ITALIA IN RITARDO, MA RICCA DI CERVELLI - LAUREA TRIENNALE LA MAGGIORANZA CONTINUA GLI STUDI - QUEI CORSI COSÌ DISTANTI DAL MONDO DEL LAVORO - FACOLTÀ SCIENTIFICHE? LE SCELGONO I MENO ABBIENTI - IMPRESSIONI POST LAUREA DEI GIOVANI SARDI - DIDATTICA DI QUALITÀ PER STUDENTI MIGLIORI - SCUOLA, SI IMPARA PIÙ AL NORD CHE AL SUD - UN MALE 0CURO CHIAMATO ORIENTAMENTO - ODIFREDDI: C’È LA LOGICA DIETRO LO SPIRITO - MI CHIAMO BLUE GENE RISOLVO PROBLEMI - COMPUTER:IL QUANTO DELL'INFORMAZIONE - I SOLDI PER L'UNIVERSITÀ? PRODI LI DÀ ALLE BANCHE - L’ENI: PER INQUINARE MENO NIENTE CRAVATTA IN UFFICIO - MA QUANTI EQUIVOCI SULLA LINGUA PERDUTA - ======================================================== 250 BORSE DI STUDIO AI MEDICI - SERVIZIO SANITARIO, RICOSTRUZIONE IN 15 MATTONI - ASL8: CENTO MILIONI DI PERDITE IN MENO - GIANNI CHERCHI DIRETTORE GENERALE DELL'AZIENDA MISTA SASSARESE - È GIOVANNI MELE IL NUOVO MANAGER DELLA ASL DI SASSARI - F.MELONI: UNA ASL E TANTE AZIENDE OSPEDALIERE - IL GENOMA UMANO CONTINUA A CAMBIARE - DAMASIO: COSÌ IL NOSTRO CERVELLO DIVENTA AMORALE - DISTRIBUZIONE DIRETTA CON POCHI RISPARMI - FARMACI, PREZZI A DUE VELOCITÀ - ALLA SCOPERTA DELLA MEDICINA DEI PIGMEI - PRESTO I NUOVI EMBRIONI CHIMERA - RADIOLOGIA: LA TORRE CHE CONTROLLA OSPEDALI NEL MONDO - SONNELLINO POMERIDIANO? AI BIMBI FA MALE - QUANDO LA MEDICINA IMPARA DA DARWIN - CALANO LE NASCITE, PIÙ ABORTI CON LA LEGGE SULLA FECONDAZIONE - MARCO GASPAROTTI, CHIRURGO E CONFESSORE - ARRIVA LA PILLOLA DELL'AMNESIA: CANCELLA I BRUTTI RICORDI - NELLE STAMINALI UNA SPERANZA PER I CALVI - ======================================================== _________________________________________________________________ Repubblica 3 Lug. ‘07 ITALIA IN RITARDO, MA RICCA DI CERVELLI Aumenta la forbice tra arretratezza tecnologica e creatività dei singoli Un problema tipicamente nazionale, che ci confina in una situazione di stallo Censis: le oligarchie affossano l'innovazione De Rita: "Nulla si muove senza il controllo della politica" di GAIA GIULIANI ROMA - L'oligarchia non fa bene alla comunicazione, almeno in Italia. Secondo una ricerca del Censis, il ritardo del nostro paese nei riguardi delle reti telematiche - per cui intendiamo le tecnologie che permettono il cammino delle informazioni sia dal punto di vista infrastrutturale come le reti telefoniche, che contenutistico, ovvero internet e i media - invece di diminuire cercando di allinearsi agli standard europei, è in fase di accelerazione. Motivo: le oligarchie di potere, pubblico o privato, che detengono o amministrano oligopoli che tendono a soffocare le cosiddette "moltitudini", ovvero i soggetti minori della realtà telematica, spesso più creativi e portatori di innovazione rispetto ai colossi che occupano posizioni dominanti, impedendogli sia di strutturare una minoranza - che anche nella sua marginalità potrebbe contare sulla compattezza di uno status - che di essere assorbite all'interno della macchina più grande dell'oligopolio portando nuova linfa vitale. In breve: l'oligarchia degli oligopoli in Italia, ed è bene sottolineare il contesto nazionale, tende a schiacciare il soggetto che ne è al di fuori. Spiega Giuseppe De Rita, presidente del Censis, "Manca un tessuto connettivo, un software di connessione, tra queste due realtà che così rimangono isolate danneggiando soprattutto il cammino dell'innovazione. E infatti, analizzando le cifre, si scopre che l'andamento di arretratezza e sviluppo delle moltitudini è inversamente proporzionale, segue cioè un doppio binario perché - aggiunge De Rita - queste ultime sono in crescita esponenziale". Qualche esempio: nella diffusione delle reti civiche, che in Italia si sono basate essenzialmente sull'iniziativa di singoli o di estranei alla Pubblica amministrazione, nel 1996 i comuni capoluogo online erano il 30%, nel 1999 il 63% e nel 2002 la telematica è stata adottata dal 100% dei comuni capoluogo. Oggi anche dall'86% dei comuni non capoluogo. E anche per quanto riguarda lo sviluppo di soluzioni open source, già nel 2002 la comunità italiana era, per numerosità, la quarta a livello mondiale subito dopo la Francia, la Germania e gli Stati Uniti. Nell'universo dei blog poi, secondo l'ultima indagine in materia di Technorati che risale all'aprile scorso, salta fuori che l'italiano è la quarta lingua parlata a livello mondiale all'interno della blogosfera, a grande distanza naturalmente da inglese e cinese, ma decisamente più diffusa di spagnolo, russo, francese e tedesco. Anche per quanto concerne i media troviamo grandi concentrazioni, sia televisive - si pensi alla recente acquisizione di Endemol da parte di Mediaset - che di grandi gruppi editoriali con hanno minore o nessuna visibilità televisiva ma che comunque formano grosse concentrazioni. Ciò nonostante, la freepress è in crescita: dalle 4 testate del 2004, si è passati a 19, e in crescita sono anche i numeri delle testate online e dei periodici. Perché dunque questa scarsezza di risultati, perché non puntare su quelle realtà che, esempi alla mano, più che potenzialità sono già dati di fatto? Secondo De Rita e la ricerca Censis (realizzata dal responsabile del settore Sviluppo Tecnologico Gianni Dominici) "la presenza di oligopoli, è uno dei fattori, a cui va aggiunto però l'elemento nazionale che tende a riprodurre i vizi italici nella modernità telematica. Ovvero, in parole più semplici, nulla si può muovere senza il controllo della politica, delle gare, delle oligarchie". E fa l'esempio del progetto Socrate di cui quest'anno ricorre il decimo anniversario. Ideato dall'allora monopolista, e pubblica, Telecom prevedeva di portare la banda larga a 1,7 milioni di famiglie entro il 1997. Costato 1500 miliardi di euro, è naufragato in pochi anni. "E si potrebbe andare avanti elencando il fallimento della gara per l'Umts - continua De Rita - a cui in primis sono stati ammessi soggetti che risultavano graditi, e che poi si è risolta con un guadagno considerevole per le casse dello stato ma un nulla di fatto a livello tecnologico. E che dire del piano dell'ex consigliere di Prodi Angelo Rovati che voleva custodire in mani pubbliche la rete telefonica italiana?". Dalla ricerca Censis insomma salta fuori una logica di protezionismo e chiusura per quanto riguarda la politica, ma anche di scarso interesse al progresso tecnologico da parte di un'industria interessata più al lato finanziario, magari di un temporaneo rialzo in borsa, che a quello dell'innovazione. L'insistere sulla connotazione nazionale all'interno del "blocco" operato dalla concentrazione dei poteri è essenziale. Perché non tutti gli oligopoli, specialmente in ambito informatico, sono italiani e basta pensare a colossi come Microsoft, Dell, Google o Yahoo. Eppure la situazione all'estero è diversa. Microsoft ha reso le sue tecnologie compatibili con Linux, il sistema operativo open source che da qualche tempo viene proposto anche dalla Dell in alternativa a Windows (la stessa azienda ha poi deciso di non mettere più di serie il sistema Vista della Microsoft a causa delle lamentele degli acquirenti). E come non citare casi notissimi come quelli di Flickr acquistato da Yahoo - che così ha anche cannibalizzato la sua sezione relativa allo scambio fotografico - o YouTube da Google: idee venute dal basso delle moltitudini che si sono integrate nel mainstream. Migliorandolo, ampliandone le possibilità, continuando ad esistere. Esperienze che contrastano anche solo con la quotidianità italiana in cui il direttore del Censis Giuseppe Roma lamenta di esser stato costretto a stipulare due diversi abbonamenti per la rete internet. Aveva Alice, ma con il suo nuovo computer Apple non c'è stato niente da fare: incompatibili. E così è arrivato un nuovo abbonamento. Un incidente che il gestore poteva evitare facilmente, ma così non è stato. E restando in tema di reti telefoniche, salta fuori che il 70% del mercato concernente la banda larga in Italia è detenuto da aziende monopoliste o ex monopoliste. Una fetta molto vicina a quella della Cina. In tempi recenti anche a quella della Germania che però, nell'arco di pochi anni, è passata dal 90% al 51. Insomma, un caso come quello della Nokia, passata dal legname alla tecnologia informatica di livello mondiale - e sponsorizzatrice a sua volta di piccole industrie destinate a crescere - sembra assai lontano dalla realtà italiana. Alle cui oligarchie e oligopoli manca, per tornare alle valutazioni del Censis, la visione e l'interesse per il lungo periodo. ________________________________________________________ La Repubblica 3 lug. ’07 LAUREA TRIENNALE LA MAGGIORANZA CONTINUA GLI STUDI Le imprese puntano sui giovani che hanno maggiori competenze specifiche La scelta varia da facoltà a facoltà ma si fermano soprattutto coloro che trovano subito un lavoro MASSIMILIANO DI PACE Roma aurea specialistica sì o no? E' questo il quesito che moli giovani, freschi di laurea triennale, si pongono. La risposta non può però essere uguale per tutte le facoltà e tutte le università, come emerge dalle indicazioni di università e imprese. Per esempio, alla Luiss il 95% dei laureati triennali passa ai corsi di laurea magistrale, e questo, secondo il direttore generale Pier Luigi Celli, è dovuto al fatto che nell'immaginario collettivo solo quella magistrale (o specialistica) è considerata la vera laurea. «Inoltre-aggiunge Celliil biennio di specializzazione consente di orientarsi meglio verso il mondo del lavoro, essendo il corso triennale più teorico, senza contare che le imprese preferiscono partire da una competenza specialistica per evolvere poi verso capacità manageriali generaliste». All'Università La Sapienza il 70% dei laureati triennali prosegue gli studi, ma la situazione è differente da facoltà a facoltà, come spiega Piero Lucisano, prorettore responsabile per l'orientamento- «Vi sono corsi di laurea triennali, come quelli in campo infermieristico, che sono sufficienti per trovare una collocazione lavorativa, mentre in altre facoltà, come economia e scienze politiche, la laurea triennale può essere sufficiente solo per le prime esperienze di lavoro, ma una volta maturato un interesse specifico si torna spesso sui banchi dell'università per acquisire con la laurea specialistica le competenze desiderate». Anche all'Università di Bologna la percentuale dì studenti che continuano gli studi dopo la laurea triennale si aggira su una percentuale analoga (60-65%), ma secondo Guido Masetti, prorettore per la formazione, la scelta dipende anche da altri fattori: «La situazione economica propria e della famiglia, l'attitudine allo studio del giovane, che ha avuto modo di verìficarla nel triennio, contribuiscono a decidere per la continuazione o meno». La laurea specialistica consente, come sottolinea Guido Corbetta, prorettore della Bocconi, anche di diversificare le esperienze, sia di studio, sia di lavoro: «La possibilità di separare il percorso universitario in due momenti, laurea breve e specialistica, permette agli studenti di acquisire sia competenze diversificate, magari in paesi diversi, potendo prendere il secondo titolo in un ateneo estero, sia esperienze lavorative sviluppate fra un corso e l’ altro». Certo è che molte imprese negli ultimi tempi si stanno orientando verso i laureati specialistici, come dichiara Giancarlo Mattiuzzo, vicepresidente della Confapi: «In passato ì due terzi dei laureati assunti avevano la laurea breve, ed un terzo quella specialistica, mentre ormai i rapporti si sono invertiti. II motivo è che un laureato triennale viene pagato come uno che ha preso la laurea specialistica ma quest'ultimo presenta il vantaggio di avere in genere maggiori conoscenze applicate, sfruttabili sul posto di lavoro». In un certo senso è d'accordo Alberto Meomartini, presidente della commissione Università di Confindustria: «Per il momento la richiesta di laureati triennali è abbastanza limitata, sia perché le imprese all'inizio sono rimaste disorientate per la riforma universitaria, e poi per il fatto che la maggioranza dei laureati triennali ha preso la laurea specialistica, e quindi sono pochi quelli con il titolo breve. Sono convinto però che i laureati triennali in futuro saranno valorizzati dalle imprese, poiché la specializzazione verrà decisa insieme da lavoratore ed impresa». ________________________________________________________ La Repubblica 3 lug. ’07 QUEI CORSI COSÌ DISTANTI DAL MONDO DEL LAVORO LA SITUAZIONE dell'offerta formativa si è arricchita notevolmente negli ultimi anni, ma resta il problema che molte lauree non aiutano i giovani a trovare facilmente un'occupazione La quota di chi svolge un'attività sottodimensionata rispetto al suo curriculum studentesco é elevata non solo tra i laureati in materie umanistiche e sociali ma anche in discipline scientifiche e in ingegneria. Spesso il merito effettivo conta meno delle raccomandazioni CARLO ALBERTO PRATESI* Un noto esperto di formazione, Derek Bok (a lui è intestato il Center for teaching and learning di Harvard) ha detto: «Se pensate che l'istruzione sia costosa, provate con l'ignoranza». E' innegabile che tra i vari possibili investimenti, quello nella formazione abbia una maggiore valenza strategica, siaper il singolo studente (facile dimostrare che a più alti livelli di educazione corrispondono, nel medio-lungo periodo, migliori opportunità professionali), sia per il paese impegnato a confrontarsi con le proprie competenze sui mercati internazionali. Anche in Italia, infatti, dove la mobilità sociale è bassa (la quota di laureati tra i figli dei ceti medioalti è tripla rispetto al totale della popolazione), secondo l’Istat il possesso di un titolo di studio più elevato consente facilmente di collocarsi in una classe sociale superiore a quella dei genitori. La buona notizia è che negli ultimi anni l'offerta formativa italiana si è arricchita notevolmente (soprattutto a livello universitrio): purtroppo rimangano ancora notevoli contraddizioni che penalizzano il sistema. Da una recente indagine dei Censis - intitolata "Scuola, università e formazione sono ancora investimenti sociali? Cosa non ha funzionato nell'incontro fra domanda e offerta" - emerge che l'accesso ai corsi di formazione è ancora appannaggio di persone con titoli di studio medio-alti, e quindi finisce per incidere poco sulle classi sociali che più ne avrebbero bisogno. Si scopre anche che una buona parte dell'offerta universitaria è ancora incentrata su corsi di laurea non facilmente spendibili sul mercato del lavoro; e la stessa riforma universitaria del 3+2 viene percepita come insufficiente per ottenere un buon accesso al mercato del lavoro, prova ne è l'elevatissima percentuale di studenti che proseguono con la laurea magistrale e il recente boom dei master (sono circa 2.000 per oltre 38.000 posti). Se da un lato la percentuale di diplomati che proseguono gli studi è cresciuta oltre il 70%, gli abbandoni tra il primo e il secondo anno sono ancora superiori al 20%, e quasi un laureato su quattro tornando indietro dichiara che cambierebbe facoltà. L'insoddisfazione non riguarda tanto l'esperienza universitaria nel suo complesso, quanto le modeste opportunità occupazionali che spingono ad allungare i tempi di studio. Del resto la quota di coloro che svolgono un lavoro sottoinquadrato rispetto al proprio livello di studi è elevata, non solo tra i laureati in materie umanistiche e sociali (44%) ma anche in scienze economico-statistiche (48,8%), in discipline scientifiche (26,1%) e addirittura in ingegneria (25,3%). «Se esiste una evidente difficoltà a vedersi riconoscere i titoli acquisiti, è dovuto al fatto che il mercato del lavoro è ancora imperfetto, basato più su dinamiche relazionali (quando non clientelari) che sull'effettivo merito: un problema che, tra l'altro, comporta la fuga dall'Italia dei migliori talenti e la scarsa capacità del paese di attrarre giovani qualificati dall'estero - spiega Michele Costabile dell'Università della Calabria-Questo tuttavia non toglie nulla alla buona percezione del ruolo sociale del sistema universitario, provane è il successo che alcuni atenei hanno ottenuto con la raccolta di finanziamenti dai privati tramite il 5 per mille- nel nostro caso (a fronte di 31942 iscritti) siamo stati scelti da ben 6535 contribuenti». L'insoddisfazione e il fenomeno dell'abbandono degli studi non risparmia neanche le scuole superiori. La probabilità di conseguire il diploma per un liceale è del 85,6°l0, mentre scende al79% nei tecnici, e al 47,8% negli istituti professionali, dove il 30% degli iscritti al quinto anno dichiara che probabilmente non si ri iscriverebbe alla stessa scuola, perché quanto ottenuto non corrisponde alle proprie aspettative. II problema di fondo è che manca in Italia un ragionevole programmazione del l'offerta formativa, che riduca il gap tra domanda e offerta, e un efficace orientamento degli studenti, che eviti il rischio di scelte avventate. Prova ne è il persistente scollamento tra la richiesta da parte delle (piccole) imprese di una preparazione tecnico-professionale (+ 36,9% tra il 2003 ed i12006) e la scelta di percorsi di studio generalisti che prevale tra le giovani generazioni. Secondo le stime dell' Isfol per il 2009, a fronte di una crescita delle professioni non qualificate (si prevede un incremento del 4,5%, pari a poco meno di 140mila nuovi occupati), si prevede una richiesta di specialisti nelle attività commerciali e nei servizi (che crescono di 157mi1a unità, + 4,09%) e delle professioni intellettuali, scientifiche a elevata specializzazione con un valore assoluto di 96mila unità (pari al +4,07%). Quest'ultimo dato potrebbe giustificare il notevole interesse delle grandi università straniere per il mercato italiano nel quale la formazione post laurea di tipo manageriale non ha ancora raggiunto (fatte poche eccezioni) i migliori standard internazionali. In un recente incontro (organizzato a Londra da QS, con Tuck e Cass Business School) tra i responsabili marketing e comunicazione delle più importanti business school mondiali (Harvard, MIT, Stanford, Berkeley, Columbia, Cambridge, Cornell, ecc.)l'Italia è stata presentata come un mercato ancora arretrato nel quale, malgrado tutto, sia i politici che i media non hanno realmente capito l'insostituibile valore economico della formazione di qualità. *Carlo Alberto Pratesi, Università Roma Tre _____________________________________________ L’UNIONE SARDA 4 lug. ’07 IMPRESSIONI POST LAUREA DEI GIOVANI SARDI Indagine sugli atenei di Sassari e Cagliari Sul sito internet di Almalaurea (consorzio interuniversitario di Bologna), sono disponibili i risultati di un'indagine sui laureati nel 2006. Vi si trovano informazioni utili agli organi accademici e alla classe politica regionale per le decisioni a sostegno della funzione didattica. L'indagine considera 3.322 laureati a Cagliari e 1.779 a Sassari, su un totale di 6.312 laureati nell'Isola. Negli atenei in Sardegna, i laureati hanno un'età anagrafica superiore a quella dei coetanei nazionali. Il 34,6 per cento a Cagliari o il 31,9 a Sassari si laurea con meno di 24 anni contro il 46,3 per cento a livello nazionale. Fra i laureati, le ragazze rappresentano il 64,3 per cento a Cagliari e il 65 a Sassari. I laureati sardi, pertanto, sono disponibili nel mercato del lavoro con un'età maggiore e una presenza femminile più accentuata dei coetanei nazionali. Sulla loro provenienza sociale, è significativo che solo il 17,4 per cento a Cagliari e ancora meno a Sassari abbia almeno un genitore in possesso di laurea; tale condizione riflette il minor sostegno della cultura familiare di cui, in media, possono godere gli studenti sardi. È sintomatico delle difficoltà percepite dai laureati il giudizio sulla sostenibilità del carico di studio per gli insegnamenti, mentre a livello nazionale l’87,4 per cento esprime un giudizio positivo, sono dello stesso parere l’84,9 per cento dei laureati a Cagliari e solo il 62,8 a Sassari. È interessante osservare che il 36,8 per cento dei laureati nel capoluogo sardo e il 23,5 a Sassari dichiara di aver usufruito di borse di studio, mentre i coetanei nazionali si fermano al 24,5. Poiché il 41,9 per cento dei laureati cagliaritani riconosce le proprie origini sociali nella piccola borghesia o nella classe operaia, appare evidente futilità del sostegno economico al diritto allo studio, in assenza del quale molti giovani non potrebbero permettersi di frequentare l'università. Concorre ad agevolare il corso di studi il fatto di poter usufruire di condizioni didattiche funzionali. Il giudizio dei giovani laureati cagliaritani sul corso di studi è positivo per l’82,6 per cento, ma rilevante è l'insoddisfazione per le strutture didattiche, ad esempio soltanto il 12,3 per cento considera adeguate lo aule. Si allinea sul valore nazionale l'apprezzamento por il rapporto con i docenti, giudicato positivamente dal 77,3 per cento dei laureati. Sull'ateneo di Sassari il giudizio è positivo solo per il 59,6 per cento dei laureati, all'insoddisfazione per le strutture didattiche si unisce un apprezzamento positivo del rapporto con i docenti limitato al 56,7 per cento, al di sotto della media nazionale. In sintesi, alla domanda se si iscriverebbero nuovamente allo stesso corso di laurea nell'ateneo, rispondono positivamente il 61,8 per cento dei laureati a Cagliari, il 48,1 a Sassari, mentre il dato medio nazionale è il 67,9 per cento. GIOVANNI MELIS (Università di Cagliari) _________________________________________________________________ Corriere della Sera 6 Lug. ‘07 FACOLTÀ SCIENTIFICHE? LE SCELGONO I MENO ABBIENTI Gli studenti dei ceti meno abbienti amano e apprendono la scienza e la tecnologia in misura maggiore rispetto ai loro coetanei più avvantaggiati. E' questa la tesi sostenuta nel rapporto «Conoscere il suono, la natura, l' universo» presentato recentemente dalla Fondazione Idis-Città della Scienza a Napoli. I dati raccolti (campione: 600 ragazzi napoletani) hanno evidenziato che gli studenti provenienti da classi sociali deboli approfittano delle occasioni formative in ambito scientifico in modo nettamente superiore rispetto ai compagni che vivono in una condizione di maggior benessere economico. Si sostiene, inoltre, che i giovani sollecitati con approcci sperimentali, e non solo teorici, come sono spesso quelli dell' insegnamento classico, si interessano di più e raggiungono buoni risultati in termini di abilità descrittiva e rappresentazione dei fenomeni studiati. Insomma, un punto a favore di chi sostiene il primato dell' esperienza e della pratica sulla teoria. La scienza inoltre piace, o meglio, può piacere, e lo dimostrano anche la crescente affluenza ai musei di scienza e di tecnologia. Risultati positivi se confrontati con i dati di Eurydice (la rete di informazione sull' istruzione e sull' insegnamento delle scienze nelle scuole in Europa) sulla carenza di vocazioni in questo settore. In realtà l' interesse fino alla maturità è alto, ma purtroppo scende vertiginosamente alle soglie dell' iscrizione all' università: colpa del mercato del lavoro, che cerca diplomati (tanto che le percentuali di occupazione a sei mesi dalla fine di questi studi sono più alte di quelle dei laureati) e della scuola italiana che non favorisce una mobilità sociale. Dopo la maturità infatti l' 80 % degli studenti iscritti nei licei dichiara di volersi laureare contro il 34,5% di chi frequenta una scuola tecnica o il 15,9% di una professionale. Prosegue poi gli studi l' 89% di chi ha padre o madre laureato e solo il 47% di chi ha genitori meno istruiti. Lo status condiziona inoltre le chances di terminare l' università, (indagini P.i.s.a., Programme for International Student Assessment, incrociate con i dati Istat ). «La nostra società ipertecnologica, in cui la scienza entra ogni giorno nella nostra vita, affida ai ceti meno avvantaggiati e ai paesi asiatici, India e Cina in testa, lo studio e la pratica scientifica», commenta Luigi Amodio, Direttore Fondazione Idis-Città della Scienza. Conseguenza del nostro attribuire una valenza culturalmente superiore agli studi umanistici? Di considerare gli studi scientifici meno interessanti per la carriera e lo sviluppo della retribuzione? Forse un po' di tutto questi. Ma certo il primato che sta raggiungendo in tutti i campi economici la Cina, con i suoi 500 mila laureati l' anno in ingegneria, dovrebbe far riflettere. Adani Luisa ________________________________________________________ ItaliaOggi 4 lug. ’07 DIDATTICA DI QUALITÀ PER STUDENTI MIGLIORI Una ricerca Crui sulle tecnologie multimediali DI BENEDETTA P. PACELLI Didattica di qualità con le nuove tecnologie multimediali. E se la didattica migliora, crescono anche i risultati di quegli studenti che, non potendo partecipare di persona ai corsi, utilizzano l’e-learning, ossia la formazione a distanza attraverso internet. A dirlo la seconda indagine sulla diffusione dell'e-learning nelle università italiane, realizzata dalla Fondazione Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane). Ma non solo formazione a distanza, perché l'indagine ha preso in considerazione anche l’utilizzo delle nuove tecnologie informatiche a supporto della didattica. Che stando alla ricerca negli ultimi anni si sono diffuse sempre di più proprio a sostegno dell'insegnamento universitario. Ma, secondo la Fondazione Crui, i margini di miglioramento sono ancora molto ampi. Infatti, sul campione analizzato che rappresenta il 62% dell'intero sistema accademico, sei atenei su dieci ritengono che il fenomeno delle nuove tecnologie informatiche sia applicato solo alla metà dei corsi universitari. Anche se, dopo anni di utilizzo delle nuove tecnologie, la percezione degli intervistati è, nella quasi totalità, quella di un significativo miglioramento dell'insegnamento e dell'apprendimento. L'utilizzo delle nuove tecnologie dell'informatica, quindi, ha portato benefici nei processi didattici in linea con le attese per l’81% del campione e addirittura in modo superiore alle attese per i114%, mentre in modo inferiore per il 5%. Ma non solo. Perché nonostante la relativa novità dell'e-learning gli studenti che utilizzano i supporti informatici, stando all'indagine, raggiungono risultati migliori di quelli che approfittano della sola lezione in classe. Infatti, gli studenti on-line hanno raggiunto per il 91% risultati migliori di quelli presenti nelle tradizionali lezioni in classe. Sono proprio loro, gli studenti, sottolinea ancora la Fondazione Crui, la leva su cui puntare per espandere nella giusta direzione il ricorso alla tecnologia per approfondire e migliorare contenuti e modalità dell'insegnamento. Perché sono sempre loro, infatti, a fidarsi di questi nuovi mezzi multimediali per la didattica, molto più dei loro stessi insegnanti. Che infatti, al contrario, sono nella maggior parte dei casi in ritardo nell'adeguare le metodologie didattiche all'utilizzo di nuovi strumenti. _________________________________________________________________ Repubblica 7 Lug. ‘07 SCUOLA, SI IMPARA PIÙ AL NORD CHE AL SUD Nuovi criteri e modalità di ricerca: l’Istituto per la valutazione del sistema educativo cambia strada e ribalta i risultati delle precedenti rilevazioni Il ministero: divario presente già alle elementari, ma cresce alle superiori MARIO REGGIO ROMA — I livelli di apprendimento degli studenti delle regioni del Nord sono maggiori rispetto a chi frequenta le scuole del Sud, sia alle elementari che alle superiori. Il divario si accentua con il passaggio dalle primarie alle medie ed ai licei. Sono i primi risultati del nuovo corso dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema di istruzione e formazione, «in pratica smantellato durante i cinque anni della gestione di Letizia Moratti - afferma Benedetto Vertecchi, ordinario di Pedagogia Sperimentale a Roma Tre e direttore dell’Invalsi prima del ministero Moratti - per cinque anni, l’Invalsi, diretto dall’ingegner Giacomo Elias, ha sfornato dati privi di validità scientifica, per sua stessa ammissione, basati su questionari volontari lasciati alla gestione delle scuole. Per cinque anni l’Italia ha perso il passo con lo sviluppo della ricerca internazionale, provocando un ritardo che sarà arduo recuperare». È bastato che il ministero della Pubblica Istruzione mettesse in campo un gruppo di “rilevatori esterni” per scoprire la verità. Secondo la rilevazione del 2005- 2006, con il vecchio metodo, nei test di italiano della seconda elementare i ragazzi del Nord avevano un punteggio inferiore a quello del Sud di oltre 11 punti percentuali. Per matematica la differenza era di 10,7 punti percentuali e per scienze di 8,5 punti, sempre a discapito del Nord. Per la quarta elementare i risultati dei test indicavano che i punteggi del Nord erano inferiori a quelli del Sud del 6,4 in scienze, del 9,7 in italiano e di addirittura di 20 punti in matematica. I risultati dunque presentavano una scuola del Sud che andava molto meglio di quella del Nord, una realtà in contrasto sia con la percezione collettiva sia con i risultati delle indagini internazionali. Secondo i primi dati dell’indagine, fatta per campione, nel 2006-2007, con i rilevatori esterni, in seconda elementare in italiano i ragazzi del Nord hanno un punteggio superiore di 2,8 rispetto a quelli del Sud. Per matematica e scienze i livelli sono sostanzialmente analoghi. Per la quarta elementare i dati indicano un vantaggio degli studenti del Nord di 5 per cento in italiano e una sostanziale uniformità per matematica e scienze. Per quanto riguarda i risultati della scuola secondaria di primo e secondo grado, i dati confermano che esiste una divario tra il nord e il sud del Paese e che questo cresce nei gradi superiori di scuola. La buona notizia, secondo il ministro, è che questo divario sembra essere meno marcato di quello che indicano le indagini internazionali, note come “Pisa”. «Crediamo che questa differenza — ha osservato Fioroni — sia dovuta al fatto che quando le indagini si concentrano su quello che la scuola effettivamente fa, cioè lavorare sull’apprendimento dei ragazzi, le differenze tra aree sono meno marcate. Il divario nelle competenze misurate da “Pisa” riflette anche quello che i ragazzi apprendono dal contesto sociale in cui sono inseriti, e in questo le scuole del sud sono più svantaggiate». Oltre a lanciare un appello contro la «molestia statistica» alle scuole, costrette ogni anno a fornire dati già noti, il ministro ha ricordato che tra i compiti affidati all’Invalsi c’è anche quello di valutare gli apprendimenti utilizzando le prove degli esami di maturità di quest’anno, di aiutare le scuole meridionali ad innalzare il livello di apprendimento degli studenti utilizzando i 3 miliardi e 700 milioni di euro che arriveranno alle scuole nei prossimi 7 anni dall’Unione Europea, di studiare proposte per la valutazione dei dirigenti scolastici. Riuscirà l’Invalsi a recuperare il tempo perduto? «I propositi sono abbastanza positivi - commenta il professor Benedetto Vertecchi - ma non bastano le buone intenzioni, servono i ricercatori esperti nelle nuove metodologie informatiche, che in Italia si contano sulle dita di una mano, e per formarli occorrono da due a tre anni». ________________________________________________________ Il Giornale 4 lug. ’07 I SOLDI PER L'UNIVERSITÀ? PRODI LI DÀ ALLE BANCHE Mussi protesta con il premier e con Padoa Schioppa: sottratte risorse agli atenei per concedere privilegi fiscali a istituti di credito e assicurazioni Enza Cusmai Il tam-tam viaggia in rete. La protesta è silenziosa, strisciante. E la delusione tra i professori universitari di tutti gli atenei italiani, da Pisa a Milano da Trieste a Cagliari, da Trento a Padova, è cocente. La sinistra che tanto decanta la ricerca fatica a scucire una manciata di curo per sostenerla. E usa i fondi destinati alle università per «finanziare» banche e assicurazioni. II risultato? Le università non hanno ancora alcuna indicazione su quanto il governo intende destinare quest'anno ai cosiddetti Prin, i progetti di rilevante interesse nazionale. Richieste di chiarimenti al ministero dell'Università finiscono nel dimenticatoio e lo stesso Giornale, dopo una settimana, ha ricevuto una spiegazione forzata, laconica e generica alla domanda: dove sono finiti i soldi per i Prin? «La legge finanziaria 2007 - si legge nel comunicato - ha introdotto un nuovo fondo per i progetti di ricerca, nel quale sono confluiti i preesistenti fondi, e gli ha assegnato 960 milioni di curo per il triennio 2007/2009. Tuttavia, i fondi non risultano di fatto ancora disponibili per il Mur, che resta in attesa della relativa assegnazione in bilancio da parte del ministero dell'Economia e finanze». In pratica, gli addetti alle pubbliche relazioni non sanno che pesci pigliare e la situazione è a dir poco imbarazzante. Anche il ministro Mussi ne è consapevole. Tanto che pochi giorni fa ha scritto al premier Prodi e al ministro Padoa-Schioppa avvertendo della figuraccia che l'intero esecutivo ha fatto dinanzi al mondo accademico. «L'università e la ricerca risultano particolarmente penalizzate soprattutto perché, per far fronte a maggiori oneri relativi al "cuneo fiscale" in favore delle imprese operanti nei settori del credito e delle assicurazioni, si rischia un'ulteriore riduzione dei finanziamenti alla ricerca». Una scelta, avverte il ministro, «che lancia un segnale fortemente negativo dal governo a settori che, invece, ripetutamente assumiamo come prioritari». Inoltre, il ministro per l'Università lancia un segnale politico a Prodi: «Non ti sfuggiranno certo, gli aspetti di "messaggio": università e ricerca che finanziano banche e assicurazioni...». Mussi dunque mette in guardia i due referenti politici e chiede «di disporre una diversa formulazione dell'emendamento per individuare differenti strumenti di copertura». Ma nonostante le suppliche sembra che per quest'anno la ricerca si dovrà accontentare di un esiguo e ritardatario finanziamento, che non supererà (se va bene) i 90 milioni di curo in tutto. Nel frattempo circa 3500 progetti di ricerca attendono di essere vagliati e selezionati dalla commissione ministeriale. Ma non si muove foglia. E così professori universitari di ogni parte d'Italia decidono di sottoscrivere una lettera aperta in cui manifestano «disagio e sconcerto» per quanto sta avvenendo. «A tutt'oggi non si è ancora usciti dalle nebbie dell'incertezza - scrivono i docenti - circolano bozze di bando di volta in volta smentite e stucchevoli voci di palleggio di responsabilità sul blocco delle procedure legate a vincoli imposti dalla Finanziaria». Una situazione inaccettabile, tanto che gli atenei italiani chiedono «un segnale concreto in tempi stretti, dato che gli attuali ritardi nell'erogazione di quel pur modestissimo flusso di finanziamento rischiano di minare per molti le stesse basi della sopravvivenza scientifica». . I Prin finanziano progetti di ricerca biennali di ogni specialità, dall'area giuridica a quella tecnica fino a ingegneria industriale. Ogni facoltà aspetta questi soldi per acquistare materiale (dalla penna, al computer ai libri), per pagare le spese per i servizi (telefono, posta), partecipare a convegni, pagare qualche giovane ricercatore. Un microcosmo tuttora in letargo, in attesa che il governo decida di stanziare i fondi che sembrano briciole rispetto alle aspettative. Nel corso degli anni ai Prin sono infatti stati assegnanti annualmente dagli 80 ai 160 milioni di curo e la media di finanziamento concesso a ogni singolo progetto selezionato oscilla dai 18 ai 60 milioni. Ma quest'anno la cifra potrebbe essere ancora più esigua se si preferirà il cuneo fiscale alla ricerca. Intanto i fondi già stanziati per la ricerca non sono mai stati erogati Docenti in rivolta: «Siamo sconcertati» TROPPI RITARDI: PROGETTI A RISCHIO «Nel mondo accademico sono palpabili lo scontento e la delusione. Anche in chi riesce a trovare altre fonti di finanziamento. Ci si sente l'ultima ruota del carro e la frustrazione aumenta quando si fanno confronti con i colleghi all'estero. Questo disinteresse del mondo politico conferma che vengono stimati e rimpianti solo i cervelli in fuga, ritenuti i migliori». È sconsolato e arrabbiato Lorenzo Favalli, associate professor in Communications systems and digital communications all'università di Pavia. «È dura andare avanti - racconta -. Se mi danno 30mila euro per due anni, come posso comprarmi quello che mi serve e magari reclutare un giovane da far crescere?». «Tutto il mododi procedere- aggiunge Favalli - é profondamente sbagliato. La conferma arriva anche dalla mancanza di interesse sui Prin. L'anno di ricerca rischia addirittura di saltare se non si sbloccano i fondi e i revisori addetti alla selezione dei lavori più meritevoli non faranno in fretta. Quei tecnici saranno subissati di lavoro e se tutto dovesse slittare a settembre, avrebbero solo un paio di mesi per completare tutto il lavoro che solitamente viene svolto in 6 mesi. Inoltre, se il bando dovesse uscire a fine luglio, le università dovrebbero lavorare in agosto per presentare le domande entro la fine del mese». stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproducibile. Il Sole24Ore 4 lug. ’07 UN MALE 0CURO CHIAMATO ORIENTAMENTO di Walter Passerini Ma quale resta il male oscuro dell'università italiana? Ve ne sono ancora molti, insieme a punte di eccellenza che a volte dimentichiamo, per il vezzo di parlar male di tutto ciò che suona vagamente pubblico. Ma vi sono alcuni elementi endemici a cui forse sarebbe ora di porre mano. A pochi giorni dalla fine degli esami di maturità oltre 330 mila ragazzi sceglieranno la facoltà e l'ateneo, ma è proprio il meccanismo della scelta che andrebbe sottoposto a «check up». C'è da dire che l'Italia è un Paese con un numero di laureati ancora troppo basso. Inoltre, i nostri ragazzi, e non solo per l'effetto di trascinamento del passato, si laureano ancora troppo tardi rispetto ai loro coetanei di altri Paesi. Vi è poi il problema della proliferazione dei corsi e delle università, che offrono un panorama apparentemente positivo e maturo, ma in realtà desolante per l'eccesso dì corsi, oltre 8mila tra triennali e specialistiche, e per il fiorire di troppi atenei di campanile. Si dice che i nostri ragazzi sono abbastanza soddisfatti delle lauree di primo livello, ma attenzione, non si vorrebbe che dietro vi fosse la vecchia malattia dell'opportunismo, incarnata da corsi facili e da lauree generose, nascoste sotto il sacro principio dell'autonomia. Si dice che le famiglie contino ancora molto nella scelta. E questo è giusto, dal momento che lo studio è un investimento, ma ancora troppi sono i condizionamenti sociali e la scarsa mobilità: nascere in una famiglia con genitori acculturati è una fortuna che non capita a tutti. Ma il problema dei problemi si chiama orientamento. Se la famiglia ha una grossa voce in capitolo, è perché, nonostante tutto, non vi sono servizi di orientamento generalizzati ed efficaci. La mamma e il fai da te coprono i vuoti di professionalità (e di professionisti) nell'orientamento dei giovani. Se l'offerta formativa è molto rigida e non contempla ancora un livello di educazione terziaria professionale post-diploma, tutti saranno spinti al titolo di dottore e a un futuro di delusione e di frustrazione. ________________________________________________________ TST 4 lug. ’07 ODIFREDDI: C’È LA LOGICA DIETRO LO SPIRITO" PAGANI, CRISTIANI E RICERCATORI DEL XXI SECOLO: ECCO LE SORPRENDENTI METAMORFOSI DI UN PERCORSO MILLENARIO Da Marco Aurelio all'hi-tech, conoscere significa saper meditare PIERGIORGIO ODIFREDDI UNIVERSITA' DI TORINO Nei suoi famosi «Esercizi spirituali» Ignazio di Loyola ha codificato una pratica religiosa di concentrazione e autoanalisi basata su meditazioni ed esami di coscienza, che si fa comunemente risalire a un passaggio della «Seconda lettera ai Corinzi» di Paolo di Tarso («esaminate voi stessi, fate la prova su voi stessi»), anche se in realtà essa appare nella tradizione cristiana solo nel III secolo, a partire da Origene. Questa pratica religiosa del Cristianesimo non è però altro che una versione riveduta e (s) corretta di una pratica laica che risale almeno ai presocratici, nota come «askesìs», «esercizio». Una pratica che, nonostante il nome («ascesi») che oggi suggerisce astinenze sessuali e mortificazioni corporee, era allora semplicemente un'attività interiore di pensiero, con lo scopo di trasformare la visione del mondo di chi la praticava. L'appropriazione degli esercizi spirituali filosofici da parte del Cristianesimo fu facilitata dal fatto che, agli inizi, esso fu presentato dagli apologisti come una filosofia. O meglio, come «la» filosofia, l'unica vera: se i greci avevano infatti soltanto intravisto brandelli del «logos», il «Verbo», i cristiani ora pretendevano di possederlo interamente, addirittura incarnato. E questa concezione del Cristianesimo come (vera) filosofia rimarrà viva per secoli nel monachesimo, da Giovanni Crisostomo a Bernardo di Chiaravalle. Ma il gioco riuscì unicamente perchè, in precedenza, la filosofia era già stata appunto considerata non soltanto come un sistema di pensiero, ma come un modo di essere e uno stile di vita, e il filosofo non soltanto come un pensatore, ma come una specie di monaco «ante litteram». E una delle pratiche comuni, del filosofo e del monaco, era la memorizzazione delle regole di vita e di condotta: laiche in un caso ed evangeliche nell'altro. Gli esempi più tardi di queste regole laiche si trovano in «A se stesso» o «I ricordi»: una raccolta di pensieri di Marco Aurelio, l'imperatore che troppo spesso viene ricordato soltanto perchè immortalato nella statua equestre che campeggia sulla piazza del Campidoglio, o nei film «La caduta dell'Impero Romano» e «Il Gladiatore». Ma in precedenza regole simili erano già state raccomandate dai pitagorici, dagli epicurei e dagli stoici, Seneca in particolare. Una di queste massime di saggezza suggeriva, ad esempio, di volere le cose come sono, invece di desiderare che esse siano come le vorremmo. La si trova già nel «Manuale» di Epitteto, ma i suoi echi risuonano fino a noi: dal «Così fan tutte» di Mozart («non può quel che vuole, vorrà quel può») a «Love the one you're with» di Crosby, Stills e Nash («se non sei con colei che ami, ama colei con cui sei»). E' con queste massime che ci si allenava all'«apatheia», la totale impassibilità nei confronti delle cose del mondo che, se derivata dalla loro vera conoscenza, poteva essere considerata addirittura l'essenza del Regno del Cieli. Così infatti la considerò Evagirio, secondo le cui «Pratiche» il progresso spirituale procedeva dall'etica alla fisica alla teologia: più precisamente, dalla purificazione dell'anima alla conoscenza del vero ordine del creato (appunto, il Regno dei Cieli) alla contemplazione del Creatore (il Regno di Dio). Ma questa terminologia (anima-creato-Creatore), forse adatta agli uomini di buona volontà del Medioevo teologi co, è certamente anacronistica per gli uomini di buona razionalità dell'era tecnologica, ai quali non si può certo pretendere di parlare seriamente nel linguaggio delle favole di parrocchia. Molto più adatta è la visione stoica proposta da Marco Aurelio, nella quale la logica sostituisce la teologia, e la Ragione il Creatore. Si ottiene così un sistema perfettamente adeguato ai tempi moderni, in cui la maturazione del percorso spirituale è affidata, oltre che all'etica, alla «fisica» e alla «logica»: o, come oggi diremmo, alla conoscenza scientifica e al pensiero formale, chi costituiscono appunto i cardini del sapere tecnologico. E la meditazione non consiste più nel concentrare la mente su qualche aforisma più o meno edificante di qualche santone più o meno ispirato, ma nel cercare di «vedere e definire un oggetto nella sua essenza in tutte le sue parti, secondo il metodo della divisione»: cioè nell'effettuarne un'analisi fisico-chimica da un lato, e logico linguistica dall'altro, per decostruire le apparenze e stabili re le interconnessioni. Smettendo di chiedersi che cosa gli oggetti significhino per l'uomo in generale e per noi in particolare, e iniziando invece a scoprire quali siano le loro costituenti e le loro proprietà, individuali e collettive, si arriva a vederli in maniera distaccata e a smantellare i valori antropocentrici e convenzionali dai quali deriva il nostro attaccamento alle cose. Ci si incammina, cioè, sulla via di un'equanime saggezza laica che costituisce un'attraente alternativa razionale e colta alla coscienza religiosa e clericale: c'è forse da stupirsi che il Cristianesimo delle origini abbia dapprima cercato di annettersi lo stoicismo, inventandosi un apocrifo carteggio fra Seneca e Paolo, e poi l'abbia avversato fino a sopraffarlo nella memoria storica? La testimonianza negativa di questa pulizia et(n)ica si trova nel fatto che, mentre oggi il mondo è pieno di accademie e di licei, cioè di cloni delle scuole che Platone e Aristotele avevano fondato ad Atene, non c'è neppure una stoa: eppure le tre scuole erano talmente importanti nell'antichità che, quando i greci decisero di inviare una missione diplomatica a Roma nel 156 prima dell'Era Volgare, dopo la conquista romana della Macedonia, non trovarono di meglio che scegliere Carneade (il manzoniano «chi era costui?») dall'Accademia, Critolao dal Liceo e Diogene dalla Stoa. Anche i testi degli stoici precristiani sono andati in massima parte perduti, e con essi la memoria di un pensiero che oggi affiora parzialmente solo da fonti indirette. Tutto ciò che rimane è l'aggettivo «stoico», usato quasi esclusivamente nel senso di distacco impassibile che derivava dagli esercizi spirituali alla Marco Aurelio, condensati in massime quali: «Accettare volontariamente l'inevitabile, e non desiderare l'impossibile». Secoli (anzi, millenni) di assuefazione a un pensiero irrazionale e a una visione magica del mondo, che oggi il clero e i clericali chiamano eufemisticamente «le radici cristiane dell'Europa», hanno finito col creare una contrapposizione con il pensiero razionale e la visione scientifica dell'universo. Ma è giunta l'ora di rivendicare le vere radici dell'Occidente, che ovviamente non stanno in Medio Oriente, e di riappropriarsi dei valori spirituali che alla «logica» e alla «fisica» attribuivano non solo gli stoici, ma anche i platonici e gli aristotelici: rispettivamente, come pratiche di distacco dalla quotidianità, come strumenti di percezione dell'armonia del mondo e come attività contemplative fine a se stesse. Che la scienza e il pensiero formale possano costituire le basi per un'etica razionale e una spiritualità laica non lo si è mai dimenticato, naturalmente: lo testimoniano opere che vanno dal «Timeo» di Platone al «De rerum natura» di Lucrezio, dall'«Ethica» di Spinoza al «Tractatus» di Wittgenstein, che coniugano perfettamente l'ateismo confessionale nei confronti delle divinità «rivelate» con la professione di fede nel «Deus, sive Natura», «Dio, cioè la Natura», di Spinoza e Einstein. L'urgenza dei tempi moderni non è dunque tanto di costruire un'etica razionale e una spiritualità laica, che ci sono sempre state, ma di sfatare le pretese delle religioni mediorientali e delle filosofie continentali di possedere il monopolio dei valori e della saggezza, sulla base del motto di Heidegger: «La scienza finisce dove il pensiero comincia». La verità è, invece, che le pratiche di quelle religioni e le teorie di quelle filosofie stanno agli esercizi spirituali basati sulla scienza e sulla logica come l'alchimia sta alla chimica, o l'astrologia all'astronomia, o la fantasia alla realtà. E che la vera religiosità non si esprime in giaculatorie e salmi, ma in preghiere come quella di Marco Aurelio: «Tutto ciò che è conveniente per te, o Universo, lo è pure per me ________________________________________________________ Il Sole24Ore 5 lug. ’07 MI CHIAMO BLUE GENE RISOLVO PROBLEMI DA ZURIGO LUCA TREMOLADA Nel 1993, quando sono arrivato al laboratorio Ibm di Zurigo si studiavano su supercomputer sistemi a livello molecolare formati al massimo da 50 atomi. Adesso partiamo dai principi primi su sistemi di 5mila atomi. Recentamente sul nostro Blue Gene ho lavorato su 20mila atomi. Per dirla in modo semplice oggi i sistemi simulati sono immensamente più realistici». Alessandro Curioni, 39 anni, da dieci lavora in un gruppo di ricerca dedicato al Computational Biochemistry and Materials Science. In altre parole risolve alcuni tra i più complessi problemi legati alla scienza dei materiali e studia come applicare le metodologie di ricerca legate al calcolo in parallelo ad altri campi del sapere. Il passaggio da 50 a 5mila atomi dà il senso di quello che accade a Zurigo. La potenza di calcolo dei supercomputer per simulare un sistema atomistico, ovvero qualsiasi materiale, qualsiasi molecola, avendo come punto di partenza una idea della struttura di questa molecola e solo le leggi fondamentali della fisica e della meccanica quantistica. Tutto ciò grazie a Blu Gene. Da dieci anni Zurigo è la casa del supercomputer Ibm che da quattro anni consecutivi mantiene la sua posizione al vertice dell'elenco del Top500 Supercomputer. «Ma è solo dal 2005 che siamo in grado di replicare il comportamento di un sistema biologico complesso completamenta da principi primi. Il che - precisa Curioni- significa risolvere per ogni molecola la pesantissima equazione di Schóredinger che è una delle più importanti scoperte della fisica ed in particolare della meccanica quantistica». Ecco come avviene: si parte da una struttura atomica, da qui si passa all'equazione di Schòredinger per gli elettroni. Sono in grado di misurare le forze che agiscono sugli atomi data quella distribuzione elettronica e quindi capire come la molecola evolve e si comporta nel tempo. Nel campo della scienza della vita, per esempio, si simula il comportamento di una proteina dato un sito attivo e tante molecole. La missione è simulare come la molecola si attacca al sito attivo per bloccare la proteina e quindi avere un effetto terapeutico. Attualmente, spiegano gli scienziati dell’Ibm, sono molti i metodi che si applicano a questo tipi di studi mala maggior parte sono molto veloci ma poco accurati. Un calcolo più lento ma più preciso consente di ridurre il rischio di errore di un composto. Simulazione di questo tipo, con questo grado di precisione hanno incominciato ad avere riscontri negli ultime tre anni, per lo sviluppo degli algoritmi e l'implementazione ottimale, macchine scalabili. «Blue Gene-spiega con orgoglio lo scienziato italiano- si è dimostrata una macchina molto bilanciata, scalabile: rispetto alla tecnologia standard più si aumenta il numero di processori e più aumentano le prestazioni con performance tre volte più alte». Il che significa che da un impatto "accademico", i supercomputer sono pronti ad affacciarsi sul business. Nestlè, per esempio, ha bussato alle porte di Zurigo per cercare di capire i meccanismi di degradazione dell'aroma del caffè, con la Fòrd invece si è cercato di capire come avviene la corrosione dell'alluminio. Uno studio particolarmente interessante è quello applicato alla fluidodinamica. Si analizzano i processi di turbolenza legati al decollo degli aeroplani. «L'obiettivo-spiega Curioni - è quello di ottimizzare l'analisi dei vortici che si creano quando un aereo lascia la terra. Finché non vengono distrutti questi vortici, i veicoli in coda all'aeroporto non possono partire. La durata di queste perturbazioni è legata all'angolo di decollo, nel senso che più è basso l'angolo e più la turbolenza ha vita breve. Tuttavia, un aereo che vola basso aumenta l'inquinamento, per cui occorre trovare a livello di design e di angolo di decollo un giusto compromesso per ridurre al tempo stesso gli effetti sulle case vicine all'aeroporto e i tempi di attesa. I calcoli sono complessi, occorre virtualizzare ogni particella e solo un potente calcolatore sa descrivere quello che avviene al decollo. Un altro progetto che vede l'utilizzo di Blue Gene è legato all'astrofisica: Al posto di una grande antenna stanno studiando l'utilizzo di 10mila installate su un centinaio di chilometri. I dati vengono spediti all'elaboratore che in tempo reale incrocia le rilevazioni per dare forma a un'immagina unica». Ma le applicazioni più interessanti sono attualmente quelle in campo medico. Oggi si è in grado di studiare la dinamica di un organo. Prima veniva fatto in modo meccanico, ora si può simularne il comportamento a partire dalle fibre muscolari, dal moto delle singole lamelle. Lungo questo solco prende vita il progetto Checkmate, un progetto in cui Ibm e lo Scripps research institute conducono ricerche biologiche avanzate sui virus influenzali. Emmanuel Delamarche, lavora fin dall'inizio a questo progetto: «La collaborazione è studiata per prevedere il modo in cui i virus muteranno nel corso del tempo, utilizzando tecniche predittive avanzate basate su sistemi di calcolo ad alte prestazioni, quali il supercomputer B1ueGene». Lo scienziato dell'Ibm spiega che anticipare le mutazioni del virus dell'influenza aviaria significa simulare le dieci alla quarta possibili varianti capaci di ancorarsi ai recettori umani e quindi alla cellule. Questi dati vengono incrociati con la libreria dello Scripps Resarch Institute che comprende dieci alla nona diversi anticorpi. «L'obiettivo - spiega Delamarche - è naturalmente anticipare le possibili evoluzioni del virus letali per l'uomo. In modo da sviluppare in tempo i vaccini per evitare una pandemia». Il vantaggio delle simulazioni basate su computer è che, essendo virtuali, non comportano i problemi intrinseci degli esperimenti di laboratorio, quali gli effetti delle condizioni di preparazione, la purezza dei composti o la presenza di reazioni parassite. L'aspetto più importante è che, con le simulazioni, è possibile seguire ciò che stanno facendo i singoli atomi. Proprio per questo, paradossalmente, i migliori risultati si ottengono proprio quando il supercomputer studia il supercomputer. Ovvero quando si analizzano i materiali che servono per aumentare le performance dei chip. È il caso del biossido di afnio, un nuovo materiale da utilizzare in una parte cruciale del transistor, nota come il dielettrico di gate, che - con i materiali usati attualmente-limita la possibilità per il settore di tenere il passo con la Legge di Moore (le prestazioni dei processori, e il numero di transistor ad esso relativo, raddoppiano ogni 18 mesi). Per la prima volta, spiega Curioni, siamo riusciti ad acquisire un quadro chiaro della fisica di base che governa il comportamento elettrico del biossido di afnio quando si mescola al silicio. Per questo studio, sono stati utilizzati 50 diversi modelli di silicati di afnio, materiali che si formano quando si mischiano silicio e ossidi di afnio. Questi modelli contengono fino a 60o atomi e circa 5mila elettroni. Un singolo calcolo della costante dielettrica è stato realizzato in soli cinque giorni di tempo di calcolo su due supercomputer Blue Gene/L a due rack (4096 processori). Per calcolare la simulazione completa per tutti i 5o modelli (circa a5o giorni su Blue Gene), il più potente PC laptop impiegherebbe 700 anni ________________________________________________________ Il Sole24Ore 5 lug. ’07 COMPUTER:IL QUANTO DELL'INFORMAZIONE DI ROBERTO WEITNAUER La riservatezza delle informazioni non è mai stata critica come nella nostra era di telecomunicazioni. In questi anni sta affinandosi una tecnologia che farà impallidire le sicurezze degli attuali sistemi trasmissivi. Si tratta di strumenti basati sulla Quantum Information. Ci affacciamo a scenari che generano fermento nei maggiori laboratori e in diverse organizzazioni d'intelligence, prima fra tutte la Nsa americana (National security agency). Giulio Casati, 65 anni, già Prorettore dell'Università dell'Insubria, li scruta nell'ottica della Fisica del Caos di cui è pioniere. Mediante questa disciplina il, suo gruppo sta studiando quali possano essere i limiti di un calcolatore futuro di strabiliante potenza capace di risolvere problemi definiti oggi intrattabili: il computer quantistico. Una macchina di questo tipo è stata presentata con scalpore lo scorso febbraio dalla D-Wave System. Si tratta di un prototipo semi-commerciale che l'azienda canadese intenderebbe rendere disponibile anche ori line a titolo dimostrativo. AL di là del battage pubblicitario, ci sono però le riserve degli esperti, tra cui lo stesso Casati. Per capire entriamo nel mondo quantistico. Il quanto è la porzione più piccola di energia, cioè il disturbo irriducibile con cui dobbiamo fare ì conti quando osserviamo 1a realtà, interagendo con essa. L'esistenza dei quanti rende il microcosmo non del tutto conoscibile e persino paradossale se confrontato col mondo grossolano che abitiamo. Mettiamo che una sorgente invii due elettroni interconnessi, uno ad Alice e uno a Bob. Un esempio si ha quando le loro rotazioni si oppongono sistematicamente: ogni volta che Alice misuxa una rotazione Bob rimarca quella inversa. Tuttavia, accade che ciascuno rilevi metà delle volte un senso di rotazione e metà All'Università dell'Insubria si sta studiando un calcolatore di strabiliante potenza dotato di porte logiche basate sui «qubit». Ancora forti le riserve l'altro. Il fatto è che prima dell'osservazione lo stato dei due corpuscoli corrisponde alla bizzarra sovrapposizione di due esiti equiprobabili. Quando si misura, lo stato viene disturbato e collassa in una delle due alternative. Il mutuo legame, noto come entanglement, si scioglie e il risultato di un interlocutore si riflette istantaneamente nella realtà remota (e inversa) dell'altro. Immaginiamo ora che Alice voglia teletrasportare fino a Bob una particella in un certo stato quantico: lo può fare, sfruttando l’entanglement. Prende all'uopo il proprio elettrone e lo fa interagire con la particella. In tal modo entrambi si modificano, ma si modifica anche l'elettrone remoto di Bob che è abbinato. Alice considera il risultato locale dell'operazione e lo comunica a Bob attraverso un canale convenzionale. Con questo ragguaglio, e lo stato in cui si trova il proprio elettrone, Bob è in grado di ricostruire la particella: è come se questa si trasferisse da Alice a Bob. Un aspetto cruciale del processo è che risulta impossibile intercettare la trasmissione quantistica senza provocare un collasso di stato. Qualunque intrusione viene quindi scovata, il che spiega l'interesse strategico per questa tecnologia oggi matura al punto che Casati vorrebbe scambiare segnali quantici dimostrativi tra le filiali di una grande banca. Proiettiamoci ancor più nel futuro della quantum information e parliamo di criptazione dei messaggi. Nemmeno i calcolatori più potenti riescono in un tempo ragionevole a decifrare una buona codifica del sistema Rsa, oggi la più diffusa. Ma un computer quantistico potrebbe farlo. Esso non dispone dei classici interruttori bistabili che veicolano bit, aprendosi o chiudendosi, bensì di porte logiche basate su qubit (quantum bit), ossia su particelle legate con fentanglement che poi collassano in una di due alternative. La potenza di calcolo cresce esponenzialmente con i qubit combinati. Non è però tutto rose e fiori, spiega Casati, poiché sale anche il rischio che il mondo macroscopico esterno assoggetti a sé i delicati stati quantici della macchina. È la decoerenza: i collassi non sono quelli voluti dal progetto. Oltre un certo numero di qubit non si riesce ancora ad andare, ma questa macchina non è solo fantascienza. Non si spiegherebbero altrimenti gli ingenti finanziamenti internazionali della Nsa. Gli americani vogliono sapere sino a che punto è possibile un efficiente computer a quanti. Nel caso esso sia realizzabile, vogliono a tutti i costi essere i primi a impiegarlo. Già oggi esiste un software quantistico che trova i fattori primi di un numero molto grande: l'algoritmo di 5hor. Guarda caso, casca a fagiolo per forzare le chiavi Rsa. Il gruppo di Casati studia entro quali limiti i qubit correlati funzionino stabilmente. Per capire lo spirito delle ricerche rifacciamoci allo scozzese Maxwell che a metà del XIX secolo si accorse di un fatto cruciale della fisica: è vero che a cause uguali conseguono effetti uguali, ma non è detto che a cause simili conseguano effetti simili. Come dire che talvolta bastano minime variazioni per perdere la capacità predittiva. È questo il caso del problema dei tre corpi. Due corpi che si attirano per gravità seguono un'evoluzione precisa nello spazio e nel tempo; non così per tre o più corpi. Qui il problema si può complicare terribilmente, al punto che il futuro del sistema si perde nel caos. Ciò accade perché le forze in gioco non sono lineari (si veda il box qui accanto). Ebbene, la medesima considerazione può farsi per il dominio quantistico: le forze del microcosmo non sono lineari e l'interazione tra tre o più quUit può sfociare nel caos. Comprendere quali condizioni esaltino tale instabilità è essenziale per evitare che il computer quantistico sballi. Giulio Casati, già Prorettore dell'Università dell'Insubria, è uno dei pionieri della Fisica del caos. Il suo gruppo sta studiando il calcolatore dei futuro. ________________________________________________________ La Repubblica 3 lug. ’07 L’ENI: PER INQUINARE MENO NIENTE CRAVATTA IN UFFICIO Decisione con un referendum interno: risparmi di energia de19% CINZIASASSO MILANO ALLE cinque e mezzo del pomeriggio Pierluigi, l’impiegato di medio livello, esce dal quinto Palazzo Uffici di San Donato Milanese, sede dell'Eni. Spinge la porta girevole ed eccolo in strada, spaesato: fino a venerdì era il classico colletto bianco, camicia abbottonata, giacca di lino, cravatta a disegnini geometrici, uguale agli altri ventimila colleghi. ADESSO invece indossa solo una polo e spesso si sente a disagio, perché la giacca è una divisa, certo, ma anche uno status symbol. È che i problemi globali, e il tentativo di trovare per questi una soluzione, sono arrivati fin qui, nella casa di una delle prime aziende italiane. Cari colleghi-ha fatto sapere la direzione - da ora in avanti siate più smart lasciate a casa giacca e cravatta, sarà un vantaggio per tutti. Se vi vestite in modo meno formale, sarà possibile tenere l'aria condizionata più bassa e risparmiare energia. L'idea è venuta direttamente a Paolo Scaroni, l'amministratore delegato che nel primo giorno di entrata in vigore della direttiva è in viaggio verso il Kazakistan. La settimana scorsa ha proposto ai suoi più stretti collaboratori la rivoluzione ed ora eccola compiuta. Un referendum interno - «siete favorevoli all'adozione di uno stile di abbigliamento più informale durate l'estate?» - ha dato un esito bulgaro: i190 per cento ha detto di sì. Complice la moda, che racconta come nell'anno che verrà il massimo dell'eleganza sarà indossare i bermuda; gli esempi che arrivano dall'estero, a cominciare da Spagna, Giappone e Cina; e la nuova, diffusa sensibilità ambientale, che porta un ex vice- presidente americano a farsi promotore di un concerto con palcoscenici in tutto il mondo per attirare l'attenzione sulla necessità di salvare la Terra dal drammatico problema del riscaldamento globale. Per l’Eni, l'iniziativa è una delle tante sul fronte dell'impegno per l'efficienza energetica e la sostenibilità, e si basa su dati scientifici: un solo grado in più negli edifici consente di risparmiare circail9 percento di energia elettrica e una proporzione equivalente di Co2. Nel palazzo dove lavora Pierluigi, ad esempio, vorrà dire un risparmio durante il periodo estivo di 217.000 kWh con una diminuzione di Co2 di 126 tonnellate, che è come se 140 dipendenti andassero in ufficio per un anno con i mezzi pubblici , rinunciando all'auto privata. Moltiplicato per le sedi, a cominciare da quella dell’Eur, si tratta di cifre non solo simboliche. Soprattutto, però, l'iniziativa «l'Eni si toglie la cravatta», servirà a sensibilizzare i cittadini sui piccoli cambiamenti quotidiani che ognuno di noi può mettere in atto per cercare di cambiare le cose. Come dire: la salvezza del nostro futuro non è solo nelle mani dei potenti e del Protocollo di Kyoto. In Spagna, dopo che un'azienda importante come Acciona ha raccomandato ai suoi 4.000 dipendenti un abbigliamento informale, è lo stesso governo a lavorare a un pacchetto di misure di risparmio energetico da propone a tutti gli spagnoli. In Inghilterra il look tradizionale dell'uomo d'affari è mutato e non è difficile incontrare gli gnomi della finanza che si aggirano per la City in maniche di camicia. In Giappone è stata varata la campagna «cool hiz», lanciata in prima persona dal premier Koizumi che due anni fa ha inaugurato il nuovo corso per i dipendenti pubblici, costretti a seguire il suo esempio e a presentarsi in ufficio senza la giacca. In Cina, infine, è stato il segretario HuTintao a chiedere di indossare solo una camicia a maniche corte. In Italia anche Confindustria si muove e la vicepresidente Emma Marcegaglia, che ha la delega per l'energia, sta seguendo i lavori della task force sull'efficienza energetica, costituita nel 2006. Del resto, il risparmio energetico è considerato da tutti una delle azioni più importanti sul fronte della guerra dell'inquinamento. E su quell’altare si può anche decidere di sacrificare la vecchia, cara cravatta. ________________________________________________________ La Repubblica 3 lug. ’07 MA QUANTI EQUIVOCI SULLA LINGUA PERDUTA RAFFAELE SIMONE Il cardinal Bertone ha assicurato (laRepubblicade129giugno) che la Chiesa non intende egemonizzare l'Italia ma solo evangelizzarla. In quest'inedito piano di riconquista i1 Vaticano usai suoi argomenti di sempre, a partire dal rilancio del latino come lingua di tradizione. L'operazione si sta sviluppando su più fronti. Qualche settimana fa l'insolita coppia formata dal Pontificio Comitato di Scienze Storiche e dal Cnr ha tenuto a Roma un convegno dal titolo Futuro Latino, con l'obiettivo di inquadrare il latino come "fondamento per la costruzione e l'identità dell'Europa" e verificare (pensate!) le sue potenzialità per la scienza. Non so che risultati il convegno abbia avuto, ma il segnale è eloquente. Se può esser difficile convincere gli scienziati che il latino serva loro a qualcosa, agire sui fedeli (sinceri o fittizi) è più agevole. Oggi tocca infatti agli aspetti liturgici. Un motu proprio papale di prossima pubblicazione prevede che, se almeno trenta fedeli lo chiedono, il sacerdote è tenuto a dire messa in latino senza obbligo di avvertire il vescovo. Così si chiuderebbe per sempre la riforma "popolare" di Giovanni XXIII, che introdusse nella liturgia l'uso delle lingue nazionali come segno di accostamento alla sensibilità della gente. Ma perché mai i fedeli dovrebbero chiedere una messa in latino? Cosa significa questa lingua per chi ne rivendica il restauro, quasi si trattasse di un vessillo mortificato? Il latino è abituato a essere coinvolto in rivendicazioni e nella storia gli è toccato prestarsi alle maschere più diverse. Per lo più è stato usato come bandiera del ritorno a un'origine imprecisata e ai presunti valori che questa rappresenta. Insomma come simbolo di conservazione o di reazione. Non a caso in una delle sue rivendicazioni l'arcivescovo Lefebvre richiedeva proprio il ripristino della messa in latino. Ma rivendicando il latino come lingua liturgica non si aspira certo al piacere di ascoltare discorsi in una lingua che magari nessuno dei richiedenti è in grado di capire. Per molti di loro il latino è puro suono, cantilena o assonanza, fonte più di confusione che di raccoglimento. Le fantasie nate dall'incomprensione di formule liturgiche sono così numerose e frequenti che sul tema si sono scritti libri interi (come il bel Sicuterat. Il latino dichi non lo sa di Gian Luigi Beccaria).Antonio Granisci raccontava che per sua zia Grazia il da nobis hodie del Padrenostro era diventato il nome di una nobile Donna Bisodia, che veniva citata spesso come esempio. Il fatto è che le religioni amano associarsi a lingue presunte "originarie" e dotate di un flavor esoterico e iniziatico, anche se nessuno le capisce: anzi esattamente per quello. Così assicurano la propria autenticità e continuità rispetto agli inizi: allora le formule rituali possono trasformarsi tranquillamente in mantra, in "Donne Bisodie" e in "sicuterat". Non importa che si capisca, quel che conta è che ci si distingua dagli altri. La chiave in cui la Chiesa difende il latino è proprio questa. Del resto, va notato che il latino cristiano, e più ancora quello della chiesa moderna, propriamente... non è latino. Il primo (come si vede nella traduzione delle Scritture e nella Patristica) è una metamorfosi semplificata e contaminata dell'idioma di un tempo. Il latino della Chiesa d'oggi è un'invenzione delle cancellerie, una sorta di esperanto per preti. A questa visione fantastico iniziatica se ne salda un'altra, secondo cuinell'etimologia delle parole latine si celano segreti e rivelazioni. Sono stati in molti a ricercare (nelle parole latine e di altre lingue) queste radici arcane, secondo una linea che potremmo chiamare "Vico-Heidegger." Ilmeraviglioso Giovanbattista e l'oscuro Martin hanno infatti pescato a piene mani nella scomposizione etimologica (vera o fantasiosa), l'uno del latino l'altro del tedesco, alla ricerca di significati riposti. Il gioco mostra però la corda, perché a questa linea si sono associati anche autentici folli, come quel Jean- Pierre Brisset, "Prince des penseurs" amato da surrealisti e psicoanalisti, che, ai primi del Novecento, proprio scomponendo parole arrivò a dimostrare l'origine "batracica" del linguaggio,cioè la sua provenienza dal cracrà delle ranocchie. Di segno opposto è la seconda maschera che il latino si trova spesso addosso: quella di lingua logica e razionale, studiando la quale ci si addestra a ragionare. I linguisti sanno bene che di lingue logiche non ne esistono, perché a esser logiche e ordinate (o il contrario) non sono le lingue ma semmai le teste di quelli che le usano. Ma questo semplice fatto non basta a convincere i fissati. Alcuni tratti della struttura del latino lo espongono davvero,delresto, alrischio di esser preso per una lingua-calcolatore: è ricco di casi e di flessioni complicate, ha una sintassi raffinata e mobile, tende a distanziare le parole che hanno a che fare tra loro e ha una forte propensione all'ellissi (il "sottinteso" che fa impazzire i lettori di Tacito e di Orazio). Per questo è stato facile spacciarlo come una lingua che richiede, per essere capita, un lavoro mentale particolarmente intenso. Anche qui l'argomento è debole. Se si volesse davvero insistere su quelle forme di complessità, la scuola avrebbe a disposizione un'altra lingua più ricca e complicata, il greco: ancora più folto di flessioni e di forme, ancora più drastico nelle "parole mancanti", ancora più ricco di problemi da risolvere prima di cominciare a capire qualcosa. Pure Granisci era cascato in questa trappola: «Il latino non si studia per imparare il latino», scriveva in un passo dei Quaderni del carcere dedicato a questo tema. La sua formula svela l'inganno di tutte queste operazioni: i difensori spuri del latino (dal clero tradizionalista e i fedeli lefebvriani ai supposti educatori del ragionamento) non hanno alcun interesse per il latino, ma solo per ciò che presumono che si possa ottenere usandolo. Chi volesse davvero far qualcosa per il latino nella cultura della modernità dovrebbe invece promuoverlo come tale, cioè come una lingua dalla magnifica struttura, come la porta di una formidabile letteratura e il vessillo di una civiltà che ancora ci intriga. ESOTERISMO Alcuni fautori del suo ritorno sostengono che nella etimologia delle parole latine si celano segreti e rivelazioni 99 RAZIONALITÀ C'è chi vede nel latino una lingua logica e razionale, studiando la quale ci si addestra a ragionare LA RIFORMA XVI SECOLO I protestanti chiedono di celebrare il culto in una lingua che i fedeli possano comprendere. Nel 1526 Lutero celebra la messa E teciesco, ma nei suoi scritti non abbandona mai il latino ======================================================== _________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 5 Lug. ‘07 250 BORSE DI STUDIO AI MEDICI Dieci milioni di euro per favorire le specializzazioni CAGLIARI. Confermato, tra Ministero della Salute e Regione, il numero delle ex borse di studio (ora chiamati contratti di formazione specialistica) per la frequenza alle Scuole di specializzazione universitaria di Medicina (umana e animale). Sono, rispettivamente, 188 e 73 (di cui 10 per veterinaria). La Regione conferma il suo impegno nel favorire le specialità, strada obbligata per qualificare la sanità. Spenderà 10 milioni di euro (5 milioni in più del passato) e il costo di ciascun contratto di formazione passerà da 11 mila a 25 mila euro lordi; un trattamento più dignitoso per l'impegnativo percorso degli specializzandi. C'è stata un'intesa, tra le due università sarde. Sassari avrà 20 contratti di formazione (ne aveva 23) mentre Cagliari ne avrà 43 (ne aveva 40). _________________________________________________________________ Repubblica 5 Lug. ‘07 SERVIZIO SANITARIO, RICOSTRUZIONE IN 15 MATTONI Dalla foto ad alta definizione del sistema sanitario nazionale arriveranno una programmazione migliore, più organizzazione ed efficienza. È l'obiettivo del progetto "Mattoni del Ssn" da 18 milioni, articolato in 15 sottoprogetti tutti conclusi e i cui risultati saranno presentati a settembre ad assessori e ministro. Soprattutto l'elaborazione di un nuovo flusso d'informazioni e di un linguaggio comune per confrontarle: l'aggiornamento del Sistema Informativo Sanitario, basilare per governare la sanità. Stessa metodologia di raccolta dati, stessi termini, dati omogenei. Condivisa la classificazione delle strutture, dove ogni Regione aveva nomi diversi per strutture simili. "Il modello della rilevazione dei costi è già in uso", precisa Filippo Palumbo, direttore Programmazione sanitaria del ministero. "Ci saranno una nuova nomenclatura per le prestazioni ambulatoriali, la ridefinizione di assistenza residenziale e domiciliare". Il mattone sulla farmaceutica sarà recepito con decreto, in arrivo nuovi Drg e classificazione di Day hospital e Day surgery. E un "patient file" che si rifà al modello canadese per i problemi tecnici sulla circolazione dei dati: una "card" del paziente, che autorizzerà uno o più medici a "loggarsi" per leggere la sua storia clinica. "Le differenze tra regioni erano nei metodi più che nei contenuti", specifica Giovanna Baraldi, coordinatrice del progetto. "Impossibile valutare ad esempio il fabbisogno della popolazione anziana perché non c'era un modo comune di raccolta e lettura di informazioni". Mattone importante è quello del controllo degli esiti, dei risultati delle prestazioni del sistema. L'omogeneizzazione dell'interpretazione dei codici d'urgenza arriva dal "mattone 118": la verifica di come tali codici vengono attribuiti, continuerà ogni 3 mesi, a livello nazionale, con monitoraggio continuo di carenze e fabbisogni. Per finire, si individuano per la prima volta 77 prestazioni di competenza del 118. _________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 30 Giu. ‘07 ASL8: CENTO MILIONI DI PERDITE IN MENO L'assemblea del distretto ha approvato il bilancio presentato dal manager - Ma i settantuno comuni hanno chiesto di essere coinvolti nelle scelte CAGLIARI. Sul bilancio per il 2006 la Asl 8 rimane in piedi: ieri la Conferenza provinciale (composta dai 71 sindaci, secondo la vecchia ripartizione territoriale) ha detto sì ai conti presentati dal manager Gino Gumirato. Conti che hanno detto: la perdita è di 15 milioni di euro, ma due anni fa superava i 118 milioni. Un risultato, ha detto Gumirato, frutto di una buona gestione e non di tagli. Nonostante il voto positivo, alcune perplessità restano: i comuni vogliono essere coinvolti di più nelle decisioni. L'incontro, a cui hanno partecipato come "supervisori" il presidente della Provincia, Graziano Milia, e l'assessore ai Servizi sociali, Angela Quaquero, s'è aperto con la relazione del manager della Asl. Il 2006 - ha detto - è stato un anno di transizione: il nuovo Piano sanitario, atteso da tempo, la nuova mappa territoriale di riferimento per i servizi socio-sanitari dovuta alle nuove province («Cagliari - ha ricordato Gumirato - ha acquisito 34 nuovi comuni, con un aumento del 13 per cento della popolazione>>) sono stati solo alcuni elementi che hanno reso anomalo il quadro attuale, rendendo difficile, per certi versi, il confronto tra i numeri del 2005 e quelli del bilancio approvato. Un fatto è però chiarissimo e inconfutabile per Gumirato: il risanamento dei conti della Asl, è frutto di un risparmio dovuto non <>, e neppure a <> o all'allungamento delle liste d'attesa, ma piuttosto ad << appropriati ricoveri>>, al <>, e al <>. Fatti avvallati da altri fatti: la spesa per manutenzioni e pulizie, ad esempio, ha fatto notare Gino Gumirato, è aumentata del 30 per cento, e «il turn over tra il personale è stato del cento». Ancora: su tecnologie e infrastrutture l'Asl ha investito 25 milioni di euro. Nulla da ridire sui conti, è stata la linea dei comuni. >. Per la prossima volta però le amministrazioni chiedono un ruolo più incisivo: <>. Capoterra, ad esempio, ha lamentato l'abbandono delle terapie a favore dei bambini autistici. <>. Mentre per Quartu, Stefano Delunas ha denunciato che la trafila per accedere ai sostegni economici a favore dei disabili è ancora troppo lunga e molte famiglie rischiano di essere tagliate fuori. Problemi impellenti davanti ai quali il presidente della Provincia ha lanciato la proposta: rivedersi tutti quanti già a luglio. Il caso Adi-Ctr Primavera. Sempre ieri per Gino Gumirato è ricomparsa la vecchia grana legata al servizio d'assistenza domiciliare, in mano oggi alla cooperativa Adi 2000 ma da lunedì gestito dalla Ctr primavera: