LA CORTE DEI CONTI BOCCIA LE NUOVE LAUREE TRIENNALI - UNA CATTIVA ISTRUZIONE NON CREA BUONA RICERCA - ATENEI, COSÌ NON SI CAMBIA - ALL’UNIVERSITÀ SERVE UN’ALTRA RIFORMA - RISERVATA AI GIOVANI UNA QUOTA DI CATTEDRE - I BARONI ROSSI DI MUSSI - IN UN CASSETTO LA RICERCA PER LA PRODUTTIVITÀ DEGLI ATENEI - UNIVERSITÀ, MA CON PIÙ, SOLDI COSA CI FATE? - ATENEI CONDANNATI ALL'INEFFICIENZA - UNIVERSITÀ LIBERE DA DOCENTI - INNOVAZIONE, AL VIA LA RIFORMA TARGATA BERSANI - PRIMO STOP AI CONCORSI CON IL TRUCCO - AL MERCATO DELLE MERAVIGLIE - SCIENZE MOTORIE NON ABILITA FISIOTERAPISTI - COMUNITÀ MONTANE SENZA MONTAGNE (MA MOLTI SUSSIDI) - SOLO I POLLI SONO CAPACI DI DARE SCACCO A DARWIN - ================================================= AZIENDA MISTA NINNI MURRU È IL MANAGER - NEBBIE SUL BANDO SISAR LA GARA PER INFORMATIZZARE LA SANITÀ - HUB UNICO DEL FARMACO NELLA ASL N. 8 DI CAGLIARI - DIECI ETTARI PER IL NUOVO SUPER OSPEDALE - PRECARI POLICLINICO, NUOVA BEFFA PER LE ASSUNZIONI - POLICLINICO: COMITATO ETICO FUORILEGGE? - SERVONO 60 MILA INFERMIERI - VISITE FISCALI IN CASO DI MALATTIA, GIRO DI VITE PER I LAVORATORI - ERRORE DEL MEDICO, COLPA DEL SISTEMA - I MEDICI SI DIFENDONO «L'80% DEGLI ERRORI NON È COLPA NOSTRA» - OK ALLA CANNABIS TERAPEUTICA - NEL CIRCOLO VIZIOSO DI POVERTÀ E INFEZIONE - NEL MONDO 400 MILIONI DI PERSONE SI CURANO CON L'OMEOPATIA - PREVENZIONE DEL CA PROSTATICO: PUNTUALIAAZIONE DALLA MEDICINA GENERALE - C'È UNA FORMULA PER VIVERE DI PIÙ - I GAY NON SI "CONVERTONO" - IN AUMENTO I TUMORI ALLA PELLE «BASTA COL MITO DELLA TINTARELLA - TINTARELLA A PICCOLE DOSI E ALL'ORA GIUSTA - UN "ATLANTE" PER BATTERE I TUMORI - DOMPÈ: LA FARMACEUTICA IN ITALIA RISCHIA DI SPARIRE - IMPLANTOLOGIA ELETTROSALDATA E SI EVITANO TAGLI - IL DIGIUNO NON AIUTA A DIMAGRIRE - ================================================= __________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 apr. ‘07 LA CORTE DEI CONTI BOCCIA LE NUOVE LAUREE TRIENNALI Università. Sotto accusa il numero massimo di esami Alessia Tripodi ROMA I RILIEVI DEI MAGISTRATI Tra i punti critici ('obbligo di riconoscere la metà dei crediti maturati in caso di trasferimento della studente ,:Fa La Corte dei conti boccia le nuove lauree del ministro Fabio Mussi. Secondo la magistratura contabile contengono elementi e disposizioni in contrasto con l'autonomia degli atenei, soprattutto per quel che riguarda il numero massimo degli esami e il riconoscimento dei crediti dello studente immobilità da un'università all'altra. Si potrebbero allungare, quindi, i tempi per la registrazione dei decreti che riformano i corsi di laurea triennale e magistrale, firmati dal ministro dell'Università lo scorso 16 marzo. I provvedimenti - attuativi del DM 270/2004-introducono a partire dal 2008 il tetto massimo di 20 esami per la laurea triennale e di 12 per la magistrale, l'obbligo di affidare almeno la metà degli insegnamenti di un corso a docenti di ruolo e la possibilità per lo studente che si trasferisce da un ateneo all'altro di conservare non meno del 50% dei crediti conseguiti. Proprio quest'ultimo rappresenta uno degli elementi maggiormente controversi, perché - secondo la Corte - l'obbligo per gli atenei di riconoscere la metà dei crediti già maturati «sembra contrastare con la previsione del DM 509/99 e del Dm 207/2004, concernenti entrambi l'autonomia didattica». Tali provvedimenti, infatti, attribuiscono alla competenza della struttura accademica la valutazione e l'eventuale riconoscimento del lavoro già svolto dallo studente. Secondo le osservazioni dei magistrati, poi, anche le disposizioni che pongono un limite al numero di esami rappresentano una minaccia per l'autonomia. Pur concordando sulla necessità di «evitare la parcellizzazione dell'attività formativa», la Corte sostiene che «ogni università dovrebbe poter scegliere il modello didattico da offrire agli studenti». Inoltre, fissare un limite di prove uguale per tutte le classi significa «non tenere conto-secondo i magistrati- delle differenze esistenti fra le diverse classi di studio e fra gli ordinamenti del triennio e del biennio» e può risultare in contrasto con alcune direttive Ue, le quali prescrivono «programmi specifici» per corsi di laurea magistrale come Medicina, Farmacia, Architettura, Odontoiatria. II criterio secondo il quale il 50% della didattica di un corso deve essere affidato a docenti e ricercatori in ruolo nell'ateneo> infine, appare legittimo per le università statali, ma non per quelle non statali. La Corte dei Conti sottolinea, infatti, che le strutture non statali possono - secondo quanto previsto dall'art. 29 del decreto delegato 387/1990 - coprire gli insegnamenti anche con personale docente di altre istituzioni universitarie. Più significativo, poi, il problema per gli atenei telematici, dove l'utilizzo delle tecnologie informatiche esclude il ricorso alla lezione "frontale". «Continua la serie di pasticci di un Governo debole che appena può evita il Parlamento, e che sta trascinando nel caos la nostra università», commenta Giuseppe Valditara (An). «Le eccezioni sollevate dalla Corte - aggiunge - preludono a una bocciatura ancora più grave, che attende il decreto ministeriale sulle nuove forme di reclutamento dei ricercatori». «II taglio dei finanziamenti previsti nella Finanziaria - conclude Valditara - sta incidendo pesantemente sul corretto funzionamento delle università italiane». __________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 apr. ‘07 UNA CATTIVA ISTRUZIONE NON CREA BUONA RICERCA L'INNOVAZIONE DIFFICILE Una delle caratteristiche del nevrotico è l’instabilità nelle proprie sicurezze. Basta poco ad abbatterlo come a esaltarlo e ciò lo porta a prendere decisioni miopi e autolesioniste. È ciò che accade all’Italia. Un anno fa ogni dato negativo ci faceva gridare al declino. irreversibile. Oggi qualche piccolo segnale di ripresa ci fa parlare di miracolo economico e dà fiato alle trombe dei sostenitori dell'eccezionalismo italiano". Come nei nevrotici, l'Italia deve questa sua instabilità alla dinamica dei conflitti interni rappresentata dalla frammentarietà della sua classe dirigente e dalla incompatibilità dei progetti di rilancio del Paese: Ne è un esempio la discussione odierna sulle proposte per utilizzare l’inaspettato aumento delle entrate 2007. Quasi niente viene detto su uno dei temi di fondo del futuro del Paese, il rilancio del sistema italiano dell'innovazione. Eppure gli altri Governi europei non parlano ormai che di ruolo economico trainante di istruzione, ricerca e innovazione. In particolare, al nesso tra ricerca e imprese; a cui è dedicata la manifestazione R2B che inizia oggi a Bologna. I principali rapporti internazionali ci relegano agli ultimi posti nelle classifiche sulla competitività. A suonare l’ennesima sirena d'allarme è il Rapporto annuale sull'innovazione della Fondazione Cotec. In esso sono raccolti i principali dati pubblici relativi alla "filiera" allargata dell'innovazione, dall'istruzione primaria fino alla bilancia tecnologica. Un Paese meno nevrotico presterebbe la dovuta attenzione ad alcuni di essi. Soprattutto a quelli sulla produzione al capitale umano. Siamo agli ultimi posti (al 28 su 31 nazioni europee) per quota di popolazione tra 25 e 64 anni Con un diploma di istruzione secondaria superiore (50,3% nel 2002 contro una media del 68,9%). Sarà stata colpa dell'arcaica politica dell'istruzione della Prima repubblica? No, perché continuiamo a rimanere al 28 posto anche nella quota di popolazione tra 20 e 24 anni (69,9% nel 2004 contro una media del 76,4%), che avrebbe invece dovuto risentire, in modo più marcato, dei supposti effetti benefici delle politiche "moderniste" dei Governi di destra e sinistra della Seconda repubblica. E i nostri pochi diplomatiche livello di preparazione dimostrano? Molto povera secondo i dati dell'indagine Pisa che vede gli italiani al 18°posto sui Paesi (prima di Grecia, Turchia e Messico) nelle abilità matematiche, di problem solving, scientifiche e di-lettura D'altra parte lo scarso impegno alle materie scientifiche e matematiche lo si riscontra in un altro fenomeno preoccupante. Ai nostri diplomati interessano sempre meno i corsi universitari in scienze, matematica e tecnologia (solo il 23,9% del totale degli iscritti contro una media europea del 26,9% e Paesi come Spagna e Germania con più del 30%). In una nazione di avvocati ed economisti chi si occuperà di ricerca, sviluppo e innovazione? Forse la formazione continua potrebbe supplire a queste carenze di scuole e università? Purtroppo non è così, almeno per quanto riguarda la formazione organizzata o sostenuta da istituzioni pubbliche (che risulta al 6,1%, meno della metà dell’obiettivo europeo del iSex, della forza lavoro). Ci si aspetterebbe allora che un sistema così carente nella produzione del capitale umano costi poco al-, la collettività: Invece la spesa in percentuale del Pil è al 4,74%, non lontana dalla media europea (5,2%), pari a -quella tedesca e con queste risorse ci possiamo permettere un numero di studenti per docente metà di quello inglese e z/3 di quello tèdesco. I dati sulla formazione del capitale umano non hanno unvalore fine a se stesso. Essi rappresentano i "fondamentali" di un sistema che vuole essere innovativo: La correlazione è evidente in tutta l'arca Ocse. Negli Stati Uniti le basse performance nella scuola secondaria (come si evince dall'indagine Pisa che li pone al Y6 ° posto) viene compensata con il brain gain dall'estero nei corsi universitari, post-universitari e nella ricerca. Il nostro invece è un sistema che genera pochi tecnologi e ricercatori, non ne attrae dall'estero e perde anche quelli migliori. Di fronte a questa situazione inpochi Paesi vi sarebbero dubbi su cosa considerare prioritario. Come, kantianamente, sosteneva Karl Popper i dati sono impregnati di teoria. Basta inforcare occhiali ideologici ed essi ci possono dire le cose che vogliamo. Di fronte ai vari rapporti su competitività e. innovazione, come questo della Cotec, i teorici dell"eccezionalismo" continuano a dare una lettura opposta a quella che l'esperienza internazionale indicherebbe: si può essere competitivi anche senza eccellere in formazione, ricerca e innovazione. Basta lavorare bene nelle nicchie del made in Italy. Peccato che esista un dato incontrovertibile che tàglia la testa al toro. È quello della dinamica della produttività che vede l'Italia da molti anni fanalino di coda nell'Ocse. Con aumenti pari allo 0,4% nel zoos (e una perdita di produttività dello o,3°r° all'anno dal 1994 al zoo5 e un lieve recupero nel aoo6) come si può pensare di competere contro una crescita media Ocse alfi,7°r°? Per sfortuna degli "eccezionalisti", non esistono pasti gratis. _________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 apr. ‘07 E FINITA IN UN CASSETTO LA RICERCA EFFETTUATA PER STABILIRE LA PRODUTTIVITÀ DEGLI ATENEI Nell'università italiana serve un segnale forte di cambiamento. L’esercizio di valutazione della ricerca elaborato dal Civr (Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca) e presentato l'anno scorso poteva essere un buon inizio, per avvicinarci agli standard internazionali. Ma che fine ha fatto?». Franco Peracchi, professore di Econometria dell'università di Tor Vergata, è perplesso. Coinvolto nel 2003 nell'elaborazione del primo esercizio di valutazione della ricerca italiana, fa notare che su quell'ambizioso studio, pubblicato nel 2006, «è calato uno strano velo di silenzio». Scopo dell'iniziativa mastodontica, cui hanno collaborato 77 università, 12 enti pubblici e 13 istituti privati di ricerca, era quello di formulare criteri più meritocratici per ripartire i fondi universitari. Il compito di numerosi, autorevolissimi professori chiamati a coordinare oltre 6.600 esperti impegnati a esaminare per due anni migliaia di lavori scientifici pubblicati tra i7 2001 e il 2003, era quello di elaborare uno studio sulla qualità dei nostri atenei e di formulare dei rating in base ai quali assegnare i fondi. Uno studio talmente innovativo da essere diventato «non solo il primo in Italia, ma anche i`1 migliore in Europa per ampiezza e per carattere sistematico della valutazione», secondo Jean-Paul Fitoussi, professore di economia all'istituto di studi politici di Parigi. Fitoussi, coinvolto assieme a Peracchi nel progetto, più specificamente del gruppo di coordinatori che ha esaminato la ricerca nelle facoltà economiche e statistiche, è talmente convinto di quel lavoro da citarlo spesso in Francia come modello. Anche lui esprime oggi l'auspicio «che non venga buttato via. Anche perché contiene osservazioni interessanti. Nel campo dell'economia, ad esempio, è emerso che finalmente la ricerca italiana non è male, non è così debole come si pensava». In secondo luogo, ragiona l'economista, «lo studio del Civr mirava a un obiettivo importante: introdurre criteri meritocratici per assegnare le risorse universitarie». A oggi i trasferimenti agli atenei avvengono soprattutto in base al numero degli iscritti, ma l'obiettivo del lavoro, promosso nel 2003 dall'ex ministro dell'Università, Letizia Moratti, doveva essere quello di legare i trasferimenti alla produttività delle università e dei centri di ricerca. «P, me non interessa chi l'ha promossa - osserva dunque Peracchi - mi interessa che si tratta di una delle migliori iniziative intraprese da un governo negli ultimi quindici anni. E che si ispirava molto semplicemente a un criterio che viene adottato da anni in altri paesi europei. Spero quindi che l'attuale esecutivo non la faccia cadere solo perché si tratta di un'iniziativa di quello precedente». In effetti, di quello studio si sono perse un po' le tracce. Dal ministero dell'Università ricordano che nel frattempo il ministro Fabio Mussi ha promosso l’Anvur, l'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, che ha ricevuto grazie alla scorsa finanziaria una generosa dote iniziale di cinque milioni di euro. Un mese fa è stato approvato il regolamento e nel giro di sei mesi circa, l'agenzia potrebbe essere operativa. Il suo compito, come recita il regolamento, sarà quello di svolgere «attività di valutazione, ivi compresa la stesura del rapporto biennale sullo stato del sistema nazionale delle università e della ricerca, nonché, correlate a queste, attività di accreditamento, di raccolta e analisi di dati, di consulenza, di formazione e promozione culturale». L'Agenzia potrà anche proporre dunque al ministro «parametri di ripartizione per l'allocazione delle quote dei finanziamenti statali alle università e agli enti di ricerca che dipendono dalla qualità dei risultati delle attività svolte». Ma il principio è che sarà il ministro a stabilire ogni anno «una quota non consolidabile» del fondo per l'università che potrà essere distribuito in base a criteri qualitativi. E il resto? Inoltre, visto che il Civr, con un notevole dispendio di soldi ed energie, ha già prodotto un lavoro così esaustivo, perché non utilizzarlo, Moratti o non Moratti? Una prima finanziaria è già passata invano (dal ministero fanno sapere che sono mancati tempo e margini effettivi per applicare quei criteri, causa tagli draconiani ai trasferimenti universitari). Per la prossima finanziaria, visto che la nascitura Agenzia non farà mai in tempo a formulare uno studio equivalente sulla qualità dei nostri atenei, perché non applicare già quelli formulati dall'esercizio di valutazione? Comunque, a scanso di equivoci, dal momento della nomina del consiglio direttivo dell'Agenzia «sono soppressi il Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario e il Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca, e l'Agenzia subentra nei rapporti giuridici in essere dei comitati soppressi». Se la Moratti aveva dunque previsto dopo il primo, un secondo studio del Civr che avrebbe coperto il triennio 2004-2006, appare evidente che grazie (o a causa) della nascitura Agenzia, questo studio non si farà mai. __________________________________________________________ Il Sole24Ore 28 apr. ‘07 ATENEI, COSÌ NON SI CAMBIA UNIVERSITÀ DA RINNOVARE - Dopo un mese sono ancora ferme le procedure per la selezione OPPORTUNITÀ E RESISTENZE dei ricercatori, complice l'attacco della Conferenza dei rettori la strada da percorrere: agire sul reclutamento dei professori delega al ministro favorisce l’adozione di scelte coraggiose Ogni proposta di riforma suscita forti reazioni pregiudiziali di Alessandro Schiesaro Le università sono in fermento. Le nuove (e innovative) procedure per la selezione dei ricercatori, le cui linee essenziali, sono stateanticipatedal5ole- z4Oredelzomarzo,restano ferme al palo quasi un mese dopo il termine stabilito dalla Finanziaria per la loro emanazione,ritardate tra l’altro da un attacco preventivo della Conferenza de irettori (Crui).Allo stesso tempo come ha messo in rilievo la settimana scorsa un duro comunicato della stessa Crui, il quadro finanziario volge al peggio. È utile leggere le due situazioni in parallelo. I rettori segnalano a ragione l'insostenibilità di un meccanismo che prevede aumenti stipendiali decisi centralmente ma ne scarica l’onere sugli atenei. Per il 2007 si tratta di scovare circa 380 milioni in bilanci già penalizzati da vari tagli, e in cui comunque una spesa per il personale pari all'89% del fondo di finanziamento statale lascia ben poco spazio di manovra. I rettori preannunciano che il tracollo è imminente: una reazione prevedibile, ma probabilmente di scarso effetto se disgiunta da un'analisi critica dei problemi strutturali e da qualche disponibilità a porvi rimedio. È ormai chiaro, infatti, che la politica della lesina è frutto di un giudizio severo sul funzionamento delle università condiviso da ampi settori trasversali del mondo politico e imprenditoriale. Per ribaltare questo orientamento è indispensabile un segnale di novità forte per quanto riguarda, prima di tutto, i meccanismi di reclutamento del personale. docente. Ma la proposta preannunciata dal ministero, che prevede un allineamento al1à prassi internazionale,ha subito attiratogli strali della Cnli, che ne contesta la "macchinosità" e perfino la "legittimità". Un'idea dettagliata delle resistenze da superare la fornisce Ferdinando già rettore a Catania, e oggi responsabile università della Margherita, secondo il quale le nuove procedure sono solo un emblema di «demagogia della serietà», e «gravemente lesive dell'autonomia e dell'identità dei gruppi di ricerca esistenti; i revisori italiani e stranieri, cui vengono richiesti pareri pro veritate non altro che "inquisitori". Soprattutto, «viene meno qualunque possibilità di esercitare la funzione di cooptazione». La figura dell’assistente è stata abolita nel 1980, ma l’idea che il giovane docente universitario, piuttosto che un soggetto autonomo della ricerca, sia un collaboratore subordinato da cooptare giudicando per esame la sua "preparazione di base", oltre che, s'immagina, la perfetta compatibilità con le esigenze di chi lo coopta,è evidentemente dura a morire. Questa pervicace resistenza al cambiamento può solo danneggiare un settore che negli ultimi anni ha dato della propria capacità di autogoverno responsabile prove davvero poco convincenti. Anche lasciando da parte gli scandali, restano i numeri a raccontare come sono stati utilizzatigli spazi di autonomia ampliati dalla riforma dei concorsi (1998),l'abolizione degli organici d'ateneo e la nuova architettura del 3+2. In otto anni il numero degli studenti è cresciuto del 6%, quello dei docenti di ruolo del 23%, ma quello degli ordinari addirittura del 48 per cento. La stragrande maggioranza dei40mila nuovi posti da ordinario e associato assegnati tra 1999 e 2005 è andata ai candidati interni. Lo stesso evidentemente accade per i ricercatori, se a fronte di migliaia di "precari" ci sono in media solo 4 concorrenti per ogni posto a concorso, appena due in area medica Sullo sfondo dell'età pensionabile più alta d’Europa e forse del mondo, questa dinamica di allocazione delle risorse, causa non ultima dei dissesto finanziario di cui oggi ci si lamenta, è difficilmente in grado di suscitare le simpatie di contribuenti e governanti Soprattutto se nel frattempo si eludono le sfide sia culturali sia logistiche che l’università deve vincere per tornare a essere il motore del progresso personale e collettivo in un mondo che ha fame di competenze avanzate. Le riforme dei concorsi, in passato, hanno subito tutte la stessa metamorfosi: partivano da ottime intenzioni e mutavano in mostri nei meandri dell'iter parlamentare. Questa volta la delega al ministro è senza vincoli e nulla osta quindi a prendere decisioni coraggiose. Ma le resistenze sono tenaci e si parla di forti pressioni per ridimensionare la carica di novità del provvedimento, magari eliminando del tutto i revisori internazionali (l'italianità!) o riportando la scelta dell'ateneo saldamente nelle mani di micro settori accademici Le conseguenze politiche ma anche economiche di quest'ennesima chiusura corporativa sarebbero gravi Se invece anche i rettori, il Consiglio universitario nazionale, i docenti dimostrassero di non aver paura di cambiare,forse sarebbe più facile mettere l’università e la ricerca al centro degli interessi del Govemo e del Paese. ________________________________________ L’Unione Sarda 3 mag. ’07 ALL’UNIVERSITÀ SERVE UN’ALTRA RIFORMA DI GAETANO DI CHIARA Università è percorsa da una crisi profonda le cui conseguenze sono ormai materia di cronaca, spesso giudiziaria. Ogni giorno leggiamo notizie di inchieste su concorsi a professore universitario, frutto di scambi del tipo ''io faccio vincere il tuo candidato nel mio concorso se tu fai vincere il mio candidato nel tuo concorso'' intendendo per ''mio'' e ''tuo'' quel concorso dove ''io'' e ''tu'' siamo commissari locali. Questi scambi sono il risultato di una riforma perversa, quella Berlinguer, che elevava a tre i vincitori dei concorsi e consentiva all'Università che bandiva il concorso di nominare uno dei componenti la commissione, il “commissario locale”. Questa modalità concorsuale avrebbe dovuto consentire alle Università di scegliere per il meglio in base alle proprie esigenze didattiche e scientifiche. Di fatto si tradusse nella proliferazione dei concorsi e nella promozione di candidati il cui merito principale, se non l'unico, era quello di essere stati 'educati' nell'Università che bandiva il concorso. Ai figli dei commissari locali l'onere e l'onore di vincere in altra sede, lontana da quella dell'illustre genitore, con l'impegno di essere presto richiamati. Come mai negli Usa un meccanismo analogo seleziona i vincitori sulla base di criteri di qualità piuttosto che di potere persona- ' L le? Dove sta il difetto? Nell'autoreferenzialità, il tarlo che sta riducendo in polvere l'Università italiana. L'autoreferenzialità è il risultato della degenerazione del principio di autonomia, per cui ogni Università deve poter scegliere liberamente non solo i propri corsi e professori ma anche i propri organi di governo e persino le leggi che regolano il suo funzionamento. Per il principio di autonomia chi governa l'Università, Rettori in testa, non deve rendere conto allo Stato o a un organismo terzo in grado di valutarne l'operato, ma solo ai suoi elettori, pari tra pari. Il risultato di questa anomalia è sotto gli occhi di tutti: Rettori che modificano lo Statuto convinti che la loro carica non possa sopravvivere a se stessi, cattedratici che ricostituiscono nel Dipartimento il focolare domestico. Non sarà male per l'Università se la durata del mandato degli organi governo fosse fissata da una legge uguale per tutte le sedi. E non sarà che per il bene dell'Università se i finanziamenti statali fossero attribuiti sulla base di criteri internazionali di qualità e non del parere soggettivo di una commissione. Solo così potrà spezzarsi il circolo vizioso dell'autoreferenzialità crearsi quel circolo virtuoso che renderà vantaggiosa per l'Università una scelta di qualità piuttosto che di potere personale. __________________________________________________________ Il Sole24Ore 28 apr. ‘07 RISERVATA AI GIOVANI UNA QUOTA DI CATTEDRE di Marco Demarie E l’università veramente una priorità nazionale? Tutti lo affermano, e questo compariva tra i dodici punti prodiani. Resterebbe ora da costruire il quadro delle politiche dì intervento. L'esperienza mostra che le riforme generali trovano difficoltà ad attuarsi in un sistema afflitto da tante inerzie, difese corporative e complicazioni regolamentari. Abbiamo difficoltà a valutare i cambiamenti di questi anni. in mancanza di un quadro di evidenze e di parametri chiari. Chi sa dire se l'università di oggi sia migliore o peggiore di quella di cinque anni or sono? In parte sì e in parte no. L'urgenza del miglioramento rimane. Si pensi alla demografia del personale docente. In ogni organizzazione il fattore umano è un fattore cruciale di successo, forse il principale. Questo, al di là dell'aneddotica sulla mala università, ci porta a esaminare un dato strutturale e fortemente inerziale tipico di ogni sistema organizzativo: la composizione per età e sesso del suo personale. L'analisi della struttura demografica del corpo docente mostra bene un caso in cui l’effetto congiunto di vari fattori - crisi finanziaria, interessi corporativi, sistemi di reclutamento, bassa competizione - ha portato a risultati assai insoddisfacenti. La demografia dell'università non è tutta la spiegazione, ma certo è largamente causa ed effetto della crisi odierna dell'istituzione. La distribuzione per età e genere dei docenti universitari italiani è invero abbastanza peculiare, ma, in Italia, non troppo sorprendente: sbilanciata per età (verso i più anziani) e per genere (sotto rappresentazione delle donne: ma bisognerebbe distinguere facoltà per facoltà). A dir poco, l'accademia italiana ha dimostrato una fragile fisiologia del ricambio: soltanto 11% degli incardinati ha meno di trent'anni, e quelli fino a quaranta comprendono soltanto il 16,5 del totale. È peraltro la prima generazione di docenti in cui la componente femminile tende alla metà del totale. Ciò non significa che il mondo universitario sia vecchio: quanti sono i giovani che collaborano nelle forme più disparate e precarie - i cosiddetti non strutturati - sia alla didattica sia alla ricerca? Questa linfa precaria mantiene verdi le nostre università, altri-. menti piuttosto canute. Siamo sicuri però che questo assetto promuova la creatività e la produttività che, specie nelle scienze dure, è notorio toccare un picco nella primissima maturità? Siamo sicuri di non sprecare ', talenti? Non si vuole perorare i favore di un , giovanilismo scientifico buono per definizione; siamo inoltre lungi dal pensare che qualche intervento ope legis di integrazione dei precari più o meno giovani sia di per sé opportuno e tanto meno risolutivo. Ma la demografia dell'università merita attenzione politica: il progressivo pensionamento dei docenti più anziani deve essere considerato come un'opportunità di discontinuità nelle prassi di reclutamento a tutto vantaggio dei più giovani. In altre parole, bisogna fare spazio ai ricercatori, anche a scapito - almeno in questa fase -=- del numero di professori di prima e seconda fascia (più di 38mila questi due ultimi gruppi, contro 22mila ricercatori, gennaio 2006. Inoltre tra il 1999 e il2005 gli ordinari sono cresciuti di più di 6mila unità, contro 2,500 ricercatori: effetti della struttura demografica). . Altra misura "straordinaria": riservare una quota a docenti giovani formati all'estero e con esperienza internazionale (qualunque ne sia la nazionalità); o almeno incentivare in modo tangibile il reclutamento di questo tipo di persone. La combinazione di queste due "semplici" misure potrebbe modificare in meglio l'università italiana. Ma si può andare oltre: perché non adattare all'università l'idea di un job sharing di fine/inizio carriera, in cui un professore sopra i 6o anni passi a part-time con il corrispondente ingresso, sempre a part-time, di un giovane trentenne? Non appare una soluzione inadeguata a quella specie di supremo lavoro di bottega artigianale del sapere ché è, o dovrebbe anche essere, l'università. Chissà se singoli atenei, forti della loro autonomia, possono immaginare innovazioni di questo tipo, che servono non solo a garantire lo scambio intergenerazionale, ma a valorizzarlo? mdemonetalf9a.ft RICAMBIO GENERAZIONALE Servono misure straordinarie per non sprecare i talenti: incentivare chi, tra i meno anziani, ha avuto esperienze significative all'estero FORMULE INNOVATIVE Si potrebbe adottare l'idea del job-sharing di fine e inizio carriera: un professore over 60 potrebbe passare al part-time, a vantaggio di un trentenne __________________________________________________________ Europa 27 apr. ‘07 UNIVERSITÀ, MA CON PIÙ, SOLDI COSA CI FATE? GILBERTO CAPANO I rettori delle università italiane hanno lanciato, nuovamente, un urla di dolore. Non poteva essere altrimenti- La condizione finanziaria dell’università è repentinamente peggiorata nel corso degli ultimi anni a fronte di spese crescenti (soprattutto per gli aumenti stipendiali del personale docente e tecnico amministrativo) e della riduzione, di fatto, dei trasferimenti pubblici. Per capirci: per il 2007 il finanziamento pubblico per le università è stato di circa 7 miliardi di euro. Ma tra tagli, mancata copertura dell’inflazione e aumenti stipendiali del personale mancano all'appello circa 1,5 miliardi di euro. Molti atenei, quest’anno, potrebbero non avere le disponibilità per pagare gli aumenti stipendiali ai docenti (che sono un atto dovuto per legge). Brutta situazione, davvero. Ma come è potuto succedere? Credo che per rispondere a questa domanda, entrambi gli attori più importanti della partita, il governo (e la politica) e le università, dovrebbero avere il coraggio di mettersi la mano sulla coscienza per riflettere a fondo sui propri errori e sulla propria ignavia. Cominciamo dalle università. Piaccia o non piaccia, per tanti motivi l’università italiana non è percepita in modo positivo dalla società e dalla politica. La sua immagine sociale è abbastanza screditata (concorsi "truccati, rettori che cambiano lo statuto all’ultimo momento per essere rieletti, poca attenzione agli studenti, poca attenzione alle esigenze socio-economiche, ecc.). Le università sono percepite come istituzioni autoreferenziali, incapaci di governarsi e di allocare in modo efficiente le risorse che hanno a disposizione. Le università non fanno altro che chiedere soldi che, spesso, vengono spesi in modo irresponsabile (o per programmi edilizi faraonici, o per promozioni generalizzate del proprio personale). Queste problematiche, reali, impattano sulla percezione e sulla considerazione che la società e la politica hanno dell’università in modo molto più forte delle tante cose buone che l’università italiana riesce, nonostante tutto, a fare. Nulla le università stanno facendo per invertire questa situazione. Si chiedono solo finanziamenti (certo necessari) senza mettere in campo alcuna proposta concreta per risolvere i tanti problemi strutturali dell’università italiana, senza presentare alcun progetto di utilizzo di questi finanziamenti (i soldi non si spendono solo per assumere ricercatori, ma anche per migliorare i laboratori, per le biblioteche, per i servizi agli studenti, per il supporto alla didattica), Dal canto suo la politica (e i governi) mostra una totale disattenzione rispetto all'università. Si tratta di una disattenzione e di una mancanza di strategie di medio-lungo periodo che hanno la caratteristica di essere bipartisan. Si fanno riforme, anche importanti (come quella del cosiddetto 3+2), senza pensare a governare l’attuazione di queste riforme. Si sono dati finanziamenti cospicui per anni senza chiedere alcunché in cambio. Si blatera di riforme importanti senza avere mai il coraggio di affrontare davvero i nodi da sciogliere: lo status giuridico dei docenti, il sistema di governo degli atenei, il problema della differenziazione tra le università (che non sono tante, in prospettiva comparata, semplicemente non possono essere tutte considerate eguali tra loro), il finanziamento del diritto allo studio per i capaci e meritevoli (che vuol dire anche più risorse alle università oltre che il rispetto di un dettato costituzionale). La politica vede l’università come un fastidio (troppo complicata da gestire e poco significativa dal punto di vista del ritorno elettorale). Non illudiamoci. Come ho già scritto su questo giornale, l’istituzione dell’Agenzia nazionale di valutazione non basterà a far funzionare meglio il sistema. C'è certamente bisogno di dare più denaro alle università, ma bisogna chiedere loro qualcosa in cambio, a seconda delle loro possibilità e capacità (non tutte le università sono uguali), Sarebbe perciò ora di lanciare un vero piano per l’università italiana basato su alcuni punti precisi: una programmazione pluriennale di aumento delle risorse (il tesoretto potrebbe aiutare...); la fissazione di risultati minimali, su didattica e ricerca, differenziati a seconda dei diversi tipi di ateneo, mediante articolati accordi tra ministero e singole università, da raggiungere in cinque anni (bisogna indicare alle università dove debbono "andare"),, la riforma degli assetti di governo delle università (così come sono governate continueranno ad essere autoreferenziali); la riforma dello status giuridico dei docenti universitari che consenta agli atenei di gestire davvero il proprio personale. Che bello sarebbe se fosse la Crui a chiedere un piano di questo tipo. Che bello sarebbe se il governo decidesse di "governare"' finalmente il sistema universitario. La reputazione del mondo accademico in Italia è a livelli bassissimi. Le ragioni Non basta chiedere solo piú finanziamenti __________________________________________________________ Il Giornale 5 mag. ’07 I BARONI ROSSI DI MUSSI Carlo Pelanda piace usare parole. dure contro Mussi perché è uno dei pochissimi che ci crede invece di solo intrallazzare. Ma crede nel comunismo. Fede che lo porta ad usare il burocratismo per risanare il sistema università-ricerca o lo rende sospettabile dì perseguire la strategia di egemonia culturale. Per questo invito l'opposizione a vigilare. Mussi ha appena firmato una proposta di legge finalizzata (...) (...) ad eliminare l'opacità nei concorsi. Da un lato, gli va riconosciuta la volontà di sanare lo scandalo che ha dequalificato il sistema. Dall'altro, potrebbe trasformare il disastro in una catastrofe. La sua legge istituisce dei comitati segreti per assicurare l'oggettività della selezione in base a criteri standardizzati. Vedrete i dettagli nelle cronache. Qui sottolineo, per l'opposizione, due punti da approfondire. La valutazione anonima ed oggettiva si limita ai curricula dei candidati, poi la scelta vera e propria resta nelle mani delle università che hanno indetto il concorso. Tale strana procedura forse ridurrà il numero di parenti cooptabili con pochi titoli scientifici, ma non inciderà certo sulla capacità delle consorterie di facilitare carriere con meriti di fedeltà, spesso politica, più che di capacità, questo lo scandalo più diffuso. Probabilmente Mussi non vuole toccare le baronie universitarie perché al 90% sono rosse e cerca solo di limare la componente familistica dello scandalo stesso. Il comitato segreto è una proposta che nel nostro sistema appare piuttosto inquietante. Se lo nomina una struttura politica chi ne garantisce la serietà vista la densità di comunisti e sindacalisti che si sono insediati, e blindati, sia nelle università sia nel m'rrústero? Notate l'illuminismo mussiano: per dare trasparenza si rende segreta la fonte di luce, comunque rossa. Abbiamo altre soluzioni? Certo, ma tutte implicano la desta,talizzazione della carriera universitaria. In America i dipartimenti universitari assumono chi vogliono in base ad un esame della qualità del candidato in relazione alla coznpetitività del dipartimento stesso. E fanno scelte buone perché gli studenti pagano, le università sono in concorrenza tra loro e nessuna può permettersi di assumere docenti e ricercatori scarsi perché la punizione sarebbe immediata e pesante. Per questo la trasparenza e la qualità va cercata abolendo il valore legale dei titoli di studio - fatto che trasforma le università in burocrazie statali - e rendendo ogni sede universitaria responsabile delle proprie scelte. II punto è far pagare gli studenti, dotando i più poveri della capacità via prestiti retrogarantiti dallo Stato, e rendere più dipendenti le università da finanziamenti di ricerca guadagnati per merito e non per diritto in modo che la selezione concorrenziale possa ottenere l'effetto di qualificazione. Ma lo statalista Mussi non ammette per lirismo ideologico nemmeno di studiare il come applicare in Italia questa migliore soluzione, riproponendo formule di burocratismo ridicolo e sospettabile. Infine, caro Mussi, voi comunisti avete occupato le università per polìtìcizzazle e la riterrò credibile solo quando confesserà questo crimine contro la libertà intellettuale e scientifica. Che mi costrinse a migrare in un'università americana perché non volli vendere l'anima ad un barone rosso. __________________________________________________________ Il Giornale 26 apr. ‘07 ATENEI CONDANNATI ALL'INEFFICIENZA Girogio Vittadini Presidente Fondazione per la Sussidiarietà Alcuni mesi fa i rettori protestarono per la scarsa attenzione dell'Esecutivo al mondo dell'università; in questi ultimi giorni hanno denunciato un taglio ulteriore dei finanziamenti all'istruzione superiore che mette a repentaglio l'andamento della vita quotidiana negli atenei. La notizia è drammatica se si tiene conto che la spesa per l'università era già largamente inferiore a quella degli altri Paesi Ocse e che proprio l'investimento in istruzione superiore è fondamentale per lo sviluppo del Paese. Purtroppo le denunce dei rettori non sembrano essere ascoltate. Coloro che dovrebbero occuparsi di università sembrano molto più interessati ai congressi di partito e una certa parte della stampa, dopo la prima protesta delle autorità accademiche, ha orchestrato virulenti e indiscriminati attacchi contro i professori universitari, rei di ogni possibile nefandezza. Questi stessi soggetti, mentre sbandierano le liberalizzazioni come la panacea per molti settori, ignorano l'avvio di un processo di reale autonomia nell'istruzione superiore che permetterebbe agli atenei di muoversi con maggiore libertà normativa ed avere la possibilità di reperire mezzi dal mondo privato in virtù del valore delle iniziative proposte. Eppure, quando ci si muovo in modo libero i risultati possono essere sorprendenti e confortanti. Un esempio per tutti è dato da una iniziativa dell'Imt Alti Studi di Lucca, Graduate School disegnata per promuovere dottorati per l'innovazione a orientamento applicativo. L'Imt nel novembre 2006, grazie a una donazione esterna di Farmindustria ha aperto una tornata di selezioni nell'area di Economia Mercati Istituzioni. Il bando aveva lo scopo di attrarre giovani ricercatori intorno a un gruppo di professori visiting chiamati a svolgere ricerca, insegnamento e supervisione degli allievi. La qualità richiesta era altissima: i candidati dovevano essere selezionati sul mercato internazionale sulla base delle loro pubblicazioni, del loro inserimento reale in network di ricerca internazionali e dell'esito di un seminario di ricerca tenuto davanti ai professori della facoltà. A fronte di un'incapacità generale dell'Italia di attrarre docenti e studenti stranieri, soprattutto nel campo dell'alta formazione e nei programmi di dottorato, in questo caso la serietà della proposta del lavoro di ricerca, l'adeguatezza delle retribuzioni, il rigore dei criteri di selezione> hanno portato a risultati impressionanti . Un intenso lavoro istruttorio di una commissione internazionale ha portato a selezionare due giovani ricercatori, sulla base di 276 domande provenienti da 151 università. Di queste domande: 120 (43%) provengono da candidati con PhD conseguito in un Paese europeo diverso dall'Italia, 90 (33%) da candidati con PhD ottenuto negli Stati Uniti; 132 (48%) da candidati con PhD avuto in uno dei primi 100 dipartimenti di economia al mondo e 45 (16%) da italiani con PhD estero. Perché questo esempio dell’Imt non può diventare una norma per tutti gli atenei per l'alta formazione e per tutti gli aspetti della vita universitaria? Perché uno Stato senza fondi almeno non deburocratizza la legislazione e non permette agii atenei di muoversi liberamente come grandi realtà autonome non profit, analogamente a quanto avviene nei Paesi anglosassoni? __________________________________________________________ L’Unità 3 mag. ’07 UNIVERSITÀ LIBERE DA DOCENTI GIUNIO LUZZATTO La Corte dei Conti, al momento, ha bloccato i decreti del ministro Mussi che introducevano alcune importanti innovazioni nel sistema didattico universitario: e li ha bloccati proprio perché le introducevano. È una vicenda grave in sé, e che in termini più generali dimostra quanto sia difficile, per le complicità di cui dispongono taluni ambienti accademici, ogni intervento riformatore in questa area. Una prima questione riguarda la proliferazione dei corsi di studio, che globalmente non ha raggiunto quei valori aberranti di cui talora si è detto, ma che in specifici casi è indubbiamente avvenuta. I decreti hanno stabilito che almeno la metà dei crediti previsti per gli insegnamenti di ogni corso (si noti, la metà, non tutti!) devono essere coperti da professori o ricercatori di ruolo; con ciò si evita che manchi al corso il carattere universitario, cioè scientifico, e al contempo si evita che gli atenei esagerino nell'istituire percorsi formativi per T quali non hanno sufficiente docenza. La Corte obietta che il decreto «non dà contezza - sic! - della disomogeneità delle istituzioni universitarie, le quali si distinguono in statali e non statali (comprese le telematiche)». E precisa che per le prime il vincolo va bene, per le altre no; infatti le università «libere» possono coprire gli insegnamenti anche con contratti affidati a professori delle università statali, grazie a un decreto del 1980. Ora, nel quarto di secolo trascorso si è dato corso, in Italia come nel mondo, a una maggiore autonomia delle università, che inevitabilmente implica concorrenzialità; vi sono forse dirigenti tecnici in organico alla Fiat che «a contratto» aiutano lo sviluppo delle vetture Renault? Effettivamente, alcune università hanno cominciato a non dare ai propri docenti l'autorizzazione che è necessaria per insegnare in altri atenei; ma sono ancora casi rari, come è comprensibile visto che gli organismi accademici che dovrebbero negare l'autorizzazione sono composti dai colleghi... La Corte dei Conti dimentica di rilevare che la norma del 1980 precisa comunque che il ricorso a docenti statali può avvenire «in casi particolari ed eccezionali». Ho voluto perciò prendere contezza di questi casi eccezionali. Per comprendere il significato dei numeri che seguono, il lettore ricordi che ogni corso di studio (Laurea o Laurea Specialistica) ha dai venti ai trenta insegnamenti; e che a livello nazionale il numero medio di docenti è all'incirca nove volte superiore a quello (già considerato eccessivo) dei corsi di studio. L'Università Kore di Enna, di recente istituzione, ha un record: con 23 docenti (tra professori e ricercatori) ha attivato 13 corsi di studio. Ma altre, di più antico insediamento, non sono molto lontane; la Lumsa (Maria Santissima Assunta) di Roma ha 20 Corsi con 63 docenti, l'Istituto Suor Benincasa di Napoli con 68 docenti ne ha 19. In entrambi questi atenei 9 dei corsi sono lauree specialistiche, quelle che dovrebbero richiedere un forte contatto con la ricerca scientifica avanzata; e quale contatto può esserci quando il rapporto tra numero di studenti e docenti si colloca tra 117 e 154, mentre il dato nazionale è 28 (ed è già tra i più alti nel quadro europeo)? Se questi sono i casi particolarmente clamorosi, si verifica comunque che la quasi totalità delle università non statali copre con propri docenti una percentuale minima degli insegnamenti. Quanto alle università telematiche, il non vincolarne T corsi a un minimo di docenza sarebbe motivato dal fatto, ovvio, che «non richiedono la tradizionale lezione frontale». È ben noto, invece, che proprio per le loro modalità didattiche richiederebbero una grande interazione, telematica appunto, con docenti; il prototipo storico, la Open University inglese, ha sempre avuto uno staff quantitativamente oltre che qualitativamente di primo ordine. Delle undici telematiche italiane, la «Guglielmo Marconi» ha dieci docenti, la Tel.M.A. uno, le nove altre zero (sì, zero). L'altro tema che cade sotto gli strali della Corte è quello relativo al numero di esami. Si rileva, e nessuno potrebbe obiettare, che vi sono differenze tra diversi tipi di corsi di studio e di insegnamenti; infatti il decreto, a differenza di ipotesi precedentemente formulate, non impone che ogni esame debba riferirsi a un numero minimo di crediti fissato omogeneamente. Si lascia cioè alle università la più ampia possibilità di differenziare insegnamenti più impegnativi ed altri meno, con l'unico vincolo sul totale delle prove: ci si è cioè ricordati che le indicazioni europee, il «processo di Bologna» al quale l'Italia partecipa, raccomandano di passare dalla logica centrata sull'insegnamento a quella centrata sull'apprendimento. Quale solido apprendimento ci può essere in un percorso costellato da un miriade di prove dai contenuti parcellizzati? Le norme prevedono che il ministero replichi alle osservazioni della Corte, e speriamo che le repliche la soddisfino. Ma è anche previsto che, con delibera del governo, i pareri della Corte possano essere superati: se una maggioranza è convinta del proprio riformismo lo dovrà fa Aspettmdo Rahmahillah __________________________________________________________ MF 1 mag. ’07 INNOVAZIONE, AL VIA LA RIFORMA TARGATA BERSANI In un governo che non resterà di certo nella storia repubblicana come uno dei più incisivi, il ministro Bersani si è finora distinto per capacità riformista Ha messo mano alle liberalizzazioni e ridotto gli abusi sui consumatori. Ora sta per varare un'altra riforma importante per la competitività italica la riorganizzazione degli strumenti di finanziamento dei progetti e degli investimenti innovativi. Da anni abbiamo segnalato che i micro finanziamenti pubblici a pioggia per la ricerca sono una forma di inefficienza distributiva. Lo stato fa l'elemosiniere come accadeva ai tempi andati ma ottiene in cambio poco o nulla. Pochi brevetti, di gran lunga al di sotto della media Ocse per mille abitanti, pochi prodotti immateriali, quasi nessuna impresa innovativa capace di portare sui mercati internazionali il risultato dell'attività finanziata dai contribuenti. Insomma, i finanziamenti pubblici alla ricerca sono da decenni una forma non dichiarata di copertura di costi fissi delle imprese private operanti in tutto lo scibile produttivo. Non c'è a monte nessuna scelta sulla necessaria specializzazione di offerta che un paese come l'Italia necessita per essere credibilmente competitiva in pochi settori di punta; nessuna scelta di massa critica di risorse da investire nel progetto; nessuna capacità di agganciare il finanziamento a degli effettivi risultati commerciali conseguiti nei mercati. Finalmente Bersani prende atto che il sistema non funziona e con coraggio si prepara a varare una riforma importante. Guarda oltre i micro finanziamenti clientelari per varare una strategia paese. Nelle prossime settimane uscirà il nuovo bando con le nuove regole del gioco. Le indiscrezioni parlano di importanti novità: i) le risorse saranno concentrate per finanziare poche filiere produttive, meno di dieci; 2) ogni filiera disporrà di una cinquantina di milioni di euro di risorse pubbliche; 3) il team di progetto dovrà avere almeno una multinazionale del settore; 4) dovranno essere dimostrati compiutamente gli impatti degli investimenti sulla competitività a tendere della filiera incentivata. Parrebbe un buon compromesso tra l'inutilità del prima e l'ottima allocazione possibile. Purtroppo per Bersani la mediocrità progettuale del paese rischia di mettere a rischio gli effetti attesi della sua riforma. Le imprese italiane, per quello che si raccoglie informalmente dai lavori preparatori in corso per «spartirsi» la torta Bersani, hanno perso la capacità di visione dì chi sta sulla frontiera del cambiamento. Sono molto capaci a produrre taglia e colla di progetti già triti e ritriti ma poco desiderosi di avventurarsi nella progettazione del nuovo. In questo contesto ci permettiamo di fare una previsione: in autunno quando il dicastero di Bersani riceverà le varie proposte il tasso di innovatività da esse espresso sarà minimo. La grande riforma si trasformerà in una distribuzione sotto altra forma di risorse pubbliche con minima ricaduta prospettica sulla competitività. Cosa fare? Bersani prenda atto che, come la Francia, in Italia non esiste una classe imprenditoriale o manageriale educata all'innovazione come strumento di creazione di valore. Gli anglosassoni hanno questo concetto nel Dna, noi no. Allora non rimane che seguire le orme francesi: scelga il governo, passando per una qualche commissione come ha fatto Chirac, i 7 0 9 temi innovativi più strategici per l'Italia. Su quelli concentri le risorse e metta a gara la loro realizzazione. A questo punto alle imprese non resterà altro che il compito di progettare. E, forse, per la prima volta i soldi pubblici saranno spesi per R&D che crea prodotti immateriali innovativi e commercialmente di successo. Noi, come i francesi, non abbiamo la capacità di produrre Larry Page o Bill Gates. Prendiamone atto e voltiamo definitivamente pagina. __________________________________________________________ Il Sole24Ore 4 mag. ’07 PRIMO STOP AI CONCORSI CON IL TRUCCO Le nuove procedure per il reclutamento dei ricercatori nel provvedimento consegnato dal ministro Fabio Mussi al Cun e alla Conferenza dei rettori di Alessia Tripodi Concorsi locali basati su un mix di valutazione esterna e interna. Sui quali peserà, poi, il giudizio finale dell'Anvur, la neonata agenzia di valutazione dell’università e della ricerca. Sono le nuove procedure per il reclutamento dei ricercatori universitari contenute nello schema di regolamento che ieri il ministro dell’Università, Fabio Mussi, ha inviato al Consiglio universitario nazionale (Cun) e alla Conferenza dei rettori (Crui) per il previsto parere. Secondo le previsioni del ministero, nei prossimi tre anni il provvedimento aprirà le porte delle università a oltre 3.200 giovani. Il dicastero impegnerà a regime fondi per 80 milioni, necessari all'assunzione di 1.600 ricercatori. Ma le nuove norme prevedono l'obbligo per gli atenei di bandire almeno altrettanti 1.600 posti, da far valere sui propri bilanci, e il ministero assicura che in tre anni si potrà arrivare a 4mila nuove assunzioni. «Cambiano le regole dei concorsi - ha spiegato Mussi - perché i candidati saranno valutati da revisori anonimi, alle commissioni interne arriverà solo un quarto di questi candidati e le università si prenderanno la responsabilità di scegliere». Ma il regolamento nasce anche con l'obiettivo di combattere gli episodi di malcostume, come il recente episodio di avance sessuali in cambio di un assegno di ricerca all'università di Bari, contro il quale «il ministero-ha detto Mussi- si è costituito parte civile». La delega per la riforma è contenuta nella Finanziaria, che ha affidato al ministero il compito di riorganizzare il sistema di reclutamento secondo criteri «celeri, trasparenti e allineati agli standard europei». Il provvedimento elaborato da Mussi abolisce le prove scritte e orali e punta alla valutazione della produzione scientifica del candidato, che potrà inoltrare la domanda di partecipazione al concorso direttamente dai siti web del ministero e dell'ateneo. Questa semplificazione aumenterà le possibilità di partecipazione alle sessioni anche di candidati esterni alla sede di concorso, sia italiani che stranieri. Gli aspiranti ricercatori dovranno essere in possesso del titolo di dottore di ricerca-anche se conseguito all'estero -ma saranno ammessi anche gli studiosi che vantano attività di ricerca con contratti o assegni di durata almeno quadriennale. Le sessioni di concorso avranno cadenza semestrale e i bandi dovranno essere emanati dal rettore entro il 31 maggio e il 3o novembre di ogni anno e pubblicati sul sito web dell'ateneo e sulla Gazzetta Ufficiale ' entro il io giugno e ilio dicembre. Il termine per la presentazione delle domande di partecipazione non potrà avere una scadenza inferiore ai 6o giorni dal', la pubblicazione. Le selezioni saranno organizzate per "macro settori" disciplinari, aggregati in base all'affinità: il ministero sta lavorando per ridurre i settori dagli attuali 370 a 100. Se l'utilizzo di internet snellirà le procedure ed eviterà le lungaggini burocratiche fatte di documenti e carte bollate, non meno innovativa risulta la valutazione degli aspiranti ricercatori, che sarà articolata su due livelli, uno esterno è uno interno all'ateneo. Il primo passo è il giudizio di 7 referee, cioè revisori esterni (5 italiani e due stranieri), sorteggiati da liste tenute e aggiornate dall’Anvur. Ma fino all'effettiva operatività dell'Agenzia, tale compito sarà affidato al Civr, il Comitato per la valutazione della ricerca. Ogni referee esprime un proprio giudizio anonimo sul candidato e redige una prima graduatoria, che viene successivamente sottoposta all'esame della commissione interna, formata da 7 docenti di ruolo dell'ateneo che bandisce il concorso, 3 titolari della disciplina interessata e 4 di altre discipline. A questo punto, i Commissari redigono - anche in base ai voti dei revisori esterni - una graduatoria dei candidati, che saranno chiamati a tenere un seminario pubblico. Solo allora si potrà stilare la classifica finale per la scelta del vincitore. Sarà l’Anvur, poi, con cadenza annuale o triennale, a verificare la qualità del reclutamento e, in caso di esito negativo, l'ammontare dello stipendio del ricercatore potrà essere sottratto dal finanziamento dell'ateneo. Dopo i pareri di Cun e Crui, il regolamento passerà all'esame della Corte dei Conti, per giungere in Gazzetta Ufficiale - prevede il ministero - entro la fine di giugno. «Nessuna legge può far diventare onesti i concorsi- dice il sottosegretario all'Università, Luciano Modica - ma questo provvedimento offre agli atenei strumenti per migliorare la qualità del reclutamento». VALUTAZIONE Nella selezione prevarrà il giudizio sulla qualità della produzione scientifica dei candidati __________________________________________________________ Il Sole24Ore 3 mag. ’07 AL MERCATO DELLE MERAVIGLIE La scienza crea idee impreviste. L'impresa le trasforma in prodotti. Ma solo se i ricercatori si raccontano e gli imprenditori li ascoltano DI EZIO ANDRETA S i parla molto d'innovazione, spesso come se fosse una medicina capace di guarire il nostro vecchio continente e in particolare il nostro Paese dai mali gravi che da un certo tempo ne affliggono il sistema economico. Come i farmaci che per produrre gli effetti voluti devono essere utilizzati in funzione di un preciso e chiaro quadro diagnostico, così l'innovazione deve essere usata avendo ben presente le sfide che il mercato pone, gli obiettivi strategici dell'azienda, le capacità di ricerca a cui ricorrere e gli strumenti, inclusi quelli finanziari, da utilizzare. L'innovazione è un processo complesso che necessita di una forte capacità di governance in grado dì coordinare le azioni dei diversi attori che intervengono nello stesso. Innovare vuol dire cambiare e come ogni cambiamento implica incertezza, disagio, difficoltà e quindi rischio. Solo chi ha una visione strategica a lungo termine in cui crede è in grado di rischiare e quindi di intraprendere percorsi nuovi. Si dice che in Italia ci sia una scarsa cultura del rischio. Affermazione abbastanza vera, dovuta principalmente alla scarsa capacità di accoglienza del nuovo, nelle sue diverse forme, da parte della nostra società certamente più chiusa e strutturata di quella americana. Introdurre innovazioni radicali nei prodotti e nei processi è una pratica abbastanza rara. Si preferisce sempre migliorare in moda incrementale ciò che si ha, ciò che si sa fare. Se questo approccio poteva valere ancora un quarto di secolo fa, quando i mercati erano chiusi e protetti da ogni tipo di barriera,oggi non è più valido. Il rischio è di correre dietro alla lepre senza mai raggiungerla. La globalizzazione ha cambiato le logiche privandoci dei punti di riferimento tradizionali, contribuendo a far emergere le contraddizioni del nostro modello economico divenuto sempre meno competitivo e sostenibile. In altre parole non siamo più capaci di produrre a costi competitivi, cioè più bassi di quelli cinesi e indiani, senza generare diseconomie al sistema stesso. Danni ingenti alle persone e alle cose provocati dall'inquinamento industriale e dai numerosi incidenti che avvengono, ormai con troppa frequenza, nei siti di produzione e nei cantieri. Segnali drammatici ma eloquenti del limite raggiunto dal sistema produttivo. Nella Dichiarazione di Lisbona del lontano 2000 si indicava già con chiarezza la possibile soluzione: usare la conoscenza come fattore primario di produzione. Lisbona sottolineava il bisogno di una svolta comportante l'abbandono del modello economico quantitativo, caratterizzato da una produzione di massa di manufatti a basso valore aggiunto e da un eccessivo consumo di risorse, per adottare un nuovo modello basato sulla qualità e sul valore aggiunto dei prodotti. La svolta non è avvenuta, Ora la situazione sembra essere più difficile ed urgente. Gli impegni presi a Kyoto dagli Europei impongono al mondo industriale grossi cambiamenti che risulteranno onerosi e vani se non verranno guidati da una strategia d'innovazione precisa e definita, in grado di accelerare la mutazione del sistema verso l'economia della conoscenza. la tentazione di cambiare il modello di sviluppo di società, acquisito nel tempo, per conservare il modello economico è forte , Soddisfarla sarebbe un errore tragico perché priverebbe i giovani di una chance di futuro., «No laiow ledge no future», uno slogan più che mai appropriato che sottolinea la necessità e l'urgenza di dotare il Paese di un sistema competitivo di ricerca-innovazione in grado dì sostenere lo sforzo delle industrie esistenti verso i nuovi paradigmi di mercato e la nascita di una nuova generazione di imprese a conoscenza intensiva. Sola soluzione capace di offrire condizioni di sviluppo e di nuova occupazione. Questa è la modernità di cui ha bisogno il paese. Indugiare sulla via delle trasformazioni può condurci rapidamente al declino. La competitività e la sostenibilità non sono due sfide alternative e incompatibili ma le caratteristiche di un sistema economico ormai superato e logoro. Di un sistema, come si diceva poco sopra, che ha raggiunto i suoi }imiti. L'innovazione, invocata da tutti ma praticata ancora da pochi, può aiutarci a trovare la soluzione a condizione che si tratti d'innovazione radicale. Di un'innovazione capace di rompere con il sistema precedente sul piano culturale comé nei processi produttivi.Occorre concepire i prodotti non più come beni dì consumo ma come soluzioni ai problemi del consumatore. Prodotti ad alto valore aggiunto capaci di integrare in sè più funzioni e di fornite nel contempo servizi. Un vero e proprio approccio rivoluzionario che implica il cambiamento di tutto il sistema di produzione, dall'organizzazione alle persone, passando per i nuovi modelli di business. Tutto ciò è possibile solo se si sa utilizzare molta conoscenza. Una conoscenza che diventi il traino della nuova industria, capace di fornirle tutte le soluzioni che questa richiede. Una mutazione molto profonda che non riguarda solamente l'industria ma l'intera società. Un percorso lunga die richiederà tempi lunghi e coinvolgerà diverse generazioni. A Lisbona ci siamo illusi di fare più in fretta. Avevamo pensato con ottimismo e forse ingenuità che la realizzazione dello spazio europeo della ricerca avrebbe potuto compiere il miracolo. Il VI' Programma Quadro europeo di ricerca e sviluppo, concepito in questo clima, mirava a eliminare le barriere, il frazionamento e l'isolamento dei sistemi di ricerca europei. La ricerca diventava dunque non più il fine ma il mezzo per integrare risorse, capacità,infrastrutture, permettendo così ai Paesi meno dotati di beneficiare degli investimenti dei Paesi più avanzati e determinati a sostenere la mutazione verso l'economia della conoscenza. In altre parole si riconosce la conoscenza come bene comune su cui fondare lo sviluppo dell'Unione e fare prova di solidarietà. Dei passi in avanti sono stati fatti ma non sufficienti a cambiare la struttura produttiva . Produrre conoscenza avanzata in modo competitivo è un fattore di attrazione ma non ancora di sviluppo. Oggi per essere vincenti bisogna saper trasformare per primi la conoscenza in tecnologia e saperla diffondere in modo capillare nell'intera società. Il VII Programma Quadro riprende questa logica e rimette al centro dell'azione comunitaria la ricerca non più come attività singola ma come sistema. Si mira a creare in altre parole le condizioni per accompagnare la conoscenza al mercato, attribuendo particolare importanza alla produzione di conoscenza di frontiera e ai meccanismi finanziari. La logica è semplice: creare nuova conoscenza per mettere a punto una nuova generazione di tecnologie e di industrie. Non sempre si è consci che le tecnologie che utilizziamo siano ormai tutte più o meno giunte al loro li mite. Lo sforzo per integrarle risolvendo importanti problemi di compatibilità non è sempre conveniente. Può essere troppo costoso e richiedere approcci ingegneristici complicati. Riconcepire i prodotti utilizzando nuovi approcci e nuove tecnologie multifunzionali è certamente più facile e conveniente che intervenire sui prodotti esistenti con tecnologie "vecchie" monofunzionali. 154 miliardi di euro mesi a disposizione dall'Europa possono essere uno stimolo importante ma la scelta di cambiare resta difficile e può essere presa dagli imprenditori solo se esistono le condizioni. Impresa possibile se sostenuta da un sistema ricerca-innovazione costruito su una visione strategica di sviluppo condivisa da tutti gli attori pubblici e privati coinvolti. __________________________________________________________ Il Sole24Ore 24 apr. ‘07 SCIENZE MOTORIE NON ABILITA FISIOTERAPISTI Mai più fisioterapisti per legge. La commissione Cultura della Camera ha licenziato ieri in sede legislativa il provvedimento, che passa al Senato, che abroga l'equipollenza del diploma di laurea in Scienze motorie a quello in Fisioterapia, legata solo alla frequenza di un «corso su paziente». Un premio di fine legislatura nascosto nella legge di conversione a7/aoo6, frutto di un emendamento presentato dal senatore di Forza Italia Giuseppe Firrarello, nato dalla segnalazione della facoltà di Scienze motorie di Catania sull'emergenza disoccupazione dei laureati in Scienze motorie. Già il precedente Governo aveva ammesso che si era trattato di una risposta sbagliata alla pur condivisibile esigenza di assicurare sbocchi professionali ai laureati in Scienze motorie. Si è posto rimedio a una "schizofrenia legislativa" secondo il presidente dell'Associazione italiana fisioterapisti Vincenzo Manigrosso, che rendeva equipollenti percorsi formativi diversi, tanto che alcuni atenei riconoscevano ai laureati in Scienze motorie che si iscrivevano a Fisioterapia solo 19 crediti su 180. «Non è accettabile -spiega il relatore Vito Li Causi (Popolari Udeur) - la sovrapposizione di una posizione sanitaria con una di ambito educativo». Ora è affidato a un decreto dell'Università il riconoscimento dei crediti formativi ai laureati in Scienze motorie, con le modalità del tirocinio per diventare dottore in Fisioterapia. N.Co. __________________________________________________________ Corriere della Sera 29 apr. ‘07 COMUNITÀ MONTANE SENZA MONTAGNE (MA MOLTI SUSSIDI) di SERGIO RIZZO e GIAN ANTONIO STELLA La pianeggiante Comunità montana di Palagiano è unica al mondo: non ha salite, non ha discese e svetta a 39 (trentanove) metri sul mare. Con un cucuzzolo, ai margini del territorio comunale, che troneggia himalaiano a quota 86. Cioè 12 metri meno del campanile di San Marco. Vi chiederete: cosa ci fa una Comunità montana adagiata nella campagna di Taranto piatta come un biliardo? Detta alla bocconiana, l'ente pubblico pugliese ha due «mission». Una è dimostrare che gli amministratori italiani, che già s'erano inventati in Calabria un lago inesistente a Piano della Lacina, possono rivaleggiare in fantasia con l'abate Balthazard che si inventò l’«Isola dei filosofi». Nell'isola non esisteva un governo perché i suoi abitanti non riuscivano a decidere insieme quale fosse «il sistema meno oppressivo e più illuminato». L'altra è distribuire un po' di poltrone. Obiettivo assai più concreto della salvaguardia di un borgo alpino o della sistemazione di una mulattiera appenninica. Certo, le Comunità montane sono solo un pezzetto della grande torta. Ma possono aiutare forse meglio di ogni altra cosa a capire come una certa politica, o meglio la sua caricatura obesa, ingorda e autoreferenziale, sia diventata una Casta e abbia invaso l'intera società italiana. Ponendosi sempre meno l’obiettivo del bene comune e della sana amministrazione per perseguire piuttosto quello di alimentare se stessa. Obiettivo sempre più disperato e irraggiungibile via via che la bulimia ha contagiato tutti: deputati, assessori regionali, sindaci, consiglieri circoscrizionali, assistenti parlamentari, portaborse e reggipanza. Fino a dilagare, nel tentativo di strappare metro per metro nuovi spazi, nelle aziende sanitarie, nelle municipalizzate, nelle società miste, nelle fondazioni, nei giornali, nei festival di canzonette e nei tornei di calcio rionali... Una spirale che non solo fa torto alle migliaia di persone perbene, a destra e a sinistra, che si dedicano alla politica in modo serio e pulito. Ma che è suicida: più potere per fare più soldi, più soldi per prendere più potere e ancora più potere per fare più soldi... Sia chiaro: la montagna, che copre oltre la metà dell'Italia, è una cosa seria. E spezza il cuore vedere gli sterpi inghiottire certe contrade costruite dall'uomo a prezzo di sacrifici immensi, dalla piemontese Bugliaga all'abruzzese Frattura, dalla romagnola Castiglioncello ai tanti borghi calabresi svuotati dall'emigrazione. (...) Ma proprio perché la montagna vera ha bisogno dì essere aiutata, spicca l'indecenza della montagna finta. Artificiale. Clientelare. Costruita a tavolino per dispensare posti di sottogoverno. Divoratrice di risorse sottratte ai paesi che vengono sommersi davvero dalla neve (...). Basti dire che della Comunità montana Murgia Tarantina alla quale appartiene Palagiano (che si adagia in parte a zero metri sul livello dello Jonio lì a due passi), i comuni riconosciuti come solo «parzialmente montani» nel loro stesso sito internet sono 4 e quelli «non montani» 5. E montani? Manco uno. Tanto che l'altitudine media dei 9 municipi è di 213 metri. Una sessantina in meno dell'altitudine del Montestella, la collinetta creata alla periferia di Milano con i detriti. Ma quanto bastava a fondare una struttura con un presidente, 6 assessori, 27 consiglieri, un segretario generale... Pagati rispettivamente, visto che tutti insieme i paesi passano i 100.000 abitanti, quanto il sindaco, gli assessori e i consiglieri d'una città grande come Padova. Chi vuol capire come funziona faccia un salto a Mottola, dov'è la sede, e giri una per una le stanze vuote fino a trovare qualcuno. «Cosa fate, esattamente?». «Cosa vuole che facciamo... Abbiamo pochissimi soldi. Non è che ci sono margini per fare tante cose». «Quindi?». «Qualcosa qua e là... Poca roba». «Ma il bilancio 2006 di quanto è stato?». «Non so... Intorno ai 400.000 euro. Togli gli stipendi, togli le spese...». «Il presidente, per esempio, che fa?». «Gira». «Gira?». «Gira, si dà da fare per cercare di avere dei finanziamenti». «E ne raccoglie?». «Mah...». Tutto merito d'una leggina regionale pugliese del 1999. Che interpretando a modo suo una sentenza della Corte costituzionale si era inventata la possibilità di inserire nelle Comunità anche comuni che non erano montani ma «contermini». Concetto che, di contermine in contermine, potrebbe dilatare una comunità montana dall’Adamello al Polesine. E infatti consentì a quelle pugliesi di sdoppiarsi e ampliarsi fino a diventare 6 per un totale di 63 comuni pur essendo la loro la più piatta delle regioni italiane. Benedetta da contributi erariali che, in rapporto agli ettari di montagna, sono quattordici volte più alti di quelli del Piemonte. Eppure non è solo la Puglia ad aver giocato al piccolo montanaro. L'ha fatto la Campania, che con poco più della metà degli ettari montagnosi della Lombardia ha quasi il doppio dei dipendenti e quasi il triplo dei contributi pro capite. L'ha fatto la Sardegna, che era arrivata ad avere 25 Comunità, alcune delle quali bizzarre. Come quella di Arci Grighine, con paesi definiti nelle carte «totalmente montuosi» come Santa Giusta che, a parte un pezzo del territorio che si innalza all'interno, è sulle rive di uno stagno nella piana di Arborea, da 0 a 10 metri sul livello del mare. O quella di Olbia (Olbia! ) che fino alla primavera del 2007 portava un nome assolutamente strepitoso per una «Comunità montana»: Riviera di Gallura. Portava. Dopo un braccio di ferro con mille interessi locali, riottosi alla chiusura di un rubinetto da 11 milioni di euro, Renato Soru è riuscito a far passar infatti un drastico ridimensionamento: da 25 Comunità a un massimo di 8. Con l'invito ai comuni, semmai, a consorziarsi su alcuni interessi specifici. Una scelta i cui effetti sul risparmio e sulle clientele saranno tutti da vedere. Ma indispensabile. Lo stesso Enrico Borghi, presidente dell'Unione nazionale Comuni, Comunità, Enti montani, sorride: «La definizione di "montagna legale" che ai tempi di Fanfani voleva tutelare i paesi che magari stavano in pianura ma erano poveri come quelli alpini o appenninici, va rivista. Ha presente quei prelati che al venerdì, avendo solo carne, la benedivano dicendo: "Ego te baptizo piscem"? Ecco, da noi c'è chi ha detto: "Ego te baptizo montagnam". Troppi abusi. Col risultato che i 2 miliardi di euro che tra una cosa e l'altra vanno alla montagna sono dispersi spesso dove non ha senso. Diciamolo: almeno un terzo delle Comunità andrebbe chiuso». Viva l'onestà. Ma vale per un mucchio di altri bubboni, grandi e piccoli, gonfiati dalla cattiva politica. Come i consigli circoscrizionali di Palermo, dove i presidenti, contrariamente a centinaia di colleghi di tutta la Penisola che lavorano per rimborsi modestissimi, prendono 4750 euro al mese e hanno l'autoblu. Come certe società miste istituite anche per piazzare amici e trombati quale l’Imast, un consorzio parapubblico fondato dalla Regione Campania, Cnr ed Enea e qualche privato, con 25 consiglieri di amministrazione e un solo dipendente (...). Come l'Unità operativa nucleo barberia di Palazzo Madama dove c'è un figaro (le senatrici hanno un bonus per farsi la messa in piega da coiffeur esterni) ogni 36 senatori, il che, dati i ritmi dei lavori parlamentari, fa pensare a sforbiciate più rare e costose delle uova imperiali di Fabergé. __________________________________________________________ Linero 3 mag. ’07 SOLO I POLLI SONO CAPACI DI DARE SCACCO A DARWIN Risultato di una ricerca scandinava Contro tutte le regole dell'evoluzionismo trasmettono alla proli le esperienze acquisite, specie quando sono in stato di stress ROBERTO MANZOCCO Le teorie di Darwin? Confutate dai polli. Grazie infatti a una serie di esperimenti su questi pennuti alcuni ricercatori norvegesi e svedesi hanno dimostrato che, almeno in alcuni casi, i caratteri acquisiti (cioè le caratteristiche che un essere vivente acquista durante la sua vita, come ad esempio la forza fisica nel caso di un atleta che si allena intensamente e così via) possono essere trasmessi alla prole, fatto che viene invece rigorosamente evitato dall'evoluzionismo darwiniano. Più in particolare la ricerca in questione - diretta da uno studioso dell'università svedese di Linkóping, Per Jensen - ha evidenziato come nel caso dei polli alcune delle caratteristiche acquisite da questi animali in condizione di stress possono essere effettivamente trasmesse geneticamente alle generazioni successive. Prima dell'affermazione definitiva del pensiero di Darwin la biologia era largamente dominata dalle teorie di Lamarck, il noto naturalista francese - vissuto a cavallo tra Settecento e Ottocento - che sosteneva che l'evoluzione fosse il frutto della trasmissione di caratteri acquisiti. Tale idea venne però abbandonata per varie ragioni, tra le quali il fatto che il darwinismo e la genetica moderna riuscivano a spiegare l'origine degli esseri viventi meglio di quanto non facesse il lamarckismo. Ora gli studiosi scandinavi hanno riunito un certo numero di polli d'allevamento e di galli rossi (una specie selvatica - ma addomesticabile - da cui discendono i primi) provenienti da uno zoo locale. A un gruppo di polli e a uno di galli rossi è stato consentito di vivere una vita tranquilla, senza alcun tipo di stress e senza alcun problema per procurarsi il cibo; altri due gruppi - che anche in questo caso riunivano rispettivamente membri della prima e della seconda specie - sono stati invece sottoposti fin dalle prime settimane di vita a condizioni piuttosto stressanti, che consistevano sostanzialmente nell'esporre i volatili in questione a fasi di illuminazione e di oscurità assolutamente irregolari (sconvolgendo così il loro ciclo di sonno e veglia). In seguito tutti sono stati sottoposti a test di memoria (consistenti nel sottoporli alla classica "prova del labirinto" utilizzata con i topi di laboratorio). I galli rossi - che fossero stressati o meno - hanno dato risultati in genere piuttosto positivi (mostrando così come la loro memoria spaziale fosse piuttosto buona e molto resistente allo stress, un fatto di per sé ovvio, se si considera l'estrema necessità che questi animali selvatici hanno di tale facoltà per sopravvivere), mentre gli altri polli stressati hanno fornito performance piuttosto scadenti, segno del fatto che lo stress aveva influito profondamente sulle capacità mnemoniche di questi volatili domestici. Conclusione: test analoghi effettuati da Jensen e colleghi sulla prole dei polli stressati hanno mostrato che essa- sebbene cresciuta in un ambiente confortevole - aveva in qualche modo acquisito le caratteristiche dei genitori; in particolare essa ha dimostrato capacità mnemoniche molto scadenti, così come un alto livello di aggressività (caratteristica tipica degli,; animali sotto stress). Analisi genetiche effettuate sui cervelli dei polli stressati hanno rivelato anche che il funzionamento di molti, geni attivi nel loro sistema nervoso aveva subito delle alterazioni, e che queste ultime erano state trasmesse alla prole (anch'essa sottoposta ad appositi test del Dna). I polli sono in grado di trasmettere alcune caratteristiche acquisite durante la loro esistenza alle generazioni successive. Dai test condotti da studiosi scandinavi è emerso che la prole di polli stressati ha un alto livello di aggressività, caratteristica tipica degli animali sotto stress Olycom ================================================= ________________________________________ La Nuova Sardegna 4 mag. ’07 AZIENDA MISTA NINNI MURRU È IL MANAGER Sanità. Pronto il decreto del presidente della Regione sul direttore dell'azienda mista Ninni Murru è il manager Preside dell'Alberti, ex dirigente di Nuoro e Oristano - Sulla scelta di Renato Soru non risulterebbero critiche Consensi dall'Università e dai politici vicino all'Unione Al Policlinico di Monserrato cresce l'insoddisfazione CAGLIARI. Ninni Murru è il nome del direttore generale dell'azienda mista Regione-Università che compare nel decreto del presidente della giunta regionale Renato Soru scritto materialmente in questi giorni e di varo imminente. La scelta, alla fine, è stata fatta. Come è noto Murru è stato direttore generale dell'Asl di Nuoro fino al 1995, poi ha diretto Oristano e adesso è preside del liceo scientifico cagliaritano Alberti, la scuola resta il suo campo professionale d'origine. Viene presentato come vicino ad Antonello Cabras e gradito a Progetto Sardegna, ma il «colpaccio» sarebbe l'indicazione del suo nome fatta dal rettore dell'ateneo di Cagliari Pasquale Mistretta. Inoltre Murru sarebbe nome apprezzato anche dalla Margherita e poi il suo curriculum di direttore generale nelle Asl testimonierebbe della sua capacità di fare. Che sia abile a mettere d'accordo le persone lo dimostrebbe il consenso giunto da più parti verso la sua nomina. L'università l'avrebbe indicato proprio per le sue capacità diplomatiche, gli altri a vario titolo si sarebbero espressi a suo favore considerando il suo passato di direttore generale. L'azienda mista ha urgente bisogno del manager perché si tratta della figura chiave, l'unica in grado di mettere in moto il macchinone. Dal policlinico di Monserrato arrivano segnali di grande malessere, da quando c'è l'azienda mista, anche se soltanto sul piano formale, l'Università di fatto ha scaricato il problema perché tutto ormai confluirà sul tavolo della direzione generale. Il primo lavoraccio che toccherà al manager è la definizione del profilo aziendale sotto l'aspetto delle necessità: dovrà dire in altre parole che cosa serve per dare vita materiale all'azienda, quindi quanto personale sarà indispensabile e diviso come, quali e quanti dipartimenti dovranno essere creati, come bisognerà suddividere gli insegnamenti, a quale figure toccheranno le direzioni e le vicedirezioni. Ognuna di queste strutture dovrà ricevere la dotazione di personale: quanti vorranno andare nell'azienda mista? Il calcolo andrà fatto in fretta perché se saranno numerose le scelte a favore dell'Asl 8 bisognerà studiare le convenzioni col sistema sanitario regionale affinchè l'ospedalone universitario non resti sguarnito. Insomma, il lavoro non si presenta facile e si sa che gli ospedalieri sono restii al passaggio mentre gli universitari non desiderano certo cambiamenti rispetto alla quantità di cattedre, di insegnamenti e di organizzazione della loro giornata di lavoro. (a. s.) ________________________________________ L’Unione Sarda 28 Apr. ’07 NEBBIE SUL BANDO SISAR LA GARA PER INFORMATIZZARE LA SANITÀ bando sisar La gara per informatizzare la sanità, interpellanza dei capigruppo del centrodestra «Non vorremmo trovarci di fronte ad una vicenda analoga a quella della gara per la pubblicità istituzionale». I capigruppo del centrodestra in Consiglio, Pierpaolo Vargiu (Riformatori), Giorgio La Spisa (Forza Italia), Alberto Randazzo (Udc) e Silvestro Ladu (Fortza Paris), hanno presentato ieri sera un'interpellanza urgente diretta al presidente della Regione e all'assessore regionale alla Sanità sulla gara d'appalto da 20 milioni per l'informatizzazione della sanità sarda. I consiglieri chiedono di «conoscere eventuali atti interni e di avere tutti i dettagli relativi alla gara da 20 milioni di euro per il "sistema dei sistemi" (così viene definito il sistema Sisar all'interno del Programma regionale di sviluppo), che dovrebbe garantire l'informatizzazione della sanità sarda». Nell'interpellanza - prima firma quella di Vargiu - i capigruppo pongono quattro domande. La prima: quale sia il motivo per cui la Regione non si è costituita in giudizio al Tar dopo il ricorso della Engineering Sanità nella gara Medir. La seconda: se esiste un (protocollato) carteggio fra la struttura politica dell'assessorato e la dirigenza amministrativa che abbia come oggetto la gara in esame. La terza: se presidente o assessore conoscono i motivi delle dimissioni di due segretari della gara Sisar, Sanna e Serra. La quarta: se esiste correlazione tra il ruolo che svolgeva Mariano Girau - direttore generale dell'assessorato alla Sanità e presidente delle commissioni di gara Medir e Trp - e il suo allontanamento dalla direzione subito prima che fosse nominato il presidente della commissione per la gara Sisar. Se non venisse fatta immediatamente chiarezza - dicono i capigruppo - «si rischierebbe davvero di alimentare la sensazione che questa Giunta si senta autorizzata a muoversi all'interno di una sorta di zona franca, dove non esiste più nessuna regola». ________________________________________ Giornale di Sardegna 28 Apr. ’07 Sisar. Interpellanza dei capigruppo dell'opposizione: Soru faccia chiarezza Informatizzazione della sanità la Cdl semina dubbi sulla gara q La minoranza chiede tutti gli atti relativi all'assegnazione dell'appalto da 20 milioni Dopo la vicenda della Saatchi & Saatchi e quella del logo promozionale della Sardegna un'altro bando regionale rischia di finire nell'occhio del ciclone. Si tratta delle gara da venti milioni di euro per la realizzazione di quello che viene definito nel Programma regionale di sviluppo varato dalla Giunta di Renato Soru insieme alla Finanziaria regionale il "sistema dei sistemi". Ovvero il Sisar, il sistema che dovrebbe garantire l'informatizzazione dell'intera sanità sarda. IL DUBBIOÈ STATO INSINUATO dai capigruppo dell'opposizione in Consiglio regionale (primo firmatario Pierpaolo Vargiu dei Riformatori sardi) che ieri hanno presentato un'interpellanza urgente al presidente della Regione Renato Sorue all'assessore alla Sanità Nerina Di3 La presidenza della Regione rindin, dando voce a una serie di indiscrezioni circolate nei giorni scorsi nei palazzi regionali. Il riferimento è sempre lo stesso: segretari della commissione di gara che si dimettono, denunce più o meno velate dell'ex dire ttore generale dell'assessorato alla Sanità, voci di corridoio che racconterebbero di aggiudicazioni annunciate già prima dell'assegnazione ufficiale. «Una vicenda che rischia di diventare una nuova buccia di banana per la maggioranza di centrosinistra- sostiene l'opposizione -. Non vorremmo trovarci di fronte ad una vicenda analogaa quella della gar a p e r l a p u b b l i c i t à istituzionale». Per questo i capigruppo della minoranza- così come era successo con la gara sulla pubblicità istituzionale vinta dalla Saatchi & Saatchi chiedono di «conoscere eventuali atti internie di avere tuttii dettagli relativi alla gara da venti milioni di euro (più IVA!) per il "sistema dei sistemi", che dovrebbe garantire l'in fo rm atizzazione della sanità sarda. «Se non venisse fatta immediatamente chiarezza sugli aspetti più inquietanti ed oscuri di questa nuova vicenda - spiegano nell'interpellanza gli esponenti della minoranza - si rischierebbe davvero di alimentare la sensazione che questa Giunta regionale si senta autorizzataa muoversi all'interno di una sorta di zona franca, dove non esiste più nessuna regola perché tuttoè lecito in nome del presunto interesse superiore dei sardi, di cui è depositario soltanto Soru e il suo centrosinistra». ________________________________________ About farma 3 mag. ’07 LA CREAZIONE DELL'HUB UNICO DEL FARMACO NELLA ASL N. 8 DI CAGLIARI Condivisione dei protocolli diagnostico-terapeutici, programmazione del fabbisogno, i approvvigionamento, stoccaggio e distribuzione La strategia logistica. Il progetto di creazione dell'Hub unico del farmaco nella ASL di Cagliari si inserisce nell'ambito di un più generale progetto di razionalizzazione dei percorsi del farmaco in ambiente ospedaliero avviato dalla ASL n. 8 di Cagliari, finalizzato al contenimento dei rischi collegati ai processi clinici di gestione dei farmaci e al miglioramento dell'economicità e dell'efficacia della gestione logistica dell'approvvigionamento, dello stoccaggio e della distribuzione/somministrazione dei prodotti farmaceutici e dei dispositivi medici. Esigenze aziendali e ambiti organizzati vo-gestional i d'impatto del progetto La ricerca di miglioramenti gestionali nell'area della logistica del farmaco passa attraverso la necessità di rivedere alcuni ambiti organizzativo-gestionali d'impatto del progetto di riferimento fortemente integrati e interconnessi, e in particolare: • protocolli diagnostico terapeutici; • programmazione del fabbisogno; • processi di approvvigionamento, stoccaggio e distribuzione. Le modalità di definizione, condivisione e adozione dei protocolli diagnostico-terapeutici La revisione della strategia logistica dell'ASL è orientata - oltre che alle finalità di miglioramento dei processi di approvvigionamento, stoccaggio e distribuzione - anche a liberare le risorse professionali (farmacisti ospedalieri), oggi parzialmente bloccate nella gestione dei magazzini farmaceutici e poco impegnate in attività più legate alla farmacologia clinica (in termini, ad esempio, di indirizzo, consulenza e verifica dell'uso del farmaco a livello ospedaliero), per farle intervenire direttamente nella definizione e nell'aggiornamento continuo dei protocolli di cura dei reparti, passando da una logica di controllo ex posi delle prescrizioni ad una logica di standardizzazione e verifica ex ante. Il farmacista ospedaliero deve rientrare nel processo clinico di gestione dei farmaci, contribuendo alla costruzione dei protocolli attraverso la definizione e la standardizzazione delle modalità di: scelta; approvvigionamento; prescrizione; preparazione; dispensazione; . somministrazione; monitoraggio della somministrazione dei farmaci. Nel controllo del processo clinico di 'gestione' del farmaco risiede il maggior valore aggiunto del nuovo modello, tanto dal punto di vista della qualità delle prestazioni erogate quanto da quello del miglioramento dell'efficienza. Le modalità di programmazione del fabbisogno: logica 'Push' 'Pulì' nell'uso del fattore produttivo farmaco La pianificazione e la programmazione degli obiettivi e delle attività delle UO definisce il fabbisogno di farmaci e dispositivi medici il cui consumo tenderà ad essere determinato ex ante in attuazione degli obiettivi di budget e non rilevato solo a consuntivo. Ciò significa che le UO si doteranno di scorte di breve periodo che consentano di affrontare in sicurezza programmi di attività definiti. | La razionalizzazione nell'utilizzo di farmaci e dispositivi medici passa innanzitutto attraverso una logica per cui è la programmazione dell'attività che determina (logica 'pulì') il consumo di fattori produttivi: deve essere abbandonato il sistema in base al quale le UO vengono dotate di fattori produttivi nell'attesa che si realizzino le attività (logica 'push'). È evidente che tanto minore è la capacità di programmazione delle attività, tanto maggiori e diversificate saranno le scorte da detenere nei reparti per poter operare in condizioni di sicurezza. Le modalità di gestione dei processi di approvvigionamento, stoccaggio e distribuzione La complessità della gestione della logistica dei farmaci e dei dispositivi medici a Cagliari è legata all'articolazione della ASL n. 8, composta da: • 8 presidi ospedalieri a gestione diretta le cui UO sono servite da 7 farmacie ospedaliere; • 75 sedi territoriali, alle quali afferiscono vari servizi, servite da 3 servizi Farmaceutici territoriali. Il modello di approvvigionamento e distribuzione, oggi basato su magazzini decentralizzati interni alle strutture ospedaliere o territoriali, consente di approvvigionare in modo efficace le UO grazie alla creazione di scorte sia a livello di UO sia a livello di magazzino; l'eventuale carenza di prodotto comporta l'emissione di una richiesta alla farmacia ospedaliera o al proprio servizio farmaceutico territoriale di riferimento. Per quanto efficace il modello evidenzia margini di miglioramento sia in termini di efficienza sia di efficacia e di sicurezza legati principalmente a: • la moltiplicazione delle scorte, dovuta al fatto che le singole farmacie ospedaliere, operando in modo indipendente rispetto alle altre, comprano i prodotti necessari per il proprio fabbisogno attraverso acquisti singoli; • la moltiplicazione delle attività, i processi di emissione delle richieste dalle UO, l'emissione degli ordini ai fornitori, i processi di ricezione, stoccaggio, distribuzione e quelli di verifica delle fatture ricevute sono ripetuti per ogni magazzino farmaceutico e non standardizzati; • la mancanza di una gestione unitaria dello stock mette in discussione anche la teorica sicurezza del modello basato sui magazzini decentralizzati in quanto le UO, non avendo la possibilità di conoscere le giacenze negli altri reparti e nelle farmacie, in caso di emergenza possono reagire con efficacia migliorabile. La strategia logistica e l'Hub del farmaco II piano strategico della ASL contempla la creazione di un magazzino unico aziendale per i farmaci e per i dispositivi medici (Hub Unico) secondo un modello di logistica centralizzata corretto con alcuni accorgimenti di delocalizzazione delle scorte, necessari per garantire, in qualunque condizione di urgenza o di emergenza, la sicurezza degli approvvigionamenti. II progetto prevede: • la concentrazione degli attuali magazzini in un unico sito e la strutturazione di punti di stoccaggio di prossimità, coincidenti con le attuali farmacie ospedaliere e con i servizi farmaceutici territoriali; • la gestione centralizzata ed unitaria delle scorte dei materiali in uso presso tutte le strutture afferenti alla ASL attraverso un sistema informativo integrato; • che dall'Hub saranno servite tutte le sedi della ASL, e quindi i presidi ospedalieri e territoriali e gli ambulatori, con attività di distribuzione a carico dell'Hub. Il modello prevede che TUO invii la richiesta di approvvigionamento alla farmacia ospedaliera o al servizio territoriale che la inoltra all'Hub il quale provvede all'invio della mercé all'UO richiedente. Gli ordini ai fornitori vengono attivati solo nel caso in cui l'Hub vada sotto scorta. In questo caso l'Hub emette una proposta d'ordine, valutata dal Nucleo Farmaceutico Centrale, e quindi passata al servizio acquisti per l'emissione dell'ordine al fornitore (si veda Figura 1). Tanto le farmacie ospedaliere quanto le UO detengono, a seconda dell'attività che vi si svolge, delle scorte di sicurezza. Gli obiettivi del nuovo disegno possono essere descritti come: • qualitativi: la puntualità delle consegne e l'affidabilità nella gestione delle scorte e nella loro integrazione, l'identificazione e la tracciabilità dei prodotti, la preparazione del materiale destinato alle UO; • economici, legati ai risparmi derivanti non solo da un minor costo della gestione logistica, ma anche da possibili risparmi sui costi amministrativi; organizzativi, riconducigli alla razionalizzazione e standardizzazione delle procedure e alla possibilità di impiegare al meglio le risorse umane. In base alla programmazione definita dalla ASL la gestione del servizio sarà avviata entro la fine dell'anno 2007 e sarà a regime entro il primo trimestre dell'anno 2008. Beni da centralizzare, strutture, attrezzature, personale, investimenti e costi di gestione In fase di avvio il magazzino unico dovrà gestire i seguenti prodotti oggetto di gestione centralizzata: farmaci, dispositivi medici, soluzioni, materiale diagnostico, alimenti per consumo umano. Al fine di valutare le dimensioni economiche e quantitative relativamente alle categorie di beni citate che verranno gestite nell'ambito dell'Hub, si riporta la Tabella 1 con i valori di alcuni parametri ritenuti significativi. In una seconda fase verranno centralizzati anche i beni non sanitari (cancelleria, materiale per manutenzione, prodotti per convivenza, materiali per raccolta rifiuti) attualmente gestiti in un magazzino economale centrale. In relazione agli spazi attualmente utilizzati per lo stoccaggio dei prodotti si stima che sarà necessaria una struttura di circa 2.000 mq al cui interno dovranno essere riservate due aree per lo svolgimento di attività diretta da parte della ASL 8 di Cagliari, e precisamente: • un locale di circa 100 mq per attività di compounding; • un locale di circa 200 mq per la gestione dei farmaci in dose unitaria. Per quanto concerne la dotazione di personale per la gestione dell'Hub, sono previste le seguenti figure professionali: • responsabile per la gestione del servizio (capo commessa); • responsabile del servizio di prevenzione e protezione; • responsabile della qualità; • magazzinieri; • autisti; • amministrativi; • cali center per consegne e ordini. La figura del farmacista direttore tecnico è parte dell'organizzazione della ASL. Per avere una visione d'insieme degli investimenti e dei costi di gestione (annuali) dell'Hub si riporta in Tabella 2 una sintesi economica delle stime fatte dalla ASL. Distinguiamo così all'interno dell'Hub alcune funzioni tipiche della logistica, accanto ad altre che solo marginalmente possono essere considerate funzioni logistiche ma che, sfruttando l'organizzazione del centro logistico, consentono di realizzare interessanti sinergie e quindi vantaggi economici. Le funzioni tipiche previste per l'Hub Unico del Farmaco di Cagliari sono: 1. ricevimento merci; 2. stoccaggio; 3. predisposizione delle richieste; 4. consegna; 5. gestione degli stock (gestione degli ordini); A queste aggiungiamo, per completare il novero delle attività tipicamente logisti che, a titolo puramente indicativo e non certo esaustivo, altre funzioni non tipiche, che saranno gestite all'interno di questa struttura: gestione del materiale in transito gestione dei resi dalle Unità Operative; gestione dei resi a fornitori; gestione dei prodotti scaduti, richieste di smaltimento o rottamazione; gestione del portafoglio ordini; Accanto alle tipiche attività del centro logistico, si prevede di realizzare alculni servizi di contorno, resi efficienti dalla presenza dell'organizzazione logistica, quali la preparazione di farmaci in Dose Unitaria, i laboratori per le preparazioni galeniche e le nutrizioni parenterali. ____________________________________________________ La Nuova Sardegna 26 Apr. ’07 DIECI ETTARI PER IL NUOVO SUPER OSPEDALE I Comuni dell'hinterland hanno presentato le proposte all'Azienda sanitaria e alla Regione CAGLIARI. Saranno le strade a tirare a sé il nuovo ospedale oppure i numeri delle popolazioni servite o anche l'immediata disponibilità ad avviare il cantiere? Piovono le candidature da parte dei comuni dell'Azienda sanitaria 8 chiamati a indicare un luogo dove costruire l'edificio che sommerà Is Mirrionis, Marino e un pezzo del Binaghi per arrivare a un trauma center super tecnologico. L'Asl ha chiesto proposte per uno spazio con la superficie minima di dieci ettari, con il terreno che abbia le caratteristiche geologiche necessarie per scavare una quantità di seminterrati, altrimenti di più. I comuni della cintura cagliaritana non si sono fatti pregare, le proposte sono cominciate ad arrivare e un comune, addirittura, si candida con sei possibilità. L'area unica la presenta Cagliari: secondo il primo cittadino Emilio Floris resta Is Mirrionis il luogo ideale per un centro con le caratteristiche indicate dall'ipotesi dell'Asl 8. Non era una battuta, insomma, quella lanciata alla conferenza dei sindaci dall'assessore all'urbanistica Giovanni Campus: nel capoluogo la proposta ufficiale resta Is Mirrionis. «Naturalmente - continua l'assessore - siamo aperti a soluzioni diverse, quelle che la Regione riterrà di individuare». E a questo proposito c'è già una piccola e stuzzicante indiscrezione: l'area sulla quale alcuni funzionari pubblici avrebbero messo gli occhi è accanto al Brotzu in una proprietà della famiglia Floris, quella del sindaco di Cagliari. Stile e opportunità vogliono che il primo cittadino del capoluogo si guardi bene anche soltanto dal nominarla, eventualmente, quell'area: lo faranno altri al posto suo togliendolo da un non superabile imbarazzo? Secondo questo partito che risulta essere abbastanza trasversale un ospedale del genere accanto al Brotzu sarebbe «di Cagliari » e di tutta la cintura e contribuirebbe a formare una cittadella sanitaria completa e interaziendale. Secondo altri si tratta di un'ipotesi irrealizzabile anche a causa della dimensione e delle caratteristiche del terreno. Ma si vedrà. Intanto ci sono le proposte di Quartu, Elmas e Sestu. Il terzo comune della Sardegna candida una grande area attorno al vecchio ingresso per la statale 125, le zone che la compongono si chiamano Pirastu, Pardinixeddu, Marcangias e un confine è la statale 554. «Si tratta di aree da espropriare - spiega il sindaco Luigi Ruggeri - e la loro scelta risponde ad alcuni criteri. Quello principale che motiva la candidatura dipende da una considerazione. Nel 1971 l'area vasta, senza Cagliari, contava 134 mila abitanti. Nel 2005, sempre senza il capoluogo, eravamo a 259 mila. Il peso che la popolazione di Quartu aveva nel 1971 era del 16 per cento, nel 2005 aveva raggiunto il 43,8 per cento. L'offerta ospedaliera di 30 anni fa, che è la stessa di oggi - precisa Ruggeri - era basata su uno scenario demografico totalmente inattuale. Gli abitanti della Sardegna sud orientale non hanno un'offerta ospedaliera adeguata e quindi la localizzazione della nuova struttura deve riequilibrare l'offerta. Io chiedo che quando si dice 'di Cagliari', l'ospedale nuovo debba essere inteso come 'dell'area vasta'. Noi proponiamo un'area lungo tre chilometri della 554 che restano però a contatto con la conurbazione. L'ideale infatti è stare verso Quartucciu». Elmas ha presentato la proposta pochi giorni fa. Il sindaco Walter Piscedda spiega che, se uno dei criteri guida nella scelta sarà l'accessibilità, quella indicata dal suo Comune pare «ideale»: si trova alle spalle dell'istituto agrario, lungo la dorsale Casic, è già urbanizzata (acqua, luce, fogne: tutto fatto) ed è un immenso terreno verde pianeggiante con destinazione agricola di proprietà privata e che può subire «senza alcun problema» un cambiamento della classificazione urbanistica. «Si tratta di un terreno a 300 metri dalla statale 131, è sulla strada dell'aeroporto - spiega il sindaco Piscedda - è a due passi dalla 554: nessuno di Cagliari città o provincia incontra problemi ad arrivarci. Inoltre, qui si sta realizzando la stazione per treni, pullman di Arst e bus di Ctm, e la fermata, che sarà a 300 metri dall'aeroporto, sarà servita con i tapis roulant: il progetto è già stato finanziato. Avere l'aeroporto vicino significa disporre di un eliporto e, in linea d'aria, siamo soltanto a un chilometro di distanza dal Brotzu. Infine, stiamo collegando la 131 all'aeroporto». Insomma, tutte le strade porterebbero qui ma il punto sollevato dal sindaco riguarda i criteri: le proposte nascono su ciò che una municipalità può valorizzare quindi, in astratto, tutte vanno bene o nessuna va bene. «Bisognerebbe che Asl e Regione ufficializzassero i criteri», propone il sindaco. Chissà perché non è stato fatto finora è la domanda conseguente, ma la risposta potrebbe essere implicita: prima di chiedere l'impossibile, meglio vedere cosa offre il mercato. Sestu ha presentato sei proposte. Illustra il sindaco Aldo Pili: «Si tratta di sei terreni pianeggianti, al centro di una viabilità molto funzionale. Si trovano lungo la 131, tutti i siti hanno una dimensione di almeno 10 ettari, in tutti sono ammesse le cubature richieste e il contesto viario è tale da consentire il collegamento con Cagliari e la provincia». E le altre municipalità? Risulta che, di candidature, ne siano arrivate complessivamente 7. La ricerca di quella perfetta continua. __________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 Apr. ’07 PRECARI POLICLINICO, NUOVA BEFFA PER LE ASSUNZIONI In programma altre proteste Erano pronti al loro primo giorno di lavoro e invece è arrivata la notizia: «Bisogna aver lavorato almeno 36 mesi in 5 anni per essere assunti». Non finisce l'odissea dei precari del Policlinico di Monserrato che stanno trascorrendo mesi all'addiaccio sotto una tenda davanti alla Regione. Dopo lo sciopero della fame e le catene al collo, ora preannunciano nuove battaglie. «Non hanno mantenuto le promesse - spiegano alcuni degli ausiliari - Saremmo stati assunti grazie al cambio dell'emendamento sulla stabilizzazione del personale secondo la finanziaria regionale. Prima i corsi di formazione e poi la stabilizzazione. Invece ora ci ritroviamo disoccupati. Senza qualifica, a dover competere con il personale qualificato Oss che attualmente gli ospedali stanno assumendo attraverso le agenzie interinali. «È un'ingiustizia - dice Gianfranco Angioni delegato Cisal Università -. Lavoriamo nel mondo della sanità sarda da 10 anni. Alcuni di noi persino da oltre 15 e non ci hanno mai inserito con priorità nelle strutture sanitarie. Per contro ci vediamo superati da personale estraneo alla realtà ospedaliera e anche a quella isolana, visto che spesso arriva dai paesi extraeuropei». Gli ausiliari sono accanto ai pazienti, a tutte le loro esigenze di malati. Dalla camera alla sala operatoria. Sono loro ad occuparsi del riordino delle stanze, di distribuire i pasti, di consegnare e ritirare i farmaci o i referti. Di correre quando un malato suona il campanello per segnalare che qualcosa non funziona. «Senza il nostro lavoro gli ospedali non funzionerebbero e i primi a pagarne lo scotto sarebbero i malati», spiega uno di loro, Andrea Piras, anche lui da mesi senza stipendio. «Devono dare un nome e un volto al direttore generale. Devono darci risposte concrete. Chiediamo che sia stilata una graduatoria per dare ad ognuno di noi quel ruolo giuridico che ci permetterà di avere l'immediato inserimento nel lavoro che ci spetta dopo tutti questi anni». Un ruolo che aspettano anche le famiglie dei giovani precari. «Molti di noi si sono appena sposati, altri hanno dei bimbi piccoli. Senza soldi non possiamo più neanche creare i nostri sogni». Se entro pochi giorni non avranno novità positive sono pronti a rendere itinerante la loro protesta, con soste in tutti i punti dove vive e opera la politica. Beatrice Saddi __________________________________________________________ La Nuova Sardegna 26 Apr. ’07 POLICLINICO: COMITATO ETICO FUORILEGGE? CAGLIARI. La neonata azienda mista Regione-Università ha già un problema da affrontare appena verrà nominato il manager per decreto del presidente della Regione. Un'interpellanza del consigliere regionale del Psd'az, Giuseppe Atzeri, lancia sul tappeto un tema delicato: la presunta parziale irregolarità della composizione del comitato etico. Il nuovo comitato etico è stato nominato con una delibera del direttore generale del policlinico il 15 febbraio 2007 e il consigliere, pur tenendo nel riserbo le identità dei componenti secondo lui, forse, fuori norma, lascia capire quali siano gli elementi di perplessità che la decisione ha sollevato. Una, per esempio, riguarda una possibile incompatibilità di alcuni degli eletti i quali avrebbero fatto parte dell'organismo per almeno altri due mandati precedenti. Un'interpretazione già formulata dall'assessore regionale a proposito di un articolo del decreto ministeriale che regola questa materia andrebbe proprio nel senso di escludere la possibilità che alcuni degli eletti possano restare dove sono. Ecco perciò che il consigliere regionale chiede all' assessore di verificare quale norma sia stata utilizzata dalla direzione del policlinico per ammettere negli eleggibili anche chi aveva già due mandati alle spalle. Secondo il consigliere regionale non dovrebbero far parte del comitato persone «gerarchicamente subordinate all'Università» e questo per ragioni del tutto evidenti (non ci deve essere possibilità di pressioni in chi deve dire sì o no a sperimentazioni di farmaci e quant'altro competa al comitato etico). Poi Atzeri chiede chiarezza nelle entrate e nelle uscite del bilancio del comitato e infine di rieleggere i componenti al «fine di ripristinare la legalità». __________________________________________________________ Italia Oggi 25 Apr. ’07 SERVONO 60 MILA INFERMIERI Assistenza sanitaria a rischio nelle strutture del Ssn Ministero della salute e Ipasvi in campo per risolvere la carenza di professionisti. Pagina a cura di Benedetta P. Pacelli Sono pochi gli infermieri nel nostro paese. E senza un'inversione di tendenza ce ne sarà un numero talmente basso da non riuscire a garantire i bisogni assistenziali del Servizio sanitario nazionale. A lanciare l'allarme e a fare i conti con la carenza di personale infermieristico in Italia è il ministero della salute che ha appena dato il via alla campagna di informazione ´Infermiere protagonista nella vita vera', realizzata in collaborazione con l'Ipasvi-Federazione nazionale collegi infermieri e coi ministeri dell'università e dell'istruzione. Oggi in Italia gli infermieri professionali iscritti all'albo sono circa 340 mila, 5,4 per mille abitanti, contro i 9,8 della Germania, o addirittura i 14,8 dell'Irlanda. Secondo i parametri dell'Ocse, che fissano in 6,9 infermieri per abitante il rapporto ottimale per la regione europea, per soddisfare le esigenze dell'assistenza sanitaria italiana ne occorrerebbero almeno altri 60 mila. Ma la campagna tende a valorizzare in modo diverso la figura dell'infermiere, soprattutto agli occhi delle nuove generazioni, proponendo una scelta formativa e professionale innovativa. Da oltre dieci anni la formazione infermieristica avviene in ambito universitario attraverso la frequenza di un corso di laurea triennale, attivato in 40 università. E se, come fanno sapere dal ministero, le immatricolazioni aumentano (+33,7% negli ultimi 5 anni) il numero degli infermieri che si laureano ogni anno (circa 9 mila) è comunque molto più basso di quelli che vanno in pensione (oltre 13 mila). Per risolvere questa carenza, secondo il ministero, bisogna incentivare i giovani a iscriversi più numerosi ai corsi: molti ragazzi, infatti, non sono sufficientemente informati sulle opportunità che oggi offre la professione infermieristica. Solo l'85,5% dei posti disponibili nei corsi di laurea, infatti, viene occupato. A fronte dei 13.600 posti attuali, l'Ipasvi stima un fabbisogno annuale di almeno 18 mila nuove immatricolazioni. ´C'è una precisa relazione', ha spiegato Annalisa Silvestro presidente nazionale della Federazione Ipasvi, ´tra un numero adeguato di infermieri specializzati e la salute dei cittadini'. Li ha definiti invece degli ´alleati preziosi nella costruzione di una fase nuova del Sistema sanitario nazionale' il ministro della salute Livia Turco, spiegando come il ruolo degli infermieri sia importante anche per costruire un Ssn più ´umano, che non lasci solo nessuno, in nessuna fase della vita'. __________________________________________________________ L’Unione Sarda 24 Apr. ’07 VISITE FISCALI IN CASO DI MALATTIA, GIRO DI VITE PER I LAVORATORI PREVIDENZA Due sentenze della Corte di Cassazione chiariscono i limiti per i dipendenti Lo statuto dei lavoratori prevede la possibilità, per il datore di lavoro, di svolgere accertamenti sulla malattia del dipendente. Questa norma è stata riportata nella legge 683/83 che ha introdotto alcune fasce orarie (dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19 di tutti i giorni compresi i festivi) durante le quali il lavoratore assente per malattia è obbligato alla reperibilità presso il proprio domicilio, per garantire che il medico dell'Inps effettui la visita medica richiesta o dal datore di lavoro oppure dallo stesso Istituto di previdenza. Il lavoratore in caso di assenza ingiustificata presso il proprio domicilio dovrà presentarsi il giorno successivo alla Asl o alla sede Inps competente per territorio per essere sottoposto alla visita di controllo. L'assenza ritenuta non giustificata comporta a seconda dei casi il licenziamento, se il lavoratore non è riuscito a documentare i motivi della sua assenza o la perdita del trattamento di malattia previsto a favore dello stesso lavoratore. Recentemente la Sezione Lavoro della Cassazione ha emanato due importanti sentenze che hanno chiarito definitivamente l'interpretazione della normativa in vigore. Sentenza della Cassazione 6618/2007Se il lavoratore, a prescindere dalla qualifica rivestita, si rifiuta reiteratamente di essere sottoposto a visita medica di accertamento è passibile di licenziamento immediato. L'importante decisione è stata sancita dalla Sezione Lavoro della Cassazione respingendo le richieste di un dipendente che aveva presentato numerosi ricorsi contro le varie sanzioni comminate dai giudici ordinari che avevano deciso per il provvedimento di licenziamento. Il lavoratore si era difeso sostenendo che, in base alla sua qualifica di responsabile, nell'occasione non si era considerato in malattia ma in ferie da lui stesso autorizzate. La Cassazione ha riconosciuto valido il licenziamento per giusta causa non solo per il rifiuto all'accertamento sanitario, ma anche per giustificazioni sostenute dal dipendente. Sentenza della Cassazione 3921 del 20/02/2007In base ad una normativa non chiara, spesso un lavoratore assente per malattia poteva non essere presente ad una eventuale visita di controllo, nel caso in cui avesse poi dimostrato che la sua assenza era dovuta al fatto di essersi recato a visita medica specialistica. Di diverso avviso è stata la Corte di cassazione che, riferendosi alle norme vigenti su quell'argomento, ha sentenziato che la giustificazione addotta in simili casi non è sufficiente. Perché il dipendente possa venir "assolto" per la sua assenza e quindi non debba perdere il trattamento economico di malattia, è necessario quindi che lo stesso lavoratore dimostri l'impossibilità di effettuare la visita medica in orario diverso dalle fasce orarie di reperibilità. In pratica, il lavoratore risultato assente dovrà dimostrare di non essere stato in grado di fissare la visita medica al di fuori delle fasce di reperibilità. Se così non avverrà il dipendente perderà il trattamento economico di malattia previsto dalla legge e, se recidivo, potrà anche essere licenziato. Le due importanti sentenze della Cassazione hanno inevitabilmente messo in allarme quei lavoratori ai quali in un primo momento era stato riconosciuto il mantenimento del posto di lavoro e la riscossione dell'indennità di malattia. L'ultimo grado di giudizio invece ha cancellato ogni possibilità di considerare ancora validi i vecchi pr ________________________________________ La Nuova Sardegna 21 Apr. ’07 ERRORE DEL MEDICO, COLPA DEL SISTEMA Lezione magistrale di James Reason studioso dei grandi incidenti SABRINA ZEDDA CAGLIARI. Errare è umano, ma in sistemi "complessi" come la sanità spesso l'errore non è colpa di uno solo: nell'ottanta per cento dei casi lo sbaglio è imputabile all'intero sistema. A questa conclusione, per molti rivoluzionaria, è arrivato James Reason, il luminare, professore emerito di Psicologia all'Università di Manchester, vero protagonista ieri di "Errore umano, professione medica, responsabilità", convegno organizzato in un hotel cittadino dalla Federazione nazionale e da quella regionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri, per riflettere sulle cause dei fattacci che anche negli ultimi tempi hanno riempito le cronache. Per spiegare la sua tesi - pubblicata nell'ormai suo celebre libro "Human error"- Reason fa l'esempio del formaggio: «In un mondo ideale - dice - il formaggio sarebbe senza buchi, ma nella realtà siamo circondati da fette di formaggio con i buchi». Un modo per dire che il pericolo (in questo caso l'errore) è sempre in agguato e che «quando le forze del fato» si mettono di traverso, ecco che si verifica l'incidente. Il vero problema per Reason non è però stabilire chi sia il colpevole («è ingiusto e non aiuterebbe neppure a capire sino il fondo la questione») ma guardare il formaggio con i buchi «prima che questi creino la traiettoria dell'errore». Tradotto nella pratica medica ci si potrebbe chiedere ad esempio: l'incidente causato dalle pinze nella pancia si poteva evitare? Cosa non ha funzionato? E se il medico ha operato il paziente alla gamba sbagliata cosa l'ha portato a questo? Facile, detto così. Più difficile da mettere in pratica anche perché, sottolinea James Reason, «la maggior parte degli incidenti si verificano in una finestra d'opportunità brevissima». Ecco allora che aboliti alcuni falsi miti («non è vero che l'errore è sempre ingiusto perché prevedibile o che chi sbaglia è cattivo», ammonisce Reason) bisogna pensare a quella che è la cosa più importante: verificare le situazioni che portano agli errori e capire qual è la linea di separazione tra «errori onesti, fatti cioè senza intenzione, e non». Ovviamente il problema non si risolve qui perché in mezzo a questa linea di separazione c'è una zona grigia difficile da definire. Nel Regno Unito ci hanno provato: Reason racconta dell'adozione d'un documento pensato per aiutare i manager sanitari a destreggiarsi meglio, e della possibilità di confrontarsi con i gruppi di pari in modo da capire «cosa è accettabile e cosa no». La lezione di Reason in Italia è stata accolta a braccia aperte: «La vera rivoluzione - dice Amedeo Bianco, presidente della Federazione nazionale ordini dei medici - è aver capito che sono i professionisti migliori a commettere errori». Questo significa che, prosegue Bianco, «la radice del problema non sta nelle persone ma nelle organizzazioni». Bisogna quindi progettare sistemi sicuri, è la conclusione di Bianco. D'accordo con lui è il presidente dell'Ordine dei medici della provincia di Cagliari, Raimondo Ibba che dopo aver rilevato come in Sardegna l'errore umano scende dal 20 al 10 per cento (in Italia le cause pendenti per fatti legati a malasanità sono venti mila) osserva come nel comparto della sanità «la gestione è spesso affidata a chi non conosce il sistema». La situazione potrebbe cambiare migliorando l'organizzazione nel suo complesso «ma ciò richiede investimenti in questa direzione», aggiunge Ibba. Il simposio, che ha richiamato medici da tutto lo Stivale, è proseguito con una tavola rotonda cui ha partecipato, tra gli altri, l'assessore regionale alla Sanità, Nerina Dirindin. ________________________________________ Il Giornale di Sardegna 21 Apr. ’07 I MEDICI SI DIFENDONO «L'80% DEGLI ERRORI NON È COLPA NOSTRA» q Il luminare: «Basta con la cultura della punizione: bisogna ripartire dalla fiducia» Basta con la cultura della punizione del medico che sbaglia: si deve tracciare una linea netta tra i comportamenti che sono accettabili,e non punibili, e quelli che invece devono avere delle conseguenze. Un pensiero nuovo quello presentato dal docente di psicologia dell'Università di Machester James Reason al convegno "Errore umano, professione medica, responsabilità". Teoria innovativa ma subito condivisa dai camici bianchi. Secondo lo studioso infatti, l'80% degli errori dipende dalla complessità dei sistemi in cui ci si trovaa lavorare,e solo il 20% è colpa dell'uomo. UN ESEMPIO? Un farmaco viene somministrato nella maniera sbagliata perché ha un'e tichetta troppo similea quella di un altro. «Ci sono degli errori non punibili- ha affermato Reason-e si deve ripartire dalla fiducia, promuovendo la cultura della comunicazione degli incidenti che possono verificarsi. Perché se non si ha paura delle conseguenze è più facile poter dire gli sbagli che si commettono o si stanno per commettere». Quindi si deve ripartire dalla ricerca delle cause che hanno determinato l'errore. E molte responsabilità, in campo medico, secondo i presidenti dell'Ordine delle province di Cagliari, Oristano, Sassari e Nuoro, sono da ricercarsi proprio nella complessità del sistema sanitario . Mentre i dottori diventano gli unici capri espiatori. Infatti, attualmente in Italia si contano ben 20mila cause di risarcimento - per presunte colpe - che pendono sulle teste dei camici bianchi. Anche se, ha precisato il presidente dell'ordine di Cagliari Mondino Ibba, «il 70% dei procedimenti penalia carico dei medici si conclude con l'assoluzione perché il fatto non sussiste. Spesso l'errore dipende dall'organizzazione dei sistemi in cui l'uomo opera. Se le risorse destinate alla sicurezza sono insufficienti non si possono raggiungere i risultati auspicati». In linea col pensiero di Reason, i camici bianchi sono pronti ad iniziare un nuovo percorso, dove si puntia cercare le cause degli errori e a porre dei correttivi. Mentre il modello seguito fino a oggi punta solo a individuare il colpevole. 3 Una sala operatoria Alessandra Loche cagliari@epoli s.sm ________________________________________ Italia Oggi 1 mag. ’07 OK ALLA CANNABIS TERAPEUTICA Si AI TRATTAMENTI TRAMITE IMPORTAZIONE DALL'ESTERO Decreto del ministero della salute inserisce i derivati nella tabella dei farmaci. Silvana Saturno Più facile l'ingresso in Italia dei medicinali derivati dalla cannabis per la cura del dolore e della sclerosi multipla. I medici che vorranno trattare i propri pazienti con la cannabis terapeutica potranno farlo subito più tranquillamente, salva la richiesta (per ora) di importazione dei prodotti dall'estero. Un decreto del ministero della salute del 18 aprile, infatti, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 98 di sabato scorso, inserisce ufficialmente negli elenchi dei farmaci (tabella II, sezione B) allegati al Testo unico stupefacenti (dpr n. 309/90) tre sostanze derivate dalla cannabis: il delta-9- tetraidrocannabinolo, il trans-delta-9-tetraidrocannabinolo (dronabinol) e il Nabilone. Una modifica amministrativa che, spiega una nota presente sul sito internet dello stesso ministero, ´rende possibile utilizzare i medicinali derivati dalla cannabis nella terapia farmacologica e crea le basi normative per rendere possibile l'immissione nel mercato italiano di tali medicinali'. Nella nota si ricorda l'onere per i medici di chiedere l'importazione perché al momento le sostanze non sono reperibili nelle farmacie aperte al pubblico. Tabelle stupefacenti al restyling. Il decreto del 18 aprile, firmato da Livia Turco, modifica le tabelle al T.u. sulle droghe anche in altri punti. Sempre per facilitare la cura del dolore, ci sono novità nella parte sulla prescrizione di analgesici oppiacei: la sostituzione di una nota (tabella II, sezione A) mira a eliminare alcuni dubbi interpretativi: ´Adesso è chiaro', si legge sul sito del minsalute, ´che gli analgesici oppiacei possono essere prescritti per il trattamento del dolore severo indipendentemente dalla sua natura (dolore conseguente a tumori, a traumi, a fratture, a interventi chirurgici, a coliche ecc.)'. La soppressione di un'altra nota (tabella II, sezione D) ´rende possibile la prescrizione dei medicinali con analgesici oppiacei in associazione con altri principi attivi non stupefacenti (per esempio, composizioni medicinali a base di codeina e paracetamolo) con ricetta da rinnovarsi volta per volta o con normale ricetta del Ssn anche quando impiegati nel trattamento del dolore conseguente a tumori'. Un'altra modifica fornisce ai farmacisti indicazioni sul tipo di ricetta necessaria alla preparazione dei medicinali galenici. Decreti ministeriali e norme di legge. Il decreto Turco di aggiornamento e completamento delle tabelle-stupefacenti anticipa, a livello amministrativo, quanto mira a realizzare analogo disegno di legge che ha ricevuto il sì del consiglio dei ministri il 19 ottobre 2006 (si veda ItaliaOggi del 20 ottobre 2006 e del 31 gennaio 2007): il ddl, recante ´misure di semplificazione degli adempimenti amministrativi connessi alla tutela della salute e altri interventi in materia sanitaria' (As 1249) è attualmente in commissione igiene e sanità al senato. L'articolo 7 del ddl contiene appunto norme per semplificare l'accesso alla cannabis terapeutica e il comma 9 dello stesso articolo prevede proprio la modifica delle tabelle stupefacenti con l'inserimento di alcuni derivati della cannabis nella tabellafarmaci. Questa anticipazione dei tempi, conviene però ricordare, riporta a quanto avvenuto, sempre in materia di cannabis, con decreto minsalute del 4 agosto 2006: con questo dm erano state raddoppiate le dosi che potevano essere detenute senza rischi penali (da 500 mg a 1000). In quel caso, però, il Tar Lazio non ha apprezzato la ´tempestività ministeriale': il provvedimento è stato annullato con sentenza 2487/07 perché andato oltre la ´discrezionalità tecnica' consentita. __________________________________________________________ Panorama 10 mag. ’07 NEL CIRCOLO VIZIOSO DI POVERTÀ E INFEZIONE AIDS E BAMBINI Per evitare il contagio da madre a figlio sarebbe meglio il latte in formula. Ma bisogna fare i conti con le condizioni igienico-sanitarie. di Gianna Milano Se una madre è sieropositiva, il rischio che allattando al seno trasmetta al figlio l'hiv, il virus dell'aids, è significativo e più di una ricerca lo ha evidenziato. Per questo le raccomandazioni dell'Oms, nel 2000, conclusero che «nei casi in cui il latte in formula è accessibile, sostenibile e sicuro, è meglio che le madri infette non allattino». Ma su questo gli scienziati si sono divisi. Nel frattempo si era visto che farmaci antiretrovirali a basso costo come la nevirapina (una sola dose alla madre all'inizio del travaglio e l'altra al bambino entro 72 ore dalla nascita) dimezzavano il rischio di trasmettere l’infezione al momento dei parto. «Un rischio di cui si deve tener conto, ma che va soppesato con altri vantaggi come le proprietà antinfettive e nutrizionali del latte materno. E la possibilità che in condizioni igieniche precarie, come succede in comunità non urbane, il latte in formula esponga al pericolo di diarrea, come pure a malnutrizione» scrive Nigel Rollins sul Bnztirh O-ledrcalJortrnal. Sulle alternative all'allattamento al seno si è tornati all'ultima Conferenza su retrovirus e infezioni opportunistiche a Los Angeles, dove sono stati illustrati i dati drammatici di due studi in Botswana. «In questo stato africano il governo consiglia alle madri sieropositive, senza distinguere tra situazioni più o meno opportune come vuole l’Oms, di optare per il latte in formula. Circa due terzi delle donne lo fanno e il governo lo distribuisce gratis» riferisce Jon Cohen su Science. Strategia che però non ha dato i risultati sperati, anzi. Nel primo studio, nei bambini esposti al virus, nutriti con latte in formula, i decessi per diarrea e malnutrizione sono stati Il doppio rispetto a quelli allattati al seno. Il secondo studio, condotto dai Cdc di Atlanta, ha monitorato da gennaio a marzo 2006 un'epidemia di diarrea e malnutrizione, registrando 470 decessi nei bambini rispetto ai 21 dell'anno prima. Che la madre o il piccolo fossero infetti con hiv non aveva influito su quelle morti. «Il dilemma non è allattare oppure no al seno. Quando si tratta di salvare vite di intere popolazioni, il discorso cambia. È un problema più complesso di salute pubblica, di condizioni igienico sanitarie, di accesso ai farmaci in cui il fatto di non trasmettere l’hiv è un obiettivo importante ma non può prescindere dal valutare le condizioni e possibilità di ciascun contesto reale e non solo teorico» conclude Maurizio Bonati, responsabile per la salute materno-infantile all'Istituto Mario Negri di Milano. __________________________________________________________ Libero 29 apr. ‘07 NEL MONDO 400 MILIONI DI PERSONE SI CURANO CON L'OMEOPATIA L'omeopatia nell'occhio del ciclone. L'accusa è sempre la stessa: non ci sono prove scientifiche sulla sua efficacia. Eppure l'omeopatia è presente come cura da oltre 200 anni ed è totalmente sicura. L'omeopatia non rappresenta neanche l’1% del mercato farmaceutico. I medici che oggi prescrivono prodotti omeopatici sono 20 mila in Italia e 400 mila nel mondo. I pazienti che ricorrono a questi medicinali sono 11 milioni nel nostro Paese e 400 milioni nel resto del pianeta. Ritaglio stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproducibile. __________________________________________________________ MD Medicinae Doctor 11 apr. ‘07 PREVENZIONE DEL CA PROSTATICO: PUNTUALIAAZIONE DALLA MEDICINA GENERALE Associazioni della medicina generale, in un documento congiunto, espongono le loro perplessità e criticano il messaggio che ha caratterizzato la "Settimana Nazionale di Prevenzione del Tumore della Prostata - Festa del Papà 2007" organizzata dalla World Foundation of Urology con l'appoggio delle massime istituzioni italiane L a "Settimana Nazionale di Prevenzione del Tumore della Prostata - Festa del Papà 2007" organizzata dalla Worid Foundation of Urology (una Onlus con sede in Italia) con l'Alto Patrocinio della Presidenza della Repubblica, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del ministero della Salute, e del ministero dell'Università e della Ricerca, merita un giudizio fortemente critico. Ancora una volta si trasmette al pubblico una informazione omissiva su limiti, rischi e incertezze di uno screening ancora in corso di valutazione scientifica, su cui la comunità medica internazionale è divisa per la mancanza di conoscenze ragionevolmente sicure sull'efficacia e il rapporto beneficio- rischio. Non è accettabile una promozione dello screening dei tumori prostatici dichiarandone solo gli aspetti positivi e sottacendo invece le importanti conseguenze negative dell'intervento di prostatectomia (come incontinenza urinaria e impotenza) e l'elevato numero di soggetti che non si gioverebbero comunque dell'anticipo diagnostico. Le preoccupazioni Siamo molto preoccupati di come e quanto la decisione di sottoporsi all'esame del PSA sia sempre più banalizzata da una intensa e incontrastata propaganda mediatica, che impedisce un giudizio equilibrato e spinge a sottoporsi a test preventivi anche persone che altrimenti non lo farebbero. Non è mai stato provato che la diagnosi precoce di tumore della prostata sia efficace nel ridurre la mortalità per la malattia, mentre numerosi dati evidenziano un rischio importante di diagnosticare e quindi trattare soggetti che non avrebbero mai sviluppato clinicamente la malattia, o che sarebbero comunque deceduti per altre cause, considerata la frequenza di forme non evolutive del tumore, la sua lunga storia naturale e la prevalenza in età avanzate. Laddove lo screening è diffuso, come negli USA, si è assistito a un incremento esponenziale di diagnosi di tumore della prostata e di prostatectomie, senza che sia stata documentata alcuna riduzione di mortalità a distanza di oltre 20 anni dalla scoperta del PSA. In queste condizioni è lecito sostenere tanto l'opinione che lo screening sia raccomandabile quanto il contrario; ciò che non è lecito è non esplicitare le incertezze e omettere informazioni rilevanti nel determinare - come inevitabilmente avverrebbe - scelte differenti tra diversi soggetti. Tutto ciò che può influenzare l'autonoma decisione individuale è essenziale per la qualità dell'informazione. Lo screening del tumore della prostata (mediante dosaggio del PSA e altri esami) è una scelta personale difficile, che va presa dopo averne discusso opportunità, limiti e rischi con un medico di fiducia (non necessariamente urologo: il medico di medicina generale è anzi il naturale riferimento e può ben essere il unico). La novità di questa campagna, rispetto a infinite altre iniziative analoghe, è data dall'autorevolezza dei suoi sostenitori. Stupisce la contraddizione con il documento prodotto dalla Consensus Conference di Firenze del 2003 (sottoscritto da moltissime Società scientifiche italiane tra cui tutte quelle della medicina generale), con la posizione del Consiglio Nazionale delle Ricerche del 2004, con quanto afferma il Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie (CCM) del Ministero della Salute (addirittura in una pagina web dedicata alla formazione continua dei medici) e con le linee guida internazionali. La domanda che sorge spontanea ai medici di medicina generale, quotidianamente a contatto con milioni di persone, è perciò molto semplice: che genere di informazione al pubblico, su fatti di salute, le istituzioni democratiche del nostro Paese intendono dare e sostenere? È o no un diritto delle persone essere informate correttamente e compiutamente dai medici, per poter effettuare delle libere scelte sulla propria salute, tanto più in condizioni di incertezza del rapporto beneficio-rischio? Queste domande valgono sempre e per ogni intervento medico, ma impongono altissimo rigore e cautela quando si propongono interventi a persone sane e asintomatiche, che non ne hanno fatto richiesta. 46 Le società scientifiche firmatarie AIMEF(Associazione Italiana Medici di Famiglia),ASSIMEFAC (Associazione Scientifica Jnferdisciptinare di Medicina di Famiglia e di Comunild); CSeRMEG (Centro Studi e Ricerche in Medicina Generale); EGPRN- Rafia (European G~ral PWice Research Network); EURACTltalia (European Arademy ol Teachers in Generdl Practice); EURIPA-ltalia (European Rural and lsolated PractifionersAssociation) EUROPREY Iblia (European Network IorPrewntion and hd'alUr Promotion in FamilyMedicine and General Practice); SAMG (Società Altoatesina di Medicina Generale); SIQuAS (Società llaliana perla Qualità dellAssistenza Sanilada- VRQ). __________________________________________________________ Libero 4 mag. ’07 C'È UNA FORMULA PER VIVERE DI PIÙ 5+3+3=11: senza fumo l'esistenza si allunga di 5 anni, di 3 con sport e frutta e verdura GIANLUCAGRO551 E Una formula per campare almeno il anni in più della norma: 5+3+3=11. È il risultato di uno studio compiuto da esperti dell'università di Cambridge, i quali hanno intervistato e seguito dal 1993 a oggi più di 25 mila persone dai 45 ai 79 anni. Dalla formula, in pratica, risulta che senza sigarette si campa in media 5 anni in più e, analogamente, si vive 3 anni in più della norma se si compie una discreta attività fisica e se si mangia tutti i giorni frutta e verdura. Ma gli anni di vita in più potrebbero ulteriormente aumentare seguendo altri consigli utili suggeriti da dieci scienziati italiani nell'ultimo numero di OkSalute. Secondo Luigi Strambi, del San Raffaele di Milano, dovremmo dormire a pancia in giù e con un cuscino che tenga leggermente rialzata la testa. In questo modo evitiamo le apnee notturne, che predispongono a difficoltà respiratorie e disturbi cardiocircolatori: chi ne soffre corre un rischio 3 volte maggiore di essere colpito da infarto o ictus. Giuseppe Remuzzi, dell'Istituto Mario Negri di Bergamo, sostiene che si possano guadagnare anni di vita dimezzando le calorie introdotte ogni giorno. Lo scienziato cita un esperimento in cui, alcuni topi messi a stecchetto, campavano il30% in più di altri lasciati liberi di abbuffarsi. Giovanni Scapagnini, dell'università degli studi del Molise, punta sul test del genoma. Lo scopo è quello di elaborare una dieta personale sulla base delle malattie alle quali siamo geneticamente predisposti. Per esempio, chi presenta geni legati all'insorgenza dell'Alzheimer, dovrà assumere porzioni supplementari di curcuma, spezia che contiene sostanze naturali per rafforzare la memoria. Paolo Beck Peccoz, del Policlinico di Milano, suggerisce di fare tutti i giorni un po' di moto, anche mentre si sta facendo altro. Esempio? Guardare la tv e fare ginnastica su una cyclette. Gianluca Romani, della Fondazione università di Chieti, dice di mantenere allenato il cervello cercando, ad esempio, di fare i calcoli a mente, senza l'ausilio della calcolatrice. Andrea Cossarizza, dell'università di Modena, spiega che il nostro corpo ha soprattutto bisogno di antiossidanti per tenere sotto controllo i radicali liberi, e quindi combattere virus, allergie, e addirittura i tumori. È utile, in questo caso, mangiare una mela e bere un bicchiere di vino rosso al giorno. Alberto Vito, dell'Ospedale Cotugno di Napoli, è convinto che dedicarsi al volontariato possa fare altrettanto bene alla nostra potenziale longevità, così come il fatto di poter contare su una famiglia unita e serena. L'esperienza con i sieropositivi non lascia dubbi: i malati che fanno volontariato hanno un'aspettativa di vita mediamente più alta degli altri. Secondo Anna Amoldi, dell'università di Milano, a tavola dovremmo consumare più vegetali come la soia e il lupino. Entrambi contengono fibre e acidi grassi omega 3, questi ultimi fondamentali per tenere sotto controllo l'ipertensione. Ettore Bergamini, dell'università di Pisa, dice che, ogni tanto, sarebbe bene lasciare allo stimolo delle fame la possibilità di avere il sopravvento. Così si finisce col mangiare meno, e il corpo si mantiene giovane più a lungo. Silvano Adami, dell'università di Verona, raccomanda di compiere ogni giorno una passeggiata all'aria aperta, possibilmente beneficiando dell'azione solare, che stimola la produzione di vitamina D, fondamentale per contrastare malattie come l'artrite e l'artrosi. __________________________________________________________ TST 3 mag. ’07 I GAY NON SI "CONVERTONO" Arrivano in Italia le terapie riparative, in cui l'ideologia prevale sulla medicina. Monito delle associazîoni di psicoterapeuti lisa: gli orientamenti sessuali non sono patologie VITTORIO LINGIARDI UNIVERSITA' LA SAPIENZA-ROMA «L'impresa di trasformare un omosessuale in un eterosessuale non offre prospettive di successo molto migliori dell'impresa opposta», scriveva Freud nel 1920. Figlio del suo tempo, voleva a tutti i costi spiegare le «cause» dell'omosessualità, ma non certo per «curarla». Come invece, in passato, qualcuno ha fatto, magari accompagnando la proiezione di immagini-stimolo con scosse elettriche. Oggi, dopo l'eliminazione nel 1973 della «diagnosi» di omosessualità dal «Manuale Statistico e Diagnostico delle Malattie Mentali», la comunità scientifica internazionale considera l'omosessualità una variabile dell'orientamento sessuale e non una patologia. RICHIESTE D'AIUTO Questo naturalmente non esclude che vi siano persone che si sentono a disagio con il proprio orientamento omosessuale e che per questo chiedono aiuto. Una domanda che contiene una varietà infinita di ragioni, che ricondurrei a due motivi di base: l'espressione di una fragilità psichica più generale (che chiamiamo «diffusione dell'identità»), di cui l'incertezza o il disagio nei confronti della propria sessualità altro non sono che una manifestazione; oppure la conseguenza dell'interiorizzazione dell'ostilità sociale (come uno che volesse schiarirsi la pelle per sopravvivere in una società razzista). Questo secondo caso prende il nome di «omofobia internalizzata»: è una condizione psichica caratterizzata da un'attitudine negativa (imbarazzo, vergogna, depressione) nei confronti della propria omosessualità (la «difformità» diventa «deformità»). In ogni caso un clinico, attento al vecchio adagio medico «primum non nocere», sceglie la strada dell'ascolto rispettoso, cercando di contestualizzare da un punto di vista psicologico, familiare e sociale il rifiuto di sé e la richiesta di cambiamento portati dal paziente (e quasi mai formulati in modo assoluto, ma in forme attenuate del tipo «non riesco ad accettarmi, mi aiuti a capire che cosa non va in me»). La proposta, che sta affacciandosi anche in Italia (per interessamento di associazioni religiose più che di società scientifiche), di una terapia cosiddetta «riparativa» per trasformare gli omosessuali in eterosessuali mi sembra rispondere a un'esigenza ideologica e non clinica. L'idea della «riparazione», del resto, presuppone quella di un danno 0 di un guasto. A un'incertezza dolorosa e difficile si risponde con un «pronto soccorso» di riconversione (con ,un'approccio più del tipo «ti dico io cosa devi fare» che «ti aiuto a capire perché stai male»). In contrasto con quanto affermato dalla comunità scientifica internazionale, le terapie «riparative» partono da una visione intrinsecamente patologica dell'orientamento omosessuale. È quindi legittimo domandarsi come si comporterebbero questi terapeuti di fronte a un paziente eterosessuale che chiede di «diventare omosessuale». L'autorità esterna Non c'è una letteratura empirica che supporti queste «terapie», ma pochi dati di carattere aneddotico, con campioni «di convenienza», privi di «follow-up» e non correlati a parametri fisiologici. Temo dunque che le terapie riparative finiscano per naufragare sugli stessi scogli di tutti i trattamenti che incoraggiano i pazienti a fondare su un'autorità esterna le scelte di vita. Esse affrontano solo un lato del conflitto del paziente e lo agiscono, anziché esplorarlo, nella relazione terapeutica. Rinforzano le tendenze dissociative anziché quelle integrative (si veda il volume pubblicato da Raffaello Cortina «Gay e lesbiche in psicoterapia», a cura di Paolo Rigliano e Margherita Graglia). Studi clinici mostrano che la terapia riparativa non solo non produce l'atteso riorientamento sessuale, ma spesso peggiora le condizioni psicologiche del soggetto: esasperando l’autodisprezzo e la vergogna, anziché coltivando (terapeuticamente) l'accettazione di sé. Proprio per questo le associazioni degli psichiatri e degli psicologi americani hanno sentito il bisogno di produrre un documento («Position statement on therapies focused on attempts to change sexual orientation-Reparative or conversion therapies») per disconoscere qualunque trattamento per indurre il paziente a modificare l'orientamento sessuale. Un punto su cui l'ordine dei medici e degli psicologi italiani dovrebbero iniziare a valutare se prendere posizione. _____________________________________________________ Corriere della Sera 28 Apr. ’07 IN AUMENTO I TUMORI ALLA PELLE «BASTA COL MITO DELLA TINTARELLA» Negli ultimi cinque anni i ricoverati sono cresciuti fino al 20 per cento L'oncologo Parmiani: a Milano un nuovo caso ogni due giorni Simona Ravizza In aumento le malattie della pelle legate a doppio filo all'esposizione solare. Nel giro di cinque anni sono cresciute del 15 per cento per gli uomini e del 20 per cento per le donne le cure negli ospedali di Milano per i tumori cutanei. I dati, contenuti nel «Rapporto dell'Asl sui ricoveri e la mortalità», sono la spia di un problema in netta espansione: «Sul banco degli imputati vanno messi soprattutto i raggi ultravioletti - spiega Giorgio Parmiani, neodirettore dell'Unità melanoma del San Raffaele -. Con la crescita del desiderio di abbronzatura è aumentato il numero di malati: le probabilità di guarigione, però, oggi sono maggiori grazie alle diagnosi precoci e alle nuove scoperte scientifiche». Malati anche per colpa del sole. Il dossier dell'Asl parla di un nuovo caso ogni due giorni. Millequattrocento complessivamente nell'ultimo anno i pazienti in cura per le malattie della pelle più gravi (ossia quelli che comportano un ricovero ospedaliero). Ma la popolazione interessata dal problema - legato anche, ma non solo, alla mania dell'abbronzatura - è ancora più numerosa: le diagnosi meno gravi vengono seguite ambulatorialmente sfuggendo alle statistiche ufficiali. A Milano, peraltro, l'incidenza dei melanomi è più alta rispetto al resto d'Italia (il rischio di ammalarsi è maggiore del 61% per gli uomini e dello 0,5% per le donne). Un fenomeno che spinge i medici ad alzare la guardia. Per affrontare i problemi diagnostici e terapeutici della malattia al San Raffaele è stata addirittura attivata la Melanoma Disease Unit: gli ammalati saranno visitati da tre specialisti contemporaneamente (un oncologo, un chirurgo e un immunoterapista). Non finisce qui: alla sua guida è stato nominato Giorgio Parmiani, ex direttore generale dell'Istituto dei Tumori e scienziato di fama. «Svilupperemo anche la ricerca scientifica - sottolinea il neodirettore, arrivato all'istituto San Raffaele all'inizio dell'anno -. Due gli obiettivi su tutti: vincere la resistenza ai farmaci che il melanoma spesso ancora oppone e aumentare le difese immunitarie per far reagire meglio l'organismo alla malattia». La sfida ai tumori della pelle è uno dei progetti sostenuti con un nuovo finanziamento di 165,5 milioni di euro (stanziato da istituiti di credito, tra cui Banca Intesa, in collaborazione con la Banca europea per gli investimenti). L'Unità melanoma, con uno staff di 5 specialisti, lavorerà anche in stretto rapporto con i dermatologi. Nel frattempo Parmiani snocciola consigli da seguire per prevenire i danni del sole. Sono raccomandazioni rivolte soprattutto alle mamme. «Bisogna proteggere in particolare i bambini - dice l'oncologo -. Eritemi e scottature possono rivelarsi a lungo andare pericolose. Mai sottovalutarle. È meglio poi, per esempio, non esporre i bimbi negli orari centrali della giornata, quando i raggi solari sono più forti. Le creme, certo, possono essere utili». Attenzione anche ai nei: «Chi ne ha più di cento è meglio che si sottoponga a una visita specialistica - osserva Parmiani -. Lo stesso vale nei casi in cui il nevo cambi forma o dimensioni». Le precauzioni, insomma, non sono mai troppe. «E la diagnosi precoce - ribadisce Parmiani - può salvare la vita». __________________________________________________________ Repubblica 3 Mag. ’07 TINTARELLA A PICCOLE DOSI E ALL'ORA GIUSTA Precauzioni Nel valutare come e quanto esporsi dalla primavera in poi si dovrebbe studiare, meglio se con l'ausilio di un dermatologo, un programma di protezione personalizzato. Un'attenzione che dà i suoi frutti sia nell'immediato, in termini di tenuta e bellezza della tintarella e di prevenzione di inestetismi, sia nel futuro, in termini di riduzione del rischio di sviluppare cheratosi attiniche o, peggio ancora, melanomi. Le precauzioni al sole non sono mai abbastanza, ma di alcune è impossibile farne a meno. Gradualità. L'abbronzatura è un sofisticato sistema di difesa messo in atto dalla pelle per proteggersi. Per formarsi ha bisogno dei suoi tempi: circa 24-72 ore dalla stimolazione solare iniziale. Dunque, è imperativo iniziare ad esporsi circa 10 minuti al giorno, evitando le ore di maggiore irraggiamento, ossia tra le 11 e le 16, e aumentare progressivamente senza però oltrepassare, possibilmente, le tre-quattro ore di sole totali al giorno. "Naturalmente, questi tempi vanno sensibilmente ridotti se si appartiene ai fototipi più a rischio (I e II: occhi chiari, capelli biondi o rossi)", ricorda Celleno. Clima. La fotoprotezione va messa in atto anche in presenza di nuvole: gran parte degli UV raggiungono la pelle anche con il cielo coperto. E attenzione alle giornate soleggiate ma ventose: l'attenuazione della sensazione termica di calore induce ad allungare i tempi di esposizione, aumentando il rischio di scottature e addirittura ustioni. Quanto a latitudine ed altitudine: i raggi UV aumentano procedendo dai poli verso l'equatore. Lo stesso succede in quota per la rarefazione dell'aria. "Naturalmente, in tutte queste situazioni è necessario calibrare la fotoprotezione verso fattori più alti", ricorda Celleno. superfici riflettenti. Gli ultravioletti raggiungono l'epidermide anche per rifrazione. Ne consegue che prendere il sole in alta montagna, in campagna, in spiaggia o in barca richiede accorgimenti mirati, perché ogni superficie ha un proprio indice di riflessione, che si aggiunge alla radiazione diretta del sole. La sabbia e le rocce, per esempio riflettono dal 20 al 30% circa dei raggi; l'acqua il 50%; neve e ghiacci addirittura l'80%. ________________________________________ Repubblica 28 Apr. ’07 UN "ATLANTE" PER BATTERE I TUMORI Ecco la mappa dei geni alterati: "Così colpiremo la malattia" - Migliaia di tessuti da analizzare milioni di geni da sequenziarre: "Un compito immane" CLAUDIA DI GIORGIO ROMA - In confronto, il Progetto Genoma Umano è stato una scampagnata. Il progetto dell´Atlante del genoma del cancro (Tcga), che Francis Collins e Renato Dulbecco presentano sul numero di Le Scienze in edicola da oggi, equivale infatti ad almeno diecimila volte quello che ha identificato tutti i geni dell´uomo: in termini di quantità di Dna da sequenziare, di tempi e di costi. E forse anche di importanza per la salute umana, dato che l´obiettivo è rivelare, e descrivere in dettaglio, tutte le alterazioni genetiche che possono trasformare una cellula sana in una maligna, per poi arrivare ad attaccarle direttamente. L´idea da cui parte il Tcga non è nuova: è dagli anni '80, quando si scoprì la prima versione cancerogena di un gene umano, che la causa dei tumori è attribuita principalmente a mutazioni genetiche che mandano all´aria il normale funzionamento di una cellula, rendendola capace di moltiplicarsi senza controllo, invadere i tessuti vicini e diffondersi in altre parti del corpo. Le origini di queste mutazioni non sono del tutto chiare (si sa però che quelle ereditarie sono responsabili solo del 5% delle neoplasie), mentre è piuttosto certo che agiscono in modi diversi: ci sono alterazioni che disattivano geni "protettori", e altre che aumentano l´attività di geni dannosi, seguendo percorsi molecolari differenti e che spesso si intersecano tra loro. Inoltre, e questo è uno dei molti meriti del Progetto Genoma Umano, si sa che generalmente di queste alterazioni non ne basta una sola ma se ne devono accumulare parecchie perché si sviluppi un tumore. Come scrive Dulbecco su Le Scienze, «i geni non agiscono da soli, ma fanno parte di estese reti di attività all´interno delle cellule. Qualunque cambiamento nell´attività di un gene è quindi accompagnato da cambiamenti nella funzionalità di molti geni e proteine coinvolti nel mantenimento cellulare». Di conseguenza «per arrivare agli stadi tumorali più avanzati, come la fase acuta della leucemia mieloide o la fase metastatica di altri tipi di cancro, è necessaria la partecipazione di molti altri geni, buona parte dei quali è ancora sconosciuta». Da qui, la necessità di scoprire, e catalogare, tutte le miriadi di alterazioni strutturali e funzionali che sono alla base dei circa 100 tipi conosciuti di cancro, esaminando migliaia di campioni di tessuto per ciascun tipo di cancro e sequenziando milioni di geni, fino a tracciare un Atlante completo ed esauriente della complessa e accidentata geografia dei tumori umani. Un compito immane, le cui possibilità di riuscita sono legate a strumenti bioinformatici ancora in parte da sviluppare, ma anche alla capacità di elaborare strategie intelligenti, mettere in piedi collaborazioni internazionali efficaci e, naturalmente, disporre dei fondi necessari. È per questo che l´Atlante è preceduto da tre progetti pilota, partiti nel 2006, e concentrati su tre tumori, il glioblastoma cerebrale, il cancro al polmone e quello alle ovaie. Secondo le previsioni, in questa fase saranno studiati circa 1500 campioni tumorali, sequenziando 2000 geni in ognuno di essi, per un totale di 3 milioni o giù di lì. Il tutto costerà 100 milioni di dollari: e sarà solo un primo, piccolissimo passo. _____________________________________________________ La Stampa 28 Apr. ’07 DOMPÈ: LA FARMACEUTICA IN ITALIA RISCHIA DI SPARIRE Intervista - Il presidente di Farmindustria MILANO FRANCESCO SPINI Tra la fine dello scorso anno e la prima parte del 2007 l'industria farmaceutica si trova a registrare una prima flessione, dopo anni di incrementi, nei livelli occupazionali: oltre mille lavoratori in meno, un'emorragia del 2% in una manciata di mesi, pari alla percentuale di crescita dell'ultimo biennio. Una spia rossa, secondo Sergio Dompè, presidente di Farmindustria (che ha elaborato i dati), «assolutamente da non sottovalutare. Se non ci sarà un repentino cambio di direzione il declino del settore diventerà sempre più accentuato, come su un piano inclinato». Cosa succede all'industria dei farmaci? «Sta rallentando. Perché non esiste alcun settore che possa far coesistere la crescita interna con una politica di compressione della spesa». Come si traduce in numeri? «Nell'ultimo decennio, tra il '96 e il 2006, se la produzione è salita del 92%, le esportazioni sono volate del 194% e le vendite interne si sono limitate a un +38%. Nel frattempo il Pil a valori correnti è cresciuto del 47%». Cosa significa? «Che la quasi totalità dello sviluppo è stata generata dalla capacità di competere a livello internazionale dell'industria, la quale non può contare sul mercato interno dove, sul fronte prezzi, non ci è nemmeno riconosciuta l'inflazione». La spesa sanitaria è ancora scesa. «Tutti gli anni subiamo tagli ripetuti dei prezzi. La spesa diminuisce, certo, ma alla fine siamo noi imprese farmaceutiche a dover ripianare lo sforamento dei budget decisi dalle regioni. E' una situazione insostenibile». L'export ci salverà ancora? «Non ci conterei tanto, perché dopo l'affermazione del biotech, la ricerca va dove trova manodopera qualificata alle migliori condizioni economiche. E là vanno anche i ricavi». Come vanno i rapporti col governo? «Recentemente abbiamo avuto incontri con il premier Romano Prodi». Siete ai ferri corti? «Non direi proprio. Prodi è un interlocutore attento ed è favorevole a che il settore si sviluppi e resti in Italia. Affinché non si ripetano gli errori che hanno fatto perdere all'Italia gioielli come la Carlo Erba o la Lepetit». Anche per voi c'è stata la riduzione del cuneo fiscale... «Ci ha dato indietro circa 60 milioni di euro. I tagli dell'ultima Finanziaria ce ne sono costati 800, di milioni». Cosa chiedete, allora? «Tre cose. Primo: stabilità del mercato con certezza delle regole. Nel nostro settore la durata media di un investimento è di 12 anni. Nessuno può pianificare alcunché in un Paese dove in soli cinque anni si susseguono quindici, dico quindici, provvedimenti di tagli dei prezzi dei farmaci. Secondo: vorremmo che la fissazione dei budget per la spesa sanitaria fosse coerente con la domanda di salute della popolazione e con il suo invecchiamento. E' giusto intervenire dove vengono utilizzate male le risorse, come ad esempio nel fenomeno della iper-prescrizione dei farmaci. Altra cosa è notare che per sette anni consecutivi la spesa è stata sottostimata e a noi è toccato il ripianamento». Manca l'ultimo punto. «Incentivi alle aziende che più si impegnano negli investimenti in ricerca e in strutture produttive avanzate. Se gruppi come Novartis o Glaxo levassero dall'Italia solo tre dei loro siti di ricerca e produzione, per il Paese significherebbe un danno da 1-1,5 miliardi di euro». __________________________________________________________ Repubblica 3 Mag. ’07 IMPLANTOLOGIA ELETTROSALDATA E SI EVITANO TAGLI Dentatura più salda e in tempi rapidi. Tecnica consigliata a tutti, ma si effettua solo in studi privati di Giuseppe Del Bello La sincristallizzatrice e la nuova implantologia elettrosaldata per restituire sicurezza e sorriso a chi è rimasto privo di alcuni o di tutti i denti. Un modo per attenuare la paura del trauma e per frenare l'ansia dei ripetuti controlli, prima di avere una protesi provvisoria. E, anche, per non essere costretti ad aspettare i sei mesi necessari ad ottenere una soluzione definitiva. A queste perplessità l'implantologia di ultima generazione è in grado di dare una risposta soddisfacente, garantendo ai pazienti una metodica ancor più affidabile e soprattutto tempi rapidi per riottenere la funzione perduta. Per gli anglosassoni la parola magica che ne sintetizza i vantaggi è Flapless, cioè senza incisioni. In italiano la traduzione non è letterale, ma il significato non lascia dubbi, si tratta di chirurgia "gentile". Un aggettivo che chiarisce come si riesce a intervenire senza praticare tagli. Diretta erede della tecnica tradizionale, l'implantologia elettrosaldata ne rappresenta la sua più recente evoluzione, frutto del progresso tecnologico e della recente rielaborazione di un macchinario che, lanciato sul mercato da un'azienda nazionale, permette una saldatura perfetta dei vari elementi dell'impianto. Nicola Garganese, chirurgo odontoiatra che ha recentemente tenuto alla "Città della Scienza" di Napoli una serie di seminari per illustrare le varie fasi della tecnica spiega come "nonostante il trauma sia minimo, al paziente viene somministrata una dose ridottissima di anestetico locale e antidolorifico. Poi, con un ministrumentario, si praticano piccolissimi fori sui margini delle arcate, mentre la fase successiva prevede che negli spazi appena creati vengano inserite le viti in titanio che daranno sostegno alla protesi in ceramica fissa". Per sistemare un impianto singolo si impiegano in media dieci minuti, per portare a termine il lavoro su un'intera arcata circa due ore. "I pazienti tornano a casa senza neanche un punto di sutura e liberi da dolore. Ma soprattutto possono caricare immediatamente le arcate dentarie. E questo significa poter mangiare normalmente". Ma la particolarità che caratterizza l'implantologia elettrosaldata e che assicura una maggiore stabilità alla protesi, scaturisce dalla versatilità dell'apparecchiatura, la "sincristallizzatrice" che, concepita per saldare tra loro gli impianti direttamente nella bocca utilizza le potenzialità dell'argon. Questo gas si sarebbe infatti dimostrato efficace a evitare l'ossidazione nel punto di saldatura e, quindi, a migliorare il risultato finale. "La saldatura è la tappa più importante", aggiunge Garganese, "perché il filo di titanio, una volta elettrosaldato, assicura la tenuta del complesso implantare, senza il rischio di eventuali allentamenti dei denti nuovi". "L'implantologia tradizionale", continua lo specialista, "prevede una serie di tagli, molte sedute e un trattamento che può durare anche un anno". Da non sottovalutare che la metodica che può essere applicata anche a cardiopatici e diabetici. La metodica, per ora praticata solo in strutture private, viene insegnata come master di aggiornamento all'Università di Chieti (cattedra di Odontostomatologia diretta da Stefano Fanali). Particolare non trascurabile i costi: nettamente inferiori a quelli dell'implantologia bifasica. __________________________________________________________ Corriere della Sera 29 Apr. ’07 IL DIGIUNO NON AIUTA A DIMAGRIRE «Saltare i pasti costituisce un fattore di rischio per l' insorgenza di disturbi alimentari in persone predisposte - avverte la professoressa Anna Tagliabue, direttore del Centro studi sulla nutrizione umana e disturbi del comportamento alimentare dell' Università di Pavia -. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, infatti, la maggior parte dei pazienti con problemi di peso eccessivo che si rivolge al nostro Centro per dimagrire non consuma tre pasti al giorno: di solito salta la colazione e spesso a pranzo mangia in modo molto frugale. In questi pazienti, la rieducazione alimentare comporta il fatto di reintrodurre la corretta suddivisione dei pasti, per evitare la fame eccessiva che induce a pasti serali molto abbondanti e sbilanciati. Il che non significa necessariamente consumare un pasto completo a metà giornata, che con le nostre abitudini sedentarie sarebbe eccessivo per la maggior parte delle persone, bensì riprendersi i momenti dei pasti come un relax. Saltare i pasti rientra in un controllo rigido dell' alimentazione, come accade a chi ha una preoccupazione patologica per il peso, ma nello stesso tempo aumenta proprio il rischio di perdere il controllo e di cadere in abbuffate patologiche, seguite da senso di colpa e meccanismi di compenso per ovviare all' eccesso calorico».