RIFORMA:DA SETTEMBRE PROGRAMMI LIGHT - QUANDO I PARTITI TRADISCONO LA RICERCA - ATENEI A SECCO. MUSSI CHIEDE RISORSE PER RISPETTARE I PATTI - EPIFANI: GOVERNO ASSENTE SU ISTRUZIONE E UNIVERSITÀ - MENO ISCRITTI ATENEI IN CRISI - MANCANO I FONDI PER GLI EDIFICI MUSSI AI RETTORI: STOP AI PROGETTI - LE DUE UNIVERSITÀ SARDE VERSO NUOVE FRONTIERE - MODIFICA STATUTO, ACCORDO DISTANTE - DIPARTIMENTI, MEA CULPA DI MISTRETTA - PRECARIO ALL'UNIVERSITÀ: FELICITA' A MOMENTI E FUTURO INCERTO - SEI MANAGER SU 10 RESISTONO ALL'INNOVAZIONE - CARBONIA: IL MUSEO-LABORATORIO VA IN MINIERA - ATENEI, INTERMEDIAZIONE AL PALO - IN CRESCITA. LE ASSUNZIONI DI LAUREATI E DIPLOMATI - FUORICORSO E SENZA AMBIZIONI PER IL FUTURO PROFESSIONALE - LA SCOPERTA DI MERITO E CONCORRENZA SE LA RIVOLUZIONE ARRIVA ANCHE IN ITALIA - CLIMA QUEI TRABOCCHETTI DI KYOTO - LA LUCE "SOLIDA" CAMBIERÀ IL NOSTRO FUTURO - SAN BASILIO: ECCO IL GRANDE ORECCHIO - NOVE GIOVANI DANNO LUSTRO A TUTTA LA REGIONE - IL DVD SI CONSERVA AL FRESCO - ================================================= FA: A MONSERRATO FAREMO IL GASLINI SARDO - MISTRETTA FIRMA: ASSUNTI 50 PRECARI DEL POLICLINICO - C'È IL DECRETO: MURRU MANAGER ALL'AZIENDA MISTA - WEEKEND A VILLA CLARA - TREDICI MILIONI DI RICOVERI IN UN ANNO - TURCO: OSPEDALI KILLER COLPA DELLE BARONIE - QUELLA PAURA DI CURARSI IN OSPEDALE - STRUTTURE PRIVATE: SANITÀ MALTRATTATA ADESSO BASTA - LA SCIENZA SUL CERVELLO TUTTA DA RIDERE - CENTINAIA DI SCIENZIATI STUDIANO IL DNA DEI SARDI - STAMINALI, CELLULE CHE FANNO GOLA - TEORIA DEI GIOCHI IN AMBITO BIOMEDICO E SANITARIO - LE 22 PROFESSIONI DEL CAOS SANITARIO - FEDE E SCIENZA CONTRO LE «BIOFOLLIE» - QUALI RISCHI CON I COMPUTER SENZA FILI? - SE GENETICA FA RIMA CON CIBERNETICA - MENO TERAPIE ORMONALI, MENO TUMORI AL SENO - PIÙ FACILE CURARE L'OSTEOPOROSI - COME DIFENDERSI DAI TATUAGGI MODA GIOVANE E PERICOLOSA - IL SESSO NELLO SPAZIO, FATICOSA IMPRESA PER SUPERDOTATI - SCOPERTA LA CELLULA ANTI-CANDIDA - VIOLENZA INDOTTA? VIDEOGAME INNOCENTI - DENTI NUOVI E MENO CARI - BANCHE DEL CORDONE MEGLIO SE PUBBLICHE - PUBERTÀ ANTICIPATA? COLPA DEL «CIBO SPAZZATURA» - ================================================= ________________________________________________ Italia Oggi 8 Mag. ‘07 RIFORMA:DA SETTEMBRE PROGRAMMI LIGHT Programmi leggeri, con pochi saperi e competenze essenziali. E mano libera ai docenti nei metodi da seguire e negli obiettivi da raggiungere. Sono le linee guida dei nuovi programmi per la scuola primaria. Ovvero indicazioni, perché di programmi veri e propri non si parlerà. «Non ci sarà nessuna rivoluzione, da settembre partirà una sperimentazione che vedrà gli insegnanti protagonisti», spiega Mario Ceruti, antropologo, preside della facoltà di lettere e filosofia all’università di Bergamo e p ;residente della commissione che dovrà entro fine maggio presentare al ministro della pubblica istruzione, Giuseppe Fioroni, la proposta sui saperi base della scuola primaria. Secondo la scaletta del ministro, ci sarà un anno di prova, e poi, nel 2008, i programmi così rivisti andranno a regime. «C'è una sovrabbondanza di informazioni, i bambini devono essere messi in condizioni di interpretarle e di metterle in relazione tra di loro», spiega Ceruti nell'intervista a IO. Domanda. I programmi sono stati, rivisti da Berlinguer, De Mauro e Moratti. C'era proprio bisogno di rivederli per l'ennesima volta? R. La società cambia in modo vertiginoso e bisogna tenerne conto se non si vuole che eventuali vantaggi diventino penalizzazioni per i ragazzi. D. È la stessa motivazione dei precedenti ministri. R. Andando nel dettaglio, oggi c'è una parcellizzazione delle materie che è faticosa e dispersiva per gli studenti, c'è una sovrabbondanza di adempimenti burocratici che, schiaccia gli insegnanti. Bisogna cambiare, prima che anche la scuola primaria soccomba. D. Insomma, a scuola il problema è che si studia troppo? R. No, è che si studiano troppe cose. Sin da piccolissimi, oggi i ragazzi sono in grado di acquisire molte informazione in proprio, attraverso la Tv, i videogiochi, ma anche la presenza di compagni di classe di diverse etnie. Bisogna dargli innanzitutto un metodo, aiutarli a capire che dietro ogni nozione c'è un mondo, che è culturale, storico e geografico. Questo si può e si deve imparare sin da piccoli. Per farlo, gli insegnanti devono avere chiare quali sono le competenze di base e poi essere liberi di muoversi tenendo conto del tipo di alunni che hanno. D. Non c'è il rischio di una scuola troppo diversa sul territorio? R. I saperi saranno uguali per tutti, ma poi bisogna affidarsi agli insegnanti. La scuola reale è spesso migliore di quella che può uscire dal pensatoio di una commissione. D. Come cambierà allora l'insegnamento della storia, che suscitò grandi polemiche all'epoca della riforma Moratti? R. È una domanda alla quale mi permetto di'non rispondere. Il nostro lavoro è ancora in corso. Una risposta la potrà dare solo il ministro. (riproduzione riservata) Mario Ceruti _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 8 mag. ’07 QUANDO I PARTITI TRADISCONO LA RICERCA Le promesse dimenticate di Gaetano Di Chiara «Sarebbe ora che chi non è più d’ accordo con la sinistra votasse a destra e chi non è più d’ accordo con la destra votasse a sinistra». Parole pronunciate qualche giorno fa da Pietro Ichino, già professore di Diritto del Lavoro all’Università di Cagliari, tra i migliori ’giuslavoristi’ rimasti dopo l’uccisione di Marco Biagi. L’appello di Ichino è un’espressione della delusione, ormai bipartisan, che attraversa quella parte della cultura italiana più vicina alla realtà economica e sociale del paese. Questa delusione è il frutto di un anno di promesse non mantenute. Tra tutte, quelle sulla ricerca hanno senz’altro il primato. Il programma dell’Unione aveva fatto della ricerca il suo fiore all’occhiello e la sua importanza sacrosanta per lo sviluppo del paese era stata riaffermata da tutti i partiti del Governo. Con la prima stesura della Finanziaria venne la prima delusione, subito mitigata dalle assicurazioni di una consistente iniezione di risorse per la ricerca nel corso dell’iter parlamentare. Quando venne finalmente il giorno dell’approvazione della Finanziaria i ricercatori, scorrendone il testo definitivo, si accorsero che la voce ’’ricerca’’ era rimasta quella della prima stesura, cioè, mezzo vuota. Ma si sa, i ricercatori (compresi quelli universitari) sono di sinistra e, nonostante tutto, continueranno a votare a sinistra. Così, idealmente, l’invito di Ichino si rivolge proprio a loro, ai ricercatori. Ciò che più impressiona infatti della situazione attuale è il contrasto tra la drammaticità della condizione della ricerca e l’assordante silenzio dei ricercatori. Certe coalizioni di governo, riformiste in sede programmatica, cioè a parole, si sono poi rivelate conservatrici una volta insediate, cioè nei fatti.La politica della ricerca dell’attuale governo appare una puntuale applicazione di questo principio. Infatti, da quando si è insediato, tutto si è bloccato, dai concorsi universitari a quelli degli enti di ricerca, dal finanziamento di nuovi progetti, alla valutazione della ricerca. E’ l’immobilismo la legge che governa attualmente la ricerca italiana, una legge non scritta ma più (in)operativa e (in)efficente di qualsiasi decreto. Ma allora a chi dovremmo rivolgerci? Alla Regione Sardegna, direbbe qualcuno, dove Gianluigi Gessa ha proposto una legge che fissa al 20% della spesa in ricerca la quota da destinare alla ricerca di base, per sua natura dipendente da fondi pubblici.Tuttavia, data la vocazione ’imprenditoriale’ dell’attuale governo regionale è prevedibile il sacrificio della ricerca di base a favore della ricerca applicata dei Parchi Scientifici della Sardegna, orfani, con l’uscita della Sardegna dall’Obiettivo1, dei fondi comunitari per lo sviluppo. Per il momento la legge giace in un cassetto. Se tutto andrà bene se ne riparlerà nella Finanziaria Regionale del 2008. Con la speranza che non succeda quanto è accaduto con la finanziaria nazionale. ________________________________________________ Italia Oggi 12 Mag. ‘07 ATENEI A SECCO. MUSSI CHIEDE RISORSE PER RISPETTARE I PATTI Relazione del ministero dell'università illustra lo stato del Fondo edilizia DI BENEDETTA P. PAChLLI Mussì non riuscirà a mantenere gli accordi presi con gli atenei. Troppo pochi i fondi destinati all'edilizia universitaria, decurtati ulteriormente anche quegli stanziamenti minimi che sarebbero serviti agli atenei a tenere il naso fuori dal pelo dell'acqua. È scritto nero su bianco in una relazione firmata dallo stesso ministro dell'università: le risorse destinate al fondo unico per l'edilizia accademica sono passati da circa 150 milioni di euro, dell'ultimo anno della legislatura di centro-destra, a 50 milioni scarsi (finanziaria 2007). Insomma, dati alla mano, sembra che le disponibilità economiche destinate alle università siano un po' come una coperta troppo corta, che tirando da una parte lascia scoperti dall'altra. E le cose non finiscono qui, perché i 50 milioni sono ulteriormente ridotti a meno di 35 milioni, come conseguenza degli accantonamenti disposti sempre in attuazione dell'ultima manovra. Un dato che pesa ancora di più giacché su tale fondo, istituito per corrispondere alle necessità di riequilibrare le disponibilità edilizie, grava anche il50 % degli oneri conseguenti agli accordi di programma stipulati fra atenei e ministero. In sostanza le intese prevedono il rimborso della metà delle somme spese dagli atenei interessati nell’anno precedente per la realizzazione di interventi edilizi. Poiché fino ad ora la dotazione del fondo era pari circa a 150 mln lo stesso ministero aveva stipulato accordi con le università proprio in base a questo andamento. La riduzione al fondo unico per l'edilizia universitaria crea quindi, si legge nella relazione, molti problemi considerando che gli importi previsti negli accordi ammontano, nel periodo 2007-2009, in media a 80 mln annui, a fronte dei quali esiste sul fondo, una disponibilità di soli 50 mIn per fanno in corso, di 10 mln per il 2008 e che sì annullano completamente per il 2009. Data quindi l'esiguità di risorse, la proposta del governo è di destinare almeno l’intero importo per far fronte a quegli impegni assunti dal ministero dell'università. Il ministro coglie l'occasione per evidenziare la necessità di prevedere, già nella prossima finanziaria, adeguati stanziamenti per l'edilizia universitaria per fornire agli atenei quelle risorse necessarie a far fronte alle esigenze edilizie più pressanti. «Questa drastica riduzione», ha sottolineato il responsabile di An per la scuola e università Giuseppe Valditara, «penalizza fortemente la qualità della didattica e soprattutto non consente di alle università di effettuare la programmazione». Per il senatore sono dei tagli che rischiano dì gettare le università nel caos, mentre occorrerebbe «ripristinare quanto meno quella cifra, in considerazione del carattere infrastrutturale strategico degli interventi da adottare». ___________________________________________________ il manifesto 10 mag. ’07 EPIFANI: GOVERNO ASSENTE SU ISTRUZIONE E UNIVERSITÀ Critico il leader Cgil. «Nei posti di lavoro serve formazione sindacale» Roma «Dobbiamo riprogettare il paese partendo da lavoro, sapere, diritti, libertà». Parlando ai duemila giovani delegati e quadri riuniti al Brancaccio, il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani si ricollega ai valori del Congresso di Rimini, chiuso poco più di un anno fa. E cala ì concetti nel contesto politico, lamentando ancora una volta la scarsa azione del governo sui temi che toccano più da vicino le ultime generazioni: «Per temperare l'instabilità e l'insicurezza vissuta oggi dai lavoratori e dai cittadini, serve una formazione universale, laica, così per la scuola come per l'università: noi ci arrabbiamo quando il governo di centro-sinistra non coglie queste scelte, c'è allora qualcosa che va rimosso». L'esempio tipico dello «sfarinarsi» della vita sociale italiana è il funerale di Vanessa, la ragazza uccisa sulla metro: «Lì molti gridavano – dice Epifani - "date a noi la rumena, ci faremo giustizia da soli". Sono quelle che un tempo si sarebbero dette le "masse popolari", oggi esposte al razzismo, alla xenofobia». Speculare è il rapporto del sindacato con le nuove generazioni, la mancanza di formazione e cultura sindacale: «In molte fabbriche ci sono solo giovani, non c'è più il delegato anziano che si avvicina e ti spiega come organizzare un lavoro comune. Facendo le assemblee in questi mesi, dopo che si erano trovate schegge intrappolate nel terrorismo, abbiamo visto un vuoto tra la nostra generazione e quella dei giovani, un vuoto che va riempito». Epifani, a questo punto, ha ricordato che ieri (9 maggio) era l'anniversario dell'uccisione di Aldo Moro, e tutti i presenti hanno applaudito. Tornando al governo, Epifani ha apprezzato quanto fatto su lotta al lavoro nero. aumento dei contributi e di alcune tutele per i parasubordinati», oltre a rimarcare il risultato delle «18 mila stabilizzazioni nei call center: «Ma è solo l'inizio, non la fine: sul precariato si deve ancora lavorare». Sulle pensioni, il leader Cgil ha detto che «è prima di tutto dovere dell'esecutivo presentarsi con una posizione unica». L'assemblea dei giovani era stata aperta in mattinata da Carla Cantone, segretaria - confederale Cgil, che si appresta a prepara re la Conferenza di organizzazione della primavera 2008: «I giovani, ragazzi e ragazze, sono per noi, per la Cgil = ha dettó"dal palco - un bene prezioso, perché sono il nostro futuro: E pe.r, far vivere la memoria di chi ha rappresentato il passato c'è bisogno di chi si candida a rappresentare il futuro». «In ogni contesto. politico e sociale, in ogni periodo storico - ha continuato - i giovani hanno avuto coraggio, fantasia, intuizioni nuove, si sono ribellati al vecchio per imporre il nuovo, hanno sbagliato e pagato, hanno indovinato e sono stati premiati». «Guai a noi, all'attuale corpo dei dirigenti Cgil - ha concluso la sindacalista - se non sapessimo cogliere oggi come ieri, anzi oggi più di ieri, il grande senso del cambiamento che è avvenuto». ________________________________________________ Panorama 17 Mag. ‘07 MENO ISCRITTI ATENEI IN CRISI LAUREA PER TUTTI Nel 2010 negli atenei giapponesi ci saranno più porti che studenti. GIAPPONE II calo demografico renderà di fatto inutili i severi test di ingresso alle università. Che rischiano di fallire. 12 010 sarà l'anno zero per il sistema universitario giapponese. Nel paese dove I l'ammissione a un ateneo più che in Occidente decide il destino di una persona, la crisi demografica inaugurerà entro 2-3 anni un'inedita era dell'università per tutti, sogno degli studenti e incubo dei rettori, senza più la rigida selezione d'ingresso. IL numero dei posti disponibili supererà infatti quello degli aspiranti dottori. Per il Giappone, dove le università sono classificate in base alla reputazione di severità, si tratta di un terremoto. Non solo culturale, dato che l'esame d'ammissione rappresenta una delle prove più impegnative nella vita, ma anche economico. Molti atenei sono alle prese con bilanci in rosso per calo di iscritti e alcuni di essi hanno già dichiarato bancarotta. Meno studenti equivalgono a meno entrate e la minor selezione si ripercuote sulla qualità dell'insegnamento, con perdita di prestigio e, alla lunga, di clienti. Da qui la corsa ad accaparrarsene di nuovi e a tagliare i costi. La denatalità sta assumendo in Giappone dimensioni preoccupanti. L'ultimo dato, del 2005, segna un rapporto di 1,26 figli per donna (all'incirca come in Italia) e di questo passo tra 50 anni la popolazione scenderà a 90 milioni (dai 128 attuali). Per il sistema scolastico le conseguenze sono enormi: tra il 1992 e il2007 il numero di matricole è quasi dimezzato, da 2,05 a 1,3 milioni. I primi a farne le spese sono stati gli atenei di provincia e quelli meno quotati, ripiego per chi non riesce a entrare nel posto desiderato. Resistono gli istituti più blasonati, ma dal futuro quantomai incerto: per loro il campanello d'allarme è suonato a novembre, quando due tra le più prestigiose università di Tokyo, Keio e Kyoritsu, hanno annunciato l'intenzione di fondersi per resistere sul mercato. (Giulio Grandini) ________________________________________________ Il Sole24Ore 11 Mag. ‘07 MANCANO I FONDI PER GLI EDIFICI MUSSI AI RETTORI: STOP AI PROGETTI Alessia Tripodi ROMA «Il Governo getta nel caos finanziario gli atenei italiani. Sulla base della legge di bilancio per il 2007 sono stati drammaticamente tagliati i fondi per l'edilizia universitaria: dai 155 milioni dell'ultimo anno di legislatura del centro-destra sono crollati agli attuali 35 milioni». La denuncia arriva da Giuseppe Valditara, responsabile università di An, che spiega come tale riduzione avvenga «a fronte di impegni già assunti dalle Università per l'anno in corso pari a 8o milioni di euro». L'allarme lanciato da Valditara trova indirettamente conferma in due lettere che il ministro dell'Università, Fabio Mussi, ha spedito ai rettori il 16 e il i8 aprile scorsi, riconoscendo «la critica situazione finanziaria» e raccomandando alle università di «sospendere» la stipula di nuovi contratti. Nella comunicazione Mussi spiega che la Finanziaria ha previsto «una disponibilità di risorse estremamente limitata sul fondo per l'edilizia universitaria», pari a «50 milioni di curo per il 2007, io milioni per il 2008 e nessun finanziamento per il 2009». Aggiungendo, poi, che «tali importi risultano ulteriormente ridotti perché soggetti ad accantonamenti e limitazioni» previsti dalla stessa manovra. Questi tagli farebbero scendere le risorse ai 35 milioni indicati da Valditara. L'appello alla prudenza rivolto da Mussi agli atenei deriva proprio dalla constatazione che «gli importi previsti negli accordi di programma stipulati dal ministero con le università - si legge ancora nella lettera - ammontano,, nel periodo zoo7-zoo9, mediamente a 80 milioni di curo annui». Ma il ministro assicura che presenterà al Parlamento un disegno di legge «che per il 2007 consentirà di utilizzare la somma di 65 milioni di euro per l’edilizia universitaria» e di «affrontare la gestione degli accordi» per l'anno incorso. «Le risorse per l'edilizia dal 2001 hanno subito una progressiva riduzione» ribatte il sottosegretario all'Università, Luciano Modica. Che spiega: «Si è passati da 250 milioni ai 6o previsti per il zoo6 dal Governo Berlusconi, fino ad arrivare a quota zero per il 2007. A conti fatti - conclude il sottosegreta abbiamo recuperato 5o Milioni di euro». Ma Valditara avverte che esiste il «rischio di blocco della didattica» e chiede che «nel "tesoretto" si trovino fondi per rilanciare l'istruzione e l'università». _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 7 mag. ’07 LE DUE UNIVERSITÀ SARDE VERSO NUOVE FRONTIERE Con gli ultimi progetti guidati dall’isola si allargano gli orizzonti d’indagine Centinaia di migliaia di euro per 17 piani nazionali coordinati da Sassari e da Cagliari Collaborazioni con altri dipartimenti italiani di Pier Giorgio Pinna SASSARI. Il futuro? È già cominciato. Almeno nelle due università sarde. Le chiavi per aprire nuove porte della conoscenza cominciano a funzionare: importanti scoperte saranno presto patrimonio di tutti. Sì, perché, al termine dei Prin (Progetti di ricerca d’interesse nazionale), molti studi troveranno applicazioni. Le analisi sono le più varie. Ma sembrano tutte calate nella realtà e suscettibili di sviluppi nella vita quotidiana. Si va dalle moderne frontiere della biotecnologia agli esami dei costi-benefici di certi fenomeni sociali. L’intera programmazione s’inserisce nelle iniziative finanziate dal Miur, il ministero per l’università. I provvedimenti hanno cadenza periodica. Di norma sono biennali. Gli ultimi risalgono a fine 2006 e proprio ora muovono i primi passi. Vedranno la conclusione nel 2008. Sono co- finanziati al 70% dal Miur (il restante 30 viene erogato da Sassari o da Cagliari). Contribuiscono a formare il giudizio sulla qualità della ricerca in base al quale sono poi fatte le valutazioni finali sull’erogazione dei fondi a ogni università: in definitiva, un’ulteriore voce attiva che dà una mano a ingrossare il canale di stanziamenti totali per la ricerca di ciascun ateneo. Nel complesso le somme per questo filone d’investimenti ammontano a diverse centinaia di migliaia di euro. Un calcolo preciso è possibile in parte. Il motivo? Semplice. Tutti i piani sono interuniversitari. Ciascuno coinvolge cioè gli atenei assieme ad altri della penisola. In alcuni casi, i docenti sardi sono capofila nazionali d’iniziative alle quali collaborano colleghi del continente. In altri, le parti s’invertono: Sassari e Cagliari seguono un coordinamento guidato altrove. In entrambe le situazioni, comunque, ogni ateneo riceve la sua porzione di stanziamenti, poi inserita nel quadro generale del programma. Ma al di là delle curiosità sulla suddivisione dei fondi, gli aspetti più importanti sembrano differenti. In particolare per i Prin supervisionati direttamente da Cagliari e Sassari. È infatti bene precisare che a questi piani si aggiungono quelli derivati da accordi con partnership privati, quelli col Cnr, altri su scala europea e infine i progetti compresi nel Firb (Fondo per gli investimenti sulle ricerche di base) e nel Far (per la ricerca industriale). È poi dai dettagli che si capiscono meglio le direttrici di sviluppo delle nuove prospettive scientifiche. Esaminando per ora i Prin con Sassari e Cagliari nei ruoli di capofila in Italia, si può notare come il Miur abbia finanziato 7 progetti della prima università e 10 della seconda. Se per i dettagli si rimanda alle schede in queste stesse pagine, ecco le linee generali delle sfide in atto. A Sassari appaiono protagoniste alcune aree. In particolare la struttura di ricerca del dipartimento di Economia-impresa-regolamentazione, che in questi Prin vede ben 3 piani su 7 in prima fila. Così Marco Breschi, ordinario di Demografia, svolge col suo staff una ricerca che parte dall’analisi della fecondità per arrivare allo studio dei comportamenti riproduttivi assunti dalle persone. L’équipe di un altro docente della stessa facoltà, Marco Vannini, direttore del medesimo dipartimento, quantifica i costi del crimine. E un terzo professore della stessa struttura di ricerca, Carlo Ibba, approfondisce il tema delle società di capitali pubbliche. Altrove, Francesco Feo (facoltà sassarese di medicina) conduce indagini mirate nel campo delle alterazioni molecolari e funzionali in alcuni tipi di lesioni al fegato. Il suo collega di Farmacia Marco Diana studia nuove prospettive per la cura dell’alcolismo. Mentre il direttore del dipartimento di Biologia animale, Giovanni Garippa, lavora su parallelismi con l’uomo nella lotta all’ecchinococcosi. Ancora a Veterinaria, Antonio Leoni, che insegna patologia generale, analizza correlazioni tra morbo di Crohn e altre malattie. Anche a Cagliari alcune facoltà hanno ottenuto dal Miur un numero maggiore di via libera rispetto ad altre. Soprattutto quelle con indirizzo scientifico. Il gruppo che fa capo a Giacomo Cao, docente di Principi d’ingegneria chimica, mette a punto un bioreattore capace di ottimizzare certi risultati terapeutici nel ripristino dei tessuti cartilaginei. Amedeo Columbano insegna a Farmacia e opera nel dipartimento di Tossicologia: in questa circostanza coordina una ricerca che, detto in estrema sintesi, punta a migliorare la capacità rigenerativa del fegato durante l’invecchiamento. La neuroscienziata Paola Fadda si occupa dei meccanismi neurobiologici nei casi d’abuso dell’allucinogeno Salvia divinorum. Il professore di Oncologia medica Giovanni Mantovani, invece, dell’efficacia di un trattamento integrato nei malati di cancro affetti anche da patologie correlate. Enrico Sanna, docente a Farmacologia nel Dipartimento di biologia sperimentale, sintetizza nuove molecole per la diagnosi di processi neurodegenerativi e per l’uso di certi farmaci antitumorali. Alessandro Riva (facoltà di medicina) conduce un’analisi sulle ghiandole salivari. Di natura completamente diversa gli altri studi. Giovanni Duni, ordinario a Scienze politiche, indaga sui presupposti migliori per un Codice digitale della pubblica amministrazione. Luca Fanfani, che insegna nel dipartimento di Scienza della terra, si occupa della rimozione degli elementi che contaminano le aree minerarie. Giuliana Mandich, associata nel dipartimento di Ricerche economiche e sociali, di «costruzione e ricostruzione dello spazio-tempo nelle pratiche del quotidiano». Infine, la docente di letteratura Patrizia Mureddu continua gli approfondimenti sulle opere drammatiche dell’antica Grecia, già al centro di un precedente Prin nel 2003. Le direttrici di questi specifici investimenti, dunque, nell’isola si caratterizzano fortemente. Grande spazio alle indagini economiche. Notevoli aperture ai progetti tra passato e presente. Riconferma degli studi clinici e farmacologici incentrati su applicazioni pratiche. Tutti orizzonti, insomma, che dovrebbero contribuire a svecchiare le università sarde. E che le renderanno senz’altro più competitive sul piano nazionale e internazionale. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 7 mag. ’07 DIPARTIMENTI, MEA CULPA DI MISTRETTA Università, è pace col rettore Università. Nel lungo incontro di ieri i direttori hanno avuto anche garanzie sui fondi Domani la firma del rettore: riconosciuti i Centri di ricerca Maria Del Zompo avrà la delega del rettore nei rapporti con i capi dipartimento Un decreto del rettore riconoscerà finalmente il collegio dei direttori di dipartimento come organismo dell’Università. La firma che ufficializzerà di fatto il ruolo, con funzioni consultive, dell’assemblea che riunisce i 44 centri della ricerca nell’università di Cagliari, arriverà domani. il successo Dall’incontro di ieri in rettorato (iniziato puntualmente alle 16,30, alla presenza anche del pro rettore Maria Del Zompo, e durato più di tre ore) i dipartimenti (rappresentati dai docenti Nicoletta Dessì, Walter Fratta, Francesco Casula, Sergio Natoli, Antonello Sanna e Francesco Mola) escono vittoriosi. Dopo aver incassato le scuse di Pasquale Mistretta per aver trascurato un po’ troppo i centri di ricerca, hanno avuto altre importanti rassicurazioni: rappresentanza negli organismi direzionali (senato accademico e consiglio d’amministrazione), l’incremento dei fondi per la ricerca nel bilancio 2008 e la delega al pro rettore Maria Del Zompo a mantenere i rapporti con il collegio. soddisfatti«Siamo soddisfatti - hanno commentato all’uscita dal rettore Fratta e Dessì - perché dopo più di un anno saremo riconosciuti ufficialmente come organismo e potremo far valere le nostre posizioni. Fino a oggi infatti tutte le decisioni ci venivano calate dall’alto senza poter dire niente». L’incontro si è aperto con le scuse del rettore: «Ha ammesso - hanno aggiunto i rappresentanti dei direttori di dipartimento - di essere stato un po’ disattento anche perché, e questo è vero, è stato assorbito con la nascita dell’Azienda mista. Poi ci ha dato le rassicurazioni che aspettavamo». Il tutto è avvenuto a tre giorni dall’animata assemblea con tutti i responsabili dei dipartimenti stanchi di essere dimenticati. il decreto Il primo atto ufficiale annunciato da Mistretta è un suo decreto, che verrà pubblicato già domani: istituisce di fatto il collegio dei direttori di dipartimento con funzioni consultive. «Senza questo passaggio - hanno spiegato Fratta e Dessì - non potevamo chiedere di essere rappresentanti in senato accademico e cda». Anche su questo aspetto il rettore ha annunciato che l’argomento verrà portato nella seduta in programma tra due settimane. Finanziamenti La lunga serata è proseguita con altre importanti prese di posizione di Mistretta. «Nei limiti del bilancio d’Ateneo - hanno evidenziato i due rappresentanti - ci sarà un incremento dei fondi destinati ai dipartimenti. Non per quest’anno, perché il documento economico universitario è già stato predisposto, ma per il 2008». Importante anche un’altra comunicazione data da Mistretta che ha annunciato lo stanziamento da parte del ministero dell’Università di somme destinate a nuovi posti di ricercatore. il delegato Per evitare che dopo il produttivo confronto di ieri passino troppi mesi prima di un nuovo faccia a faccia con il rettore, Mistretta ha nominato il pro rettore Del Zompo sua delegata nei rapporti con i capi dipartimento. «Questo ci permetterà di essere spesso in contatto con il rettorato», hanno commentato i due rappresentanti che, insieme agli altri quattro componenti del direttivo, incontreranno a breve gli altri colleghi per riferire le importanti novità emerse dal confronto con Mistretta la protesta Con ieri dunque si è per ora posta la parola fine allo scontro tra i dipartimenti e il rettore, cresciuto d’intensità negli ultimi mesi per il silenzio che arrivava dalle stanze del potere dell’Ateneo cagliaritano. Non erano servite neanche le lettere firmate da tutti i 44 responsabili dei centri di ricerca inviate a Mistretta. In una i docenti arrivavano anche a minacciare le dimissioni in blocco. il rettore E dopo il lungo incontro anche Mistretta si è detto soddisfatto: «A volte sono trascurato perché tirato da centomila cose. Mi dispiace aver dato l’impressione di non curarmi dei dipartimenti. Ora cercheremo di recuperare il tempo perso. A breve con un decreto sarà formalizzato il riconoscimento del collegio, per stabilire un rapporto continuo sulla ricerca scientifica. Ho preso l’impegno di confermare i fondi stanziati lo scorso anno. C’è anche da dire che bisognerà valutare meglio costi e produzione di tutti i dipartimenti, incentivando chi chiude con un rapporto positivo e prendendo provvedimenti nell’altro caso». Il rettore ha chiuso anche con una precisazione sulla sicurezza degli edifici dell’Università: «Molti locali sono stati rimessi a norma. Per completare il quadro servirebbero valanghe di milioni di euro». Matteo Vercelli _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 7 mag. ’07 MODIFICA STATUTO, ACCORDO DISTANTE Cariche elettive, rinviata la seduta del Senato accademico Dopo la prima fumata nera è nell’aria un altro tentativo di modifica dello statuto dell’Università. Ovviamente sotto la lente d’ingrandimento gli articoli che disciplinano la durata delle cariche di rettore, presidi e componenti del consiglio d’amministrazione. Le voci davano per certo che il Senato accademico si sarebbe riunito mercoledì. Invece la riunione è stata rinviata alla prossima settimana. L’ultima puntata nella telenovela delle modifiche dello statuto risale al mese scorso. All’ordine del giorno spuntarono le votazioni per correggere due articoli (il 68 e l’82) su durata delle cariche di rettore e presidi di facoltà. Quando si intuì che il voto poteva essere negativo mancò il numero legale (per l’uscita dall’aula di alcuni senatori accademici) e la seduta saltò. Nelle settimane successive ci sono stati incontri per verificare le condizioni favorevoli per una nuova discussione, e approvazione, delle modifiche. Che, visto lo slittamento della seduta del Senato accademico allargato, non sono state trovate. Domani invece si riunirà il Senato accademico con la discussione, tra le altre cose, dell’offerta formativa e dei corsi a numero chiuso. Un argomento sul quale i rappresentanti degli studenti promettono di dare battaglia: «Siamo contro ogni limitazione del diritto allo studio - spiega Maurizio Deiana del gruppo Università per gli studenti - anche perché l’introduzione del numero chiuso va contro i dettami del ministro dell’Università». (m.v.) __________________________________________________________ il manifesto 11 mag. ’07 PRECARIO ALL'UNIVERSITÀ: FELICITA' A MOMENTI E FUTURO INCERTO Andrea, un'odissea di 8 anni tra una borsa di studio e un assegno di ricerca Sara Farolfi Milleecento euro al mese e un bimbo di poco più di un anno. «Una scelta coraggiosa, grazie anche a una campagna che ha un posto-di lavoro stabile», e un po' di quello che non a torto si può definire welfare familiare. Che valore ha una storia individuale? «Soltanto il fatto che è una storia comune a decine di migliaia di persone dal percorso simile o uguale al mio» risponde Andrea Rapirù, 36 anni, abruzzese, oggi ricercatore precario al dipartimento di Discipline storiche dell'Università di Bologna. I precari invisibili di Enti pubblici e Università oggi manifestano di fronte alla sede del Ministero dell'Economia. Stanchi di sperare nella buona sorte, chiedono di non essere solo pregiata merce da campagna elettorale. Ti definisci un emigrante e dici che la tua storia è traiettoria comune a quella di molti altri. Una tesi di laurea appassionante a cui è seguita una borsa d3 dottorato all'Università di Teramo, e poi? Negli anni dei dottorato ho comunque mantenuto un rapporto scientifico con l'Università di Bologna e ho dato qualche seminario. Dopo la tesi di dottorato nel 2003, ho ottenuto un piccolo contratta di ricerca, a cui si è aggiunta una borsa di studio di una fondazione privata: insieme mi hanno permesso di fare ricerca per qualche mese in Francia. Poi ho concorso a Bologna e lì ho vinto un'altra borsa per continuare a studiare in Francia, da maggio a settembre 2004. Tre borse di studio in poco più di un anno, potrebbe sembrare un curriculum affascinante In realtà sì trattava di poche migliaia di euro, e senza l'aiuto dei miei genitori non sarei mai riuscito a mantenermi. Almeno fino a quando, a fine 2004, ho vinto un assegno di ricerca al dipartimento di Storia e critica della politica dell'università di Teramo. Due anni, ma con possibilità di rinnovo per altri due. E invece il rinnovo che speravi non c'è stato... No, l'ho saputo soltanto un mese prima e nel frattempo, a gennaio 2006, è nato mia figlio. Non è stato un bel periodo, ritrovarsi con un bimbo di pochi mesi e senza salario. Ho ricominciato a girare per l'Italia e, dopo varie esperienze negative, lo scorso ottobre ho vinto un assegno di ricerca a Bologna. Un anno, ma rinnovabile. fino a: . quattro. Si ritorna alla casella iniziale dunque? Spero dì no, a Bologna sì cerca dì garantire una certa continuità nel lavoro di ricerca dei giovani e c'è un deciso orientamento a favore del ricambio generazionale. Che cos'è la precarietà di cui parli? Per chi non vive la condizione materiale e mentale della precarietà è difficile capire. Di cosa si tratta? Sapere che il tuo percorso è molto fragile, che forse tra un anno non avrai un salario, e le donne in questo sono ancora più penalizzate. Ti aspettavi un cambio di marcia con questo governo? 5ì, ho votata questo governo anche per ragioni concrete che questa volta partivano dalla mia condizione materiale. Ho pensato cioè che rappresentasse non solo le mie idealità politiche ma anche il mio status. II governo in campagna elettorale si è rivolto a noi ricercatori, ha parlato di scuola, formazione e ricerca, ma finora non c'è stato alcuno scarto. Concretamente, cosa pensi dovrebbe fare? Se si pensa che la ricerca e l'Università siano un investimento per il futuro, allora servono innanzitutto risorse. E poi concorsi per il reclutamento delle giovani generazioni, il personale accademico italiano è tra i più anziani d'Europa. In ogni caso sono contro l'ingresso indiscriminato dì massa, senza una valutazione seria. E qui forse si possono tirare in ballo anche le responsabilità del mondo accademico... Qualcosa dovrebbe cambiare, anche se è difficile dire come. Certo, finché la salvaguardia dei diritti dei giovani è affidata alla discrezionalità e sensibilità dei docenti, si va poca lontano. Da questo punto di vista mi sento fortunato, ma l'università è una struttura gerarchica e i ricercatori sono troppo spesso figure deboli. E' facile così che ci si percepisca come dominati, portati a pensare che il proprio problema si risolva individualmente: Anche per questo la manifestazione di oggi è un fatto molto importante. Il futuro come lo vedi? Posso rispondere con una battuta? Felicità a momenti e futuro incerto... Scioperi e manifestazioni oggi, in due diversi comparti. Al Pata lottomatica di Roma si danno appuntamento i lavoratori di terziario, turismo e pulizie. Davanti al ministero dell'economia i ricercatori precari _____________________________________________________________ Il sole24Ore 10 mag. ’07 SEI MANAGER SU 10 RESISTONO ALL'INNOVAZIONE RICERCA DEL CENSIS I direttori generali di Asl e direttori pubblici poco propensi ad adottare nuovi modelli di gestione finanziaria ROMA C'è l'integrato- scettico, l'integrato ritualista, l'entusiasta-frustrato e il deviante istituzionalizzato. In una Sanità divisa in 21 Regioni, non potevano mancare caratteristiche estremamente differenziate anche per i manager di Asl e ospedali pubblici. Le punte di diamante dei conti del Ssn che non tornano mai e che invece debbono affrontare dalla trincea di poteri gestionali relativi. Manager che al nuovo nella gestione finanziaria delle aziende sanitarie, preferirebbero probabilmente vecchi modelli: al 63%, dice infatti il Censis, i direttori generali del Ssn non amano affatto l'innovazione finanziaria. In larga maggioranza sono «restii», appunto, e «ritualisti». Poco o affatto innovativi. Soprattutto in Sicilia, dove al 100% non amano affatto l'innovazione. La ricerca del Censis, illustrata ieri da Carla Collicelli (vice direttore generale) al convegno di Farmafactoring, ha coinvolto per il momento quattro Regioni: Toscana, Lazio, Sardegna e Sicilia. E si associa al giudizio di Giuseppe De Rita (segretario generale del Censis e consigliere di amministrazione de «Il Sole-24 Ore») sui nodi da sciogliere per il Ssn: la «filiera frammentata», l'aziendalizzazione «imperfetta», il ruolo da «supplenti» dei privati, che invece dovrebbero-potrebbero essere «trainanti». Manager fai-da-te, insomma. E in effetti questo dice il Censis: «I risultati rimandano alla diffusione di un "modello fai da te" di stampo artigianale e al tempo stesso alla presenza di diverse modalità d'approccio più o meno individuali». Dove a distinguere i comportamenti, è «soprattutto la propensione all'innovazione, che costituisce uno degli aspetti fondamentali quando si ha a che fare con contesti problematici e in evoluzione». Ecco così le quattro anime dei manager del Ssn. Gli etico- scettici sarebbero la maggioranza e i più restii nei confronti delle innovazioni finanziarie: sono il 33,3% e in loro prevale la «centralità assoluta della missione etica» di tutela della salute. A seguire, col 30%, c'è il dg «integrato ritualista», pure poco propenso all'innovazione, con un «forte senso di appartenenza alla propria amministrazione» e in cui vince la «centralità del rispetto di obiettivi e regole fissate dall'alto». Due categorie, insomma, che se nelle innovazioni finanziarie non vedono il vero futuro del Ssn, sono tuttavia molto ancorate a principi etici e di appartenenza, il che non certo non guasta, oltreché al rispetto di regole superiori. Più aperte al nuovo e all'innovazione finanziaria che avanza, sarebbero invece secondo la ricerca le altre due tipologie di manager. Come l'entusiasta ma frustrato, il 20% del campione, che mostra un deciso «orientamento all'innovazione» e che, tuttavia, soffre per la «scarsa capacità di valorizzare gli spazi di autonomia», quando li ha. E ancora più innovativo sarebbe potenzialmente il deviante istituzionalizzato, il 16,3% del campione intervistato, che manifesta un'altissima propensione all'autonomia operativa, salvo poi potercela fare. Secondo i ricercatori del Censis, i massimi fautori dell'innovazione, i «devianti istituzionalizzati», sarebbero maggiormente presenti in Sardegna col 57%, accompagnati da un 28,6% di entusiasti-frustrati. Mentre la presenza di manager Ssn di «stampo artigianale» sarebbe dell'87% in Toscana e del 50% nel Lazio. Ma col picco massimo (e assoluto) in Sicilia: al 100% non sono innovativi. R. Tu. ________________________________________________ Il Sole24Ore 10 Mag. ‘07 CARBONIA: IL MUSEO-LABORATORIO VA IN MINIERA La rinascita di Carbonia. L'ex area estrattiva del Sulcis accoglierà attività museali, produttive, di ricerca energetica e un master in urbanistica progetto é stato finanziato da Bruxelles e potrebbe attrarre 70mila visitatori entro il 2010 Mariano Maugeri CARBONIA. Dal nostro inviato «Piovono uomini da tutte le parti: bestemmiatori, ubriaconi, sgangherati malarici, emaciati con le barbe lunghe, i vestiti in disordine: la razza informe dei braccianti e dei manovali. Uomini buoni solo a franger zolle, a spalare, a spingere vagoni, , a caricare e scaricare pesi, uomini senz'avvenire, senza idee, senz'arte e senza mestiere e che, oltretutto, si lavano poco, puzzano. I loro piaceri sono fumare e bere». Carbonia, 1938. Il delirio di onnipotenza del Duce ha inventato una nuova città «a bocca di miniera». Un impresario annotale sue impressioni. La guerra è alle porte, e la macchina bellica italica va a carbone, montagne di carbone. Serbariu cessa la produzione, per volere della Ceca, nel 1964. La fine della miniera è la fine di Carbonia. Se ne vanno ao mila abitanti dei 3omila «dell'era fascista». Un declino, anche qui, che col tempo cancella tutte le testimonianze di un'epoca. La zona mineraria viene smantellata: le torri in ferro che calavano nei pozzi i minatori vendute a un rottamaio, la lampisteria trasformata nel ricovero permanente di una comunità di zingari rom, il cinema-teatro sbarrato in attesa di lavori che non si faranno mai. Un sonno della memoria lungo quasi quarant'anni. Nell'omologa zona mineraria francese, quel Nord Pas de Calais che una volta - quando il carbone valeva come il petrolio - era uno dei cuori pulsanti dell'industria europea, la memoria è identità e denaro sonante. I gauchisti al potere, all’indomani della chiusura dell'ultima miniera di carbone - era il 1991 - si rimboccarono le maniche affinché le viscere della terra non inghiottissero un pezzo di storia di Francia. Nulla di tutto questo avvenne a Carbonia. Come se si volesse seppellire un luogo che insieme al fascismo raccontava storie di deportazioni, sofferenze, repressioni, lutti: 337 croci di minatori morti sul lavoro in appena un quarto di secolo. L'Italia, si sa, ha un metabolismo lento. E in fin dei conti tocca sempre a un uomo riscattare altri uomini. A Carbonia la buona sorte estrae il nome di un gauchista dei Ds forse un po' deluso da tre legislature sugli scranni di Montecitorio. È la sua coscienza che quasi istintivamente risponde a quel minatore anonimo che in una poesia si macera d'interrogativi sulla sorte dei suoi compagni «dove sono finiti tutti i minatori della fatica immensa, i nostri padri, i nostri coraggiosi antenati, dì, dove sono?». Tore Cherchi, laurea in ingegneria mineraria, ripercorre alla rovescia la strada di molti suoi omologhi francesi. Prima deputato, poi sindaco. E, nel 2002, quando viene eletto primo cittadino, promette che la città sarda seguirà il modello di altri grandi bacini carboniferi europei: Charleroi, il Nord Pas de Calais, la Ruhr e il North East of England. Promette pure che torneranno a nuova vita quegli esercizi di retorica fascista che a Carbonia hanno lasciato dei piccoli capolavori di architettura, tra i quali la lampisteria di 2.500 metri quadri progettata da un allievo di Pier Luigi Nervi (l'enorme sala dove i 26 mila minatori ritiravano la lampada prima di scendere nei pozzi). La città crede a Cherchi. E non potrebbe fare altrimenti. È in credito con la storia e la memoria dei suoi morti. Cherchi promette che in quattro anni Carbonia diventerà il primo distretto minerario fruibile al turismo. Lui lascia tutto com'era e dov'era. Compresa la scritta di Mussolini che si legge all'ingresso di Serbariu: «ColorCS che preferisco sono quelli che lavorano duro, seco, sodo, in obbedienza possibilmente in silenzio». Un paradosso per i minatori, che la disciplina del silenzio dovettero subirla fuori dalla miniera e nelle rumorosissime gallerie sotterranee, per via di antidiluviani martelli pneumatici. Quel silenzio che oggi serra le labbra non appena si trapassa l'ingresso della lampisteria rimessa a nuovo: in una teca le lampade a olio, in un'altra la storia geologica del carbone, in un'altra ancora le vicende di Serbariu. Un museo che i cittadini hanno costruito con gli specialisti, donando epistolari, indumenti e attrezzi di lavoro conservati in ogni casa. Poi, con l'elmetto in testa, ci si cala sottoterra e si percorrono le gallerie che raccontano un secolo di lavoro in miniera. Il primo museo-miniera nella storia della Sardegna (quella dì Porto Flavia è privo della parte documenta è stato inaugurato tre mesi fa. Costo dell'opera: 22 milioni per il 90% finanziati da Bruxelles. Cherchi punta in alto: «Avremo 70 mila visitatori entro il terzo anno». Ma la sua cedola l'ha staccata fanno scorso: rieletto con il 78,7% dei consensi. Cherchi non si stanca di elencare progetti. All'interno dei 28 ettari dell'area mineraria nascerà un centro di ricerca sulle tecnologie energetiche pulite (una società mista tra Enea e Regione Sardegna); un museo di scienze naturali; un master in architettura razionalista in partnership tra gli atenei di Cagliari, Torino e Tor Vergata; una cineteca specializzata in cinema del lavoro. E poi un'area dove si collocheranno un gruppo 'di botteghe artigiane. Insomma, un museo laboratorio - incubatore senza precedenti. «Tutti progetti unici, nessuna replica di cose già fatte ________________________________________________ Il Sole24Ore 8 Mag. ‘07 ATENEI, INTERMEDIAZIONE AL PALO Lavoro. L'attuazione é ostacolata dalla mancanza di chiarimenti sui destinatari del servizio Poche università svolgono l'attività prevista dalla Biagi Angela Manganara MILANO Non decolla l'attività di intermediazione tra laureati e mondo del lavoro introdotta dalla riforma Biagi. «Oltre alla Bocconi> all'università di Modena e alla Sapienza - spiega Michele Tiraboschi, vice presidente della Fondazione Biagi -sono ancora poche le università che offrono un servizio di placement avanzato. La riforma, invece, attribuisce agli atenei un ruolo importante: accompagnare lo studente verso il mercato del lavoro e ridurre il rischio precariato». L'attività di intermediazione è ostacolata da elementi di incertezza: chi sono gli utenti? Come sostenere i costi se il servizio è aperto a tutti? Quali conseguenze ha il divieto per i consorzi di fare attività di intermediazione? Sono i dubbi sollevati da una ricerca pubblicata sulla rivista della Crui (la Conferenza dei rettori) che fa il punto della situazione a quattro anni dal decreto legislativo (27G/o3) con cui è stata attuata la legge Biagi (30/03). 11 primo problema è individuare gli utenti del servizio. «L'esigenza dell'ateneo-spiega Patrizia Dilorenzo, che ha realizzato la ricerca per conto della Crui - è capire chi sono i destinatari dell'intermediazione: se solo gli studenti oppure un pubblico più vasto. Nella seconda ipotesi, ci sarebbero diversi problemi, prima di tutto di tipo organizzativo». Offrire il servizio di intermediazione non solo ai propri laureati ma a tutti i potenziali interessati, si legge nello studio, è una conseguenza dell'obbligo per le università di Interconnettersi alla Borsa Lavoro, il database per chi cerca e offre lavoro. Il secondo problema èlegato al primo: se devono offrire intermediazione attutiti coloro che ne fanno richiesta, gli atenei da soli non ce la fanno: hanno bisogno di finanziamenti aggiuntivi. Proibire ai consorzi la facoltà di intermediazione, infine, potrebbe mettere a rischio fattività di ALmaLaurea e Cilea. La Conferenza dei rettori ricorda, poi, che nel dicembre zoo5 su questi temi c'è stato un incontro tra ministero del Lavoro e responsabili degli uffici di job placement di 54 università. Nello stesso mese,però, il ministero ha diffuso una circolare con cui ribadiva l'obbligo per tutti di connettersi alla Borsa. Da allora non è arrivato nessun altro chiarimento ufficiale. ' II ministero non ha risposto neanche all'interpello presentato nel marzo 2006 da università di Modena e Fondazione Marco Biagi. Né al successivo sollecito del novembre dello stesso anno. «Ancora oggi-dice Tiraboschi--non sappiamo nulla». L'interpello di Modena va ancora più in fondo allà questione: si chiede sì di chiarire chi sono i destinatari del servizio ma> sottolinea Tiraboschi, «dobbiamo capire soprattutto se gli atenei hanno l'obbligo di comunicare alla Borsa i dati di tutti gli studenti o possono fare una selezione». La fondazione Biagi propone di inserire nella Borsa solo i curricula dei laureati che ne fanno espressa richiesta. «Inserire automaticamente i dati di tutti – continua Tiraboschi - paralizza l’attività dell'ufficio ed è inutile: per un'azienda che vuole assumere, avere troppi nominativi è come non averne nessuno. C'è poi un problema di privacy perché i dati possono andare a finire nei database di agenzie interinali senza il consenso degli interessati». Se la platea fosse rappresentata da un pubblico più vasto gli istituti avrebbero bisogno di ulteriori finanziamenti. La norma Secondo l'articolo 6, comma 1 dei decreto legislativo 276/03, sono autorizzate allo svolgimento dell’ attività di intermediazione le università pubbliche e private, comprese le fondazioni universitarie che hanno come oggetto l’alta formazione con specifico riferimento alle problematiche del mercato dei lavoro. Il tutto a condizione che te università svolgano tate attività senza fine di lucro e fermo restando l'obbligo della interconnessione alla Borsa nazionale del lavoro I dubbi Secondo uno studio della Crui, non è chiaro se il servizio sia destinato ai sali studenti o a tutti: in quest'ultimo caso, le università avrebbero bisogno di finanziamenti aggiuntivi Senza scopo di lucro ________________________________________________ Il Sole24Ore 9 Mag. ‘07 IN CRESCITA. LE ASSUNZIONI DI LAUREATI E DIPLOMATI Il segnale è passata in sordina, ma se confermato rappresenta una parziale inversione di tendenza nel rapporto tra domanda e offerta di lavoro. L'ultimo Rapporto del Centro studi Unioncamere sulla situazione del sistema delle imprese e sulle dimensioni della ripresa parlano di una stima di crescita al 2007 del Pil del 2% e di una crescita dell'occupazione nello stesso anno dell'2%, sempre significativa, ma in parte rallentata rispetto alla crescita media 2000 2006 che con 1,8 milioni di occupati in più è stata dell'8,4%. Mentre negli anni passati l'occupazione è spesso cresciuta più e nonostante un più basso ritmo di crescita dell'economia, ora il suo destino è sempre più legato allo sviluppa, ma conserva una sua significatività anche se con un ritmo leggermente più rallentato. Il dato qualitativo che emerge dall'indagine Unioncamere è forse ancora più interessante. Non solo nel 2007 il 26% delle imprese (il 3% in più del zoo6) si dichiara intenzionato ad assumere; non solo la domanda di lavoro sembra essere _più forte nell'industria e nelle costruzioni che nei servizi (30% contro il 2e/- dei servizi); ma la quota di imprese intenzionate ad assumere sale al36% tra quelle che hanno sviluppato nuovi prodotti e servizi e sino al 38% in quelle orientate ai mercati esteri. Il dinamismo imprenditoriale si accompagna anche a una crescita della domanda in termini di qualità. Infatti, l'orientamento aziendale verso il sistema di istruzione conferma il riposizionamento in corso nelle imprese e si orienta ad alzare il tiro: dopo la battuta d'arresto del 2006, le assunzioni di figure in possesso di titoli di livello universitario corrisponderanno a 20mila nuove entrate. Più laureati, quindi, ma anche un forte dinamismo nella richiesta di diplomati (+50mila). 1; questo un segnale importante di una domanda ieri bassa e oggi e domani in crescita, che tenderà a valorizzare le lauree e meno i titoli più bassi. IL43% delle assunzioni saranno a tempo determinato, contro il 45,1% di contratti a tempo indeterminato. ________________________________________________ La Stampa 7 Mag. ‘07 FUORICORSO E SENZA AMBIZIONI PER IL FUTURO PROFESSIONALE Un paese di santi, eroi e navigatori, ma soprattutto di accademici, linguaioli, parolai e pensatori. Peraltro un po' perditempo e inconcludenti. Ai laureati di sette corsi umanistici (lettere, conservazione dei beni culturali, lingue, scienze della comunicazione, storia, filosofia, discipline dello spettacolo) il consorzio Almalaurea (cui aderiscono quasi tutte le università italiane) ha dedicato una corposa e serissima ricerca, per indagare come e quanto abbiano studiato. e in che tempi, con quale profitto e, beninteso, con quale successo professionale post-laurea. I dati sono, di per sé, asettici e il direttore di Almalaurea Andrea Cammelli, non si lascia andare a conclusioni emotive. Tuttavia l'impressione è di trovarsi di fronte ad una massa infinita, e crescente negli anni, di studenti fannulloni che studiano per amor di conoscenza senza porsi il problema di finire e di mettersi a lavorare per vivere. Sempre più letterati Inutili gli appelli della Moratti (e di Confindustria) a favore delle lauree scientifiche: il paese registra una crescita delle immatricolazioni ai corsi di laurea umanistici che interessano oggi uno studente su quattro: Per contro - ai corsi scientifici sono poco più del 3%. E i giovani, umanisti pur non dovendo affrontare corsi molto ostici, se la prendono comoda. Gli studenti del vecchio ordinamento (quelli che si sono cioè iscritti prima della riforma del 3+2) arrivavano al giorno della laurea in conclamato ritardo: quasi il90% i fuoricorso. Oggi la situazione è migliorata, eppure - dicono i numeri di Almalaurea - anche con le lauree triennali si va allegramente oltre i tempi massimi: sono ormai il 36% gli studenti ritardatari, che diventano il 55% a filosofia, il 50% al Dams, il40°,6 a storia. Dunque si indugia, pigramente, tra l'arte medievale e la filosofia greca, tra l'antropologia e la storia del teatro, tra la poesia e il cinema, con il risultato che alla laurea si arriva con tutta calma. E così, per dire, quelli che si dovevano laureare in lettere col vecchio ordinamento (4 anni di corso) si laureano a 28 anni e mezzo anziché a 23, quelli del nuovo ordinamento (3 anni di corso) a 25 anziché a 22: E non va meglio per altre lauree: i filosofi diventano tali a 29,3 anni, gli storici addirittura a 30,5; meglio quelli di scienze della comunicazione: 25;5 col. vecchio ordinamento, ma 23,9 col nuovo. La lentezza Qualcuno dice che questa esasperante lentezza sia dovuta alla forte incidenza degli studenti-lavoratori, che si iscrivono più per cultura personale che per trovare un posto. I dati di Almalaurea, però, smentiscono questa ipotesi: il corso in storia è quello che ha più lavoratori studenti; ma sono il 15%; a lettere l’8,7%, a scienze della comunicazione il 5,2%; al Dams l’8,3%. In realtà le discipline umanistiche sono gratificanti, ed è quindi comprensibile che il «naufragar sia dolce» in questo mare. Non a caso, alla domanda se si intenda proseguire negli studi (con una laurea specialistica o un dottorato), il78,6% degli intervistati risponde sì, con punte fino al92,3% a Lettere. Va da sé che l'impatto con il lavoro viene rinviato, tanto più che nessuno è così sprovveduto da non capire che il lavoro non c'è e che il passaggio dalla disoccupazione al posto stabile, prevede una condizione cuscinetto di precarietà che non dura mai meno di cinque anni. E' vero che a un anno dalla laurea il67% dichiara di lavorare (e ben l'89,4% a cinque anni) ma si tratta di lavori che già si erano iniziati durante gli studi, in due terzi dei casi sono «atipici» e, quasi sempre, molto poco retribuiti: si va dagli 809 curo mensili dei laureati in conservazione dei beni culturali ai 928 di quelli in scienze della comunicazione: Solo questi ultimi, peraltro, a distanza di 5 anni, arrivano alla media retributiva dei laureati italiani di pari anzianità (1:316 euro). Gli altri sono tutti al di sotto: Ma nel frattempo hanno spento la trentacinquesima candelina. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 9 mag. ’07 LA SCOPERTA DI MERITO E CONCORRENZA SE LA RIVOLUZIONE ARRIVA ANCHE IN ITALIA Giavazzi: «Erano idee minoritarie, ora sono esigenze sentite da tutti» MILANO - Volete una, anche una sola ragione per apprezzare la globalizzazione dell' economia? E per difenderla? Questa mattina, nell' aula magna dell' Università Bocconi di Milano, Francesco Giavazzi proporrà questa: «Fino a 15 anni fa - dice l' economista - il merito e la concorrenza erano concetti minoritari in Italia. Trovo straordinario che oggi, invece, la grande maggioranza degli intervistati da un sondaggio presentato da Alberto Martinelli metta la concorrenza e il merito al primo posto delle esigenze italiane. È successo che la globalizzazione ha aperto i mercati, ha diminuito i costi della comunicazione e in questo modo ha accresciuto la concorrenza. Per rispondere alla quale non si può che puntare sul riconoscimento del merito». Il convegno di questa mattina - che darà l' avvio al Forum internazionale Economia e Società Aperta - ha proprio l' obiettivo di analizzare i cambiamenti positivi introdotti dall' economia globale e di vedere quali rischi corra questo processo fatto di frontiere che cadono, mercati che si integrano, comunicazioni che azzerano le distanze. Perché il fenomeno non è un fatto acquisito e scontato, sottolinea Giavazzi: «La prima globalizzazione, quella tra il 1890 e la prima guerra mondiale, finì male: con un backlash formidabile, una reazione forte che sfociò nel protezionismo degli anni Venti». L' incontro - che si intitola Merito, Concorrenza e Globalizzazione e sarà preceduto da due interventi, uno del rettore della Bocconi Angelo Provasoli e l' altro del direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli - cercherà di individuare tendenze e pericoli che in qualche modo accomunano la prima e la seconda globalizzazione (quella che viviamo da una quindicina d' anni). In particolare, Jeffry Frieden, economista di Harvard, punterà a capire cosa fu a determinare, poco meno di un secolo fa, la fine dell' apertura e dell' integrazione mondiale: il ruolo che giocarono il protezionismo agricolo, che sopravvive ancora nel 2007, e il mercato del lavoro, a quel tempo ancora più sconvolto di oggi da migrazioni eccezionali. Lant Pritchett, un economista della Banca Mondiale, cercherà di analizzare perché «l' anello mancante della globalizzazione» - come lo definisce Giavazzi - oggi sia proprio il lavoro: il fattore che, rispetto alla fine dell' 800, si muove meno, in particolare se confrontato a merci, servizi, denaro. È questo un fattore di rischio in meno, per la globalizzazione, oppure nasconde esso stesso insidie? Difendere la mondializzazione dell' economia, la ricchezza che crea e la spinta che dà alla riduzione della povertà significa però anche cautelarsi dai fenomeni negativi, o percepiti come tali, che la accompagnano. «Nella prima e nella seconda globalizzazione - dice Giavazzi - l' ampliarsi della diseguaglianza dei redditi è andata avanti di pari passo. All' interno dei singoli Paesi, tra chi è ricco e chi è povero. E tra i Paesi stessi. Non si tratta di aumento della povertà, anzi. Ma anche in una crescita generale del reddito, quello che conta è il reddito relativo: non è importante se finalmente riesco ad andare a Rimini se, ora, il mio vicino che fino all' anno scorso già ci andava, può andare ai Caraibi. Anche questo ampliarsi della diseguaglianza crea rischi di rifiuto della globalizzazione». In positivo, il convegno cercherà di trovare proposte per migliorare l' integrazione delle economie. «Non difendendo le rendite e il posto fisso - dice Giavazzi -. Puntando a mercati che funzionano e aiutando chi perde il lavoro a sopravvivere e a trovare un' altra occupazione». In più, spingendo per ulteriori aperture. Zhaohui Chen, presidente del centro di ricerca First Light Academy di Shanghai, parlerà del reale livello di apertura della Cina ai capitali internazionali. E il ministro Emma Bonino sarà chiamata a discutere delle tendenze protezionistiche nel commercio internazionale, in particolare dello stallo del Doha Round, il negoziato che dovrebbe aprire ulteriormente gli scambi mondiali. Perché, come si sa da quasi un secolo, quando il protezionismo vince, i guai in arrivo sono seri. * * * HERITAGE INDEX L' Italia è 42ª nella classifica della libertà economica * * * 4,7% Per il Fmi la crescita mondiale nel 2007 sarà almeno del 4,7% grazie alla spinta, nei mercati integrati, dell' export asiatico Taino Danilo ________________________________________________ Il Sole24Ore 6 Mag. ‘07 CLIMA QUEI TRABOCCHETTI DI KYOTO Lawrence Summers Professore Alla Harvard University Il mercato dei diritti di emissione si dimostra poco vincolante per gli Stati La Borsa di settore rischia di favorire i sussidi alle imprese su larga scala Con l'accumularsi delle prove scientifiche, presentate all’opinione pubblica con argomenti ,convincenti, il dibattito sul riscaldamento globale è entrato in una nuova fase. Chi si ostina a negare che siano le attività dell'uomo a portare la responsabilità del riscaldamento del pianeta, o a sostenere che si possa continuare a tempo indefinito a condurre le nostre attività come le conduciamo adesso senza dover fronteggiare conseguenze troppo gravi, viene considerato ormai quasi sullo stesso piano di quelli che negano che il tabacco possa avere conseguenze negative per la salute umana. In certi ambienti, probabilmente, si eccede in euforia rispetto ai potenziali benefici economici delle politiche ecologiche, ma è ormai indiscutibile che esistano opportunità straordinarie per arrivare a ridurre le emissioni, ottenendo benefici economici o affrontando costi economici trascurabili. È stato calcolato che i sussidi all'energia, a livello mondiale, ammontano a circa 250 miliardi di dollari. Il vero nodo al centro del dibattito non è se si debba o meno intervenire (questo ormai sarebbe un discorso insensato): l'interrogativo cruciale, adesso, è che cosa si debba fare per lasciare ai nostri discendenti la miglior qualità di vita possibile. Visionarietà e ambizione sono i due ingredienti necessari per dare una risposta a questa domanda: ma come ci insegna tristemente il caso della Lega delle Nazioni di Woodrow Wilson, visioni e ambizioni utopistiche disancorate dalla realtà politica, economica e sociale rischiano di essere controproducenti. Esiste un pericolo molto concreto, e cioè che il mercato dei diritti di emissione,il meccanismo previsto dal Protocollo di Kyoto per arrivare a una rapida riduzione delle emissioni (sistema che al momento è quello privilegiato da quasi tutti i Governi europei) finisca col risultare inefficace, se non addirittura controproducente in quanto impedirebbe l'emergere di altri approcci, più realistici, al problema. Kyoto al momento è l'unico strumento a disposizione per tutti quelli che non vogliono adottare la politica dello struzzo rispetto ai cambiamenti climatici globali, e quindi non sì può far altro che sperare nel suo successo. Può senz'altro essere utile, però, cercare di individuare i potenziali trabocchetti di Kyoto e prendere in considerazione, come misura prudenziale, approcci alternativi qualora il Protocollo di Kyoto dovesse fallire. Il primo problema dell'approccio scelto dal Protocollo di Kyoto è il fatto che si basa su un discutibile presupposto, e cioè che i traguardi fissati o le penali previste in caso di mancato raggiungimento di questi traguardi possano realmente avere effetti vincolanti per gli Stati. È istruttivo a questo proposito l'esempio del Trattato di Maastricht, che stabiliva degli obiettivi di spesa pubblica sottoposti al controllo diretto dei Governi, su un arco di tempo relativamente breve e nell'ambito di un gruppo di Paesi che avevano già raggiunto un elevato livello di coesione. Il patto si è rotto quasi subito, quando è sembrato che gli obiettivi fissati non fossero vincolanti per i grandi Paesi, con l'abbandono di questi obiettivi e nessuna penale, neanche modesta, pagata dai trasgressori. Niente lascia presumere, a tutt'oggi, che Kyoto stia stimolando comportamenti responsabili. I risultati migliori sul fronte della riduzione delle emissioni vengono da Paesi come il Regno Unito, la Germania é gli ex Paesi comunisti, dove il carbone sta progressivamente uscendo di scena come fonte energetica, ma per altre ragioni, non legate al Protocollo. L'impatto limitato del Protocollo di Kyoto è dimostrato dal fatto che i diritti di emissione al momento raggiungono quotazioni trascurabili, intorno a un euro per tonnellata. Il secondo problema è che la Borsa delle emissioni rappresenta un invito a lanciarsi in politiche do ut des di sussidi alle imprese su ampia scala. Se le emissioni di gas a effetto serra calassero in modo sostanziale, com'è l'obiettivo, il valore dei diritti di emissione sarebbe di decine di miliardi di dollari. Se in teoria i diritti di emissione possono essere messi all'asta, nella pratica vengono sempre assegnati per via amministrativa. Più che naturale dunque che quelle aziende che hanno la possibilità di scaricare i costi delle emissioni sui loro consumatori siano entusiaste di questi meccanismi che consentono di compensare tali costi assegnando loro diritti di emissione collegati ai loro attuali livelli di emissioni. II Cdm (il meccanismo di sviluppo pulito; il sistema previsto dal Protocollo di Kyoto che consente alle aziende dei Paesi industrializzati di ottemperare ai propri impegni di riduzione realizzando progetti per la riduzione delle emissioni in Paesi in via di sviluppo, senza vincoli di emissione, ndt) ha prodotto come risultato grossi esborsi per riduzioni di emissioni che sarebbero avvenute comunque, oche si sarebbero potute ottenere con costi minimi. C'è addirittura ragione di pensare che in certi casi le emissioni siano state incrementate per poi poter rivendicare il merito del loro successivo abbattimento. Il terzo problema, quello più serio, é che il sistema di Kyoto difficilmente riuscirà a incidere in modo significativo sulle politiche nazionali dei Paesi in via dì sviluppo. Come mi hanno spiegato degli indiani che ml hanno recentemente ospitato, i politici dei Paesi in via di sviluppo difficilmente accetteranno traguardi vincolanti, in materia di utilizzo dell'energia o emissioni di gas a effetto serra, troppo lontani dai livelli di emissioni pro capite fissati per il mondo industrializzato. Né è ragionevole attendersi, sulla base di vaghe proiezioni di tendenze economiche e sviluppi tecnologici futuri, che questi Paesi si impegnino su obiettivi dì utilizzo energetico che si discostino dai modelli osservati nei Paesi ricchi. La verità sui cambiamenti climatici è che sono i Paesi in via di sviluppo quelli i su cui bisogna intervenire di più, perché nei prossimi 25 anni saranno responsabili dei tre quarti degli incrementi delle emissioni e perché stanno effettuando adesso gli investimenti che disegneranno il volto futuro delle loro economie. Dirò di più: qualsiasi meccanismo internazionale per il controllo delle emissioni che non includa questi Paesi non avrà speranze di successo, perché le riduzioni delle emissioni nel mondo industrializzato saranno compensate dal trasferimento di attività ad ' alta intensità energetica nei Paesi del Terzo Mondo. La votazione compatta dei senatori democratici americani nel j 1997 è un segnale che qualsiasi approccio al problema che non coinvolga i Paesi invia di sviluppo verrà probabilmente rigettato da una parte (almeno) del mondo industrializzato. Forse questi e altri problemi, come la difficoltà di fissare traguardi in materia di emissioni, considerata la portata delle incertezze economiche, possono essere superati con buona volontà e molta riflessione e mi ripropongo di suggerire approcci alternativi che pur essendo meno eclatanti sul piano dei risultati immediati possono garantire, nel corso del tempo, basi più solide per un progresso di cui il mondo non può fare a meno. (Traduzione di Fabio Galimberti) REALISMO I Paesi in via di sviluppò saranno responsabili dei tre quarti degli incrementi dei gas-serra: qualsiasi politica non può non tenerne conto ______________________________________________________ L’Indipendente 10 mag. ’07 UNIVERSITÀ, TROPPI REGALI A BILL GATES L’Università italiana si è messa in affari con Bill Gates. Lunedì i ministri Fabio Mussi e Luigi Nicolais si sono presentati nella sala stampa di Palazzo Chigi e hanno annunciato l'accordo: il governo creerà tre centri per l'innovazione in Piemonte, Campania e Toscana. Si occuperanno di formazione, trasferimento tecnologico e facilitazione dei progetti di ricerca e naturalmente saranno basati su tecnologie e licenze Microsoft «Grazie a questo accordo si aprono grandi opportunità - ha commentata il ministro per le Riforme e le Innovazioni nella Pubblica amministrazione - si tratta di un ulteriore passo in avanti nella collaborazione tra multinazionali e università, per attrarre investimenti sul territorio». Una prestigiosa collaborazione, della quale però non è ancora chiaro il costo per i contribuenti. «Il ,90 metterà degli altri soldi», si è limitato ad annunciare un gongolante Mussi. Ma l'entusiasmo per l'accordo, che per ora ha contagiato solo i due ministri, nel resto d'Italia ha scatenato una ridda di polemiche. «Sono sorpreso e amareggiato - spiega il presidente della Commissione cultura della Camera hieiro Folena - nel mondo accademico prevale di gran lunga l'utilizzo di software open source, come Linux, perché, grazie al suo contenuto aperto e pubblica, può essere studiato, modifica, adattato. Non si capisce quindi perché il Governo abbia deciso di affidarsi ad una azienda che produce software proprietario, chiuso e immodificabile». Folena ritiene ce ne sia abbastanza per un'interrogazione parlamentare, che presenterà m prossimi giorni. Se si va a spulciare il programma dell'Unione, è difficile dargli torto. «Dovremo diffondere l'Open Source nelle amministrazioni. Questa risorsa allevierà la dipendenza dalle onerose licenze commerciali, recitava una sura dell'agenda politica. Un terribile caso di amnesia. Ma mettersi nelle nani dello Microsoft, non era esattamente il desiderio della Crui. La Conferenza M Rettori, e con loro le università di tutti gli altri Paesi d'Europa e del mondo, ritengono il software libero l'unica risorsa possibile per in ricerca. Ovunque tranne che da noi. Zio Bill, a bordo del suo BlueYacht, già si frega le mani. Un milione di dollari alle Università italiane, per lui sono noccioline. Quanto basta perché Nicolais e Mussi gli votino statue in tutti gli atenei d’italia. _____________________________________________________________ Libero 9 mag. ’07 LA LUCE "SOLIDA" CAMBIERÀ IL NOSTRO FUTURO Potrebbe la luce comportarsi come un solido? La risposta è sì, almeno secondo un gruppo di ricercatori australiani. Non solo: «La luce solida sarà determinante per il futuro dell'uomo: lo aiuterà infatti a elaborare la tecnologia di questo secolo e di quelli che verranno»: Parola del dottor Andrew Greentree, della Scuola di Fisica dell'università di Melbourne, responsabile dello studio. Greentree e i suoi colleghi ipotizzano di poter creare strati di luce solida in laboratorio servendosi dei comuni strumenti utilizzati per lo studio dei vari stati della materia, liquido; solido e gassoso: il riferimento è, in particolare, a un substrato solido caratteristico, un "quantum control", all'interno del quale si trovano dei fori che immagazzinano e immobilizzano le particelle della luce. «I fotoni della luce solida entrano in confatto con ogni altro fotone come fanno gli elettroni. Questo significa che noi possiamo controllare le particelle della luce, aprendo la strada per lo sviluppo di una nuova generazione di computer superpotenti - precisa Greentree -. Molti problemi della fisica quantistica sono oggi impossibili da risolvere per via di questo limite: la nostra incapacità di alterare lo stato dei fotoni. Ma la nostra teoria mostra che in un sistema del genere, noi possiamo controllare e misurare le caratteristiche della luce solida, così come possiamo annotare i parametri fisici di un qualsiasi materiale in un qualsiasi stato della materia». - Lo studioso dice che i fotoni della luce normalmente non interagiscono con gli altri fotoni. Per essere precisi il comportamento dei fotoni nella materia è molto diverso da quello delle particelle cariche: la mancanza di carica elettrica rende impossibili collisioni elastiche e anelastiche con gli elettroni atomici di un particolare elemento. (Semmai le particelle della luce sono soggette ad altri fenomeni fisici come l'effetto fotoelettrico e l'effetto Compton). Al contrario gli elettroni si respingono. tra diloro conforza. Il team di ricercatori ha dunque dimostrato che si può dar vita a una "fase di transizione" dello stato fotonico, così da indurre i fotoni a cambiare il loro stato, e imitare l'azione di una particella carica elettricamente. «Una fase di transizione ha luogo quando un corpo cambia il suo stato, la disposizione degli atomi nello spazio: l'esempio più palese è quello dell’acqua che diventa ghiaccio = dice Jared Cole; collega di Greentree - Solitamente i fotoni si muovono liberamente nello spazio, tuttavia, in certe circostanze, essi entrano in combutta, assumendo la disposizione che hanno gli atomi in un cristallo». Lo scienziato sostiene chele fasi di transizione sono molto importanti nella scienza e nella tecnologia; ma solo quelle più semplici possono, attualmente, essere capite. Secondo Greentree gli effetti della luce solida nella fase di transizione mettono insieme due correnti della fisica molto importanti e distanti tra loro: l'ottica e i principi di condensazione della materia. In questo modo si crea una sorta di nuova branca della fisica dalla quale potranno scaturire teorie innovative. GIANLUCA GROSSI ________________________________________________ Il Sole24Ore 11 Mag. ‘07 SAN BASILIO: ECCO IL GRANDE ORECCHIO Ricerca. A San Basilio operativa dal, 2009 un'antenna da 64 metri di diametro per la radioastronomia Lo strumento in costruzione sarà fra i più avanzati al mondo di Leopoldo Benacchio San Basilio è a 35 chilometri da Cagliari, verso l'interno. Quasi 1800 anime, una farmacia, una banca e l'ufficio della Posta, un piccolo Comune come tanti altri, anche un po' fuori dai tradizionali itinerari turistici. Ma da vari mesi la scena sta cambiando: è lì infatti che si sta costruendo un impianto scientifico di dimensioni veramente imponenti, il Sardinia Radio Telescope, Srt, un'antenna per la radioastronomia e la geodinamica con un parabola da 64 metri di diametro, fra le maggiori al mondo. È in avanzato stato di costruzione, sarà pronta e inizierà a funzionare nel 2009 e avrà caratteristiche che la rendono unica, come la capacità di ricevere segnali in un 'intervallo di frequenze molto ampio, da 300 MHz a 100 GHz. Il costo di Srt è stimato in circa So milioni di curo, molto contenuto per un impianto come questo. Circa 36 sono già stati erogati dal Ministero della Ricerca, 5.5 dalla Regione Autonoma Sardegna e 4 dall'Istituto nazionale di astrofisica. La scelta della Sardegna non è casuale, l'isola permette infatti una dislocazione strategica importantissima. Quella sarda sarà infatti la terza, e la più evoluta, delle antenne italiane di importanza internazionale. Le altre due, del diametro di 32 metri, sono in funzione oramai da anni a Medicina, vicino Bologna e a Noto, in Sicilia. Le tre antenne possono "lavorare insieme" come se fossero un unico strumento, in un certo senso grande quanto la loro distanza reciproca. Ecco quindi la Sardegna come luogo ideale anche per questo, dato che permette la maggior distanza fra i tre punti e la zona è scarsamente popolata, non solo di persone quanto di fonti di emissione elettromagnetica come cellulari, radio locali e altro che rappresentano una fonte di disturbo enorme per gli strumenti, sensibilissimi, dei radiotelescopi. Ottima anche la dislocazione in Sardegna, per le stesse ragioni, per la rete di radiotelescopi europei Vlbi, che copre tutto il vecchio continente. "Ascoltare" i segnali radio provenienti dall'Universo è fondamentale perché stelle e galassie non emettono solo la "luce" che vediamo con gli occhi, ma anche radiazione ultravioletta, infrarossa, raggi X e Gamma e onde radio di varie lunghezze d'onda. A ogni diverso segnale corrisponde un diverso fenomeno fisico che lo genera e che avviene, in modo più o meno imponente, nei corpi celesti. Per avere quindi un'immagine completa dell'Universo occorre usare ricevitori diversi e poi ricomporre il puzzle che i vari strumenti ci forniscono. Non solo i più familiari telescopi ottici per la luce "visibile", ma anche satelliti dallo spazio per la radiazione Gamma e X, che per nostra fortuna non passa l'atmosfera, e infine radiotelescopi. Ma i segnali radio che arrivano dal cosmo sono generalmente deboli, molto deboli e per catturarli e trattarli occorrono tecnologie di avanguardia e nuove idee, come quelle sviluppate per mantenere l'enorme parabola di 64 metri di diametro sempre nella forma più vicina possibile a quella ideale, con lo scarto di pochi millimetri, nonostante si tratti di una superficie enorme costituita da più di 1.000 pannelli d'alluminio. Per tenerli tutti nella posizione migliore, nonostante il vento, il peso intrinseco e le flessioni, vengono utilizzati altrettanti servomeccanismi di precisione, costantemente controllati da computer, che li riposizionano di frazioni di millimetro a ogni secondo. Il progetto ingegneristico di Srt è della Vertex Rsi, di Santa Clara, Usa, ma alla costruzione di radiotelescopio e infrastrutture tecnologiche, iniziate nel zooz, partecipano molte aziende italiane ed europee, e sono parecchie le commesse vinte da ditte sarde. Il nuovo radiotelescopio porta insomma con sé evidenti segnali di forte sviluppo scientifico e tecnologico che vedono coinvolti, oltre ovviamente all'Istituto nazionale di astrofisica, il governo regionale, il tessuto imprenditoriale e il contesto scientifico e accademico dell'isola. «Lavoreremo perché Srt possa aiutare un processo di trasferimento tecnologico più ampio, non confinato alla sola radioastronomia» dice Nicola D'Amico, lo scienziato responsabile del progetto. «In altre Regioni del Paese questo è già successo, con applicazioni in vari settori high-tech, il coinvolgimento di importanti industrie nazionali e la nascita di vari spin-off locali». A San Basilio, quindi, ci andranno in parecchi nel prossimo futuro, ma non solo gli astrofisica. Srt comprende anche un progetto innovativo di visita al radiotelescopio per il pubblico, puntando quindi anche al turismo scientifico, che prospera bene in vari Paesi europei ma nel nostro è solo all'inizio. Un motivo in più per visitare la bellissima regione sarda. Sardinia Radio Telescope. Il grande basamento in costruzione a San Basilio (Cagliari). Ha un diametro di 40 metri e dovrà sostenere il radiotelescopio con una parabola da 64 metri per un peso complessivo di oltre 3000 tonnellate. ________________________________________________ Il Sole24Ore 11 Mag. ‘07 NOVE GIOVANI DANNO LUSTRO A TUTTA LA REGIONE Tante scoperte di livello internazionale . di Sylvie Coyaud Più che per la scienza, l'università di Sassari è famosa per l'edilizia, vedi il nuovo dipartimento di botanica detto l’ecomostro. Ma qualcosa sta cambiando. Valutati da una commissione indipendente, a gennaio i suoi ricercatori più produttivi hanno ricevuto 8mila euro ciascuno, un premio finanziato dalla Regione. Come previsto, nei primi tre con il maggior punteggio c'era Plinio Innocenzi, prima all'università di Kyoto, che crea nanomateriali dalle notevoli proprietà ottiche e Quirico Migheli, noto peri lavori sui geni che causano la patogenicità di vari ceppi di Fusarium, una muffa che distrugge le piante alimentari. Conoscendo quei geni si possono formulare fungicidi che li disarmano invece di provare a sterminare il fusarium stesso e patogeni simili. La sorpresa è Pier Andrea Serra, laureato a Sassari appena nove anni fa, che fa ricerca sul rilascio di dopamina provocato dall'ossido d'azoto nel cervello (dei ratti, per ora). Ci si aspetterebbe di vederlo a Cagliari, al dipartimento di neurof2rmacologia a lungo diretto da Pier Luigi Gessa, e adesso da Gaetano Di Chiara e, tanto per dire, ex o tuttora presidente di qualche società scientifica italiana, europea o internazionale. Dall'altro lato della collina rispetto al suo laboratorio, c'è quello di Annalisa Bonfiglio dal curriculum infarcito di pubblicazioni sulle riviste che contano (americane, per lo più), responsabile di un progetto europeo per le nanofibre intelligenti. Quelle di cui saranno fatte, per esempio, le tute dei pompieri e di altri soccorritori per informarli sull'ambiente in cui stanno operando. Lei "viene dal continente", come gli astrofisici Nicola D'Amico, Andrea Possenti e Marta Burgay, dell'osservatorio di Cagliari, che quattro anni fa hanno trovato un duo celeste la cui esistenza era ritenuta impossibile prima: due stelle di neutroni (pulsar) che orbitano una attorno all'altra emettendo suoni strazianti nelle onde radio. Grazie a esse, insieme a colleghi inglesi, americani e australiani hanno poi verificato se le previsioni fatte da Einstein nella sua relatività generale erano giuste (lo erano). Tanti successi spiegano che a Pranu Sanguni, comune di San Basilio, cresca ora spettacolare tra boschi, pecore e mucche, l’immenso orecchio parabolico teso verso il cielo. A proposito di orecchio. Mentre si festeggia il trecentenario della nascita di Linneo 1707-1778 va citata la scoperta dell'Orecchione sardo da parte di Mauro Muceddu ed Ermanno Pindinchedda. Si tratta di una specie a sé, l'hanno confermato le analisi del dna, per cui il piccolo pipistrello è nota nella nomenclatura linneaina come Pletocus sardus. Un nome che non rende giustizia alle sue immense sventole. Sempre in tema di biodiversità, giustizia va resa anche alla bravura di Roberto Pantaleoni, del Cm- e dell'università di Sassari, scopritore della Subilla principiae, un insetto dal corpo snello e scuro fra diafani ali azzurre. ________________________________________________ L’Unità 6 Mag. ‘07 IL DVD SI CONSERVA AL FRESCO DAGLI USA I polimeri invecchiano a temperatura ambiente I polimeri vetrosi solidi, plastiche versatili usate per applicazioni che vanno dai parabrezza dei velivoli ai Dvd, invecchiano più velocemente quando si trovano a temperatura ambiente, perché hanno molecole che si muovono come quelle di un liquido. A dirlo, una ricercatori della University of Illinois. Sotto condizioni di sufficiente freddo, però, i movimenti molecolari rallentano sempre di più. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Physical Review Letters. ================================================= _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 8 mag. ’07 FA: A MONSERRATO FAREMO IL GASLINI SARDO Il preside di Medicina annuncia il centro materno-infantile ALESSANDRA SALLEMI CAGLIARI. Come il Gaslini di Genova. O il Bambino Gesù di Roma. Il piano sanitario regionale gliel'ha dato e l'Università di Cagliari ha intenzione di difendere quell'attribuzione qualificante che è il polo materno-infantile. Il preside della facoltà di Medicina Gavino Faa spiega che si lavora spediti per finire il blocco Q del policlinico di Monserrato e si calcola che a Pasqua dell'anno prossimo tutta l'assistenza, la didattica e la ricerca che riguardano mamma e bambino verranno trasferiti nel padiglione nuovo. Il centro materno- infantile assegnato all'azienda mista era una delle novità introdotte dal piano sanitario che la situazione politico-burocratica di appena due mesi fa autorizzava a ritenere una previsione destinata al libro dei sogni. Invece l'azienda mista è nata, il direttore generale è stato creato pochi giorni fa (Ninni Murru) col decreto del governatore della Regione e quindi ogni cosa ormai sembra poter andare al suo posto. Compreso il polo materno-infantile: generato dal trasferimento a Monserrato dell'ostetricia-ginecologia del San Giovanni di Dio assieme alla clinica Macciotta, mesi fa era parso un'illusione se confrontato alla concretezza dell'ospedale del bambino programmato dall'Asl 8 per il Microcitemico allargato a nuove specialità (cantieri già aperti e tempi sicuri), collaborante con l'Oncologico e forse anche con la pediatria del Brotzu. Questa ipotesi già materialmente impostata aveva reso ancora più attraente la prospettiva di lavorare al Microcitemico ingrandito e quindi s'era sparsa la voce fondata che vari pediatri in forze all'universitaria e congestionata clinica Macciotta avrebbero avuto intenzione di non andare all'azienda mista ma di restare nell'Asl in vista della crescita del Microcitemico. L'azienda mista e soprattutto il manager arrivati nel giro di poche settimane sono quasi un colpo di scena. Il preside della facoltà di Medicina Gavino Faa non nasconde il suo pensiero: siamo in un momento d'oro. Dall'esterno sembrerebbe un momento difficile: come farà l'azienda mista ad avviare i dipartimenti? «Siamo allo stesso punto delle altre aziende sanitarie, che non ce li hanno. Noi abbiamo i dipartimenti universitari e adesso ci vogliono quelli assistenziali: le nuove leggi regionali hanno dato linee guida e adesso le possiamo applicare. Dopo anni di confronto siamo in una momento clamorosamente positivo, anche per la situazione tranquilla tra ospedalieri e universitari che ci consentirà di fare serenamente le cose assieme». Professore, come farà l'azienda mista ad assorbire la quantità di ordinari e di insegnamenti? «Come sarebbe?» Sarebbe che ci si domanda, tanto per fare un esempio: i sei ordinari di chirurgia diventeranno sei direttori di dipartimento? «Per cominciare i sei ordinari sono quattro e tutti eccellenti chirurghi di cui, in un'area come quella cagliaritana di cinquecentomila mila abitanti, senza contare la regione, non è esagerato sostenere che c'è bisogno. Poi si dimentica che uno dei compiti del direttore generale dell'azienda mista è proprio questo: valorizzare le risorse umane e nominare i capi dipartimento». Ma ce ne può essere uno solo. «Sì e il manager ha i criteri per valutare il profilo che gli occorre. Altrove ci sono stati accordi perché le nomine durassero tre anni e ci fossero avvicendamenti. Ed è successo anche che alcuni non accettassero l'incarico perché si tratta di un impegno molto gravoso che in molti casi ha reso necessario la diminuzione della presenza in sala operatoria. Anzi, quella di ridurre l'attività chirurgica può essere una delle condizioni poste dal direttore generale... Credetemi, ci sono stati momenti peggiori. Adesso abbiamo un bel policlinico e la possibilità di ricreare quel polo culturale e professionale che si ha quando ricerca, didattica e assistenza stanno assieme, com'era l'asse San Giovanni-Clinica medica». C'è molto malcontento. «Molto non direi. Ci sono situazioni di malcontento e allora io dico: vediamole una per una e affrontiamole. L'errore è scambiarle per elementi dominanti. E poi credo di poter affermare che l'Università ha mandato messaggi importanti sulla volontà di fare le cose». Un esempio. «L'attività edilizia è stata spesso in crisi ma nonostante questo l'Università si sta impegnando per fare il Gaslini della Sardegna, il dipartimento in cui l'ostetricia si unirà alla pediatria, una struttura integrata dal concepimento fino all'infanzia». Allora la contrapposizione col Microcitemico è ufficiale. «Non scherziamo sulle cose serie, per favore. La valenza del Microcitemico è enorme. Ha una specificità per le malattie rare che va salvaguardata e potenziata». Non c'è dubbio, ma il Microcitemico dovrebbe diventare un ospedale del bambino, non soltanto per le malattie rare. Una contrapposizione in verità s'intravvede. «Assolutamente no se ci mettiamo nell'ottica di dare buoni servizi ai cittadini. Tutti abbiamo bisogno di tutti e se la impostiamo in maniera diversa continueremo a rimpinguare i bilanci del Gaslini e del Bambin Gesù che sono in attivo anche grazie ai bambini sardi». Ma il polo materno-infantile dovrà avere il pronto soccorso. «Prima del pronto soccorso ci vuole una rianimazione. E noi ora dopo molto lavoro abbiamo un bellissimo reparto di rianimazione». Ad alcuni non sembrava necessario che il blocco Q venisse destinato al materno-infantile quando era stato pensato per altre specialità. «E' falso che ci dovesse andare altro. Ci hanno chiesto un dipartimento materno-infantile e noi lo stiamo facendo con grande impegno. E adesso questo progetto, assieme agli altri, lo consegneremo al direttore generale». _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 9 mag. ’07 MISTRETTA FIRMA: ASSUNTI 50 PRECARI DEL POLICLINICO Università. La svolta Tutti i 128 infermieri parteciperanno ai corsi di formazione ma non tutti saranno assunti È stata stilata la graduatoria dei 50 precari (su 128) del Policlinico che dopo i corsi di formazione professionale saranno assunti dall’università. Dopo lo sciopero della fame, della sete e le catene al collo è arrivato il documento ufficiale dell’Università. «Con l’Azienda Mista non ci saranno più agenti socio- sanitari precari al Policlinico di Monserrato», spiega Gianfranco Angioni, presidente del Comitato Precari e delegato Cisal. «Con la firma del Rettore dell’Ateneo Pasquale Mistretta, dopo l’ok di Renato Soru e dell’assessore al Lavoro Maddalena Salerno, è arrivato per noi il riconoscimento di una figura giuridica, distinta in base al curriculum e ai meriti individuali. Per poi essere stabilizzati dopo la formazione che partirà a giugno». Ai corsi parteciperanno tutti i 128 precari, ma solo 50 saranno assunti a tempo indeterminato. Gli altri avranno garanzia di inserimento con priorità nelle future procedure concorsuali. «Vigileremo perché arrivino presto le risorse finanziarie», ha chiarito Arturo Maullu, presidente nazionale Cisal, «per permettere anche al personale medico e infermieristico di avere certezze». La sede dell’Azienda Mista sarà il Policlinico di Monserrato dove confluiranno anche il complesso pediatrico Macciotta, alcuni reparti del San Giovanni di Dio e servizi della clinica psichiatrica di via Liguria. Passeranno sotto la gestione dell’Azienda mista anche le sedi di Anatomia Patologica di via Ospedale e della clinica otorinolaringoiatra. Si stima che tra medici, infermieri ed operatori socio-sanitari opereranno al Policlinico almeno 1.100 persone. I 50, elencati nella graduatoria in ordine decrescente rispetto al punteggio accumulato, sono: Alberto Cafarchio, Andrea Pinna, Andrea Piras, Anna Maria Bene, Massimiliano Frau, Maria Daniela Loi, Giuseppe Angelo Pitzanti, Nicola Spiga, Carla Piras, Alda Magari, Siro Pibiri, Sonia Medda, Milena Casula, Fabrizio Dalpadullo, Piergianni Fadda, Rosa Maria Marras, Rosina Matta, Giovanna Maria Sirigu, Gianfranco Angioni, Anita Santolini, Roberta Podda, Cristina Cossu, Aurelina Frigau, Simona Soro, Stefano Fadda, Anna Fois, Annalisa Mascia, Fausto Boi, Maria Rita Cogoni, Vincenza Piredda, Marinella Sorrentino, Marinella Spano, Luciano Valdes, Francesco Masia, Oriana Perra, Magnolia Mulas, Lidia Murgia, Francesco Locci, Roberto Congiu, Ilaria Cordeddu, Daniela Di Pietro, Antonello Masala, Luisella Cascu, Gilda Esposito, Giorgio Ignazio Flore, Roberta Ghiani, Marco Pili, Maria Cristina Puddu, Roberta Ranaldi, Sandro Spiga. Beatrice Saddi _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 7 mag. ’07 C'È IL DECRETO: MURRU MANAGER ALL'AZIENDA MISTA Il presidente della giunta ha firmato il decreto Un nome gradito a ospedalieri e universitari - Già direttore generale di Nuoro e Oristano ora è preside di liceo ALESSANDRA SALLEMI CAGLIARI. Venerdì il presidente della giunta Soru ha firmato il decreto che nomina Pietro Paolo Murru direttore generale dell'azienda mista Regione-Università. Sessantun'anni, negli ultimi 16 si è diviso tra sanità e scuola: ora è preside al liceo scientifico Alberti di Cagliari, dopo aver diretto l'Asl di Nuoro e quella di Oristano. Torna a fare sanità in una situazione nuova: l'azienda mista è tutta da costruire. Tutti i nodi a lungo denunciati e che hanno avuto la loro parte nei ritardi accumulati (la Sardegna è l'ultima regione italiana a formare le aziende miste per la facoltà di Medicina, altrove sono in funzione da quasi vent'anni) adesso confluiranno in mano sua. La differenza rispetto al passato è soltanto una, ma sostanziale: proprio tutti a Cagliari, ora, vogliono l'azienda mista. La volontà però, in questo caso, non avrà l'effetto magico di sciogliere i nodi per favorire il risultato perché certi problemi si potranno risolvere solo con l'accettazione da parte di alcuni di soluzioni davvero lontane dai personali desideri. Per dirla chiara: non si potranno fare tanti dipartimenti quante sono le aspettative degli universitari di andare a dirigerli, non si potrà moltiplicare il personale per riuscire a far stare tutti esattamente dove si vorrebbe lavorare, non si potrà trattenere letti in strutture diverse dal Policlinico e tutte le branche di un'azienda mista universitaria dovranno essere disciplinate negli orari, nei carichi di lavoro e di competenze, con chiarezza di attribuzione di compiti. La parità raggiunta sulla carta (il protocollo d'intesa da cui nasce l'azienda mista) tra la componente universitaria e quella ospedaliera riguarderà i carichi di lavoro, i turni, le guardie notturne, per le domeniche e i giorni festivi. Dovrà essere indicato con chiarezza quale potrà essere il contributo alla ricerca da parte degli ospedalieri e quale l'impegno nell'assistenza ai malati per gli universitari. Finisce un'era e il nuovo direttore generale ha il compito di promuovere il funzionamento della struttura. Un problema non di scarso peso è questo: gli universitari si troveranno a dipendere per una larga parte della propria attività dal direttore generale. Non sarà più come succedeva con le convenzioni, dove gli universitari mantenevano una sostanziale libertà organizzativa. Le tappe adesso risultano ravvicinate. Entro pochi mesi il direttore generale dovrà presentare il piano che indicherà con precisione quali saranno le dimensioni dell'azienda: quantità di personale, distribuzione di questo, suddivisione dei dipartimenti ecc. Una volta individuati i dipartimenti bisognerà decidere delle direzioni e delle vicedirezioni, forse uno degli scogli più impegnativi e non a caso il nome di Murru, tra le altre ragioni, è stato segnalato anche dall'Università per le sue riconosciute capacità diplomatiche. Il passato professionale di Murru potrebbe essere una garanzia anche per gli ospedalieri che finora sono stati nel dubbio se optare per l'azienda mista o restare a lavorare nell'Asl 8. Le scelta di Murru, in altre parole, probabilmente funzionerà da incentivo per chi non avrebbe avuto difficoltà ad andare a lavorare nel Policlinico ma temeva un possibile mancato bilanciamento di poteri tra una componente e l'altra. Un problema a scadenza immediata è l'edilizia: il Policlinico non ha ancora un padiglione che doveva già essere pronto e non ha neppure i finanziamenti per il blocco successivo. Ma di recente la Regione ha annunciato l'arrivo di cospicui finanziamenti extrabilancio da destinare anche a opere di edilizia sanitaria: se il manager sarà rapido ad attrezzarsi dei progetti, i soldi per finire il Policlinico sulla carta ci sono già. Ed è facile che questa campana possa essere suonata perché non è un mistero l'interesse della Regione per lo svuotamento dell'ospedale San Giovanni di Dio, da trasformare in una cittadella universitaria. Infine, la capacità diplomatiche del nuovo direttore generale potrebbero servire a intessere buoni rapporti coi vicini di casa, l'Asl 8 e l'azienda di alta specialità Brotzu. Un tema che potrebbe finire sul tavolo comune è la rete ospedaliera da allestire per i più piccini. Nascerà l'ospedale per il bambino tra Microcitemico e Oncologico con un ponte di rapporti già in costruzione verso il Brotzu e l'intenzione di avviare un organizzatissimo pronto soccorso pediatrico. Ma l'Università ha deliberato per conto suo affinché nasca un centro materno infantile a Monserrato col trasferimento qui della clinica Macciotta e dell'ostetricia e ginecologia universitarie. Le due entità sembrerebbero destinate a non incontrarsi sul piano delle relazioni professionali e questo viene ritenuto un errore strategico e organizzativo. C'è chi dice che Murru sia il manager giusto per promuovere il dialogo. _____________________________________________________________ Il Giornale di Sardegna 10 mag. ’07 WEEKEND A VILLA CLARA L'Isola che c'era Finché a Sassari non fu pronto il Rizzeddu i dieci padiglioni dell'ospedale sul monte Claro fra il 1905 e il 1907 accolsero tutti i matti dell'Isola: sedicimila solitudini in cento anni. di Roberta Pietrasanta Il confine tra il mondo e la follia si dischiudeva dietro un cancello in ferro battuto. Elegante e prezioso, ben studiato perché chi lo attraversava avesse l'illusione di essere condotto "in un locale di delizie piuttosto che in una casa di salute". Cagliari, Villa Clara, secolo Novecento: i matti riconosciuti di Sardegna guardavano il cielo assiepati oltre quelle mura, unico tratto di cielo che conoscessero, l'unico perimetro di terra che potesse tollerarne l'esistenza. Un giorno dopo l'altro, sedicimila storie in cento anni: lo stesso spazio per tutti, lo stesso spazio per ogni momento della vita di ciascuno. Sulla cima del Monte Claro era sorta l'istituzione totale. MENTECATTI, maniaci, pazzerelli. Qualunque fosse il modo per definire la follia e separarla dal resto delle cose, i termini erano comunque ufficiali. Sin dal medioevo il primo ospedale dell'Isola, il Sant'Antonio Abate (in via Manno) a Cagliari teneva lontani gli infelici che natura privò del bene dell'intelletto dalla gente comune. Insufficiente peri continui ricoveri, la struttura fu chiusa e i malati vennero trasferiti al San Giovanni di Dio, sino alla fine dell'Ottocento, quando una antica tenuta sul Monte Claro fu attrezzata per ospitare i degenti. I dieci padiglioni affollatissimi di Villa Clara, finché a Sassari non fu pronto il Rizzeddu, fra il 1905 e il 1907, accolsero tutti i malati mentali dell'Isola: anche 1800 alla volta. Villa Clara avrebbe dovuto ospitare le più moderne tecnologie per le terapie più avanzate. Vi era la scuola e un'azienda agricola in cui lavoravano gli stessi malati. Ma la storia dei sedicimila, nonostante le intenzioni più illuminate, è una pagina dolorosa. Ad attendere i presunti pazzi, oltre il cancello sfarzoso che l'ingegner Palomba aveva pensato per scacciare l'angoscia (lo stesso visibile oggi), vi era la stretta degli infermieri, la scrupolosa rigidità dei dottori che osservavano, pesavano, misuravano il cranio e infine scrivevano: tranquillo, semiagitato, epilettico, sudicio, pulito, agitato. Che si trattasse di uomo, donna o bambino, l'igiene mentale cominciava con un bagno a 33 gradi, un primo isolamento di 15 giorni e poi nell'arena,a pascolare con tutti gli altri matti, per qualche anno o fino alla morte. E se nel medioevo non era prevista guarigione dalla follia, nel corso di tutto il '900 le avanzate terapie psichiatriche cui si riferivano i medici consistevano in applicazioni di sanguisughe, purghe, vescicanti, shock insulinico che provocavano nel paziente uno stato di inerzia. Nel 1946 l'allora direttore del manicomio, Diego De Caro descriveva con entusiasmo i successi terapeutici riportati con l'uso di Cardiazol, Tetracor, Metrazol, Pragmolina e naturalmente con l'elettroshock usato per curare la depressione, ma in alcuni casi anche per l'asma bronchiale. DOPO IL 1978, quando la legge Basaglia, con lo scopo di superare l'istituzione totale e riportare i malati nel contesto sociale comune, impose la soppressione dei manicomi, i ricoveri furono interrotti, ma a causa della scarsa volontà politica oltre che per una difficoltà organizzativa, Villa Clara funzionò ancora per vent'anni, fino al 18 marzo 1998, ultimo giorno di vita del manicomio. Fino ad allora molte vite però il manicomio s'era portato via. Lo sguardo inebetito dai farmaci distribuiti tre volte al giorno, il corpo inerte,i piedi scalzi, gli abiti racimolati ogni mattina da terra nel cortile fuori dal dormitorio, poche parole, l'abbandono alla fragilità: "Napoleone", catatonico, ingoiava sassi, Beppi urlava lo spoglio delle schede elettorali, un muratore aveva costruito con le sue mani un tempio con colonne, capitelli, affreschi e un piccolo letto in cui passava il suo tempo senza che nessuno se ne accorgesse. Ognuno a macinare i propri ingranaggi. Ciascuno solo in mezzo a una schiera di soli. _____________________________________________________________ Il sole24Ore 10 mag. ’07 TREDICI MILIONI DI RICOVERI IN UN ANNO La durata media è di 6,7 giorni - Cresce la formula del «day hospital» Paolo Del Bufalo Sono stati 13 milioni i ricoveri negli ospedali pubblici nel 2004, 172mila in più (l'1,34%) da un anno all'altro. Ma calano quelli per acuti in regime ordinario (-103.500) mentre crescono i ricoveri in day hospital (+243.400). E sempre rispetto al 2003 aumentano anche i ricoveri per la riabilitazione (+20.500) e per la lungodegenza (+6mila). I dati sono quelli delle schede di dimissione ospedaliera 2004 (Sdo), le ultime diffuse ieri dal ministero della Salute, che rilevano e analizzano la struttura complessiva dell'attività di ricovero negli ospedali italiani. Dalle Sdo 2004 emerge che ogni paziente resta in media in un letto di ospedale 6,7 giorni. «In questo dato - ha commentato il ministro della Salute, Livia Turco - colgo il grande ruolo di accoglienza e comunità che gli ospedali devono esercitare, investendo sempre di più sull'accoglienza e l'umanizzazione delle cure: devono essere una delle grandi case degli italiani». Secondo le Sdo, la prima causa di ricovero è la gravidanza e/o il parto normale, ma la maggioranza di tutte le altre patologie che portano al ricovero sono riconducibili secondo il ministero in gran parte a malattie cardiovascolari, neoplasie e malattie polmonari. Oltre un ricovero su tre poi finisce in sala operatoria (4,7 milioni) e di questi oltre il 65% avviene in ricovero ordinario, gli altri in day hospital. Al bisturi gli italiani ricorrono in ricovero ordinario soprattutto per i parti cesarei che rappresentano il 37,8% dei parti complessivi. E questo nonostante le indicazioni nazionali e internazionali, commenta il ministero, suggeriscano di limitarlo a non più del 15-20 per cento. In day hospital invece, l'intervento più gettonato è la cataratta, che rispetto al 2003 si è "trasferita" per l'80% in questa forma di ricovero, garantendo maggiore appropriatezza delle prestazioni. Il ricorso all'ospedale presenta naturalmente dati differenti da Regione a Regione: in Piemonte, a esempio, si ricoverano 108 pazienti ogni mille abitanti, contro i 190 dell'Abruzzo, che è al top. Ma la media nazionale di 141 ricoveri ogni mille abitanti è superata in quasi tutte le Regioni del Centro-Sud. _______________________________________________________________________________ L’Espresso 10 mag. ’07 TURCO: OSPEDALI KILLER COLPA DELLE BARONIE di Daniela Minerva Castellaneta. Vibo Valentia. Careggi. Si allunga l'elenco dei morti nelle strutture pubbliche. Il ministro Livia Turco corre ai ripari. Via i baroni e chi sbaglia. Colloquio con Livia Turco La sanità va bonificata dalla devastazione in cui l'hanno gettata anni di abbandono e di razzia: Livia Turco ha passato un anno a dichiarare, dichiarare, dichiarare; incalzata dalle mille vicende tragiche e criminali che hanno costellato le cronache sanitarie. E oggi, all'indomani dell'ennesima tragedia senza senso - i morti di Castellaneta - sa che non può più dire "vigileremo", che non può più limitarsi a mandare i Nas. O rispondere, a chi le chiede conto della débâcle, che la gestione degli ospedali è di competenza delle regioni: sarà anche così, ma l'opinione pubblica non ne può più di un sistema sanitario in cui non si capisce mai di chi siano le colpe. "Ogni mattina mi chiedo quale emergenza mi aspetti. E ogni giorno misuro gli effetti dell'abbandono, di una politica vergognosa che si è occupata della sanità solo per le sue cordate e le attribuzioni di potere". Castellaneta è la nuova punta dell'iceberg, e il ministro è pronta a far saltare il banco. Perché se c'è stata Castellaneta, e prima ancora Vibo Valentia, Careggi, di disastro in disastro, è perché il sistema è allo sbando. E va cambiato, subito. Lei è un animale politico e usa la parola "ammodernare"; precisa che non si tratta di una riforma, che la legge Bindi, quella in vigore, va benissimo... Ma in quelle 50 paginette che tiene in mano, e che il 18 maggio presenterà al presidente Romano Prodi e agli attori in scena, c'è una rivoluzione copernicana, che 'L'espresso' è in grado di anticipare: strumenti per prevenire gli errori basati sulla trasparenza, fuori la politica dalla gestione degli ospedali, concorsi a prova di inciucio per i primari, valutazione dei medici e degli amministratori, medici di medicina generale in servizio 24 ore su 24 sette giorni la settimana. "Questa è la nostra carne viva", dice un po' imbarazzata mostrando la bozza del disegno di legge: "C'è bisogno di un governo forte del sistema, e di un nuovo progetto. E abbiamo bisogno di offrirlo ai medici, agli amministratori, a tutte le parti migliori del sistema che devono potersi sentire parte di una squadra. È di questo ministero il compito di trovare questo orizzonte, di dare una nuova dignità forte a tutti gli operatori del Ssn. Mi sono stufata di essere soltanto un erogatore di fondi. E mi sono stufata del fatto che al centro della politica sanitaria ci sia il pareggio di bilancio. Deve esserci la qualità". Parlare di qualità all'indomani di Castellaneta suona politichese. Niente di più concreto? "Non è tollerabile che dove il cittadino va per guarire, egli di fatto possa essere vittima di incidenti. Venerdì 11 presenterò al consiglio dei ministri un disegno di legge che dota tutte le Asl di una struttura dedicata alla prevenzione del rischio clinico con poteri di intervento per individuare gli errori, capire quali sono le cause, prevedere iniziative e bonifica degli ambienti. Questo deve essere fatto e in molte parti del Paese è fatto. Serve la massima trasparenza per prevenirne il ripetersi degli incidenti. E dovrà essere possibile prendere subito delle misure contro i colpevoli. Ma bisogna anche creare un rapporto di fiducia tra i medici che non devono sentirsi sempre sul banco degli imputati e i cittadini che devono sentirsi delegati. Per comporre i conflitti le regioni devono istituire delle Camere di conciliazione, imparziali. Qui i cittadini che si ritengono danneggiati dal Ssn troveranno assistenza gratuita di esperti che faranno gli accertamenti necessari caso per caso e proporranno delle composizioni dei dissidi". Un patteggiamento? "Non si deve finire sempre in tribunale. Perché l'iter giudiziario, non solo snerva i cittadini, ma allarma i medici e rende così più difficile la trasparenza del percorso che ha portato all'errore e, quindi, la possibilità di evitare che esso si ripeta". Lei dice che a governare il Ssn nazionale è stata solo la logica dei bilanci. Dobbiamo pensare che il ripetersi, ormai giornaliero, dei casi di malasanità sia da attribuire alla gestione economicistica delle aziende sanitarie? "Blocco del turn over, assunzioni fatte secondo la logica politica, outsourcing, manutenzioni rallentate, accreditamenti selvaggi, gare al ribasso. La sanità è stata spolpata dalla politica. Ma attenzione: l'aziendalizzazione delle Asl è stata un bene. E in molte parti del paese ha portato grandi benefici. Il sistema deve essere efficiente e economicamente sostenibile altrimenti non può funzionare. Lo abbiamo visto in questi mesi preparando i piani di rientro delle regioni Lazio, Sicilia, Abruzzo, Puglia e Campania. Che abbiamo fatto con la riduzione dei posti letto, con la revisione di molti accreditamenti di strutture private, con la riduzione degli sprechi: tutte cose possibili e necessarie. Promuovere la salute non vuol dire dimenticarsi dei bilanci, ma vuol dire far lavorare tutti gli operatori e l'intero sistema per la salute del cittadino". Il ministro della Sanità Livia Turco Il Ssn deve promuovere la salute dei cittadini. Non è ovvio? "Ma così non è stato. E poi: non è detto che tutti siano d'accordo sul fatto che la parola chiave non è più 'pareggio di bilancio' ma è 'qualità e sicurezza'". Allora, concretamente, che si fa? "Bisogna far fuori le baronie e le cordate politiche. I professionisti devono superare il rapporto di subalternità che hanno oggi con la politica. La politica ha abbandonato il Ssn, si è occupata solo dei vincoli di bilancio e delle nomine. E questo ha demotivato chi ci lavora. Mentre per fare buona sanità bisogna motivare gli operatori: è l'unico modo di contrastare le logiche corporative, il perseguimento degli interessi personali, il menefreghismo. Dobbiamo costruire con loro una nuova anima del Ssn, che gli permetta di risorgere da questo abbandono". Far fuori le baronie: come? "Promuovendo un patto di fiducia tra la politica e i professionisti chiamati a governare la sanità sulla base delle loro competenze con l'obiettivo della qualità e accettando la verifica delle loro azioni". È un po' generico, vista la posta in gioco. Sotto accusa è l'intero governo delle aziende ospedaliere, che è nelle mani del direttore generale, nominato dalla politica come monarca assoluto e indiscutibile. Ma mai giudicato. E oggi molti si chiedono: chissà se salterà la testa del direttore di Castellaneta? "Il Dg non sarà più un uomo solo al comando e sarà soggetto a una valutazione. Lo affiancherà un Collegio di direzione, che diventa organo dell'azienda, con poteri di verifica e orientamento. Non solo, i Dg dovranno essere competenti: non basta la cordata politica. Allora: requisiti cogenti e scuola di formazione, criteri trasparenti e accessibili per il reclutamento, pubblicizzazione dei curricula dei pretendenti e di chi viene prescelto. E valutazione sulla base dei risultati raggiunti". In Italia qualunque tentativo fatto fino a oggi di valutare gli attori della sanità è fallito. Cosa cambia? "Introduciamo il Sistema nazionale di valutazione che prenderà in esame sia il lavoro dei direttori generali, sia quello dei primari, e disporrà di conseguenza". Un'Agenzia: non sarà un ennesimo organismo senza poteri reali? "La valutazione è nella governance democratica: i sindaci, gli enti locali, le organizzazioni dei cittadini e dei pazienti che saranno chiamati a valutare i direttori generali e i primari attraverso questionari somministrati ovunque il Ssn eroghi prestazioni. Il controllo è dato da una serie di pesi e contrappesi nel governo dell'azienda sanitaria". E chi nomina i primari, che sono la prima linea della catena di responsabilità? "La nomina dei direttori di struttura complessa verrà fatta dal Dg su una rosa di tre candidati scelti con un concorso. Ma, attenzione: la commissione che sceglierà i tre sarà nominata con un sorteggio, il bando di concorso specificherà nel dettaglio i requisiti richiesti per quel posto e i curricula dei candidati saranno resi pubblici. Così come le motivazioni che guideranno la scelta del Dg. La trasparenza renderà palesi le qualità dei candidati e anche le manfrine di chi volesse nominare un sodale e non il migliore. Per quel che può garantire una procedura, penso che questa introduca elementi di rottura. Ma non c'è dubbio che l'idea di una protezione politica fa parte del senso comune profondo di questo Paese: c'è bisogno sì di regole, ma c'è bisogno soprattutto di un'evoluzione del costume". Quali sono, fatto salvo il decreto sulla sicurezza, i punti concreti che vorrebbe vedere legge domattina? "Vorrei un piano nazionale per le cure palliative. È una vergogna che, spesso solo per pigrizia mentale, la gente debba soffrire. C'è molto di dignità di vita che passa dal diritto alle terapie antidolore, e io considero questa una grande priorità. E poi, voglio i medici di famiglia disponibili 24 ore su 24, 7 giorni su 7". Il che li obbliga a mettersi insieme. "Esatto. Le abbiamo chiamate Case della salute: scaricheranno i pronto soccorso e garantiranno alle famiglie un dialogo col medico e il pediatra scelto. E comunque con un professionista che opera nella stessa struttura, nel luogo che sono abituati a frequentare". Il 31 luglio scade la proroga del divieto ai medici che hanno scelto l'intramoenia di operare fuori dalle mura del Ssn. Cosa succederà: un'altra proroga? "In un ambito complicato, pieno di interessi, corporativo come la sanità bisogna identificare delle bussole. E le mie sono due: centralità del Ssn e diritto del medico alla libera professione. Per questo presenteremo una norma che ripristina le regole: le Asl devono gestire integralmente la libera professione intramoenia anche quando, fisicamente, avvenga fuori: tariffario concordato, prenotazioni centralizzate e controllo dei volumi delle prestazioni libero professionali che non devono mai superare quelle prestate al Ssn. Ma nessun dispositivo di legge servirà se non ricostruiamo una struttura interna che motivi e tenga insieme la sanità come un corpo coerente. Io voglio ritrovare l'anima del Ssn. Altrimenti è la catastrofe". _____________________________________________________________ Repubblica 10 mag. ’07 QUELLA PAURA DI CURARSI IN OSPEDALE di Guglielmo Pepe Nonostante un giudizio generale positivo, il nostro Servizio sanitario soffre. Anzi, ha due vere emergenze. Non più rinviabili. A dirlo non sono osservatori ed opinionisti e le cronache dei mass-media, ma gli addetti ai lavori, gli esperti di sanità, le associazioni, i cittadini. Mi riferisco agli errori (e ai rischi) in ospedale (e nelle cliniche private), e alle liste di attesa. Sui primi si registra, nell'ultimo decennio, una vera impennata, con un aumento del numero delle persone danneggiate (o decedute) e delle denunce a medici e a strutture sanitarie. Le attese per un esame specialistico invece, nonostante le assunzioni di impegno da parte delle amministrazioni regionali per abbattere i tempi, sono ancora esasperanti, in particolare in alcune zone del Paese. Intanto si nota una nuova reazione da parte degli utenti: la paura di farsi ricoverare. Anche per un intervento di routine. Secondo una ricerca del Cineas (Consorzio universitario specializzato nella prevenzione e nella gestione dei rischi), realizzata mesi fa e appena rilanciata, il 43,2% degli italiani ritiene che gli ospedali siano poco o per nulla affidabili. Chi vive al Sud e nelle Isole è più preoccupato: qui il 48 per cento della popolazione non si fida degli ospedali, mentre nel nord-ovest la percentuale scende al 31,1, per cento. E su 1000 intervistati, il 30,9 per cento ha più paura di rivolgersi al pronto soccorso, il 29,1 per cento di entrare in sala operatoria, il 23,7% considera la fase diagnostica ad alto rischio di errore, seguita dalla degenza post- operatoria per il 4,2% e dalla degenza pre-operatoria per il 3,7%. Altri numeri dovrebbero essere considerati (da prendere sempre con cautela): su 8 milioni di ricoveri all'anno, 320.000 persone subirebbero danni. Tuttavia se fossero "solo" la metà, sarebbe arduo non considerarli drammatici. Emergenziali, appunto. E infatti il Consorzio insieme a Cittadinanzattiva-Tribunale dei diritti del malato, Amami (Associazione per i medici accusati di malpratica ingiustamente), Fism (Federazione nazionale società mediche e scientifiche), Istituto di medicina legale dell'Università di Milano, Ania (Associazione nazionale per le imprese assicuratrici), hanno presentato un documento congiunto, per riaffermare che l'errore in ospedale è un problema sia sociale che economico che interessa diversi soggetti. Molte sono le richieste: la presenza in ogni azienda sanitaria di un risk manager debitamente preparato al fine di ridurre le inefficienze; un monitoraggio continuo del sistema e strumenti di misurazione e gestione del rischio clinico; un sistema di certificazione obbligatorio da imporre a tutte le strutture ospedaliere; una migliore formazione del personale. Su questi e altri punti concordano anche le rappresentanze dei medici: la FnomCeo ha elaborato un documento che in alcuni parti propone le stesse richieste sopra descritte. Sulle liste di attesa (e altro) Pit-Salute ha presentato l'elenco delle proteste segnalate da 20mila utenti. Ebbene i tempi sono in costante aumento da 10 anni; le segnalazioni registrano un incremento nel 2006 rispetto al 2005 del 2,4 per cento: per una mammografia si può aspettare fino a 400 giorni, 300 giorni per un ecocolordoppler e fino a 120 giorni per una ecografia nel primo trimestre di gravidanza. Questi numeri non stupiscono: nell'indagine che "Salute" ripete ogni anno in 10 città (pubblicata a febbraio), abbiamo visto risultati analoghi. Su questi problemi la parola passa ora al ministero della Salute e delle Regioni. Non perché siamo all'anno zero, ma per rafforzare l'altra faccia della medaglia: la qualità del Servizio sanitario pubblico. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 6 mag. ’07 STRUTTURE PRIVATE: SANITÀ MALTRATTATA ADESSO BASTA!!! I conti non si risanano mettendo a rischio la salute dei cittadini e strutture private convenzionate con il sistema sanitario nazionale sono in agitazione in tutta la Sardegna. Fiore all'occhiello della salute pubblica, hanno finora affiancato ambulatori e ospedali pubblici nell'assistenza e nella prevenzione a favore dei cittadini. Ma da poco tempo non possono più svolgere questa funzione e se ne sono accorte anche quelle persone con problemi di salute sempre più costrette a subire i disagi di lunghissime e insopportabili liste d'attesa. Che cosa è successo? Vogliamo cercare di spiegarlo ai cittadini che finora si sono rivolti a noi per abbreviare i tempi di un esame, di un'analisi o di una visita. Da quest'anno le Asl, grazie alla caccia al risparmio dei vari direttori generali, hanno imposto alle strutture sanitarie convenzionate rigidi tetti di spesa mensili. A questi limiti corrisponde naturalmente una drastica diminuzione delle prestazioni. Un esempio concreto può aiutare a capire. Se uno studio specialistico viene costretto ad effettuare un numero limitato di prestazioni mensili vorrà dire che tutti quelli che superano questo numero, pur presentandosi con la regolare prescrizione del medico di famiglia, non possono essere accettati. Le conseguenze sono che tutti quelli che non riusciranno a entrare nel numero di prestazioni predeterminate dovranno aspettare e saranno messi in lista d'attesa. E per chi ha un'urgenza dovuta a uno stato di salute precaria o al sospetto di una malattia particolarmente grave che può essere affrontata solo con una diagnosi precoce? L'alternativa è solo pagare di tasca propria la prestazione a tariffe professionali. Ma così si crea una odiosa discriminazione tra i cittadini che se lo possono permettere e quelli a basso reddito che non potranno far altro che tornare alla struttura pubblica dove allungheranno le liste d'attesa già chilometriche. Una situazione paradossale in un sistema sanitario che ha l'ambizione democratica di voler assistere tutti i cittadini allo stesso modo. Il cittadino ha il diritto di scegliere liberamente il luogo di cura e di diagnosi che più risponde ai suoi bisogni. La Corte Costituzionale ha sancito che la libera scelta rappresenta un diritto irrinunciabile e proprio per sua natura stimola il confronto tra il Pubblico e il Privato Convenzionato, migliorando la qualità del servizio e dando quindi un vantaggio al cittadino contribuente. D'altra parte il Consiglio di Stato ha ribadito che le strutture sanitarie pubbliche e quelle private sono considerate su un piano di perfetta equivalenza, in quanto concorrono ad ugual titolo a costituire il Servizio Sanitario Nazionale. Ma in questa situazione dove vanno a finire questi sacri principi? La libera scelta diventa semplicemente un diritto che non può essere esercitato . L'impulso a risparmiare per risanare i conti della Sanità viene dai direttori generali delle Asl su direttiva della Regione. Queste nuove figure di manager, lautamente ricompensate e incentivate, spesso impongono dall'alto decisioni caratterizzate semplicemente da una mentalità da contabile. Comprendiamo l'esigenza di ridurre i costi, ma non a scapito delle prestazioni giornaliere che ricadono sui cittadini. Il fabbisogno delle prestazioni da erogare ai cittadini sardi nel 2007 è stato stabilito non in base a un'analisi epidemiologica e statistiche attuali che individuino le reali esigenze della popolazione, ma semplicemente utilizzando i dati storici del 2005. In pratica si è presa come riferimento la spesa delle prestazioni fornite due anni fa e si è stabilito semplicemente di tornare a quel limite. Ma nel frattempo il quadro sociale è cambiato e si è modificata anche la situazione sanitaria generale. Perché non tenere contro di questo? Perché non aggredire i veri centri di costo di una burocrazia pletorica che assorbe già a livello nazionale il 65% della spesa sanitaria globale? Non riusciamo a spiegarci questo accanimento nel voler penalizzare le strutture private convenzionate. Forse perché non siamo pascolo elettorale per i potenti di turno? Forse perché nessuno può imporci scelte di convenienza in cambio di qualcosa o di qualche voto? Ci accusano di pompare la spesa moltiplicando artificialmente le prestazioni. Mai accusa più falsa. Semplicemente rispondiamo a un'esigenza della sanità di base. Da noi arriva il paziente che spesso è già passato al duplice vaglio del medico di base e del medico specialista. Ci sembra improbabile che tutti questi si mettano d'accordo per moltiplicare le prestazioni a nostro vantaggio. L'IMPORTANZA DELLA PREVENZIONE In un quadro sanitario nel quale è assai carente la cultura della prevenzione, le nostre strutture svolgono un ruolo importantissimo proprio in questo settore. Scoprire, attraverso un semplice esame o una accurata visita in una nostra struttura, l'inizio di una malattia che può essere curata in tempo e guarita, evita spesso un ricovero futuro e una degenza in ospedale che, come sappiamo, ha un costo sociale molto alto. Da noi quindi non si fanno mai prestazioni inutili. Tutto contribuisce alla salvaguardia della salute pubblica, un bene che non può essere ridimensionato sulla base di una fredda e arida contabilità. ________________________________________________ Il GIornale 10 Mag. ‘07 LA SCIENZA SUL CERVELLO TUTTA DA RIDERE Un cervello tutto da ridere. Attorno alla psiche i «clamorosi» annunci scientifici si sprecano e a renderli puntualmente «epocali» provvedono i mezzi di informazione. Il combinato disposto di questi due elementi ha portato ai seguenti titoli sui giornali: «Scoperta la proteina camallo scaricatore dei neuroni»; «Scoperta nel cervello la "sfera di cristallo" per leggere il futuro»; «Cervello: longevo quello di lei, geometrico quello di lui»; «Il cervello preferisce il cioccolato ai baci»; «Muovete gli occhi e avrete più memoria»; «Scoperto l'interruttore dell'obesità»; «Scoperto il legame tra scelte morali ed emozioni»; «Il cervello ha più di un orologio, così il tempo non passa mai». Interruttori cerebrali che aspirano a illuminare tutti gli aspetti della nostra vita quotidiana. Troppa fantasia Notizie serie? Informazioni attendibili? A voler essere buoni possiamo dire che si tratta di ricerche «parzialmente» serie e attendibili; integrate spesso da una massiccia dose di esagerazioni e semplificazioni. Del resto il cervello rimane ancora oggi la parte più misteriosa del nostro corpo ed è quindi facile che attorno al suo funzionamento voli qualche «fantasia» di troppo. Negli Stati Uniti hanno coniato il termine di «Harry Potter's Science» per indicare esperimenti dalla grande suggestione mediatica, ma decisamente poco proficui per l'umanità. Trovare il giusto equilibro non è facile, considerato che la pubblicazione dei vari studi sulle riviste specializzate rappresenta il passepartout per ingenti finanziamenti a cui non sono estranee né le testate più o meno autorevoli che ospitano i risultati delle ricerche, né le case farmaceutiche che commissionano gli esperimenti. MAI PIÙ BRUTTI RICORDI L'ultimo esempio è proprio dei giorni scorsi ed ha subito fatto il giro del mondo: «Si chiama "CaMKII" ed è la "proteina della memoria": modificando la sua attività sembra infatti possibile formare o cancellare i ricordi. La scoperta è di ricercatori della Brandeis Univexsity presso Waltham in Massachusetts (Usa), che hanno compiuto i loro esperimenti su sezioni di ippocampo; il regno dei ricordi, del cervello: di topolini. Controllando l’ attività ,dell'enzima con un'altra molecola, i biologi hanno scoperto per la prima volta che inibendolo CaMKII i ricordi vengono eliminati». - Un meccanismo che, se fosse davvero in questi termini, meriterebbe il Nobel per la medicina. Un riconoscimento che però difficilmente verrà assegnato ai cervelli della «Brandeis University» definito un «ateneo di indiscusso prestigio internazionale» solamente dai mass media che hanno rilanciato enfaticamente la notizia peccato che di questa «decisiva scoperta» non ci sia traccia in nessuno dei principali siti scientifici presenti sul web. Almeno in riferimento al 2007. Perché infatti se allarghiamo la ricerca agli ultimi anni scopriamo che questa «eccezionale novità» era già stata annunciata, esattamente negli stessi termini di oggi, nel lontano giugno 2004. Stessa sorte per la presenza scoperta,di tanti altri «psico-interruttori» destinati a sgonfiarsi- anzi, a spegnersi - nel breve arco temporale di una semplice verifica: FAME A COMANDO? «In chi è obeso il sistema di segnali cellulari che regola il peso corporeo si "spegne". Lo ha dimostrato, seguendo il processò a livello neuronale, una ricerca americana pubblicata dalla rivista Cell Metabolism». Che qualche giorno dopo si affretta a precisare: «Mai pubblicato nulla di simile...». E ancora: «Acidi, Lsd, mescalina, funghi magici e molto altro. Il segreto degli allucinogeni e di come si sortiscano i loro effetti sul cervello è stato finalmente svelato dopo anni di ricerca. La scoperta é stata resa nota dalla rivista Veuron». Un piccolo dettaglio: la stessa ricerca era stata pubblicata; tre anni prima, da una rivista concorrente... CIOCCOLATA DI BACI «Quando si scioglie in bocca il cioccolato è più sensuale di un bacio appassionato e dura fino a quattro volte di più». La scoperta è del professor David Lewis, uno scienziato del Mid Lab di Londra a capo di un gruppo di ricerca creato da industrie del settore. «Industrie del settore»? Indovinate quale settore? I produttori di cioccolato, ovviamente... Veggenti cerebrali «Nel nostro cervello esiste una sorta di "sfera di cristallo" per vedere e immaginare -il futuro è fare così valutazioni a lungo termine». Lo riferisce la rivista The Proceedings of the National Academy of Science annunciando -la scoperta di una misteriosa proteina. Che da oggi conterà certamente anche sugli abbonamenti di maghi e veggenti di varia natura. Addio smemorati «Muovete gli occhi da una parte all'altra per 30 secondi ogni. mattina e la vostra memoria aumenterà del dieci per cento». Lo raccomanda uno studio realizzato Gran Bretagna. «Secondo gli scienziati che hanno effettuato la ricerca - prosegue l’articolo presentazione sul britannico. Times - questo semplice esercizio funziona perche permette ai due emisferi d cervello di interagire in maniera più efficiente». Il con merito della stessa comuni scientifica inglese? «Mai sentito nulla di più ridicolo...» Nino Materl ________________________________________________ Il Sole24Ore 11 Mag. ‘07 CENTINAIA DI SCIENZIATI STUDIANO IL DNA DEI SARDI L'isola del tesoro genetico Lara Ricci La Sardegna è un'isola del tesoro. 11 bottino, accumulatosi nel corso dell'evoluzione, è nascosto all'interno dei suoi abitanti. Centinaia di ricercatori da una decina d'anni lavorano per "dissotterrarlo", e i primi risultati sono già arrivati. Stiamo parlando del prezioso patrimonio genetico dei sardi, in particolare di quelli che per secoli hanno vissuto in paesi isolati tra le montagne, in comunità in cui i matrimoni avvenivano molto spesso all'interno del villaggio o anche tra consanguinei. Sono gruppi di persone il cui Dna è piuttosto omogeneo, lo stile di vita pure. Sono chiamati «isolati genetici» e in sostanza permettono di individuare con più facilità le aree del Dna dove si possono trovare le mutazioni genetiche che causano una malattia o una predisposizione. «Il nostro progetto è iniziato nel '95 - racconta Mario Pirastu, direttore dell'istituto di genetica delle popolazioni del Cnr di Santa Maria la Palma -. Dal 2001 abbiamo creato anche una società (Shardna, nata con Renato Soru, ndr). Ora abbiamo un enorme database: 12-i5mila persone, per un totale di dieci paesi dell'Ogliastra, hanno partecipato: circa l’8o% degli abitanti. Di loro ci sono dati clinici ed esami di laboratorio. Abbiamo ricostruito gli alberi genealogici completi degli ultimi 40o anni e sviluppato strumenti informatici per studiare ì dati raccolti. Grazie a queste informazioni abbiamo scoperto che nei paesi esaminati alcune malattie sono molto più frequenti della media, mentre altre sono rarissime. Abbiamo perciò individuato le regioni del Dna dove si dovrebbero trovare ì geni la cui mutazione provoca la patologia o la predisposizione. Nel caso dell'ipertensione, per esempio, abbiamo individuato nove regioni, cinque di queste le hanno trovate anche in altre parti del mondo». Lo studio delle popolazioni isolate infatti non è un esclusiva dei sardi: sotto il microscopio ci sono anche islandesi, in tutti i discendenti degli ammutinati del Bounty e anche popolazioni isolate italiane. Il fatto che ricerche diverse, fatte studiando genti molto distanti, riportino agli stessi segmenti del patrimonio genetico è un dato positivo: significa che quelle aree sono probabilmente condivise da molti malati nel mondo. «Sull'ipertensione siamo anche riusciti a localizzare due geni, che pensiamo possano essere un buon bersaglio per i farmaci». Così gli abitanti di Talana e altri villaggi dell’Ogliastra sono serviti per sapere qualcosa di più sulla calvizie (diffusissima), l'osteoporosi, l'obesità, la retinite pigmentosa (che nel mondo è provocata da almeno 3o differenti mutazioni), una forma di calcolosi renale. Recentemente sono stati reclutati anche i seimila abitanti di Arzana, Elini, Ilbono e Lanusei, coinvolti invece in un altro progetto, Progenia», dell'Istituto di neurogenetica e neurofarmacologia (Inn) del Cnr, e molti altri studi sul genoma dei sardi sono in corso in tutto il mondo. Non si cercano solo le cause della malattie, ma anche ciò che le tiene lontane. «La predisposizione a una certa malattia ce l'hanno in molti, ma perché alcuni non si ammalano? O hanno dei fattori genetici o ambientali che li proteggono, oppure non ne hanno altri che sono corresponsabili dell'insorgere della malattia. Stiamo perciò studiando anche i sani, perché la terapia preventiva è quella del futuro». «I risultati accademici sono molti, anche se dal punto di vista economico non siamo ancora riusciti a convertirli» dice Pirastu il cui obiettivo è anche quello di dare un'opportunità ai tanti, giovani e preparati genetisti sardi, e all'industria locale, affinché l'isola e il suo prezioso patrimonio genetico «non sia solo terra di conquista». _____________________________________________________________ Panorama 10 mag. ’07 STAMINALI, CELLULE CHE FANNO GOLA CONFLITTO DI INTERESSI Molti dei finanziamenti per la ricerca sono andati ai progetti di membri della commissione che doveva selezionarli. Gianna Milano Trasparenza: dovrebbe essere la prima regola della ricerca, a partire dai finanziamenti, specie se sono fondi pubblici. Eppure dopo anni, nonostante due interrogazioni parlamentari, entrambe della deputata Donatella Poretti della Rosa nel pugno, non c'è modo di sapere come siano stati distribuiti i 7,5 milioni di euro destinati nel 2001 dalla Finanziaria alla ricerca sulle cellule staminali, adulte (umane e animali) ed embrionali animali (non le umane, anche se nessuna legge allora ne vietava la sperimentazione). Un bando che assegnava un netto privilegio alla ricerca sulle adulte, a prescindere dal valore scientifico dei progetti. La Commissione nazionale sulle cellule staminali, istituita sempre nel 2001 all'interno dell'Istituto superiore della sanità (Iss) per vagliare le proposte di studi, venne sciolta nel 2004 e il sito web su cui reperire informazioni fu chiuso poco dopo. Tre i bandi di concorso previsti, ma solo per il primo (settembre 2002), i cui vincitori hanno ricevuto notifica ufficiale dei finanziamenti nell'ottobre 2003, è dato sapere come sono andate le cose. Sugli altri le informazioni sono sporadiche. Il link sulle erogazioni del secondo bando non è mai stato attivato. «Non è stato presentato un resoconto ufficiale di come siano stati distribuiti quei soldi che risultano già esauriti al secondo bando. Il terzo non c'è stato e su di esso regna il mistero» dice Demetrio Neri, ordinario di bioetica all'Università di Messina. L'inesistenza del terzo bando si è scoperta nella risposta alla prima interrogazione parlamentare (l'unica ricevuta), dal presidente dell'Iss, Enrico Garaci. Nell'aprile 2004, dopo reiterate sollecitazioni, la Commissione pubblicò i risultati dei progetti finanziati con il primo bando e la lista restò temporaneamente sul web. «Fu subito evidente un conflitto di interessi: molti dei progetti finanziati, 82 sui 137 presentati, erano riconducibili in modo diretto o indiretto a centri e laboratori cui appartenevano gli stessi membri della Commissione» sostiene Poretti. «Inoltre molti di loro avevano presentato 5-7 progetti, usando una strategia resa lecita dal bando: ciascuno poteva elaborarne uno come capogruppo e un altro come secondo intestatario». Alcuni ricercatori, percependo anomalie sul lavoro della Commissione, pur essendo stati finanziati al primo bando, chiesero che il medesimo fosse annullato e la selezione fosse rifatta secondo criteri più trasparenti. «Ovvio che in un paese normale chi sottopone un progetto non possa giudicare quelli di altri colleghi, e che i membri della Commissione che decide dei finanziamenti non possano sottomettere progetti» dice Elena Cattaneo, ordinario di farmacologia all'Università di Milano. «Visto che non è stato fatto, si è chiesto che fossero rese pubbliche le procedure adottate per evitare conflitti di interesse». Richiesta rimasta inevasa. Sette dei 12 componenti la Commissione hanno presentato ricerche poi finanziate. Nella risposta alla prima interrogazione parlamentare Garaci ha replicato dicendo che «tutti i progetti sono stati valutati da revisori o referees anonimi, altamente competenti e indipendenti dal proponente del progetto stesso». Resta il fatto che sul sito dell'Iss non sono mai comparsi i nomi dei vincitori del secondo bando e i lavori finanziati. Informazioni che, pare, verranno rese pubbliche in un convegno di cui si parla da almeno due anni. «Oltreoceano la situazione è diversa. I nomi dei ricercatori cui vanno i soldi e i risultati dei loro progetti sono reperibili su un sito dei National institutes of health e aggiornati di continuo. Perché non fare lo stesso in Italia?» si chiede Gaetano Romano, della Temple University, in Usa. 11/05/2007 118 Pag. Panorama NUM 20_17 MAGGIO 2007 La proprietà intelletuale è riconducibile alla fonte specificata in testa alla pagina. Il ritaglio stampa è da intendersi per uso privato ________________________________________________ Tst 9 Mag. ‘07 TEORIA DEI GIOCHI IN AMBITO BIOMEDICO E SANITARIO QUAL È IL VIRUS CHE VINCE? Si allargano le applicazioni della teoria dei giochi; fino alla wrrrlità e alla biologia Gli "equilibri evolutivamente stabili" tra le specie sono parenti stretti dell'Equilibrio di Nash FIORAYANTE PATRONE UNIVERSITÀ DI GENOVA Gestire le ambulanze per il servizio di emergenza del 118 e anche i donatori in caso di trapianti: la novità è che la teoria dei giochi può applicarsi a tutti i problemi che coinvolgono un uso efficiente delle risorse, anche al di fuori dei settori classici dell'economia e della finanza. Per il servizio di emergenza del 118 l'apparato matematico-formale - in particolare il cosiddetto «valore Shapley» - serve a distribuire le ambulanze sul territorio. Non solo: questa metodologia si presta molto bene a valutare dove, nel corso del servizio, si stiano creando le carenze più gravi. Risorse ancora più delicate sono gli organi trapiantabili, soprattutto se provengono da donatori viventi (si pensi ai reni). La teoria dei giochi ha fatto capolino anche in questo contesto e permette di affrontare con successo gli «scambi di donatori». A questi due ambiti, poi, si affiancano altri tipi di applicazioni che coinvolgono la medicina e più propriamente la Sanità. Si tratta di affrontare problemi economico-finanziari e gestionali per una gestione finalmente corretta ed efficiente del sistema pubblico. Intuizione corretta La teoria dei giochi - la disciplina che si occupa dello studio di situazioni in cui più decisori razionali si trovano a interagire - fu «inventata» da von Neumann e Morgenstern nei 1944, con lo scopo dichiarato di individuare il linguaggio matematico appropriato per lo studio dei fenomeni economici. A oltre 60 anni di distanza si può dire che quella intuizione si sia rivelata corretta. Oggi tutta la teoria economica è permeata di teoria dei giochi. E' sufficiente dare un'occhiata ai manuali di microeconomia che sono adottati nei corsi di dottorato più avanzati e che esprimono il comune sentire degli ambiti accademici internazionali più rappresentativi. E' comunque significativa che il passaggio dalla matematica all'economia fino alle scienze sociali, e quindi alla gestione delle risorse in campo sanitario, non sia stato un processo semplice e dall'esito scontato. Anzi, ha rischiato il fallimento, che forse sarebbe avvenuto, se non vi fossero stati contributi- chiave, a partire dalla seconda metà degli Anni 60, da parte di Harsanyi e Selten. Si tratta di due ricercatori che hanno ricevuto, nel 1994, il Premio Nobel per l'economia, assieme al matematico John Nash. Non essendo stato fatto un film su di loro (come «A Beautiful Mind»), sono meno famosi, ma non per questo i loro contributi possono essere classificati come minori. Una delle ragioni importanti per il successo della teoria dei giochi come strumento di analisi per l'economia sta nell'assunzione del paradigma del decisore razionale, ovvero di chi è in grado di ordinare i propri obiettivi in una scala di preferenze e che si comporterà in modo da ottenere l'obiettivo a lui più gradito. Per questo motivo non è sorprendente che la teoria dei giochi si sia, da tempo, infiltrata anche in altre scienze sociali: le scienze politiche, la sociologia, fino ad arrivare al diritto e all'etica. La teoria dei giochi, d'altronde, è anche una disciplina matematica e quindi dovrebbe essere del tutto naturale e prevedibile che i suoi metodi formali siano utilizzabili anche al di fuori del suo contesto primario. Un campo interessante è quello delle applicazioni alla biologia e alle spiegazioni di tipo evoluzionistica di alcuni fenomeni: l'intuizione dì Maynard Smith e di Price ha portato all'introduzione dei cosiddetti «equilibri evolutivamente stabili», parenti stretti dell'« equilibrio di Nash», in cui sono coinvolte le interazioni tra le specie diverse e all'interno delle stesse specie. Non dovrebbe, quindi, essere sorprendente che ci siano, per esempio, applicazioni di tipo biomedico della teoria dei giochi. Sono significativi i cosiddetti «microarray game»: permettono di analizzare il comportamento dei virus, di elaborare una serie di ipotesi sul comportamento cooperativo di alcune cellule tumorali e anche di analizzare la competizione tra i neuroni motori per impadronirsi del controllo delle fibre muscolari. E non soltanto. Si cerca di applicarli ai dati di espressione del Dna e, quindi, di stimare quali siano i geni che hanno maggiore influenza nel determinare l'insorgenza di una malattia. Si tratta del primo tentativo di utilizzare la teoria dei giochi in questo contesto e le ricerche in questo settore coinvolgono l’IST e l'ospedale Gaslini, oltre che il dipartimento di Ingegneria della Produzione, Termoenergetica e Modelli Matematici dell'Università di Genova. Applicazione esotica Naturalmente, di fronte a un'applicazione tanto «esotica» occorre procedere con la dovuta cautela (e a maggior ragione se si affrontano questioni di assoluta rilevanza per la salute). Uno deì passaggi-chiave per l'utilizzazione dei «microarray game» consiste nel riuscire a giustificare l'utilizzo di un certo tipo di soluzione - il già citato «valore Shapley» - che si fonda sull'assunto di essere in presenza di decisori razionali. Visto che i «decisori» - in questo caso - sono i geni, il fatto non è certo ovvio? LA VITA E LE SUE SCOMMESSE E` la branca della matematica che analizza i processi decisionali, a livello sia individuale sia collettivo Dal campo economico -finanziario a quello strategico- militare, fino alla politica, alla psicologia e alla biologia Numeri onnipresenti, ~ cronologia all'effetto serra Fioravante Patrone è intervenuto sulte applicazioni della Teoria dei giochi in ambito biomedico e sanitario durante un incontro al Centro di Ricerca Matematica Ennio de Giorgi della scuola Normale superiore, di Pisa. E' stato uno degli eventi del ciclo «Matematica, Cultura e Società 2007, la rassegna dì divulgazione scientifica che ha l'obiettivo di affrontare motti temi, che spaziano dalla ricerca su personalità che hanno avuto un ruolo-chiave nella storia della scienza ai rapporti tra matematica e biologia, fino alle problematiche ambientali é all’informatica, e che continuerà fino ad ottobre. Il 3 maggio si è svolta la conferenza «Gentile nella corrispondenza con i matematici italiani», a cura di Pietro Giovanni Nastasi dell'Università di Palermo, il 31 è previsto l'intervento di Marco d'Eramo sul quesito «In quale tempo vive un matematico?», mentre il 16 ottobre Elena Prestini dell'Università di Roma Tor Vergata parlerà di Joseph Fourier: «Un matematico freddoloso e l'effetto serra». _____________________________________________________________ Repubblica 7 mag. ’07 LE 22 PROFESSIONI DEL CAOS SANITARIO VORREI concludere la polemica aperta con le due ultime linea di confine (Todos caballeros negli ospedali italiani e Chi porterà la padella fra tanti dott. e prof?” su Repubblica del 23 e 30 aprile). Prima, però, mi è d’obbligo ribadire che nei pezzi incriminati non figurava alcuna espressione irrispettosa della professione infermieristica, non fosse altro per motivi scaramantici, più che spiegabili ad una età che mi vede frequentatore assiduo delle strutture sanitarie. Scherzi a parte sono convinto che agli infermieri qualificati vada assicurata una più ampia autonomia (già anni orsono scrissi, ad esempio, che andava loro delegata la somministrazione di oppiacei ai pazienti afflitti da dolore acuto). Ho anche sostenuto che la nuova formazione accademica (il 3+2) andava accolta come un positiva possibilità di crescita culturale e professionale della categoria e delle molte altre, un tempo chiamate paramediche. Ciò che mi trova nettamente discorde è, per contro, il passaggio da una autonomia ben definita alla totale indipendenza. Per questo non mi convince il sottosegretario alla Sanità, Gian Paolo Patta, in passato valente sindacalista, che in una sua lettera, vantando l’individuazione da parte del ministero di ben ventidue professioni sanitarie, ribadisce che esse sono «abilitate alla diretta presa in carico del paziente e a svolgere con piena titolarità tutte le attività individuate dalle norme vigenti.... senza entrare minimamente in conflitto coi medici,.. che rimangono titolari della diagnosi clinica (da non confondersi con la «diagnosi infermieristica », ndr), degli atti medico chirurgici e della prescrizione della terapia farmacologica». Le preoccupazioni che ho manifestato per questo impianto spartitorio di ogni singolo paziente e delle competenze sanitarie, denoterebbero «una idea superata, quanto meno anacronistica, della sanità.... anche perché nella moderna concezione nessuno può operare al di fuori del modello della équipe multiprofessionale, nella quale ogni operatore esercita la propria professione all’interno del proprio ambito operativo». Forse sarò «antiquato», ma quel che a me sembra un autentico e pericoloso anacronismo è l’introduzione di un modello in cui ogni operatore, a seconda della neo-professione, agisce «all’interno del proprio ambito ». Quale è il confine tra i vari «ambiti» e, soprattutto, chi coordina e, alla fine, ha l’ultima parola in quel «modello multi professionale» che sancisce la cancellazione del primato medico? Temo, quindi, un contesto cacofonico e litigioso, come prova fin d’ora la protesta della Federazione degli Ordini dei medici al Consiglio superiore della Sanità contro «l’istituzione indiscriminata e ingiustificata di nuovi operatori che non recano alcun miglioramento agli attuali livelli assistenziali, contribuendo invece a provocare pericolose sovrapposizione di competenze ». Passando alla normale gestione lascio la parola a uno dei miei tanti critici, Angela Ragaccio, dirigente del Servizio infermieristico delle Molinette di Torino: «Non c’è una risposta univoca alla sua provocatoria domanda su chi porterà la padella al malato fra tanti dott e prof: potrà essere l’infermiere se la complessità del paziente renderà necessario un intervento altamente qualificato, potrà essere un operatore socio-sanitario o altra fi- gura di supporto oppure semplicemente il famigliare vicino al malato». Se così è, avremo negli ospedali l’afflusso annuo di diecine di migliaia di operatori socio-sanitari per assicurare l’assistenza quotidiana (vi è attualmente una carenza di circa 100.000 unità); figurano, inoltre, nel SSN 342.000 infermieri professionali, molti sulla rampa di lancio per una carriera a più alto livello. Infine l’offerta formativa annua nei corsi di laurea infermieristica è attualmente di 13.000 posti e se ne richiedono 17.000. Gli studi spaziano dal management alla demoetnoantropologia. Altrettanto dicasi per le altre 21 figure professionali individuate dal ministero. Visto il dissennato proliferare dei corsi di laurea c’è da chiedersi quale sarà il tetto definitivo per la sanità. C’è anche da chiedersi come il SSN vi farà fronte economicamente, visto che già oggi il personale (medici inclusi) assorbe i 2/3 della spesa ospedaliera. Per concludere, tutto ciò corrisponde senz’altro al combinato disposto della riforma scolastica e delle tante modifi- che di quella sanitaria. Ci si chiede se l’esito conferma l’impegno di mettere il cittadino al centro del Sistema sanitario oppure si stia operando, in questo come in tanti settori, per il trionfo dell’Italia delle mille corporazioni. Le 22 “professioni” del caos sanitario L I N E A DI CONFINE MARIO PIRANI ________________________________________________ Avvenire 11 Mag. ‘07 FEDE E SCIENZA CONTRO LE «BIOFOLLIE» Il cardinale e il ricercatore francese al convegno della Fondazione liberal. Un confronto sulle derive della tecnica applicata alla vita e i suoi risvolti politici DA Roma GIOVANNi RUGGIERO Un bene umano obiettivo non può esistere senza Dio: essere e agire come se Dio non esistesse. Il cardinale Camillo Ruini riprende l'invito fatto da Benedetto XVI, da cardinale, a capovolgere l'assioma, indirizzando la nostra vita veluti si Deus daretur, come se Dio esistesse. t la fondazione Liberal che ha invitato a discutere sulla definizione di "bene umano obiettivo" per delineare un concetto di bioetica critica; ne hanno discusso ancora ieri alla Gregoriana numerose personalità tra le quali, appunto, il vicario di Roma e lo scienziato Luc Montagnier. Gli ostacoli nel delineare questo concetto sono quelli che hanno segnato specialmente il Novecento, ma Ruini si dice consapevole che «né la riduzione dell'uomo alla natura né un totale relativismo né una prospettiva nichilista possono affermarsi pienamente e diventare davvero egemonici finché la fede cristiana è viva e riesce a generare cultura». Citando ancora quell'invito che il futuro Papa fece a Subiaco, Ruini conclude il suo denso intervento esortando: «Abbiamo anzitutto bisogno di uomini che siano davvero e profondamente credenti, uomini cioè che Ungano lo sguardo diritto verso Dio, implorando da li la vara umanità. E individuazione del "bene umano", implicala differenziazione dell'uomo dal resto della natura che, spiega Ruini, consiste in una sua superiorità ed in una vera e propria differenza qualitativa che non è possibile negare «Si è fatta strada l'idea- spiega- che la presunzione di una tale superiorità dell'uomo vada lasciata cadere, come una eredità infondata e ormai obsoleta, anzi dannosa ai fini di una migliore coscienza di noi stessi e di un più sereno e positivo rapporto con il resto della natura. Lasciar cadere la superiorità dell'uomo e ricondurlo al resto della natura vorrebbe di però interrompere e capovolgere il dinamismo che e intrinseco in noi e che ci ha consentito di vivere e di divenire progressivamente sempre più noi stessi». Sulla questione del relativismo, Ruini si sofferma sull'incidenza che ha nell'etica pubblica e nelle scelte legislative, e poi nel diritto. La contraddizione sta, spiega nell'atteggiamento secondo il quale «ogni determinazione di ciò che è bene non può che essere relativa al soggetto individuale e alla sua libertà e, per conseguenza, non può essere ammesso alcun riferimento a un bene oggettivo, a ciò che è bene o è male in se stesso». Dal relativismo al nichilismo, con le ricadute nel diritto. Ruini, riprendendo H dialogo recente tra Claudio Magris e Natalino Irti, afferma che se il diritto non può più richiamarsi a valori che lo trascendono: né alla tradizione né a Dio né alla natura, ma si fonda solo sulla volontà più forte, «viene allora escluso da ogni rapporto con la giustizia, e non vi è più alcun motivo, se non la coazione estrema, per conformarsi alle norme del diritto da parte di tutti coloro che sono appunto i più forti. Si dissolvono cosi il senso e la sostanza stessa di ogni ordinamento che voglia essere giuridico: esso non sarebbe infatti una situazione di diritto, ma soltanto un deprecabile stato di fatto». Da questo stato di cose (lo dice la Centesimus annus) la democrazia senza più valori si converte facilmente in totalitarismo. Dalla parte dello scienziato, Luc Montagnier idividua i limiti che ostacolano H definirsi di un '1ene umano". Il primo: «Intervenire sul patrimonio genetico - dice - significa intervenire sulle generazioni successive che deriveranno da questo patrimonio. Mi dispiace che alcuni ricercatori giochino a fare i maghi. Per ragioni fisiche e non solo morali, bisogna utilizzare tecniche precauzionali sostenibili. Vale per le tecniche di procreazione medica assistita, praticata diffusamente non soltanto per consentire figli a donne quando non ne potrebbero avere, ma anche per correggere errori della natura. Ma attenzione: ci vuole molta prudenza». Questo è solo uno degli interventi possibili sul patrimonio genetico dell'uomo che ha anche un patrimonio culturale che si è sviluppato da quando l'uomo è diventato sedentario ed è iniziata la parola e quindi la scrittura, poi attraverso la famiglia e la scuola. «I limiti vengono anche da qui, perché- dice Montagnier - questo cambiamento qualitativo per la nostra specie ci dà una enorme superiorità, nonché dei doveri perché abbiamo la responsabilità del pianeta. Possiamo rivolgerci al passato, alla morale, alla religione o dedurre dalle nostre conoscenze scientifiche ciò che è lecito fare, rna H problema è b globalizzazione, perché se qualcuno vuole praticare la fecondazione assistita può andare a Singapore o a Seul. Quindi finché non ci sarà un consenso unanime della comunità scientifica, medica e politica e tra le autorità religiose su questa nuova morale che deve applicarsi alla scienza per evitare le '1iofollie" e finché non ci sarà questa accettazione generalizzata, la nostra specie e il futuro delle nostre generazioni sarà in pericolo. I:Europa può iniziare a difendere questi valori che sono gli stessi della religione. In realtà, la laicizzazione dello Stato è un processo in corso, ma è un falso problema perché i valori di base, come il rispetto del proprio prossimo, sono valori universali». ________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 6 Mag. ‘07 QUALI RISCHI CON I COMPUTER SENZA FILI? Settimo Grimaldi - Ricercatore dell'Istituto di neurobiologia e medicina molecolare del Cnr di Roma Il comitato britannico per la ricerca e la sicurezza dei cellulari ha dichiarato nei giorni scorsi che i bambini non dovrebbero tenere in grembo computer portatili con connessione a Internet senza fili (wi-fi) per i possibili rischi per la salute. Perché possono essere pericolosi questi computer? Il problema deriva dalle onde elettromagnetiche ad alta frequenza emesse per collegarsi a Internet senza cavo. La loro intensità non è molto elevata sicuramente inferiore a quella dei vecchi cellulari, simile a quella dei telefonini più moderni. Trattandosi di computer utilizzati da un tempo limitato non si può, però, escludere che comportino qualche rischio. Perché occorre stare attenti coi bambini? I bambini sono in una fase di attivo sviluppo e potrebbero essere più suscettibili alle emissioni elettromagnetiche. Per questo vale il principio di precauzione: così come bisogna evitare che usino il telefonino va sconsigliato anche il pc wi-fi. Qualche suggerimento? Non conoscendo le ricadute la salute dei pc wireless sarebbe buona regola usarli per collegarsi a Internet solo lo stretto necessario ed evitare di tenerli in grembo. Per limitare l'esposizione alle onde elettromagnetiche basta allontanarli di pochi centimetri, per esempio li si può appoggiare sul sedile di fianco o ricorrere all'espediente di interporre tra se stessi e il pc un banale foglio di alluminio come quelli usati in cucina. a cura di Antonella Sparvoli ________________________________________________ Il Sole24Ore 10 Mag. ‘07 SE GENETICA FA RIMA CON CIBERNETICA DI FRANCESCA CERATI Con il vestito bionico ha gettato un ponte tra il mondo reale e quello della fantascienza, con l'obiettiva di aiutare disabili e anziani con problemi di deambulazione. Nato a Okayama alla fine degli anni '50, il cibernetico giapponese dell'università di TsuL-uba, Yoshiyuld Savkai, è il padre di Hal (un omaggio al cervellone elettronico di Stanley Kubrick?), un robot da indossare che può aiutare ad assumere la posizione eretta e camminare, amplificando anche la forza dei movimenti degli arti. La passione di Sankai per i robot nasce da bambino con la lettura di romanzi, quella per la medicina nei laboratori della scuola elementare dove faceva esperimenti sulle rane. Ma alla fine, pur dedicandosi alle tecnologie mediche, si laurea in ingegneria. La sua speranza è trovare un sistema capace di mettere in comunicazione macchina e impulsi nervosi cerebrali. Nasce così Hal 3, un esoscheletro di metallo con comando atnotore che può essere assicurato con delle cinghie alle gambe per aiutare e potenziare il loro movimento. Uno zaino contiene un computer con un collegamento wireless, mentre le batterie sono su una cintura. Questo sistema bio-cibernetico utilizza i sensori bicelettrici fissati sulle gambe per monitorare i segnali trasmessi dal cervello ai muscoli: il sistema si attiva automaticamente una volta che l'utente comincia muoversi. Nel aoo5 sono stati presentati altri due prototipi (Hal q e 5), che hanno una parte superiore per aiutare le braccia, sono molto meno ingombranti e più leggeri. Ha cominciato le sue ricerche studiando il sistema immunitario e il midollo osseo, per approdare all'oncologia pediatrica e ai trapianti di midollo. Civin Curt, docente alla Johns HopkWS, titolare di nove brevetti e oltre 135 pubblicazioni, nel 1984 fa una scoperta sensazionale: l’anticorpo monodonale Cd, con il quale è stato possibile identificare, isolare e raccogliere per la prima volta le cellule staminali emopoietiche. L'anticorpo è infatti in grado di bloccare selettivamente queste cellule, localizzate nel midollo osseo, permettendo così di abbreviare i tempi di recupero dei pazienti sottoposti a chemioterapia ad alto dosaggio. Civin, però, ha inventato anche un procedimento che può purificare le cellule su vasta scala, dividendo le staminali dalle cellule mature. Gli studi clinici sono iniziati nel 1990 e da allora più di 10mila pazienti hanno ricevuto trapianti di cellule staminali purificate attraverso gli anticorpi monoclonali di Civin. Il suo procedimento è inoltre utile per trasformare le staminali in bersagli nella terapia genica, aprendo nuove frontiere diagnostiche e terapeutiche. Quale delle due invenzioni é stata brevettata prima?. ________________________________________________ Panorama 17 Mag. ‘07 MENO TERAPIE ORMONALI, MENO TUMORI AL SENO Tra le europee. il tumore al seno è tra quelli più diffusi: 429 mila nuovi casi nel 2006. Seguono colon e utero. E Negli Usa il calo delle donne che prendono ormoni in menopausa si è tradotto in una decisa diminuzione di casi di cancro al seno. E in Italia? Daniela Ovadia Quando nel 2002 lo studio Woman's health initiarive (Whi), finanziato dal governo degli Stati Uniti, fu interrotto perché rivelò che gli ormoni in menopausa aumentavano il rischio di tumore al seno (e anche di infarto o ictus), la maggior parte delle donne americane scelse di rinunciare alla terapia ormonale sostitutiva. In questi giorni gli epidemiologi dell'Anderson center di Houston pubblicano sul Neu, EnglandJourna! of Medicine un grafico inequivocabile: da quando le donne prendono meno ormoni, l'incidenza del cancro al seno è scesa dell'8,6 per cento l'anno. Un calo mai visto prima nella storia dell'oncologia in un tempo così breve (cinque anni), che interessa esclusivamente i tumori del seno sensibili agli estrogeni. «È la dimostrazione del legame diretto tra farmaci con ormoni usati per trattare la menopausa e aumento del rischio di cancro» afferma Riccardo Vigneri, direttore del dipartimento di endocrinologia all'ospedale Garibaldi di Nesima (Catania). «Finora, infatti, nessuno ha saputo trovare una spiegazione più convincente per questo fenomeno». E in Italia? «È più difficile dirlo» avverte Eugenio Paci, segretario dell'Associazione italiana dei registri tumori. «Da noi la terapia ormonale sostitutiva in menopausa non ha mai goduto di grande simpatia. Se in alcune città, soprattutto del Nord, veniva assunta da quasi una donna su quattro, la media nazionale superava di poco il 15 per cento». Nonostante ciò alcuni ricercatori cominciano a notare differenze. «Abbiamo riscontrato una diminuzione dei casi di tumore, analoga a quella che si è verificata negli Usa, nella città di Torino, analizzando i dati del registro tumori locale, sebbene il calo sia stato meno repentino» sostiene Nereo Segnan del Centro di prevenzione oncologica del Piemonte. Significa che pure in Italia le donne hanno abbandonato la terapia ormonale, oppure che vi ricorrono per periodi molto brevi? In realtà, sebbene vi sia un calo nelle vendite di questi farmaci, un'indagine svolta nel 2004 in 12 asl del Veneto dimostra che le donne in trattamento assumono ormoni in media da sette anni: è calato il numero delle nuove «adepte», ma chi si è abituata a prendete gli ormoni difficilmente vi rinuncia, malgrado i rischi, e prolunga l'assunzione ben oltre la soglia consigliata dagli esperti. Oggi, in base alle linee guida internazionali, la terapia ormonale andrebbe riservata alle donne in menopausa precoce e con sintomi invalidanti, per un periodo però non superiore a due anni. «È probabile che gli ormoni agiscano come una sorta di concime per alcuni tumori del seno, chiamati carcinomi in situ. Sono forme molto iniziali di cancro, che vengono attivate dalla stimolazione ormonale» dice Marco Rosselli del Turco, direttore del Centro di prevenzione oncologica di Firenze. «Per questo, una volta cessata l'assunzione di ormoni, l'incidenza del tumore cala immediatamente, anche se tutti sanno che affinché un cancro si formi dal nulla occorrono in genere diversi anni». Dal momento che l'effetto negativo è così rapido, ha senso continuare a prendere ormoni, seppure per periodi brevi? «Se una donna ha sintomi molto fastidiosi, può assumerli, con la precauzione di smetterli appena possibile» conclude del Turco. «Se è vera la teoria secondo cui gli ormoni non fanno che accelerare la crescita di un tumore destinato comunque, prima o poi, a svilupparsi, l'arma migliore per contrastare il cancro al seno rimane sempre lo screening con la mammografia». • ________________________________________________ Il GIornale 12 Mag. ‘07 PIÙ FACILE CURARE L'OSTEOPOROSI Ora è possibile dimezzare le fratture mediante una sola infusione endovenosa annuale di un nuovo bisfosfonato Buone notizie, sull'osteoporosi. Basterà un'infusione endovenosa annuale per ridurre notevolmente l'incidenza di tutti i tipi di tratture ossee. La, notizia, arriva da uno studio internazionale condotto per tre anni su 7.700 donne e pubblicato nei giorni scorsi sul New England.Iournal ofMedicine. Ne parliamo col professor Silvano Adami, cattedratico di reumatologia nell'Università di Verona. e coordinatore per l'Italia, di questo importante trial. Dice: «Abbiamo studiato 400 donne con osteoporosi in fase avanzata che avevano già subito almeno una, frattura vertebrale. la loro età minima era di 65 anni, la massima, di 88. Le abbiamo trovate particolarmente pronte alla nuova, terapia, che - col suo ritmo molto tranquillo - non imponeva sforzi di memoria.. Il preparato impiegato nello studio, l'acido zoledronico 5mg, appartiene alla classe dei bisfosfonati; ma è la prima volta che vi si ricorre con cadenza annuale. Questo rivoluzionario dosaggio impedisce - ed è un grande vantaggio - di interrompere la terapia». Il professor Adami ha già illustrato i risultati di questo studio (chiamato Piuotal fracture trial) a un congresso internazionale, tenutosi la settimana scorsa a Copenaghen, e al congresso nazionale di reumatologia, svoltosi nei giorni scorsi a Catania. Ora li riassume per noi: «l’ossiaino ottiene risultati davvero incoraggianti. Le fratture vertebrali sono diminuite del 70 per cento e le fratture, all'anca, che sono le più sensibili, del 45-50 per cento. La forza di questi risultati e l'ampiezza (letto studio ci dicono che dobbiamo guardare al futuro con ottimismo». Attualmente l'acido zulodronico è l'unico bisfoslonato in monosorraministraziono annuale che si può impiegare per il trattamento dell'osteoporosi. Questa malattia purtroppo sottovalutata dalle donne potrebbero scoprirla e curarla efficacemente già nella fase post-menopausale) è provocata da una progressiva riduzione della massa ossea e da un conseguente aumento del rischio di fratture. Nel mondo ne soffrono più di 150 milioni di donne. Le fratture più frequenti riguardano il polso e le vertebre. Le più gravi spezzano l'anca, provocando prima l'immobilità e più tardi (in almeno dieci casi su cento) la morte. Il costante invecchiamento della popolazione moltiplica i casi di osteoporosi che hanno un alto costo socio-sanitario. normalità., l’elisir di lunga vita,», conie ha, detto uno dei partecipanti alla, conferenza. «Sono la testimonianza vivente che il trapianto è vita. - ha, detto Erdy - e, alla vita,, guardo con ottimismo. Il consiglio che posso dare a chi, come me, ha, subito un intervento del genero, è quello di vivere normalmente, dimenticandosi di essere un trapiantato, apprezzando e ricordando solo i momenti belli». l:, sul problema delle dona,Aoni, che affligge il Sud, il professor Eady ha, dotto che «bisogna sensibilizzare maggiormente la, gente, soprattutto nel civile mondo occidentale». Nel corso della Conferenza, internazionale di neurologia, sono state diffuse le cifre della malattia. renale in Campania, che conta, cinque mila ottocento dializzati, 1100 pazienti in lista, d'attesa, per un trapianto, 60mila persone con problemi di reni, 160 centri di dialisi dei quali 128 privati. C'è anche un'altra cifra, quella che riguarda il numero dei trapiantati di rene in Campania: appena 45 nel 2000, pochi rispetto a. quanto accade nelle regioni de] Nord. Spiega, il professor Natale Gaspare 1)e Santo del Centro Interdipartimentale di ricerca clinica del policlinico di Napoli. «La vita di un dializzato è una vita, con molte dipendenze, la loro sopravvivenza è legata ad un macchinario al quale sottoporsi ogni 48 ore. Difficilmente queste persone possono programmare un viaggio o accettare un lavoro che richieda impegno. Ecco perché hanno bisogno di un'attenzione particolare. Non è facile adattarsi e accettare una vita con delle limitazioni. Non bisogna considerare solo la medicina curativa, ma avere un occhio anche per quella preventiva». Apprezzato l'intervento del professor Paul L. Kimmel, docente di Medicina alla George Washington University di Washington e direttore dell'Education American Society of Nephrology. Kimmel ha riferito della depressione, uno dei problemi connessi alla malattia renale. ________________________________________________ Libero 12 Mag. ‘07 COME DIFENDERSI DAI TATUAGGI MODA GIOVANE E PERICOLOSA La pratica è molto diffusa. Tra maschi e femmine non c'è differenza Infezioni frequenti al momento della rimozione. La garanzia è il laser NICOLAZERBINATI Già probabilmente l'etimologia del termine tatuaggio deriva dalle parole "ta" e "atouas" che significano disegno dello spirito. Ma l'arte del tatuaggio decorativo, connotato da un forte significato simbolico, sembra affondare le sue origini nell'età del bronzo, circa 8000 anni prima di Cristo. Otzi (3300 a.c.), comparso dai ghiacci del Similaun, ha una sessantina di tatuaggi su tutto il corpo. Si tratta di tatuaggi realizzati con carbone di legna cosparso su sottili incisioni della pelle. Il ricorso a tale pratica si è protratta nel corso dei secoli, raggiungendo una grande diffusione dal 1880 in avanti, quando, cioè è stata messa a punto la prima macchina elettrica per la creazione di tatuaggi. Attualmente la pratica è molto diffusa soprattutto tra gli adolescenti. E a questo punto c'è da dire che la tatuazione è sostanzialmente una pratica sicura purché venga eseguita da mani esperte e in ambienti con norme igienico sanitarie ottimali. In caso contrario si registrano reazioni allergiche meno prevedibili (ma subdole e comunque gravi) legate ai pigmenti. Infatti, anche tralasciando le manifestazioni di anafilassi, non infrequenti sono le dermatiti allergiche che si manifestano con edemi, croste purulenti e prurito e il fenomeno porta naturalmente ad una alterazione delle linee del disegno e ad una sovrapposizione dei colori. Recenti indagini di costume riferiscono che fl primo tatuaggio viene eseguito mediamente ad una età di 16 anni ed ha una pari diffusione in entrambi i sessi. Le stesse ricerche riferiscono che una elevata percentuale di tali soggetti, intorno all'età di 40 anni, richiede la rimozione del tatuaggio per diversi motivi di carattere familiare, professionale o personale. A questo punto entra in gioco il dermatologo. Il pigmento, che viene introdotto nella pelle attraverso aghi montati su turbine, inizialmente è contenuto all'interno di fagosomi nel citoplasma di cheratinociti ma dopo circa un mese il pigmento si ritrova nelle cellule basali dell'epidermide e nel derma superficiale al confine con la giunzione dermo - epidermica. Due mesi dopo l'opera del tatuatore, il pigmento è contenuto solo all'interno dei fibroblasti dermici ed ha una localizzazione elettiva nelle aree perivascolari circondato da uno strato di fibrosi che ha sostituito l'iniziale tessuto di granulazione.. La rimozione del quadro clinico-istologico sopra descritto offriva sino a qualche hanno fa soluzioni che prevedevano la distruzione meccanica del tessuto (dermoabrasione, salabrasione, peeling chimici o rimozione chirurrgica).con inevitabili esiti cicatriziali e non rare infezioni. La tecnologia laser, però, permette oggi nuovi ed interessanti approcci terapeutici: il trattamento si basa sul principio della fototermolisi selettiva (sviluppata da Anderson e Parrish nei primi anni 80) secondo cui la selettività dell'azione è garantita dall'impiego di una lunghezza d'onda bene assorbita dal target (pigmento) e da una ampiezza di impulso uguale o inferiore al tempo di rilasciamento termico del target medesimo. Più semplicemente utilizzando elevate energie luminose (megawatt) con brevi tempi d'impulso si è in grado di frammentare in piccole particelle il pigmento. Tale frammentazione favorisce l'eliminazione del colore profondo da parte delle cellule fagocitiche e la rimozione per via transepidermica del pigmento superficiale. I laser più utilizzati perla rimozione dei tatuaggi ornamentali , medici o traumatici, sono il Rubino, il N e l’Alessandrite, naturalmente tutti nella modalità di emissione Q-switched, caratterizzati cioè da una durata di impulso nell'ordine dei nanosecondi. La completa rimozione laser del tatuaggio richiede un numero di sedute variabile in relazione al tipo di laser, ai parametri utilizzati ed alle caratteristiche del tatuaggio (colore e composizione del pigmento) Si ritiene opportuno frapporre un intervallo di circa 6-8 settimane tra le sedute in modo da ridurre il rischio di comparsa di gravi reazioni tessutali avverse e consentire una completa attività fagocitarla delle cellule competenti. In ogni caso gli effetti collaterali peggiori legati alle tecniche di rimozione sono le cicatrici ipertrofiche e cheloidee che possono comparire per un danno termico del comparto dermico oppure le amelanosi con distacco di cellule. Da oggi, insomma, gli estimatori della pratica potranno portare tatuato sul pettorale il nome della propria amata senza rischio che la conclusione della storia d'amore comporti deturpanti cicatrici o anche peggio. Il tatuaggio, connotato da un forte significato simbolico, è un'usanza antichissima. Sembra che le sue origini risalgano all'età del bronzo, circa 8000 anni prima di Cristo. Attualmente la moda è molto diffusa, soprattutto fra gli adolescenti, sia maschi sia femmine, praticamente nella stessa identica misura. ________________________________________________ Libero 12 Mag. ‘07 IL SESSO NELLO SPAZIO, FATICOSA IMPRESA PER SUPERDOTATI FABIO FLORIND( Fare sesso nella spazio è un impresa degna delle migliori performance di Rocco Siffredi. In assenza di gravità infatti, le erezioni sono più difficili e la produzione di testosterone è drasticamente ridotta. Laura Woodmansee, membro della National Space Society, ha scritto un libro ("Sex in the space") in cui analizza scientificamente l'effettiva possibilità di fare l’amore nello spazio. «L'assenza della forza di gravità- spiega la Woodmansee sui numero di Focus di giugno - ha un effetto rilassante sui vasi sanguigni: il sangue tende a colare piuttosto che essere pompato con energia, perciò è difficile pensare che un uomo possa raggiungere un'erezione funzionale perla penetrazione. Allo stesso tempo, in queste condizioni, le zone erogene femminili tendono ad essere più sensibili dato che l'irrorazione sanguigna è più diffusa». Insomma, lo spazio sarà anche nefasto per il desiderio maschile, ma per quello femminile rappresenta una sorta di afrodisiaco. E i guai per l'uomo non finiscono qui. «Oltre a perdere potenza e dimensione - continua la scrittrice l’assenza di gravità riduce anche la produzione di testosterone, l'ormone sessuale maschile». Ma qualcuno ha già fatto sesso in una navicella o in una stazione spaziale? «Ufficialmente no, i dirigenti della Nasa si trincerano dietro molti no comment». Però, c'è chi ci è andato vicino. «Un produttore cinematografico russo, Yuri Kara, era quasi riuscito a mettere in orbita tre attori per girare il primo film porno nello spazio; ma l'agenzia spaziale russa chiese 23 milioni di dollari per ospitare la troupe sulla stazione spaziale Mir. Kara riuscì a raccoglierne solo 7 e alla fine non se ne fece nulla». Se vengono superati i problemi di erezione maschile, tuttavia, il coito spaziale promette scintille. «Oltre al sesso orale - continua la Woodmansee - si possono sperimentare varie posizioni. Ma il kamasutra orbitale non è realizzabile subito: durante i primi due o tre giorni, tutti i viaggiatori spaziali soffrono infatti di nausea, mal di testa, dolori alle ossa e vomito. Questo perché alla mancanza di gravità ci si abitua gradualmente». Ammesso che si riesca a fare sesso, il vero nodo da sciogliere resta però la possibilità della procreazione in orbita. «La gravità gioca un ruolo fondamentale nella formazione del feto: la sua assenza potrebbe portare a problemi di natura cardiovascolare, malformazioni degli arti, problemi allo sviluppo della vista. Anche le radiazioni cosmiche potrebbero danneggiare il DNA del feto». Gli esperimenti con gli animali non sono stati incoraggianti, solo i pesci non hanno avuto problemi, ma essi, vivendo in acqua, sono già abituati all'assenza di peso. Le agenzie che propongono i viaggi spaziali mostrano foto di persone sorridenti, ma in realtà lo spazio è un ambiente molto duro. «Ci vorrà molto tempo - conclude la Woodmansee - prima che due innamorati possano tenersi per mano guardando il Sole che sorge alle spalle del Polo terrestre». Sarebbe più comodo pensare ad un hotel lunare. «Lo 0,16 g della Luna potrebbe offrire condizioni gravitazionali più adatte per un amplesso rispetto alla gravità zero», ma i problemi da superare sono ancora enormi. _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 7 mag. ’07 SCOPERTA LA CELLULA ANTI-CANDIDA Malattie autoimmuni, importante ricerca di un gruppo italo-svizzero ROMA. Ricercatori italiani che lavorano in Svizzera hanno isolato e tracciato l'identikit della cellula immunitaria che ci difende da comuni infezioni fungine come la Candida e da alcuni batteri. La scoperta, resa nota sulla rivista Nature Immunology, è stata fatta dal gruppo di Antonio Lanzavecchia, direttore dell'Istituto di Ricerca in Biomedicina di Bellinzona in Svizzera, Giorgio Napolitani e Federica Sallusto dello stesso istituto, con la collaborazione di Marco Gattorno dell' ospedale Pediatrico IRCCS Gaslini di Genova. Sono le'cellule T helper di memoria' che producono la molecola interleuchina-17, o'cellule TH-17', le cui identità e proprietà finora erano rimaste elusive nell'uomo. Le cellule TH-17 sono importanti perchè permettono di sferrare una risposta specifica ad infezioni fungine come la Candida albicans e anche perchè sembra siano implicate nello sviluppo delle malattie autoimmuni. I linfociti T helper sono cellule immunitarie che fungono da attivatori della risposta immunitaria, stimolando il proliferare di cellule T Killer e cellule B. Le TH- 17, le cui proprietà finora erano note solo per le corrispondenti cellule di topo, producono l'interleuchina-17, un regolatore dell'intensità della risposta immunitaria. Questa interleuchina è di notevole interesse perchè sembra coinvolta nella genesi di molte malattie autoimuni in cui il sistema immunitario va'in tilt' e attacca organi e tessuti dell'organismo. Gli esperti hanno infatti isolato le TH-17 nel liquido sinoviale delle articolazioni di pazienti con artrite giovanile, una di queste malattie. Poi gli immunologi hanno visto che un'infezione da Candida stimola in modo altamente specifico lo sviluppo delle cellule TH-17. _____________________________________________________________ Repubblica 10 mag. ’07 VIOLENZA INDOTTA? VIDEOGAME INNOCENTI Violenza indotta? Tanti studi, poca scientificità La prima meta-analisi su tutte le ricerche finora svolte. L'impatto emotivo: un Tg "colpisce" di più di Jaime D'Alessandro Tutto è cominciato nel 1999, quando Eric Harris e Dylan Klebold uccisero dodici compagni nel liceo di Colombine per poi togliersi la vita. Le prime teorie scientifiche che misero in relazione videogame violenti con comportamenti criminali e devianti risalgono infatti a quell'epoca. Da allora il dibattito sulla legittimità dei giochi elettronici, nel loro complesso, si è sempre più radicalizzato. Da una parte chi vorrebbe vietarli o limitarne la diffusione, dall'altra chi invece li difende sostenendo che si tratta di una forma di intrattenimento come tante altre. In discussione quindi c'è la presunta influenza negativa che questo medium avrebbe sugli adolescenti e sui bambini. Anche se, è bene dirlo, l'età media dei giocatori si è alzata sensibilmente. In Italia ad esempio, stando a una ricerca di Gfk datata settembre 2006, il 71 per cento delle persone che si divertono con i videogame sono maggiorenni e fra questi i più numerosi hanno fra i 25 e i 44 anni (il 40 per cento). Ma certo, ciò di per sé non significa che su loro come sui più piccoli i giochi non abbiano un potere o un influenza negativa. Il problema è che non esistono studi attendibili capaci di dimostrare o di negare l'esistenza di un rapporto diretto fra contenuto di un gioco e comportamenti aggressivi nella vita reale. Intendiamoci, di studi del genere ce ne sono a dozzine, ma la maggior parte è fortemente condizionata da pregiudizi di fondo in un senso o nell'altro. O almeno è questo che sostiene Christopher J. Ferguson, ricercatore presso il dipartimento di Scienze Applicate dell'Università Internazionale del Texas, nel primo studio dedicato alle analisi fin qui condotte sulla relazione fra videogame e atteggiamenti violenti. Non solo. Sfogliando "Evidence for publication bias in video game violence effects literature: A meta-analytic review" , questo il titolo del recente saggio (su Sciencedirect), la cosa che colpisce di più è che molte di queste ricerche di scientifico hanno ben poco. Alcune in particolare sono state condotte solo su ragazzi detenuti in riformatorio, altre invece sono state realizzate chiedendo esplicitamente ai soggetti cosa provavano dopo aver giocato per venti minuti con un videogame violento. Nel primo caso la relazione fra crimine e videogame è stata provata con facilità, nel secondo caso si tratta di un metodo che porta a risultati falsati come vedremo fra poco. "Il problema è mal posto", conferma Francesco Antinucci, direttore della sezione Processi Cognitivi e Nuove Tecnologie dell'Istituto di Psicologia del Cnr. "È vero che l'interazione digitale dei videogame porta a un coinvolgimento maggiore rispetto al cinema o alla televisione. Ma l'impatto emotivo è identico. Anzi, spesso è inferiore". Realtà e fantasia Come Ferguson, anche Antinucci pensa che ci sia una grossa differenza fra violenza rappresentata e violenza reale. Tempo fa si realizzzò uno studio su televisione e cinema usando sempre il metodo indiretto. In pratica ai soggetti, ragazzi di età compresa fra i 10 e i 14 anni, venivano mostrate sequenze di violenza nei film d'azione, in pellicole più realistiche e servizi dei telegiornali. Poi si chiedeva loro di associare quel che avevano visto scegliendo uno dei due aggettivi in coppie di opposti come caldo o freddo, bianco o nero, morbido o duro e via discorrendo. Questo perché ponendo domande dirette, come è accaduto in molte delle ricerche prese in esame da Ferguson, non si arriva quasi mai al vero stato emotivo del soggetto ma solo alla rappresentazione che il soggetto ha di sé stesso. La maggior parte degli intervistati ad esempio raramente ammette di aver avuto paura o di aver provato emozioni che, ai loro occhi, dimostrano debolezza. Molto peggio i film Usando un metodo indiretto, invece, e analizzando le risposte, statisticamente si arriva con buona approssimazione a determinare quali sequenze hanno avuto un impatto maggiore rispetto ad altre. Le scene che non sembrano aver sortito effetti erano quelle prese da film d'azione hollywoodiani sul genere di Last Action Hero con Schwarzenegger. Sequenze molto sanguinarie, estremamente violente e con un numero alto di morti. Più incisive le scene di violenza domestica e psicologica di Fanny & Alexander di Bergman dove di sangue se ne vede davvero poco. Ancora più incisivi i servizi dei telegiornali che in assoluto sono quelli che hanno toccato emotivamente di più gli intervistati. Se dovessimo riportare tutto ciò ai videogame, bisognerebbe quindi concludere che i giochi spesso sotto accusa perché troppo violenti sarebbero del tutto innocui dato che quel che mettono in scena è ancora più irrealistico di quanto visto in tanti film di Schwarzenegger. "Attenzione però", avverte Antinucci. "Qui stiamo parlando di una ricerca che cercava di stabilire quale impatto emotivo provocavano diversi tipi di film e di programmi televisivi, non il fatto che questi media potessero o meno indurre a comportamenti aggressivi. Ma è ovvio che se esiste una relazione del genere, e questo vale anche per i giochi elettronici, l'impatto emotivo è la base di partenza. Pensare che si sia spinti alla violenza da qualcosa che abbiamo visto ma che emotivamente ci ha toccato poco è infatti un controsenso". Peccato che nessun Ente pubblico si sia mai preso la briga di commissionare studi del genere sui videogame, malgrado di proposte di legge per censurarli ne siano state fatte diverse anche a livello europeo. Peccato perché solo una serie di ricerche serie potrebbero confermare o smentire le paure di tanti genitori che non sanno che atteggiamento avere nei confronti dei sempre più popolari videogame. _____________________________________________________________ Repubblica 10 mag. ’07 DENTI NUOVI E MENO CARI Implantologia, in arrivo i biomateriali A Montecarlo da oggi sino a sabato gli specialisti analizzano le ultime soluzioni della tecnologia odontoiatrica. Ecco alcune anticipazioni di Annamaria Messa Sempre più impianti dentali nel sorriso degli italiani. A costo di grosse spese (a totale carico del paziente), pratiche più o meno invasive, eventuale ricovero, interventi complicati anche con prelievo di osso dall'anca se in bocca non ce n'è abbastanza. "Lo sviluppo dell'implantologia in odontoiatria non deve distogliere dall'obiettivo del paziente, di mettere cioè i denti con l'intervento più semplice, meno invasivo, con minori complicanze", precisa Tiziano Testori, Implantologia e Riabilitazione Orale Istituto ortopedico Galeazzi, Un. Milano, e presidente della Società Italiana di Chirurgia Orale. Mini invasività, rispetto del paziente... ma i dentisti amano la chirurgia e a volte perdono di vista gli interessi dei pazienti, specie se la quantità di osso sembra insufficiente. Ci sono però tecniche (come la "Toronto Modified Bridge" della Scuola di Roberto Weinstein, Odontoiatria, un. Milano, Galeazzi) che consentono "di riabilitare un'intera arcata con solo quattro impianti sfruttando l'osso che nel 95% dei casi già c'è. Senza aggiungerne altro, senza rigenerazione, con minore morbilità del paziente e minori spese". Quando osso proprio non ce n'è, "in Italia si utilizza molto l'innesto di osso autologo ma tutto il mondo va verso i biomateriali (cellule staminali, ossa di banca da donatori, dispositivi medici di origine sintetica o animale) che funzionano bene per piccole rigenerazioni implantari, ricostruzioni tridimensionali di grosse mancanze d'osso dopo traumi, problemi oncologici, uso prolungato di protesi mobili e per la chirurgia del seno mascellare" precisa l'esperto. Tra presente e futuro, per avvicinare scienza ed esigenze concrete del chirurgo orale, da oggi fino a sabato 12 nel "V International Osteology Symposium" a Montecarlo scienziati e docenti universitari documentano e validano tecniche esistenti ed emergenti, uso di fattori di crescita per curare parodontopatie (piorrea) e rigenerare tessuto osseo, miglioramenti di tecniche chirurgiche. Il simposio è organizzato dalla Fondazione Osteology, nata nel 2003 da medici e dall'azienda Geistlich, per promuovere la ricerca scientifica e clinica nella rigenerazione dei tessuti con biomateriali rendendo disponibili tecnologie e prodotti innovativi per i pazienti con piorrea grave, esiti di traumi, resezioni tumorali, malformazioni congenite. Nella nuova ingegneria tessutale i fattori di crescita sono in primo piano. "Sono due, ampiamente testati, approvati dalla Food and Drug Administration, già presenti sul mercato americano e presto in Europa: il PDGF, fattore di crescita di derivazione piastrinica (stimola la formazione di osso se innestato sull'osso) e le BMP2 (bone morphogenetic protein), proteine morfogenetiche dell'osso, piccole molecole essenziali per stimolare la crescita di osso anche in zone diverse dal distretto osseo, per esempio in un muscolo", spiega Massimo Simion, Un. di Milano, coordinatore scientifico Fondazione Osteology. Si preparano specifiche formine riempite di biomateriale impregnato di proteine morfogenetiche che stimolano la crescita d'osso del paziente e si applicano in una sede diversa dalla bocca. "Si parte dalla Tac per fare il modellino e si procede facendo crescere la mandibola nel muscolo della schiena. Quando è pronta la si innesta in bocca", chiarisce Testori. Novità anche con il sostituto dell'osso bovino deproteinizzato, "già in uso e senza rischi di trasmissione di malattie tipo "mucca pazza": potrà essere combinato con i fattori di crescita", puntualizza Simion. Si studia anche una membrana al collagene di origine suina: "quando sarà testata, potrà essere utilizzata per aumentare quantità e qualità di tessuti molli e gengive". Altro trend di ricerca, il biomateriale impregnato con cellule staminali del paziente: da vedere quando entrerà nella pratica professionale. u _____________________________________________________________ Repubblica 10 mag. ’07 BANCHE DEL CORDONE MEGLIO SE PUBBLICHE Scaduta ieri l'ordinanza di Sirchia che vieta la conservazione "personale" del sangue fetale di William Arcese * e Paolo Rebulla ** È scaduto ieri 9 maggio l'ordinanza con cui Girolamo Sirchia, quando era ministro della Salute, proibì l'istituzione di "banche del cordone" private in Italia. La fine del divieto ha riaperto il dibattito sulla loro utilità. Vantaggi e svantaggi vengono qui spiegati da due dei maggiori esperti italiani (Arcese è anche nella commissione ministeriale che sta studiando la questione) sulle cellule staminali del sangue del cordone ombelicale. La donazione del sangue placentare ad una "Banca del cordone" pubblica a scopo di trapianto è da tempo una procedura ampiamente acquisita nella pratica clinica. Tale sangue contiene cellule staminali ematopoietiche, quelle che generano tutte le cellule del sangue (globuli rossi, globuli bianchi e piastrine) preziose per la cura di leucemie, linfomi, talassemia e gravi carenze del sistema immunitario. Per i malati senza un donatore familiare compatibile, il sangue placentare è oggi una sorgente di staminali ematopoietiche in alternativa al midollo osseo proveniente da donatori volontari. Confronti tra midollo osseo e sangue placentare hanno dimostrato risultati clinici equivalenti. Il sangue placentare offre inoltre importanti vantaggi: 1) immediata disponibilità grazie alle banche pubbliche, con tempestiva esecuzione del trapianto; 2) problemi di incompatibilità donatore/ricevente minori che col midollo osseo; 3) minore aggressività immunitaria verso il paziente 4) minor rischio di trasmettere infezioni virali dal donatore al ricevente 5) assenza di rischi da donazione per mamma e bambino perchè il prelievo si fa sul cordone ombelicale reciso. In Italia la gestione del sangue placentare è affidata a banche pubbliche (ordinanza Min. Salute 7/05/06. Nel mondo sono attivi circa 40 programmi di bancaggio pubblico, con un inventario globale di circa 200.000 donazioni disponibili via rete ai Centri di trapianto mondiali richiedenti. Le 15 banche pubbliche italiane contribuiscono a questi programmi con circa 15.000 donazioni che dovrebbero essere triplicate per far fronte alle esigenze dei malati. Campagne di informazione - spesso non corrette - sui progressi relativi alle staminali hanno favorito, dove è permesso, la nascita di "banche del cordone" private per un possibile futuro uso proprio (autologo) delle staminali contenute. Alla base l'ipotesi - ancora tutta da verificare - che in futuro vi sarà la possibilità di "riparare" cuore, cervello, fegato, ecc e quindi chi avrà le proprie cellule staminali disponibili potrà curarsi, al contrario di chi non le avrà conservate. La particolare tensione emotiva connessa all'arrivo di un figlio spinge facilmente in tal senso. Tuttavia, la mancanza di dati scientifici a sostegno di questa ipotesi (sopravvivenza delle cellule dopo congelamento per molti anni, continuità dei programmi di conservazione, reperibilità nel tempo del donatore/ricevente, ecc.) fa oggi di questa attività una pura speculazione commerciale. La conservazione nelle banche private costa mediamente 2.000 euro, più 150-200 euro per ogni anno di deposito. Nelle banche pubbliche è già contemplato e praticato il deposito di sangue del cordone "dedicato" ovvero conservato esclusivamente per il bambino o la famiglia in cui esiste una patologia in grado di potersi giovare con certezza di quelle staminali. Ne deriva che il "bancaggio privato" per uso autologo, rispetto alla donazione pubblica disponibile per tutti introduce discriminazione sociale, essendo la conservazione privata appannaggio delle famiglie che possono permetterselo. Affermazioni come "conservare il sangue di cordone è l'atto d'amore più bello che una mamma possa fare per il proprio bambino" presuppongono altre mamme con inferiori livelli d'amore per il figlio. Inoltre, se prevalesse la scelta di conservazione privata, molti malati rimarrebbero senza staminali da cordone per le loro cure. E il concetto della donazione pubblica come atto di solidarietà sociale riceverebbe un gravissimo colpo. Inoltre, a causa del complesso meccanismo della compatibilità fra donatore e ricevente, solo il 3% delle unità di sangue placentare ad oggi è usato, pari a 4.500 trapianti. Qualora si dovesse in futuro concretizzare l'ipotesi di trapianto autologo, il 97% dei donatori presso le Banche pubbliche riavrà le proprie staminali. Tali problemi sono stati analizzati anche dagli esperti di etica dell'Unione Europea, che nella loro "Opinion 19" del 2004 reperibile in Internet raccomandano agli Stati UE di evitare finanziamenti pubblici a banche private del cordone. In Italia oggi ci sono 15 banche pubbliche, coordinate dal Centro Nazionale Trapianti e alimentate da molti ospedali, una rete ai vertici internazionali, che ha contribuito a oltre 500 trapianti nel mondo dal 95 al 2005. Sarebbe auspicabile ampliare le donazioni e dare più possibilità di cura per tutti. * Resp. Onco-Ematologia Trapian. Univ. Tor Vergata, Roma ** Direttore Med. Trasfusionale, Terapia Cellulare, Criobiologia Policlinico Maggiore, Milano _____________________________________________________________ Corriere della Sera 9 mag. ’07 PUBERTÀ ANTICIPATA? COLPA DEL «CIBO SPAZZATURA» Pubertà, droghe, malattie trasmesse col sesso, salute mentale, affezioni croniche e dove si curano i ragazzi sono i temi dell' inchiesta sull' adolescenza che parte oggi Chiumello: alimentazione sbagliata. Anche tv e computer tra le cause dello sviluppo precoce *** OBESITA' Sovrappeso il 45% dei maschi e il 33% delle femmine È la carica dei 100 mila. Il censimento 2006, che li ha contati uno per uno, dice per l' esattezza che tra i 7 e i 18 anni in città ce ne sono 112.646. Bambini che oggi vivono con anticipo la pubertà (il periodo di cambiamenti fisici attraverso i quali il corpo di un bambino diviene un corpo adulto capace di riproduzione, definizione di Wikipedia); teenagers in cerca d' identità tra i primi rapporti sessuali, il junk food (cibo spazzatura) e qualche canna rollata; 18enni destinati a restare in casa con i genitori sempre più a lungo (l' 11% lo è ancora tra i 35 e i 44, lo stesso vale per il 7% delle donne), del resto anche il matrimonio è rimandato alla soglia dei 40. È il mondo dell' adolescenza a Milano, al centro di un' inchiesta del Corriere in sei puntate. Alla scoperta dell' universo under 18 che si confronta con nuove realtà e vecchi problemi. Una su tutte, la scoperta con cui fare i conti: la pubertà adesso, soprattutto per le bambine, comincia spesso a 7 anni, almeno un anno prima rispetto agli Anni Ottanta, con conseguenti cambiamenti fisici e scombussolamenti psicologici. Colpa anche di alimentazione sballata, aria infestata dall' inquinamento e stili di vita all' insegna della tv e del pc. Lo dice una ricerca presentata dal Centro di endocrinologia dell' infanzia e dell' adolescenza dell' Università San Raffaele (in collaborazione con i pediatri). Un' indagine focalizzata sulle bambine, che sarà seguita a breve da un' altra sui bambini (per loro l' inizio della pubertà è fissato a nove anni). Avverte Giuseppe Chiumello, direttore del Centro di endocrinologia dell' infanzia e dell' adolescenza del San Raffaele: «Il cambiamento delle abitudini alimentari è da considerare una delle cause principali della pubertà precoce». Per capire il perché bisogna mettere a fuoco un meccanismo scientifico: «Il tessuto adiposo (grasso, ndr) produce la leptina, un ormone che controlla il peso corporeo e che ha un effetto diretto sull' ipotalamo, la parte del cervello strettamente collegata alla maturazione fisica». A Milano hanno problemi di sovrappeso/obesità il 45 per cento dei maschi tra i 6 e i 17 anni e il 33 per cento delle femmine della stessa età. «Solo coinvolgendo gli adulti possiamo fermare la corsa alla merendina», ha detto due settimane fa Michele Carruba, il farmacologo alla guida del Centro ricerche sull' obesità dell' Università degli Studi e neopresidente della MilanoRistorazione che rifornisce le mense scolastiche della città. Sotto accusa, anche l' inquinamento atmosferico. Chiumello punta il dito soprattutto contro i pesticidi che «agiscono da xenoestrogeni e sbilanciano i flussi ormonali». Non finisce qui: «La pubertà è caratterizzata dall' insieme dei cambiamenti ormonali, somatici, psicologici, metabolici - spiega il direttore del Centro di endocrinologia dell' infanzia e dell' adolescenza -. La precocità dello sviluppo puberale può creare soprattutto disagi psicologici da affrontare in famiglia, magari con l' aiuto di un pediatra». Ma c' è un paradosso. La maturazione fisica anticipata fa a pugni con l' adolescenza prolungata nei fatti fino a trent' anni e più. Lasciare la casa dei genitori diventa di giorno in giorno più difficile per i giovani adulti spesso condannati al precariato, tagliati fuori dalla concessione di un mutuo, senza la voglia/la forza di fronte a tutto ciò di infilarsi l' anello al dito. Ora c' è la pubertà precoce e il matrimonio a 34 anni in media per gli uomini e a 32 per le donne. In mezzo una «strana» adolescenza, tutta da scoprire. sravizza@corriere.it 58.136 LE RAGAZZE tra i 7 e 18 anni. I maschi sono 54.510 *** 58.136 *** 4.990 *** I BAMBINI di 8 anni che hanno i segnali della pubertà *** 4.769 *** LE BAMBINE di 7 anni che possono iniziare la pubertà Ravizza Simona