente nuora di Antonio, il «Caso» barese potrebbe diventare un «Caso Centoventi». Sulla collaborazione di due figli, Renzo e Francesco (uno associato e uno ricercatore), può contare infine il genovese Enzo Mora, un luminare sotto la Lanterna. Forse non esagerano i camici bianchi privi di pedigree familiare, ma oberati di lavoro, quando parlano di «vertici» nazionali in grado di fare e disfare i concorsi. In questa come in altre specialità. E ogni vertice ha un numero uno. Se in passato, per otorinolaringoiatria, lo fu quel professor Giovanni Motta, poi condannato per il Concorsone, che in un'intercettazione fu udito menar vanto dicendo che «se voglio, io metto in cattedra anche il mio lattaio», oggi tutti concordano nel dire che in questa specialità non si muova foglia che Desiderio Passali non voglia. Romano, ordinario a Siena, sposato con Luisa Bellusi, laureata in Farmacia e Medicina, nonché figlia del professor Ottorino, ex numero uno alla Sapienza, il Passali è più o meno dal 2000l’indiscusso deus ex machina della specialità, globe trotter congressuale, presidente nazionale e poi mondiale dei suoi colleghi. E mentre dai concorsi svoltisi tra il 2001 e il 2004 nasceva la già citata seconda generazione di figli celebri, con i Di Girolamo, i Quaranta, i Mora e tanti altri, Passali tesseva la sua tela. Dando retta ai bene informati, si sarebbe posto tre obiettivi personali, peraltro legittimi: 1) tornare a Roma; 2) vedere diventare docente la moglie Luisa; 3) e idem il figlio, imperialmente battezzato Giulio Cesare. Per quanto riguarda quest'ultimo, i soliti bene informati dicono sia già arrivato il momento, grazie al magico «incrocio» tra due concorsi per altrettante cattedre da associato, una a Modena e una a Bari, che si concluderanno entro giugno. Questo il «movimento» auspicato (e da molti previsto): Maria Luisa Fiorella, figlia del professor Renato, ordinario a Bari (con Quaranta), dovrebbe prendere l'idoneità a Modena, mentre Giulio Cesare farebbe altrettanto a Bari. Incrocio perfetto, al solito legale e rispettoso della forma. Quanto ai punti 1 e 2 nell'agenda di Passali, è solo questione di tempo. La macchina dei deus ex machina è come un Diesel: non corre troppo, ma arriva sempre. Ci potete scommettere che arriva. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 17 apr. ’07 RICOSTRUITO IL LANCIATORE DI PACINOTTI MOSTRA A PISA Antonio Pacinotti (1841-1912), nell' illustrazione a destra, è conosciuto in tutto il mondo per l' invenzione della dinamo. Ma il fisico pisano nel 1899 aveva brevettato il prototipo di un altro strumento rivoluzionario: il lanciatore elettromagnetico in prospettiva utilizzabile anche in campo aerospaziale. Dopo più di un secolo l' intuizione di Pacinotti diventa realtà in una mostra che si apre oggi sino al 20 maggio a Pisa al Museo degli strumenti per il calcolo, curata da Tiziana Paladini e Claudio Luperini dell' Università pisana. Oltre al lanciatore, ricostruito dal professor Bernardo Tellini, in mostra c' è pure la â Macchinettaâ , prima dinamo a corrente continua che lo scienziato toscano non riuscì a brevettare facendosi sottrarre l' idea dal francese Grahm. In mostra anche alcuni strumenti di Galileo Galilei. Marco Gasperetti ____________________________________________________________ Le Scienze 16 Apr. ’07 GOLGI: IL NOBEL DIMENTICATO Camillo Golgi vinse il premio Nobel nel 1906 per la scoperta della cosiddetta «reazione nera», una tecnica basata sull'uso di sali d'argento che permetteva di colorare in modo selettivo le cellule nervose nei preparati anatomici. Grazie a questo metodo, nel microscopio apparivano nitidi i contorni delle fibre del sistema nervoso, e si poteva studiarne con relativa facilità la struttura. In questo testo Paolo Mazzarello mette in atto un'operazione simile: estrae selettivamente tutto ciò che parla di Golgi da una massa enorme di fonti archivistiche, testi editi e testimonianze orali, fino a ricostruire la traiettoria personale e scientifica di questo personaggio centrale per le scienze contemporanee e troppo spesso «dimenticato», come avverte già il titolo. Già, perché raramente quando si pensa agli «illustri» della scienza italiana si arriva fino a Golgi: un po' per lontananza nel tempo - il Nobel risale a più di un secolo fa, e la scoperta della reazione nera è del 1873 - ma anche per la vicenda che lo vide protagonista proprio relativamente al premio dell'Accademia svedese. Il riconoscimento, infatti, arrivò dopo una lunga disputa con lo spagnolo Santiago Ramón y Cajal. Questi aveva infatti usato il metodo di Golgi per studiare l'anatomia del sistema nervoso, e dopo alcuni primi screzi relativi alla priorità di alcune scoperte, apparve chiara la disparità di interpretazione che divideva i due grandi scienziati. Golgi sosteneva infatti che i neuroni fossero fisicamente uniti tra loro, a formare un'unica grande rete, non solo funzionale ma anche anatomica. Cajal era invece convinto, a ragione, che il tessuto nervoso fosse discontinuo, e che i neuroni fossero entità separate tra loro (la cosiddetta teoria del neurone): «una teoria interpretativa "globalista" per l'italiano, "individualista" per Ramón y Cajal» (p. 353), in un ennesimo scontro tra visioni oliste e riduzioniste nello studio delle scienze della vita. La polemica continuò per diversi anni, pendendo sempre più a favore dello spagnolo. Golgi però non si arrese, e quando nel 1906 tenne la prolusione per il premio Nobel a Stoccolma, si esibì in un aspra critica contro Cajal. Una mossa non solo sbagliata dal punto di vista scientifico, ma anche percepita come un'inelegante mancanza di rispetto per quella stessa Accademia che stava premiando i due scienziati, e che «ebbe anche l'effetto di favorire la fine del suo mito e l'inizio del suo oblio» (p. 8). Se l'assegnazione del premio Nobel è spesso dimenticata, altrettanto non si può dire di altre sue scoperte, e in particolare quella dell'apparato di Golgi, un organello intracellulare adibito al trattamento delle molecole prodotte dalla cellula prima del loro impiego. Ciò fa di Golgi un nome citatissimo nella letteratura, anche se l'origine non sempre è nota: gustoso l'aneddoto citato nell'introduzione: «cosa significa golgus?», chiede lo studente americano al professore italiano che sa di latino a proposito del Golgi complex. La dettagliatissima biografia di Mazzarello non lascia insoddisfatta alcuna curiosità. Con minuzia sono ricostruiti i legami intellettuali e l'ambiente socio-culturale in cui Golgi visse, con particolare attenzione alle vicende storiche dell'Università di Pavia dove Golgi fece gran parte dei suoi studi, che non si limitarono alla neuroanatomia. La sua grande abilità di microscopista e di sperimentatore contribuì per esempio al chiarimento dei meccanismi eziopatologici dell'infezione malarica, mostrando la stretta correlazione tra gli accessi febbrili e la riproduzione del plasmodio (il protozoo responsabile della malattia) nel sangue dei pazienti. Il racconto non si limita comunque alle vicende scientifiche, ma esplora ogni aspetto della vita di Golgi (che ricoprì per 26 anni la carica di senatore) anche con episodi al limite del pettegolezzo, che hanno comunque il merito di colorare una narrazione complessa ma mai noiosa. di Mauro Capocci ____________________________________________________________________ Chi a ragione sul carbone? Due comunicati stampa che prendono posizione sull’uso del carbone in modo chiaramente opposto. Il primo, con una posizione del ministro Pecoraro e del Nobel Rubbia confortati dal rapporto Enea, dice che il carbone pulito non è possibile. Il secondo, apparso sul quotidiano “LaNuova” dice che invece è possibile un utilizzo del carbone pulito, in base alle ricerche dell’Enea, bastano 60 milioni di euro. E’ possibile che Rubbia sbagli? L’Enea quante posizioni ha sul carbone? Ecco i due comunicati: Comunicato Ministero Ambiente del: 12 apr – 2007 http://www.minambiente.it/ Energia: Pecoraro investire su rinnovabili ed efficienza,carbone pulito è chimera “Le fonti rinnovabili e l’efficienza energetica rappresentano il futuro e sono determinanti sia per la lotta ai gas serra che per ridurre la nostra dipendenza energetica mentre il carbone rappresenta il passato e certo non aiuta il nostro paese a rispettare gli impegni del Protocollo di Kyoto”. Lo ha dichiarato il Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare commentando la presentazione rapporto Enea ‘Energia ed Ambiente 2006’. “Bisogna puntare in maniera decisa – prosegue il ministro - sulla riduzione dei consumi e sulla diffusione capillare delle energie rinnovabili e pulite. Il carbone pulito è solo una chimera come sostiene il Premio Nobel Carlo Rubbia, perché, ad oggi, non esiste una tecnica che possa rendere ‘pulito’ l’utilizzo di questo combustibile fossile”. “Dal Rapporto Enea, come da tutti gli atri autorevoli studi in materia, come il rapporto Ipcc, – conclude il ministro Pecoraro Scanio – emerge in maniera lampante che la strada maestra da seguire è quella delle fonti rinnovabili e di una razionalizzazione dei consumi attraverso un’efficace politica per l’efficienza energetica. Questo è l’unico modo per affrontare i cambiamenti climatici che sono una vera e propria emergenza planetaria”. ______________________________________________________ La Nuova Sardegna 17 aprile 2007 Carbonia, iniziativa a quattro per mettere a punto e realizzare il progetto «Fine CO2» Dal carbone energia pulita rispettando l’ambiente Una sinergia che coinvolge i ricercatori dell’Ansaldo, Sotacarbo, Enea e Itea : Presentazione con Giuliano Murgia e Concetta Rau di Erminio Ariu CARBONIA. Cordata a quattro (Ansaldo Energia, Sotacarbo, Enea e Itea) per realizzare il progetto “Fine CO2 “ - Flameless Italian No Emission- di anidride carbonica. L’impegno dei ricercatori mira a produrre energia elettrica con l’uso pulito del carbone senza immettere in atmosfera i gas serra. Il protocollo di Kyoto impone ai paesi, compresa l’Italia, che hanno sottoscritto l’accordo di ridurre le emissioni di anidride carbonica nell’aria e la soluzione sembra a portata di mano. Con la nuova tecnologia «Near Zero Emission» che sfrutta sistemi di produzione di energia caratterizzati da emissioni di prodotti che non inquinano l’ambiente e non alterano il clima. Ed è la CO2 a tenere alto l’interesse dei paesi industriali del pianeta per le alterazioni climatiche mentre le polveri sottili, le ceneri, e gli ossido e le anidridi di solfo e di azoto sono l’incubo degli abitanti che abitano nei centri che gravitano nei centri dove sono istallate termocentrali alimentate a carbone. La ricerca ha messo a punto il progetto Isotherm, presentato ieri pomeriggio, a Carbonia, nella miniera di Serbariu alla presenza dell’assessore regionale all’industria Concetta Rau dal pool tecnico delle quattro società coinvolte nell’iniziativa. «Questo processo — ha chiarito ad un pubblico attento, Alvise Bassignano, amministratore delegato di Sofinter (Ansaldo-Energia) — consente di utilizzare carboni di basso rango (Carbone Sulcis o carboni di qualità anche inferiori rispetto a quelli usati nelle centrali Enel) senza immettere in atmosfera i gas della combustione. Brevemente, in un combustore ad alta pressione è possibile catturare l’anidride carbonica e produrre contemporaneamente residui solidi inerti. Scomparsa totale dei metalli pesanti perché, alle alte temperature di processo, si ottiene una sostanza amorfa (vetro) che può essere allocata in discarica ». Conti alla mano, oltre alla separazione e allo sconfinamento dell’anidride carbonica i costi di produzione dell’energia elettrica sarebbero inferiori a quelli correnti di oltre il 30 per cento. «Nel combustore — ha spiegato Giuseppe Girardi dell’Enea — viene prodotta una combustione senza fiamma (flameless) ma è un processo perfetto perché all’interno dell’impianto la temperatura, altissima 1500-1800 gradi, è uniforme in tutta la camera di reazione. Quindi si ottiene il massimo rendimento termico e il composto organico totale è 1000 volte inferiore alle tecnologie tradizionali. Insomma si ottengono scorie vetrificate alla base del reattore». I vantaggi di questa tecnologia sono molteplici e i tecnici presenti hanno voluto segnalare anche la possibilità di utilizzo del carbone con una granulometria decisamente superiore a quella che attualmente viene sfornata dai frantoi delle centrali Enel. L’impianto Isotherm, per marciare ha necessità di disporre di maggiori quantità di ossigeno rispetto ai bruciatori tradizionali. «Ebbene i prezzi di questo comburente — ha aggiunto Giuseppe Girardi — sono compatibili con i costi d’esercizio dell’impianto ma i vantaggi sono decisamente importanti ».. L’unico inconveniente è dove stoccare l’anidride carbonica sequestrata agli impianti. «La ricerca — ha sostenuto Mario Porcu, presidente della Sotacarbo — ha individuato la possibilità di immagazzinare il gas responsabile dell’effetto serra nei giacimenti di carbone non estraibile, nei giacimenti petroliferi esausti e commercialmente inutilizzabili Si ottiene in questo modo la risalita di metano». Per realizzare il progetto occorrono 60 milioni di euro e 60 mesi di tempo per la realizzazione- A disposizione, per la prima fase sono disponibili 1.5 milioni di euro mentre per le due fasi successive si richiedono fondi regionali e Cerse a sostegno della ricerca nel settore elettrico. La presenza dell’assessore regionale all’industria Rau e di Giuliano Murgia, presidente di Sardegna Ricerche lasciano intendere che il progetto seguirà un iter rapido. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 17 apr. ’07 PIANTARE TROPPI ALBERI UN RISCHIO PER L' AMBIENTE Studio Usa: assorbono l' anidride carbonica ma causano danni al sistema idrogeologico CONSEGUENZE La forestazione riduce del 52% l' acqua nelle superfici coltivate Piantare alberi per sottrarre dall' atmosfera l' anidride carbonica al fine di ridurre il riscaldamento globale potrebbe determinare maggiori problemi ambientali di quanti ne verrebbero risolti. E' a tutti noto che gli alberi funzionano come «trappole» per la CO2, ma gli effetti indesiderati delle piantagioni forestali potrebbero sottrarre quantità eccessive di acqua e di nutrienti al suolo, esacerbando ulteriormente gli scompigli climatici. MODELLI - «Il "sequestro" della CO2 - dice Robert Jackson dell' Università di Duke (Usa), nella ricerca pubblicata dal Journal of Geophysical Research - può funzionare per qualche decennio ma la domanda non è se possiamo stoccare il carbonio negli alberi, quanto piuttosto quali sono i danni e i benefici per l' ambiente». E allora dalle ricerche sul campo (più di 600 osservazioni in varie parti del mondo) integrate con modelli climatici ed economici, si è giunti alla conclusione che piantare alberi riduce in media del 52% il flusso d' acqua nei terreni considerati, inaridendo del tutto il 13% dei ruscelli entro il primo anno dall' attuazione della forestazione. E' pur vero che è proprio questo un modo per prevenire le alluvioni ma in molti altri casi (specialmente quando gli alberi sono piantati e gestiti come fossero grandi colture agricole) produce una rilevante alterazione del ciclo idrogeologico. La ragione va cercata nel fatto che abitualmente, quando si piantano alberi si utilizzano quelli a crescita più rapida (varie specie di pini ed Eucalyptus per esempio) con radici che scendono più in profondità e assorbono molta più acqua rispetto alle colture erbacee che vanno a sostituire. A questo si deve aggiungere l' intercettazione della pioggia da parte delle chiome e la rapida evapotraspirazione che nelle zone extratropicali non si trasforma necessariamente in precipitazioni. Così l' acqua rimasta disponibile, non utilizzata dalle piante, si riduce anche del 20% e in molte nazioni la forestazione costituisce una grave sottrazione di risorse idriche. Pure il ciclo dei nutrienti è alterato rispetto alle praterie o ai campi coltivati, con depauperamento di calcio, magnesio e potassio, mentre sodio e cloro si accumulano nel terreno che diventa sempre più salato e acido. EFFETTI – Effetti molto negativi si avrebbero per esempio se si trasformassero in foreste le pampas argentine o le steppe caspiche della Russia. Mentre invece gli effetti sarebbero positivi nel Sahel africano dove l' assorbimento degli alberi manterrebbe il livello dell' acqua salata al di sotto di quello dove affondano le radici le colture agricole. Ben diverso è poi piantare alberi dove non ci sono mai stati, dal ripristinare un ambiente già esistente laddove la foresta era stata abbattuta: operazione quest' ultima auspicabile. Il protocollo di Kyoto obbliga le nazioni a ridurre la CO2 anche attraverso il «sequestro del carbonio». Piantare alberi è una delle opzioni. «Ma la sua efficacia sarà comunque limitata - commenta Jackson -. Abbiamo calcolato che negli Usa bisognerebbe piantare 44 milioni di ettari di alberi per avere una riduzione di CO2 del 10%. Meglio sarebbe migliorare la resa energetica delle automobili». Spampani Massimo ___________________________________________________________ Repubblica 16 apr. ’07 L'IBM SPERIMENTA I CHIPSET DEL FUTURO DAI 6OGIGABIT AL SECONDO DI VELOCITÀ Zoom/ La ricerca prosegue nei laboratori di New York: un film che oggi richiede mezz'ora per il download si potrà scaricare in 1 secondo ALESSANDRA RITONDO L e reti locali comunemente in uso raggiungono una velocità di trasmissione di circa 1 gigabit al secondo e se ne stanno affermando altre che toccano i 10 gigabit. Supponiamo però di avere, una sera, un'incontenibile voglia di vedere Ben Hur e quindi decidiamo di scaricarlo da Internet ad alta definizione. Dopo tre, quattro ore avremmo finito, forse. Ma se, apriti Sesamo, la trasmissione dati raggiungesse una velocità di 160 gigabit al secondo? È quanto annunciano i ricercatori IBM del T. J. Watson Research Center, Yorktown Heights, di New York che hanno presentato un prototipo di chipset a trasduttore ottico capace di trasferire dati a velocità almeno otto volte superiori rispetto ai compo nenti ottici attuali. Ciò significa che in un solo secondo si potrà scaricare lo stesso lungometraggio che oggi richiede 30 minuti o più di download e questo potrebbe abilitare dei nuovi modelli di business da parte di chi produce e distribuisce media. "Quando si parla di trasmissione di dati si parla di una modulazione di un segnale su un conduttore di qualche tipo - spiega Robert Alexander, Executive IT Architect di IBM Italia - tradizionalmente si parla di segnali elettrici su fili di rame, questa è la trasmissione di dati comune. Perla fisica che c'è sotto, a causa della dimensione delle lunghezze d'onda coinvolte, quando bisogna aumentare la banda di trasmissione da un punto all'altro, l'unica strada per uscire dai limiti imposti dal rame e dai segnali elettrici è quella ottica. Per cui ecco le fibre ottiche, su cui il segnale da trasmettere da un punto all'altro viene modulato da trasduttori che trasformano il segnale elettrico in impulsi di luce. Questa luce può veicolare una quantità di informazioni molto superiori rispetto a quella del segnale elettrico su rame". I trasduttori fanno parte di una tecnologia già attiva in tutti i punti in cui la rete da rame diventa ottica. La novità dell'annuncio IBM sta nella velocità di questo dispositivo, che permette una velocità di trasmissione di 160 Gbit al secondo; nelle sue dimensioni, 3,25 x 5,25 mm, e nella semplicità di costruzione che impiega la tecnologia standard CMOS, peri volumi elevati e a basso costo utilizzata oggi per la maggior parte dei chip. Allo stato attuale un limite alla diffusione di questa tecnologia potrebbero essere gli standard di comunicazione in uso, "per arrivare a questo livello di performance bisognerà mettere in piedi un tavolo di standardizzazione di questo protocollo e cercare un'accettazione diffusa da parte di molti attori tecnologici perché questa tecnologia si affermi sul mercato. Se sei l'unico a fare una cosa, soprattutto nel mondo della comunicazione non funziona, bisogna essere in due a parlarsi", spiegano al Centro Ricerche di Big Blue. Per l'uso reale nei prodotti ci vorranno circa cinque anni affinché il mercato maturi e converga per effettuare una produzione di massa. La ricerca IBM si è ultimamente scatenata nel campo della tecnologia dei chip: dopo quello ottico, arriva "through-silicon-vias" che con chip tridimensionali può estendere i limiti della legge di Moore. Compatta strettamente diversi componenti di chip, per realizzare sistemi più veloci, più piccoli e che consumano meno potenza. IBM passa da configurazioni di chip 2-D orizzontali al 3-D chip stacking, che prende i chip e i dispositivi di memoria e li impila. Un panino di componenti che riduce le dimensioni del pacchetto del chip complessivo e aumenta la velocità del flusso di dati tra le funzioni presenti sul chip. La prima applicazione di questa tecnologia, in produzione per il2008, sarà nei chip per le comunicazioni wireless; seguiranno i server ad alte prestazioni e i chip per supercomputing IBM. ________________________________________________________ tst tutto Scienze e tecnologia 18 apr. ’07 DUE SISTEMI DIVERSI DIETRO UN PAIO D'OCCHI «Così creeremo nuove interfacce tra l'uomo e i robot» MELWN A. GOOpALE UNIVERSIiY OF WESTERN ONTARIO LONDON ONTARIO - CANADA Perché ci occorre la vista? La domanda ha due risposte. Da una parte la visione è necessaria per fornirci la conoscenza del mondo esterno, conoscenza che ci permette di riconoscere la realtà minuto dopo minuto e giorno per giorno. Dall'altra parte la visione ci serve per guidare le nostre azioni proprio nell'istante in cui avvengono. Si tratta di due compiti abbastanza diversi e la natura ci ha fornito due sistemi visivi differenti per eseguirli. Un sistema, vedere – per - percepire, permette di riconoscere gli oggetti e costruire un database sul mondo esterno. Il sistema con cui abbiamo maggiore familiarità, quello che ci fornisce le esperienze visive coscienti e permette di vedere e apprezzare il mondo. L'altro sistema, molto meno studiato e compreso, vedere – per - agire, fornisce il controllo visivo di cui abbiamo bisogno per muoverci e interagire con gli oggetti. Questo sistema non deve necessariamente essere cosciente quanto veloce e accurato. Entrambi i sistemi lavorano insieme nella generazione del comportamento quotidiano. L'evidenza a favore dei due sistemi visivi distinti deriva soprattutto dal lavoro con pazienti neurologici. Prendiamo il caso della paziente conosciuta come D.F. Oltre 50 anni fa, quando ne aveva 30, aveva subito un danno irreversibile al cervello in seguito al quasi - soffocamento da monossido di carbonio proveniente da una stufetta. Il danno ha lasciato D.F. incapace di riconoscere i visi di parenti e amici e di identificare le forme degli oggetti comuni. Il deficit è così profondo che D.F. non è in grado di indicare la differenza tra semplici forme geometriche, come un triangolo e un cerchio. Contemporaneamente non ha problemi a identificare le persone tramite le loro voci e gli oggetti che tiene in mano. I suoi problemi percettivi sembrano essere esclusivamente visivi. Tuttavia la cosa più stupefacente di D.F. è che, nonostante l'incapacità nel riconoscere forma, dimensione e orientazione degli oggetti, è in grado di raggiungere e afferrare quegli oggetti con straordinaria abilità. Può aprire le porte, stringere le mani, raccogliere un penna e afferrare un pezzo di cibo, tutto sotto controllo visivo. In queste attività il suo comportamento guidato dalla vista sembra essere normale. Nel protendersi verso l'oggetto che le interessa, molto prima del contatto fisico, D.F. ruota la mano nel verso giusto, apre mano e dita per adattarle precisamente alla dimensione e alla forma dell'oggetto, proprio come farebbe una perso na con una vista normale, neurologicamente intatta. In che modo riesce a farlo? E' emerso che la lesione cerebrale di D.F. è confinata nella «via visiva ventrale», un importante insieme di canali che dall'area visiva primaria, nella parte posteriore del cervello, porta alla zona inferiore del lobo temporale. Questa via - ora lo sappiamo - è l'area deputata al vedere-per-percepire e questo spiega perché D.F. abbia problemi nel riconoscere gli oggetti. Invece, la «via dorsale», che dall'area visiva primaria porta alla corteccia parietale superiore, è relativamente intatta e, proprio perché questa via è preposta al controllo visivo di operazioni evolute, D.F. è ancora capace di raggiungere ed afferrare gli oggetti in modo corretto (sebbene non li riconosca). Ci sono altri pazienti neurologici le cui abilità visive intatte e i cui deficit seguono uno schema che è l'immagine riflessa allo specchio di D.F. Questi pazienti possono usare le informazioni visive per riconoscere gli oggetti e descrivere la posizione dei parenti nello spazio, ma non per compiere azioni: sono cioè incapaci di usare la visita per raggiungere e afferrare proprio quegli oggetti che descrivono. In genere risulta che non hanno alcun danno alla «via ventrale», quella della percezione (come D.F.), ma presentano lesioni nella «via dorsale», quella dell'azione. L'idea di due sistemi visivi in un cervello potrebbe sembrare controintuitiva. Dopotutto, sembra ovvio che la rappresentazione soggettiva che abbiamo della tazza di caffè sia la stessa che ci permette di sollevarla. Ma questa idea è un'illusione. Come ha dimostrato il lavoro con pazienti neurologici, il sistema visivo che ci fornisce l'esperienza visiva del mondo non è lo stesso che guida i nostri movimenti. Questo modello di due sistemi visivi fornisce un «framework» utile per comprendere i deficit percettivi e viso-motori nei pazienti neurologici, permettendo diagnosi e riabilitazioni più efficienti. E inoltre ci sono potenziali applicazioni commerciali: il modello fornisce una serie di strumenti agli ingegneri che disegnano interfacce uomo-macchina e sistemi dì controllo robotici. RUOLO: Professore di neuroscienze dell'Università del Western Ontario RICERCHE: Neuroscienze cognitive e in particolare le questioni legate alla rappresentazione visiva e motoria di oggetti e di azioni Realtà diverse: si vede per percepire e si vede per agire _____________________________________________________ L UNIONE SARDA 18-04-2007 TORRI MULTIMEDIALI: IN RETE I MONUMETI SARDI sistema architettonico difensivo all'Italia all'Oriente, con una puntata sulla nostra Isola, per parlare dei beni culturali e della loro conservazione. Pochi giorni fa, a Tokio, si è tenuto un seminario organizzato dal dipartimento Patrimonio culturale del consiglio nazionale delle ricerche (http://sij07.cnr.it) dal titolo "Tecnologie dell'informazione e della comunicazione culturale". In Giappone si ì' parlato dei beni culturali italiani e della loro conservazione: dalle antiche Torri costiere sardegna al Teatro Romano di Aosta. IL PROGETTO. Gli studiosi del Cnr (http://www.cnr.it/sitocnr/home.htrn 1), grazie a una possente iniezione di information technology, hanno rivitalizzato le antiche torri costiere della Sardegna: il progetto, che è stato battezzato "Torri multimediali", è stato messo a punto dall'Istituto di storia dell'Europa mediterranea (http://www.isem.cnr.it/) del Cnr, in collaborazione con il regista Francesco Casu e l'architetto Olindo Merone di Antalya onlus. La rete di avvistamento costiero sardo, nata in funzione delle politiche di difesa degli Stati mediterranei dal XV al XIX secolo, si trasformerà in un moderno sistema di presidi di informazione telematica, una sorta di network per la conoscenza del territorio. «Allestite in chiave multirnediale e collegate alla rete Internet - spiega Giovanni Serreli dell'Isem-Cnr -, le torri saranno "videosurround interattivi", ossia punti d'osservazione digitale che permetteranno di compiere un viaggio alla scoperta dei luoghi e della storia dell'isola. Il visitatore potrà conoscere non solo il monumento, ma tutto il sistema difensivo composto da torri e città fortificate dell'antico regno di Sardegna e di tutti gli stati che appartennero alla Corona di Spagna, dall'area tirrenica alla Turchia e al Maghreb». IL SISTEMA SINDA. Un altro nuovo progetto è stato anche sperimentato sulla struttura dell'antico Teatro romano di Aosta: ogni fregio, blocco di pietra ed elemento del monumento è stato mappato da Siinda, il sistema integrato per il supporto alla diagnosi dello `stato di salute' di un manufatto, nato da un consorzio ad hoc composto dai ricercatori del Consiglio nazionale delle ricerche. "Siinda - assicurano gli studiosi - ha dimostrato di essere un valido alleato della Soprintendenza locale per la manutenzione del monumento, risalente all'inizio del I secolo dopo la nascita di Cristo" Il seminario giapponese - promosso dal ministero degli Esteri e organizzato dal Dipartimento patrimonio culturale del Cnr - ha visto la partecipazione di rappresentanti di istituzioni pubbliche e private italiane e giapponesi per un confronto e uno scambio di conoscenze sulla conservazione del patrimonio culturale. NUOVE TECNOLOGIE. L'applicazione delle tecnologie made in Italy riguarderà anche manufatti custoditi in centri esclusi dai grandi circuiti di massa che rappresentano elementi distintivi di identità e autenticità della cultura del nostro Paese. Ad Aosta come in Sardegna, gli "architetti informatici", hanno riprodotto tutti i monumenti in tre dimensioni. In questa maniera hanno reso interrogabile ogni piccolo tassello della struttura virtuale che rappresentava perfettamente l'antico monumento studiato. ALESSANDRO TESTA ___________________________________________________________ LA Cucina Italiana apr. ’07 SARDI CON PEDIGREE Gli olivi della Sardegna sono alberi che non si possono piantare altrove. Non produrrebbero le stesse olive. E, pur insistendo, non si otterrebbe nemmeno un olio altrettanto buono, o comunque dal medesimo profilo sensoriale. Succede infatti esattamente questo: che le piante restano influenzate dall'ambiente in cui per secoli hanno vegetato. E soltanto in un determinato luogo gli olivi riescono a esprimere certe specifiche peculiarità. II territorio in Sardegna a dominare la scena sono le varietà locali. Hanno nomi suggestivi: bosana, per esempio. Oppure: nera di Gonnos, olianedda, pezza de Quaddu, pizz'e carroga, semidana, tonda di Cagliari. Ciascuna è in grado di conferire una propria personale impronta all'olio. Le differenze non sono da scovare solo nelle forme dei tronchi e dei rami oppure nelle dimensioni delle foglie e dei frutti. Le piante posseggono una propria struttura genetica, frutto di una pratica olivicola che affonda le radici nell'antichità, Sono stati infatti gli antichi Romani a dare il maggiore impulso alla coltivazione, sottraendo spazi a pastorizia e cerealicoltura. Nel Medioevo, poi, spadroneggiarono Pisani e Genovesi, ma solo per poco. Nel Seicento il viceré spagnolo Giovanni Vivas volle infine puntare sull'incremento della produzione di olio, inviando delle maestranze esperte da Majorca per addestrare i locali alla pratica dell'innesto. Tra fasi alterne, nello scorso secolo è stata incentivata la realizzazione di oliveti più moderni e razionali. Oggi è il tempo del la riscoperta. Si notano extravergini dai caratteri organolettici insoliti, con profumi floreali piacevoli e seducenti. A tutela della provenienza, oltretutto, l'intera isola può ricorrere al marchio Dop "Sardegna". Lo scorso agosto è stata infatti assegnata la denominazione di origine protetta per il mercato italiano, ma a breve seguirà anche l'iscrizione nell'elenco della Comunità europea. LE CARATTERISTICHE In generale tutti gli oli dell'isola presentano una buona finezza al palato, dovuta alla loro fluidità e all'armonia. Nel cagliaritano gli oli hanno sentori vegetali mediamente intensi, con note che rimandano in alcuni casi anche alla frutta esotica e alla mela. Anche nel nuorese dominano gli oli dal fruttato medio: sono infatti morbidi e carezzevoli in bocca e presentano profumi freschi, tendenzialmente riconducibili al carciofo. Nell'oristanese sono decisamente più intensi all'olfatto, ma anche al gusto, con sentori talvolta di noce, talaltra di erbe di campo. Nel sassarese, infine, vi sono extravergini dal fruttato medio, con eleganti note floreali e dal gusto vegetale di carciofo. Gli abbinamenti consigliati Con oli dal fruttato intenso, meglio i cibi più strutturati: dalle insalate di funghi ai legumi, dalla selvaggina alle tagliate con la rucola. In tal caso, pur trattandosi di fruttati intensi, sono perfetti anche su insalate di polpo o con crostacei al vapore perché si presentano in genere morbidi e mai spigolosi al palato. Gli altri extravergini, di solito dalle note olfattive di media intensità, si prestano a molteplici impieghi, a crudo come in cottura, ma restano senz'altro i più idonei con piatti a base di pesce, con 1e verdure e con le carni bianche. Poderi di San Giuliano "Primer" Da olive bosana in purezza. Ha sentori erbacei e note di mela. Fluido e morbido al palato, dona sensazioni vegetali sapide e punte amare e piccanti armoniche. Chiude con toni di frutta bianca. Ideale con risotto ai porcini, insalate di patate e pomodori, baccalà mantecato. Non filtrato Da olive pizz'e carroga e tonda di Cagliari. Ha profumi vegetali con rimandi netti al carciofo. AI palato è equilibrato e di buona fluidità. Chiude con una nota di mandorla dolce e una lieve punta di piccante. Ideale con focaccia alla salvia, fiori di zucca fritti, tinche al forno con piselli. "S'Ena" Da olive per la gran parte bosana e semidana. Ha profumi fruttati freschi e note floreali persistenti. Sapido al gusto, con amaro e piccante netti e dall'ottimo equilibrio, presenta una lieve astringenza e note di carciofo e noce. Ideale con zuppe di funghi, minestre di zucca, faraona arrosto. Si chiama "Liberty", come lo stile fiorito del palazzotto che lo ospita, uno dei più conosciuti ristoranti di Sassari. Affacciato sulla suggestiva piazzetta Nazario Sauro, oltre alle due sale interne offre anche la possibilità di mangiare all'aperto, dove a ogni ora si impone il sentore del mare di Sardegna. Lo chef, Giacomo Pulino , è orgoglioso del suo locale, aperto nel 1991, e cita le molte segnalazioni che hanno fatto guadagnare notorietà alla sua cucina, votata alle tradizioni del territorio interpretate in maniera moderna e creativa Jj%pesca del mare dl Castello e . prodotti degli orti della campagna sassarese sono le sue materie privilegiate, che coniuga in piacevolissimi abbinamenti. Pesce e verdura, inconcepibili senza la complicità di un buon olio. Qual è il suo extravergine ideale? Deve essere profumato, corposo, dolce... E il piatto di pescato e orto su cui si esprimono al meglio queste qualità? I carciofi al forno, ripieni di polpa di riccio di mare, appena spruzzata di buttarga e... naturalmente quel filo d'oro che rende magico ogni piatto. Una prelibatezza. Ma in mancanza di carciofi e ricci di mare? Mai provata una fetta di pane casereccio con poco sale e buon olio? Elisabetta Bodini E ANCORA... COME NASCE UNA COPPIA Gli esperti del Cnr dì Bologna hanno cercato di capire come sia possibile creare abbinamenti tra cibo e olio. Hanno così coinvolto assaggiatori professionisti e si sono avvalsi del parere di oleologi, docenti di scuole alberghiere e ristoratori per costituire un focus group di corretto approccio metodologico. In una prima fase è stato preso in considerazione ìl parere di 128 consumatori che hanno degustato carote crude alla julienne con quattro differenti oli extravergini. La seconda fase ha coinvolto invece dieci assaggiatori professionisti. Per loro sono stati conditi con sei differenti extravergini tre alimenti selezionati in base alla struttura: patate cotte al vapore, mozzarella, bresaola. In ultimo, si è passati a un test di comparazione a coppie, ricorrendo a 120 frequentatori di una mensa. A questi ultimi è toccato il compito di individuare le più gradite combinazioni con gli oli che nelle fasi precedenti avevano ottenuto i migliori giudizi. L'iniziativa dimostra come un corretto abbinamento olio-cibo non sia frutto del caso, ma di un processo logico il cui risultato finale è di mettere in risalto la bontà di una pietanza. ================================================= ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 20 apr. ’07 ECCO GLI STANZIAMENTI PER I NUOVI OSPEDALI Soru e la Dirindin: dopo il risanamento ora è il momento del salto di qualità ALESSANDRA SALLEMI CAGLIARI. Ecco i soldi per finanziare gli ospedali promessi nel piano sanitario appena varato nonché gli investimenti tecnologici ovunque nell'isola sia stato documentato il bisogno. Ieri mattina il presidente della giunta regionale e l'assessore alla sanità hanno confermato l'arrivo di 470 milioni di euro destinati alla sanità, tutti extrabilancio. E' il risultato (soprattutto) del protocollo firmato da 8 regioni meridionali che considerano «la tutela della salute componente essenziale delle politiche di sviluppo economico». «Superata la fase del risanamento - ha spiegato l'assessore Nerina Dirindin - adesso è l'ora di fare un salto di qualità». I denari raccolti per la Sardegna nei giorni scorsi durante la trattativa tra il Governo e 8 regioni del Mezzogiorno arriveranno nei prossimi sei anni, ma si tratta di un canale stabile che in futuro continuerà a rifornire le casse regionali e questo «renderà possibile una programmazione oculata». Soru: «Non si tratta di affrontare le urgenze ma di fare un salto di qualità e di finanziare tutte le esigenze tecnologiche delle nostre strutture per diventare parte integrante di un sistema sanitario del Mezzogiorno non più tributario del Nord». «Tra i fondi per lo sviluppo - ha spiegato l'assessore -, per la sanità c'è una prima quota di tre miliardi di euro, all'isola spettava un 12 per cento, siamo riusciti a ottenere il 12,61. L'obbiettivo è di realizzare attività di eccellenza di valenza sovraregionale. Il superamento del divario Nord-Sud deve vedere forte attività di cooperazione e coordinamento e poi l'utilizzo delle buone pratiche». Soru: «Non finanziamo ospedali generici ma strutture di importanza per l'intero Mezzogiorno d'Italia. Le regioni del Sud hanno valutato che, per superare il divario, i 3 miliardi di euro attuali devono essere una prima tranche e, fra due anni, dovranno essere programmati ulteriori interventi». Il secondo filone (come l'ha chiamato l'assessore Dirindin) sul quale sono stati trovati finanziamenti per la sanità sarda (92 milioni di euro), è la ripartizione delle risorse finanziarie nazionali per la quarta fase degli investimenti sanitari. In tutto fanno, appunto, 470 milioni di euro: «Se si confronta questa cifra con altre in passato destinate a investimenti per edilizia sanitaria si vede che, per esempio nel 2001 - diceva Dirindin -, si ottennero 11 milioni di euro in tutto». Soru: «Dopo 10 anni tornano in Sardegna investimenti importanti». Insomma, arrivano robusti contributi per finanziare il nuovo ospedale di Sassari e il nuovo ospedale di Cagliari e per ristrutturare i piccoli ospedali sui quali a lungo (da parte di sindaci e politici locali) si è temuto. Soru ha sottolineato che questo canale di finanziamento è certo anche per il futuro dove ci si impegnerà nei servizi domiciliari e nei servizi di aiuto alla famiglia (asili e attività legate alla scuola), e poi «altri servizi sui quali si deciderà e che si affiancheranno ai nuovi ospedali». Sulle tecnologie si sa dove lavorare: si è fatta un'analisi per stabilire le priorità («tipo il completamento del pronto soccorso di Oristano») e adesso c'è un quadro esatto delle strutture da ammodernare o potenziare. Poi Dirindin ha dato conto della sospensione dell'articolo sulla sanità nella legge finanziaria regionale: «Si lavora in commissione sanità per arrivare a soluzioni condivise: 27 milioni si è deciso di investirli negli studi di fattibilità dei nuovi ospedali, 10 per riqualificare la rete servizi: 5 per le emergenze-urgenze, 5 per affrontare diabete, oncologia e talassemia e altri fondi saranno aggiunti per integrare questi progetti con una rete cardiocircolatoria». DAL GOVERNO ECCO 472 MILIONI Per il nuovo ospedale di Cagliari Per la sanità la Regione riceverà dallo Stato 472 milioni di euro. Lo stanziamento si inserisce in due distinte intese: la prima è quella siglata tra i ministeri dello Sviluppo economico e della Salute con le otto regioni delle aree sotto-utilizzate (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia), nell'ambito del quadro strategico per la salute, sicurezza e sviluppo nel Mezzogiorno. alla sardegnaPrevisto il trasferimento del 12,61% dei 3 miliardi di euro stanziati dal Fondo Aree Sottoutilizzate (FAS) per il periodo 2007-2012, ovvero circa 380 milioni di euro. La Regione li utilizzerà per il nuovo ospedale dell'area di Cagliari e per promuovere l'innovazione tecnologica nel settore della sanità. Il secondo stanziamento è previsto nella Finanziaria statale 2007. Inizialmente per la Sardegna erano previsti 82 milioni, ma nei giorni scorsi il ministro della Salute Livia Turco ne ha concessi dieci in più, toccando quota 92. Questi fondi - ha spiegato il presidente della Giunta, Soru - saranno invece impiegati per il nuovo ospedale di Sassari. L'assessore regionale alla Sanità, Nerina Dirindin, ha precisato che i fondi contribuiranno a superare il divario sociosanitario fra nord e sud Italia. le risorse«Oltre ai 27 milioni destinati agli studi di fattibilità degli ospedali, in attesa delle risorse che oggi ci sono con certezza, sono stati trovati altri 20 milioni di euro da destinare ai bisogni di salute della popolazione: avevamo individuato il diabete, l'oncologia e la talassemia, ora aggiungeremo anche i disturbi cardiocircolatori», ha detto l'assessore, elencando le risorse per la sanità inserite nella manovra finanziaria regionale che il 26 aprile arriverà all'esame dell'Aula. La Dirindin ha ricordato che l'articolo in cui sono contenuti questi fondi è stato sospeso in attesa di «trovare una soluzione condivisa». In Finanziaria - ha spiegato la Dirindin - sono già previsti 10 milioni di euro per la riqualificazione delle reti di servizio: 5 per le emergenze/urgenze e altri 5 per le patologie. Nei prossimi giorni, inoltre, la giunta - ha anticipato Renato Soru - potrebbe approvare il progetto sulla cittadella sanitaria, presentato dalla Asl di Nuoro. i favoritiTra i primi a beneficiare dei 472 milioni di euro, ci sarà anche il pronto soccorso dell'ospedale di Oristano, ha spiegato l'assessore . Ma la gran parte delle risorse, oltre a ristrutturare gli ospedali esistenti e realizzare quelli nuovi di Cagliari e Sassari, serviranno per sviluppare poli di eccellenza. «Sono investimenti consistenti non solo per affrontare le urgenze sistema sanitario», ha detto Soru. L'obiettivo principale resta quello di colmare il divario in termini di efficienza e di dotazioni tecnologiche. «Istituiremo attività di eccellenza di valenza sovraregionale», ha precisato la Dirindin, «si tratta proprio di cambiare: ristrutturare i piccoli ospedali, ripensare i nuovi e soprattutto finanziare tutte le esigenze tecnologiche dei nostri. Bisogna far compiere un passo in avanti al nostro sistema, per essere una parte integrante del Mezzogiorno». S tato- Region e. I soldi serviranno per le due nascenti strutture di Cagliari e Sassari Sanità, arrivano 472 milioni per nuovi ospedali e tecnologia q Fondi anche per il pronto soccorso di Oristano. Sorue Dirindin: «Migliorerà la qualità» Per la sanità la Regione Sardegna riceverà dallo Stato 472 milioni di euro. Lo stanziamento si inserisce in due distinte intese. La prima è quella siglata tra i ministeri dello Sviluppo economicoe della Salute con le otto regioni delle aree sotto-utilizzate d'Italia (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia), nell'ambito del quadro strategico per la salute, sicurezza e sviluppo nel Mezzogiorno. All'Isola andrà il 12,61% dei3 miliardi di euro stanziati dal Fondo Aree Sottoutilizzate (Fas) per il periodo 2007-2012, pari a circa 380 milioni di euro. La Regione li utilizzerà per il nuovo ospedale dell'area di Cagliari e per promuovere l'innovazione tecnologica nel settore della sanità. Il secondo stanziamento è previsto nella finanziaria statale 2007. Inizialmente per la Sardegna erano previsti 82 milioni, ma nei giorni scorsi il ministro della Salute Livia Turco ha aperto il portafogli. «Questi fondi ha spiegato il presidente della Giunta Renato Soru - saranno invece impiegati per il nuovo ospedale di Sassari». L'assessore regionale alla Sanità, Nerina Dirindin, ha precisato che «i fondi contribuiranno a superare il divario socio-sanitario fra norde sud Italia». TRAI PRIMIa beneficiare dei 472 milioni di euro destinati dallo Stato alla sanità sarda, ci sarà anche il pronto soccorso dell'ospedale di Oristano, ha spiegato Dirindin. Ma la gran parte delle risorse, oltre a ristrutturare gli ospedali esistentie realizzare quelli nuovi di Cagliari e Sassari, serviranno per sviluppare poli di eccellenza. «Sono investimenti consistenti non solo per affrontare le urgenze sistema sanitario», ha detto Soru. L'obiettivo principale resta quello di colmare il divario in termini di efficienzae di dotazioni tecnologiche. «Istituiremo attività di eccellenza di valenza sovraregionale- ha precisato Dirindin - si tratta proprio di cambiare: ristrutturarei piccoli ospedali, ripensare i nuovi e soprattutto finanziare tutte le esigenze tecnologiche dei nostri ospedali. Bisogna far fare un passo in avanti al nostro sistema, per essere una parte integrante del Mezzogiorno, che nel suo complesso vuole cresceree non essere più tributario del sistema sanitario del nord Italia». «Quindi, credo che sia un momento importante. Il sistema sanitario regionale siè dotato di regole, di una nuova riorganizzazione, attraverso la legge sul sistema sanitario regionale, di nuovi strumenti informativi è in corso il bando per i servizi della rete. Abbiamo tutto ciò che occorre per far fare un passo in avanti al sistema sanitario sardo». La Dirindin ha spiegato che i 3 miliardi destinati alle 8 regioni del Mezzogiorno sono in realtà una prima tranche: «Entro due anni, confidiamo in nuove risorse». 3 L'assessore alla Sanità, Nerina Dirindin ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 18 apr. ’07 I PAZIENTI BOCCIANO I MEDICI: CI TRATTANO MALE Molti si sentono considerati come «pacchi postali». Errori sanitari in calo - Le denunce nel rapporto annuale del Tribunale dei diritti del malato MONICA VIVIANI ROMA. Dai tempi biblici delle liste d'attesa agli errori medici o diagnostici, dai «casi limite» di scortesia degli operatori sanitari ai diritti degli invalidi troppe volte resi incerti da una burocrazia farraginosa. Sono questi i principali nodi della sanità italiana secondo il decimo Rapporto del Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva presentato alla presenza del ministro Livia Turco e elaborato su 19.776 segnalazioni arrivate nel corso del 2006. Le liste d'attesa. I tempi lunghi restano una spina nel fianco del Servizio sanitario nazionale. Basti pensare che per una mammografia si può aspettare fino a 400 giorni e fino a 120 per una ecografia al primo trimestre di gravidanza. Poco meno del 70% delle segnalazioni denuncia tempi eccessivi per prestazioni diagnostico specialistiche mentre il 13,4% riguarda gli interventi chirurgici. Tra questi spiccano quelli ortopedici: da 300 giorni per una frattura al femore fino a 1.095 per un intervento alla spalla. E il problema liste d'attesa c'è anche per l'intramoenia che, secondo il Rapporto, comporta tra l'altro costi che 1 cittadino su 5 non è in grado di sostenere. I comportamenti «sgraditi» Dal paziente «pacco postale», scaricato da un medico all'altro, al lancio di uno scopettone contro un malato da parte di ausiliari sanitari, dall'infermiere che non accorre all'arrivo dell'ambulanza alla paziente «dimenticata» per ore in attesa di un esame. Senza «dimenticare la passione per il lavoro di molti operatori sanitari», il Rapporto sottolinea però che il 13% delle segnalazioni (+1,5% sul 2005) denuncia questo genere di episodi «al limite». Atteggiamenti che si verificano in primo luogo negli ospedali (51,2%), ma anche in Asl (29,9%) e cliniche private (10,4%) e si concentrano nelle regioni del nord (36,7%). Il dito è puntato contro i medici specialisti (49,8%), seguiti da quelli di famiglia (8%) e personale del pronto soccorso (6,4%). Gli errori. Diminuiscono i sospetti errori nella pratica medica e diagnostica: meno 5,7% di segnalazioni rispetto al 2005. Tuttavia a denunciarli al Tdm è ancora 1 cittadino su 5 (20%). Il 56,1% delle denunce è fatta da donne soprattutto tra i 36 e i 56 anni. In quasi 1 caso su 3, l'errore si verifica in ortopedia (18,7%) e oncologia (13,6%), seguite da ginecologia e ostetricia (8,8%), chirurgia generale (8,5%) e pronto soccorso (5,7%). Avvengono prevalentemente durante interventi (72%) o diagnosi (22%). Disabili e invalidi. Sussidi che restano spesso una chimera o arrivano con ritardi «inaccettabili» a causa di iter farraginosi e lentissimi. L'11% delle segnalazioni (+2,8% rispetto al 2005) riguarda questi cittadini che denunciano soprattutto problemi di accesso alle informazioni (38%) e il mancato riconoscimento della loro condizione (19%). Il 42% lamenta poi difficoltà ad ottenere i benefici anche quando è stata accertata la condizione di gravità. Dimissioni forzate . Riguarda il 3,2% delle segnalazioni (+1,6% rispetto al 2005). Di queste il 32,8% puntano il dito contro gli operatori sanitari. Crescono intanto (3% del totale, +1,4% sul 2005) anche le lamentele sui servizi di assistenza domiciliare: il 12% per scarsa qualità e il 12,8% per insufficienza. Odontoiatri abusivi. Aumentano le segnalazioni di abusivismo della professione odontoiatrica, dal 4,1% del 2005 al 5,9% del 2006. Specialità che d'altronde resta la «grande esclusa» dei livelli essenziali di assistenza. ____________________________________________________________ Italia Oggi 18 apr. ’07 INTRAMOENIA, DECRETO LEGGE IN ARRIVO Accordo. In arrivo nuove regole sulla libera professione medica ´intramoenia', esercitata cioè all'interno delle mura ospedaliere. Saranno le aziende sanitarie a individuare e recuperare gli spazi esterni, nel caso non li abbiano al loro interno, dove far esercitare ai medici la loro attività. Le proroghe del sistema attuale dovrebbero ricevere un definitivo stop. Lo ha annunciato ieri il sottosegretario alla salute, Serafino Zucchelli, durante un convegno sulla libera professione organizzato da Forza Italia: ´prima della scadenza dell'ultima proroga, il 31 luglio prossimo, il ministero della salute presenterà un decreto, entro maggio, con l'obiettivo di governare la libera professione dei medici dipendenti, sulla base di norme di trasparenza' e l'attività sarà più controllata. Il sottosegretario ha ricordato che la gestione, con le regole attuali già previste, sarà affidata alle regioni, mentre il ministero della salute manterrà per sé il potere di verifica. Secondo Domenico Di Virgilio, responsabile sanità e capogruppo azzurro affari sociali alla camera intervenuto ieri al convegno, ´la proroga per l'intramoenia allargata per i medici' rimane invece ´una strada da seguire, non ci sono al momento altre possibilità'. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 20 apr. ’07 SAN GIOVANNI DI DIO: IL RISCHIO È CANCELLARE LA MEMORIA DEI LUOGHI Smantellare il san giovanni di dio - di Paolo Pani* Che ne sarà del San Giovanni di Dio? Innanzi tutto, si è d'accordo sul suo smantellamento come struttura sanitaria? Con buon'approssimazione, la risposta può essere affermativa. I costi di una sua necessaria ristrutturazione sarebbero eccessivi, costerebbe meno costruire una nuova struttura in un altro luogo. Vi sono, tuttavia, altri motivi. L'ospedale del Cima, autore del progetto, apparteneva a un'altra Sanità, più compassionevole, meno tecnologica di quell'odierna. È il prezzo che dobbiamo pagare al progresso, ma che, forse, garantisce, in misura più efficiente il nostro diritto a essere curati da una Sanità pubblica. L'umana compassione, anche se sempre auspicabile, diventa "facoltativa". Ne dobbiamo prendere atto, ma anche, opportunamente, è nostro dovere civile (forse anche morale) conservarne la memoria. In caso contrario, la Città "moderna" crescerebbe in un suo grigiore modernistico, appunto senza memoria, anonima, senza il calore delle nostre emozioni. Nel secolo che ci ha preceduto, sono finite molte storie, spesso a nostra insaputa: dobbiamo conservarne la memoria. I modi della produzione automobilistica non hanno più necessità della Fiat-Lingotto. Il Lingotto si fa museo, centro di cultura, ma insieme conserva la memoria antica, determinante per le storie torinesi. Gli esempi sono innumerevoli, le stazioni ferroviarie diventano, anch'esse, musei; antichi quartieri popolari del '600 (il Marais di Parigi) diventano moderno "Beaubourg", che ricorda il quartiere e i vecchi mercati. Una citazione americana è forse opportuna, è stata riportata dalla nostra stampa nazionale. Sono gli esempi di Detroit e di Pittsburgh. Detroit, dopo la crisi della produzione automobilistica, sopravvive nel suo più completo e grigio anonimato, è la tragedia di una città americana. Al contrario, Pittsburgh, antica città leader nella produzione dell'acciaio, perde le sue acciaierie, ma, con la sua archeologia industriale, si converte a città d'arte, di cultura e di scienza, una delle città più vivibili negli Usa. Durante la sua storia industriale, gli americani rifuggivano quella città. Ritorniamo alle cose di casa nostra, in Sardegna e a Cagliari. È d'obbligo una citazione, quella della nostra storia mineraria e del suo recupero come archeologia. Storia di una produzione industriale, realizzata tecnologicamente e dal punto di vista imprenditoriale, ma è anche, forse soprattutto, storia di sofferenze umane. Il progetto del recupero sarà compiutamente realizzato quando saranno conciliate le due memorie, quella imprenditoriale e quella dei lavoratori, anche oltre le ideologie, ma in un percorso comune di crescita dell'uomo. Il San Giovanni di Dio: è un pezzo di archeologia della Sanità cagliaritana? Si può rispondere di sì, e in molti sensi. Il San Giovanni di Dio ha rappresentato, nella Sanità, la prima "modernità" cagliaritana; ha permesso la realizzazione della clinica pediatrica Macciotta e della clinica Aresu, in un percorso continuo d'integrazione fra professionalità mediche locali e "continentali", fra ospedalieri e universitari. Dai primi anni Ottanta è iniziato, invece, un periodo di crisi, di smemoratezze e dell'usa e getta, nella cronica assenza di un Piano sanitario regionale. Sono prevalsi gli interessi di parte, l'implosione degli interessi particolari contro quelli generali della Sanità pubblica, e anche della stessa città. Il Policlinico di Monserrato è il punto di rottura, ancora alla ricerca di una sua chiara identità. Le ultime testimonianze della Medicina universitaria lasceranno definitivamente Stampace. Si pone il problema, urgente per Cagliari, di cosa farne di quei luoghi e di quelle memorie. È carente nei cagliaritani la cultura del recupero, in altre parole di rendere nuovamente disponibile alla città quanto è andato perduto. Vi sono diverse eccezioni, ma sono casi episodici, isolati: il Lazzaretto di Sant'Elia, l'Exma, le ex-Vetrerie di Monserrato, il magnifico colle di San Michele, il teatro di Castello. In altri termini, è ancora carente neicagliaritani il senso della città, il senso urbanistico della complessità di un capoluogo con i suoi fermenti, contraddizioni, tormenti. In altri termini, quei caratteri che lo rendono vivo, oltre il suo apparente grigiore. Stampace con i suoi luoghi della Sanità (San Giovanni di Dio, la clinica Aresu, la clinica pediatrica Macciotta) può essere insieme una sfida e una scommessa per una possibile e virtuosa inversione di tendenza, pensando a Cagliari. Stampace? L'anello di congiunzione fra Castello e la Marina, verso il Porto. D'altronde è il percorso d'ogni anno, il primo maggio con Sant'Efisio. Per un progetto, la parola agli urbanisti. Battano un colpo se ci sono. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 17 apr. ’07 TURCO: NEL SETTORE PUBBLICO LE VISITE FISCALI NON SI FANNO Assenteismo e false malattie: il ministro della Salute interviene nel dibattito sollevato dall'inchiesta del «Corriere» Mancano i soldi per le Asl. «No all'autocertificazione» Dino Martirano ROMA - Nei giorni in cui il Paese si indigna per l'escalation delle «morti bianche» nei cantieri, nell'Italia nella quale spesso regna la mancanza delle più elementari norme di sicurezza, il ministro della Salute è convinto che l'altra Italia, quella dei lavoratori più garantiti dal Servizio sanitario nazionale, debba saper «usare le tutele con criterio e senso di responsabilità». Spiega, dunque, la diessina Livia Turco: «La battaglia per avere salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è tanto più forte quanto più ciascuno di noi adotta come criterio il bene del Paese, non arroccandosi nelle nicchie corporative». Il «presunto abuso» nel ricorrere al certificato medico da parte dei lavoratori più garantiti, va avanti il ministro, «non rappresenta un'emergenza nazionale ma piuttosto è il sintomo di una mentalità che noi dobbiamo cambiare costruendo un più alto senso dell'etica pubblica e della responsabilità individuale». Detto questo, però, la Turco aggiunge che il sistema dei controlli affidati alle Asl per il settore pubblico «è una zona grigia» dove «le visite fiscali non si fanno». I medici di base, da ultimo nel dibattito sollevato da un'inchiesta del Corriere, vengono accusati di certificare con leggerezza i giorni di malattia. Che ne pensa? «L'inchiesta di Ichino è seria ed è utile anche per chi è responsabile dell'azione di governo. Però non si deve generalizzare: è vero, ci può essere una complicità tra medici e pazienti ma qui stiamo parlando di un atteggiamento culturale sbagliato, mentre il senso comune dovrebbe far ritenere ai singoli che il diritto alla salute è un bene serio, perché accessibile a tutti: quindi il permesso per malattia andrebbe chiesto solo quando se ne ha veramente bisogno». Perché, allora, tante assenze per malattia? «C'è una spiegazione che va al di là del senso di responsabilità. Tanto più noi abbiamo una organizzazione del lavoro amichevole, nei confronti dei tempi della vita e della cura delle persone, tanto più si eviteranno gli abusi». Le donne con figli si ammalano di più degli uomini. «Esatto, e questa è una spia. E guai a non vedere questo aspetto, altrimenti faremmo soltanto del moralismo: dietro un presunto uso leggero dei permessi c'è una grande questione sociale». Che dire, però, di quei medici che hanno certificato nello stesso giorno la malattia di centinaia di dipendenti dell'Alitalia? «Sono casi eclatanti, in genere io ho fiducia nei medici di base». Ma poi le verifiche sui medici di base si fanno? «L'efficacia dei controlli è una questione irrisolta, una zona grigia all'interno dell'amministrazione. Abbiamo avviato l'informatizzazione sulla certificazione della malattia e della prescrizione che fanno i medici di famiglia: questa operazione, che non dipende dalla Salute, ma dall'Inps e dall'Economia, va certamente accelerata perché consente un'azione di controllo molto importante». Ministro, perché si è inceppata la macchina dei controlli? «Nel settore privato il controllo lo fa l'Inps con le visite fiscali, in quello pubblico invece spetta alle Asl . La legge 833/78 sul Servizio sanitario nazionale diceva che le spese per le visite fiscali andavano sostenute dalla pubblica amministrazione di appartenenza del lavoratore ma poi, nel 1984, un parere del Consiglio di Stato ha posto l'onere a carico del servizio nazionale e così sono stati soppressi i capitoli di spesa per le visite fiscali. Infine, un Dpcm del 2001, definisce le visite fiscali "livello essenziale di assistenza" ma le Regioni, secondo me giustamente, hanno messo in discussione la procedura». I medici di base propongono l'autocertificazione per i primi tre giorni di malattia. Che ne pensa? «Non mi convince. Io sono per superare l'autocertificazione anche per i ticket. Penso invece che bisogna tornare alla "833" e trovare un capitolo di spesa, e si tratta di un accantonamento minimo, che finanzi gli ispettori per non dare alibi a nessuno nello svolgere bene la funzione ispettiva». Pietro Ichino propone di ridurre la retribuzione dei primi tre giorni di malattia. È un deterrente praticabile? «Non si può penalizzare la malattia. Se qualcuno abusa di un diritto va punito. Ma la responsabilità non si costruisce con una penalizzazione economica indiscriminata». Chi abusa di un diritto va punito, ma non si può penalizzare la malattia Con un'organizzazione del lavoro amichevole si evitano gli abusi ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 19 apr. ’07 RAGGIUNTO L'ACCORDO PER GLI SPECIALIZZANDI Medici. Sul contratto di formazione Manuela Perrone ROMA Addio alle borse di studio: i 22mila medici specializzandi avranno presto un contratto di formazione specialistica, da stipulare con Regione e ateneo. Con la tutela di maternità e malattia, la copertura assicurativa dei rischi professionali, le ferie, un'apposita gestione separata presso l’Inps, la facoltà di esercitare la libera professione intramoenia «in relazione ai titoli posseduti». Ma anche con il cartellino da timbrare e la possibilità di sostituire i medici di ruolo se «coerente con il percorso formativo». L'atteso via libera – i contratti, mai attivati, erano previsti dal Dlgs 368/1999 - è arrivato ieri dalla Conferenza Stato-Regioni, che ha raggiunto Il accordo sullo schema trasmesso il 23 marzo dal ministero dell'Università, con il concerto di Salute ed Economia. Perché diventino operativi, manca soltanto la firma del premier, Romano Prodi, sul relativo dpcm. Soddisfatto il presidente della Conferenza, Vasco Errani, che ha elogiato «la concertazione che ha caratterizzato il confronto fra il Governo e le Regioni». Sulla stessa lunghezza d'onda il sottosegretario all'Università, Luciano Modica: «È un buon accordo ed era necessario cominciare. Credo che da giugno si potrà partire». A sbloccare la situazione ha contribuito innanzitutto la Finanziaria 2006, che ha stanziato i fondi. A novembre, una circolare del direttore generale dell'Università ha annunciato l'attivazione dei contratti a partire dall'anno accademico 2006/2007. Il 7 marzo scorso, è stato emanato il Dpcm sul trattamento economico, costituito da una parte fissa di 22.700 euro annui, uguale per tutte le specializzazioni, e da una parte variabile lorda, pari a 2.300 euro lordi per ciascuno dei primi due anni di formazione e di 3.300 euro lordi per ognuno degli altri. Un'altra cosa rispetto agli attuali mila euro annui della borsa di studio: Ieri, finalmente, il disco verde allo schema di contratto, sollecitato non solo dagli interessati, ma anche dalla Federazione nazionale degli Ordini dei medici, dai sindacati e da diversi atenei. Due i punti su cui il confronto tra Governo e Regioni è stato più acceso: la possibilità, per gli specializzandi, di sostituire i medici di ruolo (vietata dal Dlgs 368/y99 ma caldeggiata dalle Regioni) e l'orario di lavoro. Alla fine, si è deciso che le sostituzioni potranno essere effettuate solo se «coerenti con il percorso formativo». E che l'orario sarà di 38 ore settimanali, come per i medici "strutturati". Ma specifici accordi aziendali potranno stabilire sforamenti E anche gli specializzandi dovranno "strisciare il badge" in corsia. ___________________________________________________________ Il Giornale 18 apr. ’07 LA VACCINAZIONE FANTASMA DEL MINISTRO TURCO Secondo un'indagine condotta dall'università di Milano, i pediatri che dovrebbero informare sui rischi del tumore sono «assolutamente disinformati» La responsabile della Sanità ha varato una campagna contro il papilloma virus rivolta alle adolescenti, ma i medici non ne sanno nulla Monìca Marcenaro da Milano Il ministro della Salute, Livia Turco, lancia la campagna di vaccinazione delle ragazzine di dodici anni contro il papilloma virus, responsabile del tumore al collo dell'utero, e i pediatri non ne sanno nulla. Proprio loro, nelle cui competenze rientrano tutte le vaccinazioni che oggigiorno vengono fatte ai bambini fin dai primi mesi di vita, che dovrebbero seguire i ragazzi fino ai quattordici anni di età e quindi occuparsi anche del benessere e delle problematiche ginecologiche delle adolescenti. Ma quasi il 50 per cento degli specialisti non ha la più pallida idea di cosa sia il virus Hpv o papilloma virus, il 90 Per cento non è al corrente che raggiunge la massima diffusione proprio nella pubertà e appena il 16 per cento sa che esiste un vaccino, l'unico efficace contro un tipo di neoplasia, che protegge le fanciulle dalla possibilità di essere aggredite dal tumore. Sono cifre che lasciano di stucco quelle emerse da un'indagine condotta in Italia su un campione rappresentativo di pediatri, coordinata da Susanna Esposito dell'istituto di Pediatria dell'università di Milano e che verrà presentata a maggio ai congressi delle Società europea e italiana di infettivologia pediatrica. IL 70-80 per cento delle donne nel corso della vita può contrarre il virus: solo in Italia colpisce 4mila soggetti, uccidendone quasi la metà. La trasmissione avviene prevalentemente per via sessuale, anche attraverso «rapporti non completi», precisa Esposito. Da qui la raccomandazione della vaccinazione per le ragazzine di 12 anni, come ha stabilito il ministero della Sanità, con una prima iniezione e due richiami entro sei mesi. Si tratta di una popolazione già sviluppata, perché in base ai dati scientifici più aggiornati l'età del menarca è stata fortemente abbassata e oggi si stima intorno ai dieci anni, e che non dovrebbe aver ancora avuto rapporti. Secondo valutazioni ufficiali, infatti, l'età media del primo incontro con l'altro sesso è intorno ai 16 anni, mentre da una recente ricerca di Eurispes è emerso che l’8% delle adolescenti tra gli 11 e 13 anni ha ammesso di aver già vissuto 1a prima volta. Tant'è che il ministero della Salute ha deciso di dare avvio al piano di vaccinazione contro il papilloma virus proprio con le dodicenni, in tutto 280mila, perché «frequentando ancora la scuola dell'obbligo, cioè la seconda media - spiega la specialista dell'università di Milano - sono più facilmente raggiungibili e possono poi essere seguite nel tempo» e ha messo sul tappeto 75 milioni di euro all'anno. Chi ha superato l'età e non ha più di 26 anni dovrà pagarlo, tre dosi da 1$8 euro ciascuna. Per tutte le altre donne l'unica arma di difesa è la prevenzione sia con il Pap test, sia con l’Hpv test. I pediatri, i primi a dover diffondere una cultura di prevenzione, a incoraggiare i genitori verso una scelta sicura (il vaccino è risultato efficace nella totalità dei casi), ne sanno poco o nulla e fanno pure fatica a parlarne. L'indagine condotta dall'università di Milano, su 311 pediatri italiani su un totale di 12mila, campione ritenuto significativo «perché ha fornito risposte tutte sulla stessa linea, cioè quasi sempre le stesse, ha evidenziato una carenza informativa enorme - sottolinea Esposito - e, di pari passo, un grande interesse nel voler approfondire l'argomento». In particolare, il 45 per cento degli interpellati non sa cosa sia il virus Hpv, il 70 per cento non sa rispondere se sia un Dna virus oppure un Rna virus e il 50 per cento non ha idea di quali siano i tipi di Hpv virus (ce ne sono più di un centinaio) associati al tumore dell'utero. Ma c'è di più: la maggior parte degli specialisti non parla delle problematiche sessuali con genitori e figlie, è convinto che sia prematuro, tanto è vero che solo il 9 per cento è al corrente che l'infezione può raggiungere la massima diffusione proprio nell'adolescenza. ___________________________________________________________ Avvenire 17 apr. ’07 MARITAN: VITA.PIÙ DEL DNA POTÉ LA GEOMETRIA Oltre l'evoluzione c'è l’evolvibilità, ovvero l'idea secondo cui i viventi non sono pre-determinati dai propri geni. Parla il fisico Amos Maritan Nella biologia evolutiva postdarwinlana c'è tanta posto per le scienze cosiddette "dure", come la matematica e la fisica. Ai punto che molti si aspettano i maggiori avvanzamenti nella comprensione delle "trame dell'evoluzione" proprio da discipline come la fisica statistica o la geometria. Ecco allora giustificato l'interesse di un fisico come Amos Maritan, dell'Università di Padova, per le proteine e per la materia vivente in genere. Ed ecco anche il grande richiamo di un convegno come l’evolvibilità: l'Evoluzione dell'Evoluzione», in corso sulla riva orientale del lago di Como, a Varenna. Il concetto di evolvibilità è una delle new entry sulla scena scientifica: esprime la capacità di un sistema di evolvere e suggerisce l'idea che i viventi non siano totalmente determinati da quanto è codificato nel Dna dei loro componenti. II termine è stato introdotto da Stephen. Gould nel tentativo di superare l'approccio riduzionista che ancora appesantisce molta biologia e che ostacola la comprensione dei fenomeni complessi che dominano il mondo vivente. È un modo per evidenziare il ruolo dell'imprevedibilità, che coesiste in natura con la regolarità e con la possibilità di formulare leggi; è un modo per segnalare come 1 emergenza e la contingenza di tanti fenomeni naturali non intacchi la visione di una struttura ordinata del cosmo. Maritan è l'unico speaker italiano al convegno e vi giunge a seguito di interessanti ricerche nelle quali ha applicato l'approccio tipico della fisica statistica allo studio delle eleganti forme geometriche delle proteine. Per spiegare come si originano tali forme, Maritan parte dal grande Keplero al quale, più di quattro secoli fa, era stato sottoposto il problema di come ordinare le palle di cannone nella stiva delle navi in modo da trasportarne il più possibile. Un classico problema di ottimizzazione, di cui Keplero intuì subito la risposta: è lo stesso modo in cui le arance sono disposte nelle cassette dei fruttivendola; ed è lo stesso in cui si dispongono certi atomi nei cristalli. «È curioso - osserva Maritan - che si sia dovuto aspettare fino a qualche anno fa per dimostrare che Keplero aveva dato la risposta corretta! Ma la risposta non riguarda solo i cristalli e la materia inanimata: con la geometria devono farei conti anche i sistemi viventi. L’esempio più eclatante sono le proteine. Possiamo immaginare una proteina come un insieme di oggetti, gli aminoacidi, legati assieme per formare una sorta di catena: un polimero. La proteina, essendo un grasso, in un ambiente acquoso come quello cellulare tende ad appallottolarsi in modo da espellere l'acqua. Siamo quindi di fronte a un problema geometrico di impaccamento, come nel caso delle arance. Si può dimostrare che tale processo, in base a semplici regole di geometria, produce forme spettacolari con motivi comuni a tutte le proteine: sono le forme sfruttate dalla natura per orientare l'evoluzione molecolare». Sembra quindi di poter scorgere dei principi generali che accomunano i sistemi naturali complessi, cioè quelli con un gran numero di gradi di libertà; quelli studiati appunto dalla fisica statistica. «Fin dalle sue origini, più di un secolo fa, la fisica statistica si è occupata dei fenomeni che sorgono in insiemi di molti costituenti elementari, Tuttavia solo da qualche decina di anni si è cominciato a capire come certi comportamenti emergenti siano in larga misura indipendenti dai dettagli delle interazioni trai componenti. E per questo che possiamo parlare di stato liquido, solido e gassoso della materia, a prescindere dal fatto che si tratti di acqua, azoto o altro. Da questa semplice ma profonda osservazione segue la possibilità di spiegare diversi fenomeni naturali in termini molto generali. Quindi la nostra speranza è di poter comprendere aspetti fondamentali della materia vivente senza dover necessariamente tenere conto della straordinaria complessità che sembra caratterizzarla». È così che Maritan ha potuto utilizzare modelli di strutture fisiche per lo studio di strutture biologiche, come quelle che governano il metabolismo negli esseri viventi. Senza dover invocare i meccanismi dettagliati del metabolismo, è riuscito a comprenderne un aspetto molto generale presente in tutti gli organismi, da quelli unicellulari ai grandi mammiferi. Il metabolismo per avvenire necessita di un trasporto, ad esempio di metaboliti, di ossigeno e così via. Il trasporto tuttavia richiede un mezzo, come il sangue, che a sua volta fa parte dell'organismo e quindi ha bisogno di nutrimento esso stesso. «Con un po' di fisica e matematica e senza dover invocare i dettagli che saranno ben diversi dai mammiferi alle piante, si può allora dimostrare che il metabolismo è legato alla massa dell'organismo da una bellissima legge, nota come legge di Kleiber, la cui origine era del tutto sconosciuta. Un ingrediente fondamentale della dimostrazione è che il sistema in esame, l'organismo, abbia avuto la possibilità di evolvere verso una situazione ottimale: minor massa a parità di metabolismo». 11 fatto sorprendente è che la stessa idea si può applicare anche ad altri sistemi di trasporto, come i bacini fluviali, che sicuramente non hanno le caratteristiche di un sistema vivente. In questo caso l'evoluzione è guidata da fenomeni geofisici, come le inondazioni, che all'epoca della formazione del bacino hanno permesso l'esplorazione di percorsi fluviali alternativi fino a situazioni più stabili, cioè ottimali. Qui sta la chiave: la possibilità di evolvere verso situazioni ottimali. Dopo di che basta un semplice cambio di terminologia per spiegare fenomeni diversi: le proteine assumono forme geometriche derivanti dall'impaccamento ottimale di un polimero; i fiumi si ramificano in modo da dissipare la minima energia gravitazionale; gli organismi viventi, per un dato metabolismo basale, minimizzano la loro massa corporea. Tutto questo fissa un traguardo storico nella scalata alle vette della complessità e consente di aprire nuovi capitoli nelle teorie evolutive. Anche se Maritan è prudente nell'indicare conseguenze clamorose: «Lo studio dei comportamenti emergenti in sistemi complessi è solo all'inizio gli esempi conosciuti sono ancora pochi per poter ricostruire la loro origine. Quello che rende difficile, ma nello stesso tempo affascinante, la comprensione dei fenomeni emergenti è che non sono deducibili dalle proprietà microscopiche dei loro costituenti elementari. È ancora presto comunque per parlare di superamento dei limiti delle teorie evolutive classiche». Esposte a Varenna le ipotesi sui sistemi complessi: «Qui sta la chiave: la possibilità di evolvere verso situazioni ottimali. Il che permette di spiegare fenomeni diversi» ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 14 apr. ’07 LO STRANO CASO DELL'INFORMATIZZAZIONE DELLA SANITÀ SARDA gara tormentata Nella gara per l'informatizzazione del sistema sanitario regionale, qualcosa ha messo in fuga già due segretari. Ieri, all'apertura delle buste con l'offerta tecnica (l'appalto è di 20 milioni di euro) era presente il terzo. Carlo Sanna (gara Saatchi) si era dimesso durante il procedimento, il suo sostituto Giangiacomo Serra aveva fatto altrettanto, sembra per motivi di parentela con qualcuno in concorso, eventi che non si erano mai registrati negli ultimi anni per quanto riguarda le gare pubbliche regionali. Alla gara partecipano i più grossi gruppi nazionali del settore informatico, fra cui la Engineering, compagnia già "bocciata" in due gare precedenti (Medir e Rtp) e sempre ricorsa al Tar: in una delle due occasioni, il Tribunale amministrativo regionale aveva dato ragione all'amministrazione regionale, nonostante non si fosse costituita in giudizio. Fra i corridoi dell'assessorato regionale alla Sanità, c'è chi scommette - da tempo - sul successo della Engineering. Chi vince l'appalto, dovrà - come da regolamento di gara - aprire una sede in Sardegna. (e. p.) ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 20 apr. ’07 Tutti in fila alla banca del seme Mettere il proprio seme in banca per investire nel futuro della coppia. Negli Stati Uniti, ma non solo, è un costume diffuso, un segno di sensibilità e allo stesso tempo un atto cautelativo e preventivo per tutto quello che nella vita non è prevedibile. Dal gennaio scorso la banca del seme ha sede a Sassari, in viale San Pietro, presso l'Unità Operativa di Andrologia della Clinica Urologica dell'Università. È stata realizzata grazie all'apporto economico della Fondazione del Banco di Sardegna e ha una finalità conservativa. Vale a dire che il paziente che si rivolge alla struttura diretta dal professor Furio Pirozzi Farina affida il proprio sperma perché venga custodito nelle condizioni ottimali in attesa di una decisione che riguarderà lui e la sua compagna: avere un figlio. «Rivolgersi ad una banca del seme - precisa il professor Furio Pirozzi - può essere frutto di una filosofia di vita. Oggi non voglio un figlio ma potrei cambiare idea quando è troppo tardi e allora investo sulla qualità del mio sperma». Ma il più delle volte la scelta non dipende direttamente dalla volontà di una coppia: «Ci sono delle patologie, come il diabete giovanile, malattie neurologiche come la sclerosi multipla o forme tumorali che richiedono interventi chirurgici o la chemio e radioterapia che possono impedire l'eiaculazione o provocare l'infertilità nell'uomo». La possibilità per questi pazienti di ricorrere alla banca del seme prima di avviare la terapia dovrebbe già essere consigliata dal medico di famiglia: «La conservazione del seme consentirà al paziente di affrontare la terapia con un pensiero in meno - sottolinea il professor Pirozzi. Si sentirà sollevato dal rischio di essere inadeguato nell'ambito della coppia perché la patologia sacrificherebbe anche la vita della partner». Lo sperma dei donatori viene sottoposto ad un trattamento particolare con un gas come l'azoto che ne consente una conservazione ottimale. Ovviamente il donatore può decidere quando richiedere il suo seme e può decidere di portarlo, all'interno di un contenitore particolare, nel centro di procreazione medicalmente assistita che riterrà più idoneo per procedere all'inseminazione della partner. Nel caso di Sassari ci si può rivolgere alla Clinica ginecologica, diretta dal professor Salvatore Dessole, che fra l'altro ha una sua banca del seme non a fini conservativi ma procreativi. A Cagliari, presso il Microcitemico, c'è un'altra banca del seme dove è possibile effettuare le due cose. Gibi Puggioni ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 19 apr. ’07 MEDICI, ANCHE IL SILENZIO È UN ERRORE Convegno nazionale della federazione sullo sbaglio professionale Il luminare dice: 80 volte su cento la causa è il sistema di Alessandra Sallemi CAGLIARI. Errare è umano, il medico è un essere umano, i suoi errori rientrano nell’elenco delle cose umane. Il problema è che gli sbagli possono essere la pinza lasciata nella pancia del malato, una diagnosi lontana dalla realtà e via elencando le sofferenze prodotte dall’uomo sull’uomo. I medici italiani, guidati da un luminare, han deciso di riflettere sulla formazione dell’errore professionale. Gli ordini professionali italiani hanno scelto la Sardegna per avviare una grande campagna culturale, etica e morale con lo scopo di analizzare i comportamenti del singolo e gli schemi organizzativi che producono gli errori ormai sempre più di frequente denunciati dai pazienti. La svolta comincia domani al «T-Hotel» in un convegno nazionale che si apre con una lettura magistrale di James Reason professore emerito di psicologia all’università di Manchester nel Regno Unito, consulente dell’Organizzazione mondiale della Sanità sul tema dell’errore sanitario nonché autore di numerosi saggi considerati altrettante bibbie sugli errori umani in qualunque sistema organizzato operi sulla terra. Reason ha avuto occasione di dimostrare nei suoi studi che il 20 per cento degli errori commessi in sistemi complessi (e la sanità è uno dei più aggrovigliati) è dovuto al singolo mentre il resto nasce da difetti del sistema, tutti documentati. Il singolo, in altre parole, è un terminale che agisce in stato di costrizione e può sbagliare anche per questo. Cattiva organizzazione, risparmio a tutti i costi, carenze di personale, un orario di lavoro prolungato e senza i riposi di intervallo sono tutti fattori che, è provato, danno un robusto contributo alla casistica dell’errore alla fine individuato soltanto come «medico». In Danimarca e in Svezia questa situazione è stata messa a fuoco e risolta con una rivoluzione nell’approccio al problema, la rivoluzione è il «sistema della compensazione senza ricerca della colpa»: se un paziente subisce un danno per errore medico, la struttura di riferimento lo risarcirà interamente. Ieri durante la conferenza stampa tenuta dai presidenti dei quattro ordini provinciali (Agostino Sussarellu, Sassari, Luigi Arru, Nuoro, Antonio Sulis, Oristano e Raimondo Ibba, Cagliari) è stato spiegato con chiarezza che l’appello forte a «superare la mentalità colpevolista» non deve assolutamente essere confuso con la ricerca di una impunità. Anzi: si lavora per cambiare anche l’approccio dell’Ordine a questo straordinario tema e un’idea di ciò si è già affacciata nel codice deontologico quando si afferma (lo spiegava Sulis) che «al medico compete la valutazione e la segnalazione dell’errore» al fine di migliorare il sistema. Davvero tanti i fronti di lavoro: per cominciare la federazione nazionale ha proposto di introdurre il rischio clinico fra le materie studiate nella facoltà di Medicina e nei prossimi tre anni si terranno corsi specifici per medici già inseriti nel sistema con lo scopo di estendere le buone pratiche cliniche. Più complesso il sistema, maggiore la possibilità di errore (Sussarellu): in alcune aziende c’è la tendenza a tenere nascosto l’errore, invece questo va dichiarato e studiato (come è stato fatto a Firenze con l’errore sui test dell’Aids). Nei sistemi complessi esiste «l’errore latente» (Arru): basta pensare al calo di attenzione che qualunque chirurgo può dichiarare quando per troppo tempo conduce interventi di routine e quel che emerge è come gli errori clamorosi siano una parte minima della massa. Bisogna capire come perché si forma l’errore medico (Ibba), è indispensabile conoscere le cause per porre rimedio. Anche il legislatore può fare la sua parte: dalla federazione nazionale un altro appello a ricalibrare le norme sulla responsabilità attribuita ai medici. Naturalmente, è bene precisarlo, tutto questo non ha nulla a che fare con la pratica medica volontariamente cattiva: la colpa può discendere in larga misura da un sistema che non dà mezzi e possibilità di lavorare decentemente, il dolo discende solo dalla coscienza personale e su questo non ci sono ragionamenti da fare: la legge c’è e ai medici va bene così. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 27 Mar. ’07 MA COSÌ LA CANNABIS DIVENTA PERICOLOSA DI GAETANO DI CHIARA Il Tar del Lazio, annullando il decreto del ministro Turco, ha riacceso un dibattito su un problema di natura apparentemente sanitaria ma su cui si giocano interessi di natura soprattutto politica. Infatti, la posta in gioco è, secondo alcuni, la legalizzazione della Cannabis, di quella droga chiamata Marijuana, Hashish, Ganja etc. La Turco ha proceduto in punta di piedi, non cancellando la legge Fini-Giovanardi, ma mantenendone il principio che individuava una certa quantità del composto attivo, il Thc, come riferimento per stabilire quanta Cannabis fosse consentito detenere per uso individuale. La Turco si è quindi “limitata” a portare questa quantità da 500mg a 1000mg di Thc. Quando il decreto Turco vide la luce vennero interpellati vari esperti per sapere a quanta marijuana corrispondessero 1000 mg di Thc e soprattutto quante “canne” si potevano preparare con la marijuana corrispondente. Vennero interpellati i tossicologi che conoscevano il contenuto di Thc della marijuana ma non sapevano quanta marijuana ci volesse per fare una “canna”, cosa che invece sapevano bene i consumatori di “canne”. Tuttavia nessuno dei due era particolarmente ferrato in matematica. Risultato: la resa effettiva in termini di “canne” del decreto Turco rimase un dato evanescente e mutevole come il fumo della stessa marijuana. Spero quindi di fare un servizio ai lettori de L’Unione Sarda ed eventualmente allo stesso ministro Turco, nel fornire un calcolo attendibile di queste quantità. Per far questo non ho chiesto la consulenza né di un consumatore di Cannabis né di un matematico ma mi sono semplicemente rifatto ad uno studio recente (anno 2006) su 388 consumatori reclutati in 28 coffee shops (leggi: rivendite di Cannabis) di 5 città olandesi. In Olanda, Eldorado dei coinnesseurs, il titolo in Thc della marijuana è del 17%. Da noi la marijuana ha un titolo medio del 5%, eccezionalmente può arrivare al 10%. Ai nostri tempi, tra gli anni '60 e '70, il titolo della marijuana era a malapena dell'1%. Allora era davvero “erba”, così erba che spesso non faceva niente....Però si rideva lo stesso quando si vedeva ridere gli altri. Adesso la Cannabis ha nomi da paura: a Londra impazza un estratto concentrato di Cannabis, di nome skunk, dotato di proprietà allucinogene. Ma torniamo al nostro calcolo.Si stima che ogni canna contenga 150 mg di marijuana. Esageriamo, utilizzandone 200 mg. Ammettendo che la marijuana abbia un titolo del 5%, 1000 mg di Thc corrispondono a 20 grammi di marijuana con la quale si fanno ben 100 “canne” da 200 mg. Chi è il fumatore di tabacco (quello delle Marlboro, per intenderci) che si tiene in casa 5 pacchetti di sigarette (equivalenti a 100 sigarette)? Ne conoscevo uno, adesso è morto: fumava due pacchetti di sigarette al giorno ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 27 Mar. ’07 MARIJUANA DOC, VA IN FUMO IL MITO DELL’ERBA BUONA Sempre più ricca di principio attivo, la cannabis finisce sotto accusa per i danni cerebrali Erba di Grace” è il titolo italiano del film che racconta della neo-vedova Grace, coltivatrice di orchidee, che, per pagare le 300.000 sterline di debiti ereditati dal marito, trasforma la sua serra in una coltivazione di Cannabis di alta qualità. La commedia, esilarante in tutti i sensi, disegna una situazione surreale, dato che un intero paese della Cornovaglia, poliziotti compresi, finisce per aiutare Grace a coltivare la Cannabis. Tuttavia, due aspetti del film non sono surreali ma assolutamente realistici. Il primo è la percezione della Cannabis come “erba buona”, che fa sognare un intero paese e contagia con il suo influsso benefico anche i cattivi (il signore della droga, che acquista da Grace la marijuana, se ne innamora e finisce per sposarla). Il secondo aspetto è la possibilità di produrre marijuana di alta qualità coltivando praticamente in casa (indoor) una pianta, la Cannabis Sativa, che in natura cresce al caldo dei paesi subtropicali. Questi due aspetti, pur contraddittori, segnano lo status attuale della Cannabis. Infatti, la sua percezione come droga leggera è alla base della sua larga diffusione soprattutto tra i giovani: in Italia nel 2005 il 32 per cento degli intervistati l’ha consumata almeno una volta, il 23 per cento nell’ultimo anno, il 15 per cento nell’ultimo mese mentre l’8 per cento ne fa un uso abituale. D’altra parte, l’introduzione di varietà botaniche di Cannabis coltivabili in serra contraddice il suo status di droga leggera e fa dei dati sulla sua diffusione fonte di grande preoccupazione. Queste varietà di Cannabis geneticamente modificate forniscono una marijuana, composta dai germogli dei fiori della pianta, con un titolo estremamente elevato (fino al 20 per cento) di principio attivo, il THC. Questa metamorfosi della Cannabis ricorda quella attraversata dalla cocaina, droga ritenuta relativamente leggera fino all’avvento del crack, cioè della cocaina base, volatile e da fumare, che negli anni ’70 scalzò l’eroina dai ghetti di Harlem e Los Angeles e dalle favelas delle metropoli sudamericane. L’introduzione delle varietà genetiche ha modificato radicalmente il mercato della Cannabis. Nelle grandi città ormai esiste un doppio mercato di marijuana: una marijuana commerciale, a basso titolo di THC (1-2 per cento), proveniente da colture in campo di paesi subtropicali, venduta per strada a clienti ’ anche occasionali, e una marijuana Doc, detta anche “designer” marijuana, ad alto titolo di THC (10-20 per cento) proveniente da colture in serra e venduta a clienti selezionati attraverso fornitori che la recapitano a domicilio, con un servizio simile a quello con cui si ordina una pizza o un piatto cinese: unica differenza, il numero del telefono è riservato e ottenibile solo attraverso conoscenze personali. La marijuana Doc sta alla marijuana commerciale come il vino sfuso di una Cantina Sociale sta a un vino di gran marca. Anch’essa è frutto della sapiente miscela di varietà genetiche pregiate e, come il vino, ha nomi specifici che per i conoscitori sono equivalenti a un marchio di qualità. A New York il consumatore tipo della marijuana Doc è bianco e abitante dei quartieri residenziali del centro. Per questo consumatore il tipo di marijuana che utilizza è un segno di distinzione e di rango sociale, culturale e, persino, di appartenenza politica. Dimmi cosa fumi e ti dirò chi sei... Attualmente la marijuana Doc costa, nel mercato di New York, più del doppio rispetto alla marijuana commerciale. Tuttavia, la marijuana Doc ad alto titolo di THC è quella che si vende a prezzi relativamente convenienti nei coffee shop olandesi ed è prevedibile che il suo prezzo sia destinato a scendere, vista la sua facilità di coltivazione, e la sua diffusione ad aumentare, fino a sostituire completamente la marijuana commerciale. Il THC, in forma pura, ha tutte le caratteristiche farmacologiche delle droghe pesanti, inclusa quella di essere volontariamente ricercato e consumato dagli animali di laboratorio, di aumentare la famosa dopamina nelle aree del piacere e della motivazione e di produrre dipendenza fisica e tolleranza. È quindi prevedibile che la diffusione di marijuana Doc sarà associata a un aumento di effetti avversi a lungo termine. Su questo tema si è sviluppata un’accesa polemica, alimentata da implicazioni politiche e ideologiche, ciò che ha reso difficile il raggiungimento di una posizione condivisa basata su dati scientifici. Ormai le evidenze disponibili implicano pesantemente l’uso di Cannabis nell’insorgenza di disturbi cronici del comportamento e delle funzioni cognitive e di condizioni psichiatriche gravi. L’uso di Cannabis raddoppia in generale il rischio di schizofrenia e lo quadruplica negli adolescenti. Studi su gemelli omozigoti ma discordanti per l’uso di Cannabis indicano che il suo uso abituale aumenta la probabilità di abuso di altre droghe. Infine l’uso abituale di Cannabis è associato a disturbi cognitivi non imputabili al suo effetto acuto e indicativi di una alterazione a lungo termine di quelle funzioni. Qualcuno potrebbe argomentare che gli studi disponibili, essendo di natura epidemiologica piuttosto che sperimentale, non forniscono un’evidenza sicura della colpevolezza della Cannabis. Questa situazione è però comune in medicina e si applica in maniera identica ad altre condizioni associate all’uso di sostanze, come il rischio di tumori polmonari nei fumatori. Anche se manca la prova di colpevolezza, la Cannabis è un forte indiziato di disturbi cerebrali a lungo termine. Tutto ciò non ci meraviglia dato che il THC agisce nel cervello su siti (recettori) fatti dalla natura per molecole, gli endocannabinoidi, che servono alle cellule cerebrali per comunicare tra di loro ed implicate in importanti funzioni come la memoria, l’attenzione e la capacità di scelta e decisione in condizioni impreviste. Queste funzioni sono parte integrante del nostro essere persone, di ciò che Cartesio sintetizzò nell’aforisma cogito ergo sum, funzioni che sono deteriorate, spesso irreversibilmente, nella schizofrenia, un disturbo che evidentemente si intreccia strettamente con il meccanismo dazione della Cannabis. Recentemente un gruppo di esperti hanno indicato il tabacco come più pericoloso della Cannabis. Sicuramente non per il cervello, dato che la nicotina migliora le funzioni cognitive invece di peggiorarle. GAETANO DI CHIARA ___________________________________________________________ The New York Times 16 apr. ’07 SCOPRIRE IL MISTERO DEL SESSO NON A LETTO, MA IN LABORATORIO di NATALIE ANGIER Desiderio sessuale. IL termine stesso è così carico di voluttuosa energia da suonare come un'avance. Ha un che di piccante, sconcio, ridicolo e forse illecito. Chiunque sia dotato di un paio di gonadi in attività o in quiescenza sa cos'è il desiderio sessuale. Si tratta di un'esperienza pressoché universale, la clausola invisibile apposta sul certificato di nascita che stabilisce che al raggiungimento della maturità si avrà l'impulso a intraprendere attività spesso associate all'emissione di altri certificati di nascita. Ma universale non significa uniforme e le definizioni di desiderio sessuale possono essere bizzarre e individuali quanto le combinazioni di cromosomi che risultano dalla riproduzione sessuale. Prendete un gruppo eterogeneo di uomini e donne e ponetegli questa domanda: "Cos'è il desiderio sessuale e come lo identificate?" e, dopo qualche imbarazzo iniziale e la richiesta di mantenere l'anonimato, vi risponderanno così: "Un po' di adrenalina, un affanno al petto, un fremito di attesa nella lingua", dice un avvocato divorziato ultraquarantenne. "Mi sento rilassata, calda e a mio agio", risponde una stilista trentenne. "La voglia di baciare o toccare qualcuno che possa ricambiare", dice un cineasta cinquantenne. "Oppure, se sono solo, il desiderio di chiamare le mie ex". "Sentir parlare Noam Chomsky", dice unapsicologa cinquantenne, "mi eccita sempre". Per i ricercatori che studiano la sessualità umana l'ampia gamma di definizioni del desiderio sessuale e delle sue caratteristiche più salienti rappresenta una sfida e un'opportunità, è croce e delizia. "Usiamo il termine `desiderio sessuale indiscriminatamente, come se avessimo la certezza di riferirci tutti alla stessa cosa", dice Lisa M. Diamond, professore associato di psicologia all'università dello Utah. "Ma la ricerca dimostra che le persone in realtà ne hanno un concetto molto diverso". A detta dei ricercatori, d'altro canto, è proprio questa complessità, profondità e ricchezza del desiderio sessuale che va compresa. "Il desiderio sessuale può essere complesso ma non significa che sia disorganico", dice Julia R. Heiman, direttore dell'Istituto Kinsey di ricerca sul sesso, il genere e la riproduzione a Bloomington, Indiana. "Possiamo tentare coscienziosamente di comprendere che cosa sia o non sia il desiderio sessuale, consapevoli dell'importanza di studiarlo". Meredith L. Chivers, ricercatrice del Centro per la dipendenza e la salute mentale di Toronto è d'accordo. "La sessualità è una componente importantissima della nostra identità. Come potremmo rifiutarci di comprenderla?" Seguendo imperterriti le loro curiosità accademiche i sessuologi hanno ricavato un tesoro di nuovi e spesso sorprendenti conoscenze sulla natura e l'architettura del desiderio sessuale. Scoprono divergenze e convergenze delle esperienze maschili e femminili, apprendono modi e motivazioni della ricerca del partner erotico evidenziandone le componenti fisse e variabili. Alcuni ricercatori indagano i meccanismi neurali, anatomici ed emotivi che modulano e gestiscono il desiderio sessuale e lo stimolo sessuale. Altri esplorano il ruolo giocato dalla cultura nel tendere o allentare le corde del desiderio. I pragmatici sono alla ricerca di migliori farmaci, nuovi modi di aiutare le persone che si sentono vittima di un eccesso 0 di una carenza di desiderio sessuale. Una straordinaria scoperta ha recentemente capovolto lo schema tradizionale che ordina lo svolgimento dell'atto sessuale, in particolare per le donne ma molto probabilmente anche per gli uomini. Secondo la sequenza proposta alla metà del XX secolo dai pionieri della sessuologia William H. Masters, Virginia E. Johnson e Helen Singer Kaplan un incontro sessuale inizia dal desiderio, una brama di sesso che nasce spontaneamente e spinge a cercare un partner. L'incontro porta allo stimolo sessuale, seguito dall'eccitazione, che in un disperato armeggiare con bottoni e chiusure varie tra strani mugolii, culmina e si esaurisce. Numerose nuove scoperte indicano tuttavia che il desiderio più che un prologo potrebbe essere un'appendice, la veste cognitiva che il cervello dà alla precedente percezione di uno stimolo fisico o subliminale, una carezza sulla nuca, ad esempio, la vista di una mela matura 0l’indossare un elmetto su un cantiere essendo circondati da altri uomini con l'elmetto. In una serie di studi condotti all'università di Amsterdam, Ellen Laan, Stephanie Both e Mark Spiering hanno dimostrato che l'intero sistema motorio del corpo viene attivato quasi istantaneamente dall'esposizione a immagini sessuali e che quanto più erotiche sono le immagini tanto più intensi sono gli impulsi elettrici emessi dai cosiddetti riflessi spinali tendinei dei soggetti. Stando alle apparenze, dice la dottoressa Laan, il corpo è preparato al sesso prima che la mente abbia avuto il tempo di sviluppare un atteggiamento concupiscente. "Pensiamo che il desiderio sessuale emerga dallo stimolo sessuale, l'attivazione del sistema sessuale del singolo", ha detto in un'intervista telefonica. Inoltre, aggiunge, lo stimolo sessuale non è necessariamente un processo conscio. Riordinando la sequenza sessuale posponendo il desiderio allo stimolo la nuova ricerca concorda con gli schemi recentemente osservati dai neurobiologi in relazione ad altre aree biologiche. Prima che il soggetto sia consapevole di un'intenzione, come salutare un amico o aprire un libro, le regioni cerebrali sono già attivate. La nozione che ciascuno di noi è il regista dei suoi desideri più lubrichi, dicono gli scienziati, potrebbe essere semplicemente una pia e forse necessaria illusione. Le nuove scoperte indicano che in alcuni casi per curare la carenza di desiderio sessuale l’approccio migliore potrebbe puntare ad aumentare la capacità di eccitazione più che il desiderio, lasciar perdere i pensieri erotici e esaltare le sensazioni erotiche, i segnali o le attività che stimolano il circuito sessuale di ciascuno. Il resto si dipanerà da lì, con estrema facilità. I ricercatori hanno anche raccolto notevoli prove che le sensazioni di stimolo sessuale, desiderio e eccitazione sono governate da due fondamentali circuiti cerebrali a funzionamento distinto, uno che incoraggia l'eccitazione sessuale, l'altro che la inibisce. Uno dei padri di questa nuova tesi, Erick Janssen del Kinsey Institute, paragona questi meccanismi ai pedali di un'auto. "Se lasci l'acceleratore, rallenti", dice, "ma non è la stessa cosa che premere il pedale del freno". In ciascun individuo i pedali possono essere più facili o difficili da premere. Un soggetto può essere rapidamente eccitabile ma reprimere la reazione allo stimolo alla minima distrazione. Un altro può partire a rilento ma una volta eccitato "non perderà lo stimolo sessuale neppure se casca il mondo", dice Janssen. Altri ancora possono essere dotati sia di un debole acceleratore che di un freno sessuale eccessivamente sollecito, un'accoppiata non certo invidiabile. Alcuni ricercatori dicono che in media il desiderio sessuate maschile non solo è più forte di quello femminile ma anche più costante, di ora in ora, di giorno in giorno. Facendo riferimento a un significativo numero di studi che attribuiscono una certa natura ciclica al desiderio femminile alcuni sostengono che le donne iniziano a raggiungere i livelli maschili di desiderio sessuale solo durante i pochi giorni del mese in cui sono fertili. Dagli studi emerge, ad esempio, che le donne sono più inclini alle fantasie sessuali, alla masturbazione e a prendere l'iniziativa nel sesso con il partner, ad indossare indumenti provocanti e a frequentare locali per single, soprattutto quando sono vicine all'ovulazione, più che in ogni altro momento del mese. Le donne ovviamente sono in grado di fare sesso e hanno rapporti sessuali al di fuori di questo limitato spazio di fecondità, ma nell'ordine darwiniano delle cose ha senso che quando sono fertili prendano qualche iniziativa in più, dice Kim Wallen della Emory University di Atlanta. Gli uomini, al contrario, sono generalmente fecondi tutto il mese e in teoria ansiosi di condividere tanta abbondanza, uno stato di perenne disponibilità che Roy F. Baumeister, docente di psicologia della Florida State University, definisce "tragico". Ma, a giudizio di alcuni, queste formule assolute trascurano l'importanza dell'età, dell'esperienza, della cultura e delle circostanze nel determinare l'intensità del desiderio sessuale di ciascun individuo. "Le tesi di Baumeister possono avere una certa validità per soggetti di età inferiore ai 40 anni e in rapporti non matrimoniali", dice Barry W McCarthy, terapeuta sessuale dello stato di Washington, voce autorevole nell'ambiente. "Invecchiando, uomini e donne diventano molto più simili, incluso il desiderio sessuale". La donna, dice McCarthy, invecchiando sente di avere più controllo sulla sfera sessuale e percepisce il sesso come più sicuro, mentre l'uomo non sente più il bisogno di immaginarsi come "padrone sessuale dell'universo". Come dice un fotografo e giornalista cinquantacinquenne, "a vent'anni non riuscivo a rigare dritto". Ora vive il sesso in maniera più rilassata e "indifferente". E pur giudicando la propria libido in linea con quella dei suoi coetanei, la definisce "esattamente pari a quella della mia partner". Rigano dritto insieme. ___________________________________________________________ L’espresso 26 apr. ’07 INFILTRAZIONI EPIDURALI DI CORTISONICI INUTILI Cortisone imbroglione L'American Academy of Neurology boccia senza pietà le infiltrazioni epidurali di cortisonici per combattere il mal di schiena che si irradia alla coscia: non funzionano, se si esclude un piccolo sollievo nel breve periodo. Le raccomandazioni, pubblicate sulla rivista "Neurology", sono state elaborate partendo da un'analisi degli studi pubblicati negli ultimi anni: e sono approdate alla conclusione che è possibile vi sia un modesto effetto su popolazioni limitate di persone, per un periodo che non supera le sei settimane dall'iniezione. ma non vi è alcun beneficio dimostrabile su intervalli di tempo più lunghi (tre mesi) sui sintomi dolorosi, né sulla necessità del ricorso all'intervento chirurgico o sulla mobilità e la funzionalità di schiena e arti superiori. Risultato: le infiltrazioni con antinfiammatori a base di cortisone non sono consigliabili in nessun caso.A. Cod. ___________________________________________________________ Corriere della Sera 17 apr. ’07 TEST GENETICI SUPERVELOCI CONTRO IL TUMORE AL SENO E nuovo farmaco protettivo Nasce a Milano il più grande Polo di ricerca europeo in oncologia Veronesi: su 800 donne la vitamina-scudo MILANO - Ogni anno in Italia si ammalano 35 mila donne di tumore il seno. Nell’8-10 per cento dei casi c'è una predisposizione genetica. Due i geni responsabili il Brca-1 e il Brca-2. E si possono individuare con un test genetico predittivo, molto costoso e che dà la risposta in sei mesi. Una volta scoperto il rischio, poi, complessa la soluzione. Negli Stati Uniti c'è chi propone l'asportarzione di entrambi i seni a giovani ventenni. Ma non è questa la filosofia di Umberto Veronesi che ieri, in un colpo solo, ha annunciato due rivoluzioni scientifiche frutto della ricerca italiana: un test genetico superveloce e molto meno costoso e una super vitamina che, se confermerà quanto promette, potrebbe essere lo scudo al tumore, soprattutto per chi è genetica mente predisposto. Anzi i test genetici a costi ridotti renderanno possibile la sperimentazione su larga scala proprio del farmaco derivato dalla vitamina A, la fenretinide, che promette di ridurre del 50% l'incidenza del tumore al seno nelle donne a rischio sotto i 40 anni e del 40% in tutte quelle non ancora in menopausa. Umberto Veronesi continua a guidare l'oncologia italiana, e a questo punto europea, sulla, strada aperta da lui (contro tutti e contro tutto) negli anni '70 della «cura dolce» del cancro e della prevenzione. Ieri ha inaugurato il Campus Ifom-Ieo, il più grande polo di ricerca oncologica d'Europa: 12 mila metri quadri di laboratori, 9 chilometri di fibre ottiche, 18 milioni di euro di investimenti solo in strumentazione di routine e 15 milioni di euro per la genomica. «Proprio una delle nuove piattaforme tecnologiche genomiche è quella che permette i test genetici superveloci», dice Veronesi. Fino a ieri ci volevano almeno sei mesi, in Italia, e 5-7.000 euro per sapere se c'era l'alterazione genetica che predispone al cancro della mammella. I test nati all'Ifom rispondono in 48 ore (una settimana al massimo) e con costi almeno 10 volte inferiori agli attuali, forse anche meno (circa 400 euro). «Tanto che potrebbero essere accettabili anche dal Servizio sanitario nazionale», insiste Veronesi. E chi risulta positiva ai test? Ecco la formula-Veronesi: «Alle donne che risultano positive ai test genetici, indipendentemente dall'età, consigliamo una risonanza magnetica all'anno. Pronti a intervenire precocemente se serve. Niente interventi chirurgici preventivi». E aggiunge: «In seguito, se funziona, consiglieremo un farmaco da prendere tutti i giorni. Un derivato della vitamina A, una sorta di integratore anti-cancro». I test genetici superveloci, infatti, aprono la strada alla sperimentazione (altra idea italiana) su larga scala della fenretinide, sostanza derivata dalla vitamina A che in una ricerca durata 20 anni, limitata a un numero troppo ristretto di pazienti, ha già mostrato una promessa di efficacia nel ridurre l'incidenza del tumore al seno. «Abbiamo già 800 donne disponibili in tutta Italia, positive al test genetico – spiega Veronesi - pronte a sottoporsi a questo studio in 20 centri italiani, coordinato dallo Ieo. Quindi, se allarghiamo la base e arriviamo a 2.000 avremo una popolazione che ci darà delle risposte assolutamente sicure e definitive. Il ministero ha dato la sua adesione: interverrà con almeno mezzo milione di euro su questo progetto». Mario Pappagallo ___________________________________________________________ L’espresso 26 apr. ’07 PROCESSO AGLI STENT Quando una rivista come il "NewEngland Journal of Medicine" pubblica articoli ed editoriali su un unico argomento il segnale è inequivocabile: la faccenda è seria. Nella fattispecie, dal momento che trattasi della sicurezza degli stent medicati (le reticelle ricoperte di farmaci inserite durante gli interventi per la riapetura dei vasi sanguigni occlusi) lasciati ogni anno nelle arterie di milioni di persone, l'attenzione si può tramutare in preoccupazione. Nel 2003 e 2004 la Food and Drug administration FDA ha approvato l'utilizzo di due di questi stent, delineando la fisionomia del paziente ideale, che non doveva presentare un quadro clinico troppo complicato e doveva essere in grado di sopportare, dopo l'intervento, alcuni mesi di terapia con anticoagulanti, per limitare il ri schiodella formazione di trombi. Nei mesi e anni successivi i due stent sono stati adottati in maniera entusiastica dai cardiologi, che oggi li inseriscono nell’80 per cento dei casi, mostrando di preferirli decisamente agli stent classici privi di farmaco. In questo periodo tuttavia, vi sono state segnalazioni sempre più frequenti di casi di trombosi e decessi per infarto tra coloro cui era stato inserito uno stente medicato, cui hanno risposto ogni volta comunicati, altri studi e prese di posizione. Risultato: il caos, ma la Fda ha risposto convocando, a dicembre del 2006, due giorni di discussione. L'incontro è stato deludente: da una parte è emerso che più del 60 per cento dell'utilizzo è in pazienti diversi da quelli ideali e molti malati non seguono la terapia anticoagulante (ciò potrebbe spiegare l'aumento del rischio); dall'altra è venuto fuori che i dati non sono definitivi. Ancora una volta si pagano le amare conseguenze dì un'approvazione forse frettolosa e della superficialità con cui la comunità medica accoglie tutte le novità più costose, ma non conosciute a fondo. Seguiranno altri studi, ha concluso la Fda; ma i cardiologi stiano più attenti. E i pazienti pure. di Daniela Cipolloni ___________________________________________________________ Herals Tribune 20 apr. ’07 PILL TO END MENSTRUAL CYCLE PROVOKES MIXED FEEFINGS By Stephanie Saul NEW YORK: For many women, a birth control pill that eliminated monthly menstruation might seem a welcome milestone. )3ut many also view their periods as fundamental symbols of fertility and health, researchers have found. Rather than loathing their periods, women evidently carry on complex love-hate relationships with them. This ambivalence is one reason that a decision to be made by the Food and Drug Administration next month has engendered controversy in the United States. The agency is expected to approve the first contraceptive pill that is designed to eliminate periods as long as a woman takes it. Doctors say they know of no extra risk to the new regimen, but some women are uneasy about the idea. "My concern is that the menstrual cycle is an outward sign of something that's going on hormonally in the body," said Christine Hitchcock, a researcher at the University of British Columbia. Hitchcock said she worried about "the idea that you can turn your body on and off like a tap." That viewpoint is apparently one reason some birth control pills already sold, that can enable women to have only four periods a year, have not captured a larger share of the oral contraceptive market. "Ft's not an easy decision for a woman to give up her monthly menses," said Ronny Gal, a drug industry analyst at Sanford C. Bemstein. But if the new pill, Lybrel, is approved, Gal predicts an onslaught of advertising meant to persuade women to do just that. The drug's maker, Wyeth, said Wednesday that ft was expecting agency approval in May but has declined to discuss its marketing plans. Lybrel is not yet available in other countries. Doctors say they know of no medical reason that women taking birth control pills need to have periods. The monthly bleeding that women experience while taking pills now on the market is not a real period, in fact. And studies have found no extra risks health risks associated with pills that stop menstruation, although some doctors caution that little research has been conducted on their long-term effects. The topic, however, has spawned an hour-long documentary by Giovanna Chesler, "Period: The End of Menstruation?'° now being screened on college campuses and among feminist groups. Chesler, who teaches documentary making at the University of California at San Diego, said she became concerned about efforts to eliminate menstruation when she first heard about the idea several years ago. "Women are not sick," she said. "They don't need to control their periods for 30 or 40 years." The subject has also ignited a debate within the Society for Menstrual Cycle Research, a scientific organization that studies the medicine and social science of menses. In 2003, the group issued a position statement saying that more research was needed before women could make an informed choice about using pills that suppress their periods. That statement could be revised at the group's coming meeting, scheduled for Vancouver in June. Hitchcock, the researcher and a director of the organization, said that although some research had been comforting, she remained concerned that medical science did not fully understand the long-term implications of interrupting women's periods. The same hormones that work on the menstrual cycles act in the brain, bones, and the skin, she said. "You need to think about whether there are consequences wc don't know about for the whole body," Hitchcock said. There has also been a backlash among groups that celebrate the period as a spiritual or natural process, like the Red Web Foundation. Tbc focus of our group is to create positive attitudes toward the menstrual cycle - suppressing it wouldn't be positive;' said Anna Yang, a holistic nurse and executive director of the organization. Eliminating menstruation is not a completely new concept. Because the hormones in birth control pills stop the monthly release of an egg and the build up of the uterine lining, there is no need for the lining to shed - as occurs during true menstruation. But since the advent of oral contraceptives in 1960, birth control pills typically bave been designed to mimic the natural 28-day menstrual cycle to assure women using the pill that their bodies were functioning normally. The pills are usually packaged as regimens of 21 days of hormone pills and seven inactive pills. The interruption of hormone therapy during the inactive part of the regimen induces bleeding that resembles a mild period but is, in fact, caused by instable hormone levels. In recent years, drug makers have come out with new pill regimens that tinker with the 28-day cycle by increasing the number of hormone pills, creating a shorter span of bleeding. ___________________________________________________________ Libero 21 apr. ’07 NEL SANGUE ABBIAMO TUTTI UNA MOLECOLA CHE BLOCCA LA DIFFUSIONE DELL'HIV Ricercatori tedeschi dell'università di Ulm propongono di curare l’Aids sfruttando una proteina naturalmente presente nel sangue dell'uomo: il riferimento è a una molecola battezzata Virip. Virip, come dimostrano le analisi di laboratorio, ostacola il passaggio da una cellula all'altra del virus Hiv-1, il ceppo virale responsabile dell'Aids. Secondo gli studiosi di Ulan la proteina individuata potrebbe dar vita a una nuova categoria di farmaci. Attualmente è possibile allungare, anche di parecchi anni, la vita ai pazienti colpiti da Hiv, tuttavia non si è ancora riusciti a trovare un medicinale davvero capace di impedire la diffusione del virus. Peraltro molti ammalati sviluppano una certa resistenza ai medicamenti. Roger Pebody, dell'associazione Terrence Higgins Trust, fa sapere: ,Siamo all'inizio delle sperimentazioni, ma crediamo seriamente che da qui a qualche anno, grazie a questo studio, si arriverà allo sviluppo di nuovi farmaci per bloccare l’Aids». In particolare Frank Kirchhoff, a capo del tearn tedesco, ha dimostrato che l’Hiv-1 non sviluppa facilrr ente resistenza alla molecola Virip, e che quindi quest'ultima ha tutti i presupposti per poter dar vita a terapie innovative. Inoltre si è visto che alcuni derivati della molecola sono altamente stabilì nel plasma umano e non sono tossici seppur somministrati in quantitativi estremamente elevati. Stando alle statistiche fomite dall'Organizzazione Mondiale della Sanità circa 40 milioni di persone attualmente vivono con l'Hiv o l’Aids, e di questi 2 milioni sono bambini. Quasi 4 milioni di persone sono state colpite dal morbo nel 2006, mentre in 3 milioni nello stesso anno hanno perso la vita a causa del virus. GIANLUCA GRO551 ___________________________________________________________ L’espresso 26 apr. ’07 LATTE O NON LATTE Tre bicchieri di latte vaccino al giorno. È quanto raccomanda l'Oms agli adulti. Non saranno troppi? Secondo alcuni epidemiologi sì. Una porzione va bene, due mi preoccupano, e se si sale a tre vedo un danno potenziale per la salute»: quella di Walter Willett, Università di Harvard, non è una voce isolata. C'è il sospetto che un elevato consumo di prodotti caseari aumenti il rischio di alcuni tumori, in particolare al seno e alla prostata. Sotto accusa sono gli ormoni steroidei contenuti nel latte, come l'estradiolo e il testosterone, e peptidi come il fattore di crescita Igf-1, rutti elementi che potrebbero contribuire all'insorgenza di forme di cancro. In più il fattore Igf-1 è stato associato a gravidanze plurime e il testosterone allo sviluppo dell'acne nelle ragazze. al detta di molti si tratta solo di ipotesi azzardate. Gli ormoni sono presenti nel latte in quantità irrisorie e la digestione potrebbe comunque inattivarli. Gli studi epidemiologi finora condotti non hanno trovato prove che un elevato consumo di latticini aumenti il rischio di carcinoma mammario: «Tre bicchieri della bevanda corrispondono a un nanogrammo di estradiolo, calcola Ron Kensinger della Penn State Universitv: Un maschio in età prepuberale ne produce 14 microgrammi e una donna in gravidanza avanzata 24 microgranuni: è una quantità un milionesimo di volte inferiore alla secrezione endogena ».I primi dati epidemiologici sul tumore alla prostata sono più consistenti: la probabilità di sviluppare un cancro aggressivo (che colpisce il 2-3 per cento degli uomini) è doppia per i pazienti che hanno sempre consumato latte. Fondati anche i dubbi sul fattore di crescita Igf-1. Uno studio Usa ha dimostrato ` che il tasso di gravidanze gemellari è cinque volte superiore nelle donne che bevono latte quotidianamente. Per chi vuole avere un bambino, meglio il latte di soia. ___________________________________________________________ L’espresso 26 apr. ’07 CHI HA PAURA DEL TRIAL Essere arruolati in uno studio clinico è, per un malato di cancro, la garanzia di avere cure modernissime ed essere seguiti col massimo riguardo. Eppure in Italia la partecipazione è molto bassa. Spiega Elisabetta Iannelli, vice presidente dell'Aimac: «I malati hanno spesso idee poco chiare: non sanno esattamente che cos'è uno studio clinico, ne sottovalutano l'importanza, temono di essere usati come cavie e di perdere i benefici delle cure consolidate a favore di terapie oscure o, peggio, di un placebo. Non hanno a disposizione le informazioni elementari per decidere in autonomia; dal canto loro i medici talvolta temono complicazioni burocratiche o un surplus di lavoro. Eppure chi partecipa a un trial seguito in modo scrupoloso, e usi fruisce di terapie innovative, già controllate per quanto riguarda la sicurezza,. Dunque, bisogna ribaltare la situazione. Come? Ad esempio analizzando le esperienze di paesi in cui esiste una solida cultura del malato come protagonista assoluto: lo fanno esperti italiani, europei e Americani il 20 aprile 2007, a Roma, Istituto superiore di sanità. O, come ha fatto I'AINiaC in collaborazione con il National Cancer Institute statunitense, rendendo disponibile un libretto che fornisce ai malati le informazioni per decidere. A. Cod. ___________________________________________________________ MF 17 apr. ’07 L’ALZHEIMER E È MESSO A NUDO CO UN TEST GENETICO Medicina Un nuovo test genetico indica la predisposizione a sviluppare la malattia degenerativa Il prelievo è orale e indolore. " a 40 anni prevenzione e terapia diventano mirate di Elena Correggia Perdita di memoria, disorientamento, alterazione della personalità sono i sintomi clinici che rendono visibile il processo di degenerazione neuronale quando ormai la malattia di Alzheimer è conclamata. Un nuovo esame indolore, effettuabile anche a domicilio con un semplice kit, ora agisce sul fronte dell'intervento precoce allo scopo di valutare la predisposizione di ogni individuo a sviluppare decadimento cognitivo e successivamente patologia di Alzhefmer Con una microspatola si sfregano le pareti interne della bocca prelevando cellule di sfaldamento della mucosa orale e il campione di Dna così isolato viene inviato insieme con il consenso informato ai laboratori di analisi. Qui vengono esaminati i geni che compongono il profilo di rischio pro infiammatorio e a ogni soggetto è assegnato un punteggio che quantifica il rischio individuale intrinseco. AL referto sono inoltre allegati gli indirizzi di medici specialisti che possono seguire il paziente e attivare i protocolli adeguati sulla base dei risultati, individuando gli approfondimenti diagnostici necessari (visite specialistiche, esami radiologici, test neurocognitivi), i percorsi di prevenzione e terapeutici. «II test genetico non esprime la certezza che la malattia si manifesterà ma indica un certo grado di probabilità, ciò permette di incidere per tempo sui comportamenti, lo stile di vita e le eventuali terapie», spiega il professor Federico Licastro, responsabile del laboratorio di immunologia e immunogenetica del dipartimento di patologia sperimentale della facoltà di medicina e chirurgia dell'Università di Bologna. l;esame si rivolge alla popolazione compresa fra i 40 e i 75 anni. Fra i 40 e i 50 anni si parla di vera prevenzione con possibilità alta di bloccare lo sviluppo della patologia se il rischio è presente, mentre fra i 50 e i 65 anni è ancora possibile instaurare una terapia medica adeguata per rallentare la manifestazione della patologia e in tal caso si può parlare di diagnosi precoce di demenza o pre-demenza. «Studi e osservazioni hanno dimostrato l'esistenza di un ruolo dell'infiammazione nella degenerazione cerebrale legata all'Alzheimer», continua Licastro. «Fra i meccanismi che inducono alla morte neuronale si riconosce per esempio l’iperattivazione delle cellule microgliali cerebrali (cellule immunitarie del sistema nervoso centrale) e degli astrociti (cellule regolatrici degli scambi fra neuroni e circolazione sanguigna), che rilasciano sostanze ad attività pro-infiammatoria, come le citochine, importanti nell'indurre la neurodegenerazione». Una strada per influire efficacemente su questi meccanismi consiste nella terapia antinfiammatoria precoce, prima che la neurodegenerazione abbia distrutto porzioni consistenti delle aree cerebrali, agendo su quei soggetti ancora sani che possiedono però rischio alto di sviluppare risposte pro infiammatorie cerebrali. Partendo dai singoli polimorfismi nucleotidici di certi geni infiammatori già associati al rischio di sviluppare Alzheimer perché più frequenti nei portatori della patologia, i nostri studi hanno riconosciuto che la combinazione di differenti polimorfismi sui geni di varie molecole infiammatorie (IL-1, ACT, IL-10) e di molecole coinvolte nel metabolismo celebrale (HMGCR,VEGF) accresce il rischio di Alzheimer. Associando fra loro diversi polimorfismi è stato così possibile creare un profilo genetico complesso e indicativo per il rischio Individuale, adeguato al genotipo italiano. Attualmente il test sul decadimento cognitivo può essere richiesto all'Istituto di medicina biologica di Milano che provvede a inviarlo a domicilio o effettua il test nella sua struttura. II Dna viene poi esaminato nei laboratori NGb genetics, spin off dell'Università di Ferrara. L’esame ha un costo di 750 euro. ____________________________________________________________ Il Giorno 17 apr. ’07 TALASSEMIA, UNA DIAGNOSI PRECOCE PER VIVERE MEGLIO Una nuova tecnica per testare l'accumulo di ferro, evitare danni cardiaci e studiare terapie personalizzate di FEDERICA CAPPELLETTI LA TALASSEMIA, o anemia mediterranea (tipica di mediterraneo e medioriente), è una malattia geografica ereditaria caratterizzata da un difetto nella sintesi dell'emoglobina: la proteina contenuta nei globuli rossi del sangue che ha il compito di trasportare l'ossigeno ai tessuti del corpo, eliminando l'anidride carbonica. Fa parte del "gruppo" delle malattie rare, inserite nella rete nazionale istituita nel 2001 con decreto del ministero della Salute. I globuli rossi del talassemico hanno un contenuto di emoglobina sia quantitativamente che qualitativamente alterato, costringendo a trasfusioni di sangue per tutta l'arco della vita. In Italia ne sono affette circa 7.000 persone, più un numero significativo di portatori sani stimato intorno ai 2 milioni: da due genitori portatori del tratto talassemico esiste una possibilità su quattro (25%) che nasca un figlio malato. LE MAGGIORI concentrazioni di malati di talassemia, e di portatori sani, su scala nazionale si trovano in Sardegna, in Sicilia e nel Delta del Po. In alcune regioni una coppia ogni 270 è a "rischio" di procreare bambini talassemici. Lo screening dei portatori e la diagnosi prenatale, sono pertanto diventati il cardine per la prevenzione primaria della malattia, ma devono essere accoppiati ad un monitoraggio costante dei danni d'organo dovuti al sovraccarico di ferro, per ottenere una normale sopravvivenza dei pazienti in attesa di una cura definitiva. A tale proposito «è nato un progetto scientifico inedito-spiega il professor Aurelio Maggio (nella fotosotto), direttore dell'unità operativa Ematologia II con Talassemia dell'ospedale "Cervello" di Palermo - tutto made in Italy e tecnologicamente avanzato, che avrà il compito di migliorare le prospettive di vita delle persone colpite da questa patologia genetica ereditaria (detta anche thalassemia major o malattia di Cooley) che in Italia conta il vero primato tra tutti i Paesi industrializzati. Si chiama M.I.O.T. (Myocardial Iron Overload in Thalassemia), e permetterà di studiare per 3 anni ben 2.000 talassemici, valutandone l'accumulo di ferro nel cuore e la fibrosi miocardica, mediante un'originale tecnica abbinata alla risonanza magnetica: la Ti-Due-Star». Di cosa si tratta professore? «E' l'unica tecnica che consente in modo affidabile, rapido e non invasivo di testare l'accumulo di ferro, contribuendo a diagnosticare precocemente ciò che con un elettrocardiogramma o con ecografia cardiaca non si può vedere, se non quando la disfunzione è già in fase avanzata. Il progetto rappresenta un'esemplare collaborazione fra pubblico e privato, resa possibile dalla "task force" instauratasi tra il CNR di Pisa, la SO.S.T.E. (società per lo studio delle Talassemie ed Emoglobinopatie), la Fondazione Italiana Leonardo Giambrone e alcuni partner industriali, tra cui Chiesi, Schering e General Electric Healthcare. Partecipano all'iniziativa 8 centri di cardioradiologia e 35 centri ematologici italiani, già impegnati nella diagnosi e cura dei talassemici, e che da ora disporranno di un riferimento diagnostico importante per monitorare i loro pazienti». Un grande passo in avanti... «In passato non era possibile monitorare adeguatamente l'accumulo cardiaco di ferro: la formazione di fibrosi e la disfunzione del cuore comparivano, fatalmente, a compromettere la sopravvivenza del paziente. Oggi il sistema di diagnosi e lettura dei risultati, messo a punto in esclusiva dal CNR di Pisa, sarà utilizzato anche dai centri di Catania, Palermo, Cagliari, Reggio Calabria, Campobasso Roma, Ancona, consentendo la valutazione dei pazienti distribuiti in diverse sedi della penisola. I dati verranno centralizzati a Pisa, costituendo il più ampio database dedicato al mondo». Quando viene diagnostica la malattia? «La forma più grave entro il secondo anno di età. Quelle meno gravi dopo. Fino al sesto mese di vita il bambino è meno anemico perché compensa l'emoglobina buona (fetale), con quella cattiva. Nelle forme più lievi la diagnosi può essere tardiva e spesso casuale, ossia in occasione di controlli routinari come l'analisi del sangue, il test di gravidanza e via dicendo». Sintomi? «Il bambino piange, non dorme, non cresce. E' più predisposto alle infezioni». Conoscere l'accumulo cardiaco di ferro è un garanzia di vita? «E' determinante per la sopravvivenza di tali soggetti e aiuta a decidere la migliore terapia su base individuale». Di cosa ha bisogno il talassemico? «Continue trasfusioni (addirittura ogni 15 - 20 giorni) per sopperire al difetto congenito di emoglobina, il pigmento che dà il colore rosso al sangue, ma che soprattutto ha il compito di trasportare l'ossigeno legato a molecole di ferro. La ripetuta distruzione dei globuli rossi libera ferro, che va a depositarsi in vari organi, soprattutto nel fegato e nel cuore. È proprio la disfunzione cardiaca, legata ai depositi di questo metallo, a provocare la precoce mortalità dei pazienti. Poi ci sono i trattamenti cheranti». Qual è la soglia di sopravvivenza? «Fino a qualche tempo fa 14-15 anni. Oggi si è notevolmente alzata, anche oltre i 40 anni. Ogni caso ha una sua storia. Alcuni malati possono vivere più a lungo, altri muoiono prima. Potenzialmente, ancora, purtroppo, sono tutti destinati a non farcela». Come si elimina il ferro? «Esiste un'apposita terapia, detta ferrochelante. Viene tradizionalmente somministrata mediante infusione sottocutanea, molto lenta (dodici ore), di desferoxamina. La nuova disponibilità di terapie ferrochelanti per via orale (deferiprone) libera invece queste persone dalla schiavitù dell'infusione continua». Con quali vantaggi? «Enormi, anche se stiamo attendendo benefici clinici sulla riduzione dei depositi di ferro. Lo studio M.I.O.T. ci dirà se queste attese sono giustificate, e ne preciserà esattamente i valori e le conseguenze terapeutiche. L'obiettivo è portare questi pazienti a una vita normale e prolungata» Che implicazioni avrà, quindi, il M.I.O.T sull'approccio clinico? «Consentirà di personalizzare la terapia in base alle condizioni individuali, soprattutto in rapporto alla quantità di ferro che si accumula nel cuore, aumentando appunto l'aspettativa di vita». Ricerche all'orizzonte? «Uno studio italiano sulla possibile terapia genica, in fase pre- clinico, condotto in collaborazione con gli Stati Uniti. A breve dovrebbe partire la sperimentazione sull'uomo, in America. Seguirà l'Italia. Questo nuovo protocollo prevede la sostituzione del midollo osseo, con cellule midollari modificate... Speriamo di poterlo annoverare quanto prima tra i possibili rimedi anti-talassemia». Consigli? « caso di gravidanza, sottoporsi al test per la talassemia». ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 16 apr. ’07 IPERTENSIONE, LA CAUSA È NEL CERVELLO Scienziati di Bristol annunciano la scoperta della proteina Jam-1 La pressione alta deriverebbe da una infiammazione cerebrale ROMA. Un gruppo di scienziati britannici ha identificato una proteina che si trova nel cervello che potrebbe essere coinvolta nelle cause dell’ipertensione arteriosa, malattia che è legata all’apparato cardiovascolare. I ricercatori dell’Università di Bristol che spiegano i loro studi sul giornale «Hypertension», hanno isolato la proteina Jam-1 nel cervello e scoperto che essa imprigiona i globuli bianchi, causando infiammazioni che alterano la circolazione del sangue e riducono l’apporto di ossigeno al cervello. A loro avviso, la pressione alta è una malattia vascolare infiammatoria del cervello più che una malattia dovuta al cuore. Il professor Julian Paton, che dirige il progetto, ha spiegato che i ricercatori studiano «la possibilità di curare i pazienti che non rispondono alle terapie convenzionali dell’ ipertensione con farmaci che riducono l’infiammazione dei vasi sanguigni e aumentano l’afflusso sanguigno al cervello». «La nuova sfida sarà capire il tipo di infiammazione delle vene del cervello, così sapremo quali farmaci utilizzare e come dirigerli», ha aggiunto Paton, sottolineando che Jam-1 potrebbe «fornire nuove piste per curare questa malattia». Il professor Jeremy Pearson, responsabile della British Heart Foundation, ha elogiato la scoperta dei ricercatori. «Questo studio sensazionale - riporta la Bbc - è importante perché suggerisce l’esistenza di cause inattese di pressione alta, legate all’invio di sangue al cervello». «La pista di ricerca degli scienziati inglesi è molto interessante anche se ancora sperimentale e da trasferire con studi più accurati all’uomo», commenta il professor Enrico Agabiti Rosei, presidente della società italiana per lo studio dell’ipertensione. Secondo l’esperto italiano lo studio potrebbe spiegare alcune forme della malattia ancora poco conosciute. «Oggi sappiamo - afferma - che l’ipertensione può avere anche una origine di tipo neurogeno cioè avere come causa lo stress attraverso il quale impulsi nervosi arrivano dal cervello alla periferia provocando aumento della frequenza cardiaca e il restringimento del calibro dei vasi. Ma esistono studi che hanno focalizzato l’attenzione anche sui processi infiammatori delle piccole arterie nei primissimi stadi della malattia. Tuttavia esistono ancora molti punti interrogativi da chiarire nella genesi di questa malattia. Oggi infatti - conclude Agabiti Rosei - mettiamo nello stesso calderone tutti i tipi di ipertensione ma non ne conosciamo bene tutti i meccanismi». L’ipertensione arteriosa è una malattia molto diffusa: si stima che nel mondo colpisca oltre 600 milioni di persone; in Italia colpisce in media il 33% degli uomini e il 31% delle donne pari a circa 15 milioni gli italiani; di questi soltanto 9 si curano e soltanto 1 su 6 segue in modo corretto le prescrizioni del medico. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 15 apr. ’07 KICKBOXING: PUGNI CHE «INTONTISCONO» ANCHE GLI ORMONI Kickboxing Uno studio: i colpi in testa provocano danni endocrini Per i kickboxer di tutto il mondo, circa un milione, suona il campanello di allarme. Le botte scambiate nell' arte marziale, nata negli Stati Uniti nei primi anni Settanta, possono danneggiare anche il sistema endocrino. Uno studio, condotto dalla Erciyes University di Kayseri in Turchia e pubblicato sulla rivista Clinical Endocrinology, evidenzia danni all' ipofisi, la ghiandola che produce ormoni fondamentali nel metabolismo umano. «Un quarto di questi sportivi potrebbe soffrire di scompensi ormonali, per i colpi ricevuti alla testa in combattimento», spiega Faharettin Kelestimur, coordinatore della ricerca. Lo studio riguarda 22 kickboxer dilettanti e professionisti (sedici uomini e sei donne), confrontati con un gruppo di controllo di persone sane delle stessa età e dello stesso sesso. Sei atleti (pari al 27 per cento) hanno fatto registrare un deficit in almeno uno degli ormoni prodotti dall' ipofisi. Conclusione: chi combatte in sport come la kickboxing e la boxe, ed è esposto a ripetuti traumi alla testa, dovrebbe sottoporsi a controlli periodici e verificare che l' ipofisi funzioni bene. Studi sui rischi da trauma cranico sono stati già condotti nella boxe, nel football americano, nel rugby, nell' hockey su ghiaccio e anche nel calcio. «Qualsiasi tipo di sport dove c' è un' accelerazione o una decelerazione della massa cerebrale, oltre una certa soglia, può provocare danni alle cellule», spiega Nicola Biasca, responsabile del centro di Medicina dello sport a Samedan, in Svizzera, e medico della Federazione internazionale hockey su ghiaccio. Il mondo della kickboxing non incassa il colpo. «I nostri dilettanti indossano già i caschi», è stata la prima risposta di un portavoce della World kickboxing association. E in Italia? «I ragazzi mettono un caschetto con griglia, i guanti e tutte le altre protezioni - dice Ennio Falsoni, presidente della Federazione italiana kickboxing -. C' è una commissione medica e stiamo molto attenti a non far correre rischi eccessivi ai nostri atleti». Sul fronte medico-scientifico, Lucio Stella, neurochirurgo dell' università di Napoli e padre di un kickboxer, invita ad «evitare facili allarmismi» e sottolinea la necessità di ulteriori approfondimenti. «Le disfunzioni ipofisarie da trauma cranico esistono, ma vengono ignorate», accusa invece Giulio Giordano, coordinatore di un gruppo di studio della Società italiana di endocrinologia. I tesserati della Federazione sono 15 mila, ma si stima che i praticanti siano almeno il doppio. Le donne rappresentano il 15-20 per cento del totale. Per loro, parla Katia Bellillo ex ministro delle Pari Opportunità e kickboxer: «Qualunque attività è pericolosa. Nel caso della kickboxing, i benefici sono talmente grandi che i rischi possono essere assorbiti». Ruggiero Corcella