CONCORSI, RIFORMA IN SALITA: RETTORI, PRESIDI (E LOBBY,) DI TRAVERSO - DEMAGOGIA UNIVERSITARIA: STATUTO DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELLO STUDENTE - MUSSI: I RICERCATORI SARANNO PROF BOCCATA D'ARIA PER 22MILA - ESAMI E LEZIONI CI PENSANO I PRECARI - IL CUN RIDUCE I SETTORI DISCIPLINARI - TERREMOTO ALL'UNIVERSITÀ: VIA IL PRO RETTORE - LA DIVULGAZIONE È MORTA. CHE COSA LA SOSTITUIRÀ? - SULL'UNIVERSITÀ ORA INFIERISCE ANCHE LA CORTE DEI CONTI - ALLARME ONU SULLE UNIVERSITÀ VLRTUALL - IL CODICE COMUNE DELLA LIBERTÀ - LA LAUREA PAGA SEMPRE, MA POCO E SU TEMPI LUNGHI - L’ACCANIMENTO FORMATIVO NUOCE ANCHE ALL’ISOLA - LAUREATI, CON LA RIFORMA È CROLLATA L' ETÀ MEDIA - VALORE LEGALE DELLA LAUREA: MEGLIO ABOLIRLO - UN' AGENZIA PER CURARE I MALI DELLA RICERCA ITALIANA - BANKITALIA: TROPPI GIOVANI NELLE FACOLTÀ «SBAGLIATE» - L' UNESCO DENUNCIA 800 ATENEI «FANTASMA» - E LA LAMPADINA SI ACCENDE. SENZA FILI - E SCIENTIFICO: IL CERVELLO PREFERISCE BACH - IBM, IL 92% DEI SITI DI PHISHING VIENE CREATO CON KIT ONLINE - L'ALTRO BLUETOOTH - ======================================================== IN SARDEGNA MANCANO GLI INFERMIERI? LI FORMERANNO LE UNIVERSITÀ ISOLANE - MALATTIE AUTOIMMUNI IN SARDEGNA: PRIMATI E PROMESSE - SOGNARE UNA NUOVA VILLA CLARA SI PUÒ - UN FARMACO PER L’ALTRA METÀ DEL CIELO - LA DIFFERENZA FA BUONA LA CURA - IL SACERDOTE CHE FONDÒ L' OSPEDALE SAN RAFFAELE - OLTRE TREMILA STUDIO SUI TUMORI - IL TABACCO? `MILLE VOLTE PIÙ RADIOATTIVO DI CHERNOBYL - VISITE A DISTANZA, MA AFFIDABILI - DNA, DOPPIA ELICA DELLA VITA - FARMACI COLLABORATIVI - IL SESSO FA BENE AL CUORE, E ANCHE AL MAL DI TESTA - LO SPRAY PER L'EREZIONE VELOCE - DENTI E VISO, L'INTEGRAZIONE CON L'ESTETICA - GENGIVE MALATE CUORE A RISCHIO - ======================================================== ___________________________________________________________ L’Unità 6 Giug. ‘07 CONCORSI, RIFORMA IN SALITA: RETTORI, PRESIDI (E LOBBY,) DI TRAVERSO Mussi sta per emanare il nuovo regolamento-trasparenza Dagli atenei arrivano i mugugni: «Non è lo strumento adatto» • di Massimo Franchi / Roma italiani gli scandali dei concorsi continuino; le lobby universitarie che hanno sempre usato questi metodi iniziano a fare distinguo, a criticare, a chiedere «cambiamenti», auspicando «tempi più lunghi». Con il chiaro obiettivo di non cambiare niente. Il copione è stato rispettato nel caso del nuovo regolamento per i concorsi per ricercatori universitari. La Finanziaria ha previsto che il ministero emani un nuovo regolamento per mettere a bando i posti del piano straordinario di assunzioni (quasi tremila l'anno fino al 20J9). Il ministero è deciso a vararle entro fine luglio e di far bandire i primi concorsi già a settembre. Fabio Mussi e il sottosegretario Luciano Modica hanno predisposto un ,testo che abbatte le antiche consuetudini in cui sguazzano i baroni che designavano i loro protetti. Invece delle graduatorie di abilitati, da cui spuntano sempre i soliti noti, i bandi avranno vincitori per lo stesso numero dei posti a disposizione,i curricula saranno valutati da esperti di fama internazionale in modo anonimo e poi i candidati passeranno il vaglio di una commissione di ateneo formata, in parte, da elementi istituzionali che saranno gli stessi per almeno dieci bandi e, in parte, da docenti della macroarea per cui si bandisce il concorso. Indicazioni di buon senso che seguono i criteri usati in tutti i paesi avanzati. Indicazioni contro le quali si sono scagliati nel giro di poco tempo l'associazione dei presidi di facoltà, i rettori, il Consiglio universitario e, ieri, anche l'Associazione nazionale docenti universitari. Lo scorso 22 maggio il nuovo Consiglio universitario nazionale (organo composto da 58 membri eletti dai docenti che deve dare parere consultivo a molti degli atri del ministero) ha emanato un documento molto duro, contestando metodo e contenuto del regolamento. Due giorni dopo la Conferenza dei rettori è stata leggermente più morbida, ma comunque critica. Entrambe hanno messo le mani avanti e, per non essere tacciate di difesa del sistema, hanno premesso che ritengono «che l'università abbia bisogno di una visione strategica dei problemi del reclutamento» (Cun) e che condividono «la revisione del sistema di reclutamento» (Crui). Poi però si passa alle critiche e, pur di far le pulci al testo, ci si attacca a tutto. «Leggo che contestano la poca trasparenza, ma in questo modo le critiche rischiano di apparire pretestuose - contesta il sottosegretario Modica -. Il problema di fondo è il sostenere che non vi è modo di avere concorsi trasparenti, che qualsiasi regola possa essere aggirata. L'opinione è radicata solo tra i docenti mentre studenti e opinione pubbhca ritengono sia possibile. Noi diamo più importanza a questi ultimi». Le critiche delle lobby per prima cosa si riferiscono allo strumento del regolamento (il provvedimento non ha bisogno di passaggi parlamentari), sostenendo che i concorsi vadano regolati per legge. «La disquisizione è puramente giuridica - risponde Modica - noi abbiamo il parere dei nostri esperti: se ci saranno ricorsi, vedremo». Poi si entra nello specifico delle norme. Vengono contestate 1a loro complessità e il poco rispetto dell'autonomia degli atenei: Sulla modalità delle prove concorsuali ci si scaglia contro la previsione di tenere seminari al posto delle prove scritte. «È l'obiezione che non capisco. I seminari si usano in tutti i concorsi dei paesi avanzati perché sono il modo migliore per spiegare pubblicamente i risultati della propria ricerca». Alcune osservazioni saranno comunque accolte: «Ad esempio sulla composizione delle commissioni: i membri "istituzionali" potranno essere pari a quelli "disciplinari" (competenti della materia). In più anche i docenti associati,, che avevamo escluso in quanto "ricattabili", potranno far parte 'delle commissioni». Oggi Mussi e Modica parleranno al Cun. Spiegheranno le loro, ragioni, le correzioni che faranno al testo del regolamento seguendo le indicazioni del Cun, ma diranno che si va avanti.. Si spera che la rivolta delle lobby non stia preparano colpi di coda. La risposta, nel caso, è già pronta. L'obiettivo ultimo del ministero è infatti l'abolizione dei concorsi. «Quando l'Agenzia di valutazione del sistema universitario sarà a regime ogni ateneo potrà assumere chi vuole: se chiamerà un ricercatore non competente penalizzata con meno fondi ministeriali». ________________________________________________________________ Corriere della Sera 4 giu. ’07 DEMAGOGIA UNIVERSITARIA: STATUTO DEI DIRITTI FONDAMENTALI DELLO STUDENTE Ma perché mai l' Università di Perugia - un' università dove ho insegnato molti anni: con pregi e difetti come tante altre in Italia - ha deciso di redigere uno «Statuto dei diritti fondamentali dello Studente» (e i doveri?)? Si tratta di una pletora di minuziose disposizioni all' insegna dell' ovvio, o di pompose banalità che scimmiottano la Costituzione (pensate che l' Ateneo umbro garantisce agli studenti nientedimeno che la libertà di religione e di opinione: accipicchia!). Ma con qualche perla: per esempio il divieto ai professori di esaminare il libretto dello studente nel corso degli esami (guai a farsi condizionare!) e la possibilità di ripetere lo stesso esame ben tre volte (in uno dei ben otto appelli d' esame stabiliti annualmente!) così, semplicemente per migliorare il voto ottenuto. Mi chiedo: ma il passato non insegna niente? Com' è possibile che qualcuno ancora pensi che ciò che serve all' università sia un' altra iniezione di demagogia e di populismo? Galli Della Loggia Ernesto ___________________________________________________________ L’Unità 3o Mag. ‘07 MUSSI: I RICERCATORI SARANNO PROF BOCCATA D'ARIA PER 22MILA Odi Massimo Franchi /Roma In Italia secondo gli ultimi dati ci sorto 22 mila ricercatori universitari. Negli atenei vengono sfruttati perché, sebbene non siano riconosciuti come docenti, di fatto tengono corsi, lezioni ed esami allo stesso modo dei professori. Solo che vengono pagati molto meno e devono aspettare decenni per arrivare ad una cattedra, senza considerare che la loro età media (44 anni) é molto più alta rispetto ai loro colleghi di tutto il mondo. Ieri il ministro Fabio Mussi in un'audizione al Senato ha annunciato che finalmente verranno riconosciuti per ciò che sono: «Docenti aggregati». II disegno di legge che istituisce la terza fascia di docenza sarà approvato dal Consiglio dei ministri venerdì o al massimo la «settimana prossima». Un cambiamento di cui si discuteva da tempo e «anche per questo - spiega Mussi - chiederci-no alle Camere un rapido esame—. La Moratti aveva sostenuto che la figura dei ricercatori docenti tosse ad esaurimento, ma invece che diminuire i loro numero è aumentato di anno in anno. Per il momento però si tratta solo dì un cambiamento di status senza copertura finanziaria. Secondo Mussi comunque «gli stipendi sono da fame». L'obiettivo è svecchiare il corpo docente. Il passaggio a docenti aggregati non sarà però automatico. «Ci saranno delle procedure di valutazione - spiega ancora Mussi - che comporteranno non solo automatismi, ma anche verifiche». Alcune procedure sono già indicate nel ddl, «un'altra parte - continua il ministro - andrà in un più complessivo disegno di legge sulla risistemazione complessiva della docenza universitaria». Il ministro ha poi annunciato che entro giugno sarà pronto il nuovo regolamento per il reclutamento dei ricercatori, con i primi concorsi entro fine anno, II piano di assunzioni straordinarie prevede 3 mila ricercatori l'anno. II nuovo reclutamento prevede una prima valutazione da parte di esperti internazionali, attraverso referee anonimi. Poi ci saranno le valutazioni delle commissioni territoriali con prove seminariali, valutazione curricula, colloqui e lettere di presentazione. Saranno infine ridotte le aree di riferimento che passeranno da 370 a «70-80». ___________________________________________________________ Indipendente 3 Giug. ‘07 ESAMI E LEZIONI CI PENSANO I PRECARI di ANTONINO Uuzzi Fanno ricevimento e interrogano agli esami, tengono lezioni e seguono i tesisti: sono gli assistenti a tenere in piedi le università italiane. Tocca a loro sbrigare le noiose faccende di illustri professori poco inclini ai doveri d'accademia. Quasi mai retribuiti, lusingati da false speranze, molti giovani neolaureati faticano ai piedi dei baroni, ma spesso con risultati catastrofici. Si tratta di un esercito di 80 mila fra precari e volenterosi: borsisti, assegnisti e cultori della materia e circa 37mila di loro sono dottorandi, vanno bene un po' tutti quando c'è da sostenere il peso del sapere. Associano impegno e spirito d'improvvisazione, imperizia e disponibilità all'avventura. Una recente inchiesta di studenti.it denuncia la loro paradossale condizione, di cui la prima conseguenza è la diffusa percezione che negli atenei italiani ci siano pochi professori. Sette ragazzi su dieci ritengono infatti che non ce ne siano a sufficienza, e otto su dieci riferiscono di aver sostenuto i loro esami con assistenti dalla dubbia provenienza. Ma anche per gli studenti che concludono il loro piano di studi, il sostegno diretto del docente spesso e volentieri diventa un privilegio. La metà dei tesisti corregge le bozze del proprio lavoro insieme a collaboratori del professore di riferimento, e l'indagine si fa impietosa quando i giovani devono valutare le lezioni tenute dagli assistenti. Nove su dieci le reputano non all'altezza, lamentando gli imbarazzati silenzi con cui chi svolge lezione risponde alle domande degli studenti più brillanti. La maggior parte di loro dichiara di sentire la prorpria formazione fortemente danneggiata dalla scarsa presenza degli insegnanti di ruolo. In molti casi i titolari di cattedra preferiscono affidarsi a giovani dalle carriere accademiche non troppo sfolgoranti, ma pieni di iniziativa e buoni propositi. Il docente gli promette una borsa o un assegno di ricerca, e per suggellare il patto lo nomina cultore della materia. Un ruolo che per i cultori del denaro non va bene, si lavora gratis e senza garanzie. Molto difficile, la posizione dei dottorandi. Secondo la legge non potrebbero insegnare né interrogare agli esami, secondo i baroni sono fatti apposta per tenere lezione al loro posto. Pazienza, se un cavillo dice che gli atenei li assumono per fare ricerca. ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 7 Giug. ‘07 IL CUN RIDUCE I SETTORI DISCIPLINARI Il Consiglio universitario nazionale (Cun), organo consultivo del ministero dell'Università, ha licenziato il provvedimento che riduce il numero delle macrosettori disciplinari, utili ai fini dei concorsi per assumere nuovi ricercatori. Finora in Italia ce n"erano 370, ora saranno 79.. Lo stesso ministro dell'Università, Fabio Mussi, aveva sollecitato l'operazione per portare l'Italia in linea con altri Paesi europei. II presidente del Cun, Andrea Lenzi, sottolinea però che la modifica «vale solo ai fini del concorso dei ricercatori che sarà disciplinato dal nuovo regolamento». Si tratterà quindi di una novità "sperimentale". Ritaglio stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproducibile. ___________________________________________________________ L’Unità 4 Giug. ‘07 LA DIVULGAZIONE È MORTA. CHE COSA LA SOSTITUIRÀ? LIBRO Yun Castelfranchi e Nico Pitrelli affrontano un tema di attualità: come comunicare la scienza oggi che da materia per esperti è diventata motore del cambiamento sociale di Andrea Cerroni Negli ultimi (pochi) decenni, la scienza è fuoriuscita dai ristretti ambiti nei quali era stata da sempre relegata e nei quali, per la verità, aveva trovato anche una propria autonomia, più o meno comoda a seconda dell'agenda dei regimi politici. Materia per esperti o al più per pachi appassionati fino ad anni recenti, la scienza è ormai presente in ogni mass media, nelle politiche nazionali e internazionali, negli eventi che riempiono e caratterizzano la vita delle nostre città, fin. negli oggetti e servizi di uso più quotidiano per ciascuno di noi. Per questo si parla dell'avvento di una società della conoscenza. Il tema di come si comunica la scienza è, perciò, attuale e di primaria rilevanza sia per il pubblico sia per lo scienziato, sia anche per quella zona sociale grigia che, proprio per quelle tendenze contrapposte, sempre più va allargandosi fra i due estremi, per altro ormai troppo stereotipati, Dunque, attuale e rilevante per tutti noi. Non si può, perciò, che salutare favorevolmente un libro che, proprio con questo titolo, è uscito da Laterza. Il fatto è che nessuno arriva preparato alle nuove sfide poste da una società che sia, a un tempo, democratica e basata sulla scienza. Non è preparato il comune cittadino che, soprattutto in Italia, è ancora assai spesso privo di una formazione di base adeguata e di strumenti cognitivi che lo mettano in grado di orientarsi attraverso linguaggi ostici, argomentazioni complesse e ricche di presupposti tutt'altro che evidenti, fonti informative numerose e diversificate di difficile valutazione. Non è preparato, però, neppure lo scienziato, ancora formato in una cultura accademica troppo rigidamente disciplinare, posto dinnanzi a questioni sempre più complesse e bisognose di approcci nuovi e non riduzionistici, avendo rimosso il percorso storico che ha generato l'attuale frontiera della ricerca, dimenticate le questioni fondamentali a partire dalle quali il flusso della conoscenza (marn stream) è stato incanalato e amministrato, trascurate le dinamiche che hanno cambiato sia il suo reale lavoro sia la percezione che di esso hanno gli altri cittadini. Insomma, nella misura in cui la democrazia ha vinto la sua battaglia per gestire l'agenda della cosa pubblica attraverso canali partecipativi, i cittadini hanno troppo di rado gli strumenti di base per gestire proprio il motore del cambiamento sociale, cioè la concretezza scientifica. La loro voce suona spesso, dunque, come jarla reazione antiscientifica. E, specularmente, nella misura in cui la scienza ha vinto la sua battaglia per affermarsi come sapere pubblico di riferimento per la vita collettiva, lo ha fatto proprio esponendosi pubblicamente con uri approccio ancora troppo ingenuo o; comunque, facilmente vulnerabile alle torsioni dei poteri forti di una società estrema che sa bene l'utilità pratica persino della conoscenza più teorica. La tentazione tecnocratica ha, dunque, un'attrazione crescente per lo scienziato. Per contrasto, il pubblico viene però sempre più coinvolto quale produttore e fruitore di conoscenza scientifica, così come lo scienziato è sempre più spesso chiamato a essere innanzi tutto cittadino in una società democratica. In questa lacerazione della contrapposizione tipica della modernità fra élite e «massa», diviene chiaro che la comunicazione della scienza non sia più, né solo, e neppure prevalentemente divulgazione, popolarizzazione, volgarizzazione, ma un insieme di attività assai più ampio e persino distintivo dell'intera società contemporanea. Nei cinque capitoli in cui è articolato il libro di Castelfranchi e Pitrelli (La scienza in una società che cambia; Non c'è scienza senza comunicazione; Il Novecento: le cose si complicano; Gli scienziati che comunicano; Scienza e democrazia) il Lettore, addetto ai lavori o semplice curioso, troverà utili riferimenti per avvicinarsi a un tanto vasto ambito di problemi. Con l'avvertenza che, se il tema è assai complesso, e per essere affrontato richiede conoscenze che non è facile ricevere dagli attuali percorsi formativi, troverà qui un'agevole ed efficace chiave d'accesso. Gli Autori si sono formati nel Master di comunicazione della scienza della Scuola di Studi Superiori Avanzati di Trieste, nel quale continuano a svolgere oggi la loro incisiva attività didattica e di ricerca. Nella sostanza e nella forma espositiva si vedono qui i primi frutti di un progetto pionieristico e lungimirante avviato nel 1993 e che nel suo ambito è, a tutt'oggi, la realtà italiana più consolidata. _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 31 mag. ’07 TERREMOTO ALL'UNIVERSITÀ: VIA IL PRO RETTORE Ufficialmente ha lasciato l'incarico per motivi personali e familiari, ma da mesi la tensione era alta - Dissidi con Pasquale Mistretta dietro le dimissioni di Maria Del Zompo Un terremoto scuote l'Ateneo cagliaritano: Maria Del Zompo si è dimessa dall'incarico di pro rettore. Ufficialmente «per motivi personali e familiari». Ma negli ambienti universitari le motivazioni che circolano sono ben altre: alla base della clamorosa decisione ci sarebbero dei dissapori con il rettore Pasquale Mistretta sul modo di gestire l'Università, sui metodi di lavoro ma anche sul ruolo dei pro rettori, relegati in un angolo. la letteraLa decisione di lasciare l'incarico ricevuto nel settembre del 2005 è stata comunicata al rettore giovedì. La voce è rimbalzata lentamente nei corridoi dell'Università, uscendo allo scoperto solo ieri. Contattata telefonicamente, la Del Zompo ha semplicemente letto il testo inviato a Mistretta: «Ringrazio per l'opportunità concessa di vivere un'esperienza bellissima e costruttiva. È con rammarico che per motivi personali e familiari chiedo di accettare le mie dimissioni irrevocabili dall'incarico di pro rettore». Impossibile strappare ulteriori dichiarazioni: «Possono solo aggiungere che rifarei tutto e che non mi pento di niente di quanto fatto in questo anno e mezzo. Ringrazio tutti quelli che hanno lavorato. La mia scelta non è in polemica con niente e nessuno». i retroscenaFin qui le spiegazioni ufficiali. Dietro la scelta però si nascondono piccoli e grandi scontri con la gestione dell'Ateneo da parte di Mistretta. Il rettore, proprio con l'introduzione della figura del pro rettore e di quelli con delega specifica, aveva costruito il suo successo, nel 2005, arrivando alla modifica dello statuto e alla sua elezione al sesto mandato consecutivo. Un rapporto che con il passare del tempo si è però incrinato. Sembra che proprio nei corridoi di via Università, la settimana scorsa si sia consumato l'ultimo scambio di vedute che ha poi portato alle dimissioni di una delle scienziate più apprezzate a livello internazionale dell'Ateneo cagliaritano. Inizialmente la Del Zompo e Mistretta avevano anche raggiunto un accordo sulla durate dell'incarico a pro rettore: un anno. Accordo non rispettato e che, dopo l'ennesimo dissapore, ha portato l'ordinario di Farmacologia al clamoroso passo di giovedì scorso. la crisiUna crepa nella politica del rettore non isolata. Durante la gestazione dell'Azienda mista c'è stato un raffreddamento dei rapporti con il preside di Medicina, Gavino Faa, pro rettore con delega per il protocollo d'intesa tra la Regione e l'Università proprio per la nascita dell'Azienda mista. Matteo Vercelli 31/05/2007 Dimissioni irrevocabili. Le ha presentate Quelle cinque deleghe senza poteri veri Maria del Zompo era stata scelta da Mistretta come suo braccio destro venti mesi fa. Insieme a lei, in quell'occasione, erano stati nominati altri cinque pro rettori. Non fu una rivoluzione ma, stando alle consuetudini della lunga era Mistretta, poco ci mancava. Il posto d'onore era toccato proprio a Maria Del Zompo, docente di Farmacologia clinica nella facoltà di Medicina e Chirurgia. Per gli altri erano arrivate deleghe specifiche con settori di competenza particolari. La nomina della Del Zompo, ricercatrice di levatura internazionale (non a caso, sei mesi fa è stata chiamata ai vertici della prestigiosissima Società internazionale di genetica psichiatrica), era, nelle intenzioni di Mistretta, un riconoscimento al peso scientifico e accademico della facoltà di Medicina. A Giovanna Ledda, docente a Farmacia, era invece stato affidato il compito di occuparsi dell'apertura internazionale dell'ateneo, un settore strategico in tempi di globalizzazione culturale ed economica. I rapporti con il territorio e le istituzioni erano stati affidati a Franco Nurzia, professore nella facoltà di ingegneria, mentre a Patrizia Mureddu erano state riservate le questioni relative alla didattica. La Mureddu insegna Lingua e letteratura greca a Lettere e Filosofia e incarna il desiderio del rettore di affermare la centralità del sapere umanistico anche nel mondo dell'informatica di massa e delle nuove tecnologie. Le competenze sulla ricerca scientifica erano invece andate al chimico Adolfo Lai, mentre una giurista, Lucia Cavallini, si era vista affidare il compito di mettere mano al riordino della macchina amministrativa. La nuova struttura voluta da Mistretta non prevedeva solo la nomina dei pro rettori, ma anche l'attribuzione di tre deleghe specifiche, in base alle quali Vinicio Demontis, della facoltà di ingegneria, si occupa delle funzioni del Senato accademico allargato, Gavino Faa, preside di Medicina, del protocollo d'intesa tra Università e Regione, mentre Alberto Anedda, fisico, dei problemi gestionali del Presidio di Monserrato. Il piano di riordino del rettore, articolato nella "direttiva di governance" varata il 1 settembre 2005, era stato concepito per aumentare il tasso di collegialità nella gestione dell'ateneo, per ottenere quel cambio di passo di cui l'università ha sempre più bisogno. Una collegialità di cui, stando alle clamorose dimissioni di Maria del Zompo, non c'è stata traccia. ___________________________________________________________ Il Riformista 8 Giug. ‘07 SULL'UNIVERSITÀ ORA INFIERISCE ANCHE LA CORTE DEI CONTI SAPERE. IL PROBLEMA NON È IL RANKING INTERNAZIONALE DEGLI ATENEI, MA LA QUALITÀ DELL'INSEGNAMENTO Bloccato il decreto del ministro Mussi per affidare la metà dei corsi a personale di ruolo. Chi salverà gli studenti dalla deriva dei professori a contratto? La discussione sulla qualità del nostro sistema universitario è approdata persino sugli schernii televisivi, attraverso una puntata dì Anno Zero, andata in onda un mese fa. In questo contesto tutti hanno fatto riferimento a un'improbabile graduatoria o ranking delle università del mondo, di cui nessuno conosceva i criteri di costruzione. Ma perché meravigliarsene? Nei dibattiti televisivi si sente spesso parlare delle variazioni dell'indice dei prezzi al consumo da parte di chi dimostra di non avere la più pallida idea di come sia calcolato questo indice, che è certo più semplice e meno controverso di quelli usati per i ranking delle università. Eppure il problema della qualità dell'insegnamento universitario riguarda tutti i cittadini, almeno nei suoi termini generali, ed è giusto che il sistema universitario italiano si confronti in termini di qualità con quelli degli altri paesi sviluppati. Dovremmo dunque diventare tutti esperti nella costruzione più o meno arbitraria di ranking? Io credo che non sia necessario, perché non è il ranking delle università, comunque calcolato, che dovrebbe interessare il pubblico e il mondo politico. Cercherò di articolare meglio questa mia opinione, partendo da un punto fermo: l'insegna mento universitario si distingue da altri insegnamenti perché è collegato con la ricerca scientifica originale. Ci si può chiedere perché un'esperienza di ricerca scientifica sia così importante per l'insegnamento universitario. Non basterebbe che un docente conosca bene, avendolo appreso da altri, ciò che deve insegnare? La risposta non è semplice, ma cercherò di semplificarla al massimo. Apprendere attraverso la ricerca significa apprendere attraverso il dubbio e l'incertezza. Dubbio, incertezze, curiosità, domande che restano senza risposta, sono l'essenza del progresso delle conoscenze umane. Chi non ha avuto questa esperienza di apprendimento, chi ha appreso ciò che sa solo attraverso libri scritti da altri, e lezioni da altri impartite, chi ha imparato solo ciò che è ritenuto definitivamente acquisito dalla scienza, senza mai tentare di sfidarlo, resterà necessariamente legata ad un'idea dogmatica della conoscenza. Egli stesso, prevalentemente "ammaestrato" all'uso di saperi noti, sarà in grado soltanto di "ammaestrare" i suoi allievi. Certamente ci sono altri elementi che determinano una didattica universitaria efficace, ma il collegamento con la ricerca ne è una caratteristica essenziale. E infatti nel mondo occidentale le istituzioni i cui docenti non siano passati attraverso una vera e propria esperienza di ricerca originale non vengono considerate di livello universitario. C'è un'altra ragione per la quale la ricerca scientifica è importante in ambito universitario. Affidare l'insegnamento a chi è attivo nella ricerca ha costituito, negli ultimi due secoli, il principale veicolo di trasferimento delle innovazioni della scienza agli ambiti professionali, industriali e in generale applicativi. Bisogna ricordare però che, perché questo veicolo di trasferimento funzioni, sono necessarie condizioni che non sempre si verificano e che meritano una discussione a parte (ad esempio le capacità innovative del sistema produttivo). Dopo queste precisazioni, purtroppo molto sommarie, torniamo al problema che ci eravamo posti. Come possiamo paragonare la qualità dell'università italiana a quella degli altri paesi sviluppati, almeno in termini di ricerca scientifica? Come possiamo assicurarci che raggiunga livelli accettabili? Bisogna prima di tutto osservare che in molti paesi, (ad esempio in Gran Bretagna e in California, dove prevalgono, come da noi, sistemi universitari statali) ìl collegamento tra insegnamento e ricerca scientifica non è sempre lo stesso per tutte le università. Ci sono le università che è conveniente (anche se, , forse, ingiusto) chiamare di «prima classe» dove si richiede che il docente universitario sia sempre attivo nell'attività di ricerca, ma ci sono anche le università di «seconda classe» dove non ci si aspetta tuttavia che egli continui a essere attivo nella ricerca scientifica durante tutta la sua carriera. Si richiede però che tutti i docenti abbiano avuto una esperienza di ricerca originale, conseguendo ad esempio il titolo di dottore di ricerca e proseguendo nell'attività di ricerca per alcuni anni. In Gran Bretagna all'incirca i150% degli studenti di primo livello consegue la laurea in una università di «seconda classe» (questa stima è riferita alle università che fino agli anni Novanta si chiamavano Polytechnics).In California la percentuale (riferita agli iscritti alle cosiddette California State University, ben distinte dalle University of California) dovrebbe essere del 70%. In Italia, invece, con una scelta politica netta e consapevole, negli anni Settanta, abbiamo deciso dì non distinguere due classi di università, ma di avere un unico sistema universitario. Si tratta ormai di una scelta irreversibile, ma nessuno può credere che questa scelta abbia dato luogo a una promozione indiscriminata alla «prima classe» di tutto il sistema universitario italiano. È naturale invece che all'interno del nostro sistema convivano situazioni che in altri paesi sono distinte per classe dell'istituzione: ci sono docenti attivamente impegnati nella ricerca, e docenti, che pur avendo avuto una ragionevole formazione attraverso la ricerca, non sono più impegnati attivamente in questo tipo di attività, ma si dedicano, spesso con passione e con successo, all'insegnamento. È evidente, a questo punto, che per un serio confronto con altri paesi, non possiamo contare sulle graduatorie comunque costruite. I:Univel5ità La Sapienza di Roma svolge, nel suo territorio, non solo il ruolo svolto dall'Università di California a Los Angeles (Ucla), che appartiene alla filiera della «prima classe», ma anche quello delle tante California State University che svolgono egregiamente il loro ruolo di università di «seconda classe», nel territorio metropolitano di Los Angeles. La Sapienza, in effetti, non può essere paragonata né a Ucla, né, mettiamo, alla San Fernando ValIey State University. Questo non significa che dobbiamo rinunciare a valutazioni, anche comparative. E in effetti qualcosa è già stato fatto. II recente esercizio di valutazione triennale promosso dal Miur, attraverso il cosiddetto Civr (Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca) i cui risultati sono usciti all'inizio del 2006, ha riguardato i prodotti scientifici migliori delle sedi universitarie, scelti dalle stesse sedi, nelle diverse aree scientifiche. Abbiamo ap preso da questo esercizio che ricerca giudicata eccellente si svolge in tutte le grandi e medie sedi universitarie, in tutte le aree. A occhio e croce potremmo dire che ricerca del livello di quella svolta nelle università di «prima classe» della California si svolge, in misura maggiore o minore, in tutte le grandi e medie sedi universitarie. E un segnale confortante, che non dice nulla tuttavia sui requisiti minimi perché l'insegnamento universitario possa essere dichiarato tale. Dobbiamo chiederci,infatti, se tutti i corsi universitari, con la possibile eccezione di quelli a carattere pratico, sono insegnati da personale docente che sia stato formato attraverso fattività di ricerca, che, ad esempio, abbia avuto una formazione equivalente a quella fornita da un buon dottorato di ricerca europeo. A questa domanda, che sembra molto più importante per gli utenti del sistema universitario, della posizione di questa o quella sede universitaria italiana in qualche graduatoria, non sappiamo veramente rispondere. Né a questo proposito ci dice alcunché il pur meritorio esercizio di valutazione del Civr. Potremmo anche supporre, nonostante tutte le critiche che si possono fare al nostro sistema di reclutazione dei docenti, che il personale docente entrato stabilmente nei ruoli negli ultimi trent'anni risponda al requisito richiesto di aver svolto, almeno da giovane, attività di ricerca. Ma questa supposizione (che comunque dovrebbe essere verificata) non basta a fugare tutti i dubbi. Infatti molti insegnamenti ufficiali, forse addirittura un quarto del totale, sono affidati ai cosiddetti «professori a contratto» scelti dalle singole sedi con criteri che non sempre garantiscono il livello di competenza dei docenti. Certamente non mancano ricercatori di primo ordine tra questi professori esterni. Basta pensare ai tanti ricercatori attivi degli enti pubblici di ricerca, che possono essere impiegati come professori a contratto. Ma il numero di insegnamenti ufficiali affidati a personale esterno ai ruoli delle università ha raggiunto livelli tali da rendere improbabile che si tratti sempre di persone che abbiano raggiunto il livello corrispondente, in Europa, al titolo di dottore di ricerca. Facciamo un po' di conti, sulla base delle statistiche pubblicate nel sito del ministero. Dobbiamo prima di tutto escludere i docenti a contratto delle facoltà di Medicina, perché è la legge che, giustamente, impone di utilizzare, in larga parte, il personale medico ospedaliero per l'insegnamento delle discipline infemieristiche. Tra l’altro la pratica moderna della medicina (1a cosiddetta evidence based medicine) imporrebbe che un'esperienza di ricerca attiva faccia parte del bagaglio culturale acquisito da tutti i medici specialisti, ma questo è un discorso che ci porterebbe troppo lontano. Ma, a parte Medicina, le altre facoltà italiane impiegano per l'insegnamento di corsi ufficiali più di ventimila professori a contratto. Sappiamo che molti dì essi sono pagati cifre ìmsorie e che in alcuni casi sostengono il peso delle materie di base e caratterizzanti di corsi di laurea di primo e secondo livello. II dubbio che in molti casi si tratti di persone che non hanno mai avuto una vera esperienza di ricerca originale è più che legittimo. Vediamo ad esempio il caso, certo non unico, della Università della Magna Grecia (a Catanzaro), dove si offrono due diversi corsi di laurea quinquennale in ingegneria, all'interno, a quel che sembra, della facoltà di Medicina. A chi saranno affidati gli insegnamenti di matematica di questi corsi di laurea visto che non vi risulta inquadrato nessun docente di ruolo di matematica? È ragionevole pensare che nelle vicinanze di Catanzaro ci siano dottori di ricerca in matematica, disposti per pochi euro, a insegnare analisi matematica, geometria, analisi numerica o probabilità a futuri ingegneri di alto livello? Situazioni analoghe esistono in molte università che, approfittando del fatto che i professori a contratto possono essere compensati con cifre irrisorie, hanno messo su corsi di laurea che possono non raggiungere gli standard minimi che si richiedono agli studi universitari. Questi corsi dì laurea costituiscono un vero e proprio inganno a danno degli studenti, e dovrebbero essere censurati dai ministero. Ma come? II ministro Mussi si era mosso decisamente in questa direzione stabilendo per decreto che almeno la metà dei corsi di insegnamento delle università siano coperti da personale docente di ruolo (professori o ricercatori universitari). Purtroppo questo decreto non è ancora in vigore per le intervenute obiezioni della Corte dei Conti, che ha obiettato che simili disposizioni non devono applicarsi alle università non statali e in particolare alle «università telematiche» in quanto «le modalità dì insegnamento si connotano per l'utilizzo esclusivo delle tecnologie informatiche». Non è chiaro quali poteri magici i giudici della Corte dei Conti (o ì lobbysti che li hanno consigliati) attribuiscano alle «tecnologie informatiche». In realtà, un'università telematica ben funzionante, richiede un lavoro molto più intenso da parte dei suoi docenti, almeno per le discipline scientifiche. Lo sanno bene i docenti che, senza appartenere a università telematiche, si assumono spontaneamente il compito di seguire, correggere e stimolare il lavoro degli studenti impossibilitati a frequentare, utilizzando comunicazioni in forma elettroni ca. L'esperienza di questi docenti induce anche a pensare che per questo tipo di insegnamento sia necessaria una competenza e un'attenzione ai problemi degli studenti superiore a quella di un medio docente universitario. Ma in Italia, evidentemente, le università telematiche sono un'altra cosa e possono permettersi addirittura di non avere al proprio interno nemmeno un docente di ruolo. Invece di scaturire come in altri paesi da lunghe e laboriose esperienze di università «per corrispondenza» di altissimo livello, sono state create in fretta e furia con lo scopo apparente di riscuotere tasse universitarie minimizzando i costi dell'istruzione. In ogni caso, il problema del livello universitario dell'insegnamento non si risolve solo imponendo che almeno la metà dei corsi sia affidata a professori di ruolo. È urgente una ricognizione accurata delle qualificazioni dei docenti a contratto. Questo dovrebbe essere uno dei primi compiti da assegnare alla costituenda Agenzia per la valutazione dell'università e della ricerca. I corsi di laurea i cui insegnamenti di base e caratterizzanti sono tenuti da personale che non ha raggiunto almeno le qualificazioni equivalenti a un dottorato di ricerca europeo non dovrebbero essere riconosciuti dal ministero, o dovrebbero essere segnalati agli studenti come carenti dei requisiti minimi che qualificano un'università. Le stesse o maggiori qualificazioni dovrebbero essere richieste ai docenti che seguono per via telematica il lavoro degli studenti iscritti alle università telematiche. Insomma il primo problema da affrontare per la valutazione delle università è quello di garantire gli utenti da offerte truffaldine o da pubblicità ingannevole. Il problema del ranking nazionale o internazionale delle università può essere lasciato alla fantasia e all'inventiva dei giornalisti e commentatori televisivi. ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 8 Giug. ‘07 ALLARME ONU SULLE UNIVERSITÀ VLRTUALL L'Unesco denuncia la diffusione delle frodi e degli atenei inesistenti Alessandro Giberti Dal dirottamento di fondi pubblici agli esami superati a pagamento. Dalla manipolazione di dati personali all'accaparramento indebito delle rette di iscrizione. Dalla vendita fraudolenta di titoli e diplomi alla fondazione di vere e proprie università virtuali. Nel senso di inesistenti. Benvenuti nella galassia del sistema educativo mondiale, un gigantesco bazar transnazionale dove corruzione e mancanza di trasparenza sono merci a disponibilità illimitata. È quanto emerge dal rapporto dell’Unesco "Corrupt schools, corrupt universities: What can be done", un'approfondita indagine sui sistemi educativi di oltre 6o Paesi del mondo. Tra le innumerevoli sembianze in cui la corruzione prende forma, quella in maggiore espansione riguarda le frodi accademiche. Si moltiplicano le vendite di diplomi falsi e il numero di università inesistenti, soprattutto su internet: dalle aoo registrate nel 2000 alle oltre 80o censite nel 2004. Il fenomeno è in ascesa proprio grazie alla rete: fondare un istituto (magari con un nome che ricordi quello di qualche ateneo celebre), dotarlo di una "facciata" credibile e sistemare la sede fiscale in qualche oscuro paradiso off-shore non è un'impresa complicata. La ricerca mostra la grande varietà delle pratiche corruttive nei diversi Paesi del mondo e sottolinea che queste esistono sia nei Paesi in via di sviluppo, sia in quelli ricchi Comportamenti fraudolenti nel settore dell'istruzione non sono un'eccezione neanche in Europa e negli Stati Uniti. In queste aree la corruzione agisce attraverso pratiche nepotistiche, di compravendita di esami e titoli e, soprattutto, nella gestione delle risorse pubbliche destinate alla manutenzione degli istituti (il rapporto cita espressamente Italia e Francia). Di maggiore complessità è la natura della corruzione nei Paesi poveri, i quali, ai vizi dei sistemi educativi dei Paesi ricchi, assommano tutta una serie di specificità dolose tipiche degli apparati non molto collaudati. Secondo l’Unèsco, in alcuni Paesi, la dispersione dei fondi attribuiti dai ministeri dell'Istruzione ai diversi istituti scolastici può rappresentare fino all’8o per cento del totale delle spese extra salariali. Un'enormità. Tra i casi critici citati l'Ucraina ha un posto di rilievo. Lo studio segnala che alti funzionari di università private dell'ex Paese sovietico hanno rivelato che la maggior parte delle 175 università private del Paese cedono a fenomeni corruttivi nel cercare di ottenere con successo le licenze obbligatorie per poter continuare a rimanere in vita. Ma il fenomeno come detto è generalizzato e colpisce tutti, un cocktail dannoso costituito da limiti finanziari, management inadeguato, bassa efficienza, spreco di risorse e, sullo sfondo ma in posizione rilevante, mancanza di volontà politica nella messa in atto di sistemi di regolamentazione più trasparenti. www.unesco.org Sul sito dell'Unesco il rapporto sull'istruzione La lista nera Elevati indici di corruzione in circa metà dei 60 Paesi analizzati: tra i peggiori Ciad, Bangladesh, Ucraina e Myanmar; ma crescono i comportamenti scorretti in nazioni avanzate come Canada, Israele, Stati Uniti, Italia Le violazioni Acquisizione illegale dei diritti di iscrizione esami superati a pagamento, fondi dirottati, concorsi truccati. Il numero delle false Università tra il 2000 e il 2004 è passato da 200 a 800 ___________________________________________________________ Il Manifesto 8 Giug. ‘07 IL CODICE COMUNE DELLA LIBERTÀ Benedetto vecchi Un po' globetrotters, un po' guru. Richard Stallman e Bruce Perens sono giunti a Roma per partecipare a una serie di incontri all'Università La Sapienza di Roma e al Festival dell'Innovazione, quest'ultimo organizzato da LaitSpa con il contributo della Regione Lazio e del comune di Roma (www.festivalinnovazione.it). Stallman, è noto, è stato il fondatore del movimento del free software ed è oramai un personaggio cha ha }'aura del guru di una «filosofia» altera, se non ostile ai tutori della proprietà intellettuale. Perens, invece, viene dal mondo dell'open source, il movimento che teorizza il modello del bazar - orizzontale, marchiato da negoziazioni e da reciprocità e quindi contrapposto a quello gerarchico della Microsoft - per quanto riguarda la produzione del software. Due realtà con malti punti in comune, ma anche con differenze e distanze che si riflettono sulla «visione del mondo» che dispensano nelle conferenze a cui partecipano. E ieri mattina, alla sede universitaria di Via Principe Amedeo a Roma, i due hanno dato vita a una lezione universitaria che ha assunto nel corso del suo svolgimento le caratteristica di una vera e propria performance salutata da applausi a ripetizione e ovazioni, che hanno costretto il moderatore, Arturo di Corinto, a richiamare più volte la platea al silenzio. La mattinata era iniziata con i pacati interventi di Vincenzo Vita e Marisa Rodano, che hanno illustrato come il Comune, la Provincia e la Regione siano cercando di creare l'habitat istituzionale adeguato per la diffusione de} virus del software non proprietario. Hanno spiegato che la gradualità è ciò che caratteristica queste istituzioni locali, dimenticando di ricordare però la radicalità dell'intervento delle multinazionali high-tech, che spesso riduce a granelli di sabbia le sperimentazione a favore dei prodotti open. Granelli di sabbia che tuttavia non bloccano certo la lobby a favore del software proprietario. Quando poi la parola è passata a Richard Stallman la platea si è improvvisamente risvegliata. Stallman segue un copione ben preciso e lo rispetta quasi al}a lettera, eccetto per improvvisazioni accolta quasi sempre da risate o applausi da stadia. E visto che nell'aula magna erano esposte le opere di duecento artisti contro la guerra, ha spesso preso di mira George W. Bush e la sua guerra in Iraq. Oppure ha ricordato che il parlamento europeo sta discutendo se rendere norma vincolante per i paesi dell'Unione europea la brevettabilità del software. Non ha risparmiato neppure Bill Gates, qualificato come una persona che minaccia la libertà individuale. «Sono un attivista de} free software, ma mi batto per la libertà di uomini e donne di poter autodeterminare la propria vita. Non penso che la libertà si riduce alla chance di poter scegliere questa o quel prodotto: libertà, per me, significa prendere nelle mani il proprio destino». Applausi e ovazioni a non finire. D'altronde è ciò che ha fatto da quando ha abbandonato il Massachusetts Institute of Techrzalogyper protestare contro l'imposizione del copyright ai programmai che circolavano nella prestigio università. Da allora, la sua storia è stata contrassegnata dal progetto di un sistema operativo - quei programmi, cioè che fanno funzionare un personal computer - e dalla scrittura della prima release della General Public Licence, cioè di una sorta di vademecum a una concezione alternativa del diritto d'autore sul software che mette al centro la possibilità di duplicare, modificare e diffondere ì programmi informatici rispettando la loro caratteristica di «bene comune». Ed è così che è diventato un po' globetrotter e un po' guru, girando il mondo per diffondere, con molta autoironia, il suo «credo». La lezione di Stallman non poteva certo evitare di affrontare il nodo della «brevettabilità delle idee». E lo ha fatto con la chiarezza che gli è propria: i brevetti vanno evitati perché «limitano la libertà personale, altro che rispetto dell'ingegno - ha affermato Stallrnan -. Le idee non possono diventare proprietà privata di una corporation», ha affermato Stallman, suscitando l'ennesimo boato di approvazione nella sala. Tanto è carismatico Stallman, tanto -è pragmatico Bruce Perens. E uno «sviluppatore di software» da sempre e la sua vita è cambiata con l'incontro di alcuni studiosi e «colleghi» che lo hanno convinto che la condivisione e la socializzazione della conoscenza sono le strade maestre per produrre del buon software e garantire l'innovazione tecnico-scientifica. Così, anche lui, ha cominciato a stilare documenti, partecipare alla vita del mondo open source. Ma è appunto un pragmatico e crede che ì due sistemi - il softwaze proprietario e quello non proprietario - devono competere ad armi pari: vince il software migliore e che costa meno. Ma il suo «realismo» mantiene una forza argomentativa difficilmente attaccabili dalle teste d'uovo del software proprietario. Sono, infatti, molti gli studi che oramai attestano la qualità dei prodotti open source e sono altrettanto numerose le analisi che dimostrano come il regime della proprietà intellettuale rallenta l'innovazione, Ciò che Perens non afiìonta sono però le contraddizioni all'intemo dei mondo open source, in particolare le strategie di alcune imprese che puntano a fare dei prodotti open source un modello di business che può convincere con quelli proprietari Contraddizione che si riflettevano nei comportamenti della platea, che segnalava con applausi scroscianti i passaggi della sua lezione più critici verso Microsoft per lasciare il passo al silenzia quando Perens sottolineava la possibilità di fare affari con l'open source. ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 31 Mag. ‘07 LA LAUREA PAGA SEMPRE, MA POCO E SU TEMPI LUNGHI Italia, Francia, Spagna: gli stipendi dei giovani a confronto L'investimento nello studio inizia a rendere a tre-cinque anni di Rosanna Santonocito Lo stipendio di un giovane laureato tra 24 e 3o anni che lavora da un anno o al massimo due, è di 23.626 euro in Italia, di 25.492 in Francia e di 19.308 in Spagna. Poco? Le neoassunte donne guadagnano ancora meno: 22.603 euro le italiane, 17.890 le spagnole, mentre lo scarto rispetto ai colleghi è minore per le francesi: 25.206 euro. Un giovane che entra in azienda con la laurea intasca è comunque meglio compensato del giovane diplomato che porta a casa 21.747 euro in Italia, 23.037 in Francia e 16.73 in Spagna. Parliamo di retribuzione media annua lorda nel aoo6 e di posti stabili, non precari, messi a confronto da uno studio di OMM realizzato a partire da un database di quasil3o mila posizioni riferite a giovani laureati e non laureati. È molto dibattuto, di questi tempi, il tema della «generazione mille euro». Insieme all'altro sull’«ascensore sociale»: quello che si è fermato di colpo condannando i venti-trentenni di oggi a essere, per la prima volta dagli anni Cinquanta, più poveri dei loro genitori e quindi meno tutelati anche in prospettiva. Un'altra ricerca internazionale sul rapporto tra laureati e mercato del lavoro è l’indagine Reflex, che ha avuto come partner italiano l'istituto Iard in collaborazione con il consorzio AlmaLaurea e l'Università di Pavia. Lo studio ha sondato un campione di 2.884 laureati dell'anno 2ooo e 255 diplomati triennali, analizzando, tra gli altri aspetti di continuità occupazionale e soddisfazione, il reddito mensile lordo dichiarato dai giovani, ormai 3o-35enni, a partire dal tipo di laurea conseguita. Qui i valori dichiarati risultano inferiori a quelli dell'indagine Od&M e vedono prevalere in Italia laureati del gruppo medico (1.49z euro gli uomini e 1.305 le donne) e del gruppo ingegneristico (2.123 e 1.876 euro), seguiti sorprendentemente dai laureati in discipline sociali che, almeno nella componente maschile(1978 euro), superano anche le materie economiche (1.934 euro). Ancora una volta, le lauree meno gratificate sono quelle letterarie e pedagogiche: 1.492 euro il reddito percepito dagli uomini, 1.305 dalle donne. Nella rilevazione di Iard, poi, la dissonanza tra i generi è ancora più stridente, con differenze sistematiche di retribuzione tra laureati e laureate che, nella media generale di tutte le lauree raggiunge i 431 euro mensili. Il confronto europeo vede ancora intestai gruppi ingegneristico (con un redditi dei laureati di 2.171 euro in Italia, 2.003 in Spagna e 3.444 in Francia) e medico 2.328 il reddito degli italiani, 1.778 quello degli spagnoli e 2.68o dei francesi. I laureati in economia guadagnano bene in Francia (3.045 euro mensili lordi) rispetto ai colleghi italiani (z.a38 euro) e spagnoli: appena 1-434 euro in busta. 11 commento di Mario Vavasso presidente di Od&M, è che in generale «il laureato oggi non 'e una merce pregiata. Però attenzione: chi ha un titolo universitario percepisce una retribuzione d'ingresso bassa, ma si colloca subito nella fascia alta degli impiegati: il riconoscimento c'è dal punto di vista del posizionamento». In tutti e tre i Paesi considerati, la svolta con il conseguente incremento sul cedolino scatta nel periodo dai tre ai cinque anni di anzianità lavora6va. Quando, pagato il tributo al «saper fare» che le aziende richiedono, la progressione di carriera e stipendi diventa più veloce se c'è un titolo universitario. In Italia la retribuzione lorda annua sale a 26.504 euro (ma si ferma a 24.926 per le donne), in Francia a 27.580 (alle colleghe va poco meno, 27.135 euro), in Spagna a 21.592 (2o.151) Rispetto ai non laureati, le differenze diventano rilevanti: per loro, lo stipendio medio si ferma a 22.213 euro in Italia, a 24.838 in Francia e a 17.429 in Spagna. In tutti e tre i Paesi considerati, banche e assicurazioni pagano meglio i laureati (tranne in Spagna, dove a tre - cinque anni dall'assunzione la più generosa è l'industria), mentre il settore con il miglior trend retributivo aoo6/aoo5 è ovunque quello delle costruzioni. Però non in Spagna, dove i trasporti hanno retribuito meglio i neoassunti. La Spagna è anche il Paese che ha registrato il recupero migliore generale, soprattutto per i giovani assunti da 1-z anni. «Le retribuzioni partivano da livelli molto bassi - spiega Vavassori - e questo si spiega anche con la larghissima diffusione dei contratti atipici. Ora si è corso ai ripari regolando la flessibilità». Nell'ultimo anno in Italia e in Spagna il trend degli stipendi è stato positivo per i neo assunti, se laureati .(+3>4 e 440/- rispettivamente). Non così in Francia; dove le retribuzioni sono scese dell'uno per cento. Sia 1.439 per gli uomini che per le donne, _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 30 Mag. ’07 L’ACCANIMENTO FORMATIVO NUOCE ANCHE ALL’ISOLA Il dibattito sull’impiego pubblico è oggi polarizzato sulle questioni della produttività e del costo dei contratti di lavoro. Questioni importanti, ma da sole non decisive rispetto all’obiettivo di rendere le pubbliche amministrazioni italiane efficienti, efficaci e di qualità. Al riguardo è utile rilanciare la riflessione sulla professionalità richiesta al dipendente nel momento d’accesso alla pubblica amministrazione e, successivamente, durante tutta l’attività lavorativa. Proprio su tale questione occorre un impegno prioritario delle pubbliche amministrazioni. Non che non si sia fatto niente, anzi. Nell’ultimo decennio si è passati da una carenza totale di interventi a un notevole incremento, sostenuto da finanziamenti a carico dei bilanci delle diverse amministrazioni, dell’Unione europea, dello Stato e delle Regioni. Tuttavia, esistono gli squilibri: si va dall’assenza di interventi a importanti e adeguati programmi formativi. In alcuni e non sporadici casi, a un vero e proprio fenomeno di "accanimento formativo", cioè di proposte massicce, il più delle volte affidate a società che hanno vinto bandi cofinanziati dall’Ue, che devono svolgere l’attività formativa prevista dai progetti entro tempi generalmente ristretti. È quest’ultimo un fenomeno che si riproporrà in modo sensibilmente aggravato in Sardegna, beneficiaria di consistenti finanziamenti per la formazione dei dipendenti della P.A., nel periodo di tempo che ci separa dalla fine dell’anno 2008, entro cui devono essere spesi e rendicontati i finanziamenti dei programmi europei relativi al periodo 2000-2006. Alle amministrazioni pubbliche sarde si pone quindi il problema del cosa fare: dalla rinuncia a gran parte degli interventi formativi già finanziati, per impossibilità di garantire la frequenza dei dipendenti, pena gravi problemi di funzionamento degli uffici, a possibili e auspicabili rimodulazioni degli stessi interventi, sulla base delle effettive esigenze, da attuare attraverso l’istituzione di apposite "cabine di regia" tra le amministrazioni interessate e le agenzie formative affidatarie delle diverse attività formative. Non si tratta solo di calendarizzare opportunamente le diverse iniziative tenendo conto degli impegni lavorativi dei dipendenti, ma di "metterle a sistema", evitando sovrapposizioni e ripetizioni anche di contenuti. Occorre poi utilizzare accortamente e diffusamente gli strumenti messi a disposizione dalle tecnologie dell’informazione che consentono flessibilità dei tempi di apprendimento. Si tratta, in sostanza, di attuare un processo di revisione di obiettivi didattici, tempi, metodi e contenuti dei progetti formativi in programmazione, nella misura necessaria, così come peraltro prescrive il "Protocollo d’intesa sulla qualità dei servizi formativi delle scuole che svolgono attività di formazione per la pubblica amministrazione" del giugno 2002. Franco Meloni (Formazione-Università Cagliari) _________________________________________________________________ Corriere della Sera 25 mag. ’07 LAUREATI, CON LA RIFORMA È CROLLATA L' ETÀ MEDIA L' età media dei laureati 2006 nell' università riformata è di 24,2 anni, rispetto ai 28 anni del passato, alla vigilia della riforma. E' quanto emerge dall' ultimo rapporto di Almalaurea. Tra le altre risultanze dell' analisi: alla vigilia della tesi 83 laureati di primo livello su 100 vogliono proseguire gli studi; un anno dopo il conseguimento del titolo, i laureati di primo livello presentano un tasso di occupazione del 48,5%; e il 25% delle matricole abbandona gli studi. _________________________________________________________________ Corriere della Sera 22 mag. ’07 VALORE LEGALE DELLA LAUREA: MEGLIO ABOLIRLO Non sono d' accordo con lei per togliere valore legale al titolo di studio. I figli dei ricchi andranno a studiare nelle migliori università come avviene in Usa e la laurea delle pubbliche università, dove potranno accedere e non sempre i figli dei poveri, varrà poco o niente. Insomma, il figlio di contadini dovrà rassegnarsi a zappare la terra, seppure con un pezzo di carta in tasca. Ebbene, io sono per il massimo aiuto alle università statali, uniche idonee a conferire titoli di studio con valore legale. Le lauree conseguite nelle università private non dovrebbero avere valore legale. pietroancona@tin.it Caro Ancona, in Italia vi sono 46 università pubbliche. Alcune hanno una antica tradizione e alcune di esse (Bologna e Torino ad esempio) hanno orgogliosamente celebrato negli scorsi anni la loro secolare esistenza. Altre sono soltanto superlicei, privi di grandi biblioteche e di laboratori attrezzati, costituite da un corpo accademico di professori pendolari che abitano altrove e fanno apparizioni più o meno fugaci nel corso della settimana. Supporre che tutte siano in grado di offrire ai loro studenti gli stessi servizi e lo stesso livello di insegnamento è evidentemente assurdo. In ogni Paese esistono università ottime, buone e mediocri. Ma tutte le università italiane sono eguali di fronte alla legge e tutte rilasciano, al termine degli studi, un documento che ha lo stesso valore legale. Questo sistema ha prodotto alcune conseguenze negative. In primo luogo ha contribuito ad abbassare il valore di tutti i diplomi, compresi quelli rilasciati dalle migliori università. Mentre la giustizia amministrativa riconosce generosamente il titolo di dottore persino ai titolari delle lauree brevi (tre anni), è inevitabile che il valore della nostra laurea si vada progressivamente deprezzando in Italia e soprattutto in Europa. Naturalmente le aziende private sanno che questa eguaglianza è una finzione e scelgono i loro funzionari sulla base di altri parametri, molto più sostanziali di quanto non sia un documento legale. Lo sanno naturalmente anche i giovani più intelligenti e ambiziosi. Quando lei osserva, caro Ancona, che l' abolizione del valore legale del titolo di studio spingerebbe i giovani più abbienti a privilegiare le università migliori e a disertare le università pubbliche, descrive un fenomeno ormai alquanto diffuso, ma a scapito di tutte le università italiane. Per avere un curriculum più credibile, molti giovani completano all' estero la loro preparazione. Fanno bene, naturalmente, perché è opportuno che un giovane faccia anche esperienze accademiche straniere. Ma bisogna evitare che gli studi all' estero si trasformino in una fuga dall' Italia. Per impedire che questo avvenga occorre innalzare il livello di preparazione e formazione delle università italiane: un obiettivo che può essere raggiunto, a mio avviso, soltanto creando fra di esse lo spirito della concorrenza e della emulazione. Capisco dalla sua lettera che lei vede in questo una minaccia all' eguaglianza dei cittadini italiani. Certo, se eguaglianza significa appiattimento sui livelli più bassi, è meglio conservare il valore legale delle lauree e dei diplomi. Ma un Paese dinamico ha il dovere di conciliare la eguaglianza delle opportunità con la formazione di una classe dirigente capace di tenere testa a quelle dei Paesi in cui la qualità degli studi è considerata un bene prioritario. Romano Sergio _________________________________________________________________ Corriere della Sera 22 mag. ’07 UN' AGENZIA PER CURARE I MALI DELLA RICERCA ITALIANA La Cina è arrivata a sfornare ogni anno 700 mila laureati in scienze e in ingegneria, l' India trecentomila. Sembra dunque avverarsi la previsione di Wiston Churchill quando in una lezione ad Harvard sosteneva che «gli imperi del futuro saranno gli imperi del pensiero», con radici scientifiche, si potrebbe aggiungere, perché i grandi investimenti nella formazione e nella ricerca hanno come obiettivo lo sviluppo dell' economia. Il rapporto 2006 dell' Organizzazione della cooperazione e dello sviluppo economico si concludeva con il richiamo a un' Europa ancora incapace della necessaria dinamicità per equilibrare gli sforzi americani e asiatici. E l' Italia? Una radiografia dal titolo sconsolato (Una ricerca tradita, pubblicata da Garzanti a cura di Tommaso Maccacaro) è stata elaborata dal «Gruppo 2003» formato dagli scienziati italiani che compaiono nella lista dei ricercatori più citati compilata dall' Institute for Scientific Information di Philadelphia (Usa). L' analisi conferma quanto, purtroppo, abbiamo sotto gli occhi: un sistema disastrato, fuori da ogni logica per un Paese che vorrebbe essere tra i primi del pianeta. I segni di rivitalizzazione sono blandi. Se confrontati con gli sforzi di altre nazioni appaiono addirittura insignificanti. Ma il «Gruppo 2003» cerca di andare oltre avanzando una proposta: la creazione di un' agenzia per la ricerca (Airs, Agenzia italiana per la ricerca scientifica) presentata a Milano al Palazzo della Triennale dal professor Silvio Garattini e commentata da una tavola rotonda animata da ricercatori, manager, economisti, banchieri (Alberto Alesina, Adriano De Maio, Alberto Mantovani, Nello Martini, Luigi Nicolais, Corrado Passera, Pasquale Pistorio e Giulio Tremonti). Una proposta, dunque, calata nella realtà politico-economica. L' agenzia dovrebbe evitare la frammentazione delle risorse, eliminare i privilegi nei finanziamenti e le difficoltà di programmazione, facilitare gli scambi e il travaso di cervelli tra università e industria e agire da interfaccia con l' Europa, gli Usa e l' Asia. Dovrebbe inoltre governare i bandi di concorso, assegnare grant, controllare i risultati e curare i rapporti con la società nella quale il frutti della ricerca ricadono. In linea di principio nessuno ha espresso contrarietà perché i propositi dell' agenzia sono gli auspici che il mondo scientifico e parte di quello economico esprimono (inutilmente) da anni. Si sono aggiunte semmai delle osservazioni di cui tener conto e qualche proposta alternativa. Come la necessità di mettere alla base di ogni azione la meritocrazia (Alesina), l' opportunità di imparare dalle charities come Telethon (Mantovani) oppure l' idea di coordinare l' innovazione a livello regionale (De Maio). L' ex ministro Tremonti ha ricordato come nella ricerca occorrono «interventi bipartisan» ma si è chiesto se l' agenzia assorbirà gli enti esistenti, dal Cnr all' Enea. Comunque «bisogna arrivarci per gradi» ha aggiunto Pistorio. «Si sta accumulando un ritardo pazzesco nei confronti dei Paesi europei» ha sottolineato Passera ricordando la necessità del brevetto europeo e intanto presentando il progetto dei «prestiti d' onore» da attuare con venti università per sostenere iniziative di ricerca. Il ministro Fabio Mussi (che ha chiuso i lavori dopo averli seguiti per l' intera giornata) ha «preso sul serio» la proposta dell' agenzia proponendo la costituzione di «un gruppo di lavoro al di sopra e al di fuori dei partiti» per approfondire l' idea. Ma «bisogna evitare la zuppa inglese» non aggiungendo un nuovo organismo ai numerosi già esistenti. Per il resto il ministro ha constatato i gravi limiti in cui si muove avvertendo che i miracoli in questa situazione sono impossibili. Ma forse se il «problema ricerca», fosse come dovrebbe essere, una questione di governo del Paese e non di un solo ministro si potrebbe anche sognare qualche miracolo, come l' Italia (non certo ricca) sapeva fare quarant' anni fa quando la voglia di rinascita e la capacità di rischiare portava nel 1963 Giulio Natta sul podio del premio Nobel per la chimica. E «il miracolo a Milano» nasceva grazie allo sforzo congiunto dell' università e della Montedison, cioè da quell' unione tra pubblico e privato che ora sembra quasi impossibile. Forse l' agenzia potrebbe riprendere quel prezioso filo interrotto. Caprara Giovanni _________________________________________________________________ Corriere della Sera 8 Giu. ’07 BANKITALIA: TROPPI GIOVANI NELLE FACOLTÀ «SBAGLIATE» Sempre meno giovani sul mercato del lavoro e sempre più spesso dotati di competenze che il mercato non cerca. Nelle università si studiano le materie letterarie o, al più, quelle economico-giuridiche, tralasciando l' ingegneria e le materie scientifiche. Sono alcune delle considerazioni della relazione annuale di Bankitalia, che torna così sul problema del calo dei giovani sul mercato, flessione su cui incide pesantemente l' andamento demografico. Se, poi, i giovani stanno più tempo nelle aule universitarie, sembra continuino ostinatamente ad affollarsi in quelle «sbagliate». Nel 2005, rileva l' analisi di palazzo Koch, solo il 15% dei laureati in Ingegneria non aveva un lavoro mentre la quota raggiungeva il 45% per i laureati in materie umanistico- letterarie. «Nonostante questi divari - si legge - l' offerta non sembra adeguarsi rapidamente alla domanda». E ci sono sempre troppi letterati e pochi ingegneri. _________________________________________________________________ Corriere della Sera 8 Giu. ’07 L' UNESCO DENUNCIA 800 ATENEI «FANTASMA» Truffe e corruzione mettono a rischio l' istruzione universitaria in tutto il mondo. Questa l' accusa contenuta in un recente rapporto dell' Unesco, ripreso dalla Bbc, in cui l' agenzia Onu denuncia il sempre crescente numero di «false» università private, scuole fittizie e corsi più o meno fantasma in tutto il mondo. Particolarmente inquietante, dice il rapporto, l' ascesa di università «virtuali» che offrirebbero titoli di studio a pagamento: dalle 200 che potevano essere rintracciate nel 2000 siamo saliti nel 2004 già a 800. _________________________________________________________________ Corriere della Sera 9 giu. ’07 E LA LAMPADINA SI ACCENDE. SENZA FILI Esperimento al Mit: corrente elettrica trasmessa attraverso un campo magnetico ROMA - Gli ingredienti base per il filone esoterico c' erano tutti fin dall' inizio: Nikola Tesla nacque alla mezzanotte del 10 luglio 1856 e subito dopo il primo vagito il cielo di Smilijan venne illuminato da un lampo incredibile, come non se ne erano mai visti in quel villaggio dell' Impero austroungarico. Lui stesso contribuì in vita ad alimentare la fama di personaggio estroso, se non di vero e proprio scienziato pazzo: rifiutò un Nobel, fece causa a Marconi ed Edison, viveva quasi da eremita e, maniaco dell' igiene, si lavava le mani 50 volte al giorno. Ma la vera svolta arrivò il giorno della sua morte (7 gennaio 1943) quando in fretta e furia l' Fbi dichiarò top secret i suoi lavori, compresi quelli più misteriosi. Quelli sulla trasmissione dell' energia elettrica senza fili. Niente spina infilata nella presa, niente pile o batterie. Tutto grazie al principio della risonanza alle onde elettromagnetiche, che permette di far passare l' elettricità da un corpo all' altro senza contatto fisico. SCIENZA NON FANTASCIENZA - Ecco, l' applicazione pratica di quel principio viveva finora nel limbo fra scienza e fantascienza. A Colorado Springs, nel 1900, Tesla sostenne di aver acceso 200 lampadine senza collegamento a 40 chilometri di distanza dalla torre che usava per generare energia. Più modestamente un mese fa al Mit - il Massachusetts Institute of Technology - di lampadina ne hanno accesa una sola. Piccolina, 60 watt, e con una distanza dalla fonte di due metri. Solo che il miracolo non ha avuto per testimoni gli attoniti contadini del Colorado, ma i redattori di Science, la bibbia del mondo della ricerca. Dalla leggenda all' esperimento, con annesso nome di tendenza: Witricity, fusione di wireless (senza fili) ed electricity. Come funziona? I ricercatori del Mit hanno collegato una spirale di rame alla presa elettrica. A due metri di distanza hanno piazzato un' altra spirale di rame collegata alla lampadina. E la lampadina si è accesa. Il segreto sta tutto nella frequenza magnetica che deve essere la stessa fra trasmettitore e ricevente. È lo stesso principio per cui un cantante emette una nota in una stanza dove ci sono dei bicchieri pieni di vino a livelli diversi, e quella nota fa risuonare (o addirittura rompe) un solo bicchiere. Il coordinatore della ricerca è Marin Soljacic, fisico di 33 anni, di origine slava ma trapiantato negli Stati Uniti, proprio come Tesla. L' idea gli è venuta per colpa del telefonino: «Mi svegliavo di notte e mi ricordava con il suo bip che mi ero dimenticato di ricaricarlo. La soluzione non è trovare la spina ma il modo di farlo ricaricare da solo». «BASTA BATTERIE» - Quello collegato alla presa è l' ultimo filo che ci resta da tagliare nella nostra società ad alta tecnologa. Ai telefoni non serve più, ai modem nemmeno, ai mouse non ne parliamo. Ma ci sono almeno altri due buoni motivi per insistere su questa strada: la durata limitata delle batterie è forse il collo di bottiglia più difficile da superare nello sviluppo di tutte le diavolerie portatili che accompagnano la nostra vita. E il loro smaltimento è un problema serio per l' ambiente: solo in Europa ogni anno ne arrivano sul mercato 350 mila tonnellate. La Witricity può essere davvero il futuro. Tenendo presente che il principio in parte è già applicato (il telepass dei caselli autostradali funziona proprio così), anche se questa è la prima volta in cui si riesce a trasmettere una quantità di energia così grande (60 watt d' accordo, ma tutto è relativo) e con una dispersione tutto sommato bassa, poco più della metà. LA RIVOLUZIONE - Quanto è applicabile, però, questa rivoluzione alla vita dei nostri giorni? «L' energia trasmessa è ancora poca, con adeguati sviluppi potrebbe alimentare un cellulare ma non di più», dice Giorgio Parisi, professore di Fisica all' Università di Roma e più volte candidato al Nobel. Ma c' è un altro problema: «Le spirali sono di 60 centimetri, troppo grandi per un apparecchio del genere. Sarà difficile miniaturizzarle». Claudio Bertoli - direttore del dipartimento energia del Cnr - è preoccupato per un altro problema: «Se l' energia è poca la trasmissione è controllabile e non ci sono problemi per la salute. Con valori più alti non ne siamo sicuri». Un passo indietro, fino al 1910. Mentre Nikola Tesla continuava i suoi esperimenti a New York, era partita la corsa agli armamenti che avrebbe portato alla I guerra mondiale. Al largo della città saltò in aria la nave francese Jena. L' incidente non fu mai chiarito. Si diffuse però la voce che fosse stato proprio Tesla con la sua energia senza fili che gli era scappata di mano. Ma quella, forse, era solo una leggenda. * * * 45 PER CENTO Il sistema non è ancora perfetto: soltanto il 40-45% dell' energia raggiunge la lampadina * * * 2 I METRI Gli scienziati hanno acceso una lampadina a due metri dalla fonte di energia * * * LO SCIENZIATO «PAZZO» Il primo a ipotizzare la trasmissione senza fili dell' energia elettrica è stato lo scienziato di origine serba Nikola Tesla (sotto): emigrato negli Stati Uniti nel 1884, si scontrò con Thomas Edison nella cosiddetta «guerra delle correnti». Nel suo laboratorio di Colorado Springs riuscì a dimostrare che la terra era un buon conduttore e produsse fulmini artificiali di 40 metri. A lato, Tesla interpretato da David Bowie nel film The Prestige (2006). Salvia Lorenzo ___________________________________________________________ Avvenire 2 giu. ’07 E SCIENTIFICO: IL CERVELLO PREFERISCE BACH MASSIAL0 CENTINI A questo punto è la scienza a giustificarci: da domani saremo liberi di dire che la musica di Schónberg o di Stockhausen è «difficile», ma senza incorrere nei soliti sguardi di commiserazione che si rivolgono agli incompetenti. Infatti, le neuroscienze garantiscono che il nostro cervello sembra progettato per apprezzare soprattutto le composizioni tonali, mentre la dodecafonia e le dissonanze determinano solo un «effetto rumore». E così mentre le prime interagiscono con i neuroni del piacere, le seconde producono un senso di confusione che scombina la nostra percezione della musica. Gli scienziati ne sono ormai convinti: il nostro cervello ha una particolare predisposizione all'ascolto dei suoni organizzati in modo coerente e armonico, mentre quanto non corrisponde a questi schemi induce una sorta di naturale rifiuto. Rifiuto che può essere combattuto con la cultura, ma non con la natura. Infatti «ci imponiamo», secondo un progetto culturale alimentato da diverse motivazioni, di ascoltare (per qualcuno sarebbe più preciso dire «udire») della musica sperimentale o quella che genericamente viene definita contemporanea, per trarne stimoli intellettuali, ma che non producono l'identico senso di equilibrio, piacere, bellezza giunto da Mozart, Bach, Beethoven, eccetera. Facciamo questo rispondendo a un preciso interesse che può determinare stimoli sul piano della riflessione: infatti sapere che Béla Bartòk aveva scritto della musica seguendo la sequenza numerica di Fibonacci, o che nelle composizioni di Schónberg si richiedeva sempre l'uso di tutte le dodici note di cui è composta un'ottava (e non solo alcune, come capita nella classica, dove si usano solo quelle richieste dalla tonalità del brano), ci offre un'occasione di discussione, di analisi, di conoscenza, forse ci fa sentire meno superficiali. Se non siamo professionisti della musica, ma semplici appassionati, sappiamo che un Vivaldi o uno Chopin di sottofondo, rendono l'ambiente più «morbido» di un Maliler o di un Respighi. Figuriamoci se ci spostiamo su autori che hanno fatto della musica uno strumento per rivoluzionare quei parametri che, come oggi sappiamo, sono fondamentali punti di riferimento anche per il nostro cervello. Salta fuori la solita questione dell’apparire sull'essere, l'irrisolto dilemma per l'uomo della strada che ama sapere e vorrebbe capire (quell'uomo pagante che di fatto va alle mostre, a teatro e ai concerti) che metro usare per apprezzare una performance, o un'azione artistica. Perché davanti agli impressionisti e ai romantici riesce comunque a cavarsela da solo. La musica contemporanea conferma il suo impegno ad affrancarsi dai parametri tradizionali, fino ad essere materia libera da ogni conformazione, senza memoria; ha sdoganato la sua aderenza alla partitura e si fatta materia nuova, anche strana, intrattenibile. un mondo affascinate dal quale trarre stimoli culturali che coinvolgono vari ambiti del sapere, che certamente fanno crescere. Ma il nostro cervello continua a preferire Schubert a Cage.Orrà le sue ragioni... _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 8 Giu. ’07 IBM, IL 92% DEI SITI DI PHISHING VIENE CREATO CON KIT ONLINE Su 3544 casi, solo 288 sono da imputare a veri pirati informatici Tutti gli altri sono stati assemblati da phisher poco esperti Conoscere gli standard "prefabbricati" è utile per la sicurezza ROMA - Non bisogna essere pirati informatici per andare all'arrembaggio dei dati di ignari navigatori usando il phishing. Secondo uno studio della Ibm, anzi, il 92 per cento delle frodi è portato a segno usando dei kit di assemblamento che si possono trovare su internet e che servono a costruire con siti "civetta" in tutto simili a quelli originali di banche e poste. La Internet Security Systems, una sussidiaria della Ibm, ha infatti esaminato 3544 siti di phishing, scoprendo che ben 3256 hanno una struttura che può essere realizzata anche da chi non è un mago dell'informatica. In questi casi, infatti, le pagine clone non vengono create ex novo da esperti dell'html (il linguaggio usato per il web) ma sono costruite assemblando kit che si trovano online, gratis o a pagamento. La prova di questo fenomeno, spiega la Ibm, sta nel fatto che i siti di phishing "prefabbricati" fanno capo a un numero limitato di server, quelli dei kit, appunto. I 3256 siti più semplici sono ospitati infatti su appena un centinaio di domini, la maggior parte dei quali (il 44 per cento) registrati a Hong Kong. I 288 siti di phishing "fatti a mano", quelli che hanno richiesto il lavoro di un vero esperto, fanno invece capo a ben 276 domini. Questa differenza può essere molto utile nella lotta contro i phishers, così come conoscere il "modello base", quello fornito dai kit che mettono a disposizione anche il sistema di spam che invia email da parte di banche, poste e istituzioni chiedendo agli utenti di inserire in un'apposita pagina i propri dati. Infatti di fronte ad attacchi di massa che si basano su uno stesso standard è possibile creare strategie di difesa efficaci in tutti i casi. Più complesso, invece, bloccare i phisher più esperti che, creando i siti clone usando strade ogni volta diverse, richiedono soluzioni specifiche per ogni caso. ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 7 Giug. ‘07 L'ALTRO BLUETOOTH Non solo telefonia mobile. Questa tecnologia ormai sembra matura per altre applicazioni: dal turismo alla ricerca, alla medicina N on solo telefonia mobile. Ma anche sicurezza, telémedicina, servizi al cittadino, domotica e molto altro. Il Bluetooth non è più solo la tecnologia per collegare senza fili un cellulare e un auricolare a, per scambiare file fra due telefonini. Anzi: Diversi esempi sono stati presentati la scorsa settimana durante la tappa italiana del tour del Bluetooth special interest groùp (Sig), l'organizzazione che riunisce alcune delle più grandi aziende hi-tech (fra cui Intel, Motorola, Ericsson, Lenovo e Nokia) e che si occupa di promuovere e stabilire le specifiche di questo standard. Che, come dimostrano le soluzioni déh'italiana Medical international research, può trovare spazio anche in medicina. La Mir, infatti,, ha messo a punto una famiglia di apparecchi biomedicali da distribuire ai pazienti e che, da una parte, è in grado di misurare i volumi polmonari o la quantità di emoglobina e, dall'altra, grazie a un modulo Bluetooth, di trasferirli a un cellulare che ha il compito di inviarli a un centro che analizza i dati e, nel caso di valori fuori dalla norma, avvisa il malato per ulteriori accertamenti. «In Inghilterra - spiega Marco Pennacchietti, ricercatore di Mir - British Telecom ne ha già acquistati diversi e sta conducendo delle sperimentazioni. La stessa cosa sta avvenendo in Italia con dei test effettuati da Telecom Italia». Ciò che invece non è più una sperimentazione è l'applicazione della società di Torino B1ueD che nel capoluogo piemontese ha dato vita (in collaborazione con l'amministrazione comunale) al progetto «Surfthe city»: dieci totem dislocati nel centro della città avvicinandosi ai duali, con un telefonino Bluetooth, rilasciano gratuitamente informazioni su musei, monumenti, manifestazioni e offerte turistiche in genere. «Per l'inizio del prossimo anno i totem aumenteranno per offrire non solo informazioni ai turisti ma anche ai torinesi, per esempio nell'ambito della cultura o dello sport», dice Giorgio Rivetti, titolare di BIueD che, grazie a un accordo, si giova di alcune tecnologie messe a punto dal Politecnico di Torino e dalia Fondazione Wireless. Non si è invece ancora affermato in Italia il Wireless personal alarm dell'azienda irlandese Securecom, un dispositivo salvavita portatile. «A differenza di quelli tradizionali - spiega Pat Hartigan, Ceo di Securecom - questo apparecchio può essere indossato anche fuori casa grazie al suo collegamento Bluetooth che lo connette a un telefonino. In questo modo può avvisare da qualsiasi luogo una eventuale situazione di pericolo. Perciò non è rivolto solo agli anziani ma anche a quelle aziende i cui dipendenti sono a rischio durante il loro lavoro». Il Bluetooth, insomma, è quindi in rapida crescita (ed evoluzione): Lo dimostrano alcuni numeri forniti dal Bluetooth Sig: nel 2006 un miliardo di dispositivi dotati di questa tecnologia sono stati venduti nel mondo e le previsioni dicono che; fino al 2011, il mercato crescerà del 40 per cento ogni anno. «Le prossime tappe del Bluetooth- dice Anders Edlund, direttore marketing di Bluetooth Sig - saranno quelle di rendere la comunicazione fra due dispositivi più sicura e, quando possibile, più semplice e intuitiva, per esempio sfiorando con un device l'altro apparecchio e non mettendosi a cercare quali terminali Bluetooth sono nel nostro raggio d'azione». FEDERICO E:ERRAZZA ferrazza@galileoedit.it ======================================================== ___________________________________________________________ La Nuova Sardegna 9 Giug. ‘07 IN SARDEGNA MANCANO GLI INFERMIERI? LI FORINERANNO LE UNIVERSITÀ ISOLANE In cinque anni saranno assorbiti 1.500 precari censiti dalle otto AsI regionali SANITA' di Alessandra Sallerni CAGLIARE. Non succederà più che si ricorra ai lavoratori precari per colmare i vuoti della sanità pubblica. Gli infermieri che mancano saranno formati dalle due università sarde sul fabbisogno del sistema sanitario regionale. In cinque anni saranno assorbiti tutti i 1.500 precari censiti finora tra le otto AsI dell'isola e il Brotzu: subito quelli che hanno già maturato tre anni di collaborazione anche non continuativa; a strettq giro di ripensamento della pianta organica di ciascuna ~zienda quelli che hanno cominciato prima del settembre 2006. Popo il risanamento dei conti m senso stretto, è cominciata la rivoluzione sul doppio binario della politica sanitaria e della politica del lavoro votata all'unanimità dal consiglio regionale per superare il precariato in un settore che non si rafforza qualitativamente e neppure economicamente se i dipendenti sono pagati anche il 40 per cento in meno rispetto ai contratti nazionali e sono destinati a lasciare il reparto nel giro di pochi mesi. L'assessorato ha raccolto l'indicazione del consiglio e il risultato è stato presentato ieri dall'assessore regionale alla sanità Nerina Dirindin: «II piano basa le scelte sui dati acquisiti per capire la dimensione del fenomeno, per defi nire le priorità e anche la tempistica necessaria. La Sardegna è stata fra le prime regioni italiane a sostenere davanti al Governo la necessità di superare la situazione difficile rappresentata dal lavoro precario spesso in realtà sanitarie molto delicate. Al 31 dicembre 2006, su 21.806 dipendenti, il 6,9 per cento non era a tempo indeterminato. E' una cifra superiore al 5 per cento che la finanziaria regionale indica come quota non patologica nell'amministrazione pubblica, ma non c'è dubbio che ci aspettassimo numeri superiori e ci siamo chiesti se l'indagine sia riuscita a elencare tutte le situazioni». Se anche non fosse, si rimedierà presto: l'assessorato sta per varare l'atto di indirizzo perché le aziende sanitarie possano elaborare gli atti aziendali che stabiliscono quale ossatura organizzativa darsi sulla base della domanda di salute della popolazione. Se si accertasse che il nu mero dei precari è superiore, se ne terrà conto negli atti operativi coi quali la Regione intende procedere per stabilizzare i lavoratori. «Certo nel corso degli anni hanno ruotato nelle aziende più persone - diceva Dirindin -, dei 1.500 770 sono i lavoratori che hanno superato una selezione, 179 i co.co.co, 272 i contratti libero professionali. Il precariato è più elevato a 01bia (col 16 per cento), poi Nuoro e Sassari. Nella finanziaria nazionale era prevista la stabilizzazione solo del personale non dirigenziale, la Regione ha deciso di estendere questa azione anche alla dirigenza (medici, sono 114)». Un'altra scelta contenuta nella delibera di giunta del 7 giugno: con la stabilizzazione si riequilibrerà la presenza del personale dove serve realmente (finora difficile per la rigidità delle regole di mobilità tra asl) e quindi, a chi presenterà istanza per il contratto a tempo indeterminato, si chiederà di essere disponibile a lavorare nella regione rindiciando le tre asl dove si preferisce andare. Per i co.co.co e i contratti libero professionali: «In armonia con la legge finanziaria è prevista una riserva di posti in occasione di selezioni a tempo determinato». Attenzione ai tempi. Entro il 30 giugno le asl pubblicheranno gli avvisi per- i lavoratori con i tre anni già maturati. Per chi non ce li ha ancora, si raccoglieranno le manifestazioni di interesse «cos! - spiegava l'assessore - tra l'altro sapremo quante persone sono sfuggite eventualmente al nostro censimento. Entro il 31 luglio le istanze saranno accolte e analizzate nel complesso. Entro il 30 settembre la Regione si impegna a individuare uno schema operativo con le scadenze indicate». 1 precari stabilizzati non basteranno a colmare i vuoti in organico, ma «un passo importante è già stato fatto: abbiamo autorizzato le aziende a potenziare la presenza di alcune figure professionali». Infine, sugli infermieri, in risposta al centrodestra che accusa la Regione: «II centrodestra dimentica che, da zero infermieri preparati dalle facoltà nel passato, quest'anno è prevista la formazione di 280 giovani e anzi ci dispiace che le università tendano ancora, pur in modo diverso, a non considerare importante la formazione delle figure non mediche». _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 7 Giu. ’07 MALATTIE AUTOIMMUNI IN SARDEGNA: PRIMATI E PROMESSE I risultati di un convegno Vittime di fuoco amico. È la sorte cui sono soggette le cellule di un organismo quando vengono colpite dal proprio sistema di difesa, normalmente attivo solo contro le infezioni esterne. Queste malattie si definiscono auto-immuni perché è come se il nostro sistema immunitario sfuggisse a quei meccanismi di controllo che gli impediscono di attaccare i suoi stessi tessuti. Le malattie autoimmuni sono molto numerose. La loro origine è un diabolico intreccio di cause: una complessa matassa di geni predisposti con l’aggiunta di un’esposizione a particolari condizioni ambientali. La conoscenza dei fattori all’origine di queste malattie creerà le premesse per un approccio consapevole alla loro prevenzione e cura. Le terapie attuali per la maggior parte delle malattie autoimmuni sono molto impegnative e a volte dimostrano parziale efficacia. La Sardegna vanta qualche triste primato in questo campo, facendo registrare altissimi valori di incidenza di malattie come il diabete di tipo 1 e la sclerosi multipla. Perché? Si ritiene che le cause risiedano nelle particolari caratteristiche genetiche della popolazione sarda e al suo stesso secolare isolamento. Ma attenzione, ciò non significa che il genoma dei sardi sia destinato sistematicamente a causare condizioni deleterie, basti pensare alle caratteristiche positive, da Guinness dei primati, primo fra tutto l’elevato numero di longevità. Gli stessi fattori genetici che causano le malattie autoimmuni, inoltre, potrebbero in passato avere giocato un ruolo importante per difenderci dalle infezioni. In Sardegna lo studio di questa branca della medicina impegna numerosi laboratori, centri di ricerca e reparti ospedalieri. Un quadro d’insieme è stato tracciato due giorni fa all’auditorium del Parco tecnologico della Sardegna, nel corso del convegno "Malattie autoimmuni in Sardegna, ricerca e risvolti applicativi per il Distretto della Biomedicina". Lo scopo dell’incontro, organizzato da Sardegna Ricerche, era anche quello di favorire l’interazione tra ricerca, impresa e sistema sanitario per lo sviluppo di nuove molecole nella terapia di queste patologie. «Lo dobbiamo in primo luogo ai pazienti», ha spiegato Francesco Cucca, docente di Genetica Medica all’Università di Sassari, da anni impegnato nello studio delle malattie autoimmuni, e la nostra regione ha tutte le caratteristiche per realizzare questi obiettivi». Cosa occorre? «Bisogna identificare in maniera esaustiva i fattori genetici, attraverso analisi ad alta risoluzione del genoma umano, in migliaia di individui sani e malati, per capire dove risiedono le differenze tra chi si ammala e chi non si ammala. Solo adesso questo tipo di analisi, di milioni di punti del genoma per migliaia di individui, sono diventate tecnicamente possibili, ma hanno un costo alto. In questo modo verranno delucidati i fattori causali delle malattie cosiddette multifattoriali, diabete, sclerosi multipla, asma, ipertensione, infarto e tante altre. Siamo a una transizione storica nelle conoscenze acquisite dalla nostra specie». Dal gene al farmaco, quanto passa? «Più aumenta lo spessore delle nostre conoscenze, maggiori sono i punti d’attacco per la messa a punto di nuovi farmaci. Ma il passaggio non è per niente banale». Andrea Mameli _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 8 Giu. ’07 SOGNARE UNA NUOVA VILLA CLARA SI PUÒ Sull'ex manicomio cagliaritano - di Gioia Massidda* Intervengo nel dibattito sui luoghi della salute mentale esprimendo alcune considerazioni che mi sembra stiano a monte dello stesso. Con dolore, osservo che qui, come da altre parti, non si riesce a uscire dal trattare argomenti cruciali (come l'interesse del cittadino) alla stregua delle risse tra romanisti e laziali. Oggetto della polemica è l'ex manicomio Villa Clara di Cagliari. Spazio bellissimo e suggestivo che non può che invitare a sognare. Io sogno che quello che è stato luogo di desolazione, tortura, devastazione e morte diventi un posto dove le brutture non si cancellino né si dimentichino, convivano piuttosto con le cose utili e belle, in una dimensione aperta, libera e contraddittoria, come la vita. Contraddittoria, certo. Guai a pensare che le contraddizioni non esistano e guai a nasconderle creando spazi "solo buoni" che, mistificando, facciano dimenticare i "cattivi". Ma Villa Clara è anche un'orrenda parolaccia, più grave e pesante di altre "parolacce culturali" che ora, fortunatamente, lo sono un po' meno: era parolaccia omosessualità, aborto, divorziato. Era parolaccia anche malattia infettiva, tubercolosi. Nessuna feroce quanto quella di matto. Matto da Villa Clara. La memoria di questo, nella testa della gente, è fortissima, il pregiudizio ancora altissimo, le iniziative tese a intaccare lo stigma poche, scoordinate tra di loro e del tutto insufficienti. Se le cose restassero così, potrei solo immaginare un incremento della richiesta terapeutica al privato, già alta. Se restassero così. Ma perché non restino così non possono certo bastare iniziative sporadiche e discontinue. Occorre un programma articolato e complesso, che abbia l'obiettivo di penetrare davvero nella testa della gente, di cambiarne la mentalità. Programma lungo, spalmato in molti anni. Faccenda che non si può certo immaginare di poter realizzare con un laboratorio di ceramica, qualche performance teatrale e qualche buon film. Le iniziative sporadiche potrebbero anzi correre il rischio di offrire solo una vetrina del "matto allo zoo", spettacolo per buonisti in crisi di coscienza. Non è questo che serve per giungere al cambiamento. Servono luoghi di fruizione trasversale, che diano una risposta a bisogni del maschio come della femmina, del sardo come dell'immigrato, del "sano di mente" come dello schizofrenico. Esistono bisogni che, se ascoltati, permetterebbero di accogliere le persone indipendentemente dal loro stigma. E forse, allora, un giorno questo stigma potrebbe sbiadire. Un esempio per tutti: l'oppressione e la persecuzione riguarda moltissimi livelli, dalla violenza sulle donne e sui bimbi, ai vari tipi di mobbing o anche genericamente di ingiustizie che tutta la popolazione frequentemente è costretta a subire. Moltissime di queste persone non sanno assolutamente a chi rivolgersi per essere aiutate a capire le loro possibilità di reazione, talvolta per essere anche semplicemente ascoltate. Uno sportello curato da uno-due operatori preparati, che sappiano raccogliere lo sfogo di chi è vittima della burocrazia, come la richiesta di aiuto di chi ha una ideazione persecutoria, permetterebbero di mescolare sani e ammalati, in funzione di un'esigenza di ascolto, per l'appunto trasversale, a cui dare almeno una prima risposta. Tutti noi operatori sappiamo come una persona che è, o pensa di essere, perseguitata ha innanzi tutto la necessità di essere presa in considerazione, e come una grandissima parte della sua angoscia sia data dal fatto che questo nessuno lo faccia, perché nessuno le crede. Vedrei bene, proprio a Villa Clara, uno sportello siffatto, che sarebbe ovviamente occupato per la stragrande parte dalla popolazione "normale", ma che potrebbe accogliere anche quegli altri che ascolto, invece, non ne ricevono mai. Ma questo è solo un esempio tra i tantissimi. Occorrerebbero molte altre iniziative, articolate in un progetto vasto (impossibile da dettagliare in questo spazio, ma, a mio avviso, indispensabile per poter realizzare un autentico cambiamento) che permetta alla popolazione tutta di rivolgersi lì, proprio lì, a Villa Clara. Per cercare contemporaneamente dimensioni nuove e creative, sogni, bellezza e anche indelebili ricordi di una storia dolorosissima che non si può né si deve cancellare. È forse solo un sogno. Come "Sognando", si chiamava una bellissima canzone di Mina, assai precedente al bravissimo Cristicchi e anch'essa di tema tragicamente manicomiale, il cui ascolto consiglio vivamente. Perché nessuno dimentichi il manicomio. *Psichiatra _________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 7 Giu. ’07 UN FARMACO PER L’ALTRA METÀ DEL CIELO Medicine al femminile, oggi un incontro alla Fiera di Cagliari: parla Flavia Franconi CAGLIARI. «Negleted Women», intitolava il saggio di una rivista scientifica americana nel 1993. Si riferiva alla pratica comune della farmacologia di applicare alle donne i risultati ottenuti dalla sperimentazione sugli uomini. In pratica, di operare secondo una pretesa neutralità di genere che con la realtà ha sempre avuto poco a che spartire. È allora che nasce, soprattutto grazie alle lotte delle femministe americane, la farmacologia di genere. Oggi, a quindici anni di distanza, non c’è chi dubiti che anche i farmaci - meglio, le loro risposte sull’organismo - sono “sessualmente orientati” e continuare ad ignorarlo costituisce, oltre che una simulazione, una grave danno alla salute di tutti. In Europa e in Italia la questione è piuttosto recente sebbene, in questi ultimi anni, le iniziative si moltiplichino e la Sardegna si stia facendo laboratorio all’avanguardia. Ne è un esempio la tavola rotonda di oggi alle 15 alla Fiera, nell’ambito del 33º Congresso nazionale della Società Italiana di Farmacologia (si terrà sino a sabato) cui parteciperà la sottosegretaria ai diritti e alle pari opportunità Donatella Linguiti. Tra le moderatrici dell’incontro «Farmacologia di genere: dal laboratorio alla società», Flavia Franconi, docente del Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università di Sassari dove è stato attivato il primo dottorato europeo di Farmacologia di genere. - Professoressa Franconi, cosa si intende per farmacologia di genere? «La Farmacologia di genere fa parte di una branca della medicina che studia le risposte ai farmaci in funzione del genere. Uso il termine genere piuttosto che sesso per ricomprendere anche le variazioni sociali che influenzano il sesso: il modo di rapportarsi della società verso un essere di sesso femminile varia, rispetto a quello maschile, fin dalla culla; dunque la risposta biologica varia anch’essa in funzione dell’apporto culturale che giunge dalla società in risposta all’essere maschio e femmina. Per capirci meglio, anche le mamme degli animali hanno un comportamento diverso di fronte a un figlio maschio o femmina». - Perché è importante distinguere tra i generi? «Innanzitutto perché le donne sono le più grandi consumatrici di farmaci. Soffrendo più di malattie dolorose, anche per via delle mestruazioni, consumano più antidolorifici; inoltre un terzo delle donne in età fertile pratica la contraccezione orale mentre il venti per cento delle donne in menopausa si sottopone alla terapia ormonale sostitutiva. Sono vere e proprie terapie i cui effetti interagiscono con quelli di altri farmaci. E anche con i rimedi botanici di cui le donne fanno largo uso. Basti pensare che l’iperico, che è il rimedio più venduto al mondo, può portare alla perdita dell’efficacia degli antifecondativi orali. Man mano che proseguiamo negli studi ci accorgiamo di quanto aumentino anche le differenze di genere e del rilievo che assume l’intero ciclo riproduttivo della donna». - Quali sono le differenze più evidenti? «Sono legate al metabolismo dei farmaci e dunque dipendenti dagli enzimi, più espressi nella donna rispetto all’uomo; inoltre tendenzialmente la donna metabolizza meglio degli uomini». - Come la società influenza il comportamento farmacologico? «Quando le donne vanno dal medico vengono loro prescritti più medicinali che agli uomini, per esempio. E ancora, il modo che la donna ha di riferire al medico è diverso da quello che usa l’uomo e da ciò seguono prescrizioni diverse. Le donne - sempre da uno studio americano - non riescono a soggettivizzare i sintomi, dicono “sto male” e il medico ha più difficoltà a capire la sintomatologia del caso. Inoltre la donna si esprime con più emotività». - Perché i farmaci sono meno studiati nelle donne? «Intanto perché l’analisi di genere è costosa. Bisognerebbe non solo raddoppiare i casi, ma moltiplicarli in funzione della complessità del ciclo riproduttivo della donna e dell’età. Oggi il numero di donne reclutato nella terza fase della sperimentazione è aumentato, ma è inutile se vengono mischiate agli uomini e le statistiche non vengono redatte secondo il genere. Bisogna anche dire che le donne entrano con più difficoltà negli studi clinici, perché hanno da fare: andare tre volte al mese e farsi controllare per chi lavora, ha figli e una casa da gestire è più che difficile. L’impegno, anche secondo le direttive della Organizzazione mondiale della sanità e del Ministero della Salute, deve essere quello di trovare nella società civile il modo migliore perché le donne abbiano accesso alle miglior cure possibili». - C’è anche una questione etica. «Certo, se non si studiano i farmaci nella donna, è etico somministrare quei farmaci alla donna?» - Quale metodologia si propone, allora? «È uno dei punti di grande discussione quello delle linee guida per la sperimentazione di genere. I modelli sperimentali sono da inventare. Sono uscite però le prime linee guida da un recente incontro a Maastricht per le quali bisogna indicare se nella ricerca vengono usate cellule di maschio o di femmina e in quale fase del ciclo estrale, eventualmente, è stato fatto il trapianto. Mentre per ciò che riguarda le donne si richiede un accurato studio del metabolismo dei farmaci nel ciclo mestruale e nelle eventuali terapie contraccettive o della menopausa». - Ancora non abbiamo parlato di gravidanza. «Già, il buco nero. In realtà non sono mai stati studiati i farmaci in relazione alla gravidanza che pure è momento centrale nella vita della donna e per giunta anche di frequente associato alla depressione. In linea generale è giusto evitare i farmaci, ma molte patologie come l’ipertensione o la depressione non lo consentono. Purtroppo oggi si va un po’ alla cieca e non è giusto. Ogni farmaco in gravidanza è una storia a sé per le enormi trasformazioni del corpo della donna e gli effetti sul nascituro. La verità è che curando meglio le donne si curano meglio tutti quanti». Giulia Clarkson ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 3 Giug. ‘07 LA DIFFERENZA FA BUONA LA CURA di Gilberto Corbellini Era prevedibile una risposta all'enfasi politico-culturale e agli ingenti investimenti che da un paio di decenni, soprattutto in nord America (Stati Uniti e Canada), caratterizzano la comunicazione medico-sanitaria e la ricerca sulla medicina di genere. Dove per "genere" si intendeva praticamente solo quello femminile, dando per scontato che, essendo stati per secoli i maschi i soggetti prevalentemente studiati e trattati dai medici, a livello del "genere" maschile la medicina avesse già fatto tutto il possibile. Il 12 novembre scorso l'organo dell'associazione dei medici americani, jama dedicava uno speciale alla "salute degli uomini", e i temi emersi sono stai rilanciati in un articolo sul New York Times; dedicato alle "disparità nella salute" tra uomini e donne, e più recentemente dal Wali Street Journal. Il significato dei fenomeno è stato colto da Marianne J. Legato, fondatrice alla Columbia University la Partnership for Gender-Specific Medicine, che pubblica da tre anni una rivista intitolata Gender Medicine. La Legato fa notare che i generi sono, appunto, due, e che alla loro definizione concorrono sia i meccanismi biologici che determinano il sesso, sia le variabili ambientali e culturali che incanalano i comportamenti in rapporto alle differenze sessuali. Quindi è scontato che la salute dei maschi e delle femmine risulti diversamente a rischio per gli stessi o per differenti fattori in momenti diversi della vita. È ben noto che nascono più bambini maschi, ma che questi maturano più in ritardo e sono più vulnerabili nel corso dello sviluppo rispetto alle bambine. I giovani maschi rimangono costantemente più a rischio delle donne di morire per malattie infettive, omicidi, suicidi e annegamento. Come conseguenza, dopo i 35 anni il numero delle donne sopravanza quello degli uomini. Inoltre, più uomini che donne muoiono, nell'insieme, di malattie croniche, come le malattie cardiovascolari, il diabete e il cancro. Gli uomini sono anche più a rischio delle donne per malattie associate al fumo, al consumo di alcool e all'obesità, come conseguenza di stili di vita meno salutari. Ma su questo piano le giovani generazioni femminili stanno cercando di recuperare. Gli uomini vanno anche meno dal medico, quindi consumano meno farmaci. Le donne però sono più a rischio di morire per Alzheimer, si ammalano di più di depressione e risentono dei rischi associati alla complessa fisiologia del loro apparato riproduttivo. I tumori del seno e dell'utero uccidono assai più persone del cancro della prostata. Inoltre, benché le donne vadano più spesso dal medico e si prendano più cura di sé e degli altri, la medicina è poco attrezzata per approfittare di questa opportunità. Infatti, le malattie delle donne sono prevalentemente diagnosticate e trattate sulla base di modelli clinici studiati sugli uomini. Ma le donne rispondono W modo diverso ai farmaci a causa del complesso sistema ormonale che interagisce con i principi attivi. Alcune classi di farmaci come gli antistaminici, gli antibiotici, gli antipsicotici possono interagire con il ritmo cardiaco e provocare disturbi, sicuramente evitabili se fossero testati anche al femminile. Solo di recente, soprattutto negli Stati Uniti, sono state incluse in modo sistematico le donne nelle sperimentazioni cliniche. Un'ulteriore discriminante sono le differenti modalità di intervento nelle: cure ospedaliere, con particolare riguardo per l'approccio alle malattie cardiovascolari, per cui la morbilità e mortalità per queste patologie è superiore nelle donne dopo i 6ó anni a causa della inadeguatezza dei trattamenti e della scarsa considerazione della sintomatologia dichiarata. Va riconosciuto il fatto storico che l'attenzione per come le dimensioni bio- culturali legate al genere influenzano i rischi di malattia e la capacità di produrre salute è emersa attraverso il movimento per là salute della donna. E questo movimento ha in sé le potenzialità per valorizzare una medicina e una sanità pubblica; meno prescrittive, più attente alla comunicazione sociale e a quella tra medico e paziente. Soprattutto capaci di riconoscere che tenendo conto delle differenze non solo, di genere, ma anche individuali, si può migliorare l'efficacia e l'efficienza dei trattamenti medici e potenziare le capacità personali di prevenire le malattie. O Nell’ambito di MilanoCheckup, ['Osservatori ò Nazionale sulla Salute della Donna (Onda) organizza il giugno dalle 14 una tavola rotonda sul tema «Donne e salute: parliamone», Dal k al10 giugno nell'ambito delta settimana delta salute promossa dall’Assessorato alla Salute del Comune di Milano, Onda allestisce all'Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele e nell'ambito di MilanoCheckup una multivisione che anticipa i temi di una mostra sulla salute della donna la cui inaugurazione avverrà a Milano il prossimo novembre. Per informazioni: www.ondaosservatorio.ìt. _________________________________________________________________ Corriere della Sera 5 giu. ’07 IL SACERDOTE CHE FONDÒ L' OSPEDALE SAN RAFFAELE PERSONAGGI Il sacerdote che fondò l' ospedale San Raffaele racconta se stesso Cristiano e manager, l' ultimo miracolo Tra fede e medicina, l' azzardo vincente di Don Verzé Don Luigi Verzé non ha mai nascosto di essere uomo ambizioso. A due anni dall' autobiografia Pelle per pelle, scritta con Giorgio Gandola, manda ora in libreria 640 pagine di riflessioni su due personaggi che gli stanno molto a cuore: Io e Cristo (in uscita da Bompiani). Il libro è una sorta di corpo a corpo drammatico e pacificante tra la persona storica di Gesù e il quasi novantenne fondatore del San Raffaele. Nove decenni di incontri, di opere, di lotta contro le burocrazie, gli schemi acquisiti, talora contro i ritardi della Chiesa stessa. In qualche modo, anche questo libro è un' autobiografia del sacerdote veronese che, forte del lascito del suo maestro - Giovanni Calabria, ora santo - sbarca a Milano nel dopoguerra con la convinzione di edificare un ospedale «di cui parlerà l' Europa intera» e passa il resto della vita ad affrontare gli antagonisti, da Montini a Rosy Bindi, che si frappongono sulla sua strada. Dal punto di vista di don Verzé, il rapporto personale, quasi fisico con Cristo ha accompagnato tutti i passi di questa storia, con una familiarità che può lasciare interdetto chi di Cristo ha un' immagine iconografica o teorica. Molte pagine raccontano di dialoghi, scontri, riappacificazioni, richieste di illuminazione e conforto tra l' io narrante, la sua vicenda umana e la persona viva di Gesù. Niente di «mistico», nel senso «un po' strano e a volte rasente il patologico» che secondo Verzé questa parola talora rappresenta; piuttosto, una quotidiana familiarità con il Vangelo e con l' Eucaristia, cui l' autore dice di attingere tutte le ispirazioni e i criteri per le sue scelte. Il Cristo di don Verzé esula dalle questioni esegetiche. L' autore dà assolutamente per certa la storicità di Cristo e del suo messaggio, non foss' altro che per la straordinarietà e imprevedibilità del suo contenuto. Più volte, nel testo, Verzé afferma che non accettare Gesù è frutto di pigrizia mentale, di mancanza della volontà di «volare alle altezze che il Vangelo propone alla mente umana». La sua analisi dei testi sacri non è tecnica ma esistenziale. E le caratteristiche della persona di Cristo che Verzé trova nel Vangelo rappresentano il filo rosso dell' intero libro. Cristo, Dio fatto uomo, guarisce. È consapevole della precarietà debole della condizione umana, e la assume nella sua integralità. Per questo, come il buon Samaritano della parabola, si piega sulle ferite dell' uomo; non per commiserarle, ma per guarirle. Ferite corporali, e più ancora intellettive - «l' indomito e sempre insoddisfatto desiderio del vero» -, morali - la difficoltà di essere se stessi, in cui consiste il peccato -, spirituali - l' anelito all' Essere infinito e immortale. In questa sua veste di medico- sacerdote, Cristo non è un unicum ormai passato, così come tutto nella storia passa; Cristo trascina con sé chi lo accoglie e gli consente di partecipare alla sua stessa azione guaritrice (Verzé usa qui la metafora dell' immissione del «gene divino» nell' uomo, come una straordinaria elevazione ontologica). È proprio la consapevolezza di questa novità essenziale che giustifica ai suoi stessi occhi quanto don Luigi ha fatto nel campo della medicina, dell' assistenza, della cultura, della ricerca. L' altra fondamentale caratteristica del Cristo, così come colto dal fondatore del San Raffaele, è il fatto di non temere nulla che sia umano. Cristo non si pone in contraddizione con l' umana ricerca del bene, del vero, dell' amore, della giustizia; non la limita con veti moralistici. Assume anche quella, e la valorizza. Sta qui l' origine della libertà (che a volte, come in occasione dell' intervista al Corriere sul referendum per la fecondazione assistita, è parsa eccessiva alle stesse autorità ecclesiastiche) con cui Verzé, mettendosi sulle orme del Cristo come da lui percepito, si addentra nei campi minati della ricerca biomedica. Verzé non accetta che ci siano vincoli e ostacoli, se non quelli che umiliano la dignità del soggetto personale. La ricerca può essere a tutto campo perché non potrà mai contraddire la verità che Cristo incarna. Ne è esempio la posizione di Verzé sull' eutanasia: inaccettabile in quanto rappresenta una sconfitta della scienza, che ha la sua dignità e ragionevolezza nel perseguire la vita senza rassegnarsi alla morte (ma non esclude, in singoli e limitati casi, l' umana pietà, come da confidenza a Gian Guido Vecchi del Corriere). Verzé vede uno stretto legame tra la propria idea di Cristo e la propria vita di fondatore. Per lui, l' incarnazione di Dio in Cristo implica l' assunzione nel logos di tutta la materia e la storia. Quindi i due termini del titolo - io e Cristo - non possono non produrre un terzo fattore: l' opera, considerata come il tentativo, sempre in fieri, di far vivere i contenuti del Vangelo. Ecco allora i capitoli sul Tempio della Medicina e dell' Assistenza, sul medico-sacerdote come vero protagonista del Tempio (stimolo non irrilevante, considera Verzé, per chi ha forte il pericolo di concepirsi come gruppo protetto e talora arrogante), sul valore umanizzante della sofferenza, sul quid est homo? in quanto catalizzatore della ricerca accademica nell' Università Vita-Salute, sulla dimensione universale «di ogni realizzazione che voglia essere all' altezza del valore- persona». L' incandescenza del rapporto tra «io e Cristo» induce don Verzé a usare più volte termini propri del linguaggio amoroso, e a inventare una serie di neologismi, cui forse difetta la precisione semantica, non la suggestione. Non a caso l' editore chiude il libro con un indice analitico dei concetti e un glossario delle forme logiche portanti. La stessa struttura del volume non risponde a un canovaccio consequenziale. È come un magma che scorre da un tema all' altro, con un punto costante che ai critici sembrerà presuntuoso ma che gli ammiratori apprezzeranno: «Io e Gesù ci vogliamo bene». Protagonista da 50 anni Luigi Maria Verzé (nella foto) è nato a Illasi (Verona), nel 1920. Nel ' 50, trasferitosi a Milano, fonda il primo centro di addestramento professionale per ragazzi. Nel ' 71 realizza e inaugura a Milano l' ospedale San Raffaele, e in seguito l' università. I suoi istituti ospedalieri sono diffusi ormai in tutto il mondo A Milano Presentazione con Cacciari, Geronzi, Olmi Il nuovo libro di don Luigi Verzé, «Io e Cristo» (pagine 640, 15), è edito dalla Bompiani e sarà disponibile in libreria da domani. Questa sera (alle ore 18.30) il volume sarà presentato a Milano da Massimo Cacciari, Cesare Geronzi ed Ermanno Olmi. L' incontro si terrà alla sagrestia del Bramante, Basilica di Santa Maria delle Grazie (in via Caradosso 1); all' incontro, coordinato da Armando Torno, interverrà don Luigi Verzé. Cazzullo Aldo ___________________________________________________________ Il GIornale 9 Giug. ‘07 OLTRE TREMILA STUDIO SUI TUMORI A Chicago si è concluso il Congresso annuale di oncologia clinica cui hanno partecipato 20mila specialisti Molecole biologiche e anticorpi monoclonali al centro delle nuove cure. Premiato Bonadanna, Luigi Cucchi La lotta al cancro ha in questi giorni la sua capitale negli Stati Uniti, sul lago Michigan. Sono oltre ventimila gli oncologi che da tutto il mondo hanno raggiunto Chicago per il congresso annuale di oncologia clinica, organizzato dalla American Society of Clinical Oncology (ASCO): Tutti i medici che vogliono conoscere lo stato dell'arte della ricerca ed i risultati degli studi più avanzati condotti in tutto il mondo partecipano a questa assise. GlaxoSmithHIine,l’Asco e la Fondazione Asco hanno istituito il "Gianni Bonadonna Breast Cancer Award and Lecturer", un premio che riconosce l'importanza dell'oncologia italiana od in particolare il valore degli studi pionieristici di Bonadonna, iniziati negli anni Cinquanta all'Istituto Tumori di Milano. Il cancro rappresenta la seconda causa di morte, dopo le malattie cardiovascolari: sono 270mi1a gli italiani colpiti ogni anno da tumori e grandi le conquiste scientifiche ed i passi avanti compiuti della cura dei tumori: oggi il 56 per cento dei pazienti guarisce, altri hanno un allungamento ed una migliore qualità di vita. La biologia molecolare ha consentito di personalizzare la cura, identificando in modo selettivo i fattori (di crescita, recettori, enzimi) responsabili dello sviluppo e della diffusione incontrollata delle cellule tumorali. La prima grande rivoluzione fu il passaggio dalla monoterapia alla alla polichemioterapia, cioè l’impiego di più tarmaci in associazione. Poi fu introdotta la terapia ormonale e, successivamente, le molecole biologiche e gli anticorpi monoclonali che rappresentano una terza rivoluzione terapeutica. A Chicago sono stati presentati i risultati di molti studi condotti in centinaia di centri specialistici. Si stima che nel solo 2005 sono stati avviati 3300 studi clinici. Si studiano soprattutto alcune proteine risultate fondamentali per i passaggi del ciclo cellulare che porta alla duplicazione delle cellule tumorali. Lapatinib (molecola Gsk) primo farmaco somministrabile per bocca che inibisce gli enzimi tirossina-chinasici ha dimostrato la sua attività nel trattamento di prima linea dei tumori in fase avanzata o metastatici della mammella HER2-positivi, in combinazione con un classico chemioterapico antitumorale (pacli taxel). Ha inoltre evidenziato in uno studio presentato a Chicago di ridurre le dimensioni delle metastasi cerebrali.Procede la sperimentazione del vaccino terapeutico (Mage-A3) per il trattamento del tumore polmonare non a piccole cellule. Il vaccino punta ad aumentare le difese dell'organismo contro un antigene tumorale specifico. Sono stati presentati i risultati di un interessante studio italiano che ha dimostrato la possibilità di aggredire il melanoma in stadio avanzato che ogni anno uccide in Europa 40mila persone. Coordinato dai ricercatori di Sigma-Tau in 64 Centr europei ha impiegato la Timosina alfa1 ben tollerata in tutti i gruppi trattati. All'Asco è stato presentato anche il primo farmaco dimostratosi attivo sul tumore epatico, alla cui messa a punto hanno dato un contributo essenziale anche i ricercatori dell'Istituto Tumori di Milano, assieme a istituti oncologici di 22 altri Paesi. A Chicago numerosi oncologi del National Institutes of Health hanno sollevato il problema dell'accanimento terapeutico. I ricercatori dopo aver analizzato 8mila pazienti sottoposti a chemioterapia negli ultimi sei mesi di vita hanno accertato che oltre il 30% dei malati non rispondevano alle cure, quindi definite ingiustificate: Sembra inoltre che un quarto dei pazienti che viene curato con chemioterapia per tumore alla prostata non necessiterebbe di queste cure non trattandosi di forme letali. Sempre più oncologi si interrogano anche e sul fenomeno della sovradiagnosi: le moderne tecnologie diagnostiche non accertano se un tumore allo stadio iniziale progredirà verso forme letali. Nell'incertezza scatta il trattamento con costi sociali ed umani elevati. Un ul timo quesito: è corretto somministare farmaci chemioterapici, con effetti collaterali, a pazienti per far crescere non in tutti la sopravvivenza da 8 a 12 mesi? ___________________________________________________________ Libero 5 Giug. ‘07 IL TABACCO? `MILLE VOLTE PIÙ RADIOATTIVO DI CHERNOBYL ROBERTO MAN20CC0 Fumare potrebbe essere più pericoloso che andare a vivere a Chernobyl. È il risultato piuttosto inquietante della ricerca di un gruppo di studiosi greci. In particolare Constantin Papastefanou e i suoi colleghi dell'Università "Aristotele" di Salonìcco hanno rilevato che le radiazioni provenienti dal polonio e dal radio contenuti naturalmente nelle foglie di tabacco sarebbero circa un migliaio di volte più intense di quelle provenienti dal cesio-1.37 presente nelle foglie delle piante che crescono nell'area attorno alla ex centrale nucleare sovietica. Quello della radioattività del tabacco è un fenomeno noto già a partire dagli anni Sessanta; tra i suoi radionuclidi (cioè i tipi di atomo radioattivo) il più nocivo per la salute umana è sicuramente il polonio-210 (cioè lo stesso elemento chimico utilizzato per uccidere l'ex-spia del Kgb Aleksander Litvinenko), noto per il fatto che emette radiazioni di tipo alfa (piuttosto dannose per i tessuti viventi) e che può volatilizzarsi in seguito alla combustione delle sigarette che lo contengono, finendo così per essere aspirato dai fumatori. Sebbene non vi siano ancora dati certi in merito, alcuni ricercatori giudicano che la responsabilità dei tumori causati dal fumo vada attribuita non alla nicotina, ma ai radionuclidi contenuti nel tabacco. Papastefanou e colleghi hanno misurato il livello di radioattività presente nelle foglie di tabacco coltivate in : diverse aree della Grecia e hanno calcolato il quantitativo di emissioni radioattive assorbite quotidianamente da un forte fumatore (cioè una persona che fuma almeno venti trenta sigarette al giorno). Risultato: la dose di - radiazioni inalate ogni anno dai fumatori ammonta a circa 251 microsievert (l'unità di misura delle radiazioni ionizzanti), da comparare al tasso di radioattività proveniente da un quantitativo analogo di foglie dell'area di Chernobyl, il quale ammonta a 0,199 microsievert. Sebbene i radionuclidi assorbiti attraverso il fumo rappresentino solo il dieci per cento della quantità totale di radiazioni che riceviamo normalmente da altre fonti naturali, secondo Papastefanou essi aumentano comunque il rischio di contrarre neoplasie. ___________________________________________________________ MF 6 Giug. ‘07 VISITE A DISTANZA, MA AFFIDABILI Testato su 50 pazienti uno stetoscopio elettronico collegato a un videofanino Così la telemedicina viaggia dalla Nasa all'ospedale DI SARA BERNARDI Uno strumento innovativo in 1 grado di monitorare la salute dei pazienti vittime di un infarto anche a distanza. È questa una delle novità che verranno presentate domani a MilanoCheckUp e che promettono di venire incontro alle esigenze dei pazienti malati di cuore. TeleStethPhone è uno stetoscopio elettronico collegato a uno speciale videofonino che permetterà ai medici di controllare a distanza la condizione clinica dei pazienti. Lo strumento è stato testato nel 2006 dall'Istituto scientifico San Raffaele di Milano e i risultati sono stati pubblicati sulla rivista Journal of cardiac failure. La ricerca è stata condotta su 50 pazienti, di cui 37 maschi e 13 femmine di età compresa tra 41 e 93 anni, tutti vittime di infarto e quindi costretti ad affrontare numerose visite di controllo. I1 test è durato otto giorni ed è stato eseguito all'interno dell'ospedale milanese. I pazienti sono stati ospitati in una sala diversa da quella dei medici e hanno beneficiato dell'assistenza di un'infermiera. Lo stetoscopio è stato posto sul petto e il malato si è collegato attraverso internet con il proprio dottore. Da remoto è stata eseguita una visita i cui risultati sono stati poi confrontati con quelli ottenuti grazie a un esame tradizionale svolto da un altro dottore. In oltre il 90% dei casi i risultati sono stati concordanti. Alberto Margonato, primario di cardiologia dell'Istituto scientifico San Raffaele, commenta: «La telecardiologia rappresenta una valida soluzione alla carenza di posti letto per i pazienti acuti e si presenta come una comoda possibilità di monitoraggio a distanza dei malati cronici con scompenso cardiaco. La sperimentazione è stata condotta su questi ultimi pazienti e ha permesso di effettuare in modo preciso visite accurate a cuore e polmoni». La resistenza maggiore a una capillare diffusione di strumenti come questo è legata alla scarsa presenza di internet nelle case degli anziani. «I costi, ancora elevati e pari a circa 1.500 euro, sono destinati a ridursi rapidamente», conclude Margonato, «e i benefici, anche per il paziente, sono numerosi. Dopo un breve training, infatti, il malato è in grado di sottoporsi alla visita virtuale assistito solamente da un familiare». II teleconsulto a distanza è oggetto di un'altra serie di appuntamenti nei padiglioni della fiera. Domani pomeriggio, infatti, verrà effettuato un collegamento con Scott Dulchavsky, il responsabile di biomedicina e telemedicìna della Nasa e direttore del Traumacenter di New York che farà una dimostrazione sull'importanza della valutazione e del monitoraggio a distanza dei problemi clinici di un astronauta. Dalla navicella spaziale si passa all'ospedale, I'8 giugno verrà effettuato un col legamento con la sala operatoria del Niguarda dove è prevìsta un'operazione chirurgica. Il medico in sala operatoria chiederà un consulto a un'équipe di colleghi presenti allo stand di Winfocus (World interactive network focused on critical ultraSound) in Fiera. Questo esperimento vuole dimostrare come un teleconsulto d'urgenza possa diventare prassi quotidiana con le tecnologie a disposizione oggi e permetta di risparmiare tempo e salvare vite anche in situazioni di primo soccorso. Infine la tecnologia entra anche in una casa di cura. A Trento, infatti, è stata costruita Villa Maria, progettata dal Centro universitario edifici intelligenti dell'Università degli studi di Trento con la supervisione del Pio Albergo Trìvulzio di Milano. Si tratta di una sorta di casa intelligente dove sono stati installati diversi dispositivi in grado di mettere in comunicazione l'abitazione con un centro di ascolto ospedaliero. Grazie alla domotica vengono segnalate all'anziano situazioni pericolose e fornite tutte le attrezzature adeguate per proseguire le proprie cure riabilitative. ___________________________________________________________ TST tutto Scienze e tecnologia 3 Giug. ‘07 DNA, DOPPIA ELICA DELLA VITA con EDOARDO BONCINELLI CARLOGRANDE Dna, doppia elica della vita. La scoperta che cambiò la biologia» è il tema della serata che lunedì, al Centro Congressi dell'Unione Industriale di Torino, ha avuto come protagonista Edoardo Boncinelli, docente dell'Università Vita e Salute di Milano. La conferenza i in collaborazione con la Facoltà di Scienze MFN dell'Università e Tuttoscienze, è la penultima del cielo «Le 18 rivoluzioni della scienza che ci hanno cambiato la vita», serie di incontri sponsorizzati dalla Fondazione CRT. Professor Boncinelli, com'è stato scoperto il Dna? «Lo scoprirono nel 1953 Vatson e Crick. Gia nella prima metà del secolo scorso si era capito che i caratteri biologici erano ereditati sulla base di entità elementari, i geni Nessuno però aveva mai visto un gene e non sapevamo nemmeno immaginare di che cosa potesse essere fatto. Improvvisamente il mistero è stato chiarito: il gene è fatto (E Dna ed è costituito da una coppia di filamenti, composti da caratteri, quattro, che chiamiamo Aget. Il messaggio geneticci consiste è un testo è neare costituito dalla successione di certo numero di questi caratteri. Dopo la rivelazione della «doppia elica» ci sono altre impor- tanti scoperte in vista? «Stiamo cercando di imparare a leggere i "testP che siamo riusciti a mettere insieme negli ultimi 15 anni. La mappatura è ormai completa, ma un conto è mappare e un altro sapere che cosa fanno singoli geni. In questo tipo di ricerca siamo ancora lontani dalla soluzione. Non possiamo nemmeno dire a che punto siamo, perché non sappiamo dove arriveremo. Ovvero, nel Ima ci può essere scritto di tutto: possiamo essere all'1% della "decifrazione", come all'1 per mille». Grazie a lei, intanto, abbiamo scoperto i «geni architetto»: di che cosa A Eco? «Occupandomi dello sviluppo embrionale, nell'85-86 ho trovato un certo numero di geni che chiamai cosi, perché stabiliscono dove va la testa, dove H torace, dove l'addome, dove le braccia e le _gambe in tutti gli organismi superiori, dalle meduse in su. Questi geni gestiscono il codice della "mappa della casa insomma. Una scoperta molto importante, a cui adesso lavorano in tanti, ma non tutto è stato ancora chiarito». Che cosa resta da scoprire? «Moltissimo. La domanda che arie aperta, il problema principale che da 20 anni ci rigiriamo tra le mani, è spiegare perché questi geni stanno in fila negli organismi, e perché si accendono in successione. Ci sono tante ipotesi, ma al momento nessuna vincente». ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 7 Giug. ‘07 FARMACI COLLABORATIVI DI FRANCESCA CERATI Dalla ricerca al farmaco. Il percorso per arrivare a una terapia - si sa -è lungo e dispendioso. Ma cosa accade se ad arrivare vicino al traguardo non e un'azienda farmaceutica, ma un ente non-profit? La risposta al momento non è possibile darla, non certo per cattiva volontà da parte delle autorità regolatorie, ma semplicemente per il fatto che il caso è anomalo e come tale non è previsto. Non solo in Italia, ma anche negli altri Paesi europei. A porre la questione e aprire un tavolo costruttivo di confronto con istituzioni e imprese farmaceutiche è Telethon, nella figura di Francesca Pasinelli, direttore scientifico dell'ente non-profit. L'occasione buona per aprire il dialogo è avvenuta ieri a Roma, nella sede di Confindustria, dove alla presenza di Susanna Agnelli, presidente della Fondazione Telethon, è avvenuta la premiazione delle «Imprese socialmente indispensabili». «La volontà di avviare una triangolazione tra Farmindustria, che tradizionalmente ha la competenza di sviluppare farmaci, lo Stato, che ha già dimostrato di avere una grande sensibilità nei confronti delle malattie rare con la costruzione di un database e facilitando i progetti di ricerca, e un'organizzazione come Telethon che, su mandato delle associazioni di pazienti e della stessa società civile, si impegna a fare ricerca solo ed esclusivamente per arrivare a una terapia, è quella di arrivare a un protocollo d'intesa» esordisce Pasinelli. E nasce da una premessa: «Telethon -continua -è un'associazione voluta e fondata da pazienti che soffrono di malattie rare, per cui noi viviamo raccogliendo fondi con la promessa di produrre terapie. Con grandi sforzi, a questo livello ci siamo arrivati, per esempio per la cura della Ada- Scid (una grave ìmmunodeficienza, ndr), per la quale stiamo iniziando l 'iter di registrazione, cioè il riconoscimento che le autorità regolatorie conferiscono a una terapia. Per altre malattie, invece, per le quali abbiamo finanziato la ricerca, incominciamo a interrogarci sulle procedure di autorizzazione per l’avvio di studi clinici. E qui iniziano gli impedimenti. Sia di tipo giuridico - l’iter è costruito sul profilo dell'azienda farmaceutica e non delle charities - sia economici: il passaggio dalla prima prova di efficacia al rendere la terapia fruibile è una fase di sviluppo estremamente onerosa che gli enti non profit non si possono permettere». Non solo. Esistono in questo campo dei costi assicurativi pesantissimi «che noi su ampia scala faremmo fatica a sostenere». Senza contare che anche quando un farmaco è in commercio c'è l'obbligo di monitorare gli effetti collaterali (la cosiddetta fase 4), procedura anch'essa molto costosa. Ma il problema non riguarda solo la registrazione di nuove molecole. Ci sono casi in cui una medicina già in commercio per la cura di una certa malattia si dimostra efficace anche per il trattamento di una patologia rara. In questo caso si tratta "solo" di aggiungere un'altra indicazione a un prodotto già registrato in modo che il paziente possa accedervi con rimborso o gratuitamente. «In questo caso ci troviamo di fronte a una lacuna normativa -spiega Pasinelli -. Quanto lo studio spontaneo di un ricercatore con l'autorizzazione di un comitato etico può essere utilizzato a livello regolatorio per aggiungere la registrazione? Per evitare che gli sforzi delle nostre ricerche non siano vane, questo è un passaggio chiave che va definito». Insomma, sole associazioni non-profit hanno vincoli economici e giuridici non possono mantenere le promesse e tradirebbero la loro stessa mission. E per sciogliere i nodi della questione, Pasinelli avanza alcune proposte, che andrebbero a vantaggio di tutti. Come per esempio quello di creare un fondo statale per coprire i costi della fase di sviluppo, di registrazione e di monitoraggio di un farmaco per malattie rare, un pacchetto assicurativo a cui accedere facilmente, un accordo con le aziende farmaceutiche sulla base del know-how per la produzione a prezzi di costo in cambio di sgravi fiscali. E il ministero della Salute potrebbe farsi portavoce a livello europeo di questa iniziativa che, di fatto, nessuno ha ancora affrontato, se non negli Stati Uniti dove esistono incentivi allo sviluppo di farmaci per malattie orfane, ma sempre all'interno di un modello industriale. Favorevole a raccogliere la sfida e disponibile a offrire il loro contributo affinché si arrivi a una soluzione è anche Farmindustria, l'associazione che raggruppa le imprese del settore farmaceutico. «Il nostro Sistema sanitario nazionale per quel che riguarda fruibilità e costi è tra i primi al mondo - dice Sergio Dompè, presidente Farmindustria -. Questo lo dobbiamo coniugare con un volano sulle eccellenze, e lavorare su queste facendo in modo che si trasformino in valorizzazioni economiche, sviluppo di farmaci nuovi e in grandi elementi di solidarietà. In questo Telethon è un esempio davvero encomiabile: attraverso un metodo consolidato di peer review e di qualificazione assoluta del lavoro che svolge, contribuisce in maniera eccellente al sistema stimolando la ricerca e avviando sperimentazioni cliniche. A, questo punto, però, manca un tassello importante: quando si arriva a testare favorevolmente queste tesi è interesse di tutti, industria compresa, che questi prodotti vengano commercializzati realmente. Ma c'è un problema, non indifferente, legato alle economicità che sono marginali o addirittura inesistenti. Penso allora che l'industria farmaceutica debba fare la sua parte e facilitare dove è possibile la fluibilità di questi prodotti. Il nostro Paese, per esempio, non ha ancora attivato il sistema degli incentivi per i farmaci orfani, questa noi la vediamo come una grande opportunità per tutti». Una chance per l'Italia di mettere insieme la buona scienza, l'interesse dei pazienti e la valorizzazione del lavoro. o _________________________________________________________________ Repubblica 24 mag. ’07 IL SESSO FA BENE AL CUORE, E ANCHE AL MAL DI TESTA Altro che palestra, corsetta nel parco cittadino o tapis roulant tra le mura domestiche. Questa volta la lotta alla vita sedentaria passa per qualcosa di più piacevole: 30 minuti di sesso al giorno per mettere il cuore al riparo dall'infarto. È questo lo spot della campagna pubblicitaria promossa recentemente dalla British Heart Foundation che, in poster ironici e provocatori, ha voluto mostrare come anche semplici attività quotidiane, oltre naturalmente a quella sessuale, tipo lavare l'auto, fare giardinaggio o portare a spasso il cane, se praticate con costanza, almeno 30 minuti al giorno, possano aiutare a prevenire le malattie cardiovascolari. Insomma, basta muoversi ma se il movimento avviene facendo sesso è ancora meglio. "L'allegro annuncio pubblicitario che abbiamo ideato, spiega Ian Fannon, ideatore del progetto insieme ad Angela Rippon e Michael Palin, fra tutti i modi possibili per essere attivi e rimanere in forma, riducendo così i rischi per il cuore, è sicuramente quello che ha avuto più successo". Dunque l'obiettivo primario della campagna pubblicitaria è quello di scoraggiare la sedentarietà e mettere al riparo il cuore da acciacchi e malattie, visto che proprio l'inattività è responsabile di quasi il 20% dei problemi di cuore nella sola Inghilterra, con almeno 35 mila morti all'anno. Ma nessuno può negare che facendo sesso, oltre a muoversi, aumenta l'autostima, il tono dell'umore e quindi il benessere personale. E non è nemmeno la prima volta che l'attività sessuale venga affiancata a benefici per la salute. L'attività sessuale nelle donne stimola il rilascio di un ormone chiamato ossitocina, responsabile del miglioramento del tono dell'umore e della diminuzione dello stress accumulato durante la giornata. Inoltre fare sesso, grazie sempre all'ossitocina, diminuisce il dolore, e addirittura il mal di testa tenderebbe a scomparire quando vengono raggiunti i valori ottimali nel sangue. Insomma, in caso di rifiuto di uno dei due partner, anche alla classica scusa "...ho mal di testa", potrebbe esserci un rimedio. Negli uomini invece sono stati riscontrati effetti benefici come il rinforzamento di ossa, muscoli e del sistema immunitario, proprio perché l'attività sessuale sarebbe accompagnata da una aumentata produzione di testosterone. Ma data la natura del suggerimento gli ideatori della campagna precisano che i trenta minuti non devono necessariamente essere tutti di fila: si possono benissimo "spezzare" in diverse sessioni, a seconda della resistenza o della "velocità di esecuzione" e che per qualsiasi attività fisica, anche quella sessuale bisogna comunque consultare il proprio medico, ricordandosi che, in caso di dolore sospetto al petto e/o al braccio e mano sn, potremo essere in presenza di un principio di infarto. (a. f. d. r.) _________________________________________________________________ Repubblica 24 mag. ’07 LO SPRAY PER L'EREZIONE VELOCE Completati i primi studi sulla molecola Vr004. Effetto in 2 minuti. Sperimentato su 600 uomini di Aldo Franco de Rose * Si chiama Vr004 la nuova molecola che, assorbita dai polmoni mediante uno spray, passa nel circolo ematico provocando l'erezione in poco meno di 2 minuti. Ma l'effetto non si esplicherebbe direttamente sui corpi cavernosi, come avviene con gli inibitori delle fosfodiesterasi 5 (Cialis, Levitra e Viagra), bensì a livello cerebrale. Dall'ipotalamo, dove risiede il centro dell'erezione, D2, in risposta ad uno stimolo erotico, la molecola VR004 attiva un pathway dopaminergico, dando luogo ad una stimolazione nervosa che, a livello penieno, si traduce con la liberazione di ossido nitrico. Questo induce le arterie e la muscolatura liscia a rilassarsi, con conseguente incremento del flusso di sangue nei corpi cavernosi del pene, favorendo l'erezione. Il principio attivo di VR004, che è una polvere inalatoria, è l'apomorfina cloridrata. Questa molecola, qualche anno addietro, era stata già approvata in Europa per il trattamento della disfunzione erettile come compresse sublinguale al dosaggio di 2 e 3 mg. Ma la molecola commercializzata come Ixense, Taluvian, Uprima, ebbe poco fortuna in quanto risultò scarsamente efficace e anche molto ad di sotto di quel 45% che gli studi clinici avevano prospettato. In questo caso l'insuccesso fu attribuito al basso dosaggio, 2-3 mg appunto. D'altra parte, per dosaggi superiori, 4-5 mg, erano presenti effetti collaterali importanti come nausea, vomito e capogiri. L'apomorfina in spray avrà effetti migliori? Sembrerebbe di sì. VR004 è un prodotto della società biotecnologica Britannica Vectura che ha annunciato di aver completato con successo i trials clinici di Phase IIb. VR004 è già stato testato su 600 uomini e, secondo quanto riferito, l'83% ha riscontrato un miglioramento delle performance sessuali. Sicuramente bisognerà attendere la fine della fase tre degli studi e quindi il confronto con il placebo per valutare la sua reale efficacia. * Andrologo e Urologo, Osp. San Martino Genova _________________________________________________________________ Repubblica 7 Giu. ’07 DENTI E VISO, L'INTEGRAZIONE CON L'ESTETICA di Ezio Costa * Integrazione delle tecniche di medicina estetica e di odontoiatria nella riabilitazione estetica del viso e del sorriso è la nuova frontiera per il paziente odontoiatrico. Si tratta di interventi non invasivi nella regione periorale che vanno a completare il lavoro del dentista. Una tendenza che arriva da una richiesta dei pazienti stessi, con l'obiettivo del raggiungimento della massima armonia del risultato nell'estetica del sorriso e del viso in generale, dopo interventi di riabilitazione dentale come impianti, chirurgia gengivale e ricopertura d molti denti con ceramiche. La moderna odontoiatria è anche odontoiatria estetica che si integra armonicamente con l'estetica del viso e del sorriso. L'odontoiatra fino a ieri poteva intervenire sull'estetica del sorriso con terapie che riguardavano soprattutto i denti. Ora può integrare il suo lavoro con tecniche di medicina estetica per avere risultati fin qui inaspettati. Tra le nuove tendenze degli interventi dentali di estetica sicuramente da citare lo sbiancamento dentale. Da preferire materiali e metodi non aggressivi per non rovinare lo smalto e/o produrre sensibilità. Ne esistono di sicuri e dal risultato assolutamente naturale (sbiancanti a bassa concentrazione attivati con luce fredda o con laser). Molto richiesto il riallineamento dei denti utilizzando placchette trasparenti/invisibili da sostiuire ogni due mesi circa, fino al raggiungimento della posizione programmata. Ancora, ricostruire le vecchie otturazioni metalliche con nuovi materiali compositi estetici e resistenti, che restituiscono al dente il suo aspetto naturale. Nelle regioni anteriori si interviene sulla superficie dentale con ricoperture parziali (faccette o veenering) in materiale ceramico molto sottile (preparando quindi pochissimo il dente) anche se resistente ed estetico. Faccette e ricoperture totali in ceramica possono così ridare forma e luminosità ai denti dell'area del sorriso. L'innovazione, oltre che nei materiali, sta nella costruzione eseguita con tecniche CAD- CAM, guidate dal computer, molto precise, che riducono i tempi di lavoro e gli appuntamenti. Il computer ormai ci aiuta e guida nella sostituzione dei denti con impianti, avendo la possibilità di collegare da subito i "nuovi denti" e riabilitando subito la funzione (trattamento "Teeth in an hour"). Già nella fase diagnostica e di pianificazione del trattamento con il paziente diventa importante l'integrazione con la medicina estetica. Medicina estetica che è soprattutto comprensione delle problematiche e delle aspettative estetiche del paziente, condivisione di un percorso terapeutico e di mantenimento dei risultati oltre che comportamentale. Per esempio sulla cornice del "quadro dentale" si può intervenire con peeling per migliorare l'aspetto superficiale della pelle (texture) o togliere le macchie; con biorivitalizzazione (una sorta di nutrimento della cute con sostanze stimolanti la produzione di collagene e nuove fibre elastiche); con filler per restituire volume a labbra, zigomi, pieghe naso. Tutte le tecniche non sono invasive e danno risultati naturali e mantenibili nel tempo attraverso richiami periodici. Non si tratta di diventare i "venditori" di un bello uniforme e costruito, ma essere a conoscenza di molte possibilità terapeutiche da personalizzare su ogni singolo paziente. Impianta il sorriso A Las Vegas, alla Conferenza mondiale sulla osteointegrazione, presentati nuovi materiali per le protesi dentarie, tecniche chirurgiche e ricerche di Massimo Simion * Alla Conferenza di Las Vegas, sono stati presentati nuovi materiali, come l'allumina e lo zirconio, che possono essere utilizzati per la costruzione di ponti e corone dentarie interamente in ceramica al posto delle tradizionali fusioni in lega aurea. Il vantaggio di allumina e zirconio rispetto all'oro sono la loro traslucenza ed il colore simile a quello della dentina e dello smalto naturali. I manufatti così eseguiti appaiono più naturali e consentono risultati estetici molto soddisfacenti. La costuzione, interamente in ceramica, viene eseguita tramite avanzate tecniche Cad-Cam in cui le impronte ed i modelli preparati dal dentista vengono analizzati da uno scanner per la preparazione del dente in ceramica definitivo. Nel campo dell'implantologia, la tendenza attuale prevede la semplificazione di tutte le tecniche chirurgiche in modo tale da ridurre l'invasività della terapia per il paziente ed allo stesso tempo ridurre il tempo totale necessario per la cura. La semplificazione permette anche di estendere l'utilizzo delle tecniche implantari più elementari ad odontoiatri generici. La semplificazione tuttavia non è scevra da rischi; per questo è necesssaria un'attività didattica seria ed intensa. Una delle innovazioni maggiori è la pianficazione pre-chirurgica computerizzata che consente, tramite un software sofisticato, di ricostruire l'immagine virtuale dei mascellari a partire dalla Tomografia assiale computerizzata (Tac). Grazie a questo software è possibile predeterminare la corretta posizione degli impianti a seconda delle caratteristiche anatomiche dei mascellari e della successive riabilitazione protesica. Il software consente, inoltre, di costruire una guida chirurgica molto precisa per il posizionamento degli impianti al momento dell' atto chirurgico senza la necessità di sollevare lembi mucosi, quindi senza la necessità di incidere i tessuti: minorl trauma e migliore decorso post-operatorio. Mediante la pianificazione computerizzata è, inoltre, possibile costruire in anticipo la protesi provvisoria che può essere inserita immediatamente dopo l'atto chirurgico. Questa tecnica affascinante tuttavia non deve essere applicata con superficialità in quanto è destinata, di massima, al trattamento di pazienti totalmente senza denti con una quantità sufficiente di osso alveolare disponibile per l'alloggiamento degli impianti. Pena anche il fallimento della terapia. Un altro argomento di grande attualità è quello dei fattori di crescita per la rigenerazione ossea. Si tratta di proteine naturali deputate a stimolare le cellule osteogeniche rendendole più attive e quindi più rapide nella loro attività di rigenerare l'osso. Tra quelle disponibili in un prossimo futuro sono la proteina morfogenetica dell'osso (BMP2) ed il fattore di crescità di derivazione piastrinica (PDGF). Così si ridurrà al minimo la necessità di prelievi di osso dal paziente e sarà possible utilizzare tecniche rigenerative più semplici, più efficaci e meno invasive. Nell'arco di un anno saranno disponibili a livello clinico. _________________________________________________________________ Repubblica 7 Giu. ’07 GENGIVE MALATE CUORE A RISCHIO L'INFIAMMAZIONE altera la funzione vascolare. L'ipotesi nasce da dati epidemiologici che indicano un legame tra parodontite e malattia cardiovascolare. La conferma arriva da una ricerca sul New England Journal of Medicine (firmata da Tonetti ed altri) su 120 pazienti con grave parodontite. La metà di questi è stata curata e la metà no. La misura della funzione endoteliale (valutazione dell'arteria brachiale durante il flusso), i biomarker di infiammazione ed i marker di coagulazione e l'attivazione endoteliale sono stati valutati prima del trattamento e 1, 7, 30, 60 e 180 giorni dopo. Un netto miglioramento della funzione endoteliale si è riscontrata in tutti i soggetti con parodontite curata e in tutte le date di osservazione.