IL MINISTRO MUSSI ABOLISCE LO SPEZZATINO UNIVERSITARIO - GAMELLI: L’UNIVERSITÀ SOTTO ESAME - UNIVERSITÀ E GIOVANI, UN FUTURO DELUDENTE - ISTRUZIONE: OCCORRE UN SALTO DI QUALITÀ - DIDATTICA, RICERCA E OSPEDALE - ECOLOGISMO: LE DODICI VERITÀ CHE NESSUNO DICE - UNO STILE DI VITA CHE PORTA AL DISASTRO - IL CLIMA CAMBIA, SERVONO STRATEGIE E BUONI ESEMPI - SARDEGNA TROPPO BELLA: IL SUICIDIO TURISTICO - IMAGE SPAM L'INVASIONE DELLE IMMAGINI SPAZZATURA - ======================================================== SCONTRO SULLE SCUOLE PER I MEDICI - VARATO IL CONTRATTO PER I MEDICI SPECIALIZZANDI - TUTTI I NUMERI DELLO SCONTRO TRA SAN RAFFAELE E ISTITUTO TUMORI - FONDI RICERCA. SCAMBIO DI ACCUSE L’ISTITUTO TUMORI E S.RAFFAELE - SANITÀ PRIVATA SUL PIEDE DI GUERRA - FARMACI URGENTI SENZA RICETTA - IL MAL DI STOMACO COSTA AI SARDI 20 MILIONI - FORMAZIONE FEDERALISTA DEL PERSONALE SANITARIO - COSÌ BUSH CENSURAVA LA MEDICINA - LA COCAINA TIRA, L'ALCOL PURE - SIAMO TROPPO VELOCI BER IL NOSTRO CERVELLO - COME UN COLLO DI BOTTIGLIA ECCO I LIMITI DEI NEURONI - SENO NUOVO IN UN ORA INIETTANDO LE STAMINALI - TUMORE AL SENO - UN FARMACO PER CURARE GLI ANTIBIOTICI - LA POTENZA ETICA DELLE CELLULE CEREBRALI - TUMORE DEL PANCREAS: LA SPERANZA È LA «TRIPLETTA DI VERONA» - PROSTATA: BUONE CURE, RICERCA FRAMMENTATA - PAP-TEST: MEGLIO QUELLO GENETICO? - ======================================================== _________________________________________________________________ Panorama 19 lug. ’07 IL MINISTRO MUSSI ABOLISCE LO SPEZZATINO UNIVERSITARIO RIFORME Negli atenei italiani si può scegliere fra 5.591 corsi diversi. Molti, spesso strani, servono solo a ottenere crediti facili. Ora arriva uno stop. di Giorgio Fabre Qualche titolo è davvero fantasmagorico. All'Università di Firenze si insegna «Operazioni di pace. Gestione e mediazione dei conflitti». A Pavia, «Scienze del fiore e del verde». A Pisa, «Tecniche dell'allevamento del cane di razza ed educazione cinofila». E fin qui, passi. Ma che dire di «Tutela e benessere animale» che si insegna a Teramo, o di «Scienze e tecnologie del fitness e dei prodotti per la salute» a Camerino, o di «Scienze e turismo alpino» a Torino? Un libro documento ha appena fatto un censimento completo dei corsi universitari italiani. Come ti erudisco il pupo (Ediesse) è stato scritto da tre docenti dell'Università di Salerno, capitanati da Salvatore Casillo, ordinario di sociologia industriale. Casillo ha calcolato il numero dei corsi: 3.076. Che poi è anche, più o meno, il numero fornito dal consorzio ALmaLaurea di Bologna, che ha appena terminato il suo Profilo dei laureati 2006. Il direttore, Andrea Cammelli, di corsi ne ha contati 3.082, a cui però andrebbero aggiunti i corsi delle lauree specialistiche introdotti dalla riforma universitaria avviata nel 2001, che durano due anni e che, come la società bolognese ha verificato, vengono seguiti da ben l’80 per cento degli studenti con laurea di primo livello (questa percentuale, tra l'altro, dimostra secondo i critici che la formula 3+2 non è ottimale). Fatti i conti, si arriva a 5.591 corsi: in un confronto omogeneo con la situazione precedente alla riforma dal 1999-2000 sono aumentati del 42 per cento. Perché? I motivi sono ormai chiari. La riforma che prende il nome da Luigi Berlinguer, ma è passata attraverso le mani di altri ministri di centrosinistra e di centrodestra, come Ortensio Zecchino e Letizia Moratti, ha imposto agli studenti di raccogliere solo un numero di crediti limitato dagli esami delle materie fondamentali (e più pesanti) del loro corso di laurea. Per gli altri devono rivolgersi anche a esami leggeri e leggerissimi: in gergo, i «crediti spezzatino». Così il numero di esami si è moltiplicato. DECISIONE CONTRASTATA Fabio Mussi, 59 anni, ministro per l’Università e la ricerca. S'è poi aggiunta l’attribuzione alle singole università della cosiddetta autonomia, intesa soprattutto come autonomia economica. In altre parole, per mantenere gli atenei bisogna attirare studenti (paganti) e a questo scopo molte università hanno pensato di introdurre insegnamenti magari bislacchi ma «di moda», e per lo più tenuti da personale a contratto, poco costoso. Infine, come afferma Roberto Moscati, insegnante di sociologia dell'educazione a Milano Bicocca, grande esperto di sistemi formativi internazionali, «in Italia molti professori hanno voluto il proprio corso di laurea, quasi personalizzato». A tutto questo il ministro Fabio Mussi ha posto rimedio, «anche se solo minimo» (è ancora Moscati a dirlo): un decreto ministeriale sui costi di laurea, in fase di pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. La ricetta? Più professori di ruolo e meno contrattisti; e uno stop ai «crediti spezzatino». Ma probabilmente i problemi non sono finiti. Si parla per esempio dei contrasti fra il ministro e il suo sottosegretario (diessino) con delega all'università, Luciano Modica, professore (un matematico) al quale viene attribuita l'ambizione di ricoprire proprio il posto di Mussi, che è uscito dai Ds. Del resto, i tagli dei corsi potrebbero anche mettere in difficoltà qualche ateneo più lanciato di altri nelle operazioni di marketing. E una resistenza Mussi l'ha già incontrata anche nella Conferenza dei rettori, un organismo forte di cui proprio Modica è stato presidente fino al 2002. _________________________________________________________________ La Repubblica 10 lug. ’07 GAMELLI: L’UNIVERSITÀ SOTTO ESAME ANDREA GAMMELLI CARO direttore, Omnia in mensura, et numero, et pondere, diceva Lavoisier riadattando il pensiero biblico. La mistica del numero non mi appartiene, ma pure dai numeri occorre partire nel giudicare la riforma universitaria. Il problema non è quello di dimostrare che il "3+2" ha fallito o ha avuto successo sulla base di opposte fazioni ideologiche, ma di fornire il quadro concreto dei risultati prodotti per intervenire su ciò che non ha funzionato. Perché di questo si tratta: può piacere o meno, ma indietro non si torna. Siamo inseriti in un contesto di alta formazione a livello europeo. E lì dobbiamo rimanere, nell'interesse dei giovani chiamati a muoversi in un mercato e in un mondo senza confini. Cosa è cambiato, dunque, dal 2001, anno di avvio della riforma, ad oggi rispetto al vecchio ordinamento? Fra i quasi 70mila laureati di primo livello del 2006 che hanno iniziato e terminato gli studi nell'università riformata (la documentazione completa è sul sito www.almalaurea.it). l'età alla laurea non supera i 24,2 anni; siamo ben lontani dai 28 anni dei laureati pre-riforma! Gli studenti in corso sono quasi la metà contro il 10 per cento dei fratelli maggiori che li hanno preceduti. La frequenza alle lezioni si è dilatata consistentemente ovunque. Le esperienze di tirocinio e stage, quasi inesistenti prima, coinvolgono 58 laureati su cento. E chi fa stage ha chance maggiori di trovare lavoro (il tasso di occupazione è superiore di 10 punti). Andiamo, infine, a vedere cosa pensano gli studenti dei corsi riformati. Complessivamente sono più soddisfatti. Tra i laureati pre e post riforma il gradimento sui corsi aumenta in modo particolare nei gruppi chimico farmaceutico, agrario, economico statistico, giuridico e sostanzialmente non cambia nei gruppi ingegneristico, politico -sociale,psicologico; negli stessi gruppi, con l'aggiunta del geo- biologico, cresce la soddisfazione rispetto ai docenti. Il giudizio peggiora invece tra gli umanisti - e non a caso - più severi anche nel giudicare il rapporto con i docenti tranne che a Beni culturali e a Scienze della comunicazione. Si iscriverebbero, infine, allo stesso corso e Ateneo 69 laureati post-riforma contro 66 preriforma su cento. Tra chi confermala scelta degli studi in misura maggiore rispetto ai laureati del vecchio ordinamento troviamo anche i laureati in Lettere, Lingue, Beni culturali e Scienze della comunicazione. Assieme alla contrazione delle esperienze di studio all'estero, il vero punto critico, sul quale riflettere senza pudori e senza tentennamenti, sta nell'ampiezza della domanda di ulteriore formazione che si indirizza alla laurea specialistica e che coinvolge 71 laureati su cento. Qui sono chiamati in causa l'università, il mondo del lavoro pubblico e privato, gli stessi ordini professionali, la politica. Che questa riforma sia partita in fretta e zoppa, perché a costo zero è vero. Ma è anche vero che tanta parte dell'università è migliore di come viene rappresentata ultimamente. Inutile gridare alla Bartali che è "tutto sbagliato, tutto da rifare". Iniziamo piuttosto da un esame di coscienza. Forzati a ridisegnare l'architettura dei corsi abbiamo ceduto: avanti tutti con le triennali, abbassiamo pure la qualità, spezzettando e iper-specializzando il sapere pur di preservare, meglio moltiplicare, corsi e quindi posti. Tanto poi 1a vera formazione ce 1a giochiamo nelle specialistiche, iì imponiamo la vera selezione, tasse più alte, cattedre che contano: l'università d'élite. Non tutti hanno seguito questa strada, tanti bravi colleghi lottano quotidianamente per opporsi ad una riforma applicata male. E sono la maggioranza silente. Quella che oggi nelle commissioni didattiche sta lavorando per correggere il tiro a partire dal "pacchetto serietà" di Mussi. Se restituiamo dignità ai percorsi brevi e diamo pari opportunità per l'accesso alle specialistiche, con una politica di valorizzazione dei cervelli migliori, allora avremo reso il servizio che i giovani meritano. Nel nome di un'università pubblica, democratica, per il merito. Galileo spronava a fare un'operazione semplice: "Io stimo più il trovare un vero, benché di cosa leggiera, ch'i disputar lungamente delle massime questioni senza conseguir verità nessuna». E questa cosa "leggiera" non è. L'autore insegna statistica all'Università di Bologna ed è direttore diAlmalaurea _______________________________________________________________________ L’Unione Sarda 13 lug. ’07 UNIVERSITÀ E GIOVANI, UN FUTURO DELUDENTE Aspettando la riforma di Raimondo Cubeddu Mentre l’Italia si interroga sulle conseguenze della rottura tra governo e sindacati per le pensioni e sul Governo battuto al Senato nel caso - giustizia, ai più è sfuggito qualcosa che è anche forse più importante. In autunno, dopo che il ministero avrà provveduto al riordino dei settori scientifico-disciplinari, del sistema di reclutamento e delle agenzie di valutazione, le università italiane inizieranno a riformulare i propri ordinamenti e la propria offerta didattica (classi, master, dottorati, etc.). Rispetto ai tanti avvenimenti di queste settimane la cosa può apparire di assai scarsa importanza per quanti non siano docenti e studenti universitari. Ma non è assolutamente così. Una buona riforma del sistema universitario è importante per il paese almeno quanto una riforma del sistema pensionistico o del riordino di quello giudiziario, o di una legge elettorale. E questo per una serie di motivi. Il primo è che in un mondo in cui la ricaduta sociale ed economica delle scoperte scientifiche - che sovente hanno origine nei centri di ricerca universitari - sta assumendo un ritmo sempre più incalzante, l’università italiana è paralizzata da deficienze strutturali che producono didattica modesta, poca ricerca, e scarsa informazione occupazionale. Il tutto a costi molto alti rispetto ai risultati e in strutture logistiche sovente squallide. Il secondo è che lo sviluppo delle nanotecnologie sta producendo inedite aggregazioni di saperi e di competenze che richiederanno duttilità: tutti son convinti che saranno il futuro ma nessuno è ovviamente in grado di descriverlo. Chi resterà fuori da tale processo? La conoscenza che si trasforma in beni, avrà non soltanto maggiori problemi per i giovani, ma anche difficoltà a garantire le pensioni ai settantenni. In altre parole il processo di trasformazione della conoscenza in risorse si sta velocizzando a tal punto da travolgere tutto il resto. Conoscenza, quindi, bisogna produrne. Costa farlo e costa non farlo. E chi si illude di poterne restare fuori, o di essere in grado di risolvere la situazione con una logica diversa racconta semplicemente balle. In un mondo in cui formazione e ricerca non hanno più confini, i sistemi peggiori finiscono inevitabilmente in un angolo in cui ogni esercizio di frustrazione o di ribellismo sarà vano. Quella dell’università è dunque una questione grave che riguarda tutto il paese e tutte le fasce d’età. Anzitutto i docenti, che non dovrebbero approfittare della circostanza per fare una riforma gattopardesca (far finta di cambiare tutto affinché tutto resti come prima), e gli studenti, che possono riappropriarsi del proprio futuro soltanto se sapranno guardare con realismo a quel che succede nel resto del mondo. Ma riguarda soprattutto la classe politica, e il ministero, che dovranno finalmente capire che la chiave di svolta è la competitività e non la burocratizzazione dell’università in un complesso di regole e di finte garanzie che non assicurano più nulla. _______________________________________________________________________ L’Unione Sarda 13 lug. ’07 ISTRUZIONE: OCCORRE UN SALTO DI QUALITÀ Scuola e famiglia presenti per studenti più preparati I ragazzi sardi non sono certo meno intelligenti dei loro coetanei che vivono altrove e i loro insegnanti non sono peggiori dei loro colleghi del resto d’Italia. Tuttavia, in base alle graduatorie (che vanno comunque interpretate con intelligenza e buon senso), in Sardegna la scuola appare più scadente che nella penisola. Non ci si deve stupire se la maggior parte dei posti, messi a concorso dalle Facoltà universitarie a numero chiuso più ambite, sono occupati da studenti non sardi e se gli abbandoni al primo anno di università raggiungono quasi il 20 per cento degli iscritti. Tuttavia, anche questa scuola riesce a formare un apprezzabile numero di studenti molto bravi, che hanno successo negli studi universitari e nel mondo lavorativo. Almeno il 15 e forse il 20 per cento degli studenti che si laureano nelle università della Sardegna, fatte salve le gravi carenze di cultura generale, conseguono una preparazione specifica notevolmente più elevata di quella degli studenti bravi di 40 o 50 anni fa. Si tratta in prevalenza di donne, più organizzate, costanti nello studio e più determinate dei colleghi maschi nel perseguire in tempi accettabili risultati di buono od ottimo livello, senza rinunciare alle attività tipiche delle ragazze della loro età. Evidentemente il merito di tanta bravura, a dimostrazione che la serietà esiste anche in Sardegna, è principalmente dei singoli studenti, ma anche delle loro famiglie e degli insegnanti. A questi giovani molto bravi, si contrappone una percentuale altissima e purtroppo crescente di studenti scadenti, non motivati, pigri, alla continua ricerca dei percorsi facili, che tirano a campare ripetendo più volte gli esami e accontentandosi di una promozione purché sia. In molte materie i voti più frequenti sono purtroppo compresi tra 18 e 20 trentesimi e i punteggi di laurea sono molto bassi. Le posizioni intermedie, che in situazioni normali dovrebbero essere le più affollate, sono invece fortemente sotto rappresentate. In Sardegna, occorre prendere coscienza del fatto che finiranno (forse sono già finite) le doppie pensioni (Inps e Inail) e le indennità di accompagnamento, che consentono di mantenere giovani inoperosi, finirà l’assistenzialismo diffuso e ciascuno sarà chiamato a camminare con le proprie gambe. La nostra Regione potrà mantenere livelli di benessere soddisfacenti solo se sapremo aumentare e migliorare i nostri saperi. La situazione della scuola in Sardegna può cambiare in meglio? Certamente. Tuttavia, è necessario un notevole impegno di tutti coloro che sono coinvolti nel processo di apprendimento: famiglie (non per caso collocate al primo posto), studenti, insegnanti, dirigenti scolastici, responsabili politici. Tutti devono sentirsi responsabilizzati e responsabili del buon andamento della scuola, senza il facile, ma infruttuoso, scarica barile. Franco Cabras (Università di Cagliari) _________________________________________________________________ La Repubblica 10 lug. ’07 DIDATTICA, RICERCA E OSPEDALE La biblioteca fornitissima dispone di cento postazioni per lo studio e dieci per lavorare on line. E dalle aule informatizzate si può accedere alla rete intranet universitaria Nella stretta integrazione tra strutture così diverse é la peculiarità dell'ateneo. Che si distingue in campo biomedico ANGELINA DE SALVO La conoscenza dell'uomo nel suo insieme di dinamiche biologiche psicologiche e sociali è l'obiettivo primo dell'ateneo Vita-Salute San Raffaele di Milano. E l'essere nato dall'esperienza dell'Opera San Raffaele, che comprende attività cliniche, di ricerca e didattiche, gli consegna un valore aggiunto in termini di rigore scientifico e rapporti umani. Nasce nel 1996 can la facoltà di Psicologia, cui seguono nel 1998 la facoltà di Medicina e chirurgia e nel 2002 la facoltà di Filosofia. Dal 2005 l'attenzione si rivolge poi ai processi dei mercati e della comunicazione con l'attivazione del corso di laurea in Scienze della comunicazione. «L'ateneo è e deve restare laico e non confessionale. Sorge sulla rivendicazione della indiscutibile centralità dell'uomo e segue la filosofia della nostra Opera: assistenza, ricerca e didattica» queste le parole di Don Luigi Maria Verzè, fondatore e rettore, per ribadire la missione di un ateneo che da sempre cerca di trovare una risposta alla domanda "Cos'è l'uomo?". E per farlo spinge verso una stretta integrazione della didattica con la ricerca, nelle sue diverse espressioni (di base, filosofica, sociale) e con l'attività clinica. I 600 posti disponibili nell'ultimo anno sembrano dare una connotazione selettiva all'ateneo, ma sono funzionali a garantire la qualità della didattica; di rimbalzo le domande di iscrizione sono più che raddoppiate, mentre il tasso di abbandono o dei fuori corso è prossimo allo zero, la percentuale di laureati in corso è quasi del 96 percento. La qualificata formazione post-universitaria comprende, oltre ai dottorati di ricerca e ai master, 27 scuole di specializzazione in ambito medico e psicologico. La biblioteca nata per soddisfare le esigenze dell'area universitaria, di ricerca e clinica dispone di oltre 4.000 e-journals specializzati, 100 postazioni per lo studio, 10 postazioni per le ricerche online. Inoltre dalle aule informatizzate gli studenti hanno anche la possibilità di accedere alla rete intranet dell'ateneo. Ma certamente la peculiarità dell'ateneo San Raffaele è la contiguità tra strutture di ricerca di base, unità di ricerca clinica, reparti ospedalieri e laboratori di ricerca didattici che lo rende singolare nel campa della ricerca biomedica in Italia. Dal punto di vista didattico questa vicinanza tra strutture così diverse facilita l'interazione degli studenti con i docenti, medici e ricercatori che operano all'interno dell'università. Grazie a questa interazione allargata gli studenti sono in contatto fin dai primi anni con le problematiche della ricerca scientifica e nell'ultima classifica del Censis non poco ha contribuito questo elemento distintivo a collocare ai primi posti la facoltà di Medicina e chirurgia e quella di Psicologia. Gemmazioni di un Istituto scientifico, le due facoltà hanno avuto la possibilità di «potenziare l'integrazione tra ricerca, didattica e assistenza sanitaria» come dice il preside di Medicina Antonia Emilio Scala, con un'offerta didattica che permette da subito ai propri studenti la frequentazione delle strutture cliniche e dei laboratori di ricerca. Forniti tutti di attrezzature d'avanguardia, come quello provvisto di 40 postazioni individuali, con microscopi ottici e proiezione su schermo per la visione di preparati istologici o la sala/ esercitazione nell'ambito delle disabilità motorie che arricchisce la dotazione del corso di laurea in Fisioterapia. Un'impostazione didattica basata sulla rigorosa ricerca scientifica attraversa tutte le discipline della facoltà di Psicologia precisa il preside Stefano Cappa e continua «l'efficace servizio di tutorato contribuisce anche a garantire un tasso bassissimo di studenti fuori corso». _________________________________________________________________ Libero 10 lug. ’07 ECOLOGISMO: LE DODICI VERITÀ CHE NESSUNO DICE La marmitta catalitica inquina, i boschi non spariranno e il buco dell'ozono si rimarginerà GIANLUCA GROSSI Quasi ogni giorno ci sono notizie sull'effetto serra e sui problemi ambientali ad esso associati: ghiacci che si sciolgono, boschi che scompaiono, polveri sottili che provocano i tumori. Ma cosa c'è di vero in tutto ciò? Quali affermazioni corrispondono alla realtà e quali, invece, non sono supportate da veri e propri dati scientifici? A molte delle domande più frequenti su questo argomento ha dato una risposta un servizio pubblicato sull'ultimo numero della rivista Airone. Vediamole una per una. L'inquinamento dell'aria è la principale causa di tumori nell'uomo? Falso. La maggior parte dei tumori è provocata dalla cattiva alimentazione, dagli anabolizzanti, dai virus e dai batteri. Solo il 3% delle neoplasie è riconducibile alla cattiva qualità dell'aria. È vero che il buco dell'ozono sta diventando sempre più grande? No. Grazie al divieto di usare cloro-idrofluorocarburi dal 1987, entro una cinquantina d'anni esso sarà completamente rimarginato. Si dice che lo scioglimento dei ghiacci artici provocherà un innalzamento di 56 metri del livello marino nel Mediterraneo, è vero? No, è falso. Al massimo il nostro mare potrebbe crescere di 30-65 centimetri. Parola degli esperti dell'Intergovernmental Panel on Climate Change. I rifiuti degli inceneritori provocano l'inquinamento dell'aria? Vero. Sono in particolare le polveri sottili liberate dal l'incenerimento dei prodotti di scarto umani a diffondersi nell'aria peggiorando drasticamente le sue qualità. I boschi in Italia, a causa degli incendi sempre più frequenti, stanno scomparendo? Falso. Sebbene siano molti i danni causati dalle fiamme, si stima che dal 1985 a oggi ì boschi italiani siano cresciuti dei 17, 2%. L'Italia è in cima alla graduatoria dei Paesi che accumulano annualmente più rifiuti? Falso. Prima di noi ci sono la Germania, la Gran Bretagna e la Francia. Si dice spesso che le marmitte catalitiche non inquinano, è vero? Niente affatto. La tecnologia impiegata dalle marmitte per abbattere i fumi causano, soprattutto nelle metropoli, alte concentrazioni di benzene e vari metalli pesanti come il cadmio. Il peggior inquinante dei combustibili è il carbone? Vero. Quest'ultimo produce direttamente anidride carbonica che viene smaltita con grande difficoltà. Le spiagge italiane stanno sparendo? Vero. Ciò accade per la forte erosione marina e le attività indiscriminate dell'uomo: 2400 i chilometri di spiagge a rischio. Nell'ambito dell'agricoltura biologica l'Italia è molto arretrata rispetto agli altri Paesi? Falso. Con circa 1 milione di ettari il nostro Paese è il primo in Europa caratterizzato da superficie coltivata biologicamente. Infine, è vero che negli ultimi anni le aree protette sono aumentate (dal 1988 si è passati dal 3 al 17%). Ed è vero che quando si spegne la tivù con il telecomando, si continua a consumare energia elettrica. _________________________________________________________________ La Repubblica 13 lug. ’07 UNO STILE DI VITA CHE PORTA AL DISASTRO GUIDO VIALE Siamo in larghissima parte fatti, oltre che di acqua, di carbonio: lo stesso elemento che sta alla base del carbone, del petrolio e del metano, cioè degli idrocarburi che da duecento, cento e cinquant'anni, rispettivamente, forniscono l'energia alle società in cui viviamo. Questo forse dovrebbe farci sentire in sintonia non solo con il mondo dei viventi, fatti anch'essi, come noi, di acqua e carbonio, ma anche con la civiltà industriale, che ha fatto degli idrocarburi il sangue che scorre lungo tutti i circuiti della produzione e del consumo. Ma non è così. I processi di ossidazione del carbonio che mantengono la nostra temperatura corporea e ci forniscono l'energia per muoverci e pensare sono gli stessi che forniscono calore ed energia alla macchina produttiva e alla vita civile del pianeta; ma stanno tra loro come la fiamma di un fornello sta a un' esplosione di tritolo. I primi sono controllati ed efficienti: il nostro corpo non metabolizza più carbonio e non produce più calore ed energia di quanto gliene serve; i secondi sono rapidi, altamente dissipatori e consumano una risorsa che non si rinnova. Entrambi producono – ma i primi in misura infinitamente minore dei secondi - anidride carbonica: un gas che, riassorbito ogni giorno dalla vegetazione, mantiene la temperatura dell'ecosistema Terra in equilibrio; mentre diffuso in quantità eccessive nell'atmosfera, rende progressivamente invivibile il nostro pianeta: prima per gli stili di vita a cui siamo abituati; po'x per la mera sopravvivenza degli organismi complessi. Se la vita, compresa la nostra, si è sviluppata sul nostro pianeta, è perché per alcuni miliardi di anni miriadi di organismi, come tanti spazzini, hanno "ripulito" l'atmosfera dall'anidride carbonica che la soffocava, liberando l'ossigeno dalla stretta del carbonio e poi inabissandosi con questo sotto i sedimenti e le colate di lava che hanno plasmato nel tempo la crosta terrestre. L'ossigeno liberato lo assorbiamo con l'aria che respiriamo e il respiro è vita, psiche, spirito. Ora il sistema produttivo e gli stili di vita che si sono insediati nel mondo a partire dalla rivoluzione industriale sono stati costruiti dissotterrando e restituendo progressivamente all'atmosfera il bottino di quel lavoro di pulizia. E' come se rendessimo la nostra casa inabitabile rovesciando per le stanze il contenuto della pattumiera; o il nostro territorio invivibile, come tante città della Campania, dissotterrando i rifiuti sepolti nelle discariche per spargerli in strada. Con una differenza: mentre gli altri inquinanti emessi dalla combustione sono da tempo fonte di allarme, perché rendono irrespirabile l'aria delle città e delle autostrade - puzzano, annebbiano, sporcano, lasciano l'amaro in bocca e ci rendono bronchitici, asmatici e cardiopatici fin da bambini - l'anidride carbonica è inodore, insapore e incolore; la percezione dei suoi danni può essere solo il risultato di calcoli e ragionamenti astratti. Le vere conseguenze - i ghiacciai che si sciolgono, i fiumi che si prosciugano, i suoli trasformati in croste di fango secco, le spiagge che si inabissano, le stagioni che scompaiono e gli uragani che imperversano - sono legate agli scappamenti delle nostre automobili, alle caldaie dei nostri riscaldamenti, alle spine dei nostri elettrodomestici solo in modo indiretto. Tanto indiretto che si può continuare a fare come se niente fosse. Ora, però, dopo che anche Bush e il prof. Guido Visconti, esperto di meteorologia del Corriere della sera, si sono finalmente convinti che l’effetto serra esiste, sul pianeta Terra sono rimasti solo il romanziere Michael Crichton e il consigliere economico di Berlusconi Renato Brunetta a pensare che sia invece un complotto dell’Internazionale verde, o una favola imposta dalla "dittatura planetaria degli ambientalisti". Tutti gli altri sono d'accordo che bisogna correre ai ripari e mentre in Iraq come in Afghanistan gli eserciti occupanti bruciano tutti i giorni tanto petrolio quanto forse basterebbe risparmiarne per "rientrare" nei pur insufficienti parametri di Kyoto, la gente si chiede "Che fare?". E i politici affamati di comparse in TV invidiano AL Gore, che si è procurato un'audience fantastica (due miliardi di telespettatori) cavalcando il problema; una riproposizione, anche in sedicesimo, del suo successo, piacerebbe a tutti. Ma c'è un ma. Da un lato correre ai ripari vuol dire consumare meno combustibili fossili: meno petrolio, meno metano e soprattutto meno carbone; se se ne consumano meno, tutti dovrebbero essere contenti. Dall'altro, senza petrolio, carbone e metano nessuno ha idea di come far funzionare la macchina economica, cioè la "crescita" e lo "sviluppo": l'aumento del Pil di qualche punto percentuale, o di qualche frazione di punto, che per tutti i governi del mondo è ormai una questione di vita o di morte. Le alternative ai combustibili fossili - l’eolico, il fotovoltaico, i biocarburanti, ecc. - possono essere un business e i gruppi industriali più accorti, con quelli italiani in coda, visi stanno gettando a capofitto. Ma il petrolio continua e continuerà a far gola: tanto all’Eni quanto a Bush, tanto al governo cinese quanto a quello australiano, un cui ministro finalmente non ha avuto remore nel dire quello che tutti sanno; e cioè che in Iraq ci si è andati a fare la guerra e ci si resta per rubare il petrolio. L'Aie - l'Agenzia internazionale dell'energia, lobby dei paesi consumatori nata per contrapporsi all'Opec, cartello dei paesi produttori - fino all'anno scorso prevedeva una crescita del 50 per cento del consumo di petrolio nei prossimi 25 anni, sicura che le riserve del pianeta vi avrebbero fatto fronte. Ma ora è costretta ad ammettere quello che gli esperti indipendenti riuniti nell'Aspo - l'associazione di coloro che sostengono che l'estrazione di petrolio e gas è prossima al suo picco - stanno ripetendo da tempo: cioè che di petrolio da estrarre ce ne sarà sempre meno e che dobbiamo imparare a far senza. Dovrebbe essere una buona notizia, invece è fonte di panico, anche se il petrolio residuo è ancora sufficiente a trasformare il mondo in una fornace. Un conto è infatti spiegare, durante un concerto in mondovisione o con un bel film, che il tempo stringe e si deve cambiare. Un conto è aprire una trattativa con la Confindustria o l'Unione petrolifera per definire un piano e degli impegni precisi - con incentivi e penalità sostanziali – per ridurre in trent'anni le emissioni di gas di serra di un fattore 10: cioè non del 10 per cento, ma di dieci volte. E cominciando subito. Ve lo immaginate un governo italiano - un governo, e non un ministro, perché i nostri ministri sono sempre "in libera uscita" – che apre una trattativa di questo tipo? O il sindaco di una grande città che spiega ai suoi elettori che dovranno staccare il sedere dalle loro automobili e salire su un autobus sgangherato, già oggi affollato come una scatola di sardine, o su un taxi collettivo, che nemmeno sa bene spiegare che cosa sia? _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 4 lug. ’07 IL CLIMA CAMBIA, SERVONO STRATEGIE E BUONI ESEMPI G.Loy Il messaggio è chiaro: i cambiamenti climatici ci sono, adesso ci si deve adattare rapidamente. Le conseguenze dirette, previste dagli esperti riuniti ad Alghero il 21 e 22 giugno, sono pesanti: aumento della temperatura, diminuzione delle risorse idriche e restringimento della superficie coltivabile. «Per un’efficace difesa del suolo, che oggi significa lotta alla desertificazione – spiega il geologo Giosuè Loj, ad Alghero in rappresentanza dell’Osservatorio nazionale del suolo – è necessario puntare sull’informazione e la divulgazione ». Cosa significa? «Portare buoni esempi e regole di buone pratiche per cominciare ad adattarsi: lavare la macchina il meno possibile, irrigare quando è necessario, non innaffiare i giardini sotto il sole. Questi sono solo esempi di azioni dei singoli ». E a livello nazionale? «Cito le 100 iniziative realizzate in tutta Italia durante la giornata mondiale di lotta alla desertificazione, il 17 giugno, ideata dal sottosegretario all’ambiente Bruno Dettori, che ha visto la chiusura per un giorno delle più importanti fontane di Roma e della fonte del Rosello di Sassari ». E azioni internazionali? «Un esempio recente, che vede coinvolta l’Università di Cagliari, è il progetto finanziato dalla Nato che coinvolge la fascia mediterranea del nord Africa per prevenire la desertificazione, recentemente concluso a Toseur in Tunisia. Inoltre, un mese fa a Praga, l’organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) ha dedicato il quindicesimo forum proprio a degrado del suolo e sicurezza dell’ambiente». Le organizzazioni di difesa militare e programmazione economica puntano l’attenzione sul clima? «Da una visione dei danni ambientali conseguenti ai conflitti armati si è passati ad un concetto di sicurezza ambientale legato alla diminuzione delle risorse che non colpisce più solo i paesi in via di sviluppo ma anche quelli più ricchi. Degrado del suolo e diminuzione delle risorse idriche incidono direttamente anche sui rapporti tra paesi confinanti, e nel nostro caso con la sponda sud del Mediterraneo». _______________________________________________________________________ Corriere della Sera 12 lug. ’07 SARDEGNA TROPPO BELLA: IL SUICIDIO TURISTICO ormai è inevitabile A questo punto, potrebbe diventare una rubrica nella rubrica: «Sardinians», ovvero «impressioni e preoccupazioni estive dei molti innamorati di un'isola unica». Ogni anno, infatti, succede la stessa cosa. Arrivo, deciso a non occuparmi dell'argomento. Poi accade qualcosa, e mi ritrovo le mani sulla tastiera. So cosa vi aspettate: un commento sulla compagnia di giro a Porto Cervo, che quest'anno ha aggiunto personaggi e trame. C'è—lo sapete—l'ex-banchiere Giampiero Fiorani, diventato intimo di Lele Mora, che vuole una trasmissione TV per «difendere i consumatori dalle banche». Ottima idea. Poi chiediamo a Costantino Vitagliano di celebrare in diretta la prima messa in latino, affidiamo la Domenica Sportiva a Luciano Moggi e andiamo tutti all'estero. Scherzi a parte: non sono queste, le cose che mettono in ansia i sardi e i sardofili d'Italia. I Costacei che affiorano intorno al Billionaire sono come le meduse: conseguenze inevitabili di un nuovo clima (sociale, morale), ed è sbagliato dargli troppa importanza. Il dramma di quest'isola è un altro: la troppa bellezza della terra e del mare, contro cui non esistono difese. Non è un complimento: è un guaio. Mai vista la Sardegna così affollata, a luglio. Ho trovato la Pelosa di Stintino assediata, Isola Rossa assaltata, Rena Bianca (Santa Teresa) travolta. Cala Battistoni (ora, più banalmente, Baia Sardinia) è u n a l v e a r e . Mi s c r i v e L amb e r t o O l d r i z z i (oldrizzi@interfree.it ): «Sono tornato da una vacanza a Capo Coda Cavallo. Sono rimasto colpito da quello che sembra un progressivo suicidio turistico e ambientale. La famosa Cinta, Cala Brandinchi, Lu Impostu, l'Isuledda: tutte colonizzate da migliaia di turisti». Il lettore ha ragione, ma dimentica una cosa: è un turista anche lui, come lo sono io. La Sardegna sta pagando un amore esagerato,ma spiegabile: non c'è nulla di simile, nel Mediterraneo, e la gente se n'è accorta. Scrivo da Rena Majore, in Gallura: trent’anni fa c'erano duecento case ordinate, oggi ce ne sono duemila, stile volonteroso- approssimativo. È così dovunque, e l'assalto sarebbe già alla battigia, se non fosse per il «decreto salva-coste». «Da Palau a Orosei fin giù a Costa Rei — continua Olbrizzi — distese di villette costruite/ vendute sulle pendici delle colline o nascoste nel verde; gru e cantieri per centinaia di abitazioni; cartelloni che annunciano nuovi villaggi e residenze estive». Un'altra lettrice, Roberta Nanni ( rbnanni@yahoo.com), scrive da Costa Paradiso, su al nord: «Rocce rosse con forme e tonalità stupefacenti, immerse nel verde, affacciate sul mare più azzurro del mondo. Finora s'era costruito con un minimo di criterio; adesso ogni giorno un cantiere fa saltare rocce e vegetazione per creare alveari di cubicoli uno sull'altro. Che faccio, cerco una ruspa davanti alla quale sdraiarmi?». Potrebbe essere un'idea. Già che c'è, Roberta, chieda al ruspista o al geometra: perché—tutti insieme—stiamo distruggendo (anche) la Sardegna? Le diranno: perché è un luogo arioso, profumato e bellissimo. Chi viene, ritorna. Chi non è ancora arrivato, arriverà. Alla domanda, ovviamente, segue l'offerta. Volete voli, navi, pizzerie, supermercati, locali, microappartamenti? Eccoli: basta pagare. È la Legge Naturale del Turismo, quella contro cui il povero Soru sta lottando invano. La LNT prevede infatti che i bei posti vengano scoperti da pochi (1), si sviluppino grazie all'arrivo di alcuni (2), vengano lodati da molti (3) e siano soffocati dalla calata di moltissimi (4). A quel punto i ricchi si barricano, i pochi scappano, e il gioco ricomincia. Il problema è che i bei posti stanno esaurendosi. Un'altra Sardegna, per esempio, non c'è. www.corriere.it/italians www.beppesevergnini.com _________________________________________________________________ Il Sole24Ore 9 lug. ’07 IMAGE SPAM L'INVASIONE DELLE IMMAGINI SPAZZATURA FABIO ROLI DIPARTIMENTO DI INGEGNERIA ELETTRICA ED ELETTRONICA, UNIVERSITA DI CAGLIARI - ROLI@DIEE.UNICA.IT Nel 2004 gli "spammer" tirarono fuori dal cilindro una nuova idea per evadere i filtri utilizzati per bloccare i loro messaggi: incorporare il testo dello spam in una immagine allegata ad un normale messaggio di posta elettronica. L'idea degli spammer era estremamente ingegnosa poiché tutti i filtri anfi-spam dell'epoca si limitavano ad analizzare il testo digitato nella mail, ma non erano in grado di "vedere" ed analizzare il testo contenuto in una immagine allegata. Dal 2004 questo tipo di spam, detto "image spam", è cresciuto in modo enorme, fino a diventare nel 2006 circa il 50% di tutto lo spam, secondo la stima dei MacAfee Avert Labs. Le grosse dimensioni delle immagini di spam possono creare seri problemi ai server di posta. La prima linea di difesa proposta dai ricercatori è stata quella di dotare i filtri anti-spam di un modulo di riconoscimento ottico dei caratteri (modulo OCR, Optical Character Recognition) per la lettura del testo nelle immagini. Tale soluzione è stata rapidamente aggirata dagli spammer con tecniche di oscuramento e camuffamento delle immagini che rendono impossibile la lettura automatica del testo, senza tuttavia compromettere troppo la leggibilità per un essere umano. Gli spammer hanno sfruttato il fatto che l'uomo riesce a leggere testi camuffati che sono oggi ancora impossibili da leggere per un computer. Ricerca accademica e produttori di filtri stanno passando al contrattacco con tecniche che consentono di rilevare i tentativi di camuffamento del testo o di evidenziare particolari caratteristiche delle immagini spazzatura. L'image spam rappresenta oggi la nuova frontiera della guerra alla posta spazzatura. Frontiera dove i contenuti illeciti saranno sempre più veicolati per immagini. L'unico lato positivo dell'image spam è che esso costringerà a forti innovazioni per dare la "vista" a tutti gli strumenti dedicati al controllo delle comunicazioni sulla rete Internet. Forse dalla guerra all'image spam usciranno anche gli strumenti per identificare automaticamente siti e filmati dai contenuti illegittimi o osceni, e la rete Internet avrà finalmente i suoi "occhi" con cui proteggere i suoi utenti più indifesi. • ======================================================== _______________________________________________________________________ L’Unione Sarda 11 lug. ’07 SCONTRO SULLE SCUOLE PER I MEDICI Vargiu: «Molti restano fuori». La Dirindin:«Non è vero» L'assegnazione di 43 contratti di specializzazione ai medici dell'Università di Cagliari ha spinto i consigliere di minoranza della commissione Sanità a presentare un'interrogazione. Nel provvedimento - spiega Pierpaolo Vargiu - si dice «che eventuali contratti non assegnati per mancanza di medici idonei, non potranno essere utilizzati nelle scuole con alto numero di idonei. Resterebbero sette posti vacanti». Immediata la replica della Dirindin e del preside di Medicina Gavino Faa: «La Regione ha garantito a 63 medici 25 mila euro per specializzando, contro gli 11 mila e 500 degli anni scorsi». Sulle borse che potrebbero non essere assegnate, l'assessore s'impegna a verificare eventuali riattribuzioni». Interviene il presidente della commissione Sanità Nazareno Pacifico: «La Giunta recupererà i sette contratti per l'accesso alle scuole di specializzazione». _______________________________________________________________________ Il Sole24Ore 7 lug. ’07 VARATO IL CONTRATTO PER I MEDICI SPECIALIZZANDI Sanità. Firmato il decreto attuativo Manuela Perrone ROMA Borse di studio addio. I 22mila medici specializzandi italiani avranno finalmente un vero contratto, cioé uno stipendio, i contributi, le ferie, la maternità. Dopo sette anni di promesse, scioperi e contenziosi, ieri il presidente del Consiglio, Romano Prodi, ha firmato l'atteso Dpcm contenente lo schema tipo di «contratto di formazione specialistica» che i camici bianchi dovranno stipulare con l'ateneo e con la Regione in cui ha sede la scuola di specializzazione. Il decreto è stato emanato su proposta dei ministri dell'Università (è stato infatti Fabio Mussi ad annunciare il via libera), della Salute, dell'Economia e del Lavoro ed era l'ultimo tassello mancante per attuare il decreto legislativo 368/99, che aveva previsto «contratti di formazione- lavoro» per garantire adeguata remunerazione ai futuri specialisti. Un obiettivo stabilito sin dal 1982 dalle direttive europee ma caduto nel vuoto fino alla Finanziaria 2006, che ha cambiato nome ai contratti e stanziato 300 milioni annui dal 2007. Da lì lo sblocco. A novembre il ministero dell'Università ha comunicato l'applicazione del decreto legislativo 368 dall'anno accademico 2006- 2007. A marzo è stato varato il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri sul trattamento economico, fissato in una parte fissa di 22.700 euro lordi annui (ben diversa dagli 11mila euro della borsa di studio) e una parte variabile non superiore al 15% di quella fissa (2.300 euro annui per i primi due anni di formazione e 3.300 euro per gli altri). L'iter si è fatto più affannoso proprio per il secondo, decisivo Dpcm: lo schema tipo di contratto. Ad aprile la Conferenza Stato-Regioni aveva infatti ritoccato la bozza trasmessa dai ministeri, prevedendo che accordi aziendali potessero ampliare l'orario di lavoro degli specializzandi, pari, secondo il decreto legsilativo 368, a quello dei medici a tempo pieno: 38 ore settimanali. Gli interessati sono insorti e il confronto ha dilatato i tempi. Ieri l'odissea si è conclusa. Lo schema di contratto, in otto articoli, ricalca quasi fedelmente il testo del 1999, orario compreso. Istituisce una gestione separata Inps, obbliga le aziende sanitarie alla copertura assicurativa dei rischi professionali degli specializzandi e disciplina la formazione. «Un riconoscimento giusto e doveroso alla loro preziosa opera», commenta il ministro della Salute, Livia Turco, all'unisono con il sottosegretario Serafino Zucchelli. FederSpecializzandi esulta: «È un momento storico che ci porta finalmente in Europa». Gli importi 22.700 La parte fissa Questo è l'importo annuo lordo, in euro, previsto per la «parte fissa» della retribuzione di un medico specializzando dal Dpcm varato nel marzo scorso. Finora, le borse di studio hanno previsto 11mila euro annui 2.300 La parte variabile La quota variabile della retribuzione per i primi due anni. L'importo potrà salire a 3.330 euro per gli anni successivi. Non potrà superare il 15% dell'importo fissato per la parte fissa ___________________________________________________________ La Repubblica 10 lug. ’07 TUTTI I NUMERI DELLO SCONTRO TRA SAN RAFFAELE E ISTITUTO TUMORI Via Venezian ha criticato le spese perla ricerca A parità di qualità i privati costano il doppio LAURA ASNAGHI La RICERCA scientifica fatta da noi è più che competitiva e priva di sprechi. Il San Raffaele ha comprato due pagine sui più importanti quotidiani italiani, la Repubblica e il Corriere della Sera. L'obiettivo? Smentire, con la massima visibilità e tutto il clamore possibile, un dato diffuso il 12 giugno da Marco Pierotti, direttore scientifico dell'Istituto dei tumori. AL centro del conflitto, il costo di un punto di "impact factor", l'indice che misura la produttività scientifica di un centro. In quella occasione, il direttore scientifico dell'ospedale di via Venezian aveva dichiarato che «al San Raffaele e all'Ieo, l'istituto europeo di oncologia, a parità di qualità, i costi per la ricerca sono il doppio rispetto a quelli nostri». Come dire, sul fronte scientifico il pubblico, spesso accusato di inefficienza, è più competitivo dei privati. E a sostegno di questa tesi aveva offerto anche una serie di dati. Per l'Istituto dei tumori il costo di un punto di "impact factor" era di 167.774 euro mentre quello del San Raffaele balzava a quota 364.605 euro e quello dell'Ieo arrivava a 358.778. Una differenza enorme, roba da maglia nera per i due centri privati. Ma il giorno dopo si è scoperto che i dati erano sbagliati. Pierotti ha ammesso il suo errore ma la rettifica non è stata di grande visibilità e documentata, come invece chiedeva il San Raffaele. Così, a distanza di un mese, la decisione di comprare due pagine sui maggiori quotidiani e fare chiarezza sui conti della ricerca. «I nostri costi reali sono di 12mila euro a punto, una cifra trenta volte inferiore rispetto a quella che ci è stata attribuita» si spiega nella rettifica, a tutta pagina, fatta pubblicare dal San Raffaele «a tutela dell'immagine della nostra istituzione». L'ospedale di don Verzè investe 40 milioni di euro all'anno in ricerca e il 60 per cento dei finanziamenti arriva dai privati. «Per noi questa rettifica è un atto dovuto - spiega il portavoce dell'ospedale - i dati diffusi dall'istituto Tumori rischiavano di danneggiarci pesantemente. Di ogni euro speso noi rendiamo conto ai nostri finanziatori, cercando di amministrare con oculatezza quanto riceviamo». Da parte sua il professor Pierotti ha precisato che l'errore c'è stato «ma non intacca l'essenza della situazione nel campo della ricerca sui tumori». E ha aggiunto: «Tenuto conto dell’impact factor, del numero dei ricercatori e dei finanziamenti, l'Istituto dei tumori rappresenta l'eccellenza sul fronte oncologico». Il match tra i due ospedali sembra destinato ad avere strascichi polemici, anche se dal San Raffaele si fa sapere che «i rapporti di collaborazione scientifica tra i due ospedali proseguiranno come sempre, per noi il caso è chiuso». Nella rettifica di ieri si precisa comunque che «se il nostro ospedale avesse speso 364.605 euro per ogni punto di "impact factor" avremmo speso in ricerca la stratosferica cifra di 1 miliardo 200 milioni di euro. Un vero sproposito se si pensa che l'ammontare complessi vo dei finanziamenti per la ricerca garantito del ministero della Salute per gli istituti di ricerca di tutta Italia, è stato, nel 2006, di 186 milioni di euro». _________________________________________________________________ La Repubblica 10 lug. ’07 FONDI RICERCA. SCAMBIO DI ACCUSE L’ISTITUTO TUMORI E S.RAFFAELE Milano, l'ospedale di don Verzé replica con una pagina pubblicitaria all'attacco sull'efficienza: "Noi abbiamo cura del nostro budget" LAURA ASNAGNI MILANO -È guerra tra il San Raffaele e l'Istituto dei Tumori sul fronte della ricerca. Ieri, il San Raffaele ha acquistato due pagine (nella foto a destra, un particolare), sulle edizioni locali dei maggiori quotidiani italiani (la Repubblica e il Corriere della sera) per smentire un dato, diffuso dall'istituto dei Tumori il12 giugno scorso, "per dimostrare una certa inefficienza da parte dei soggetti privati". In quella occasione si sosteneva che la ricerca fatta al centro Tumori era più concorrenziale rispetto a quella realizzata al San Raffaele e ali'Ieo, l'istituto europeo di oncologia. La querelle si basava sul costo di un punto di "impact factor", vale a dire l'indice internazionale che misurala qualità della produzione scientifica. Come aveva denunciato il direttore scientifico dell'Istituto dei tumori, Marco Alessandro Pierotti, «per la ricerca di alto livello, a parità di qualità, noi spendiamo la metà del U San Raffaele e dell'Ieo». E aveva indicato anche le cifre. Il costo di un punto di "impact factor" è di 167.774 euro per l'Istituto dei Tumori, di 3 G4.605 per il San Raffaele e di 358.778 per Neo. «Questi dati- aveva ricordato Pienotti fanno giustizia sulla cosiddetta inefficienza del pubblico rispetto al privato e sono una garanzia per i malati e i cittadini contribuenti». Peccato che i dati fossero sbagliati. Pierotti ha ammesso l'errore, ma la smentita non è stata altrettanto chiara e documentata. E il San Raffaele, che sollecitava una rettifica in grande stile, ieri, a sorpresa, ha raccontato come stanno davvero le cose comprando due pagine di pubblicità. Titolo: "Sappiamo prenderci cura anche del budget. Noi". E in maniera semplice, il San Raffaele spiega che, da loro, il costo per un punto di "impact factor" sulla ricerca è di 12mila cure, una cifra trenta volte inferiore rispetto a quella indicata dall'Istituto dei Tumori. «Se i costi fossero stati di oltre 3G4mila euro per punto di impact factor - si spiega - nel 2006 avremmo dovuto spendere in ricercala stratosferica cifra di 1 miliardo e 200 milioni. Un vero sproposito, visto che il ministero eroga agli Istituti di ricerca di tutta Italia 186 milioni». Il San Raffaele investe in ricerca 40 milioni e solo il40 per cento deriva da fonte pubblica. «Il 60 per cento dei fondi ci arriva dai privati-spiegano in ospedale ed eravamo moralmente obbligati a fare questa rettifica per spiegare che da noi i soldi sono ben spesi e non ci sono sprechi. Detto ciò, la collaborazione scientifica con l'Istituto dei tumori continuerà, come sempre». Da parte sua, l'Istituto ammette l’errore ma precisa che "l’eccellenza nel campo della ricerca sui tumori resta nostra". _______________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 12 lug. ’07 SANITÀ PRIVATA SUL PIEDE DI GUERRA Stamattina gli operatori delle aziende convenzionate protesteranno in viale Trento Tetti di spesa e tariffe di esami di laboratorio da aggiornare ALESSANDRA SALLEMI CAGLIARI. Stamani gli operatori della sanità privata convenzionata si ritroveranno sotto la Regione per protestare contro i tetti di spesa sulle prestazioni e anche contro l'aggiornamente mancato delle tariffe su esami di laboratorio, visite specialistiche, diagnosi strumentali. Non sono servite le varie dichiarazioni di disponibilità a discutere rilasciate dall'assessore nei mesi scorsi. La categoria sceglie il braccio di ferro, l'assessore ribadisce: sono qui per parlare del riequilibrio delle tariffe. La sanità privata convenzionata dell'isola è stretta fra due problemi, nel resto dell'Italia affrontati già alcuni anni fa e in momenti diversi. Da un lato c'è il tetto delle spese per le prestazioni che le strutture convenzionate possono erogare al paziente il quale paga un ticket esattamente come se si recasse in un ospedale o in un ambulatorio pubblico. La decisione risale al 2006, il massimo degli esborsi possibili la Regione l'ha calcolato sulla spesa complessiva del 2005: dovrebbe essere un dato sincero, ricavato proprio da ciò che le strutture convenzionate hanno materialmente fatto, ma secondo i sindacati degli operatori della categoria i numeri non corrispondono più alle esigenze dei pazienti al punto che a giugno 2007 il tetto da alcuni è già stato raggiunto e quindi dove è ancora possibile i cittadini devono mettersi in lista d'attesa. Oppure, dicono gli operatori privati, pagare per intero e di tasca la prestazione. Possibile? Secondo la Regione qui si entra nel tema delicato e dolente dell'appropriatezza delle prestazioni. Se buona parte degli accertamenti non dà esito positivo (come risulterebbe) è credibile che tali esami fossero tutti assolutamente indispensabili? E a proposito delle liste d'attesa: è verosimile che tutte le prescrizioni di esami, visite ecc, siano non rinviabili di qualche giorno, se non di un paio di settimane? La Sardegna è una delle ultime regioni a mettersi in regola con l'indicazione nazionale di stabilire un tetto sulle spese delle prestazioni in convenzione. Il guaio è che, assieme all'imposizione del tetto, è cominciato il non-dialogo sul problema delle tariffe. I rappresentanti di ambulatori, medici specialisti e diagnostica strumentale chiedono che le cifre siano aggiornate perché sono ferme dal 1998. Il che è vero. Però in assessorato tirano fuori tabelle comparative che dimostrerebbero come nell'isola, per almeno 150 tipi di prestazioni, la Regione finora abbia pagato tariffe super rispetto al resto d'Italia. In 37 casi, invece, le tariffe sarebbero inferiori. La parte del leone ce l'hanno la diagnostica per immagini e le analisi di laboratorio, mentre del tutto sottovalutate sono le visite specialistiche. Il cosiddetto riequilibrio chiesto dall'assessore doveva riguardare proprio questa sproporzione (si ritoccano solo le tariffe per la specialistica più basse rispetto al resto d'Italia): in pratica si è chiesto a certi settori di finanziare il riequilibrio a favore di altri, in nome dei profitti del passato. Un'ecografia in Sardegna costa il 27 per cento in più, la risonanza magnetica il 32 per cento (in più), la radiografia del torace il 25. L'esame del colesterolo ha una tariffa 113 volte più elevata di quella nazionale, il fosforo 147, il virus dell'epatite B 105 (volte in più). E' vero che sono molto basse le tariffe nazionali, ma è vero anche che di questi esami ne escono a migliaia dai laboratori. Sette milioni di euri in più all'anno è la differenza tra prestazioni a tariffa nazionale e a tariffa «sarda». Nel 2005 il governo Berlusconi disse che le tariffe dovevano restare quelle del 1998: la ragione stava nel fatto che molte prestazioni hanno costi decrescenti per via delle tecnologie in cambiamento (invece qui restano costose). Nel 2007 la finanziaria è andata oltre e ha introdotto una richiesta ai privati: questi devono scontare del 2 per cento le tariffe nazionali, per gli esami di laboratorio lo sconto deve arrivare al 20 per cento. Lo scopo dichiarato è quello di favorire gli accorpamenti fra strutture che consentono le economie di scala. Dice l'assessore: «Io sono disponibile a parlarne. Esistono cose che possono essere corrette. Come sui problemi dei costi che ricadranno sul personale: c'è un preaccordo con i sindacati per risolvere il problema attraverso le leggi di settore» _______________________________________________________________________ Il Sole24Ore 13 lug. ’07 FARMACI URGENTI SENZA RICETTA Correzioni per il Codice. Attuazione entro il 31 dicembre Marzio Bartoloni In farmacia anche senza la ricetta e con la certezza di ottenere il medicinale di cui si ha urgentemente bisogno. L'utilissima novità è contenuta in un decreto legislativo firmato dal ministero della Salute, che approda oggi a Palazzo Chigi per il primo varo. In pratica il farmacista potrà «in caso di estrema necessità e urgenza» consegnare i medicinali ai cittadini che ne facciano richiesta anche se sprovvisti della prescrizione. La norma è stata studiata per venire incontro a chi, magari un malato cronico, non riesca a trovare il proprio medico di famiglia - specialmente nei giorni festivi o di notte - per procurarsi la ricetta di cui ha bisogno. In questi casi il farmacista di fiducia non si troverà più le mani legate e potrà consegnarli il medicinale. Questa nuova possibilità non scatterà, però, subito: sarà, infatti, un decreto della Salute (da adottare entro il prossimo 31 dicembre) a stabilire le condizioni che dovrà rispettare il farmacista. Decreto che sarà scritto dopo aver sentito l'Ordine dei medici e quello dei farmacisti. Il decreto legislativo, che dopo il primo sì del Consiglio dei ministri dovrà incassare il parere delle commissioni competenti del Parlamento prima del varo definitivo, contiene inoltre una serie di modifiche per adeguare il «codice dei farmaci» (decreto 219/2006) alle novità introdotte dalla legge Bersani che ha liberalizzato la vendita dei medicinali di automedicazione (quelli senza obbligo di ricetta) fuori dalle farmacie. Piccole limature, queste, che riguardano in particolare distribuzione, pubblicità, farmacovigilanza e sanzioni. Il decreto legislativo introduce, infine, una norma nuova di zecca per consentire ai farmacisti, alle società di farmacisti e alle società che gestiscono farmacie comunali di svolgere attività di distribuzione all'ingrosso dei medicinali. _______________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 11 lug. ’07 IL MAL DI STOMACO COSTA AI SARDI 20 MILIONI Cagliari, intervista a Silvio Garattini, presidente della commissione per il farmaco La spesa per i medicinali non generici incide sul 14% dei bilancio della Sanità - La guerra delle multinazionali arriva al Tar CAGLIARI. Ogni anno venti milioni di euro escono dalle tasche dei sardi solo per i farmaci per terapie gastro intestinali. Un costo che pagano in parte la Regione (per le spese specifiche delle strutture sanitarie pubbliche) e in parte i cittadini (tramite i ticket). Ma se al posto delle medicine sotto brevetto si usassero solo quelle generiche, non più protette, il bilancio familiare e regionale ne guadagnerebbe. Sino al 2005 il costo dei farmaci incideva sulla totalità delle uscite sanitarie per circa il sedici per cento, mentre quella nazionale si aggirava attorno al tredici. Per correre ai ripari la Regione istituì la commissione per l'assistenza farmaceutica e chiamò a presiederla Silvio Garattini, il mitico fondatore e direttore dell'istituto «Mario Negri» di Milano. L'altro ieri in città per una riunione della commissione, il farmacologo ha precisato che l'azione di contenimento dello spreco sulle prescrizioni è iniziata anche se «le case produttrici conducono un'azione di forte ostruzionismo». Nonostante tutto dal sedici per cento «si è passati a poco più del quattordici sul totale della spesa sanitaria sarda - informa Nerina Dirindin, assessore regionale alla Sanità - ma si potrebbe fare molto se le case farmaceutiche non ci facessero la guerra, anche con ricorsi continui al Tar». Il prontuario terapeutico regionale, coordinato da Sergio Del Giacco (direttore del dipartimento internistico 2 dell'università di Cagliari) e supervisionato da Garattini, ha dato indicazioni ai medici di prescrivere, a parità comprovata di risultato, il farmaco generico, ovvero non più sotto brevetto e non quello ancora protetto. E questo ha scatenato l'ira delle multinazionali del settore che con l'appoggio della Farmindustria hanno presentato sei ricorsi al Tribunale amministrativo regionale, di cui quattro sono stati recentemente respinti. Le case farmaceutiche, però, affermano che loro danno un forte impulso alla ricerca finanziando anche gli istituti universitari e che, quindi, devono poi rientrare nelle spese. «Non è vero: sul prezzo del farmaco il costo dei loro studi incide per l'otto per cento, mentre la promozione commerciale per il trenta - spiega Garattini - la sproporzione è evidente. E questo fa sì che su tutto il territorio nazionale vi siano, ad esempio, circa ventisettemila "produttori scientifici" che fanno la propaganda per le singole case». E in Sardegna, aggiunge l'assessore Dirindin, «sono quasi un migliaio». Insomma «la sproporzione è evidente - continua Garattini - anche perchè i rappresentanti delle case farmaceutiche vengono pagati sulla base dei farmaci che vengono venduti nell'area di loro competenza. Di contro l'ente pubblico ha molta difficoltà a fare aggiormamento professionale indipendente». In Sardegna, interviene l'assessore, «abbiamo pronto un progetto di informazione scientifica per novecento medici di base, realizzato con l'Agenzia italiana del farmaco e la Regione Emilia Romagna, con cui abbiamo vinto un bando. Ma non possiamo ancora realizzarlo perchè non siamo riusciti a trovare un accordo col sindacato di categoria». In effetti, spiega il direttore del «Mario Negri», «le case farmaceutiche, da noi in Italia, sono state anche agevolate. In tutto il mondo il brevetto ha una durata di vent'anni, qui nel periodo dello scandalo Poggiolini, alcuni farmaci (un centinaio) hanno avuto un bonus in più di diciotto anni. Così, ad esempio, abbiamo che la classe delle "statine", usate per ridurre il colesterolo, in altri Paesi sono già diventate generiche, ma non da noi. Nonostante questo la voracità di chi produce i principi attivi possibile... «Questo tipo di propaganda, però, è possibile - spiega Garattini - solo per quelli da banco, ma tramite internet si può produrre tutto». Nella guerra, dichiarata dalla case produttrici alla Regione, non mancano le carte bollate... «Sì - continua il responsabile della commissione per l'assistenza farmaceutica - per capire questo atteggiamento va detto che sino agli anni Ottanta del secolo scorso la gestione delle case farmaceutiche era a conduzione medica, con una logica sanitaria. Da quel periodo in poi ha preso sempre più piede il marketing, molte società si sono accorpate e sono state quotate in Borsa, e il mercato ha preso del tutto il sopravvento». L'uso e l'abuso di farmaci ha spesso creato anche delle dipendenze, come per gli ansiolitici e gli antidepressivi: sul Prozac si sono scritti fiumi di inchiostro... «Sì, un tempo era diffusissimo - spiega Garattini - ma oggi se ne sente parlare molto poco perchè è scaduto il brevetto ed è generico: non è più fonte di guadagni. Mentre assistiamo a fenomeni di "produzione" di nuove malattie che, invece, hanno un peso molto minore. Prendiamo i farmaci contro l'osteoporosi: secondo la loro diffusione quasi tutti dovrebbero esserne affetti. Invece non è così». Le statistiche parlano di una donna su quattro e di un uomo su dieci che soffrono d questa malattia... «In verità - spiega il farmacologo - la questione è diversa: si fa passare per osteoporosi una minima diminuzione della densità ossea, mentre questa patologia implica determinati valori. La verità è che le case farmaceutiche premono per abbassare i valori limite. Per il colesterolo, ad esempio, prima la soglia era 240, poi è stata portata a 220 e più in basso. Così facendo aumenta la vendita dei farmaci specifici. Oppure per i gastro protettori, prima c'era la Ranitidina, era considerato il farmaco migliore. Ora è diventato generico e da allora non viene più promosso, ed è come se non valesse più niente. Ed è per l'indicazione a favore dei generici che le case farmaceutiche hanno dichiarato guerra alla Regione sarda e non solo: perchè l'uso di questi farmaci li costringe a diminuire i prezzi. Al posto del dialogo fanno spesso dire ai loro produttori scientifici che i generici non vanno bene. E così creano scetticismo anche nei pazienti. Per questo non bisogna lasciare i medici "preda" solo dell'informazione di parte». Garattini: risparmiamo coi generici I farmaci «firmati» costano ai sardi decine di milioni CAGLIARI. Ogni anno venti milioni di euro escono dalle tasche dei sardi solo per i farmaci per terapie gastro intestinali. Un costo che pagano in parte la Regione (per le spese specifiche delle strutture sanitarie pubbliche) e in parte i cittadini (tramite i ticket). Ma se al posto delle medicine sotto brevetto si usassero solo quelle generiche, non più protette, il bilancio familiare e regionale ne guadagnerebbe. Ma le case farmaceutiche - chiarisce Silvio Garattini, presidente della commissione ragionale per l'assistenza farmaceutica e fondatore dell'istituto Mario Negri di Milano - conducono un forte ostruzionismo. Sino al 2005 il costo dei farmaci incideva sulla totalità delle uscite sanitarie per circa il 16 per cento, mentre quella nazionale si aggirava attorno al 13. _______________________________________________________________________ Il Sole24Ore 12 lug. ’07 FORMAZIONE FEDERALISTA DEL PERSONALE SANITARIO Aggiornamento. Piano alla Conferenza Stato-Regioni LE LINEE-GUIDA Previste 40 ore l'anno per tutti gli operatori L'accreditamento dei provider avverrà a livello nazionale e locale Sara Todaro ROMA Casa comune e tetto regionale; 40 ore d'aggiornamento obbligatorio l'anno per tutti gli operatori sanitari, con agevolazioni e sgravi fiscali per i liberi professionisti; formazione coerente con l'attività realmente svolta, sotto l'occhio vigile di Ordini e Collegi professionali. Dopo le baruffe dei mesi scorsi al tavolo tecnico misto Salute- Regioni (si veda «Il Sole-24 Ore» del 7 aprile) il "pianeta Ecm" si prepara a cambiare pelle, grazie al testo dell'Accordo all'esame della conferenza Stato- Regioni che cambia le regole del gioco e detta la disciplina per un passaggio senza traumi dal vecchio al nuovo sistema. Prima virtù del documento - trasmesso dalla Salute ai governatori il 2 luglio - la "mediazione" sulla governance del sistema: la Commissione nazionale Ecm continuerà a dettare regole valide a livello nazionale ma traslocherà armi e bagagli presso l'Agenzia per i servizi sanitari regionali, come richiesto dai governi locali all'insegna del Titolo V della Costituzione. Parificazione in vista anche per l'accreditamento dei provider: sarà sia nazionale che locale e i crediti saranno parimenti validi in tutta Italia. Idem per le anagrafi formative interconnesse regionali e nazionale. Tra le novità anche l'invito "energico" alla riorganizzazione delle Società scientifiche ("troppe e troppo spesso in concorrenza sulle stesse aree") e l'obiettivo di una nuova disciplina su sponsorizzazioni e conflitto d'interessi, nodo ancora irrisolto nelle norme vigenti. Non a caso il documento ipotizza la creazione di organismi locali che farebbero da collettori unici delle sponsorizzazioni per ridistribuirle poi in modo trasparente nel rispettivo circuito Ecm. Nel frattempo, però, alla voce "finanziamenti" spicca la possibilità di recuperare i circa 85 milioni di euro versati all'Economia dai provider che hanno partecipato al quinquennio di sperimentazione avviato dal 2002 e l'intenzione di assegnare in futuro direttamente alla Commissione Ecm analoghe quote. Nulla, dunque, andrà perso. Il periodo sperimentale sarà formalmente concluso entro e non oltre il 31 dicembre, col riordino degli organi istituzionali del sistema, ma le attuali procedure sopravviveranno fino alla messa a regime dell'accreditamento dei provider: la prima verifica di transizione è fissata al giugno 2008. Passaggio "morbido" che apre le porte anche all'avvio del triennio formativo 2008-2010: 150 crediti che potranno essere integrati fino a un totale di 60 con quelli eventualmente acquisiti in esubero prima del 2006. Ciò detto, c'è da chiedersi: chi convincerà gli operatori ad arrivare a fine percorso? «Incentivi e sanzioni restano ampiamente indefiniti», ammette il documento, che affida la patata bollente ai confronti tra la Commissione Ecm e gli operatori interessati. A lume di contratti nazionali e convenzioni. E sotto il tetto delle Regioni, responsabili ultime della qualità delle prestazioni fornite ai cittadini in casa del Ssn. _________________________________________________________________ La Repubblica 12 lug. ’07 COSÌ BUSH CENSURAVA LA MEDICINA Allo scadere del suo mandato Richard Carmona accusa la Casa Bianca: i miei discorsi controllati e corretti per allinearli alle tesi presidenziali Il capo del servizio sanitario: su staminali, sesso e pillola solo tesi politiche DAL NOSTRO CORRISPONDENTE MARIO CALABRESI NEW YORK -«Ogni rapporto sulla medicina che non rientra nell'agenda ideologica, teologica e politica dell'Amministrazione Bush viene ignorato, marginalizzato 0 semplicemente seppellito». L'accusa, durissima e inaspettata, viene dal «medico della nazione», l’uomo che per quattro anni dal 2002 al 2006 - ha guidato su mandata della Casa Bianca il servizio sanitario americano. Richard Carmona ha fatto la sua denuncia alla Commissione di controllo sulle agenzie governative del Congresso americano, enfatizzando la sensazione che i repubblicani negli ultimi sette anni abbiano politicizzato settori del governo fino ad oggi rigorosamente imparziali ed indipendenti, dalla giustizia alla medicina. Carmona, che occupava il posto di «Surgeon general» dopo essere stato professore di chirurgia all'Università dell'Arizona e un soldato delle forze speciali decorato due volte in Vietnam, ha detto che durante il suo mandato l'Amministrazione Bush gli ha messo «la museruola» e gli ha vietato regolarmente di parlare su temi controversi come la ricerca sulle cellule staminali, la contraccezione, la pillola del giorno dopo e l'astinenza sessuale: «Venivo bloccato ogni volta. Mi dicevano che la decisione era già stata presa e che dovevo lasciar stare». Quando è esploso il dibattito sulle staminali, Carmona offrì di diffondere una serie di studi per mettere gli americani nella condizione di potersi fare un'idea corretta sul problema: «Mi hanno detto di non parlarne e qualunque accenno alle staminali venne regolarmente tolto dai miei discorsi». In un'altra occasione si discusse come affrontare l'educazione sessuale e Carmona spiegò che gli studi scientifici sostengono che il modo più efficace è di parlare anche dei contraccettivi: «Questo ha spiegato – mi venne impedito perché la politica della Casa Bianca prevedeva che si potesse parlare solo di astinenza». I suoi discorsi, ha sottolineato, venivano controllati per assicurarsi che non ci fosse nulla di controverso «e venivano aggiunti riferimenti al presidente Bush, almeno tre per pagina». Carmona però, nonostante l'insistenza dei parla mentari, non ha voluta fare i nomi degli uomini dell'Amministrazione che lo controllavano e che intervenivano per allineare il suo lavoro alle politiche della Casa Bianca. «Il problema di questo approccio – ha detto – è che nella sanità pubblica come in democrazia non c'è niente di peggio che ignorare la scienza o marginalizzare la voce degli scienziati per ragioni politiche». Un'accusa che risuonava già nelle pagine dell'ultimo libro di Al Gore, «Assalto alla Ragione», secondo cui Bush e Cheney sono riusciti a ideologizzare anche i rapporti degli scienziati su temi che vanno dall'ambiente alla medicina. Carmona ha denunciato perfino che gli venne impedito di andare aile Olimpiadi per i disabili che sono organizzate dalla «Eunice Kennedy Shriver», l'associazione fondata dalla sorella di lohn e Boli Kermedy: «Con la tua presenza, mi venne spiegata, aiuteresti una famiglia politica molto importante. Perché lo vuoi fare?». Ad un certo punto aveva pronta una relazione sull'inadeguatezza della sanità all'interno delle prigioni, ma non venne mai approvata perché «avrebbe obbligato il governo ad intervenire per migliorarla e il governo non vuole spendere soldi per la salute dei carcerati». «Il lavoro del "Surgeon general" -ha concluso Carmona - è di essere il dottore della nazione e non il dottore di un partita politico». Una portavoce della Casa Bianca ieri ha replicato alle accuse sostenendo che «il Surgeon general è il difensore della salute di tutti i cittadini e ci dispiace che lui non abbia usato la sua posizione per presentare quelle politiche che considerava nell'interesse del Paese». I suoi predecessori, ascoltati insieme alui dai parlamentari, hanno spiegato che i conflitti con l'Amministrazione ci sono sempre stati ma che mai si erano registrate pressioni politiche di questo tipo e di questa natura. Il posto di Carmona, a cui non è stato rinnovato il mandato, è attualmente vacante e proprio oggi il Senato dovrebbe votare il gradimento al nuovo Surgeon General proposto da Bush, quel James Holsinger noto per aver pubblicato nel 1991 un rapporto in cui sosteneva che «il sesso omosessuale è innaturale e fa male alla salute». Facile prevedere che sarà un'altra giornata di scontro tra i democratici e la Casa Bianca. IL DOTTOR CARMONA _________________________________________________________________ Il Manifesto 12 lug. ’07 LA COCAINA TIRA, L'ALCOL PURE Eleonora Martini. Gli italiani bevono e fumano tabacco meno di prima. Ma sniffano saltuariamente cocaina con una sempre maggiore non chalance soprattutto in discoteca, dove viene più sovente spacciata (il primato è della Lombardia). Mentre uno su tre non disdegna l'hashish o la marijuana (maggiore concentrazione nel Lazio), che si trovano invece più facilmente in strada e sono meno potenti di prima, al contrario di quanto sostenuto da alcuni organi di stampa nei giorni scorsi. In Liguria invece ritorna più che in altre regioni d'Italia l'eroina, soprattutto da sniffare. E questo, a grosse linee, il trend degli italiani nel consumo di sostanze psicoattive legali e illegali che si ricava sfogliando la «Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia 2006» del ministero della Solidarietà sociale, contenente dati del Viminale e indagini Ipsad e elaborata dal Cnr (scaricabile dal sito www.solidarietasociale.gov. it). «Dati che aiutano la società italiana alla consapevolezza di se stessa - ha spiegato ieri il ministro Paolo Ferrero presentandola insieme ai ricercatori del Cnr, Paolo Jarre e Sabrina Molinari - perché quando parliamo di consumo di sostanze oggi non ci riferiamo più solo a sacche di emarginazione ma ad un fenomeno diffuso tanto che se facessimo un referendum in questa stanza scopriremmo una cosa banale, che c'è chi consuma sostanze illecite». Tra il pubblico anche l'ex ministro Carlo Giovanardi, particolarmente interessato a questa edizione della Relazione annuale al Parlamento perché, dopo poco più di un anno, si può trarre un primo bilancio di applicazione della vigente legge sulle sostanze stupefacenti di cui è coautore assieme a Fini. «Non è stato il disastro che tutti annunciavano», ha commentato Giovanardi che non ha apprezzato una relazione che analizza contestualmente il consumo di sostanze legali e illegali. «Ferrero - ha detto - mette sullo stesso piano l'eroina e il barolo». Ma il barolo a dire il vero è un po' in calo nei consumi degli italiani che, abbandonando l'antica tradizione italiana che contemplava l'alcol come alimento, sono passati invece al consumo di superalcolici usati però come sostanza stupefacente. Un mezzo per raggiungere lo «sballo» a basso costo, soprattutto durante i rave e nei luoghi del loisir. In generale anche le sigarette hanno meno appeal, ma non per tutti. Le abitudini si sono modificate ulteriormente negli ultimi due anni, facendo registrare un aumento del fumo (+6,4%) tra le giovani donne (tra i 15 e i 34 anni), mentre i maschi di tutte le età tendono a smettere perché percepiscono sempre più la dannosità del tabacco. Non così per la cannabis il cui uso dal 2001 al2005 è sempre meno socialmente disapprovato. Non a caso, avendola provata almeno una volta nella vita un italiano su tre. Quasi tre milioni in più rispetto a cinque anni fa: dal 22% degli intervistati nel 2001, al 32% nel 2005. Il consumo è più che raddoppiato nelle femmine tra i 25 e 134 anni e nei maschi tra i 35 e i 44 anni. Tra i 2.500.000 studenti di scuola superiore poi, circa il 70% saprebbe dove comprarla. D'aitra parte l'hanno provata almeno una volta nella vita 630 mila studenti (nel 2006) e la usano frequentemente in 25 mila. La maggior parte degli studenti individua il luogo dello spaccio nella strada e sempre meno dentro la scuola. Sono dati che descrivono una società non dissimile dal resto d'Europa. Proprio ieri in prima pagina Le Monde ha annunciato: «1,2 milioni di francesi fumano regolarmente cannabis, 550 mila la usano ogni giorno». In Italia poi l’hashish e la marijuana, al contrario degli allarmismi dei giorni scorsi sulla diffusione di un tipo di cannabis con un tasso di Thc (principio attivo) cresciuto fino a venti volte, «passano dal 10% medio di Thc nel 2005 (valore massimo raggiunto dal 2001) a circa il 7%». «Con un range compreso tra l0 0.01% e un massimo del 20,5%, raggiunto in un unico sequestro», come ha spiegato il ricercatore Paolo Jarre. Il dato sicuramente più preoccupante è però l'incremento del consumo sporadico/ occasionale di eroina (che torna prepotentemente sotto forma di polvere da sniffare) e di cocaina, sostanza per la quale cresce anche il consumo frequente e l'abuso. Sono i maschi ad apprezzarla di più, quelli tra i 35 e i 44 anni, anche se sono in aumento anche tra gli uomini tra i 25 e i 34 anni (+62% in due anni) e le donne tra i 15 e i 24 anni (+50% in due anni). Cresce anche il policonsumo. E il mercato si adegua (o detta le regole del gioco): il prezzo della cocaina scende da circa 68 euro al grammo a 52, e la purezza media diminuisce (dal 65% al55%). Stessa cosa avviene per l'eroina mentre lievita il prezzo di ecstasy e Lsd. Per la prima volta quest'anno la Relazione contiene anche una stima complessiva del costo sociale del problema droghe. Tra conseguenze socio-sanitarie, perdita di produttività, repressione e spesa per l'acquisto delle sostanze, si parla di 10,5 miliardi all'anno. Ma il ministro Ferrero ha fatto anche notare che molte regioni, nella loro autonomia, hanno tagliato i fondi ai servizi col risultato di una minore capacità preventiva e curativa della tossicodipendenza (su questo Giovanardi si è detto d'accordo). In questo panorama il numero di persone segnalate alla prefetture nel 2006 sono sfate 35.645, per violazione del testo unico 309/90. Ma la reintroduzione nella legge Fini-Giovanardi della quantità di principio attivo come discrimine tra consumo e spaccio «ha creato difficoltà» a molte prefetture a causa della carenza di laboratori tossicologici senza i cui risultati è impossibile applicare i procedimenti amministrativi. Eppure «11 numero complessivo dei neo inseriti nel circuito amministrativo nel 2006 ammonta a oltre 27 mila persone, delle quali oltre 20 mila per consumo di cannabinoidi». Un risultato che evidentemente non sembra «disastroso» all'ex ministro Giovanardi. I dati contenuti nella Relazione hanno suscitato molte polemiche, ma anche tanti apprezzamenti, come quello delle comunità della Cnca e del Forum droghe, che ora chiedono al ministro Ferrero, unitamente a parte delle forze politiche di maggioranza, di non attendere oltre. «Ha ragione chi, come hanno fatto oggi i radicali, chiede in tempi brevi una legge che riformi le politiche sulle tossicodipendenze nel nostro paese e abolisca l'assurda Fini-Giovanardi - risponde Ferrero - Personalmente ho pazientato per un anno, visto che mi rendo conto delle difficoltà che su questo tema continuano a attraversare la maggioranza, ma credo che il tempo della pazienza sia finito e che sia necessario arrivare rapidamente alla legge. Per questo auspico che il Ddl presentato abbia rapidamente il via libera dai colleghi ministri». Relazione annuale al Parlamento. Ferrero: «La pazienza è finita, al via subito la nuova legge» Sniffano il 62% in più di giovani. Saltuariamente, in discoteca e in Lombardia. Si beve di meno ma più superalcolici per «sballare». Una persona su tre ha fumato una canna almeno una volta _________________________________________________________________ La Stampa 12 lug. ’07 SIAMO TROPPO VELOCI BER IL NOSTRO CERVELLO Fate tre-quattro cose simultaneamente? Del tipo: guidate l'auto, avete sott'occhio il navigatore, telefonate e mangiate un panino? Siete, insomma, i nipotini di Napoleone Bonaparte, il piccoletto dalle mille capacità, che notoriamente sapeva fare molte cose simultaneamente? Bene, appartenete alla «generazione multitasking», quella delle «attività multiple», costretta a fare tutto nello stesso momento e condannata a uno stile di vita compulsivo (e quasi carcerario). Le più portate al «multitasking» sono le donne di oggi, notano gli esperti della rivista scientifica «Newton». Forse, anzi di certo, lo erano anche le nostre nonne-mamme, abituate a tenere in braccio un pargolo, girare con il mestolo la minestra e seguire con un occhio il cielo della lavatrice. Da allora, però, qualcosa è cambiato, perché la tecnologia vola. Oggi «multitasking» significa inviare e-mail, parlare al telefono, sentire musica, guardare la tv.. Sempre simultaneamente. A casa, in macchina, in ufficio. ASSEDIATI Un impiegato americano medio cambia compito ogni tre minuti, è interrotta ogni due minuti e ha un massimo di concentrazione di 12 minuti. Secondo la Human factors and ergonomics society, nel 2005 in Usa gli incidenti dovuti all'uso del telefonino in auto hanno causato 26 mila morti e 330 mila feriti. E' una prova che chi tenta la multiattività, in genere, fa male quasi tutto. «Quindi - spiega l’inchiesta - il tentativo di guadagnare tempo con il multitasking sembrerebbe destinato al fallimento». II problema è che molti test dimostrano che la strategia che usiamo per affrontare i problemi è di tipo seriale: siamo programmati per fa re una sala cosa alla volta. Nel senso che, per sopravvivere, non abbiamo avuto mai bisogno di poter saper far più di una cosa alla volta. Oggi, invece, viviamo in una realtà artificiale sostengono molti sociologi - e stiamo cambiando. Ergo, la nostra organizzazione cerebrale si sta riaggiornando, auto-eseguendo una sorta di «upgrade». ANCHE I BAMBINI Non è un caso che i bambini di oggi appartengono già alla «Generazione M»: hanno connessioni neuronali molto più complesse di chi da piccolo giocava con le bambole o le automobiline. E se cambiano i neuroni, prima o poi cambieranno anche i geni. AL momento, però, il «multitasking» è pericoloso. Quasi tutti gli studiosi sono d'accordo che, per esempio, chi usa il cellulare mentre sta al volante guida più o meno come un ubriaco. In particolare, secondo lo psicologo René Marois, nei confronti del «multitasking» le nostre carenze cerebrali sono tre: non siamo istantaneamente in grado di identificare ciò che è importante, la nostra memoria visiva a breve termine è piuttosto debole e per di più, quando decidiamo, decidiamo una sola cosa e non più d'una. Così la pensano alcuni, ma non tutti. Altri ricercatori, come lo psicologo David Meyer, credono che basti l'esercizio per compiere almeno due azioni nello stesso tempo. Chi abbia ragione non si sa ancora, certo è che vivere in questo modo stanca e a volte stronca COME UN COLLO DI BOTTIGLIA ECCO I LIMITI DEI NEURONI Marco Tamietto neuropicoiogo Multitasking? «Si, finché i diversi compiti non entrano in conflitto per usare contemporaneamente le stesse risorse cerebrali». Marco Tamietto, ricercatore al dipartimento dì Psicologia dell'Università di Torino, spiega i limiti della Generazione M. Quante «cose» può fare in contemporanea la mente? «II cervello funziona a collo di bottiglia: significa che le sue capacità dì elaborare più informazioni e svolgere diversi compiti è limitata. A fare da filtro è l'attenzione». COME FUNZIONA? «E'un sistema che "galleggia" sopra il livello sensoriale di base, quello che dà la percezione complessiva dell'ambiente e degli stimoli che ci circondano. E' fondamentale perché media tra due esigenze opposte: mantiene la rotta, dando continuità alle nostre intenzioni filtrando gli stimoli non rilevanti, e allo stesso tempo può interrompere ciò che è preordinato, permettendoci di spostarci rapidamente da un compito all'altro». Quanto siamo efficienti se ci dedichiamo a più compiti in contemporanea? «Dipende da tre fattori: quanto sono simili tra loro i compiti, la pratica e l'esperienza che abbiamo accumulato, e il loro grado di difficoltà». (G. BEC.) _________________________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 9 lug. ’07 SENO NUOVO IN UN ORA INIETTANDO LE STAMINALI In Germania e Giappone interventi su donne operate di tumore «Due taglie in più in 6 mesi». Possibile il via libera nel 2008 MILANO - Un seno «ricostruito» o più grande di due taglie in poco più di un'ora e con una semplice iniezione di cellule dello stesso paziente. Niente bisturi. Nessun rigetto e nessun «corpo estraneo», più o meno biocompatibile. La tecnica, messa a punto dalla compagnia biotech di San Diego (California) Cytori Therapeutics, è basata sulle cellule staminali adulte del tessuto adiposo e su un metodo (questa è la novità brevettata) in grado di selezionarle e «attivarle» in meno di un'ora. L'iniezione del mix cellulare e di fattori di crescita nel seno da ricostruire agisce nel giro di sei mesi: un seno nuovo in chi l'ha perso dopo un tumore, due taglie in più in chi lo vuole più grande per motivi estetici o psicologici. La sperimentazione è stata avviata nel 2006: ha coinvolto 19 donne mastectomizzate giapponesi e alcune tedesche (asportazione totale del seno per un tumore) e sottoposte a radioterapia. I risultati raggiunti sarebbero tali da indurre la compagnia (quotata in borsa) a dare l'annuncio che a partire dal 20081a procedura, chiamata Celution, sarà a disposizione in Europa perché la Germania l'ha approvata: E a costi competitivi. I dati positivi dei test clinici sono stati riportati dalla ricercatrice Lisa Melton sulla rivista americana Chemistry & Industry. L'idea di base, in realtà, è nota da tempo. Ed è quella di usare il tessuto adiposo (il grasso) per ingrandire il seno, idea che però finora non si era rivelata utile perché le cellule del tessuto adiposo vengono riassorbite nel giro di pochi mesi. Non solo il seno ma anche i segni del tempo sulla pelle: grasso al posto dei filler per ripianare rughe o per un vero biolifting. O addirittura per ricostruire dopo ustioni o ferite. Il segreto è nelle staminali, di cui il grasso sarebbe molto più ricco di altre fonti come per esempio il midollo osseo. Ma nessuno finora aveva pensato a come isolare queste staminali, e soprattutto farle agire finché basta. Altrimenti di taglie per il seno se ne prendono più di due. Cytori ha trovato il modo di usare il tessuto adiposo del bacino o della pancia (prelevato in anestesia locale con una liposuzione), isolare da esso le staminali e usarle per fare un mix con tessuto cartilagineo (il futuro «scheletro») e fattori rigenerativi; da iniettare subito nel seno. Nel giro di un'ora. Sei mesi dopo niente riassorbimenti ma un seno nuovo. Il sistema Celution è stato proprio studiato e sviluppato per commercializzare le terapie basate sulle cellule staminali adulte per le patologie cardiovascolari, la chirurgia ricostruttiva e molte altre condizioni croniche. Come prima indicazione per Celution c'è la chirurgia ricostruttiva nelle pazienti che hanno subito una parziale asportazione del seno (quadrantectomia) per un cancro. La distribuzione anticipata del prodotto (un anno prima) si deve al «via libera» rilasciato dalle autorità competenti. Via libera che consente ora l'uso del sistema anche per la chirurgia plastica e rigenerativa. _________________________________________________________________ Panorama 19 lug. ’07 TUMORE AL SENO PASSI AVANTI Aumentano i casi, anche perché sono possibili diagnosi più precoci. Ma si muore sempre meno. Grazie all'evoluzione delle terapie, sia farmacologiche sia chirurgiche. Nuove speranze ora dalla genetica. un'epidemia. Non faccio « ]C un'epidemia. incontrare persone che mi raccontano di amiche cui hanno scoperto un cancro al seno. Mi devo preoccupare? Ho sempre pensato che a 42 anni è presto, ma ora mi chiedo se non devo fare anch'io una mammografia o un'ecografia. Che cosa mi consigli tu che di questi argomenti scrivi sui giornali? E se poi mi trovassero qualcosa?». Anna B. parla con un'amica al telefono in tono salottiero. La voce tradisce però il timore che anche lei possa entrare a far parte della schiera di conoscenze colpite dalla malattia. In base alle cifre, la sua paura potrebbe non essere priva di fondamento. Di cancro al seno infatti ci si ammala di più. Ma per fortuna si muore sempre meno. Lo dicono gli ultimi dati dell'Associazione italiana registri tumori. Dal 19$8 al 2002 i casi sono cresciuti del 27 per cento e sono oltre 35 mila l'anno quelli nuovi, più al Nord e nelle aree urbane che al Sud. Perché tanti in più? Le ragioni sembrano due: si fanno più diagnosi, grazie ai programmi di screening con mammografie; lo sviluppo dei tumori è legato all'età e secondo lo Iarc (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) di Lione l'80 per cento dei tumori al seno si manifesta dopo i 50 anni e l'aspettativa di vita della donna ha raggiunto l'apprezzabile media di 83. Se però negli anni Ottanta 7 donne su 10 erano vive a cinque anni dalla diagnosi, oggi sono da 8 a 9, con differenze ancora evidenti tra Meridione e resto d'Italia. AL Sud si muore di più, perché si fanno meno screening e la diagnosi è in media più tardiva; ma forse anche per la qualità delle terapie, talvolta non comparabile con quella dei grandi centri specializzati. «L'arma vincente è la diagnosi precoce: consente di intervenire in modo meno aggressivo e prima che la malattia abbia potuto fare danni irreparabili» avverte Marco Roselli ddel Turco direttore dell'Istituto di prevenzione oncologica di Firenze. Se nessuno nega l'efficacia dello screening, non tutti sono concordi sui dettagli. Uno studio sul New England Journal of medicine ha riacceso di recente il dibattito sull'età più opportuna per la mammografia. In effetti, i ricercatori hanno visto che sottoponendosi all'esame dai 40 anni in poi cresceva il rischio di carcinomi al seno indotti dai raggi X: perciò anche negli Usa, dove la tendenza era di partire a quell'età, oggi si consiglia di iniziare a 50. «A 40 anni, oltretutto, il seno è più denso e la mammografia meno efficace. Funziona meglio quando è ricco di tessuto adiposo: allora lì, se c'è il tumore, si vede» dice Silvia Franceschi dello Iarc di Lione. Nella donna più giovane, come nel caso di Anna, oltre all'esame radiografico o ecografico conta la capacità del medico di capire, con una semplice palpazione, se qualcosa non va. Esistono poi tecniche più avanzate. Al meeting dell'American society of clinical oncology (Asco) ricercatori dell'Università di Washington hanno dimostrato che la risonanza magnetica (Mri) individua con più frequenza i carcinomi durrali in situ, la fase iniziale della forma più aggressiva di tumore. Su 167 donne con questa diagnosi, la mammografia ne vedeva 93 e la risonanza 153. La tecnica è sperimentata anche in Italia ma, considerati i costi, la si limita alle donne ad alto rischio, positive al test per mutazioni dei geni BrcA-1 e BrcA-2 che predispongono alla malattia. «Aggiungere la risonanza al normale screening in queste pazienti consente di scovare tumori altrimenti insospettabili » ritiene Francesco Sardanelli dell'Università di Milano: da poco sono usciti su Radiology ì dati di un suo studio. Più una diagnosi è precoce, meno distruttivo è l'intervento. Le tecniche conservative, come la quadrantectomia, sono ormai lo standard per lesioni di diametro inferiore ai 2 centimetri. «Unendo l'asportazione dì una porzione del seno, un quadrante, con l'analisi del linfonodo sentinella, il primo linfonodo ascellare che drena la linfa dal tumore, si può scoprire subito se la malattia è circoscritta o diffusa» spiega Umberto Veronesi, direttore scientifico dell'Istituto europeo di oncologia (Ieo) di Milano. «Nei centri d'avanguardia si ricorre inoltre alla radioterapia intraoperatoria (Iorc): si irradia la zona operata prima di richiudere. In tal modo non occorre la radioterapia esterna dopo la dimissione». Una ricerca, presentata sempre all'Asco, dimostra che radioterapie a basso dosaggio e di breve durata possono essere efficaci quanto quelle più intense, evitando così gli effetti collaterali come gonfiore e ritardi di cicatrizzazione. «Oltre che dì breve durata, la radioterapia per essere efficace deve essere fatta subito, non dopo sei mesi» aggiunge Veronesi. Nei casi in cui la diagnosi è tardiva e l'intervento più esteso, la chirurgia ricostruttiva ha fatto grandi progressi. «Se con la quadrantectomia il chirurgo si limita a rimodellare il seno senza inserire una protesi, e magari a ridurre quello contro laterale per bilanciarne la dimensione, negli altri casi si ricorre alle protesi al silicone: vanno sorvegliate nel tempo e talora sostituite dopo 10-15 anni» precisa Mario Rietjens dell'unità di chirurgia ricostruttiva all’Ieo. Nella mastectomia radicale, che porta via i muscoli pettorali, bisogna ricostruire con fasci muscolari prelevati da addome o dorso e posizionare una protesi per dare forma al seno. Casi sempre più rari perché la malattia è diagnosticata prima». Anche l'evoluzione delle terapie farmacologiche ha contribuito a ridurre la mortalità. Le grandi speranze legate alla comparsa dei farmaci «intelligenti» sono state in parte disattese nel caso del cancro al seno. «L'herceptin, farmaco biologico per la cura dei tumori positivi per il gene Her-2, non ha cambiato drasticamente le cose. È costoso, purtroppo cardiotossico e funziona solo se unito a chemioterapia. Il Servizio sanitario nazionale lo rimborsa solo in questo caso, altrimenti lo ritiene inefficace» ricorda Veronesi. I maggiori benefici si sono ottenuti finora coni farmaci tradizionali, antiestrogeni e chemio. Le tecnologie che permettono l'analisi genetica dei campioni di tessuto tumorale consentono oggi di conoscere il profilo molecolare del cancro. «È la vera personalizzazione della cura. Studiando i geni del tumore si può capire chi può ricavare benefici dalla terapia farmacologica, evitando di somministrare alla cieca cure inefficaci o inutili» puntualizza Luca Gianni, direttore del dipartimento di oncologia medica dell'Istituto dei tumori di Milano. «Si cerca ora di mettere a punto il metodo più semplice per intraprendere questo nuovo percorso di cura che, forse, potrà essere disponibile in Italia in tre o quattro strutture». La ricerca punta a integrare la classificazione basata sull'analisi al microscopio delle cellule con quella dei geni la cui espressione influisce in mo do significativo sulla prognosi: una «carta di identità» molecolare del singolo tumore. «Gli studi di genetica consentiranno, prima o poi, di determinare quali geni, avendo subito mutazioni, sono implicati nello sviluppo del cancro. E anche quanto varia da una persona all'altra il tasso di mutazione e quindi il rischio che esso si sviluppi» dice Lucio Luzzatto, direttore scientifico all'Istituto toscano dei tumori. Altro ambito di intensa ricerca è la farmaco prevenzione. Già oggi, per ridurre il rischio di ricaduta, le donne operate per un cancro sensibile agli ormoni possono ricorrere al tamoxifene o ad altri farmaci con funzioni analoghe, come gli inibitori delle aromatasi. Un'altra possibilità è la fenretinide, derivato della vitamina A che ha mostrato capacità simili in tutti ì tumori mammari. «Un obiettivo è usare queste sostanze su donne sane per evitare che il male si presenti del tutto» anticipa Veronesi. Nel caso della fenretinide, lo studio Tevere che sta per partire prevede di testarla per 5 anni in giovani ventenni ad alto rischio, perché portatrici dei geni BrcA-1 o BrcA-2. Li si individuò nel 1995, non fanno parte della carta d'identità molecolare della malattia dopo che si è sviluppata, piuttosto alcune loro mutazioni, ereditate da uno dei genitori, predispongono al cancro al seno e all'ovaio. Ma non in tutte le famiglie in cui il tumore si manifesta con frequenza i due geni sono presenti. Da anni si cerca di capire come mai. «Già nel 1999 degli studi sull'ereditarietà del cancro del seno, diceva che stava cercando un ipotetico BrcA-3, il terzo gene» racconta Luzzatto. Un progresso in tal senso è stato compiuto a maggio. Grazie a una nuova tecnica di esplorazione della struttura del genoma, due diversi gruppi di ricercatori hanno annunciato, su Nature e Nature Genetics, di aver individuato quattro geni «le cui mutazioni sarebbero coinvolte nello sviluppo di un 4 per cento dei tumori al seno diagnosticati». Un quinto gene sarebbe in procinto di essere messo nel carniere. La tecnica usata consiste nella scansione a tappeto di intere regioni del genoma, alla ricerca dei polimorfismi di un singolo nucleotide del dna (i cosiddetti Snps: si pronuncia «snips»). Con le tecnologie moderne è possibile esaminarne 200 mila alla volta. Due dei quattro geni scoperti, Fgfr2 e Tnrc9, aumenterebbero del 20 per cento il rischio di cancro al seno, e del 40 per cento se !a mutazione dei due geni è in ogni cellula. Gli altri due geni, Map3k1 e Lspl, se c'è una sola mutazione fanno crescere il rischio del 10 per cento. «IL rischio è statisticamente significativo ma con un effetto piccolo rispetto a quello cui espongono le mutazioni del Brct1-1 e 2 che possono farlo salire fino al90 per cento» puntualizza Luzzatto. «L’interesse per i nuovi geni potrebbe essere non tanto nel loro valore predittivo, quanto perché possono aiutarci a capire il meccanismo che porta allo sviluppo del cancro al seno in generale». Può questa scoperta condurre alla messa a punto di test per lo screening di tutte le donne? «Farlo indiscriminatamente, anche a chi non > > è a rischio in base alla propria storia familiare, non è pensabile e richiederebbe uno sforzo enorme, anche in termini economici, per un risultato minimo: nel caso dei geni BrcA-1 e BrcA-2 bisognerebbe testare 2 mila donne per trovarne una positiva e l'esame, seppure a basso costo, può arrivare a 500-1.000 euro» spiega Veronesi. Se la parola d'ordine per il futuro è prevenire, oggi dì cancro si continua a morire, soprattutto a causa delle metastasi: aggredire il tumore primario è relativamente semplice, meno fermare le cellule maligne che vanno in giro per l'organismo. «Solo una piccola percentuale di cellule tumorali è in grado di fare metastasi. Oggi queste cellule sono state chiamate staminali tumorali, da non confondere con le staminali vere e proprie, presentì in ogni tessuto» spiega Luzzatto. «È possibile che anche una cellula qualsiasi, non staminale, subisca mutazioni che la rendono tumorale, con proprietà simili a quelle delle staminali: capacità di moltiplicarsi, maggiore resistenza ai farmaci, possibilità dì rimanere latenti e di colpo risvegliarsi». Joàn Massagué, dello Sloan Kettering di New York, sta ora cercando quei geni che, mutati, rendono le cellule tumorali capaci di dare metastasi e, per di più, di indirizzarle verso un organo o un altro. «Sembra che le cellule assumano caratteristiche che le fanno trovare a loro agio in un particolare organo, dove avrebbero un vantaggio selettivo, come prevede il concetto darwiniano di selezione. Si può ipotizzare che una cellula che per crescere ha bisogno più delle altre di ossigeno darà metastasi ai polmoni e non al fegato» dice Luzzatto. Resta aperto il dibattito su quanto lo stile di vita influisca sulla genesi del cancro al seno: fumo, alcol, obesità, dieta, esercizio fisico, gravidanze e allattamento hanno effetti importanti in positivo o in negativo. E possibile trarre vantaggio dalle conclusioni cui sono giunti gli epidemiologi osservando le abitudini di donne che si sono ammalate. «La dieta può addirittura prevenire la formazione di un cancro del seno» valuta Patrizia Pasanisì dell'unità di epidemiologia dell'Istituto tumori di Milano. «Lo si è visto con lo studio Cos su oltre 3 mila donne europee con cancro al seno: grazie a un'alimentazione speciale hanno evitato 1e ricadute. Ora, con lo studio Cos2, vogliamo vedere se il cibo può bloccare la comparsa del cancro in donne sane ma ad alto rischio, perché positive per i geni BrcA-1 e 2». Alla base della dieta ci sono vegetali della famiglia delle crucifere (cavoli, verze, broccoli), ricche di glucosinolati, con un ruolo nella riparazione del dna: una porzione a settimana dimezza il rischio. Da limitare il latte perché contiene le latto albumine, proteine che aumentano la produzione di insulina e di Igfl, fattore di crescita i cui livelli alti nel sangue favoriscono lo sviluppo del cancro. Sconsigliati troppi zuccheri, farine raffinate e proteine animali: fanno salire la glicemia e il rilascio di insulina. _________________________________________________________________ Libero 10 lug. ’07 UN FARMACO PER CURARE GLI ANTIBIOTICI Grazie ai bifosfonati i medicinali a cui il nostro corpo è assuefatto ritrovano efficacia ROBERTO MANZOCCO Ricercatori americani ritengono di aver individuato finalmente un sistema per aggirare là crescente resistenza dei batteri agli antibiotici, cioè un fenomeno - manifestatosi negli ultimi dieci anni in quasi tutte le specie di questi microrganismi - che rischia di rendere questi farmaci praticamente inutilizzabili. Più in particolare, Matt Redinho e il suo team dell'Università del North Carolina (a Chapel Hill), hanno scoperto che una classe di farmaci già usati da anni per altri scopi, i bifosfonati, sarebbero in grado di impedire ai batteri di scambiarsi reciprocamente i geni che permettono loro di vanificare l'effetto degli antibiotici; grazie a tali sostanze si potrebbe in pratica restituire a queste medicine l'efficacia perduta. Quella della crescente resistenza dei batteri agli antibiotici è un fenomeno che di pende dalle leggi dell'evoluzione; in pratica la mutazione casuale del Dna batterico e la successiva selezione naturale fanno sì che alcune di queste creature riescano a contrastare l'azione degli antibiotici. Successivamente, a causa del cosiddetto "trasferimento orizzontale" - un processo per cui i batteri possono venire in contatto e scambiarsi parte del proprio corredo genetico - i nuovi geni possono diffondersi all'interno di un numero sempre più grande di esemplari. L'inefficacia degli antibiotici dipende però anche dall'azione umana, nel senso che il crescente utilizzo di queste medicine - soprattutto dei cosiddetti "antibiotici ad ampio spettro", come la penicillina e la streptomicina, cioè farmaci che servono a combattere numerose specie di microrganismi - mette "sotto pressione" i batteri, i quali si trovano sostanzialmente costretti ad evolversi, sviluppando nuove difese. Un ruolo importante è svolto infine anche dall'alimentazione, in quanto i batteri presenti nel cibo e sopravvissuti al processo di cottura possono trasmettere i propri geni per la resistenza agli antibiotici - ottenuta tramite i farmaci somministrati sempre più spesso agli animali d'allevamento - ai microrganismi che vivono nel nostro corpo. Redinbo e colleghi hanno studiato con cura il funzionamento del trasferimento orizzontale, e in particolare si sono concentrati su uno specifico enzima (nome in codice: Dna-relaxasi) che consente ai batteri di effettuare concretamente lo scambio di geni (inclusi quindi quelli per la resistenza agli antibiotici). Gli scienziati hanno così scoperto che i bifosfonati (detti anche bisfosfonati oppure difosfonati, sono composti in grado di inibire il riassorbimento osseo, pertanto vengono utilizzati nel trattamento di diverse patologie come l'osteoporosi ed, in genere, sono somministrati per bocca) possono effettivamente impedire a questo enzima di espletare il suo compito, distruggendo anzi i batteri che si apprestano ad effettuare un trasferimento genico. Test realizzati utilizzando esemplari di Escherichia coli - un batterio in grado dì provocare intossicazioni alimentari - hanno mostrato l'efficacia dei bifosfonati, utilizzati anche per il trattamento dell'osteite deformante (malattia di Paget dell'osso), delle metastasi ossee (in presenza o meno d'ipercalcemia), del mieloma multiplo e di tutte le altre condizione che possono indurre fragilità ossea. Adesso Redinbo è intenzionato a testare queste sostanze su altri tipi di batteri, e spera di poter utilizzare in futuro i bifosfonati per rinforzare l'azione degli antibiotici tradizionali o in alternativa per mettere a punto una terapia anti-batterica del tutto nuova. _________________________________________________________________ Il Giornale 15 lug. ’07 LA POTENZA ETICA DELLE CELLULE CEREBRALI ANGELO VESCOVI Vi rivelo oggi alcuni dettagli ~,~ sui trapianti di cellule nel Y cervello per la cura delle malattie neurodegenerative. Questo vi permetterà di comprendere le discussioni sull'argomento «medicina rigenerativa e staminali» e come alcuni luoghi comuni sull'argomento siano più credenza che scienza. La più importante sperimentazione inizia negli anni Settanta, sul morbo di Parkinson,in cui le cellule nervose di uno dei circuiti cerebrali che regola il movimento muoiono, causando rigidità muscolare, tremori, scarsità di movimento. Una sorta di paralisi. Si pensò allora di sostituire le cellule morte con nuove cellule con funzioni simili. Dopo una fase in cui si utilizzarono anche cellule delle ghiandole surrenali del paziente, la scelta delle cellule «nuove» cadde su quelle derivate dal cervello di feti umani abortiti. Queste ricerche rappresentano una pietra miliare poiché hanno avuto il merito di dimostrare che l'immissione di nuove cellule nel cervello adulto è possibile, con risultati, a volte, positivi. Buoni solo a volte, poiché il problema rimane quello della riproducibilità e gli studi di settore restano contradditori. Il guaio è che le cellule adatte nel cervello fetale sono scarse. In un trapianto si usano fino ad otto feti. Così, oltre ad essere ogni volta diverso, il materiale trapiantato è eterogeneo in età, composizione, qualità e compatibilità col paziente. I risultati divengono poco riproducibili e farne una terapia standard è impossibile. Lo stesso vale per le altre malattie. Oggi, alcune soluzioni vengono dall'uso delle staminali cerebrali. Invece di estrarre le rare cellule da trapiantare, estraiamo le loro «madri», le staminali cerebrali. Sono ancor più rare, ma messe in un «brodo» di coltura, queste si moltiplicano a dismisura. I numeri: da cinquemila staminali (da un singolo feto) si generano dieci alla quarantesima cellule. Traduco: diecimila miliardi, di miliardi, di miliardi, di miliardi di cellule nervose. Abbastanza per trapiantare decine o centinaia di migliaia di pazienti. E questo processo è in corso in condizioni di totale controllo biologico nella banca delle staminali cerebrali umane vista nelle puntate precedenti. Per dì più, ciò è possibile usando feti da aborto spontaneo, risolvendo i problemi etici. Le staminali così prodotte e conservate nella banca sono infine trattate con sostanze che le istruiscono a produrre il tipo di cellula cerebrale da utilizzare per le diverse malattie - cellule della mielina, nuovi neuroni e così via - e sono quindi iniettate nei pazienti. Le vie di somministrazione saranno le più diverse: direttamente nel cervello dove esiste il danno (lluntiugton e Parkinson) o per via endovenosa (sclerosi multipla) o altre, da stabilirsi - velocemente - per la sclerosi laterale amiotrofica. Una sperimentazione simile è in corso per il morbo di Batten (malattia genetica), con iniezioni multiple in tutto il cervello, in una manciata di pazienti e dà un'idea della portata dell'iniziativa «banca staminali». La società che sperimenta sul Batten, fa esclusivamente questo, investendo venti milioni di dollari. La banca delle staminali cerebrali mira a supportare molte sperimentazioni su numerose malattie... Ovviamente, ogni sperimentazione sarà avviata previa approvazione dell'Istituto superiore di sanità a cui i centri responsabili della. sperimentazione presenteranno richiesta. Non mi azzardo a prevedere risultati strabilianti dalle prime sperimentazioni, ma queste apriranno là. strada a tentativi sempre più fruttuosi, e di questo sono certo. Tanto più fruttuosi quanti più saranno i centri che partecipano a questa iniziativa che è proprietà di tutti. Punto caldo. La sperimentazione sulle malattie neurologiche, quindi, è già avviata ed in fase di espansione... E quindi tutte le diatribe su embrioni, clonazione eccetera? Beh, ci sono degli elementi che meritano una discussione, ma c'è anche un mare di amenità infondate, a dirla con educazione. _______________________________________________________________________ Corriere della Sera 9 lug. ’07 TUMORE DEL PANCREAS: LA SPERANZA È LA «TRIPLETTA DI VERONA» TUMORE DEL PANCREAS Chemio e radioterapia mirate possono raddoppiare la percentuale di pazienti operabili La speranza è la «Tripletta di Verona» Un nuovo schema di cura, in tre centri al mondo, aumenta la sopravvivenza Viene Margherita De Bac chiamata «Tripletta di Verona». Cicli di chemioterapia e radioterapia prima dell'intervento chirurgico. Un trattamento in tre fasi che alimenta un sogno. Vincere la sfida contro una malattia ritenuta fino a ieri imbattibile ma che adesso comincia ad apparire attaccabile ai ricercatori grazie anche alla prospettiva di trovare, in un futuro purtroppo non molto vicino, farmaci mirati. «Sono convinto che accadrà quello che è successo per il cancro al colon e all'esofago - è animato da grande entusiasmo Paolo Pederzoli, direttore del centro universitario per la ricerca e la cura dei tumori pancreatici di Verona - . Non c'erano speranze, ora possediamo le armi per affrontarli in modo efficace. Lo stesso mi aspetto in questo campo. Tra cinque o sei anni gli studi sulle terapie-bersaglio potrebbero dare risultati tali da offrirci una strategia per poter colpire il tumore del pancreas. Riusciremo ad operare anche quelli inizialmente giudicati intrattabili ». Proprio a Verona, durant e il recente workshop internazionale sui tumori endocrini, si sono riuniti i massimi esperti mondiali di una malattia ancora molto ostica, che in Italia registra 8 mila casi all'anno. Oltre a Pederzoli e Massimo Falconi (Verona), ne hanno parlato Paolo Fernandez Del Castillo (Boston) e Carlo Croce (Harvard) che rappresentano l'eccellenza nel mondo. Nei reparti non specializzati nella gestione delle malattie pancreatiche la mortalità è del 20 per cento, a Verona dieci volte inferiore. La forza del polo veronese consiste nella collaborazione tra pubblico e privato. Gruppo Banca Popolare Verona e Fondazione Zanotto sostengono da diversi anni l'attività dei ricercatori. Con la Tripletta di Verona, il 10-15 per cento del 75 per cento dei pazienti giudicati inoperabili può arrivare all'intervento. In pratica, la percentuale di «resecabilità » del tumore al pancreas con questo nuovo schema viene raddoppiata. A dispetto di statistiche terribili, il 25 per cento dei pazienti con adenocarcinoma asportato sopravvive a cinque anni dall'intervento. Il motore del polo veronese, nato nel 1993 grazie a finanziamenti della Fondazione Zanotto, sono un centinaio di ricercatori che si dedicano esclusivamente a studi sul pancreas. Fra le punte di diamante Aldo Scarpa, patologo molecolare tornato dagli Stati Uniti, impegnato nello studio di farmaci puntati contro un preciso bersaglio. «Siamo partiti sentendoci sconfitti in partenza, l'unica nostra arma era la palliazione. Deprimente - dice Scarpa -. Poi abbiamo creato una rete di centri di eccellenza. Il sogno sta prendendo forma». Paolo Fernandez De Castillo ricorda il senso di impotenza provato negli ultimi venticinque anni: «Non si riusciva ad ottenere alcun miglioramento. Adesso invece credo che taglieremo il traguardo. Battere il tumore al pancreas è possibile. Dobbiamo lavorare molto sui tessuti prelevati dai pazienti per capire come mai questo tumore è tanto aggressivo». Il tumore del pancreas - lo ricordiamo - compare in età matura e viene, per lo più, scoperto per caso, quando è già troppo tardi. I primi sintomi sono generici: astenia, dolore epigastrico, diabete. E spesso la vera causa di questi malesseri resta incompresa per mesi. _______________________________________________________________________ Corriere della Sera 8 lug. ’07 PROSTATA: BUONE CURE, RICERCA FRAMMENTATA OSPEDALI DI ECCELLENZA LE NUOVE CLASSIFICHE SUI CENTRI SPECIALIZZATI L' assistenza, che raggiunge alti livelli, soffre ancora del divario Nord-Sud Un uomo su due prima o poi deve vedersela con l' infiammazione o l' ingrossamento della prostata. Anche il tumore è molto comune, tanto da essere oggi la seconda causa di morte per cancro nel sesso maschile. I ricercatori italiani hanno ottenuto molti risultati in questo campo: arrivano dall' Italia, ad esempio, i primi studi sull' utilizzo della termoterapia e del laser per l' asportazione della prostata e sul trattamento endoscopico mini-invasivo dell' ipertrofia prostatica. Non mancano i successi sul versante dei tumori: «Gli italiani hanno approfondito l' impatto delle cure sulla qualità della vita dei malati e introdotto la riabilitazione dei corpi cavernosi del pene dopo prostatectomia radicale - racconta Walter Artibani, segretario generale aggiunto dell' European Association of Urology -. Tanti i farmaci studiati a fondo nel nostro Paese, come gli antiandrogeni o i taxani per i pazienti più gravi». Purtroppo i dati vengono raccolti a fatica, per un neo tutto italiano: «Manca la collaborazione fra centri e i database sono pochissimi: ogni volta gli studi si effettuano su pochi pazienti. Invece, se i partecipanti sono molti, le differenze di approccio sfumano e si ottengono tante più informazioni - interviene Patrizio Rigatti, responsabile del Dipartimento di urologia del San Raffaele di Milano e primo classificato della nostra graduatoria -. Inoltre, in Italia pochissimi si occupano di ricerca di base: un errore, perché è quella che può davvero cambiare il futuro della pratica clinica oltre che consentirci di capire i motivi per cui si forma un tumore alla prostata o la ghiandola si ingrossa, tuttora ignoti». «Gli studi clinici sono una tradizione italiana, ma il segreto per progredire è affiancarli alle ricerche nell' animale, come hanno ben capito all' estero - conferma Vincenzo Mirone, presidente della Società Italiana di urologia -. Purtroppo da noi finora si è ragionato a compartimenti stagni e solo da pochi anni si lavora maggiormente in sinergia». «Anche università e ospedali dovrebbero integrarsi di più per disseminare le conoscenze sul territorio - spiega Raffaele Tenaglia, presidente della Società Italiana di urologia oncologica -. Poi, da Milano a Palermo ci sono mille approcci diversi e solo ora, ad esempio, sta partendo un programma nazionale sui tumori prostatici tramite cui discutere tutti assieme le terapie ormonali e i risultati della chirurgia». Ma se la ricerca talvolta stenta a decollare nella pratica clinica le cose sembrano andar meglio: «Oggi la prostata è curata bene un po' ovunque, ferme restando le ovvie differenze fra un centro e l' altro. Il livello medio dell' assistenza è alto ed è salito negli ultimi anni, così come è cresciuta l' esperienza: se alla fine degli anni ' 80 si eseguivano 50 prostatectomie radicali in tutta Italia, oggi questa è l' attività mensile di un singolo reparto - osserva Giuseppe Martorana, delegato italiano della Società Internazionale di urologia ». «La qualità dell' assistenza non è seconda a quella degli altri Paesi, anzi. Semmai ci sono tuttora differenze fra Nord e Sud, che mediamente è in ritardo e quasi sempre perché nel meridione il contesto è problematico e manca un' organizzazione adeguata - giudica Tenaglia ». Le differenze però si stanno assottigliando e ci sono anche altri segnali positivi: «Il Servizio sanitario nazionale ad esempio sta cominciando a investire in ricerca - specifica Martorana -. Una buona notizia, perché le sfide per il futuro non mancano: dobbiamo affinare i metodi di diagnosi per diminuire il numero di biopsie inutili, perché oggi al primo sospetto si va subito a "punzecchiare" la prostata; altro obiettivo, ridurre il rischio di impotenza e difficoltà sessuali dopo la prostatectomia, ancora consistente». Elena Meli * * * Il metodo L' analisi dei lavori dalla banca dati Per quantificare gli Impact Factor dei centri di ricerca sulle malattie della prostata si sono rintracciate con Medline (banca dati mondiale della National Library of Medicine statunitense) gli studi sull' uomo dal 1996 al 2006 su prostatite, iperplasia prostatica, tumore alla prostata. Si è risaliti alla sede degli autori di riferimento e per ogni centro si sono sommati gli Impact Factor delle ricerche. Per l' Italia sono stati censiti 913 lavori; per il resto d' Europa 6.284 ricerche. Come numero di pubblicazioni l' Italia segue il Regno Unito (1.283 lavori) e la Germania (1.073 articoli). Meli Elena _______________________________________________________________________ Corriere della Sera 8 lug. ’07 PAP-TEST: MEGLIO QUELLO GENETICO? Di recente ho letto sui giornali che Ignazio Marino, presidente della commissione sanità del Senato, sarebbe favorevole a rendere gratuito un nuovo pap-test genetico, assai costoso ma più sicuro di quello tradizionale. Irene G., Lucca Il test di cui lei parla, quello per identificare i tipi di papilloma virus «ad alto rischio», permette di individuare quasi tutte le lesioni trovate dal Pap-test tradizionale e, in più, ne scova altre che quest' ultimo non scopre. Non è, però, chiaro se queste lesioni «in più» siano importanti o destinate, invece, a guarire spontaneamente. Sono in corso diversi studi in proposito: tra questi uno dei più importanti è l' NTCC, condotto in sei Regioni italiane su quasi 100.000 donne, coordinato dal centro di riferimento per l' epidemiologia e la prevenzione oncologica del Piemonte. I risultati, attesi tra breve, permetteranno di rispondere a questa domanda e anche di sapere se con il nuovo test sarà possibile allungare gli intervalli tra i prelievi. Per ora non sappiamo ancora quale sia il modo migliore di usare il nuovo test. C' è il rischio di fare accertamenti inutili ma, soprattutto, di trattare inutilmente lesioni che sarebbero guarite da sole, in particolare nelle donne giovani. Per questi motivi, prima di introdurlo come pratica di routine è necessario attendere la conclusione degli studi in corso. Le ricordo che il Pap-test tradizionale è molto efficace nella protezione dal cancro del collo dell' utero. Seguito dalla colposcopia (esame dei tessuti vaginali e cervicali con uno strumento dotato di una lente di ingrandimento, n.d.r) nei casi sospetti, permette di scovare le lesioni precancerose prima che diventino invasive. In questo modo si ottiene una protezione di più dell' 80 per cento nei confronti dei tumori aggressivi. Non a caso la maggior parte di queste forme si riscontra in donne che non hanno fatto il Pap-test o gli approfondimenti necessari. In alcuni dei centri che partecipano allo studio NTCC verranno avviati programmi pilota con il nuovo test. Per ora è importante che le donne facciano quello tradizionale con la cadenza raccomandata dalle linee-guida italiane ed europee (almeno ogni 3 anni) e che si sottopongano regolarmente ad una visita ginecologica. PIERO SISMONDI Professore di ginecologia oncologica, Università di Torino Sismondi Piero