OLTRE UN MILIARDO E MEZZO AGLI ATENEI VIRTUOSI - QUELLE AULE COSÌ LONTANE DALLA SOCIETÀ CHE CAMBIA - QUAGLIARELLO: IL MINISTRO CREA LA CASTA DEI "VALUTATORI" - TRIENNALI: SE IL RIMEDIO E PEGGIORE DEL DANNO DA EVITARE - CENTO E LODE PIGLIATUTTO - LAUREATI CON LODE? NO, GRAZIE - IO, NEOLAUREATO CON LA VALIGIA: VOLONTÀ E BUON INGLESE PER UN POSTO - L'UNIVERSITÀ È SOLO LO SPECCHIO DELLA SOCIETÀ - TROPPE LAUREE FACILI NEGLI ATENEI ITALIANI - MANOVRA AMARA PER IL CNIPA: CHE PERDE SOLDI E UOMINI - APPALTI D' ORO E PARENTOPOLI FIAMME GIALLE ALLA SAPIENZA MISTRETTA: AUMENTERÒ SUBITO LE TASSE UNIVERSITARIE - UNIVERSITÀ, CERVELLI DI NUOVO IN FUGA DALL'ITALIA - DIRITTO IN INGLESE, POLEMICA SARDA - NUORO: SORU AGLI STUDENTIDI: QUESTA UNIVERSITÀ SERVE A POCO - PIGRI, ARROGANTI, POCO PREPARATI" LE AZIENDE BOCCIANO I NEOLAUREATI - THARROS, SULLE TRACCE DEI FENICI - MANDATI PIÙ BREVI NONOSTANTE IL NO DEL MINISTRO - ======================================================= TURCO: IL SERVIZIO SANITARIO È TRA I PRIMI NEL MONDO - FREDDE CERE CONTRO LA MORTE - MA CHI È IL VERO POVERO? SERVONO DATI CERTI - SANITÀ E AFFARI SOCIALI : SOLO A CASA TERAPIE PIÙ UMANE - SARDI E SVEDESI A CACCIA DI ANTICORPI - CONTU(FI): LA GIUNTA UAMENTA LE TARIFFE MEDICHE - OSTETRICIA, LA RABBIA DEI CAMICI BIANCHI - SUA SANITÀ VERONESI - MA LA SCIENZA ALLUNGA SOLO LA VECCHIAIA - VACCINI: NESSUN LEGAME CON I DANNI NEUROLOGICI - CERVELLO: II VANTAGGIO DELLE DUE METÀ - UN ARCHIVIO PER I RAGGI X - AIDS, LA LOTTA CONTINUA - DENTI SANI, MA NON PER TUTTI RESISTENTI ALLE MALATTIE COME UN CAMMELLO - VENTER:REALIZZATO CROMOSOMA DI SINTESI - GESSA: DUBBI SULLA PROPOSTA DI ISTITUIRE LE NARCOSALE - PSICHIATRIA: CURE PER I MALATI, MA CHI TULELA I MEDICI? - GESSA: ECCO PERCHÉ LE TOSSICODIPENDENZE HANNO A CHE FARE CON LA SALUTE MENTALE - ======================================================= _____________________________________________________ ItaliaOggi 2 ott-07 OLTRE UN MILIARDO E MEZZO AGLI ATENEI VIRTUOSI PREMIO ALLE UNIVERSITÀ CON BILANCI A POSTO, E RISULTATI IN DIDATTICA E RICERCA D’ora in poi ad essere virtuosi ci si guadagnerà. Bilanci a posto, risultati di qualità nella didattica e nella ricerca stavolta premieranno. É così che in Finanziaria trova conferma quel Patto per l'università sottoscritta tra esecutivo e atenei, annunciato poco prima della pausa estiva, che prevede misure per il risanamento e incentivi per efficacia ed efficienza dell'intero sistema accademico. A spartirsi un piatto di circa 1 miliardo e 650 milioni di euro saranno dunque quelle università che avranno adottato entro gennaio 2008 un piano programmatico volto ad elevare la qualità globale del sistema universitario e il livello di efficienza degli atenei. Una cifra questa che va ad aggiungersi. ai 400 milioni di euro previsti nella manovra (320 milioni per l'università, 80 per la ricerca). Ma le risorse per così dire premiali dovranno essere destinate come si legge nel testo della manovra per gli adeguamenti retributivi per il personale docente e per i rinnovi contrattuali del restante personale delle università. Ma anche in vista degli interventi da adottare in materia di diritto allo studio, di edilizia universitaria. Ecco perché, per tutto questo, nello stato di previsione del ministero dell'università e della ricerca è istituito «un fondo con una dotazione finanziaria di 550 milioni di euro per fanno 2008, di 550 milioni per fanno 2009 e di 550 milioni per l'anno 2010. Scopo dell’operazione, suggerita dalla Commissione tecnica per la finanza pubblica, non è tanto quello di spendere di meno, l'Italia è sotto la media Ue e Ocse, quanto a spendere meglio. Premiando i virtuosi grazie ai parametri di efficienza. Il Patto prevede innanzitutto la stabilizzazione del Fondo ordinario (circa 7 miliardi fanno) che sarà indicizzato al costo del personale e assunzione, nonché il finanziamento dell’edilizia universitaria su base triennale. Per frenare l'indebitamento, verrebbe imposto un vincolo sulla spesa per gli interessi, che non potrebbe superare una quota tra il 2 e il 4% del Fondo assegnato a ciascun ateneo. Anche il tetto attuale alla spesa per il personale (90%- del Fondo) viene rivisto in modo più restrittivo, computando ad esempio anche i costi degli aumenti contrattuali. Il che avrebbe effetti non indifferenti, visto che se oggi a sforare quel 90% sono solo quattro università (Firenze, Pisa, Trieste e l'Orientale di Napoli), con i nuovi criteri proposti dal governo salirebbero a quasi 20. Chi dovesse sforare il nuovo tetto sarebbe costretto a ridurre al35% il turnover dei dipendenti, mentre per chi, oltre a sforare il tetto, avesse anche gli ultimi due bilanci in rosso, scatterebbe una cura più pesante. Il turnover sarebbe ridotto al 20% e ci sarebbe l’obbligo di presentare ai due ministeri un piano di risanamento da seguire, a pena di un commissariamento dell'istituto. Maggiori risorse potrebbero essere garantite dalla possibilità di aumentare le tasse agli studenti fino al25% del Fondo di finanziamento ordinaria, mentre oggi il limite è del 16%. Per gli atenei, potenzialmente, dall'aumento delle tasse potrebbero arrivare quasi 700 milioni di euro fanno in più, di cui il 50% dovrebbe però essere destinato ai servizi agli studenti e al finanziamento delle borse di studio. Seconda il piano previsto poi, le università in stato di potenziale dissesto dovranno presentare un piano di risanamento di durata non superiore a dieci anni. _______________________________________________________ Repubblica 1 ott. ’07 QUELLE AULE COSÌ LONTANE DALLA SOCIETÀ CHE CAMBIA ILVO DIAMANTI LA SCUOLA non gode di buona fama e di buona stampa, da qualche tempo. Perché considerata asimmetrica rispetto ai cambiamenti sociali, economici, culturali. Perché gli insegnanti hanno perduto considerazione, credibilità. Perché pare divenuta un luogo insicuro, attraversato da violenze quotidiane, piccole e (talora) grandi. Il sondaggio di Demos-coop, però, fornisce un’immagine diversa. Certo, la sua credibilità fra i cittadini, negli ultimi anni, è calata. Ma, il giudizio nei suoi confronti risulta ancora largamente positivo. Circa il 55% degli italiani, infatti, manifesta fiducia nella scuola e nell’università. Una quota ancor più ampia, il 60%, negli insegnanti. Oltre i due terzi delle persone si dicono “soddisfatti” dei servizi e delle prestazioni della scuola. Pubblica. Mentre la scuola privata, di ogni ordine e grado, ottiene commenti assai meno positivi. Si tratta di dati inattesi, in contrasto con il dibattito politico e mediatico, ma anche con il senso comune. Riflettono il rapporto ambiguo fra scuola e società, tra le famiglie e il sistema educativo, tra i genitori i professori. I cittadini, infatti, esprimono fiducia nella scuola e negli insegnanti “nonostante”. Perché, in realtà, vorrebbero una scuola diversa. Con più risorse, maggiori relazioni con il mercato del lavoro. In grado di riconoscere e di promuovere il talento degli studenti, permettendo ai migliori di emergere. Vorrebbero, inoltre, insegnanti più motivati. Sottoposti a un costante processo di “valutazione”. E, quindi, “premiati” in base al merito, in termini di carriera e di retribuzione. Come propone, d’altronde, il “Quaderno bianco sulla scuola”, predisposto di recente dai ministeri della Pubblica Istruzione, del Tesoro e dell’Economia. Si tratta di attese largamente deluse. Da cui originano, fra l’altro, le contestazioni di molti genitori nei confronti degli insegnanti. A “protezione” dei figli. Non sempre per “giustificato motivo”. In altri termini: la scuola fornisce un servizio utile e piuttosto apprezzato, dalle famiglie e dagli studenti. Ma non riesce più a trasmettere il senso del futuro. Non dà più “sicurezza”. Come, invece, è avvenuto, in passato, nel nostro Paese. La scuola: il “centro” della vita sociale, dell’educazione, della formazione. Dove si comunicano valori, modelli e conoscenze. Dove, per dieci-vent’anni, gli individui trascorrono gran parte del loro tempo di vita. Dove passano dall’infanzia, all’adolescenza, alla giovinezza fino all’età adulta (anche se pochi, ormai, accettano di “diventare grandi”). Senza soluzione di continuità. Dove i giovani coltivano amicizie e incontrano “maestri”, buoni o cattivi non importa; ma capaci di fornire modelli, di fungere essi stessi da esempio. Dove si ridimensionano le differenze sociali e si valorizzano i “talenti” individuali. Nella “memoria” degli italiani la scuola è tutto questo. Anche se, nei fatti, si tratta di una raffigurazione eccedente e mitizzata. Oggi, però, è “impossibile” immaginare che tutto ciò sia “possibile”. Perché è cambiato tutto; intorno ma anche all’interno. Il mondo, il sapere, i valori, l’organizzazione della conoscenza, la comunicazione. Sono cambiate la demografia, la struttura e la dinamica del mercato del lavoro. E’ cambiato il rapporto fra genitori e figli. Però la scuola resta sempre lì. Al suo posto. Allo snodo tra i giovani, le famiglie, la società, le istituzioni. Anzi, occupa una “porzione” del tempo di vita personale e familiare crescente. Visto che si tende ad anticipare l’ingresso nel sistema educativo e, nello stesso tempo, ad accompagnare un numero più ampio di persone fino alla laurea, senza “perderle per strada”. Visto che il rarefarsi del numero dei figli ha accentuato la pressione e l’attenzione dei genitori sulla loro “carriera scolastica”. Da ciò il contrasto di atteggiamenti e di giudizi. La scuola e gli insegnanti soffrono di cattiva fama, perché subiscono la pressione di attese irrealistiche. Che contribuiscono ad alimentare le tensioni con gli studenti e i loro genitori. D’altronde, la legittimazione sociale degli insegnanti, oggi, è declinante. Il “professore universitario” dispone ancora di un prestigio professionale notevole. Poco inferiore ai magistrati e più elevato rispetto ai manager privati e agli imprenditori. Ma i maestri e i professori delle secondarie — superiori e medie — godono, invece, di considerazione assai minore. Il che ne limita l’autorevolezza: in classe e nell’ambiente sociale. (Difficile ottenere rispetto da ragazzi i cui genitori hanno redditi, consumi, posizione professionale di livello molto più elevato). Tuttavia, “nonostante tutto”, la scuola e i professori condividono con gli studenti e le famiglie un percorso biografico molto lungo. E ciò spiega la grande fiducia di cui godono. Perché, in fin dei conti, la scuola continua a fare da “collante” in una società “scollata”. E’ un elemento “normale”, per questo importante, della storia personale e della vita quotidiana. Non è un caso che venga apprezzata in misura maggiore fra coloro che ne hanno esperienza diretta. La fiducia nella scuola, ad esempio, è espressa dal 54% della popolazione nell’insieme, ma dal 62% di coloro che hanno un familiare che studia e, infine, dal 66% degli studenti. Al tempo stesso, cresce parallelamente all’ottimismo nel futuro, al senso di sicurezza personale, alla fiducia negli altri. Perché è una risorsa di “capitale sociale”. Luogo di relazioni, dove, per quanto in modo contraddittorio e traballante, si rafforza il “senso civico”, la solidarietà. Altra origine delle tensioni che scuotono la scuola è la frammentarietà degli interventi riformatori, di cui è stata oggetto nel corso degli anni. Soprattutto nell’ultimo periodo. Privi di coerenza, di un disegno. L’hanno cambiata senza fornirle una identità, un profilo comune. Senza comunicare un progetto, a chi vi opera, agli studenti, alle famiglie. Per questo, alcuni elementi della riforma annunciata dal ministro dell’Istruzione, Fioroni, incontrano un favore così massiccio. La riproposta degli esami di riparazione (80%), l’apertura degli istituti di pomeriggio (77%), la maggiore attenzione dedicata a materie come la geografia, la matematica e soprattutto l’italiano. Riscuotono un consenso ampio perché evocano i “fondamenti” della tradizione educativa. Il ritorno alla scuola di un tempo, “quando le cose funzionavano”. E riflettono l’insoddisfazione per l’esperienza recente, che non riesce a dare orientamento, senso del futuro. Certezze. Da ciò il sospetto che le famiglie cerchino nella scuola una supplenza (ma anche un alibi) alle proprie difficoltà di capire e di educare i giovani. Come suggerisce la questione del “bullismo”. Un fenomeno preoccupante, che, tuttavia, gran parte degli italiani non considera un’emergenza. Tanto meno i giovani e gli studenti. I più spaventati sono quelli che non vanno a scuola. E che non hanno studenti in famiglia. Si tratta, dunque, di una “paura” largamente in-giustificata; e in- definita. Riflette un senso di insicurezza più generale. Non è un caso che i principali responsabili della violenza nelle scuole siano ritenuti, anzitutto, i genitori. Poi, in misura più limitata, gli insegnanti. Accusati, entrambi, di non esprimere né esercitare “autorità”. L’insicurezza delle scuole, così, finisce per riflettere la crisi di senso e di governo che affligge la società. L’autorità perduta, non solo dalla politica e dalle istituzioni. Ma anche dalla famiglia. Da ciò l’atteggiamento contraddittorio nei confronti della scuola. Che critichiamo tanto. Ma ispira, nonostante tutto, fiducia. E’ come provare disagio davanti allo specchio. Guardando la nostra immagine riflessa. Perché la scuola siamo noi. _____________________________________________________ Libero 3 ott-07 QUAGLIARELLO: IL MINISTRO CREA LA CASTA DEI "VALUTATORI" Dopo il maxi concorso e la riforma degli ordinamenti didattici Mussi fa nascere l’Agenzia nazionale per la valutazione dell'università e della ricerca (Anvur). Come se ce ne fosse stata bisogno... GAETANO QUAGLIARIELLO – Senatore Forza Italia Mussi terzo atto: dopo il reclutamento per maxi-concorso e una pseudo-riforma degli ordinamenti didattici, giunge il patto con gli atenei, proposto in tandem con il ministero del Tesoro. L' analisi che il documento presenta in premessa è impietosa si denunziano la proliferazione di corsi inutili e sedi universitarie inefficaci; un inadeguato rapporto docenti/studenti; l'assenza di servizi; borse di studio insufficienti; la scarsa selezione e il mancato orientamento degli studenti; sistemi di valutazione precari; una mobilità tra sedi che tende allo zero. E poi, ancora, un'incidenza della spesa per l'università sul Pil tra le più basse nell'area Ocse; un'inadeguata composizione del corpo docente; un uso disinvolto del reclutamento e della promozione. Si descrive un'autentica Caporetto che esige un drastico cambiò di rotta Quello che noi auspichiamo da tempo. Più facile a dirsi che a farsi, è innegabile. Ma il problema non è la difficoltà del cambiamento: nel "patto Mussi" sembra chiara, piuttosto, la volontà di non cambiare niente. Così come di fronte al fallimento storico del comunismo ci fu chi coltivò l'illusione di una sua riforma per linee interne, gli estensori del documento "Misure per il risanamento finanziario e l’incentivazione dell'efficacia e dell'efficienza del sistema universitario" appaiono convinti che si possa riparare al disastro attraverso una strada alternativa alla liberalizzazione. Fondata su tre capisaldi: programmazione, vincoli e valutazione. Per ciò che concerne la programmazione, il "patto" la dilata fino al limite del "pianismo". Si richiede che i finanziamenti statali agli atenei siano assicurati in un orizzonte minimo di tre anni, e che, riguardo alle assunzioni, le università introducano piani decennali a scorrimento previa approvazione ministeriale. Quanto alle sedi in dissesto economico, si propongono «piani di rientro» con certificazione almeno trimestrale. Un'enfasi programmatoria non solo politicamente discutibile e incompatibile con una strategia di rilancio, ma anche poco realistica perché non tiene conto degli inevitabili cambiamenti che nel frattempo si verificano nello Stato, nell'università e nella realtà esterna. Ricordo un consiglio di facoltà durante il quale il mio collega Victor Zasvlasky si oppose strenuamente all'adozione di un provvedimento, per poi acconsentire alla sua approvazione quando il preside specificò che esso si sarebbe inserito in una programmazione di li a 5 anni. Mi spiegò: conosco la storia dell'Unione Sovietica, so bene che fine fanno i piani quinquennali! I programmi portano con sé vincoli e prescrizioni. Il patto ne contiene di ogni genere. Si prevede un vincolo effettivo d'indebitamento; la limitazione alla costituzione di enti e fondazioni collaterali per timore che servano ad aggirare divieti; blocchi nelle assunzioni e obblighi nell'allocazione dei contributi derivanti dalle tasse d'iscrizione versati direttamente alle sedi. Tra piani, divieti, balzelli e timori, della competizione reclamata in premessa cosa rimane? Nel "Mossi pensiero" essa s'identifica con l'attività di valutazione da affidare ad una nuova Agenzia all'uopo creata. Ma nel leggere il documento si comprende come di tante urgenze dell'università, quella di una nuova agenzia fosse tra le meno avvertite. Non solo, infatti, si riconosce che la struttura varata dal ministro Moratti ha ben operato, ma ci si limita ad auspicare una marginale correzione del sistema vigente. Dato che mal si attaglia a tant'enfasi e tant'impellenza. Torniamo in conclusione al siparietto tra Salvati e Mussi dal quale eravamo partiti. Nel sistema che sì profila l'Agenzia incarna la via alterativa alla competizione tra atenei in un sistema finalmente liberalizzato. Un'attività utile se ben delimitata viene dilatata e trasformata in una sorta di entità onnipotente, che in breve genererà la "casta" dei valutatori. Se la nuova Agenzia di valutazione verrà indebitamente caricata delle funzioni proprie della libera concorrenza, infatti, il potere politico si svuoterà ulteriormente. Se e quando il centro-destra vincerà le elezioni, avrà ben poco da fare. Come già avviene per la maggior parte dei poteri corporati (si pensi alla magistratura), sacerdoti senza alcun mandato popolare impediranno di agire. La democrazia rappresentativa subirà l'ennesimo sfregio. E l'università italiana continuerà ad affondare mentre a bordo si svolge il "gran ballo della valutazione". _____________________________________________________ Il Sole24Ore 1 ott-07 TRIENNALI: SE IL RIMEDIO E PEGGIORE DEL DANNO DA EVITARE di Maria Carla De Cesari Il ministero dell'Università, tra il 1999 e il 2001, mentre si definivano le tessere della riforma dei corsi di laurea, accanto alle preoccupazioni per la pianificazione didattica era chiara la trappola che occorreva in ogni modo evitare: che il titolo triennale di primo livello - la laurea - nascesse già penalizzato. Con il risultato di aver costruito - rinnegando l'obiettivo iniziale - un percorso in serie, con il passaggio contrassegnato da un esame. Ed è per questo che il ministero si adoperò in ogni modo per garantire dignità al titolo di primo livello: denominandolo laurea, aprendo le porte degli Albi ai "triennali" come professionisti junior (per la corretta qualifica si scomodò l'Accademia della Crusca), assicurando l'accesso ai concorsi pubblici. E nel settore privato si confidò nella forza del mercato. La Pubblica amministrazione si assunse il ruolo di apripista, con la circolare della Funzione pubblica 635o del 27 dicembre 2000: Per chi è già interno all'amministrazione, l'accesso alle qualifiche dirigenziali, fermi restando i vecchi requisiti, è possibile con cinque anni di servizio svolti in posizioni funzionali per le quali è necessario il titolo di laurea, anche triennale, nelle "classi" coerenti con la professionalità da selezionare. Invece, per le nuove assunzioni o per chi non ha i requisiti di servizio la dirigenza richiede la laurea specialistica (ora magistrale). Perle qualifiche non dirigenziali le vecchie lauree «devono ritenersi equivalenti, sulla base del nuovo ordinamento degli studi e dei corsi universitari, al prescritto titolo di studio di primo livello denominato laurea». Questa affermazione si spiega a partire dal presupposto della circolare del 2000, che è garantire la spendibilità del titolo triennale. In ogni caso, la laurea "vecchio ordinamento" vale quella specialista o magistrale. In particolare, il decreto del ministero dell'Istruzione e dell’Università 5 maggio 2004 («Gazzetta Ufficiale» del 21 agosto 2004) ha riportato le tabelle di equiparazione tra i vecchi titoli e le nuove classi, per esempio Economia e finanza "corrisponde" alle classi 19/S e 84/S; Economia e commercio alle classi 64/S e 84/S. Fin qui le linee generali, che devono essere coniugate con gli spazi di autonomia regolamentare delle amministrazioni (Dlgs 165/2000 e ; con le norme contrattuali. A qualche anno dall'avvio della riforma, tuttavia, la scelta della Pubblica amministrazione sulla laurea triennale non è riuscita a fare scuola. Tanto è vero che il diploma triennale non è percepito come una "carta" sufficiente per raggiungere un buon posto nel privato. E così gran parte dei laureati si iscrive al corso magistrale, una tendenza che non può essere spiegata solo con la sete di conoscenza. D'altra parte, negli Ordini i laureati iscritti nelle sezioni «B» faticano a trovare un profilo professionale nonostante l'elenco di attività previste nel Dpr 328/2001. Come dire: non basta una legge per cambiare il costume. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 1 ott-07 CENTO E LODE PIGLIATUTTO I punti in più ai test del numero chiuso contano solo dal 2007 Maturità 2006/2007: primo anno per i cento e lode e bufera sui test d'ammissione copiati alle università. Maturità 2007/2008: secondo anno dei cento e lode e pioggia di ricorsi per i test di ammissione. È solo un'ipotesi. Ma potrebbe accadere se lo schema di decreto Fioroni-Mussi, in via di discussione in Parlamento, non tenesse conto dei diplomati degli anni scolastici precedenti al nuovo esame di maturità che ha introdotto i cento e lode. Il decreto, infatti, prevede una dote di 25 punti per il curriculum scolastico, da sommare agli 8o attribuiti dagli atenei nelle selezioni. Un meccanismo fatto per premiare gli studenti eccellenti, che tiene conto della media dei voti degli ultimi tre anni di scuola superiore (deve essere di minimo sette decimi e considera anche l'attinenza delle materie al corso di laurea prescelto), del voto di maturità in caso di punteggio non inferiore 8o/100 e l'eventuale lode. Però, prima della maturità di quest'anno, il massimo risultato ottenibile era 100/100, e meno di dieci anni prima era ancora in vigore il 60. Se tra centesimi e sessantesimi per parificare bastava fare un'equazione matematica, la lode pone un nuovo problema nell'equiparazione dei voti e apre la strada a contenziosi proprio per l'ammissione alle facoltà a numero chiuso. Alle selezioni future si possono senz'altro presentare anche diplomati ante-2006/2007 (anzi, la tendenza a fare uno "stop" di almeno un anno prima di iscriversi all'università è sempre più frequente) e addirittura anche i maturati con il "sessanta", per i quali calcolare il punteggio potrebbe essere ancor più difficile se non venisse predisposto un accurato sistema di equiparazione. Il decreto Fioroni-Mussi nasce come modo per premiare i più bravi, con la stessa logica che sta alla base dell'istituzione dell'Albo nazionale per gli studenti eccellenti, in cui verranno iscritti tutti i ragazzi che abbiano conseguito il punteggio di 100 e lode alla maturità 2006/2007. «Garantendo a tutti pari opportunità per vedere valorizzate le proprie capacità», dice una nota di viale Trastevere. Ma anche in questo caso l'eccellenza viene valutata solo dal 2007 in poi. Un vero e proprio jackpot, dunque, per i primi cento e lode, che nel 2007 beneficeranno anche di un assegno da i.ooo euro per l'acquisto di materiale didattico. Se. R. A. Ti. _____________________________________________________ Panorama 11 ott-07 LAUREATI CON LODE? NO, GRAZIE LAVORO Sempre più aziende diffidano dei voti troppo alti. E preferiscono assumere quanti hanno terminato gli studi in tempo, anche se con meno punti: sanno sbrigarsela. di Lucia Scajola Accettate i 23, arrabattatevi e non deprimetevi per una bocciatura. Purché facciate in fretta e facciate anche dell'altro. Stando a quanto sostengono cacciatori di teste, docenti universitari e alcuni responsabili delle risorse umane, sono questi i consigli per gli studenti che, alla vigilia delle sessioni di laurea autunnali, riflettono sulle proprie possibilità di arrivare al 110 e lode. Chi non ha speranze non si deprima: l'agognato riconoscimento non servirebbe più granché e in alcuni casi potrebbe suscitare perfino diffidenza. «Chi si è abituato ad avete sempre il massimo all'università è poco abile nell'arte dell'arrangiarsi» sostiene l'avvocato Alessia Gelosa, socia dello studio Legearris di Milano. «Per i ruoli che comportano il confronto con gli altri, meglio chi qualche volta è caduto, ha affrontato una bocciatura e magari si è laureato con 103». A ridimensionare l'importanza del 110 e lode anche l'opinione di Paolo Citterio, presidente del Gruppo intersettoriale direttori del personale: «Più del voto conta il tempo: meglio 80 nei tempi giusti che 110 e lode in otto anni» spiega. «Le aziende cercano persone che portino a casa il compito in tempo, magari arrabattandosi, non dei perfezionisti che si perdono in presentazioni leccate». La puntualità, quindi, prima di tutto: «Il tempo è il bene più prezioso: inutile sprecarlo a rifiutare voti» commenta Lorenzo Ait, autore di Trenta e lode senza studiare (Castelvecchi), che di mestiere fa l’«addestratore per colloqui». Per lui, come per Lise-Ivfàia Nora, professione cacciatrice di teste, meglio investire le ore in più guardandosi intorno già quando si studia. Magari facendo i caffè nel posto in cui si sogna di lavorare. «È finito il periodo in cui si assumevano i primi della classe» oggi, a dire di Nora, è più interessante la storia personale dei candidati. In poche parole, vince chi ha carattere ed esperienza maturata oltre i libri. «Nutro diffidenza verso chi è abituato a riuscire sempre benissimo, temo che crolli di fronte alla sconfitta» ammette Claudio Elestici, socio dello studio legale Hammonds Rossotto. «Nel nostro settore conta il temperamento». A mettere in discussione l'importanza dei «baci accademici», a sorpresa, anche il parere delle università, che intanto hanno ridimensionato il numero delle lodi: l'apice del 21,3 per cento sul totale toccato nel 2002 è sceso al 16,4 per cento nel 2006. «II peso di quel voto va riconsiderato» sostiene Luigi Campiglio, prorettore dell'Università Cattolica di Milano. «Il suo valore è cambiato». La colpa sarebbe dell'aumento delle sedi universitarie e dell'ibridazione di molti corsi di laurea. Sulla stessa lunghezza d'onda, Guido Corbetca, direttore della Bocconi graduate school: «Vorremmo che gli studenti accettassero i 23 senza immolarsi sull'altare del 30. Meglio finire in fretta. Le aziende, del resto, stanno riconsiderando l'importanza dei voti». Quando ne hanno il tempo, infatti, prolungano i colloqui e ricorrono a test sempre più approfonditi (spesso brevettati) per analizzare i candidati nel dettaglio. Ciononostante, ci sono aziende come la Lvmh, prima multinazionale nel settore del lusso, che puntano comunque sui primi della classe: «La selezione per voto è il criterio più rapido» sostiene Marco Ronchi, direttore delle risorse umane del gruppo «scegliamo i migliori, poi consideriamo anche gli altri parametri». Più aperte le porte della Ubs: «Il 110 e lode non dice abbastanza, è una valutazione accademica che non necessariamente riflette quella aziendale. Un laureato con 105 potrebbe essere perfino più idoneo di chi ha meritato il massimo» commenta Silvana Fontana, responsabile delle risorse umane per l'Italia. «È più interessante capire il modo in cui il giovane ha studiato e le attività da lui svolte nel frattempo». Come a dire che 1a laurea della vita vale almeno quanto quella accademica. _______________________________________________________ Corriere della Sera 1 ott. ’07 IO, NEOLAUREATO CON LA VALIGIA: VOLONTÀ E BUON INGLESE PER UN POSTO Le cose «da fare»: conoscere le lingue, essere sempre disponibili, tenersi aggiornati. Quelle da «non fare»: aspettare che le occasioni arrivino da sole, credersi migliori degli altri, fermarsi alle materie studiate in università, inviare curriculum lunghi e noiosi (guai a chi se lo fa scrivere dalla mamma, con allegata raccomandazione). Questione di buonsenso, certo. Ma non solo. Per molti neolaureati questi pochi consigli sono inediti e preziosi. Tanto più se arrivano da uno come Mario Turri, analista di 25 anni, laureato ad aprile, due lavori all' attivo e nessuna voglia di fermarsi: «Ci vuole carattere e spirito di iniziativa». Insomma ragazzi, datevi da fare. Università e aziende. Le une formano giovani non sempre pronti ad affrontare il mondo del lavoro, le altre chiedono subito figure professionali preparate «da buttare nella mischia». Dare e avere. Formare e assumere. Se ne è parlato molto, negli ultimi tre giorni, durante la Bip, la borsa internazionale del placement organizzata a Cernobbio da Politecnico ed Emblema. Altro che voto finale. Il 110 e lode conta sempre meno. L' importante - hanno insistito i «cacciatori di teste» delle imprese più importanti d' Italia - è un percorso di studi di cinque anni (niente laurea breve, per carità), tanta umiltà e «la valigia sempre in mano». Requisiti che Mario conosce bene: «Io ho fatto così». Curriculum in inglese, una discreta dose di faccia tosta - «sono tranquillo quando sostengo i colloqui» - la voglia di raccogliere le sfide. Mario ha iniziato a lavorare ancora prima di laurearsi. Dai corsi di ingegneria gestionale del Politecnico alla società francese di investimenti Rothschild. Niente male per un laureando. «Me la sono giocata bene. Io volevo fare una prima esperienza, loro cercavano uno stagista. In una paginetta ho scritto cosa cercavo, le mie aree di interesse, pochi dati anagrafici. Mi sono buttato». È andata bene, a Mario. Tra dieci giorni, a 5 mesi dalla laurea, cambierà lavoro per la seconda volta nella sua breve carriera. Andrà al Banco Santander, a Madrid. Alloggio, auto aziendale, telefonino, computer portatile. Un «pacchetto» che varia dai 50 mila agli 80 mila euro all' anno. In Spagna Mario si occuperà di «gestione del rischio» per la clientela italiana della banca. «Non ho paura. Noi giovani dobbiamo saper accettare le sfide». Tutto merito di un carattere determinato, ma anche di qualche «trucco» imparato al Politecnico, durante le lezioni. «Ci hanno dato molti consigli per entrare nel mondo del lavoro». Quegli stessi che ora Mario «gira» ai suoi coetanei: «Leggere i giornali, non solo italiani ma anche stranieri, allargare i propri orizzonti, partecipare agli eventi della città». Muoversi insomma, «far andare la testa, aggiornarsi, non fermarsi alle proprie competenze di lavoro». E frequentare i ragazzi di altre università, «vedere cosa fanno in Bocconi e in Cattolica». Essenziale, la conoscenza dell' inglese, «è il lasciapassare del futuro». Meglio, poi, se ci si aggiungono il francese e lo spagnolo. «In un paio d' anni - dice - conto di sapere perfettamente le lingue più importanti d' Europa». Seminare per poi raccogliere. Mario ha saputo coltivare il suo talento. «Ma vedo tanta pigrizia in giro». Soprattutto tra gli ingegneri: «Sono passivi perché sanno che non rimarranno mai senza lavoro». E invece no, bisogna darsi da fare, subito. Con umiltà e voglia di rischiare. Mario ne è convinto, anche se un rammarico rimane: «Con questa vita è difficile trovare una fidanzata». Una materia per cui lauree e master non bastano. Sacchi Annachiara _______________________________________________________ L’Unione Sarda 5 ott. ’07 L'UNIVERSITÀ È SOLO LO SPECCHIO DELLA SOCIETÀ Meritocrazia, in Italia è soltanto uno slogan Oltre le bagattelle dell'antipolitica, dei frizzi e lazzi del giullare, ma anche oltre l'araba fenice della "società civile" e della "democrazia partecipativa", espedienti per tirare il sasso e nascondere la mano, impuniti, per una denuncia senza proposte, ma con altera supponenza, senza responsabilità individuali. L'Università e i licei italiani sono agli ultimi posti delle graduatorie europee. Vorrà pur dire qualcosa. Sono i vuoti della società, di un egualitarismo cialtrone che non vuol pagare dazio, a sinistra come a destra. I risultati sono di una gran frammentazione sociale di "a ciascuno il suo", secondo furbizia e malaffare, dei topi che scappano da una nave che affonda. Università e licei dovrebbero creare diversità, di ruoli e funzioni. Non è così. Non si creano opportunità, ma si regalano diplomi e lauree, senza meriti e competenze. È la stessa cultura degli insegnanti e dei docenti italiani non solo nei confronti degli studenti, ma al loro stesso interno, dove il ruolo è spesso assicurato, ereditariamente, per censo, oltre il merito. I risultati sono evidenti: uno scadimento generale, di tecnologia, scienza e cultura. Se un confronto ha da esserci è su questo piano, di un ripristino severo del senso di responsabilità, nella necessaria individuazione e assunzione della diversità di ruoli e di competenze, scelti per merito, non per facile moralismo ma per uno stato di necessità. Lo stesso argomento vale per la politica. Ancora una volta "a ciascuno il suo": aumento dei ruoli con un loro conseguente deprezzamento, nel Governo, nel Parlamento, negli Enti locali. Sono azzerati i luoghi per l'acquisizione di competenze e di cultura politica, le sezioni e i circoli, le scuole di Partito. Le carriere sono determinate quasi esclusivamente dai "diritti di cordata", per grazia ricevuta, molto spesso oltre i meriti se non quelli della furbizia e della frequentazione dei corridoi, da questuanti senza cultura politica. È possibile una virtuosa inversione di tendenza? Non è facile. È forse necessario, oltre lo stallo, un "Cesare" che sia messo in grado di governare, di scegliere gli uomini più adatti per competenza, con certezza delle regole. Forse ci sono, ma non si sono proposti. È di "Cesare" la capacità d'individuarli per i loro meriti, con rigore e severità. Lo sappiamo, ma lo ribadiamo: da parte nostra con vigilanza democratica, quella della nostra Costituzione repubblicana, sempre che siamo in grado di un rigoroso confronto. Paolo Pani _____________________________________________________ Il Sole24Ore 5 ott-07 TROPPE LAUREE FACILI NEGLI ATENEI ITALIANI Se la denuncia dei trucchi per accedere ai corsi a numero chiuso riempie le pagine dei giornali, la denuncia presentata dal ministro dell'Università alla Procura di Roma nei confronti di due atenei per illegittimità nel rilascio di titoli di studio è passata inosservata. E,invece, il fenomeno delle "lauree facili", nel quale si inserisce la denuncia, non va trascurato. Introdotta nel 1999 ed estesa nel 2001, la normativa che punta ad accrescere il numerò dei laureati, esonerando dagli esami alcune categorie di studenti, si è rivelata fonte di eccessi e abusi che hanno finito per incidere negativamente su valore legale e valore professionale dei titoli finali. All'insegna di "laureare l'esperienza", molti atenei hanno stretto accordi con enti i più vari (Carabinieri, Polizia Guardia di Finanze, Ordine dei giornalisti, collegi dei ragionieri), offrendo condizioni sempre più vantaggiose per conseguire la laurea in tempi brevi (anche in un anno) ai dipendenti pubblici che hanno superato cicli di studio nelle loro scuole di formazione e a chi ha "conoscenze e abilità professionali". Ma assenza di limiti e criteri poco trasparenti per verificare la coerenza con gli obiettivi formativi dei corsi di laurea o il superamento di studi equiparabili all'istruzione universitaria, hanno portato a "riconoscimenti" medi di 90 crediti 10-15 esami in meno), con punte di 180 su 180 (0 esami). Diffuse a macchia d'olio, le iniziative per facilitare la laurea hanno coinvolto oltre 40 atenei; centinaia di convenzioni, e migliaia di aderenti; alimentando disagi e proteste di studenti e laureati "regolari": Per l'Anagrafe Studenti nel zoos oltre 9mila matricole hanno usufruito di "crediti di ingresso" nei soli corsi di Scienze giuridiche, Servizi giuridici, Scienze politiche, Scienze economiche, Scienze della gestione aziendale. Cresciuto a dismisura nel clima euforico della riforma " 3+2" che - con la riduzione della durata legale - ha visto i corsi impoverirsi di contenuti scientifici e metodologici e i titoli finali alleggerirsi nel loro peso specifico, il fenomeno "lauree facili" ha accentuato le diffidenze di imprese, ordini professionali e Pa verso le lauree triennali e i "laureati precoci". Ma è anche il valore legale dei titoli ad essere in discussione. L'uniformità degli effetti giuridici dei diplomi di laurea presuppone uniformità nell'ordinamento dei corsi di studio, nella qualità dell’insegnamenti e nelle modalità di verifica della preparazione degli studenti. Per accedere ai concorsi per il reclutamento dei funzionari pubblici e agli esami di Stato per l'abilitazione alle professioni, così, non basta la laurea, ma è necessario verificare se sia stata ottenuta secondo la legge. Il nuovo Governo é intervenuto prima con atti di "moral suasion", poi con un atto d'imperio che tenta di limitare il fenomeno. Il decreto legge 3 ottobre 2006, n.262 (articolo 1, comma 147) fissa un tetto di 60 crediti, con l'obbligo di indicare nei regolamenti didattici i criteri dei riconoscimenti. Le resistenze alle nuove regole non sono però mancate. L'abolizione di discrezionalità nelle facilitazioni sottrae ai rettori uno strumento chiave per elevare l’attrattività della sede e convogliare studenti e risorse aggiuntive, alterando a proprio vantaggio la competizione con le sedi più rigorose. Così, malgrado il divieto, alcuni atenei continuano a rilasciare lauree con sconti di esami e di crediti oltre quelli consentiti, invocando per i beneficiari (per lo più pubblici impiegati), il rispetto dei "diritti acquisiti". In realtà l'entrata in vigore del decreto impedisce alle convenzioni che prevedono più di 6o crediti riconoscibili di produrre effetti per l'eccedente, rendendo inefficaci le delibere di facoltà che le hanno applicate. Dal 3 ottobre 2006 per l'esame di laurea è necessario aver "sanato" i crediti ricevuti in più, superando, come gli altri studenti, gli esami nelle materie prima "abbuonate". Il decreto non prevede alcuna sanatoria: nel confronto tra interesse generale a garantire la qualità degli studi universitari e interesse particolare a mantenere privilegi corporativi, infatti, il legislatore ha preferito il primo. Gli uffici amministrativi, preposti ai controlli di regolarità degli studi prima dell'esame finale, sono così tenuti a rilevare l'impossibilità dell'ateneo a laureare con oltre 6o crediti "riconosciuti", perché ora vietato dalla legge. L'inosservanza della regola rende invalidi i diplomi di laurea. Deputato a vigilare sul funzionamento dell'istruzione universitaria con armi spuntate, il ministro dell'Università ha più volte segnalato a rettori e direttori amministrativi gli "evidenti profili di illegittimità" dei titoli di studio rilasciati in violazione del decreto 262/06, invitandoli a dare "immediati riscontri". Riscontri, però, che tardano ad arrivare, lasciando al ministro solo il ricorso alla magistratura. Se é augurabile che, motu proprio, gli atenei coinvolti interrompano gli abusi e regolarizzino i titoli, per evitare tentazioni opportunistiche occorre abolire ogni deroga alla parità di trattamento per chi aspira a titoli di studio di pari valore legale. Risponde al principio di imparzialità della Pa e giova all'immagine dell'università. * Università di Camerino LA NORMATIVA SI POSSONO RICONOSCERE 60 CREDITI Il Regolamento sull'autonomia didattica degli atenei consente di riconoscere come "crediti formativi" le conoscenze certificate (comma 7, articolo 5, Dm 209/1999 e Dm 270/2004). La legge Finanziaria 2002 prevede che al "personale delle amministrazioni pubbliche che abbia superato cicli di studi presso le rispettive scuole di formazione" possa riconoscersi "un credito formativo" per il conseguimento della laurea mediante "convenzioni tra amministrazioni e università" (comma 13, articolo 22, legge 448/2001). Il decreto legge 3 ottobre 2006 n. 262, limita a 60 crediti il riconoscimento di abilità e conoscenze professionali, con l'obbligo per gli atenei di predeterminare i criteri dei riconoscimenti (comma 7, articolo y. In Francia, invece, la legge 678/1992 consente, a chi ha esercitato cinque anni di attività professionale, di presentare un dossier ad una Commissione designata dal presidente dell'università per ottenere la convalida dell'esperienza professionale acquisita ai fini della dispensa di una parte delle conoscenze richieste per il conseguimento di un diploma di istruzione superiore. _____________________________________________________ ItaliaOggi 5 ott-07 MANOVRA AMARA PER IL CNIPA: CHE PERDE SOLDI E UOMINI Tiro incrociato sul Cnipa, il braccio operativo di palazzo Chigi per l'informatizzazione della pubblica amministrazione . Dopo non aver riconfermato alla presidenza un super esperto come Livio Zoffoli (ex Banca d'Italia), che lo aveva guidato nei primi quattro anni di vita e nonostante l'arrivo di Fabio Pistella (già morattiano di ferro ed ora in quota Margherita), la cui uscita dal Cnr era stata fortemente agevolata da Fabio Mussi, il Cnipa sembra essere nel mirino della compagine di governo e soprattutto, del ministro Luigi Nicolais. Pagando così lo scotto di essere stato un ente voluto dall'allora ministro Lucio Stanca. È questa l'interpretazione che viene data dagli addetti ai lavori e, soprattutto, dagli imprenditori delle Ict, molto attenti alle progettualità tecnologiche del Cnipa ma, soprattutto, alle linee guida e alle norme che esso detta per l'omogeneità, applicativa degli strumenti informatici nella burocrazia, statale e locale, condizione essenziale per le imprese per partecipare alla ricca torta delle commesse informatiche pubbliche. Partiamo dalla Legge finanziaria, appena partorita dal governo. Agli articoli 100 e 101, tra le misure per il contenimento dei costi pubblici sia per la corrispondenza nella pubblica amministrazione che per là telefonia si introduce l'obbligo del ricorso alla posta elettronica certificata (nata in casa dello stesso ente di via Isonzo) e all'uso della Voip telefonia via internet, molto più conveniente, affidando al Cnipa la certificazione delle inadempienze. Ma ci si è dimenticati di appostare le risorse necessarie per sviluppare diffusamente l'applicazione del Voip, che richiede un'apposita centrale in ogni ente pubblico. Insomma, armiamoci e ... partite. Pochi articoli dopo (al 113), si dimezza il numero dei componenti dell'organo di governo del Cnipa. Non che fossero tanti: le norme attuali prevedono 4 superesperti informatici (di nomina del presidente del consiglio) che affiancano il presidente nelle delicate scelte tecnologiche. Ma la norma in finanziaria 2008 stabilisce che da quattro scendano a due, consentendo che siano tre fino al 2 agosto 2009, proprio quando scadrà Claudio Manganelli (in quota ad Alleanza nazionale. Ma intanto, in attesa che la Finanziaria entri in vigore dal gennaio prossimo, già da ora non verrà sostituito Claudio Martini (quota Cdl), scaduto alla fine di settembre. Infine, la ciliegina sulla torta anti-Cnipa. Nello schema di decreto per la riorganizzazione delle strutture generali della presidenza del consiglio, si svuotano alcuni compiti importanti affidati al Centrò con il decreto legislativo n. 39 del 1993, istitutivo dell'Aipa l’ Authority per l'informatica, divenuta Cnipa dal 2003. Le sue competenze di supporto nell'innovazione tecnologica e nell'informatizzazione della pubblica amministrazione vengono infatti affidate al Dipartimento per l'innovazione e le tecnologie, che fa nominalmente capo a palazzo Chigi, ma risponde direttamente al ministro Nicolais, che gli ha messo al vertice un suo fedele, l'ingegner Ciro Esposito, campano. Con la differenza che il Dipartimento ha solo personale amministrativo, mentre il Cnipa dispone di esperti (ingegneri, matematici, fisici e giuristi) nelle materie dell'innovazione digitale, tutti dotati di una solida esperienza e competenza professionale, ampiamente riconosciuta non solo dalle pubbliche amministrazioni ma anche dalle imprese Ict. Molti si chiedono se questi sono i primi passi per la graduale eliminazione del Cnipa per passarne le competenze alla Sogei, che da tempo cerca di uscire dal ruolo di società di ingegneria digitale captive del solo ministero dell'Economia e Finanze. di Gianni Romano ______________________________________________________ la Repubblica 6 ott. ’07 APPALTI D' ORO E PARENTOPOLI FIAMME GIALLE ALLA SAPIENZA Roma, accertamenti anche sul rettore dell’ateneo MARINO BISSO CARLO PICOZZA ROMA- Appalti di edilizia universitaria e spa controllate da docenti dell'ateneo, concorsi pilotati per parenti e amici e ora la "Parentopoli" investe lo stesso rettore della Sapienza. È l'inchiesta della Procura di Roma sull'ateneo più grande d'Europa. L'aggiunta Maria Cordova e il pm Angelantonio Racanelli vogliono far luce sulle commistioni tra incarichi d'oro e docenze. E ieri la Finanza, un maggiore e sei sottufficiali hanno invaso gli uffici Affari Generali, Personale e Patrimonio. Per otto ore hanno spulciato atti e acquisito la documentazione del parcheggio interrato che dovrà liberare dalle auto la città degli studi. L'opera, avviata a marzo, costa 8,8 milioni. Commissionata dalla Sapienza, è stata appaltata dal provveditorato per i Lavori pubblici e poi affidata alla Cpc, Compagnia progettazione e costruzioni il cui presidente è l'architetto Leonardo di Paola, docente di Estimo. Suo figlio Marco, amministratore delegato della spa, già presidente dei giovani costruttori Ance, alla Sapienza è professore a contratto ad Architettura. Con le carte sul bando e appalta del parking, i finanzieri della Tutela spesa pubblica, del colonnello Fabio Pisani, si sono fatti consegnare gli atti sul concorso da ricercatore per l'aerea di Estimo vinto da Maria Rosaria Guarini, figlia maggiore dell'attuale rettore. Così tra le carte al vaglio dei magistrati entra un nuovo capitolo della "Parentopoli" alla Sapienza dopo i precedenti consumati dal prorettore vicario Luigi Frati i cui voti nel 2005 sono stati decisivi per l'elezione di Renato Guarini. Il numero "due" della Sapienza, potente preside di Medicina, è riuscito a rendere più "familiare" l'ambiente di lavoro. Così, tra cattedre ad amici e colleghi fidati, Frati vanta tre professori in casa: la moglie e i due figli. Anche il rettore Guarirti ha famiglia: due figlie sono nella sua università. Per gli esami da ricercatrice, Maria Rosaria sceglie la materia insegnata da Di Paola che, con altri due docenti, tiene la prima seduta di commissione nel suo studio privato, in un palazzo di pregio dove ha sede anche la sua spa. La stessa che sta realizzando il parking sotterraneo. Le altre riunioni della commissione si tengono ad Architettura. Dai verbali è l'architetto Maria Rosaria Guarini, fino allora impiegata della Sapienza con mansioni tecnico-amministrative, a uscire incontrastata. Dalla sua, ci sono anni di dottorato e insegnamento. Gli altri due candidati non hanno speranze. Armando R., laureato in Agraria, non allega al curriculum pubblicazioni. Mario M., architetto, «dichiara tre pubblicazioni che non esibisce». Alle prove, scritte e orali, si presenta solo lei, Maria Rosaria Guarini. E dopo sei riunioni, nel giro di un mese (dal 9 gennaio al 9 febbraio 2006) la commissione la sceglie come ricercatrice. Cinque giorni dopo, l'atto è controfirmato da suo padre, il rettore Guarini. L'altra figlia, Paola, dall'ottobre 2006, insegna Architettura degli interni. Ancora prima dell'investitura avrebbe svolto attività didattica nonostante il contratto da impiegata. Anche il suo compagno, geologo, presta servizio alla Sapienza. L'INCHIESTA II procuratore Maria Gordova coordina l'indagine sugli appalti d'oro nell'edilizia universitaria _____________________________________________________ Il Mattino 6 ott-07 UNIVERSITÀ, CERVELLI DI NUOVO IN FUGA DALL'ITALIA Niente fondi, per 500 ricercatori rientrati dall'estero salta la conferma dei contratti. Appello al ministro Mussi «Il ruolo di prof a contratto non esiste: siamo tornati per un posto fasullo» VALENTINA ARCOVIO cervelli in fuga. Rimasti nuovamente senza lavoro, i 500 ricercatori tornati in Italia grazie al Programma «Rientro dei cervelli» rischiano di dover nuovamente fare i bagagli. «È una brutta situazione. Per questo abbiamo chiesto al ministro dell'Università e della Ricerca Fabio Mussi di considerare l'eventualità di un ulteriore finanziamento, ma questa volta più continuo e costante. Le speranze sono poche perché sappiamo che in Italia non ci sono soldi per la ricerca». Questo è l'appello che Andrea Lenzi, presidente del Consiglio universitario nazionale, ha lanciato a Mussi. Più che un appello, si tratta di una richiesta d'aiuto, in ballo c'è il futuro di 500 persone. «1 concorsi pubblici sono bloccati e le università hanno fatto soltanto 70 "chiamate dirette" per regolarizzare la loro posizione», ha spîegato Lenzi. Per gli altri 430 rimangono soltanto due possibilità: sperare in un ulteriore finanziamento da parte del Miur, oppure organizzare un'altra fuga all'estero. Una beffa. Con il piano «Rientro dei ceevellli», predisposto e sovvenzionato nel 2001 dall'allora ministro Zecchino e prorogato successivamente dalla Moratti, sono stati richiamati in patria dall'estero, con la promessa di un contratto a tempo determinato tra i due e i quattro anni, ben 500 ricercatori italiani. Ma adesso i contratti stanno scadendo e già qualche ricercatore è pronto a rifare le valigie. Come è già successo a Alessia Ortolani, etologa rientrata dagli Usa nel 2002 come professore a contratto all'Università La Sapienza di Roma. «Mi sono trasferita negli Usa a 19 anni - racconta - per studiare il comportamento animale all'Hampshire College sotto la guida di Ray Coppinger facendo ricerche in giro per il mondo. Ho ottenuto riconoscimenti e finanziamenti internazionali, poi ho deciso di rientrare in Italia». II suo corso, con una media di oltre cento stu denti all'anno, è uno dei più affollati dell'intera facoltà di Scienze. Ma ora per lei non c'è più nessuna cattedra e le valigie sono pronte perl'Olanda. «5arei rimasta a Roma a insegnare, Pia la sola possibilità che mi è stata offerta era di continuare a lavorare senza stipendio» conclude l’etologa. «lo e gli altri 500 colleghi rientrati dall'estero abbiamo avuto un posto fasullo, quello dei professori a contratto. Un posto che non esiste nella carriera universitaria. Per questo siamo stati sempre trattati come docenti di serie B». Valigie pronte anche per Cesare Poppi, antropologo e docente da quattro anni all'Università di Bologna. «Altri due mesi e il mia contratto scadrà. Non mi rimarrà altro da fare che trasferirmi nuovamente all'estero». Eppure, proprio per Poppi )'Università di Bologna ha presentato la richiesta di «chiamata». Che però è stata respinta dal Cun. Il motivo? Il suo titolo accademico inglese non ha equivalenti in Italia. La denuncia dei beffati _______________________________________________________ La Nuova Sardegna 5 ott. ’07 MISTRETTA: AUMENTERÒ SUBITO LE TASSE UNIVERSITARIE» Il rettore Pasquale Mistretta ha deciso e non lascia scampo agli studenti «Il problema delle risorse è diventato impellente: non c’è altra soluzione» CAGLIARI. «Sì, le tasse saranno aumentate, ma gli studenti avranno ritorni positivi in servizi immediatamente visibili», parola del rettore dell’università Pasquale Mistretta. Di quanto sarà l’aumento? Quattro milioni complessivi, ma le prime due fasce di reddito non saranno toccate: l’incremento si sentirà soprattutto nell’intermedia. I nuovi soldi, secondo il rettore, sono indispensabili per far andare avanti la “grande macchina culturale”: «Facciamo studiare trentaseimila persone», dice Mistretta. Si aspetta il no polemico degli iscritti ma spera che “quel no sia solo per un’opposizione di principio e non di sostanza, perché il problema delle risorse è davvero urgente”. «Tasse, l’aumento è indispensabile» Il rettore Pasquale Mistretta a ruota libera sui problemi dell’ateneo Abbandoni. «Il venti per cento degli iscritti non termina purtroppo il corso universitario» di Roberto Paracchini CAGLIARI. «Sì, le tasse saranno aumentate, ma gli studenti avranno ritorni positivi in cose immediatamente visibili», afferma il rettore dell’università Pasquale Mistretta in una conversazione a ruota libera sulla formazione e la scuola. Di quanto sarà l’aumento? Di circa quattro milioni complessivi, ma le prime due fasce di reddito non saranno toccate: l’incremento si sentirà soprattutto nell’intermedia». Alcuni, però, sostengono che così pagherà di più il figlio dell’impiegato e non quello del libero professionista... «Può anche essere per chi evade il fisco, ma gli studenti sanno benissimo che il problema dei soldi è reale. Certo: per determinare il reddito potrei considerare altre variabili come la via dove si risiede o l’auto che si guida... Vuole applicare l’indagine induttiva... «La mia è una provocazione: per dire che le alternative sono difficilmente percorribili». Ha parlato di «ritorni immediatamente visibili». «Sì: ad esempio mancano 350mila euro per alcuni servizi bibliotecari, oppure 500mila per cinquecento posti da allestire nella spina di Medicina, a Monserrato». Per l’aumento delle tasse, però, i rappresentanti degli studenti voteranno contro. «Probabile, ma spero che sia solo per un’opposizione di principio e non di sostanza perchè - ripeto - il problema delle risorse è reale». Quanti sono gli iscritti? «Circa trentaseimila». Prima erano quarantamila, quindi c’è stata una diminuzione? «Sì, ma solo nel 1999-2000 si è toccata la punta dei quarantamila. Poi con le lauree triennali si è riusciti a riassorbire. Ma vi sono ben seimila iscritti che non hanno mai dato un esame e questi pesano, e creano anche problemi col ministero: è come se non ci fossero, non vengono conteggiati ai fini dei finanziamenti». Quindi? «Il problema va risolto. Potrebbe venire cancellata l’iscrizione di chi nei primi due anni non ha dato nemmeno un esame. Permettendogli, però, di riiscriversi facilmente, se lo desidera. Ho sempre sostenuto che il nostro è un ateneo di circa trentamila studenti, non di più». C’è, però, una mortalità scolastica decisamente alta: come mai? «Circa il venti per cento degli studenti non termina il percorso di studi. Inoltre si laureano regolarmente solo il 40-50 per cento degli iscritti, a seconda della facoltà. Gli universitari studiano anche molto, ma non lo sanno fare: manca spesso la capacità di sintesi e di cogliere quelle due o tre cose centrali attorno a cui costruire il resto. Ma la responsabilità non è loro, bensì della società scolastica nel suo insieme». Pensa che occorra lavorare con le scuole superiori? «In questo settore si sono realizzati molti progetti e sono stati spesi tanti soldi anche dalla Regione, ma gli esiti sono stati molto ridotti». Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni ha proposto il ripristino dei vecchi esami di riparazione... «Penso che occorra più di rigore. Se lo studente sa che viene promosso comunque, qualunque cosa faccia, beh allora... Credo che per migliorare il livello della formazione dei giovani che entrano all’università occorrerebbe una riforma culturale complessiva che intervenga sugli insegnanti e sulle famiglie. Oggi, invece, sembra che ai ragazzi sia tutto dovuto senza che si debba fare il minimo sforzo. E questo non va bene». L’ateneo di Cagliari ha oltre novemila studenti fuori sede, mentre i posti nelle case dello studente sono circa mille: che fare? «La Regione lavora al progetto del nuovo campus di viale La Plaia per milleduecento posti letto. Poi vi sono altri quindici milioni da utilizzare in questo settore». Ma i fuori sede restano sempre tanti. Alcuni chiedono che l’università e l’Ersu facciano sistema con gli enti locali e l’associazione dei piccoli proprietari di case: per creare un mercato con maggiori servizi, più controllo e funzionalità. «Il problema è che molti affittano in nero. Ma l’ostacolo si potrebbe superare creando dei sistemi di agevolazione fiscale per chi cede l’alloggio o una camera agli studenti. Ma occorre la volontà politica. In questo quadro è importante anche sviluppare i rapporti con docenti e universitari che vengono dall’estero: aspetto che può dare un sensibile contributo alla internazionalizzazione di Cagliari». _______________________________________________________ L’Unione Sarda 5 ott. ’07 DIRITTO IN INGLESE, POLEMICA SARDA Università. Intanto il rettore annuncia: un milione di euro per i docenti stranieri Il preside: «Materia base, va insegnata anche in italiano» Aldo Berlinguer, docente di Diritto comparato: «C'è il rischio di non incentivare l'internazionalizzazione». Intanto il corso resta al palo «Lezioni in inglese? Stiamo incoraggiando i docenti ad andare in questa direzione». Il rettore Pasquale Mistretta interviene sul giallo del corso di Giurisprudenza che si sarebbe dovuto svolgere, in parte, in lingua inglese e che sarebbe naufragato davanti al no dei rappresentanti degli studenti, decisione contestata da un gruppo di colleghi. Ora emerge che alla base della bocciatura c'è la richiesta del consiglio di facoltà di fare quel corso anche in italiano. IL RETTORE Il polverone del corso Grandi sistemi giuridici comparati è rimbalzato nei corridoi del rettorato dove ieri era riunito il Senato accademico. «Attualmente - spiega Mistretta - non ci sono materie insegnate in lingua straniera. Stiamo lavorando perché in alcune facoltà s'insegni anche in inglese, soprattutto il vocabolario tecnico. Le risposte sono positive e nel secondo semestre potrebbero partire alcune lezioni sperimentali». Ieri il Senato accademico ha deliberato l'utilizzo di un milione e 200 mila euro, stanziate dalla Regione, per far arrivare professori e ricercatori stranieri con lo scopo d'integrare i corsi dei colleghi. IL PRESIDE Sulla vicenda dell'insegnamento in inglese saltato prende posizione anche il preside di Giurisprudenza: «Il docente - sottolinea Deiana - ha proposto di fare una parte del suo corso in lingua inglese. Un'idea accolta con favore da tutti. Ma c'era un problema: l'insegnamento di una materia fondamentale doveva avvenire anche in italiano. Così abbiamo deliberato. Davanti a questa decisione, e cioè di dover fare diciotto ore in più per la parte in inglese, il docente ha deciso di svolgere il programma solo in italiano. Non posso costringerlo a fare anche la parte in inglese, ma stiamo lavorando per vedere se si riesce a superare questa situazione». I RAPPRESENTANTI Fabio Bargellini, rappresentante degli studenti: «Abbiamo applaudito all'iniziativa di introdurre l'inglese. Ma le materie fondamentali devono essere insegnate in italiano, con eventuali approfondimenti in inglese». IL PROFESSORE Aldo Berlinguer, interpellato, risponde: «Troveremo una soluzione che possa soddisfare tutti. Però devo aggiungere che l'internazionalizzazione è un processo lungo e oneroso che va incentivato. Costringere un docente a ripetere lo stesso corso in due lingue diverse, significa, al contrario, disincentivarlo, oltre a svilirne il ruolo per trasformarlo in un traduttore. Non mi pare una risposta adeguata. Occorrerebbe avere il coraggio di concepire un'offerta formativa che sia, almeno in minima parte, solo in lingua straniera». (m.v.) _______________________________________________________ LA NUOVA SARDEGNA 5 ott. ’07 SORU AGLI STUDENTIDI NUORO: QUESTA UNIVERSITÀ SERVE A POCO NUORO. «Soru vuol chiudere l’Università di Nuoro». La notizia ha cominciato a circolare ieri mattina tra dipendenti e studenti dell’ateneo barbaricino. Nel passaparola, al presidente della Regione sono state attribuite affermazioni molto pesanti: Soru le avrebbe fatte mercoledì sera all’Euro Hotel, incontrando una delegazione di docenti e allievi dell’Università nuorese dopo la presentazione dei candidati alle primarie del Partito democratico. In realtà Soru non ha minacciato di chiudere alcunché, ma ha confermato il suo punto di vista — ben noto — sull’utilità delle sedi universitarie gemmate. Ha poi chiesto ai suoi interlocutori di presentare un dossier con osservazioni e proposte, da discutere in un incontro che dovrebbe avere luogo nella settimana dal 22 al 28 ottobre. Mercoledì sera Soru ha parlato pochissimo. Il confronto con docenti e studenti è durato meno di mezz’ora. Il presidente ha ascoltato la relazione del professor Sergio Vacca e si è limitato a programmare un altro incontro. Non nascondendo, comunque, le perplessità su come è nata e si è sviluppata l’Università nuorese. «Soru — facevano notare ieri dallo staff del governatore — ha detto in più occasioni di essere contro la moltiplicazione dei corsi e delle sedi, che fa perdere qualità e genera confusione negli stessi studenti. In Sardegna basterebbe una sola università Cagliari- Sassari». Questo non vuol dire che una realtà ormai consolidata come quella di Nuoro possa venir cancellata. Il presidente della Regione probabilmente vuole reinventarla. Un polo di eccellenza? Forse. Anche se tra i politici della coalizione di centrosinistra prevale un’altra idea: quella dell’università «di massa», non importa se di qualità scarsa o pessima. (p.l.r.) _____________________________________________________ La Repubblica 30 Sett. ‘07 PIGRI, ARROGANTI, POCO PREPARATI" LE AZIENDE BOCCIANO I NEOLAUREATI Politecnico e imprese a confronto sul mercato del lavoro DAL NOSTRO INVIATO TERESA MONESTIROLI CERNOBBIO - Non sanno scrivere un curriculum, c'è addirittura chi si fa raccomandare dalla mamma nella lettera di accompagnamento. Sono arroganti durante i colloqui di lavoro e aspirano a posizioni dirigenziali fin da subito. Non conoscono abbastanza l'inglese per sostenere conversazioni con i colleghi stranieri. Hanno difficoltà a lavorare in gruppo, sono poca autonomi e intraprendenti. Scambiano un ambiente informale per una riunione fra amici, arrivando a rivolgersi al direttore generale con lo stesso tono con cui parlano al coetaneo stagista. Eccoli i neolaureati del Terzo Millennio: giovani con una discreta, se non ottima, preparazione tecnica, ma debolini quelle che oggi si chiamano "soft skills", le competenze trasversali. L'abc della convivenza in ufficio. Una laurea in ingegneria o economia aziendale con il massimo dei voti non sono più sufficienti per accaparrarsi un buon posto di lavoro. Perché ai giovani oggi viene chiesto di più: l'inglese prima di tutto, ma anche flessibilità, adattamento, mobilità, creatività, capacità comunicativa, indipendenza e soprattutto rispetto dei ruoli. Tutte competenze che non si imparano in un'aula universitaria. Così, per correre ai ripari e cercare di avvicinare la domanda (le esigenze delle aziende) con l'offerta (la preparazione fornita dal1e università), il Politecnico di Milano e la società di consulenza Emblema hanno organizzato, per 1a prima volta in Italia, la Borsa internazionale del placement (Bip): una tre giorni di incontri e convegni per mettere a confronto i responsabili degli uffici di orientamento lavorativo degli atenei con i selezionatori delle aziende. Un'occasione per scambiarsi informazioni, stringere relazioni, instaurare partnership. «L'università deve conoscere le esigenze del mercato del lavoro, ma il mercato del lavoro deve conoscere le attività delle università - ha detto il rettore del Politecnico, Giulio Ballio, in apertura di convegno. L'importante è evitare l'atteggiamento di chi dice agli altri quello che devono fare». Da parte sua, il Politecnico ha già avviato un corso di "orientamento professionale" facoltativo, dedicato a tutti i laureandi. «Un mix di e-learnig e lezioni in aula tenute direttamente da manager aziendali - spiega Marco Taisch, delegato del rettore al placement - per insegnare agli studenti come si scrive un curriculum, come si affronta un colloquia, come si gestisce un meeting. Insomma, come si sta in azienda». Da un lato l'università, dall'altro il mondo dell'impresa. Che disegna l’identikit del laureato ideale. Giovane (massimo 28 anni, meglio 24) preferibilmente con una laurea specialistica (A laureati triennali non sono né carne né pesce» dice Domenico Cari di Acer), ottima conoscenza dell'inglese e una spiccata propensione a viaggiare. «Vogliamo neolaureati con la valigia in una mano e il passaporto nell'altra - racconta Valeria Pardossi, responsabile risorse umane della Fiat -E un'attitudine alla multiculturalità: il65 per cento di loro lavorerà all'estero». Il voto? Non conta quasi più. «Non lo guardo nemmeno-continua Cari - L'importante è che dimostrino di voler affrontare il mondo del lavoro per vincere non per partecipare». «Più che le competenze tecniche guardiamo le soft skills-dice Costanza Di Pietrantony di Vodafone - gestione del cliente, comunicazione, lavoro di gruppo, creatività e intraprendenza». Infine Nicola Rossi, direttore marketing di Monster.it, sito di annunci online, fa un ultimo appunto da un osservatorio privilegiato: «I giovani guardano solo alle grandi aziende, sottovalutando l'offerta lavorativa delle piccole e medie imprese, spesso ottime occasioni per fare carriera». Come prima edizione - conclusa ieri a Cernobbio nella sede dello storico seminario Ambrosetti - è stata un successo: 58 gli atenei partecipanti (31 italiani), e 92 società italiane e straniere (tra le altre Barilia, Pirelli, Microsoft, Sky, Ferrero, Generali e Coca Cola). E 650 incontri one-to-one fra responsabili delle risorse umane e uffici placement in due giorni. «Ce ne aspettavamo 150-spiega soddisfatto Tommaso Aiello di Emblema - abbiamo dovuto raddoppiare gli stand». _______________________________________________________ L’Unione Sarda 1 ott. ’07 MANDATI PIÙ BREVI NONOSTANTE IL NO DEL MINISTRO L’Ateneo di Cagliari va avanti per la sua strada e, nonostante il parere negativo del ministro dell’Università, il senato accademico allargato ha approvato la modifica di statuto che modifica, diminuendola, la durata delle cariche e dei mandati di rettore e presidi. Un voto favorevole che, per quanto riguarda il mandato del rettore, è arrivato con l’astensione di due rappresentanti degli studenti, mentre nel caso dei presidi delle undici facoltà cagliaritane è stato unanime. Dunque la lettera inviata lo scorso 28 luglio dal ministero è caduta nel vuoto. Un parere non vincolante perché l’autonomia universitaria permette di approvare nuovamente la modifica senza dover passare una seconda volta all’esame di Roma. «Si fa riferimento alle modifiche statutarie proposte», aveva scritto il direttore generale del Ministero, Antonello Masia. «Alla luce degli orientamenti ministeriale non si ritiene opportuno modificare le procedure relative agli organici accademici con riferimento alla durata dei mandati. Si ritiene debbano essere conservate le norme vigenti». Così le modifiche sono rientrate a Cagliari per essere nuovamente discusse. Ma per approvarle definitivamente sarebbe servita una maggioranza dei tre quinti dei componenti. Nell’ultima seduta di senato allargato l’esito della votazione è stato schiacciante: per la riduzione dei mandati del rettore (da una carica di tre anni con un massimo di quattro mandati consecutivi a una da quattro anni, con possibilità di rielezione sino a due volte di seguito) solo i due rappresentanti degli studenti si sono astenuti (avrebbero preferito cariche da tre anni), mentre sulle modifiche per i presidi (da tre anni con un massimo di tre mandati consecutivi, si cambia in un triennio con il limite di due mandati di fila) tutti i componenti del Senato hanno dato il loro via libera. La modifica ora dovrà tornare al ministero dell’Università che dovrà pubblicare i nuovi articoli dello statuto sulla Gazzetta ufficiale perché entri in vigore. Ma ci potrebbero essere novità vista l’intenzione del ministro Mussi di inserire nella Finanziaria un limite di sei anni per la carica di rettore. Cagliari con gli otto anni (per due mandati) non sarebbe in regola. Slittati altri due provvedimenti: l’istituzione del Comitato per le pari opportunità (proposta da Francesco Raga, docente in Fisica) e la nomina del difensore civico per gli studenti. Matteo Vercelli _______________________________________________________ L’Unione Sarda 5 ott. ’07 THARROS, SULLE TRACCE DEI FENICI Di Giancarlo Ghirra È un bel salto indietro nel tempo, ma vale la pena di visitare quel che resta di Tharros, alla ricerca delle radici di una Sardegna figlia di tante genti. Ne vale la pena anche perché quel che resta dell'antica città fenicia, poi punica e romana, è inserito in un contesto ambientale mozzafiato, sul promontorio di Capo San Marco che chiude a Nord la penisola del Sinis, area protetta fra il Mare vivo e il Mare morto (quello esposto al maestrale e quello interno al Golfo di Oristano) per la sua originale bellezza. TRE MILLENNI FA Correva l'ottavo secolo avanti Cristo, qualcosa come 2.800 anni fa, quando i Fenici (dal greco phoenik, rosso), dopo essere sbarcati a Nora, più a Sud, approdarono nel Sinis. Non erano dominatori in armi, come saranno i loro successori, i Punici di Cartagine, o i Romani che conquistarono l'Isola nel 238 avanti Cristo. Erano viaggiatori e commercianti che, partendo dal Libano, sbarcavano nei porti del Mediterraneo alla ricerca di merci, metalli, minerali, prodotti della terra, sale. Offrivano in particolare le stoffe colorate con il rosso porpora: da qui il loro nome. E amavano fondare le loro città in promontori, stagni, lagune, isolette prospicienti la costa. «Nel Sinis, punto di controllo strategico per le rotte marittime ma anche per la penetrazione verso l'interno, attraverso il fiume Tirso, si sistemarono in un'area già frequentata in età nuragica», spiega Carla del Vais, ricercatrice di Archeologia fenicio punica all'Università di Cagliari e curatrice del Museo di Cabras. Ed eccoci su una delle tre colline sulle quali sorge la città, quella di Murru Mannu (in sardo grande muso) da cui si domina San Giovanni e gran parte della Penisola. IL TOFET E LE NECROPOLI Resta ben poco della Tharros fenicia, e quel che resta è legato prevalentemente all'ambito funerario e votivo: intanto le due necropoli di Capo San Marco e di San Giovanni, all'interno del villaggio. Proprio nell'area di Murru Mannu si trovava il tophet, «il tipico santuario fenicio- punico a cielo aperto -spiega la dottoressa Del Vais- circondato da un recinto sacro e contenente all'interno le urne con i resti ridotti in cenere dei bambini e degli animali sacrificati. Difficile dire ancora oggi quale fosse la natura del santuario tophet , se luogo di sacrificio di o necropoli destinata ai bambini nati morti o a quelli deceduti prematuramente prima di aver subito un rito di passaggio, qualcosa di paragonabile al battesimo dei cristiani». ARRIVANO I PUNICI Nel V secolo prima di Cristo, poco prima del Cinquecento, arrivano i cartaginesi, e Tharros diventa punica e monumentale, con la costruzione di numerosi edifici. Intanto la città viene fortificata, cinta di mura. E viene abitata, se è vero che si ritrovano numerosi resti di fusione del ferro a opera di artigiani. In quest'epoca viene costruito uno dei centri di culto più importanti, il Tempio delle Semicolonne Doriche, parzialmente intagliato nella roccia e decorato da semicolonne scolpite in rilievo. Sono di età punica, secondo gli archeologi, le tombe a camera visibili nell'area di Capo San Marco, molto vicine in linea d'aria alla bella (e visitabile) Torre spagnola di San Giovanni. In quelle tombe sono stati ritrovati tantissimi reperti, presenti anche al British museum di Londra, che possiede una ricchissima collezione di reperti scavati da archeologi, e spesso da tombaroli, a partire dal 1830, alla ricerca soprattutto dei gioielli d'oro ritrovati nelle tombe. IL DOMINIO ROMANO A partire dal 238 avanti Cristo la città continua a espandersi, raggiungendo il massimo della crescita in età imperiale, nel III secolo dopo Cristo, periodo al quale risalgono i più monumentali edifici pubblici, caratterizzati dall'utilizzazione di laterizi e basalto, mentre in precedenza i punici avevano fatto massicci ricorso all'arenaria. «In età imperiale-spiega ancora Carla Del Vais- la città subisce i maggiori cambiamenti, e un 'imponente risistemazione urbanistica, con il rifacimento del sistema viario e l'organizzazione intorno alla strada principale, il cardo maximus , che dall'area fortificata di Murru mannu porta verso i luoghi di culto e le terme. Le strade vengono dotate di pavimentazione in basalto, proprio sopra lo strato di roccia, e un sistema fognario garantisce lo smaltimento delle acque bianche». Vengono edificati i tre impianti termali in laterizio a ai piedi della collina. Dotati di spogliatoi, ambienti riscaldati e altri in cui ci si poteva fare bagni freddi, due degli edifici termali, entrambi situati a ridosso del mare, sono stati scavati negli Anni Cinquanta del Novecento dall'archeologo Gennaro Pesce. Sono le cosiddette Terme n.1, nelle quali fu in seguito impiantato il battistero paleocristiano, di cui ancora oggi si può vedere il fonte battesimale, e le terme dette di Convento Vecchio, più monumentali delle precedenti. Tra i templi romani quello che colpisce il visitatore moderno è senz'altro il tempio tetrastilo sul mare, del quale due colonne restano ancora in piedi. Belle a vedersi, presenti in numerose fotografie di Tharros, hanno un enorme difetto: sono state costrtuite nel secolo scorso, intorno al 1960: un falso. L'ACQUEDOTTO Camminando lungo i maggiori assi viari della città romana, il Cardo Massimo e il Decumano Massimo è possibile vedere tracce delle antiche botteghe e delle case che popolavano la città nel pieno del suo sviluppo. In età imperiale sorse l'acquedotto, che proprio all'incrocio delle due strade principali presenta un edificio definito dall'archoelogo Pesce Castellum aquae , una sorta di deposito dell'acqua. L'ABBANDONO NEL 1071 In età paleocristiana e altomedievale i principali edifici romani subirono delle modifiche. «In particolare-spiega l'archeologa De Valis- le terme numero 1 vennero trasformate in edificio basilicale, che da alcuni considerato sede episcopale, la cosiddetta Ecclesia Sancti Marci, mentre le terme numero 2 probabilmente cambirarono uso, cone fa ipotizzare la presenza di sepolture di età bizantina. La decadenza, dovuta anche alle incursioni dei saraceni, fu lenta ma inesorabile. La città fu abbandonata definitivamente nel 1071, quando la sede episcopale venne trasferita a Oristano». E da allora Tharros è al centro degli studi di archeologi di tutto il mondo, sulle orme del canonico Giovanni Spano, il primo che scavò nella necropoli a partire dal 1850. L'ingresso agli scavi è possibile tutti i giorni dalle ore 9 alle 19 ( luce permettendo) con il pagamento di un biglietto di 5 euro (dà diritto alla visita anche del Museo di Cabras) ridotto a 4 per gruppi di oltre venti persone. Per informazioni, si può telefonare al numero 0783370019, sito Internet www.penisoladelsinis.it ======================================================= _____________________________________________________ Il Sole24Ore 3 ott-07 TURCO: IL SERVIZIO SANITARIO È TRA I PRIMI NEL MONDO Salute. Una campagna per celebrare i 30 anni del Ssn IL MINISTRO «È un dovere civico riflettere sulla qualità delle prestazioni, non si può parlare solo di casi di malasanità» Roberto Turno ROMA Una giovane infermiera sorridente su campo bianco con scritta in rosso: «Pane, amore e sanità». L'immagine della serenità, dell'ottimismo, dell'accoglienza. Quelle che ogni malato vorrebbe dal servizio sanitario. Oliviero Toscani firma la campagna (1,5 milioni) del Governo per la «Buona Sanità». Quella pubblica, s'intende, targata Ssn. E Romano Prodi, oggi premier e già quasi 30 anni fa ministro dell'Industria quando nel 1978 nasceva il Ssn, rilancia: il nostro sistema sanitario è tra i migliori e i meno costosi al mondo. Miglioriamolo, ma difendiamolo. Soprattutto, incalza, miglioriamolo con «amministratori scelti per la loro capacità e non per motivi politici o di amicizie, che nel nostro Paese sono ancora più forti di quelli politici». Per un'ora ieri a Palazzo Chigi è andato in scena il «Ssn pride». Sì, proprio così: l'orgoglio di essere Ssn. E di averne i benefici. Lo ha spiegato anche con toni accorati il ministro della Salute, Livia Turco, che questa campagna ha fortemente voluto. «Nessuna propaganda - giura il ministro -. Per me è un dovere civico far riflettere i cittadini, renderli consapevoli del tanto che il Ssn dà loro. Non si può consentire che la sanità italiana sia rappresentata solo dalla malasanità». E giù le cifre e le classifiche dell'orgoglio Ssn. Dal secondo posto al mondo che nel 200 ci regalò l'Oms - con cui ieri è stata sottoscritta una convenzione per la valutazione permanente del sistema sanitario italiano - fino a precipitare al 18° appena elargito dall'Euro Health Consumer Index. Classifica, quest'ultima, che la Turco respinge: «In verità, conferma l'analisi dell'Oms». Ecco allora, tra i primati rivendicati dal ministro a buon onore del Ssn, che gli italiani sono tra i primi per longevità (84 anni le donne, 78 gli uomini), mentre la mortalità per cancro è tra le più basse e la sopravvivenza dalla diagnosi tra le più alte. I farmaci rimborsati interamente sono un privilegio che i nostri partner non si permettono, l'assistenza pediatrica gratuita fino ai 14 anni è un record tutto nostro. Ma la sanità è anche volano di sviluppo: la filiera della salute occupa 1,5 milioni di lavoratori tra pubblico e privato con un valore aggiunto diretto e indotto che supera i 149 miliardi, l'11% del Pil dell'intera economia nazionale. Eppure, la spesa rispetto al Pil ci vede sempre indietro. Che poi quel messaggio - «pane, amore e salute» - suoni bene a tutti gli italiani, è questione di latitutidine. Di liste d'attesa, di opportunità di cura, di viaggi della speranza (in calo). Lo stesso Prodi lo ha ammesso: «Dobbiamo superare la disparità tra le Regioni», anche se, ne è convinto, siamo sulla buona strada. In quest'ultimo anno abbiamo lasciato il «federalismo d'abbandono», assicura il coordinatore di tutti gli assessori regionali, Enrico Rossi (Toscana). Se poi gli amministratori saranno capaci, e non figli dei partiti o amici degli amici, forse la "quadra" sarà meno impossibile. Parola di premier. _______________________________________________________ La Nuova Sardegna 1 ott. ’07 FREDDE CERE CONTRO LA MORTE Alla Cittadella dei musei di Cagliari la collezione delle sculture anatomiche di Clemente Susini Un libro di Alessandro Riva pubblicato dalla Ilisso Un volume che ripercorre le tracce di un destino «Noi godiamo dei corpi senza sapere ciò che li compone. Di che è fatto un corpo? Di parti, e queste parti si risolvono in altre parti ancora. E queste ultime parti di che son fatte? Sempre di sostanza corporale». Non è a caso che questa presentazione del volume «Cere. Le anatomie di Clemente Susini dell’Universita’ di Cagliari» di Alessandro Riva, pubblicato da Ilisso, cominci con una citazione di Voltaire e la voce “corpo” del suo dizionario filosofico. Non è un caso che Voltaire parli di sostanza corporale, materia, non spirito, il corpo insomma come una macchina di cui comprendere le leggi e i meccanismi. Ci aiuta a illuminare il clima storico e sociale nel quale arrivarono a Cagliari, agli inizi dell’Ottocento, le cere anatomiche di Clemente Susini, autentici capolavori che arrichiscono la Cittadella dei Musei del capoluogo isolano. Opere che nel loro genere sono una delle collezioni piu’ importanti del mondo, per il virtuosismo dell’artista che le creò, per la straordinaria qualità scientifica ma anche artistica di queste vere e proprie sculture, raffinatissime, che affascinarono Canova ed ebbero risonanza nel ricchissimo panorama del neoclassicismo italiano. Alessandro Riva nella vita è professore universitario e ha raccolto con passione, e anche un pizzico di devozione, l’eredità di queste cere dai suoi predecessori nella cattedra di Anatomia umana della facoltà cagliaritana. Da Antonio Boi che creò per primo la raccolta delle opere del Susini agli inizi dell’Ottocento, fino ai predecessori di Riva, Luigi Castaldi e soprattutto Luigi Cattaneo, il suo maestro, che le restaurò dopo la seconda guerra mondiale e le collocò nelle attuali teche di legno. «Cere» è un libro prezioso. Prezioso per le bellissime riproduzioni fotografiche delle ceroplastiche realizzate, su suggestioni dello stesso Riva, dallo studio fotografico Dessì e Monari, e anche per l’importante corredo di didascalie scientifiche che hanno il rigore e la precisione dell’atlante anatomico. Ma insieme il libro, che raccoglie i preziosi interventi del professor Riva, dell’esperta di ceroplastica Roberta Ballestriero, di Luigi Cattaneo e di Bruno Zenobio, si può tranquillamente leggere come si leggerebbe un romanzo che alla base di tutto abbia il tema del destino. Il pensiero non può non andare ai modelli di queste cere. Quali furono le loro storie? Spesso sono giovanissimi, come si intuisce dai frammenti del viso o dalle sezioni del corpo. Che vita vissero? E la morte come li raggiunse? Inconsapevoli oggetti di studio, fissati in pose sensuali, monumenti funebri dai volti dolci nell’abbandono della morte, simboli della caducità della vita che in quei tempi vedeva tanti giovani morire troppo presto a causa di patologie che oggi sono facilmente curabili, ma che sulle tombe di allora si definivano con enfasi, per citare Leopardi «chiuso morbo». Il viaggio di queste cere dal laboratorio del Susini a Firenze fino all’università cagliaritana è legato al destino, ad alcune circostanze che starebbero bene all’inizio di un romanzo gotico. Una storia che ci regala un’immagine inconsueta della Cagliari degli inizi dell’Ottocento, che seppure lontana da tutto, isolata dal resto del mondo, mostrava nel suo legame con la scienza il desiderio di avvicinarsi alla parte anche più misteriosa della conoscenza. Il tema della morte, della malattia, del corpo, dei suoi segreti, delle sue trasformazioni. Tema che affascinerà pochi anni più tardi Efisio Marini, il pietrificatore, anch’egli a modo suo «scultore» di corpi, anch’egli, come il professor Boi, esperto di dissezione che effettuava in un piccolo locale dentro il cimitero di Bonaria fino a tarda notte, guardato con sospetto dai suoi concittadini. Clemente Susini a Cagliari non è mai approdato di persona, vi arrivarono solo le sue creazioni, per qualche studioso il momento più alto della sua fortunata carriera. Siamo agli inizi dell’Ottocento. Allora la Sardegna era un’isola perduta nel centro del Mediterraneo, lontana da tutto e soprattutto dalle capitali della cultura italiana come Firenze dove Susini era valentissimo ceroplasta per il Museo di Fisica e Storia naturale «La Specola». Il più grande in questa arte, nata forse per perpetrare l’eterno sogno dell’uomo, sfuggire alla decomposizione dei corpi, della carne, alla putrefazione, a quel processo chimico che modifica la natura della materia, ma anche e soprattutto per conoscere i segreti del corpo, i meccanismi che stanno alla base della vita. La cera per Susini era come il marmo per Michelangelo, materia viva, plasmabile, ma infinitamente più malleabile della pietra, capace di dare vita a «effetti speciali» che ricreano con i colori le infinite varietà delle complessioni fisiche, degli incarnati, le colorazioni delle arterie, delle vene, dei tendini, delle ghiandole più recondite, dello scheletro, di tutte quelle parti del corpo che gli studenti di anatomia e i loro professori dovevano studiare velocemente fra i miasmi della carne ormai morta, putrescente. E anche l’altro protagonista della storia oltre a Susini ha lo spessore del personaggio letterario. Antonio Boi, nasce a Olzai, sperduto paesino della Barbagia, da un’umile famiglia di contadini. Inizia gli studi per la carriera religiosa ma poi scopre la sua vera vocazione, la medicina, diventando ordinario di anatomia per l’ateneo cagliaritano. Eccolo il destino: nel 1801 non avendo nessuno studente iscritto alla sua cattedra intraprende un viaggio che lo porterà in giro per l’Italia per «acquistare maggiori lumi nella sua professione». Sale sul bastimento che lo porta nel continente dopo aver avuto il permesso dal vicerè di Sardegna, che allora era Carlo Felice di Savoia, dal quale riceve anche una discreta somma in danaro. Il suo fu un lungo viaggio che lo condusse nelle più importanti università italiane, dove nei teatri anatomici, come si chiamavano allora le sale dove si sezionavano i cadaveri, si «esibivano» nella dissezione dei corpi i più grandi anatomisti italiani, come Scarpa a Pavia o Mascagni a Firenze. E proprio nella città fiorentina ebbe modo di visitare «La Specola», dove si trovavano le cere di Clemente Susini. Nacque così l’idea di dotare anche Cagliari e la sua università di una collezione di cere. Sarebbero servite agli studenti nei loro studi di anatomia e arrivarono in città acquistate per una cifra di 14800 lire, che allora era una piccola fortuna. Qui il romanzo si fa ancora più interessante. Risulta da alcuni documenti che sarà lo stesso Boi a effettuare le dissezioni delle parti anatomiche dalle quali Susini creerà i suoi preziosi lavori. La tecnica imponeva una certa velocità a causa del processo di decomposizione dei corpi. Dalle parti del corpo sezionate andavano creati i calchi in gesso dentro i quali Susini colava la cera. Il resto era lavoro di cesello, impreziosimento della forma, tecnica di colorazione, ricerca spasmodica dei particolari che conducevano a un realismo virtuosistico, come si può osservare dalle cere cagliaritane nelle quali si fondono il rigore scientifico e una straordinaria eleganza dei particolari. La cosa che colpisce è che queste opere rivelano sempre soprattutto nella descrizione del viso, o nelle sinuose torsioni del corpo, una singolare empatia dell’artista per quei corpi ormai fissati per sempre nell’attimo della morte, nella freddezza cadaverica dell’incarnato, che la cera imita con effetti sorprendenti, quasi illusionistici. La pelle umana è come un sipario che si apre per scoprire nervi, tendini, arterie, organi interni, apparati. Ma dietro questo preziosismo artistico si nascondeva l’inevitabile decomposizione dei corpi, la cattiva influenza delle esalazioni della putrefazione sulla salute dei ceroplasti come testimonia una passo del diario del maestro di Susini il Fontana, direttore della «Specola», che racconta la realtà di un lavoro che costringeva gli artisti a una vita durissima e altamente rischiosa per la salute. Così lo scultore ricorda la fatica per la creazione delle trenta stanze del museo di Firenze: «Ha bisognato lavorare tanto nel freddo più duro del verno che nel caldo più ardente della state, che nessuno hai mai fatto, perché il rischio di perire è quasi certo per le pestilenziali esalazioni dei cadaveri nei grandi caldi, ed infatti nei sette anni anni decorsi, cinque anni sono stato a letto della morte». Nel 1814 a sessant’anni anche Clemente Susini morì per una «febbre lenta, nervosa», era quella morte tante volte imitata che si prendeva la sua rivincita. Enrico Pau _______________________________________________________ L’Unione Sarda 4 ott. ’07 MA CHI È IL VERO POVERO? SERVONO DATI CERTI Il riconoscimento dello status di "soggetto povero" è basato sulla fissazione di una linea di povertà, ossia di una soglia che funge da spartiacque tra poveri e non poveri. Bisogna però precisare che esistono una povertà assoluta e una relativa. La prima è stimata sulla base di un "paniere" di beni e servizi di prima necessità; per contro, la povertà relativa è espressa da un livello di spesa che sconta anche le aspirazioni dei singoli soggetti a non vedere peggiorata la loro distanza sociale rispetto ai percettori di un reddito pari al reddito medio disponibile dell'intero sistema sociale. Secondo l'Istat (Istituto nazionale di statistica), una famiglia di due persone è povera se la sua spesa è minore della spesa media pro-capite (per famiglie di diversa numerosità si usano opportune scale di equivalenza). Nel 2005, in Sardegna, i soggetti dotati di un livello di spesa mensile uguale o minore della soglia di povertà (fissata a 936,58 euro di spesa media mensile per due persone) sono stati il 15,9 per cento della popolazione residente, 264 mila persone, cifra superiore a quella nazionale e delle regioni del Centro-Nord, ma inferiore a quella del Mezzogiorno. Questa situazione risulta, però, "drogata", perché la soglia di povertà regionale dovrebbe tener conto del fatto che essa è calcolata sulla base di un reddito esprimente un livello di spesa al quale non corrisponde un livello di prodotto interno pro-capite; ciò perché il livello di spesa in corrispondenza del quale è fissata la soglia di povertà è stimato sulla base di un reddito monetario che sconta il contributo alla sua formazione dei trasferimenti pubblici interregionali destinati al finanziamento della spesa pubblica regionale aggiuntiva rispetto a quella ridistribuiva. Queste considerazioni evidenziano la necessità che qualsiasi politica regionale volta al contenimento della povertà debba essere formulata tenendo conto del livello della produzione interna pro-capite al netto degli effetti dei trasferimenti interregionali. Se ciò accadesse, si eviterebbe di confondere la solidarietà nazionale (o dell'Europa comunitaria) con l'esistenza di un obbligo al sostegno dello standard di vita dei sardi, spesso utilizzato come alibi dalle forze politiche per sottrarsi alla necessità che le loro scelte di politica pubblica risultino coerenti con la crescita dell'Isola. GIANFRANCO SABATTINI *Università di Cagliari _______________________________________________________ L’Unione Sarda 30 Sett. ’07 SANITÀ E AFFARI SOCIALI : SOLO A CASA TERAPIE PIÙ UMANE di Mario Silvetti * Aumentano gli anziani. Aumentano le malattie croniche. E la sanità cambia, forse non abbastanza in fretta. Se ne è parlato di recente a Quartu in un convegno sull'ospedalità a domicilio. È stato il quinto incontro annuale sulla riabilitazione globale organizzato dall'ospedale Santa Maria Bambina di Oristano. Aumenta progressivamente il numero delle persone affette da una patologia cronica e che quindi hanno bisogno di una cura che si prolunga nel tempo: settimane, mesi, anni o per tutta la vita. Questo fenomeno è legato a fattori diversi. Il primo è l'invecchiamento della popolazione. Aumenta il numero degli anziani che hanno superato i 65 anni. Sono passati dall'11,3 per cento nel 1971 al 17,3 per cento nel 2002 sull'intera popolazione. Sappiamo che la frequenza delle patologie croniche aumenta col progredire dell'età. Mi limito a citare il diabete. In tutta Italia i diabetici sono 3 milioni e mezzo il 6 per cento della popolazione. Nel mondo sarebbero 213 milioni, si prevede un aumento del 50% entro il 2030. Un fattore determinante nel provocare un incremento del numero di soggetti affetti da una patologia cronica è il miglioramento della prognosi a breve termine di malato fino a non molti anni fa a prognosi più o meno rapidamente infausta. Il numero di malati di cancro che con le attuali terapie sopravvivono a lungo è fortunatamente in crescita. Esistono ormai sempre più numerose persone clinicamente guarite che rimangono in osservazione. Altissimo è poi il numero degli incidenti (sul lavoro, domestici, stradali). Questi ultimi produrrebbero in Italia ogni anno 8mila morti e 20 mila invalidi permanenti. L'elenco delle cause di una patologia cronica è ovviamente incompleto. Ma quanti sono gli affetti da ciascuna delle patologie croniche? Dove vivono? Ci sono patologie più frequenti in alcune aree? Le risposte sono indispensabili per sapere quali servizi organizzare e dove localizzarli. Le statistiche non sono sempre facilmente costruibili. Ritengo però che in Sardegna, un'isola con un milione e mezzo di abitanti la raccolta dei dati possa essere tentata. Una buona epidemiologia costituisce la base per una buona programmazione sanitaria. Il secondo punto che mi preme sottolineare è l'evoluzione in atto delle modalità di prendersi cura dei malati cronici. La malattia cronica porta ad un vero "sequestro" della persona , un sequestro dal mondo degli interessi dagli affetti. L'improvvisa novità comporta abitualmente una reazione per cui vengono considerati i limiti imposti dalla situazione così pesanti e insormontabili da precludere una vita "normale" costringendo il soggetto ai margini della società, addirittura ad escluderlo. Il luogo dove materialmente avviene il sequestro è quello dove si ritiene possa attuarsi meglio l'intervento che può portare alla guarigione è l'ospedale. La cura è affidata al Sistema sanitario che mette in atto tutte quelle procedure diagnostiche e terapeutiche che il caso richiede. Il malato in ospedale diventa però "un paziente" rientra in una categoria ben diversa da quella formata dai curanti. A parte le storture, gli abusi che talvolta si creano e di cui ciascuno di noi è stato a volte testimone, troppo frequentemente fra paziente e curanti esiste un muro. La barriera è stata creata nel corso di una formazione durante la quale giustamente i docenti si sono preoccupati di insegnare le regole di una corretta diagnosi e dell'applicazione dei protocolli terapeutici, molto meno si sono preoccupati di insegnare come avere cura della persona malata con tutti i suoi problemi. È in atto ormai da anni un movimento culturale sempre più vasto che vuole l'umanizzazione dell'ospedale. Prevede che alla base sempre esista un dialogo fra la persona malata e le persone che ne hanno la cura. Il malato deve essere coinvolto nelle scelte che lo riguardano perché ha il diritto dell'autodeterminazione (consenso informato). Il medici e tutto il personale (non solo quello sanitario) intrattengono un rapporto col malato inteso non più come il paziente Numero, ma come una persona che attraversando un momento di grande fragilità, ha bisogno di una cura complessa che va al di là degli atti strettamente medici. Anche la struttura, l'ambiente dell'ospedale, dovrà essere diverso e già comincia a configurarsi attraverso i nuovi progetti, come quelli di Umberto Veronesi e Renzo Piano dei quali hanno parlato i giornali. In questi progetti un ruolo fondamentale gioca la società: i familiari gli amici, i volontari non più tagliati fuori, esclusi dalla cura ma attivi con un sostegno psicologico che si rivela sempre più utile per la guarigione. Questa comprende la riabilitazione che prevede oltre al recupero ove possibile delle abilità precedenti ridotte o annullate dalla malattia, l'acquisizione di altre abilità (magari insospettate) che consentano alla persona di riconquistare l'autonomia e quindi un posto nella società. è in questo spirito che nasce l'idea dell'Ospedale a domicilio. Ne sentirete parlare. * Ex primario di Pediatria _______________________________________________________ La Nuova Sardegna 1 ott. ’07 SARDI E SVEDESI A CACCIA DI ANTICORPI Dai laboratori Edx Diagnostic un innovativo test salvacuore del feto Nato nel Parco tecnologico di Pula, tra qualche settimana l’Apoc 200 verrà distribuito in tutto il mondo Due giovani biologhe sono indaffarate con un test di immunologia tra pipette, reagenti, peptidi sintetici ingegnerizzati, vetrini, sieri, microscopi e tutto ciò che deve esserci in un laboratorio scientifico. Sono Maria Luisa Tavera di Ittiri e Cinzia Melis di Cagliari. Camici bianchi, cuffie, copriscarpa in plastica celeste per lavorare in un ambiente igienicamente consono. Su una piastra “viene depositata la proteina” e l’esame inizia il suo corso. Uno dei tanti esami per arrivare e perfezionare un test salvacuore del feto. Test rivoluzionario, nel segno vero della prevenzione. Con una tecnologia medica si può infatti stabilire se una donna incinta può trasmettere al proprio figlio, attraverso la placenta, un auto-anticorpo di tipo reumatico che provoca quello che gli studiosi chiamano blocco cardiaco fetale. Meno di due anni di prove, di controlli, ed ecco il test Apoc 200. Il bimbo in seno alla mamma non viene per nulla coinvolto nell’esame. Bastano cinque millilitri di sangue prelevato alla madre in un centro specializzato (per adesso l’ospedale microcitemico e il Brotzu di Cagliari), i conseguenti esami e si conosce il risultato. La terminologia si fa specialistica perché - prima della “sentenza” - si parla di «dosaggio degli anticorpi e di sensori molecolari» per segnalare la presenza o l’assenza proprio di quegli stessi auto- anticorpi di cui si è detto. Un esame innovativo, unico al mondo, riservato in particolare alla donne affette da due malattie autoimmuni, il Les (lupus eritematoso sistemico) e la sindrome di Siogren. Un successo diviso tra la Sardegna e la Svezia dove (a Mora, 400 chilometri da Stoccolma) ha sede la Meadowland che sbarca nell’Isola e si insedia nel Parco tecnologico di Pula, a Sardegna Ricerche, padiglione 3, al centro dei boschi di Piscina Manna. Un test che tra poco, dall’insenatura del Golfo degli Angeli, viaggerà nel mondo. Dietro questo traguardo ci sono scelte politiche di ieri, visioni moderne della società nuragica, ma soprattutto storie esaltanti di eccellenze sarde che hanno studiato all’estero e, acquisito un bagaglio di competenze vere, sono tornate in Sardegna. Hanno attuato il back dopo il master. Ma ci sono anche imprenditori stranieri che hanno capito che in Sardegna si poteva arrivare per investire. Ecco l’integrazione. Ed ecco allora i protagonisti di questa storia scientifica e industriale sardo- svedese in un’azienda biotech di nome Edx Diagnostics. Non è la sola, certo. Ma è sufficiente per capire come anche le nozze fra il Mar Baltico e il Mediterraneo possono portare al successo. Per riverire l’ospitalità ecco il ritratto di uno svedese doc, anche col nome riporta a quelli ai quali ci ha abituato Ingmar Bergman con i suoi film e i suoi attori. Si chiama Per Harry Rutger Lindstrom, ha 53 anni, biologo molecolare, baffi pizzetto e capelli scarmigliati sale e pepe. È nato a Burea. Nel 2003 una delegazione sarda del Parco di Pula va a presentare Polaris a Uppsala, nella delegazione c’è una psichiatra sarda, Monica Mameli che collabora con la nostra ambasciata a Stoccolma. Nel pubblico c’è anche Lindstrom nella sua veste di presidente della Meadowland Business Partners AB. È fra ai massimi esperti scandinavi nella commercializzazione di innovazioni nel campo della biomedicina. Sente parlare dei progetti della Regione, del Parco, dei laboratori, delle agevolazioni che può fornire la finanziaria Sfirs. Si va subito a nozze dopo il necessario periodo di corteggiamento. E il 27 luglio del 2005, nello studio cagliaritano di un notaio, nasce EDX Diagnostic, 77 per cento del capitale è svedese, il restante 23 per cento è della Sfirs che concede un finanziamento da 1,5 milioni di euro. Dice Lindstrom: «Noi - che abbiamo 32 brevetti - abbiamo investito circa 17 milioni di euro in proprietà intellettuale e oggi siamo pronti a presentare al mercato il primo dei nostri prodotti diagnostici, Apoc 200 appunto». Nel frattempo Lindstrom si innamora della Sardegna. Da cuoco provetto impara a cucinare anche il maialetto arrosto, coltiva i suoi hobby nel progettare e rinnovare case, legge libri storici e ama i thriller scientifici, scia e fa trekking. Anche quando è a Pula inizia la giornata leggendo le email poi passa ai quotidiani on line, Wall Street Journal, New York Times ed Herald Tribune, in Svezia legge il quotidiano di economia Dagens Industri. In Svezia ha cinque cavalli («io con loro ci parlo», e si vola con la fantasia al film di Robert Redford e Scarlett Johansson). Quando è in Sardegna ama vedere i cavallini della Giara e ha seguito l’Ardia di Sedilo. Dice: «Siamo molto contenti di aver scelto l’Isola, la qualità della vita è onorata, e poi in Sardegna Ricerche abbiamo trovato un supporto valido, qui abbiamo personale specializzato con preparazione di altissimo livello». Direttore medico di ADX Diagnostic è Monica Mameli, la psichiatra che lavorava all’ambasciata italiana. La sua è un’altra di quelle pagine belle da leggere. E non solo perché è uno dei cervelli rientrati a lavorare in Sardegna. Monica ha 41 anni, nasce a Domusnovas, il padre Luigi commerciante, la madre casalinga, è la terza di quattro figli, il fratello Giancarlo lavora in un’azienda di giardinaggio, Efisio fa l’impiantista a Cuneo, Anna Rita è assistente all’infanzia a Iglesias. A Monica gli orizzonti si aprono già in terza elementare perché la maestra Maria Rosaria Peddis «ci insegnava l’inglese e ci diceva che bisognava conoscere e amare il nostro paese ma anche il resto del mondo». Liceo scientifico all’Asproni di Iglesias, alla maturità sceglie il tema sul pessimismo cosmico di Giacomo Leopardi ma è il poeta di Recanati che le dà la spinta per indagare, scrutare la mente umana. Un po’ di pessimismo le arriva anche da alcune vicende mediche, a Cagliari sbagliano del tutto una diagnosi e Monica non esita a iscriversi in Medicina e Chirurgia, ma alla Sapienza di Roma. Le piace la psichiatria, tesi sulla «melatonina in pazienti schizofrenici», 110 e lode ottenuto da Paolo Panchieri. Inizia la specializzazione e così sperimenta la validità del consiglio di maestra Peddis e passa tre mesi al Bronx di New York, «dove trovavo tanta umanità disperata e trascurata, abbandonata del tutto, Sì, c’erano i farmaci, ma quanti effetti collaterali producevano. È in questa fase newyorkese che decido di approfondire la ricerca di base sugli effetti dei farmaci nei pazienti. E penso di studiare e produrre un farmaco col minor numero possibile di effetti collaterali». C’è da fare il dottorato. Dove? Intanto a Roma. Che ha ottimi rapporti col Dipartimento di Neuroscienze “Bernard Brodie” di Cagliari diretto da Gian Luigi Gessa. La scelta va fatta fra gli Stati Uniti, il Regno Unito o la Svezia. Monica sceglie il vento del Nord e approda a Stoccolma, al Karolinska Institutet che ha i collegamenti internazionali giusti: negli Usa l’Albert Einstein University, il Montefiore Medical Center-Bronx Schizophrenia Unit a New York. Il Karolinska, tanto per intenderci, è quell’istituto che assegna ogni anno i Nobel per la Medicina. C’è poi il National Institute of Mental Health a Bethesda dove alcuni sardi hanno studiato a lungo (fra gli altri Mario Pirastu, direttore del Cnr di Tramariglio e del Parco Genos dell’Ogliastra). Il Karolinska è in contatto stretto con l’Istituto Pasteur di Parigi. «Stoccolma rappresentava l’espressione migliore, più avanzata della ricerca di base applicata alla clinica. Ero abituata a vedere nel mondo i pazienti schizofrenici sporchi, trascurati, talvolta maltrattati. Al Karolinska li vedevo puliti, seguiti, amati, passeggiavano in giardini fioriti. Là c’erano le case-famiglia, i pazienti venivano seguiti a domicilio, venivano incoraggiati a tornare alle loro case dove l’assistenza era comunque garantita. Io conoscevo già bene il metodo Basaglia molto apprezzato anche in Svezia. Ma là c’erano i mezzi per attuare quella rivoluzione, da noi no». A Stoccolma Monica si trova bene. Conosce il marito, Per Engvall, medico pure lui, primario dell’emergenza psichiatrica. Si sposano ma non hanno figli. Spiega: «Ero un po’ avvolta dal pessimismo cosmico. Dovevo decidere se avrei potuto dare tutta me stessa a un figlio o meno. Non me la son sentita, ero piena di dubbi, eppure sono una femminista convinta, sostengo le mamme lavoratrici». Casa e professione. Dieci anni tra i malati mentali, in Svezia e negli Stati Uniti, in Francia e in Inghilterra. Pensa sempre a quei farmaci che non siano “pesanti” per i malati di mente. Collabora soprattutto col Pasteur di Parigi, crea un set-up di elettrofisiologia in vivo. «Al Pasteur avevano i topolini transgenici, noi al Karolinska no, creiamo un trait-d’union e la ricerca va avanti». Monica passa dalla teoria alla pratica, dai laboratori all’assistenza diretta agli schizofrenici. I suoi studi vengono pubblicati su Nature e Neuron. E in questa fase che arriva a Stoccolma la delegazione di Polaris che vuol calamitare investimenti in Sardegna. Monica è tra gli speaker scientifici. Molte aziende ascoltano. Tra i più attenti c’è Per Lindstrom. Da cosa sta per nascere cosa. Quand’ecco che proprio su Nature, anno 2005, Polaris pubblica un bando con una selezione per assegnisti di ricerca e borse di studio. A Monica non sembra vero. Invia il curriculum e la chiamano. La seguono a ruota Maurizio Olla dall’Australia, altri giovani ricercatori sardi dal Canada e dagli States. Tra Monica Mameli e Lindstrom si saldano i rapporti. Ed ecco il back, direttore medico a Pula. La prima sperimentazione è riservata alla prevenzione dell’infarto congenito del feto. «Siamo gli unici a farlo - dice Monica -. La produzione avviene in Svezia, la sperimentazione è in parallelo al Karolinska Institutet, tra qualche settimana partirà l’applicazione in Sardegna». Edx Diagnotics si avvale di trenta professionisti tra dipendenti e consulenti. Il sessanta per cento sono sardi come Maria Luisa Ravera e Cinzia Melis. Cinzia ha lavorato tre anni all’estero, a Clermonnt in Francia, Maria Luisa ha fatto i suoi stage a Bergamo e Milano. «Qui ci troviamo bene», dicono. Massimo Magno è napoletano, ha sposato Monica Musio di Barumini, è dell’area manager: «Fra due, tre settimane il nostro test sarà disponibile sul mercato. Stiamo sensibilizzando le persone a questo tipo di patologia, stiamo creando - per dirla con i francesi - un mouvement d’eprit, la prevenzione ne ha bisogno». In un ufficio discutono Lindstrom e Monica Mameli. Quale è il futuro della ricerca in Sardegna? Monica: «Siamo già nel futuro, i cervelli ci sono, occorre poter arrivare al prodotto finale, occorre non chiudersi, dialogare e confrontarsi col mondo, pronti ad accogliere le critiche altrui per crescere insieme». Lindstrom: «La Sardegna è bella, vivibile dodici mesi all’anno, deve continuare a investire nella ricerca, nella valorizzazione dei cervelli, è la strada giusta». Ma Monica Mameli Engvall sta meglio in Svezia o in Sardegna? «In Svezia ci vorrebbe un po’ di Sardegna, in Sardegna ci vorrebbe un po’, anzi più di un po’ di Svezia, sarebbe stupendo». _______________________________________________________ L’Unione Sarda 5 ott. ’07 CONTU (FI): LA GIUNTA AUMENTA LE TARIFFE MEDICHE «La Giunta ha pensato bene di fare un salasso ai malati sardi, aumentando le tariffe anche per le prestazioni specialistiche ambulatoriali». La denuncia arriva dal consigliere di Forza Italia Mariano Contu: «È sufficiente leggere l'allegato 2 alla delibera 34/9 per rendersi conto degli aumenti: sono state risollevate le tariffe più basse allineandole a quelle nazionali, senza ritoccare verso il basso quelle più care». Contu cita la delibera della Giunta dell'11 settembre e dà i numeri: «Se per una risonanza magnetica nucleare la tariffa nazionale prevede un costo di 154 euro, quella regionale fissa il costo a 184 euro, così come una Tac, che in Sardegna - sostiene il consigliere dell'opposizione - ha un costo superiore di circa 27 euro rispetto alla tariffa nazionale». Secondo Contu «la cosa più grave è che questa operazione è stata condotta senza alcuna informazione ai cittadini, che scopre questa nuova serie di aumenti solo al momento del pagamento del ticket». Ecco perché, sostiene il medico di Selargius, «l'Euro Health Consumer Index, la classifica annuale sull'assistenza sanitaria nei 29 Paesi dell'Unione, colloca l'Italia fra le ultime nazioni d'Europa, al 18° posto, dietro Estonia, Repubblica Ceca e Cipro. Anche per la mancata informazione agli utenti». Contu chiama in causa l'assessore Nerina Dirindin: «Evidentemente confortata dai dati Istat, che secondo una maldestra lettura del presidente della Regione indicano una ripresa del sistema Sardegna, l'assessore alla Sanità ha portato in Giunta la deliberazione per la "revisione del nomenclatore tariffario delle prestazioni di specialistica ambulatoriale"». Secondo l'esponente di Forza Italia «la Sardegna in questo modo paga la scelta di rinunciare ai fondi nazionali per la sanità, fatta dalla Giunta regionale due anni fa». Una delibera datata 11 settembre: «Un giorno nefasto per tutti, anche per i sardi, costretti a subire un ulteriore salasso da parte dell'esecutivo guidato da Soru». _______________________________________________________ L’Unione Sarda 3 ott. ’07 OSTETRICIA, LA RABBIA DEI CAMICI BIANCHI San Giovanni di Dio. Denuncia del direttore: mancano infermieri e assistenti sanitari L’azienda mista: «Nel 2008 trasferimento a Monserrato» Con il passaggio all’Azienda mista non sono diminuiti i problemi della Clinica È un reparto ospedaliero dove quasi sempre si entra volentieri, ma non al San Giovanni di Dio. La Clinica Ostetrica e ginecologica diretta da Gian Benedetto Melis ha l’acqua alla gola: la carenza di infermieri, operatori socio sanitari e ostetriche rende pesante il lavoro di chi ci opera. C’è poi l’incognita sull’opzione del personale, che potrebbe abbandonare l’Azienda per rifugiarsi nella Asl 8 e creare così vuoti di organico ancora più consistenti. Ora, come tutte le cliniche del Civile, è passata dalla difficile gestione di Università e Asl 8 all’Azienda mista, ma i problemi non sono finiti. Anzi, potrebbero aumentare con il prossimo trasferimento nella Cittadella universitaria di Monserrato, previsto nel 2008. Nel frattempo sembra che i finanziamenti, e i conseguenti miglioramenti o la semplice ordinaria manutenzione, siano bloccati. LA DENUNCIA L’atrio del reparto al primo piano del vecchio ospedale è affollato da decine di donne in gravidanza che devono eseguire esami, interventi o più semplicemente partorire. L’ambiente non è dei più confortevoli, fa caldo e le poltroncine non sono sufficienti per tutte. Una porta scorrevole separa la quotidianità del reparto dallo studio di Gian Benedetto Melis. «Siamo in condizioni disperate, vede quella macchia - dice indicando una parete con l’intonaco penzolante - è da anni che chiedo una verniciata, ma niente. Ogni settimana sono costretto a farla pulire. Non è dignitoso». Il quadro non è certo esaltante, ma questo è niente rispetto alle carenze della clinica. «Il nostro problema cronico è la mancanza di personale. Siamo un punto di riferimento internazionale, raggiungiamo obiettivi notevoli, ma da troppo tempo soffriamo gli effetti della passata gestione della Asl 8. Mancano ostetriche, operatori socio sanitari (Oss), infermieri professionali e ausiliari. Da dieci anni non ci sono concorsi». Tutto questo si traduce in incomprensioni, tensioni e disagi per i pazienti. «Gli Oss sono quelle figure addette alla pulizia dei ricoverati e delle sale operatorie, funzioni che ora vengono svolte da ostetriche e infermiere, nonostante non sia un loro compito», spiega una dipendente. «Un’irregolarità accertata anche dall’Ispettorato del lavoro, ma niente è cambiato». Un ulteriore incognita pesa sul reparto: il 15 novembre i dipendenti potranno scegliere se rimanere nell’Azienda mista o trasferirsi nella Asl 8. In quest’ultimo caso è prevedibile una ulteriore diminuzione dei dipendenti. L’AZIENDA MISTA Un piano sopra, sempre nell’edificio realizzato da Cima, il direttore dell’Azienda mista, Ninni Murru, assicura che presto i problemi verranno risolti. «Assumeremo le figure indispensabili. Domani (oggi per chi legge) è in programma un incontro tra sindacati, assessore alla Sanità e manager della Asl 8 per definire i dettagli di possibili defezioni dei dipendenti. Non è un problema - afferma il direttore - nel caso ne avessimo bisogno attingeremo le figure professionali da una graduatoria». Sarà un anno di transizione quello che dovranno affrontare il San Giovanni di Dio e la Clinica Macciotta. «I lavori per la realizzazione del Dipartimento materno infantile nella Cittadella universitaria sono a buon punto e se tutto fila liscio entro l’estate del 2008 le due strutture verranno trasferite a Monserrato». Andrea Artizzu _____________________________________________________ Panorama 11 ott-07 SUA SANITÀ VERONESI tutti gli uomini di Umberto Veronesi Nessuno meglio di lui sa unire scienza e managerialità. Ma i poteri forti, che da sempre lo circondano e lo hanno spinto nella sua ascesa, restano sullo sfondo di fronte al suo charme indiscusso. Nello spazio sidereo in cui brilla da qualche decennio lui, il guru della medicina Umberto Veronesi, è la stella più luminosa. E non ha mai smesso di brillare, da quando il 4 novembre 1986, era un giovedì alle 5 e mezzo di sera, entrò nel palazzotto della Mediobanca e incontrò Enrico Cuccia, principe dei finanziatori, e gettò lì l'idea di far nascere in Italia un istituto di ricerca e di cura non-profit per il cancro che fosse punto di riferimento in Europa. Otto anni dopo, la prima paziente, una signora garbata e timida, varcò la soglia dell'Istituto europeo di oncologia, l'Ieo come lo chiamano familiarmente i milanesi. Alla cerimonia d'inaugurazione erano presenti tutti i soci fondatori, da Giovanni Agnelli a Leopoldo Pirelli, Giampiero Pesenti, Salvatore Ligresti. E c'era anche Cuccia, che aveva lasciato a Francesco Cingano la presidenza della Mediobanca e anche quella dell'Ieo. «Nel trambusto che sempre accompagna queste cerimonie, Cuccia riuscì a prendermi per un braccio e a dirmi: "Ce l'abbiamo fatta". Poi scomparve» racconta Veronesi nel suo libro Da bambino avevo un sogno (Mondadori). Scompaiono sullo sfondo, questo il destino di tutti coloro, sponsor, sostenitori, finanzieri, uomini politici che, pur avendo un ruolo essenziale nella sua ascesa, non traggono luce da lui, ma gliela conferiscono. «Sua Sanità», come lo chiamano in onore della sua consolidata potenza, o «il Divino» per il suo indiscutibile charme, sembra mettere in ombra tutti. Ottantuno anni portati con disinvoltura, alto, fisico asciutto, sorriso e risata accattivanti, poliglotta, colto, amante di poesia e musica, vegetariano, padre di sette figli, insignito del National award che negli Usa si conferisce ai cancerologi eccellenti, una collezione di lauree honoris causa, pioniere di una tecnica conservativa per il tumore al seno (la quadrantectomia), il professore ha sempre stretto alleanze alla luce del sole, chiudendo gli spazi, questo sì, ai suoi pochissimi rivali. Capacità al di sopra della norma, gli riconoscono i rivali, ma anche un po' di cinismo. Del resto in Italia chi può competere con lui per abilità di comunicatore e di imprenditore? Ed è capace di unire sapientemente la scienza alla managerialità. «E un uomo che ha creato un'organizzazione per la lotta contro il cancro, che il mondo ci ammira, che si è mosso egregiamente nella sanità, che ha relazioni di prim'ordine nel mondo scientifico, e anche, perché ignorarlo, un portamento elegante da signore. Antipatico agli ambiziosi qualsiasi, ai carrieristi mediocri che tireranno fuori tutte le storie, i pettegolezzi e le calunnie per dire che, sì, ha i suoi meriti, però...» ha scritto Giorgio Bocca sulla Repubblica. Molti non gli perdonano di aver avviato, con la creazione dell'Ieo, un processo che ha favorito in Lombardia la sanità privata, stile Formigoni. Intorno a lui girano da sempre poteri forti. Ma non ne ha mai fatto mistero. Fu vicino al Partito socialista e a Bettino Craxi, suo grande amico, che per due volte lo avrebbe voluto ministro, oltre che alla Sanità agli Esteri, ma non riuscì a convincerlo. Accettò invece, molti anni dopo, la proposta del suo grande sostenitore Giuliano Amato, «sempre attento, sempre presente e sempre aperto a ogni discussione», che lo designò ministro della Sanità, dopo Rosy Bindi, nel 2000. Durante il caso Di Bella, il medico modenese che sosteneva di avere una cura anticancro, pare lei abbia confidato a un noto medico: «Gli oncologi hanno troppo potere. Superiamo questa storia e poi ci penso io». Era il 1998. Veronesi venne chiamato a presiedere la commissione di esperti incaricati di valutare la terapia Di Bella. E nessuno avrebbe immaginato che sarebbe diventato due anni dopo dominus della riforma sanitaria, voluta da Bindi, che prevede il tempo pieno per i medici. Restò ministro per 15 mesi, poi il governo cadde. Avrebbe accettato di rimanete un altro anno, «se ci fosse stata una richiesta a furor di popolo». Lo bacchettò Maurizio Gasparri, di An: «L'inesperienza politica del professore ci lascia esterrefatti: è singolare immaginare la designazione di un ministro a furor di popolo. Come può Veronesi essere uomo per tutte le stagioni?». Che sia un personaggio ingombrante per la destra è un dato di fatto. Non fosse altro per le posizioni da lui prese sulle droghe leggere. Firmò nel 1995 un appello per la loro legalizzazione: «Una legge comporterebbe la creazione di un efficace contesto giuridico» disse. Anche se corteggiato da Silvio Berlusconi, non ne ha mai voluto sapere. Lui che è stato partigiano e con civetteria mostra la piccola macchia nera nell'occhio (una scheggia di una mina) con il mondo della politica sembra essere meno a suo agio che con quello della finanza e dell'impreditoria. Anche se è consapevole che la politica può aiutare la ricerca scientifica. Lo sapeva il suo maestro Pietro Bucalossi, luminare impegnato in politica, sindaco di Milano negli anni 60, socialista passato al Partito repubblicano, che nel 1973 venne nominato ministro della Ricerca. Fu allora che Veronesi assunse la direzione scientifica dell'Istituto dei tumori, avendo la meglio su Giuseppe Della Porta, meticoloso e grande organizzatore, che rimarrà suo fedele collaboratore, seguendolo all'Ieo. E il distinto Bucalossi? Raccontava con amarezza che, chiusa la parentesi ministeriale, si sentì estromesso dall'istituto. Il professore («Pugno di ferro in guanto di velluto» ebbe a dire Nuccio Abbondanza, presidente dal 1982 al 1994 dell'Istituto dei tumori), ha rifiutato per due volte la proposta, prima di Tognoli nel 1985, e vent'anni dopo quella della sinistra di diventare sindaco di Milano. Motivò il suo rifiuto dicendo che «l'impegno in favore della scienza contro la malattia e il dolore è la mia vita». E che non poteva abbandonare i suoi malati. Qualcuno però sussurra che non volle mettersi in gioco e correre il rischio di perdere: «Lui gareggia solo se ha la sicurezza di vincere». A sinistra non tutti lo avrebbero sostenuto. Non erano piaciute né a Margherita né a Rifondazione certe sue dichiarazioni un po' troppo bipartisan. I:ultima, un elogio al ministro della Salute Francesco Storace per aver stanziato fondi alla ricerca. Cento milioni di curo di cui oltre la metà a società private: se all'Istituto dei tumori furono destinati 10 milioni di euro, all'Ieo il doppio («Non sono finora arrivati» affermano all'Ieo). Uno dei più accesi contro di lui fu Nando Dalla Chiesa: «Un candidato che spacca la sinistra». Avversarono la sua nomina anche Fausto Bertinotti e Alfonso Pecoraro Scanio. A confortarlo in quei 50 giorni di burrascosa riflessione (e polemiche) c'erano i suoi fedeli amici: Francesco Micheli, suo partner nell'avventura della Genextra, azienda biotech creata nel 2003 e affiancata dalla Fondazione Umberto Veronesi, e Renzo Piano, l'architetto cui ha affidato parecchi dei suoi sogni, come l'ospedale a misura d'uomo. Il Nobel Dario Fo fece il tifo per lui: lo avrebbe visto volentieri sindaco di Milano. Lo esortò invece a non mettersi nei guai don Luigi Verzé, presidente della Fondazione San Raffaele e suo «competitor» nella galassia della sanità milanese privata in convenzione. Laico convinto, positivista, da anni Veronesi cerca di portare l'italiano medio a cambiare la percezione che ha della scienza. Su questo obiettivo investe la sua fondazione che dal 2005, a settembre, organizza a Venezia una conferenza mondiale su «The future of science». Quest'anno (si è conclusa il 22 settembre) era dedicata al tema dell'energia. Non ha mai nascosto, il professore, la sua posizione a favore dell'energia nucleare: «L’Italia dovrebbe superare lo spauracchio della tecnologia atomica e costruire centrali». Ha sempre mostrato anche simpatia per gli ogm e ha sostenuto, scatenando le critiche colorite di Beppe Grillo, che più che gli ogm o le polveri sottili sono le tossine contenute in polenta, parate, tarma di mais o basilico a tar venire il cancro. Che sia spinto a queste affermazioni, ipotizzò Grillo, dalle lobby del settore automobilistico, petrolifero e alimentare che lo finanziario? Se suscitano in alcuni perplessità certe sue idee sull'ambiente (non è tanto l'inquinamento quanto l'alimentazione a favorire il cancro), Veronesi conquista schiere di seguaci quando sostiene che «in Italia solo nel 20 per cento degli ospedali sì tratta il dolore in modo efficace» e si batte per contrastare la sofferenza secondo protocolli scientifici. O quando si esprime in favore del testamento biologico e contro «la nutrizione o l’idratazione artificiale di un corpo umano che ha perso per sempre il suo legame con la coscienza», come nel caso di Eluana Englaro, in come vegetativo da 15 anni. Occorre, sostiene, una legge che «stabilizzi le volontà del cittadino e le renda vincolanti». Si trovò in sintonia con i Ds, con gli elogi di Piero Fassino, nella campagna per il referendum nel giugno 2005 per la legge 40 sulla procreazione assistita. Dalla sua parte ebbe anche scienziati che di solito criticano il suo strapotere quando si dichiarò a favore della ricerca sulle cellule staminali embrionali. Non esitò a prestarsi a una campagna pubblicitaria sui media per i quattro sì ai quesiti referendari. Veronesi è instancabile nella raccolta dei fondi per la ricerca. Il suo fiore all'occhiello è l’Airc, Associazione italiana per la ricerca sul cancro, 2 milioni di soci finanziatori. È stato lui con Dalla Porta a far nascere in Italia, sul modello americano, questa charity. Nacque quando la parola cancro sui giornali era tabù e ottenne in partenza le donazioni da banche, dalla Cariplo, tramite Silvio Tronchetci Provera, ma anche dalla Pirelli e da grandi imprenditori milanesi. Disse ai suoi amici: «Dovete fare come i ricchi americani che danno soldi per la ricerca». Oggi l’Airc finanzia per il 40 per cento quella oncologica italiana. Dalla Porta è ancora il vicepresidente, ma è lui, Veronesi, l'icona. Il cancro si identifica con il suo volto rassicurante. Anche se ormai non fa più parte del comitato scientifico dell’Airc e non partecipa alle riunioni, ne ispira i decisori. Una costola dell'Airc è la Firc, la Fondazione per la ricerca sul cancro nata nel 1980, che a sua volta ha reso possibile la nascita quattro anni fa dell'Ifom, l'Istituto di oncologia molecolare. Un campus che sì avvale di tecnologie avanzate e in cui operano ricercatori provenienti da diverse istituzioni: Mario Negri, l'Università di Milano, l'Istituto dei tumori e fIeo. Direttore scientifico dell'Ifom è Pier Paolo Di Fiore. Come Pier Giuseppe Pelicci, che occupa un'analoga posizione all'Ieo, anche lui era ricercatore al National instirute of heahh di Bethesda. I due hanno seguito percorsi analoghi e con la spinoff Genextra, dove lavora un gruppo dì scienziati e un finanziere esperto, Micheli, sperano di produrre una svolta nella ricerca anti invecchiamento. La Genextra controlla il capitale sociale della Congenia, L'altra società biotech che conduce ricerche all'interno del campus dell'Ifom. All'impero Ieo si è aggiunto nel 2000 il Centro cardiologico Fondazione Monzino, a Milano. A convincere Veronesi a portare a termine l'operazione fu Cuccia, che in vita gli ha fatto da Virgilio nel mondo della finanza. Il centro venne soffiato a Giuseppe Rotelli, imprenditore della sanità privata, per il rotto della cuffia. Cuccia, ricoverato al Monzino, riteneva bisognasse puntare anche su altre patologie, il professore titubava perché temeva potesse distogliere attenzione all'Ieo. Nel consiglio di amministrazione del Monzino ci sono gli stessi rappresentanti dell'Ieo: Gabriele Cfalateri, ex presidente della Mediobanca, e Andrea Novarese, uomo del gruppo Ligresti. La nuova sfida è ora il Cerba, il Centro europeo di ricerca biomedica, che sorgerà sui terreni agricoli che fanno parte del Parco sud di Milano e appartengono a Salvatore Ligresti, l'imprenditore immobiliare che lo ha sempre affiancato. A chi lo critica per queste sue alleanze risponde: «Se devo comperare una mela, vado dal fruttivendolo». I terreni, 310 mila metri quadrati edificabili e altrettanti adibiti a parco pubblico, hanno ottenuto il cambio di destinazione e Ligresti parteciperà alle varie società immobiliari che realizzeranno le strutture, ne saranno proprietarie e le daranno in affitto alle istituzioni scientifiche. Un'operazione immobiliare da centinaia di milioni di euro, ma anche un piano ambizioso: creare una sinergia tra ricerca e clinica per le varie specialità, oncologia, cardiologia, neurologia, immunologia... Il progetto architettonico di Renzo Piano è ora passato allo studio Boeri, e ha dietro la Milano degli affari. Nel consiglio di amministrazione ci sono fra gli altri: Andrea Novarese, Galateri, Ligresti, Matteo Arpe, Giovanni Bazoli (Intesa Sanpaolo), Carlo Buora (Telecom), Carlo Ciani (Ras), Carlo A. Puri Negri (Pirelli Re), Giovanni Perissinocto (Assicurazioni Generali). Presidente della Fondazione Cerba fondata nel 2004 è Veronesi, che vede in questa cittadella una «mission» per «promuovere la ricerca avanzata e rendere disponibili i migliori trattamenti». Ai soliti prescelti, commentano alcuni, oppure a tutti? «Nella sanità pubblica i malati non si scelgono» obietta un oncologo milanese. Intanto, i dietrologi mormorano. Alludono a tattiche di riavvicinamento all'Istituto dei tumori: così viene interpretato il passaggio di Stefano Zurrida, vice del professore all’Ieo per lunghi anni, a direttore generale all'Istituto di via Venezian. «hidea che ha, e lui è lungimirante, è creare una rete con il pubblico e far crescere il sistema nel suo complesso, non isole di eccellenza» dice l'anonimo commentatore. Come sembra si profili il nuovo polo oncologico, fortemente voluto da don Verzè, al San Raffaele di Milano. Un progetto da 100 milioni di curo in partenza, ma saranno il triplo, che dovrebbe portare il numero dei ricercatori e dei medici da 300 a 600. La concorrenza sì amplia e si fa accesa. II gruppo che possiede l’Humanitas ha avviato una campagna acquisti e aperto un megacentro di ricerca sull'infiammazione che ha un ruolo centrale nello sviluppo del cancro. E Veronesi, che citando il poeta tedesco Johann Woltgang Goethe dice: «Il destino di un uomo è nel suo carattere», si lascia evidentemente dominare dalla sua voglia di fare, proiettandosi nel futuro. L'ultima idea? Creare una pubblicazione online di libero accesso: E cancer medical science. Lanciata alla conferenza europea sul cancro di Barcellona, dal 23 al 27 settembre, ricalca il modello di P1oS, la Public library of science, che ha infranto il monopolio delle riviste scientifiche su carta. Il suo personaggio, fra luci e ombre, va oltre i suoi meriti scientifici. Il Nobel? Non lo ha ricevuto, sebbene sia stato candidato più volte, anche perché chirurgo. Ma chissà... _____________________________________________________ il Giornale 29 Sett. ‘07 MA LA SCIENZA ALLUNGA SOLO LA VECCHIAIA Giancristiano Desiderio La scienza ci allunga la vita. E cosa c'è di strano? Nulla, proprio nulla. Perché la scienza è venuta al mondo nell'antica Grecia proprio con questo scopo: allungare la vita. Oggi ff filosofo inglese Roger Scruton ripete nel suo Manifesto dei conservatori (Raffaello Cortina Editore) quanto diceva Lord Salisbury: «Ritardare è vita». Ma ritardare fino a quando? Ritardare oltre il limite naturale della vecchiaia aiuta davvero a vivere meglio? Fin dove è possibile (e giusto) allungare la vita senza allungare la vecchiaia? Il paradosso è proprio questo: allungare la vita in modo indefinito significa allungare la vecchiaia. «L'eternità non ci interessa», ha detto recentemente Umberto Veronesi con i suoi attivi e splendidi ottantuno anni, «ci interessa restare in buona salute per centoventi o centocinquanta anni». Eppure, dietro l'allungamento della vita agisce il potente mito dell'immortalità. E cosa è una vita di centoventi anni o addirittura di centocinquanta se non una sorta di mortale immortalità? Massimo Fini, bastiancontrario per vocazione, non è affatto convinto che sia una buona idea. E, del resto, non è affatto convinto che sia vero che la vita umana si sia così e così bene allungata. Non era forse già Dante a fissare in pieno Medioevo il «mezzo del cammin di nostra vita» a trentacinque anni? E noi, oggi, quando raggiungiamo la soglia dei quarant'anni non ci sentiamo giunti al giro di boa? Dunque, cosa è davvero cambiato rispetto al passato? Probabilmente, è mutata la qualità della durata e, soprattutto, la qualità della- durata per una più ampia quantità di uomini e donne. Ma quanto alla durata e alla scansione delle età della vita e delle sue stagioni non è cambiato un bel nulla. Fini nel suo ultimo libro, Ragazzo (Marsilio), il cui merito principale è la sincerità (oltre allo stile), riporta la divisione delle tre età dei Romani. I contemporanei di Giulio Cesare fissavano la fine dell'infanzia a quattordici anni, quella della giovinezza a quarantasei e l'inizio della vecchiaia a sessanta. È forse davvero cambiato qualcosa dai tempi degli antichi romani? Può darsi che la giovinezza, soprattutto quella psicologica e dell'educazione o formazione dell'uomo, sia stata spostata in avanti e non di poco. Ma le età biologiche sono rimaste proprio le stesse (e, anzi, proprio la sfasatura tra età biologica e maturità è uno dei problemi della nostra contemporaneità). «Ora come allora la vecchiaia inizia, ancora e sempre, a sessant'anni, come sa chiunque abbia compiuto questo fatidico compleanno e non voglia mentire a se stesso», dice il giornalista. A sessant'anni inizia quella che si usa chiamare con pudore pari alla rimozione «terza età», insomma è l'inizio della vecchiaia. Ora, se a sessant'anni si comincia a essere vecchi, che cosa realmente allunga la scienza? Una buona e bella vecchiaia (in pratica, come quella di Veronesi) è cosa da augurare a tutti. Ma una vecchiaia portata al di là dei suoi limiti naturali e umani ha con sé, inevitabilmente, qualcosa di sinistro. E immaginare un'umanità formata da vecchi ultra centenari che sono vecchi già da due vite è infinitamente triste. _____________________________________________________ L’Unità 1 ott-07 VACCINI: NESSUN LEGAME CON I DANNI NEUROLOGICI UNO STUDIO ribadisce che i vaccini sono sicuri: anche il thimerosal, un composto per la conservazione a base di mercurio che era stato accusato di procurare danni e che è stato eliminato, non darebbe problemi di Cristiana Pulcinelli Un nuovo studio pubblicato sulla rivista medica New England joumal o f Medicine dimostra ancora una volta che i vaccini sono sicuri. In paiticolare, i ricercatori hanno voluto verificare se il thimerosal, un composto a base di mercurio che veniva utilizzato come conservante nei vaccini, possa creare problemi neurologici o psicologici ai bambini tra i 7 e i 10 anni. Fin dagli anni `30, il thimerosal è stato largamente utilizzato nella preparazione dei vaccini. Ma nel 1999, la FDA (l'agenzia del farmaco degli Stati Uniti) ha stimato che, se vaccinati secondo gli schemi raccomandati, i bambini finivano con l'assumere una quantità complessiva di mercurio che eccedeva i limiti di sicurezza. L'invito a rivedere la formulazione dei vaccini per eliminare il conservante è stato prontamente accolto, e negli Stati Uniti dal 2002 questa sostanza è stata quasi completamente eliminata dai vaccini destinati ai bambini (solo alcuni vaccini antinfluenzali ne contengono piccole quantità). Anche in Italia il ministero della salute aveva disposto il ritiro dal commercio dei vaccini per l'infanzia contenenti thimerosal entro il 2003. Sono rimasti in commercio solo vaccini che presentano tracce del composto, residuo della lavorazione. Tuttavia, si è pensato di vedere se nei bambini vaccinati prima di quella data, potessero esserci segni di danni prodotti dal composto a base di mercurio. Il gruppo di ricercatori, molti dei quali appartengono ai Centers for Diseases Control (Cdc) degli Stati Uniti, ha quindi preso in esame 1047 bambini tra i 7 e i 10 anni, alcuni dei quali erano stati vaccinati prima del 2002 con prodotti contenenti thimerosal, altri con prodotti senza il composto, e li hanno sottoposti a 42 esami neurologici e psicologici. Tra le prove richieste ai bambini c'erano ad esempio ricordare una lista di nomi o ripetere i nomi al contrario, inoltre è stata valutata la loro destrezza manuale e se avevano tic. 1 ricercatori sono anche andati a vedere se la madre durante la gravidanza ave va assunto dosi di thimerosal. Nessuno dei 42 aspetti neuropsicologici presi in esame è risultato associato in modo chiaro all'esposizione al thimerosal. Sono emerse solo deboli associazioni ora con un aspetto negativo, ora con un aspetto positivo. Alcune capacità verbali, di attenzione e motorie, cioè, sembravano leggermente migliori nei bambini che avevano ricevuto le maggiori quantità della sostanza, mentre altre sembravano peggiori. La conclusione è che tutto è frutto del caso e che non c'è nessun nesso causale tra la sostanza e i problemi psicologici e neurologici riscontrati. L'unico problema che sembra effettivamente associato al thimerosal è l'apparizione di tic, anche se in questo studio non si è presa in esame la distinzione tra tic transitori e permanenti. Un altro problema che non è stato preso in esame dallo studio è l'associazione del thimerosal con l'autismo. Alcune associazioni di genitori di bambini affetti da autismo negli Stati Uniti e in Gran Brecagna sostengono che i vaccini contro rosolia, orecchioni e morbillo sarebbero la causa dell'insorgenza della malattia dei loro figli. Ad essere accusato in primo luogo è ancora una volta il thimerosal contenuto nelle preparazioni. Molti studi hanno negato che esista un tale legame, ma ora la questione ha preso la via legale. Nel frattempo, i Cdc hanno deciso di condurre un altro studio che analizzi in modo specifico un eventuale nesso tra il thimerosal e l'autismo. Ma i risultati di questo studio saranno pronti nel 2008. Oltre al problema della sicurezza dei vaccini, dietro le controversie sugli effetti del thimerosal c'è anche negli Stati uniti un aspetto economico. Il governo federale statunitense ha istituito nel 1998 un fondo per risarcire coloro che avevano riportato gravi danni come effetti collaterali di vaccinazioni. Finora sono state esaminate da una appostita commissione circa 7000 richieste e circa 2000 sono state riconosciute fondate, con dei risarcimenti medi di 850.000 dollari. Nessuna delle richieste per autismo è stata finora accettata perché appunto si è ritenuto non dimostrato il legame tra il thimerosal e questa patologia. Ma molte famiglie hanno iniziato a rivolgersi direttamente ai tribunali per ottenere un risarcimento, sostenendo che un additivo, appunto il thimerosal, e non un vaccino sarebbe responsabile della patologia psichiatrica dei loro figli. Negli anni Ottanta, ricorda un commento apparso sulla stessa rivista, qualcosa di analogo successe con il vaccino della pertosse. Molti genitori, spaventati da un possibile legame tra questo vaccino e gravi danni neurologici trovato da alcuni ricercatori (ma successivamente smentito) decisero di non far vaccinare i propri figli. Il risultato fu che 70 bambini morirono di Dei tosse. _____________________________________________________ Mc Settembre ‘07 CERVELLO: II VANTAGGIO DELLE DUE METÀ La maggior parte degli esseri umani parla con l'emisfero sinistro, come notò il neurologo Paul Broca più di un secolo fa: è dalla metà sinistra del nostro cervello che dipendono la capacità di proferire e riconoscere le parole e, più in generale, le regole del linguaggio. Mentre l'emisfero sinistro è specializzato nelle funzioni linguistiche e nella logica sequenziale (e nella maggior parte delle persone controlla la mano preferita, vale a dire la destra), quello destro è al centro di altre funzioni come il riconoscimento dei volti, l’emozione, la capacità di comprendere ragionamenti di tipo analogico anziché strettamente logico. Gli studiosi dell'evoluzione umana hanno cercato di rintracciare il momento in cui l'emisfero sinistro ha assunto un ruolo prevalente nel linguaggio dei nostri predecessori, e per molto tempo si è ritenuto che la prova di questa svolta evolutiva risiedesse nel maggior volume dell'emisfero sinistro, «carico» dei cosiddetti centri del linguaggio, anche se in realtà non è facile individuare nei crani fossili - e anche nei crani degli esseri umani contemporanei - lo stampo lasciato sulle ossa craniche da un emisfero sinistro più voluminoso. Ma linguaggio a parte, perché i due emisferi sono asimmetrici? Perché alcune capacità sono legate alla metà sinistra o a quella destra del cervello? Negli esseri umani impegnare un emisfero. La suddivisione dei compiti tra i due emisferi del cervello permette di svolgere più compiti allo stesso tempo, E non solo agli esseri umani... per parlare e controllare la mano preferita dà all'altro emisfero la possibilità di impegnarsi in altre funzioni, come analizzare immagini o valutare l'impatto emotivo di una situazione. Insomma, suddividere le funzioni tra i due emisferi è indubbiamente un vantaggio che ha origini lontane: i delfini, per esempio, dormono con un solo emisfero per volta, il che permette loro di continuare a nuotare ed emergere dall'acqua grazie alla metà del cervello attiva. Ma anche in specie con un cervello meno evoluto, come i topi, i due emisferi presentano differenze che riguardano strutture e caratteristiche biochimiche. Le diverse caratteristiche dei due emisferi sono quindi prestabilite e rigide? La risposta è negativa, come dimostra la strana particolarità cerebrale di un pesciolino dell'America centrale, il pesce vescovo (Brachyraphis episcopi), così detto per il colore violaceo di buona parte del corpo. Allo stato selvatico questi pesciolini usano l'occhio sinistro (collegato con la metà destra del cervello) per osservare oggetti nuovi, in particolare i predatori, mentre usano l'altra metà cerebrale per fare altro, come identificare fonti di cibo o pesciolini a loro già noti. Ma questa ripartizione delle funzioni cerebrali è plastica, nel senso che i pesciolini allevati in cattività, che quindi non hanno esperienze con i predatori, guardano gli oggetti nuovi con l'occhio destro (collegato con la metà sinistra del cervello) e per altri compiti usano entrambe le metà cerebrali: in sostanza, sentirsi in una situazione confortevole porta a una quasi totale scomparsa della lateralizzazione mentre vivere in una situazione pericolosa fa sì che una metà del cervello si specializzi in una funzione, nella fattispecie riconoscere i predatori. Anche nell'uomo la lateralizzazione non è così rigida come si riteneva, e diversi ricercatori ritengono che, come avviene per i pesci vescovo, differenti esperienze nei primi anni di vita possano influire sul processo di lateralizzazione. D'altronde è ormai noto che nelle persone colpite da un danno cerebrale localizzato in uno dei due emisferi l'altra metà del cervello può compensarne le funzioni. Anche l'asimmetria cerebrale si modifica, quindi, in base all'esperienza. ALBERTO OLIVERIO, direttore dell'Istituto di psicobiologia e psicofarmacologia del CNR di Roma, è professore di psicobiologia all'Università «La Sapienza». _____________________________________________________ MF 2 ott-07 UN ARCHIVIO PER I RAGGI X I sistemi storage area network di Ibm utilizzati per conservare i documenti della divisione di radiologia dell’Unità sanitaria dell’Alto Vicentino ha 120 mila pazienti. Pochi secondi per la scheda di un paziente, in tutta sicurezza di Isabella Naef Le radiografie e i dati di circa 120 mila assistiti in infrastruttura storage e consente ai 2 mila dipendenti della azienda sanitaria di accedere direttamente attraverso una sola procedura di autenticazione, di salvare in maniera ridondante le nuove informazioni inserite e di aumentare lo spazio per archiviare i dati a seconda della effettiva necessità. È proprio la flessibilità che ha spinto l'Unità locale socio sanitaria numero 4 dell’Alto Vicentino a scegliere i sottosistemi storage Ibm nSeries e la libreria Ibm 3310 per realizzare il progetto archiviazione per la divisione radiologia. L’alternativa era rappresentata dall'adozione di un server pacs, ossia un server digitale per l'archiviazione delle immagini ma, come spiega Idelfo Borgo, responsabile dei sistemi informativi della Ulss, «questa scelta avrebbe comportato un investimento di almeno 5-6 milioni di euro: avremmo pagato in anticipo una tecnologia che tra due o tre anni sarebbe stata .già vecchia». Via libera, quindi, alla storage area network e a un sistema che garantisca un trasferimento di dati sicuro, scalabile e immediatamente operativo. «L’investimento del primo anno è stato di circa 200 mila euro, mentre nel 2006 ne abbiamo spesi 35 mila per comprare altri 15 terabyte di spazio da aggiungere ai 10 acquistati inizialmente», puntualizza Borgo, specificando che nei 200 mila euro è compresa la migrazione dei dati e lo studio del progetto. Tra le altre leve che hanno portato la LTIs 4 Alto Vicentino a decidere per la storage area network figura la possibilità di disporre di un sistema altamente scalabile che possa crescere a richiesta e senza interruzione di attività A questo va sommata la capacità dei sistemi nSeries di Ibm di poter contemporaneamente servire i diversi ambienti applicativi e architetturali presenti nella server farm aziendale. «Non abbiamo incontrato grandi difficoltà in fase di realizzazione proprio perché abbiamo ampliato un qualcosa che esisteva già», dice Borgo, aggiungendo che altra caratteristica determinante è stata la capacità della soluzione scelta di unire a un basso costo di memorizzazione dei sistemi network attached storage, ossia i file server dedicati che si connettono a qualunque rete in un attimo aggiungendo tutti i gigabyte necessari senza interrompere il lavoro degli utenti, le elevate prestazioni dei sistemi storage area network Ciò ha consentito di completare la convergenza, di ambienti eterogenei su un unico sistema dischi: alcuni tipicamente relazionali a elevatissimo numero di piccole e medie transazioni, altri caratterizzati da transazioni di enormi di dimensioni. La nuova soluzione è caratterizzata da tempi di accesso minimi, capacità di memorizzazione elevata, efficienza nel mettere a disposizione dati di così diverse tipologie avendo un unico punto di gestione facile e affidabile. Inoltre il sistema dispone di una unica unità per effettuare i back up e attuare le politiche di disaster recovery aziendali. «Il back up dei dati è effettuato quotidianamente e ogni ora si procede con la copia del contenuto, si tratta di una struttura di sicurezza complessa», afferma il responsabile dei sistemi informativi della Unità locale socio sanitaria dell’Alto Vicentino, specificando che la soluzione adottata, la libreria Ibm 3310 è dotata di 120 alloggiamenti per cartucce Lto-3 per un totale di capacità di back up e memorizzazione a lungo termine di 96 terabyte, espandibili in base alle necessità. L’infrastruttura è operativa 24 ore su 24, 365 giorni all'anno ed è sempre assistita e controllabile in remoto. «Tra i vantaggi derivanti da una soluzione di questo tipo», non manca dì sottolineare Borgo, «c'è anche quello della sicurezza, intesa come tutela dei dati, si tratta di dati anche molto sensibili, dalla possibilità di intrusione da parte di chi non ha l'abilitazione necessaria oppure dalla perdita delle informazioni». II tutto, però, senza complicare inutilmente le procedure di autorizzazione da parte dei dipendenti e del personale medico della struttura ospedaliera. «Infatti gli utenti abilitati memorizzano i dati sullo storage area network e non sul proprio pc, in questo modo è piuttosto improbabile che chi non ha l’autorizzazione possa metterci il naso», dice Borgo. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 4 ott-07 AIDS, LA LOTTA CONTINUA Una nuova tessera si inserisce nel puzzle che, una volta completato, dovrebbe condurre alla formulazione di un vaccino contro l'Aids o altre malattie a trasmissione sessuale come, ad esempio, l'herpes o la clamidia. È la scoperta di alcuni meccanismi immunologici che si manifestano a livello dei tessuti in cui avviene il primo contatto con i virus responsabili di tali patologie. La scoperta è il risultato di uno studio coordinato dal gruppo di Mario Clerici del Dipartimento di scienze e tecnologie biomediche dell'Università degli studi di Milano, in collaborazione con la Divisione di malattie infettive dell'Ospedale Ss. Annunziata Antella (Firenze) e con enti di ricerca francesi (Ird, Montpellier), americane (Usc, Los Angeles e Columbia, New York) e africane (University of Zambia, Lusaka). Dallo studio, in pubblicazione su «Public library of science one» (Plos One), è emerso che la difesa dei tessuti genitali è mediata da una particolare classe di proteine, le Mec-Cc128, capaci di attirare nelle mucose in modo selettivo plasmacellule, ossia cellule cui si deve la produzione, al ritmo di migliaia al secondo, di anticorpi protettivi chiamati Iga. Infatti, esponendo il topo alle proteine dell'Hiv in presenza di Cc128, si ha una concentrazione di anticorpi assai più alta che in sua assenza. «Ovviamente per passare dal topo all'uomo c'è un altro passo da fare - dice Clerici -, ma studi già condotti in donne sieronegative, partner sessuali di soggetti sieropositivi, hanno identificato, tra i fattori da cui deriva la loro protezione dall'infezione da Hiv, anche la produzione di anticorpi Iga a livello delle mucose genitali». Il nuovo studio è partito da una ricerca su bimbi africani nati da madri Hiv- infette e da queste allattati al seno. Una ricerca da cui è emerso che, in assenza di terapia, sopravvive più a lungo chi trova nel latte materno, accanto ai virus Hiv, una maggiore concentrazione di Cc128. Ora il nuovo lavoro ha verificato che tale concentrazione risulta aumentata nel plasma e nella saliva di persone esposte al virus dell'Aids, ma non infette. «Tale osservazione - prosegue Clerici - suggerisce che manipolando un vaccino per le malattie a trasmissione genitale con l'aggiunta di proteine Ccla8 si ottiene un potenziamento della difesa immunitaria. Se il vaccino contro il papilloma virus messo a punto recentemente non fosse ad alto tasso di protezione com'è, lo si potrebbe rendere più efficace contale manipolazione». ROSANNA MAMELI _______________________________________________________ Corriere della Sera 1 ott. ’07 DENTI SANI, MA NON PER TUTTI È scarsa l' assistenza specialistica dovuta ai disabili Nonostante gli sforzi delle Regioni per garantire cure odontoiatriche alle fasce più deboli della popolazione, così come previsto dai Livelli essenziali di assistenza (Lea), andare dal dentista per una persona «disabile» è quasi sempre un problema. Per Laura Strohmenger, della clinica odontoiatria all' ospedale San Paolo di Milano «il Servizio sanitario soddisfa soltanto il 10% di coloro che hanno bisogno di attenzioni particolari». Ma secondo Roberto Speziale, presidente di Anffas (associazione delle famiglie con disabili), la percentuale scende all' 1% se si considerano i 300mila assistiti con disabilità intellettiva. «Sono pazienti che non collaborano - spiega Speziani - e per questo sono necessarie strutture adeguate che, purtroppo, non sono distribuite in modo capillare sul territorio». Un' Associazione di dentisti di ospedali e cliniche universitarie, che da oltre 20 anni promuove l' odontoiatria pubblica a favore dei disabili, la Sioh, ha deciso di richiamare l' attenzione sul problema. Nell' ambito del congresso nazionale, dal 4 al 6 ottobre all' Università degli Studi di Milano, i dentisti della Sioh si incontreranno per gettare le basi di un' odontoiatria che tuteli meglio le categorie più deboli. «La prima carenza è che i Lea - dice Fausto Assandri, della clinica odontoiatra agli Icp di Milano - vengono applicati da Regione a Regione con criteri più o meno selettivi. Una sessione, (giovedì 4 ottobre, ore 15) sarà dedicata alle famiglie e alle Associazioni dei disabili, per far sapere che cosa facciamo e dove ci possono trovare (si veda anche il sito www.sioh.it)». La comunicazione tra istituzioni e assistiti è, infatti, uno dei cardini per la promozione della salute. Lo conferma Franco Riboldi, direttore generale dell' Usl di Bologna, una delle più avanzate nell' offerta di servizi odontoiatrici ai disabili. «Comunque, - precisa il dirigente - è auspicabile che il Ministero con la prossima Finanziaria allarghi la rete dei servizi, non soltanto per le fasce deboli, perché le cure dentarie non sono un fattore estetico, ma contribuiscono al benessere della persona». Anche in questo campo il volontariato supporta l' assistenza. Gli aderenti all' Associazione «Dentisti Milano» offre gratuitamente cure odontoiatriche a disabili, persone ammalate di Aids, malati cronici, persone Down. «Questi pazienti hanno bisogno di un approccio personalizzato - spiega Claudio Procopio, uno dei dentisti coinvolti -, ma senza una seria programmazione di risorse sarà difficile una svolta». Edoardo Stucchi Stucchi Edoardo _______________________________________________________ Corriere della Sera 1 ott. ’07 RESISTENTI ALLE MALATTIE COME UN CAMMELLO Si studiano nano-anticorpi, come quelli che rendono inattaccabili questi animali All' inizio degli anni ' 90 Serge Muyldermans, biologo della Free University di Bruxelles in Belgio, analizzava il siero di dromedari e cammelli per capire perché le «navi del deserto» sono tanto resistenti alle infezioni. Quando scoprì che nei camelidi, oltre ai normali anticorpi, se ne trovavano altri molto più piccoli e leggeri, pensò di avere sbagliato gli esperimenti. Invece, quegli anticorpi, responsabili della buona salute di dromedari e cammelli, dopo qualche anno di studi sono diventati la base per costruire i «nanocorpi», anticorpi cui è rimasto soltanto il braccio utile a legare il bersaglio e che al pari degli anticorpi monoclonali, possono essere usati come farmaci. Il perché è presto detto: gli anticorpi prodotti dal nostro sistema immunitario sono difese perfette contro batteri e virus, così i medici li hanno presi a modello per creare anticorpi-farmaci superselettivi diretti contro bersagli di ogni tipo, dalle cellule tumorali agli enzimi. All' inizio del 2007 i nanocorpi sono approdati ai test su volontari sani, per capire come vengono metabolizzati dall' uomo e soprattutto se sono tollerati e sicuri. I dati preliminari, appena diffusi, sembrano dar ragione a Muyldermans e colleghi, che credono talmente ai nanocorpi da aver fatto nascere da una costola dell' Università di Bruxelles un' azienda che dal 2002 li studia e li produce. Innanzitutto, i nanocorpi hanno la stessa specificità e affinità per l' antigene degli anticorpi normali, ma sono grandi un decimo: così resistono a temperatura ambiente e, pare, anche agli acidi gastrici, lasciando ipotizzare un uso per via orale. Inoltre, sono più semplici da produrre e quindi meno costosi: bastano 4 mesi per passare dall' immunizzazione del cammello alla realizzazione del nanocorpo e non servono cellule di mammifero per produrli, perché lieviti e batteri ne fanno grandi quantità in breve tempo. Soprattutto, essendo minuscoli possono intrufolarsi meglio per raggiungere bersagli piccoli o nascosti, come il cuore di tumori solidi e compatti. «Vero, ma la piccola taglia è anche un limite, - commenta Sylvie Ménard, direttrice dell' Unità di immunoterapia dei tumori umani dell' Istituto dei tumori di Milano -. Dopo poche ore sono già eliminati dall' organismo, mentre per i grossi anticorpi monoclonali che oggi impieghiamo con successo contro molti tumori basta un' iniezione ogni tre settimane». «L' utilità di un "ago più fine" è finora solo teorica - interviene l' immunologo Alberto Mantovani, direttore scientifico dell' Istituto clinico Humanitas di Rozzano (Mi) e docente dell' Università di Milano -. Non esiste ancora una sperimentazione che abbia dimostrato un vantaggio clinico dei nanocorpi, che oltretutto essendo derivati da un animale possono scatenare una risposta immunitaria. Gli anticorpi monoclonali, invece, costituiscono ormai il 30% di tutti i nuovi antitumorali in sperimentazione e non dobbiamo dimenticare che le parti non variabili dell' anticorpo (il "tronco" della Y) sono importanti per la risposta clinica». Sono infatti quelle che richiamano e modulano la risposta del sistema immunitario, garantendo effetti nel lungo periodo. I nanocorpi lavorano con tutta un' altra filosofia: occorre saldarci una tossina che elimini subito il bersaglio. «Ma è difficile pensare che la loro tossicità sia pari a zero al di fuori dell' obiettivo - considera Ménard -. Visti i risultati degli anticorpi monoclonali, non credo che i nanocorpi li sostituiranno. L' ideale sarebbe avere lo stesso anticorpo nelle due forme, pesante e "nano", per usarle a seconda dello stato di progressione del tumore». Muyldermans ha dimostrato nei topi che i tumori trattati con nanocorpi regrediscono, ma fa sapere che ne sta studiando contro batteri e parassiti e il primo ad arrivare alla sperimentazione sui pazienti sarà un antitrombotico. Elena Meli Meli Elena _______________________________________________________ Repubblica 6 ott. ’07 VENTER:REALIZZATO CROMOSOMA DI SINTESI L'annuncio-shock di Craig Venter Craig Venter LONDRA - "Un passo filosofico importante nella storia della nostra specie". Craig Venter, il biologo americano fra i pionieri del sequenziamento del genoma umano, così annuncia, al quotidiano britannico The Guardian, la realizzazione in laboratorio di un cromosoma di sintesi, primo passo verso la possibile creazione di una forma di vita artificiale. Venter si appresta a ufficializzare la notizia lunedì, in occasione dell'assemblea annuale del suo istituto scientifico a San Diego, in California. Il cromosoma di sintesi, che Venter e la sua equipe di una ventina di scienziati (fra i quali anche il Nobel per la medicina, Hamilton Smith) sono riusciti a realizzare, copia parti essenziali del dna del batterio Mycoplasma Genitalium (un microbo che vive nel tratto umano riproduttivo), ed è stato battezzato dai suoi creatori Mycoplasma Laboratorium. Nella tappa finale del processo, scrive The Guardian, sarà inserito in una cellula vivente di cui dovrebbe "assumere il controllo", diventando così in sostanza una nuova forma di vita. Una ricerca che non mancherà di animare il dibattito sulle implicazioni etica che attengono alla creazione di nuove specie, ma che potrebbe anche aprire le porte a nuove forme di energia e a nuove tecniche per combattere il riscaldamento globale. "Stiamo passando dalla lettura del codice genetico - spiega Venter - alla capacità di scriverlo. Ciò ci dà la possibilità ipotetica di fare cose che mai avremmo immaginato". Chi è Craig Venter. Venter è il controverso imprenditore delle biotecnologie, celebre per aver decodificato il genoma umano, battendo sul tempo i ricercatori del governo americano. Dopo gli studi in biochimica e farmacologia all'università della California a San Diego, nel 1998 fonda la Celera Genomics. La società ha lo scopo di mappare il genoma umano (la struttura, la posizione e la funzione dei circa 30.000 geni) che caratterizza la specie umana. E ci riesce appena tre anni dopo. Nel febbraio 2001 pubblica sulla prestigiosa rivista Science i risultati del sequenziamento del suo Dna e di altri quattro donatori, battendo sul tempo il consorzio internazionale detto Progetto Genoma Umano. Al momento è presidente del J. Craig Venter Institute, cofondatore della Synthetic Genomics (azienda creata per "inventare" organismi artificiali in grado di produrre biocarburanti e combustibili alternativi a basso impatto ambientale). Ed è proprio in questa direzione che va l'annuncio di aver creato il primo cromosoma sintetico, il Mycoplsma laboratorium. Le reazioni dei genetisti italiani. "Un risultato grandioso, che ci porterà in futuro ad avere farmaci e vaccini "à la carte", cioè su misura per le necessità dell'uomo". Giuseppe Novelli, professore di Genetica all'università Tor Vergata di Roma, è entusiasta del risultato raggiunto dal "collega" statunitense Craig Venter. "L'idea di Venter - spiega - è di studiare il ruolo di ogni singolo gene, per poi piegarlo ai bisogni dell'uomo. Per esempio alla creazione di farmaci e vaccini, o di sostanze come l'insulina". Anche Edoardo Boncinelli, genetista dell'ospedale San Raffaele di Milano, non ha dubbi: "E' una conquista conoscitiva importantissima, potremo ottenere batteri e microrganismi utili. Per esempio capaci di digerire sostanze tossiche e veleni o in grado di pulire il mare dal petrolio. Di questa scoperta - aggiunge - non dobbiamo aver paura. Noi scienziati lavoriamo per capire la natura e i suoi segreti. Sono gli altri che vogliono sempre sapere quali possibili applicazioni scaturiscono dalle nostre scoperte". "Si crea così la vita elementare, cioè organismi di una sola cellula. Ma non nascerà in laboratorio una nuova umanità". Bruno Dallapiccola, professore di Genetica medica all'università di Roma La Sapienza, commenta il risultato ottenuto dal collega d'Oltreoceano sottolineando che "le ricadute per l'uomo ci saranno e non bisognerà aspettare molto tempo. Si potranno creare sostanze come ormoni e proteine da utilizzare a scopo terapeutico". Cauto, infine, il commento della Chiesa cattolica, affidato dalla Radio Vaticana al genetista cattolico Angelo Vescovi, dell'Istituto San Raffaele di Milano. Vescovi minimizza l'esperimento di Venter, affermando che non c'è "nessuna nuova scoperta scientifica e nessun cambio di prospettiva", ma semplicemente "un'evoluzione tecnica in più". "Si può fare un'analogia con la fissione nucleare che - ricorda lo studioso cattolico - è possibile utilizzare per scopi benefici e per produrre energia ma anche per distruggere e uccidere centinaia di migliaia di persone". "Non vedo assolutamente Frankenstein alla porta - concldue Vescovi - ma è importante uno sviluppo, in parallelo a questi grandi progressi della scienza, di una cultura, di una filosofia e di una bioetica che riescano a controbilanciare e controllare queste forze rilasciate e liberate, che sono assolutamente imperscrutabili nelle loro future applicazioni, ma potentissime". _____________________________________________________ L’Unione Sarda 4 ott-07 GESSA: DUBBI SULLA PROPOSTA DI ISTITUIRE LE NARCOSALE Le stanze del buco, un altro paradosso di Gianluigi Gessa * Venti consiglieri del centrosinistra del Comune di Torino hanno proposto la costituzione delle cosiddette narcosale, definite anche "stanze del buco", nelle quali i tossicodipendenti possono consumare l'eroina senza incorrere in sanzioni. Non so se il progetto intenda offrire ai clienti solo un ambiente dove possano consumare la loro eroina o se l'eroina pulita venga loro consegnata da parte di medici. Nel primo caso al cliente è offerto un ambiente più pulito dei gabinetti della stazione, delle siringhe sterili (che potrebbero essere invece erogate da distributori automatici), dove trova uno psicologo che spera di recuperarlo o un medico per le emergenze. In questo caso la proposta risponde più ad una richiesta dell'opinione pubblica di ripulire le strade, soprattutto quelle dei rioni residenziali, che ad una efficiente politica di riduzione del danno. Le shooting rooms mi ricordano le fumerie d'oppio o le case di tolleranza di una volta. Temo inoltre che questi ambienti diventino dei minimarket della droga, dei ritrovi dove incontrare colleghi e spacciatori, dove esporsi a schedature da parte della polizia. Inoltre, la proposta implica una deroga alla legge Fini-Giovanardi che punisce «chiunque importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene sostanze stupefacenti». Infine, poiché i tossicodipendenti sono oggi spesso dipendenti da più droghe sarà lecito nelle shooting rooms iniettarsi cocaina o amfetamina o fumare marijuana o hashish? Se invece la loro proposta include la somministrazione controllata di eroina da parte del medico essa è molto più interessante e meno ipocrita e tuttavia pone grossi problemi da risolvere. Molti di questi dipendono dalle caratteristiche farmacologiche dell'eroina. Somministrata in vena questa sostanza produce un'intensa euforia che dura solo poche ore, cessata la quale solitamente segue la voglia di altra droga. Pertanto, se l'eroina medica venisse somministrata una sola volta al giorno presso la narcosala è probabile che il tossicodipendente con i soldi risparmiati procurerebbe dell'eroina al mercato nero per contrastare il disagio e la sua voglia di droga presenti durante il resto della giornata. Se invece il medico decidesse di accontentare il paziente nelle sue richieste di eroina questi dovrebbe mettere in conto di doversi recare alla narcosala più volte al di' per ricevere le sue dosi. Se infine, il medico consegnasse al paziente tutta l'eroina di cui questi dice di aver bisogno, è probabile che parte di questa droga verrebbe venduta al mercato nero così come succede oggi, in modo limitato, quando le dosi settimanali di metadone sono affidate al paziente. La proposta suscita anche altri interrogativi: l'eroina dovrà essere somministrata solo a quei tossicodipendenti adulti che si impegnano a non fare uso di eroina di strada? Se così fosse come si fa a sapere se il paziente ha rispettato i patti considerando che non è possibile distinguere nelle urine l'eroina "medica" da quella del mercato nero? Infine, poiché il medico non ha la capacità di stabilire quale dose di eroina è necessaria al paziente, dovrà concedergli l'eroina che questi pretende o decidere arbitrariamente? Ma il più importante dei quesiti riguarda la figura del medico. Per chiarire quanto sia irrazionale questa funzione medica farò un esempio paradossale. Se l'alcol e il tabacco, due droghe pesanti, fossero proibiti sarebbe concepibile che il medico somministrasse un cognac o un sigaro a quegli alcolisti o tabagisti che non potessero avere queste cose al bar o al tabacchino? Non è invece più logico che il medico assista quei tossicodipendenti, alcolisti o fumatori, che desiderano uscire dalla loro condizione, cioè che desiderano smettere? Ma questo discorso è più complicato che istituire le narcosale. * Neuropsicofarmacologo, Professore Emerito Università di Cagliari _____________________________________________________ L’Unione Sarda 3 ott-07 PSICHIATRIA: CURE PER I MALATI, MA CHI TULELA I MEDICI? di Antonio Tronci* Enrico Loria, in queste pagine, si astiene con prudenza da "giudizi", ma sente comunque la necessità di rimarcare la mia "abbondante ironia" e il mio tono "volutamente polemico" i quali non gli riescono evidentemente indifferenti; che dire? Come da lui specificato in modo "volutamente pacato", «non possiamo pensare che una persona, ingiustamente privata della sua libertà, possa sempre trattenersi dal "prenderci a cazzotti"», così ci sentiamo noi psichiatri del SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura): privati ingiustamente della libertà, mobbizzati e messi alla gogna da una dirigenza Asl prepotente. Ma partiamo dalla prima considerazione del collega: i pazienti ricoverati in modo volontario, perché non sussistono le tre condizioni necessarie per il Trattamento Sanitario Obbligatorio (Tso), di fatto subiscono lo stesso regime di ospedalizzazione di coloro che purtroppo perdono momentaneamente il diritto di libertà; bene, se con regime di ospedalizzazione si riferisce alla incongruenza delle infrastrutture che non separano i pazienti gravissimi dagli altri, l'osservazione andrebbe fatta ai nostri amministratori, responsabili dell'inadeguatezza dei locali. Se invece con regime di ospedalizzazione si riferisce al grado di libertà dei pazienti, sta affermando, forse inconsapevole, una inesattezza: i pazienti in regime di ricovero ordinario si spostano spesso all'esterno del reparto, per una passeggiata, per ricevere le visite dei propri bambini o per andare a Messa, alla stregua degli altri reparti non psichiatrici. Seconda sua considerazione: molti dei ricoveri in regime di Tso, per non dire quasi tutti, vengono autorizzati da noi psichiatri senza che sussistano realmente le condizioni previste dalla legge. Con tono anche qui "volutamente pacato", il dottor Loria fa una grave affermazione (nella sostanza: tutti gli psichiatri tranne me sono criminali). Il motivo per il quale si decide di effettuare un Tso, al di là dei rischi giuridici personali, che comunque sussistono sia che si scelga o meno di eseguirlo, è il dovere legale ed etico di tutelare l'incolumità fisica, psichica e giuridica del paziente che in quel momento è così gravemente alterato da non poter valutare la gravità dei propri comportamenti e delle loro conseguenze. Come si può sostenere che un paziente, per esempio gravemente delirante e in preda ad allucinazioni, cito le parole del collega, «abbia nel "suo interiore" la sensibilità intuitiva di percepire cosa sia lecito umanamente e cosa non lo sia, al di là di qualsiasi razionalizzazione»? Cosa risponderemmo alla nostra coscienza o ai familiari di un paziente così grave il quale, così "umanamente" e democraticamente "liberato" e rispedito a casa, si uccidesse o uccidesse qualcuno? Inoltre a noi non sorprende affatto la comprensibile rabbia del paziente costretto al ricovero, ci sorprende invece che la dirigenza della Asl non intenda occuparsi dell'incolumità di medici, infermieri e operatori, i quali troppo spesso subiscono violenze nell'atto di compiere il proprio dovere, o di quella dei pazienti vittime delle aggressioni di altri pazienti. Concordo invece sul fatto che molti Tso potrebbero essere evitati: quelli dovuti all'abbandono dei pazienti che trovano chiuse le strutture residenziali riabilitative per decisione della dirigenza Asl 8 e, ancora, quelli causati dall'interruzione delle "disumane" terapie di mantenimento da noi prescritte. La Responsabile Psichiatria Asl 8, dottoressa Giovanna Del Giudice, afferma: «Gli psichiatri da soli fanno solo mostruosità». Il dottor Giuseppe Dell'Acqua afferma: «I medici sono formati dalle case farmaceutiche. Quelli che vogliono sfuggire a questa padella cadono nella brace della miriade di scuole di psicoterapia. In mezzo, non c'è nulla». Allora: niente Medicina (padella), niente Psicologia (brace), evviva la dogmatica ideologia politica multiuso che recita: la cura consiste nel sottrarre il paziente dalle grinfie dello psichiatra aguzzino e disumano. *Psichiatra SPDC - UGL _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 3 ott-07 GESSA: ECCO PERCHÉ LE TOSSICODIPENDENZE HANNO A CHE FARE CON LA SALUTE MENTALE Sbagliate le critiche della Margherita sulla decisione della Regione di creare i dipartimenti della salute mentale e delle dipendenze Apprendo da La Nuova Sardegna del 21.09.07 che i consiglieri regionali della Margherita, primo firmatario Giuseppe Cuccu, hanno contestato la delibera della giunta regionale che istituisce nelle ASL il dipartimento della salute mentale e delle dipendenze. Vorrei offrire alcune motivazioni a sostegno della razionalità della scelta della Giunta. Quale è la disciplina medica più appropriata per curare la tossicodipendenza? Per lungo tempo questo argomento non ha appassionato la medicina. Il problema della droga veniva risolto con riferimento a categorie di altro genere: peccato, depravazione, vizio. E' successo nel campo della tossicodipendenza quello che si è osservato nei secoli passati con la malattia mentale in generale, che fino all'inizio dell'800 veniva considerata uno stato di degrado morale o di peccato. Come nel caso della malattia mentale, per le dipendenze i progressi della medicina hanno enormemente aumentato il livello di conoscenze sulle cause, conseguenze e anche sulle terapie efficaci per affrontare il problema. In tutto il mondo occidentale sono stati attivati servizi per le dipendenze. Tuttavia, in Italia questi servizi sono stati orientati differentemente, a seconda del pensiero prevalente su quale fosse la causa o il "vero" problema da affrontare: i gastroenterologi ritenevano che la tossicodipendenza fosse affare loro, perché all'alcolista viene la cirrosi e l'eroinomane ha l'epatite; gli infettivologi si sentivano forse più adatti, soprattutto dopo la comparsa dell'AIDS; anche i dermatologi ritenevano di poter dire la loro, perché per iniettarsi le droghe ci si buca la pelle. Il risultato di questo approccio disinvolto lo si può ancora vedere nella composizione degli organici dei SerT, dove, fermandomi alle categorie mediche, internisti, infettivologi, farmacologi, igienisti, psichiatri, etc. sono variamente associati secondo logiche organizzative o indirizzi variegati o disordinati e comunque non poggiati su basi scientifiche razionali. Il fatto è che, coerentemente con le evidenze scientifiche, la tossicodipendenza non può essere collocata nel fegato, ma nel cervello. Essa, come gli altri disturbi mentali, si esprime con manifestazioni psichiche e comportamentali. Le cause della tossicodipendenza, che semplicisticamente possono essere attribuite alla sostanza, riconoscono in realtà la partecipazione di fattori genetici e ambientali, proprio come nelle malattie mentali, e anche le terapie si chiamano psicofarmacologiche o psicoterapie, come nella psichiatria, ne è infrequente che le due condizioni, malattia mentale e dipendenza, coesistano nella stessa persona, anzi questo capita nel 60-90% dei casi. La tossicodipendenza è inquadrata oggi nei libri di psichiatria e viene studiata dai medici come una delle patologie di interesse psichiatrico più diffuse e che maggiormente si possono avvantaggiare degli strumenti della psichiatria stessa. Ciononostante, diversi elementi suggeriscono la persistenza di resistenze a prenderne atto: piani sanitari distinti; insufficiente propensione delle Università a motivare i medici, psichiatri in particolare, a lavorare su questa patologia; insufficiente trattazione dell'argomento nelle scuole di specializzazione. Per fortuna molti medici dei SerT hanno provveduto a studiare da soli. I casi di intossicazione da cocaina o psicostimolanti, così indistinguibili da un episodio schizofrenico acuto, i casi di coincidenza di disturbi psichiatrici e tossicodipendenza, la cosiddetta doppia diagnosi, i casi di depressione causata dall'alcolismo o viceversa sono l'evidenza più convincente che psichiatria e dipendenze devono rientrare nell'ambito della salute mentale. Un segno del cambiamento del mondo accademico è il fatto che Pedro Ruiz, attuale presidente della Società Americana di Psichiatria, abbia costruito la sua carriera nel campo specifico della dipendenza. Una prima importante conseguenza dell'interazione e integrazione tra le due discipline potrà essere il miglioramento dell'assistenza per tutti gli sfortunati nei quali la dipendenza si sviluppa all'interno di rilevanti problematiche psichiche e che nel bisticcio di competenze rischiano di non essere trattati né dallo psichiatra, né dal "tossicodipendentologo". La Regione Sardegna con l'istituzione del dipartimento unico (della Salute Mentale e delle Dipendenze), seguendo l'esempio di altre regioni, come l'Emilia-Romagna e di alcuni paesi esteri, ha inteso facilitare la comunicazione e l'integrazione fra due ambiti dell'intervento molto vicini, nell'interesse dei pazienti e della popolazione. Pur tuttavia, i provvedimenti della Regione prevedono che il processo di integrazione fra le due aree sia rispettoso delle competenze e specializzazioni acquisite nei due ambiti, in modo da garantire sia l'integrazione che la diversificazione degli interventi e distinguono pertanto, all'interno del dipartimento, le strutture per la salute mentale e quelle per le dipendenze. Infine, riguardo alle perplessità espresse dai consiglieri della Margherita ricordo che la Commissione Sanità del Consiglio Regionale, della quale faccio parte, ha semplicemente suggerito di modificare la dizione "dipendenze" in "dipendenze patologiche". Per quanto riguarda l'atto d'intesa Stato-Regioni del 1999, che indicava alle regioni la possibilità di istituire i dipartimenti delle dipendenze, mi limito a dire che siamo nel 2007.