MUSSI: ACCREDITAMENTO, OBBLIGO PER TUTTI I CORSI DAL 2010 - LA MAPPA DEI CORSI A RISCHIO - CURA DIMAGRANTE PER SETTE FACOLTÀ SU DIECI - NEGLI ATENEI OFFERTA PIÙ CHE RADDOPPIATA MA AULE SEMPRE DESERTE - L’UNIVERSITÀ CHE NON PREMIA IL MERITO - UNIVERSITÀ, CUN PREOCCUPATO PER IL FUTURO - DRAGHI: SCUOLA E ISTRUZIONE, SERVONO INVESTIMENTI - UNIVERSITÀ, ARRIVANO LE LINEE GUIDA PER L’ATTIVAZIONE DEI CORSI - MUSSI: I PROFESSORI IN PENSIONE A 70 ANNI - MODICA: DOCENTI FUORI RUOLO, TAGLI POSSIBILI - LA TRASPARENZA SCELTA OBBLIGATA PER GLI ATENEI - PAGELLE ANCHE PER I DOCENTI - TROPPA DISINFORMAZIONE SUL RISCALDAMENTO GLOBALE - OCSE: L'ITALIA AGLI ULTIMI POSTI PER LA RICERCA - FONDI RICERCA .BANDO PRIN PARTECIPANO IN 80 MILA - COSÌ FANNO CARRIERA I DOCENTI DELL'ULIVO - NUMERO CHIUSO TEST, CRITERI DA RIVEDERE E ATTUARE - HONSEL: I MIEI ALGORITMI SOTTO LA DOCCIA - CHI FRENA I CERVELLI STRANIERI - DOTTORATI DI RICERCA, C'È LA RIFORMA - MISSIONE DELL’ATENEO NELLE SCUOLE CINESI: «ISCRIVETEVI DA NOI» - SOLENNI IMPEGNI PER DOPODOMANI MA SPENTE LE LUCI SALTANO I TAGLI - SCUOLA, LA SARDEGNA FANALINO DI CODA - PRODIGI DA MICROELETTRONICA UNA BIBLIOTECA TASCABILE - POLO ALL'ATTACCO SUI PRECARI AL POLICLINICO - GIOVANI SPECIALIZZANDI O RAGAZZI DI BOTTEGA? - ======================================================= BRACCIO DI FERRO SUI PRECARI «ASSUMETELI TUTTI» - ASSICURAZIONI: PIÙ TUTELATI I MALATI, MA ANCHE I DOTTORI - L'ISTITUTO SAN RAFFAELE RISCRIVE IL GENE MALATO - SE L’ETICA È RIDOTTA AL DNA - LA TURCO: SONO MEDICINE LEGALI NON POSSONO ESSERE NEGATE - OLBIA: SAN RAFFAELE, CI SARANNO ONCOLOGIA E NEUROLOGIA - BAMBINI SANI? POCA TV E POCHE PATATINE - PUNTO UNICO: LA SPERIMENTAZIONE NEL CENTRO DI MONTE CLARO - PIÙ INTELLIGENZA IN CORSIA - L’APPENDICE È LA CULLA DI GERMI UTILI ALL'INTESTINO - TUMORE PRESO DI PETTO - IL SONNO, QUESTO GRANDE BENEFATTORE - NEGLI INCUBI, LA CHIAVE DI TUTTI I SOGNI - E'UNA MOLLA CHE SALVA IL CUORE - FAVISMO, SARDI BEFFATI DALL’ESERCITO - LA SARDEGNA HA IL RECORD ITALIANO DI MALATI DI OSTEOPOROSI - CRESCE L'ESENZIONE PER I SERVIZI SOCIALI, 136 MILA RICHIESTE - IL TRAPIANTO SECONDO GEOVA - ======================================================= ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 27 Ott. ‘07 MUSSI: ACCREDITAMENTO, OBBLIGO PER TUTTI I CORSI DAL 2010 REQUISITI Sarà necessario fornire agli studenti tutte le informazioni su qualità dell'insegnamento e sbocchi occupazionali Gianni Trovati MILANO L'università italiana riprova a imboccare la via dell'efficienza e della trasparenza, ma stavolta con strumenti più stringenti che in passato. Con il decreto firmato ieri dal ministro dell'Università Fabio Mussi, attuativo delle Linee guida per la nuova offerta formativa approvate il 16 luglio scorso, si fissano i tempi e i modi con cui le facoltà dovranno impostare la propria offerta formativa. La novità è nell'impostazione di fondo: l'accreditamento, con il rispetto dei requisiti promossi dal lavoro del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, non è più un consiglio, magari accompagnato da minime conseguenze economiche, ma un obbligo. I corsi che non rispetteranno i parametri si vedranno chiudere le porte dell'offerta formativa, e non potranno essere attivati. AL traguardo bisogna arrivare entro il 2010: per quella data, ogni corso di laurea dovrà contare almeno su quattro docenti di ruolo per ogni anno, e dovrà assicurare agli studenti una serie di informazioni dettagliate necessarie per capire la qualità del corso e le opportunità che offre sul mercato del lavoro. Nella nuova università, tornerà a quote più anche il numero di esami, che per i corsi di laurea non potranno essere più di 20. Tl prima, drastico, vaglio avverrà proprio sul requisito di docenza minima. Per un corso di laurea triennale sarà indispensabile poter contare su almeno 12 docenti di ruolo, e lo stesso parametro porta a 10 il numero necessario per i corsi a ciclo unico. Ma la docenza, da sola, non basta. I corsi, infatti, dovranno essere passati al vaglio di due attenti esaminatori: i nuclei di valutazione, chiamati a misurare parametri di efficienza come l'impegno medio assicurato dai docenti, l'adeguata dotazione di infrastrutture, e soprattutto gli studenti. A loro, infatti, le università dovranno chiarire quali sono gli sbocchi occupazionali offerti dal corso, misurati dal tasso di occupazione dei laureati a tre e cinque anni, e dovranno indicare tutti i dati relativi al tasso di abbandono e di laureati in corso. Chi si vuole iscrivere, insomma, dovrà avere a disposizione un panel di indicatori per capire se il corso è ben organizzato, i docenti sono presenti (e qual è il loro "identikit" scientifico) e se il titolo ha un peso specifico adeguato sul mercato del lavoro. Il calendario per adeguare la docenza sarà un po' più benevolo, e lascerà tempo fino al 2012, a tre tipi di atenei: quelli più «giovani», nati cioè dopo ili994, i piccoli (con meno di 15mila iscritti) e i privati. Ma una volta a regime le regole saranno uguali per tutti. L'obiettivo è quello di sanare le storture nate da un'applicazione distorta della riforma del'99 (quella che ha creato il «3+2»), e che ha moltiplicato il numero di titoli messi in campo dagli atenei. Un'espansione nata a volte per ragioni di marketing, senza troppo badare alla presenza di un corpo docente in grado di sostenere gli insegnamenti (spesso coperti da docenti a contratto) e soprattutto all'esigenza degli studenti di capire davvero il corso a cui accedevano. A corredo dei nuovi indirizzi, sempre ieri il ministro Mussi ha firmato il decreto con gli indicatori per la programmazione triennale degli atenei. Nella «Gazzetta Ufficiale» di giovedì, infine, è stat à pubblicata la conversione.in legge del decreto sui concorsi per i ricercatori. Leyalmail ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 20 Ott. ‘07 LA MAPPA DEI CORSI A RISCHIO Cambio di rotta. Senza scampo le sedi con un numera limitato di docenti Tradizione. Solo la Statale di Milano non deve correre ai ripari per adeguarsi Stop dal 2010, ma per le private sono previsti tempi più lunghi Una data limite, il 2010. E un lavoro enorme: ripensare un'offerta didattica che negli anni ha rotto tutti gli argini per riportarla entro dimensioni sostenibili dalle forze di ogni facoltà. Fra tre anni accademici, per attivare un corso sarà necessario poter contare su quattro docenti di ruolo per anno: un corso di laurea, quindi, ha bisogno di almeno iz docenti, una laurea specialistica di 8 e una a ciclo unico di 20 (24 se la durata di legge è di sei anni). Ma il cambio di rotta creato dalie Linee guida di luglio e dal decreto attuativo non colpirà allo stesso modo tutte le facoltà, perché c'è chi già oggi vanta un corpo docente più che adeguato alla bisogna e chi invece dovrà correre decisamente ai ripari. Le facoltà storiche, in genere, non hanno nulla da temere dal nuovo corso: ad architettura dell'Università Iuav di Venezia, come a giurisprudenza della Sapienza o della Statale di Milano, il corpo docente è quattro volte più numeroso rispetto ai minimi richiesti dal decreto. La Kore di Enna o l'Università Santa Maria Assunta di Roma, per fare due esempi fra i tanti, dovranno rinforzare drasticamente il numero di professori. Anche se per atenei come questi ultimi le regole concedono un po' più di tempo per l'adeguamento: le università non statali, quelle che hanno meno di 15mila iscritti e gli atenei nati dopo il 1994 dovranno infatti adeguarsi entro il 2012, e non entro il 2010. E in alcuni casi la possibilità di stipulare convenzioni con altre strutture potrà aiutare gli atenei a raggiungere l'organico necessario facendo rientrare nel conto i docenti «prestati». Qui sotto, comunque, la tabella fotografa la situazione di tutte le facoltà italiane attive nell'anno accademico 2006/2007 (ultimo per il quale sono disponibili i dati) e la mette a confronto con il requisito dettato dalle nuove norme. Di ogni facoltà è stato ricavato dall'anagrafe del ministero dell'Università il numero di corsi attivati, distinti per tipologia, e il numero di docenti di ruolo, e lo si è messo a confronto con l'organico richiesto dalle nuove regole. La percentuale (in rosso quando negativa) indica la distanza fra la situazione effettiva e quella che diventerà necessaria con le regole a regime. CATTEDRE NECESSARIE Numero Minimo di docenti di ruolo per corso: Laurea: 12 Laurea Specialistica Biennale 8 Laurea Specialistica a Ciclo Unico 20 (5 Anni) Laurea Specialistica a Ciclo Unico 20 (6 Anni) ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 Ott. ‘07 CURA DIMAGRANTE PER SETTE FACOLTÀ SU DIECI I criteri. Al setaccio i valori relativi a docenza, trasparenza ed efficacia In difficoltà. I problemi maggiori a sociologia, economia c lettere Solo il 30% rispetta già da oggi i parametri qualitativi e quantitativi fissati dal decreto di venerdì scorso PAGINE A CURA DI Gianni Trovati La cura si annuncia drastica, come si conviene quando i sintomi sono così evidenti. Il 70% delle facoltà italiane è chiamato a tagliare con decisione la propria offerta formativa, se vuole rientrare in tempo utile nei parametri fissati dal ministero dell'Università. E tutto dovrà avvenire con una certa urgenza: il decreto firmato venerdì dal ministro Fabio Mussi dà tre anni di tempo (cinque agli atenei piccoli, giovani o privati) per rientrare in carreggiata, pena la cancellazione dall'offerta formativa dei corsi fuori regola. E la prima tappa dell'adeguamento (per ora non obbligatorio) scatta fin da ora, nei regolamenti didattici di ateneo che vanno presentati entro il 30 gennaio. Messa così, sembra un netto impoverimento per decreto della proposta che le facoltà italiane potranno rivolgere agli aspiranti dottori. Ma il principio (e i risultati attesi) sono opposti. La malattia, infatti, è la moltiplicazione di corsi di laurea, a volte con titoli astrusi o semplici doppioni di curricula già esistenti, che si è scatenata dopo l'introduzione del «3+2». E la cura, fissata nel decreto firmato venerdì scorso dal ministro Fabio Mussi che attua le Linee guida di luglio, vuole riportare tutta l'offerta entro precisi parametri di qualità, con un percorso di accreditamento che stabilisce requisiti obbligatori, pena la cancellazione del corso. Il primo, e anche il più draconiano, è proprio quello sulla docenza: entro il 2010 (0 2012 per gli atenei che hanno un calendario più benevolo) ogni corso di laurea dovrà contare su almeno quattro docenti di ruolo per ogni anno. Senza questa forza «minima», è il presupposto; non è possibile garantire che il corso di laurea abbia la qualità adeguata. E siccome i battesimi di nuovi corsi sono piovuti senza irrobustire la docenza di ruolo la tagliola scatterà per molti. Sette facoltà su dieci sono fuori regola, e in alcune discipline la percentuale è ancora più alta. Nella rete della carenza di docenti cadono tutte le nove facoltà italiane di sociologia, 60 delle 68 facoltà di economia e altrettante fra le 70 di lettere e filosofia. Fra le virtuose, invece, spiccano medicina veterinaria (bollino verde per 11 su 14), giurisprudenza e agraria, gli unici tre casi in cui i regolari superano i fuori norma. Il vaglio da cui deve passare il corpo docente, in realtà, è doppio: quello quantitativo (4 docenti di ruolo all'anno) fa alzare il cartellino giallo per 361 facoltà su 580 (il 62,2%), ma altre 42 (il 7,3%) inciampano su quello qualitativo che misura l'ampiezza dei settori disciplinari coperti dai professori (e dai ricercatori) di ruolo. Se un corso di laurea in lettere per esempio, ha tanti docenti di letteratura italiana ma per la storia dell'arte deve ricorrere a professori a contratto, rispetta il requisito quantitativo ma non quello qualitativo. Per riportare in ordine i conti il taglio dei corsi di troppo (ad esempio quelli che registrano aule fatalmente semivuote; si veda anche la pagina successiva) è la via maestra ma non l'unica: perché il ministero indica lo scopo (la qualità e l'efficienza), i parametri, e i tempi, ma lasciano all'autonomia degli atenei le strade per raggiungere il risultato. Senza dimenticare che una volta a regime le nuove regole tireranno il freno anche alla parcellizzazione degli esami, perché le tappe per arrivare alla laurea non potranno essere più di 20. Del resto, basta un dato per mostrare la gravità del gigantismo (dei titoli) che ha colpito l'università italiana: gli insegnamenti, cioè i corsi singoli, nel 2000/01 erano 116mila, e nel 2005/06 sono balzati alla cifra monstre di 171.415, con un aumento del 48%: quasi 70mila (il 40%), però, sono dei mini-corsi, visto che offrono meno di 4 crediti. Una nebulosa destinata a diradarsi con il tetto agli esami e ai titoli fissato dalle Linee guida. A disegnare la nuova università, insomma, saranno un insieme di norme che cercano un comune denominatore nelle parole d'ordine dell'efficacia e della trasparenza. E che traducono in regole obbligatorie le indicazioni elaborate in questi anni dal Comitato nazionale di valutazione universitaria. A vigilare sul sistema saranno i nuclei di valutazione degli atenei, che dal decreto vengono rafforzati nel compito di garantire che i requisiti, oltre che raggiunti, vengano mantenuti. AL mosaico della valutazione manca ora solo il tassello (cruciale) della nuova Agenzia, ed è fondamentale che nelle more della sua creazione l’attuale Comitato possa far fronte a tutti gli impegni che impone il rinnovato slancio della valutazione. ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 Ott. ‘07 NEGLI ATENEI OFFERTA PIÙ CHE RADDOPPIATA MA AULE SEMPRE DESERTE Al primo anno. Dal 2000 il numero medio di matricole é sceso da 185 a 98 (-47%) La crescita. Tra le più «creative» ci sano lettere ed economia e commercio Nel 2006 attivate quasi 3.100 lauree Cristiano Dell'Oste Corsi di laurea sempre più numerosi e aule universitarie sempre meno affollate. Nell'anno accademico 2055-06 sono stati attivati più del doppio dei corsi di laurea del 1999-00, con un salto da i 330 a 3.082 proposte didattiche. E nello stesso periodo il numero medio di immatricolati per corso è passato da 185 a 98 studenti. I dati provengono dal ministero dell'Università e confermano una tendenza consolidata negli ultimi anni. Ma la differenza diventa ancora più evidente se si considerano le nuove tipologie di corsi introdotte con la riforma. Conteggiando anche le lauree a ciclo unico (182), quelle specialistiche (2.281) e quelle del vecchio ordinamento (46), l'offerta didattica 2005-06 arriva a 5.591 corsi. E se si guarda alla frequenza si scopre un altro aspetto interessante: nelle lauree specialistiche attivate nel 2005-06 il numero medio di iscritti al primo anno si attesta a 39. Le rilevazioni ministeriali si fermano a due anni fa, ma danno l'esatta dimensione di un fenomeno che -complice la riforma universitaria del "3+2" - ha rivoluzionato il panorama accademico italiano producendo eccessi che la nuova riforma intende correggere. In alcuni casi la proliferazione dei corsi ha finito per disorientare i ragazzi appena usciti dalle scuole superiori. In altri casi le aule universitarie si sono rivelate non solo meno affollate, ma addirittura semivuote. Tanto che, applicando i parametri indicati nelle Linee guida per l'offerta formativa, il 70% dei corsi di primo livello o a ciclo unico attivati nell'anno accademico 2006-07 non raggiunge il numero minimo di matricole (si veda Il Sole-z4 Ore del lunedì del 13 agosto). Negli ultimi sei anni, la facoltà che ha registrato il maggior incremento di corsi è quella di medicina e chirurgia, passata da 85 a 647 corsi di laurea, con un balzo di oltre il 600 per cento. Seguono poi lettere e filosofia (8 corsi in più, +96%) ed economia (169 nuove attivazioni, +130%). Ma subito dopo di loro - nella classifica della creatività didattica - si trovano due facoltà del tutto diverse per contenuti e obiettivi formativi: scienze matematiche, fisiche e naturali (passata da 255 a 418 corsi) e ingegneria (da 284 a 446). Non è sfuggita a questa tendenza neppure giurisprudenza, che con il vecchio ordinamento era molto concentrata sugli insegnamenti fondamentali. Chi voleva fare l’avvocato, il magistrato, il notaio o il giurista d'impresa nel 2005 si è trovato a scegliere tra proposte più che raddoppiate rispetto al 1999. E scienze politiche, aperta a un maggior numero di sbocchi professionali, ha visto una moltiplicazione per tre. L'esplosione didattica ha coinvolto anche le facoltà che hanno meno corsi. Un esempio sono i casi di sociologia, passata da 6 a zi corsi (+aso%), e psicologia, salita da 8 a 35 (+337%). L'unica in controtendenza è stata una piccola pattuglia di facoltà scientifiche: scienze motorie e scienze statistiche hanno registrato incrementi al di sotto della media - rispettivamente +55oro e +3o% - mentre medicina veterinaria e farmacia sono rimaste di fatto invariate (nel caso della prima c'è un solo corso in più, nel caso della seconda addirittura uno in meno) . I dati raccolti tra gli atenei italiani dal Sole-24 Ore del lunedì in occasione del Dossier Università (pubblicato il 18 giugno) consentono di spingere lo sguardo oltre le rilevazioni ufficiali. Nell'anno accademico aoo6-o7, i ragazzi si sono trovati a scegliere tra 5.396 corsi di laurea, mentre quest'anno il totale è sceso a 5.385. Confrontati con i 5.591 corsi censiti dal ministero nel 20o5-o6, questi dati sono il segnale di un primo ripensamento da parte del mondo accademico. ___________________________________________________________ Repubblica 30 Ott. ‘07 L’UNIVERSITÀ CHE NON PREMIA IL MERITO SALVATORE SE-MS Che tempi mai sono questi, quando si parla di università ogni giorno per denunciare scandali veri o presunti, e si continua a rimuove re dalla coscienza pubblica il suo problema centrale, quello della qualità? E' vero, ci sono in qualche università test truccati, lauree honoris causa date con leggerezza, presidi e rettori intriganti, carriere per gli amici degli amici e per i figli di (certi) papà e mamme. E'vero, tali nequizie vanno denunciate e rimosse. Ma se anche si congegnasse il più drastico dei repulisti e lo si attuasse in un mese, l'università italiana resterebbe drammaticamente lontana da quella che vorremmo. Qualità della ricerca e degli studi e ricambio generazionale nella docenza sono problemi che non stiamo affrontando, che si vanno incancrenendo a ogni giorno che passa. Scandali e disfunzioni piccole e grandi fanno parte del problema, aiutano a diagnosticarlo: ma questa diagnosi non è la cura dell'università italiana, e chi vuole illudersi che lo sia inganna colpevolmente se stesso e gli altri. Nella ricerca come nell'alta formazione, si è creato un grande circuito mondiale, che include i Paesi più avanzati (in prima linea gli Stati Uniti) ma ormai anche Cina e India, regolato da una durissima competizione: ognuno cerca di assicurarsi i migliori talenti, offrendo loro le migliori condizioni, attraendoli e reclutandoli il più presto possibile, nei loro periodo più creativo. La nazionalità d'origine conta sempre meno, contano solo il merito e i risultati conquistati sul campo. Questo circuito della ricerca accelera il progresso degli studi e favorisce i giovani più brillanti, proiettandoli sullo scenario mondiale delle loro discipline molto più rapidamente che in passato. Quello che sta accadendo in Italia è esattamente il contrario. Unico in Europa, il nostro sventurato Paese ha bloccato da quasi due anni ogni nuovo reclutamento di professori (prima e seconda fascia), obbligando i giovani più bravi a cercar lavoro altrove: in tal modo, l'enorme investimento in denaro ed energie che l'Italia ha fatto su di loro va a beneficio di altri e più lungimiranti Paesi. Un sistema concorsuale fallimentare, imperniato su scelte corporative e localistiche, ha finito col favorire l'anzianità a scapito del merito, e ci ritroviamo oggi con la classe docente più vecchia d'Europa: ma nulla si è fatto per correggere questa stortura, che "Nature" ha bollato come reverse age discrimination, una discriminazione a scapito dei giovani. La legge Moratti, approvata nelle ultime settimane della scorsa legislatura, provò a introdurre un reclutamento a livello nazionale, ma a un anno e mezzo di distanza non esistono ancora i regolamenti applicativi, che qualsiasi buon funzionario saprebbe scrivere in una settimana. C'è chi parla invece di tornare al sistema concorsuale localistico, volendo contro ogni evidenza ignorarne le storture; c'è chi sostiene che l'Italia (unica in Europa) dovrebbe reclutare solo al terzo livello ("ricercatori"), con promozioni interne ad personam, per anzianità: come se si trattasse di impiegati delle Poste. C'è chi, dimentico dei guasti provocati da altre "stabilizzazioni" ad personam nel 1980, invoca una generalizzata stabilizzazione ope legis, in seconda terza o quarta fascia, in nome della "lotta al precariato": senza voler vedere che, più precari dei precari, abbondano in Italia giovani brillantissimi ancora in cerca del loro primo lavoro di ricerca e d'insegnamento, e che è su di loro che dobbiamo puntare. Intanto il Consiglio Nazionale delle Ricerche boccheggia, i fondi pubblici di ricerca e gli investimenti in ricerca delle imprese fanno a gara nell'arretrare di anno in anno, gli stipendi di ricercatori e docenti sono fra i più bassi d'Europa. Ai nostri giovani più dotati e brillanti si apre una sola scelta, emigrare o giacere in una lunga e frustrante anticamera. Per converso, mentre altri Paesi d'Europa (Gran Bretagna, Francia e Germania, ma anche Belgio, Olanda, Spagna) hanno elaborato strategie assai efficaci di attrazione dei migliori talenti, pochissimi stranieri scelgono di trasferirsi in Italia. A noi toccherà dunque celebrare in gran pompai centenari di Galileo e di altri grandi scienziati italiani del passato, e assistere impotenti alla fuga dei nostri talenti migliori, autocondannandoci alla mediocrità? Dovremo inchinarci al potere del Fato, quando veniamo a sapere che i docenti oltre i GO anni sono in Italia (in percentuale) il quintuplo che negli Stati Uniti? Dovremo gioire quando ci vien detto che partono finalmente (in ottobre!) i bandi di ricerca ministeriali per i progetti di interesse nazionale per il 2007, e dimenticare che anche col recentissimo aumento siamo comunque agli ultimi posti d'Europa? Università e ricerca sono dappertutto uno dei principali motori dello sviluppo, e camminano in tutto il mondo a ritmi serrati in un clima sempre più competitivo, richiedono costanza degli investimenti e qualità delle scelte. Interrompere anche per un solo anno il flusso dei reclutamenti e dei finanziamenti può avere conseguenze drammatiche: studiosi che emigrano attratti da migliori condizioni di lavoro, gruppi di ricerca che si disfanno, progetti che si arenano, energie che si disperdono, scoraggiamento e frustrazione diffusa, demotivazione anche dei più tenaci. Questo è lo spettacolo che stiamo offrendo oggi a noi stessi, in una paralisi senza precedenti, a cui né la Finanziaria né altre leggi sembrano ad oggi voler rimediare. Fino a quando? Che tempi sono questi? ___________________________________________________________ Italia Oggi 2 Nov. ‘07 UNIVERSITÀ, CUN PREOCCUPATO PER IL FUTURO Grande preoccupazione e disagio per il futuro dell'università: l’Anvur, il reclutamento per i ricercatori, il Prin e le linee guida per i nuovi ordinamenti. Tutti temi caldi sui quali, secondo una mozione espressa dal Consiglio universitario nazionale (Cun) che soffrono di «un percorso sempre più difficoltoso e senza certezze dei tempi e dei risultati». E sui quali lo stesso Consiglio universitario non «stato messo in condizione di esprimere pienamente la propria funzione di consulenza e di rappresentanza». E questo; per il Cun, non può diventare il modello stabile di funzionamento dei rapporti tra il ministro e il suo organo di consulenza, considerando gli specifici compiti istituzionali, le condivisioni di responsabilità e la chiarezza e autonomia dei ruoli. Ecco perché il Cun chiede un «ritorno a una logica di reciprocità e trasparenza nei rapporti istituzionali». Ua le preoccupazioni anche il problema, delle chiamate dirette come unico canale dl immissione nel ruolo di professore di la e 28 fascia, ma anche perplessità sul ddl collegato alla Finanziaria relativo agli interventi per la qualità e la sicurezza del Ssn riguardante, tra l'altro, la formazione dei medici specializzandi ___________________________________________________________ Italia Oggi 23 Ott. ‘07 UNIVERSITÀ, ARRIVANO LE LINEE GUIDA PER L’ATTIVAZIONE DEI CORSI Pubblicate sulla gazzetta ufficiale n. 246 di ieri le linee guida per l'istituzione e l'attivazione, da parte delle università, dei nuovi corsi di studio. Requisiti minimi, obiettivi formativi, numero massimo di docenti per corso di laurea: sono questi e molte altre le nuove regole alle quali gli atenei dovranno attenersi per istituire i nuovi corsi di laurea che attueranno i decreti ministeriali del 16 marzo 2007. Vengono così fissati con precisione gli obiettivi formativi della laurea triennale e di quella magistrale, indirizzando la competizione degli atenei verso la qualità. Una delle caratteristiche a cui le università si dovranno uniformare sarà quella di seguire regole di trasparenza al fine di orientare la scelta dello studente. Nel testo ci sono soprattutto indicazioni precise su tutti i requisiti di tipo quantitativo. Per sostenere un corso di laurea per esempio, gli atenei, dovranno destinare almeno quattro docenti di ruolo per ogni anno di corso. Ma dovrà anche essere coperto il 50% dei settori scientifico disciplinari previsti per le attività di base e caratterizzanti. Quindi non meno di 12 docenti di ruolo per le triennali e 8 per quelle magistrali. E poi, tra le altre cose, indicazioni per il numero massimo di studenti considerati sostenibili per tipologia di corso. di Benedetta P. Pacelli _______________________________________________________ L’Unione Sarda 31 Ott. ‘07 DRAGHI: SCUOLA E ISTRUZIONE, SERVONO INVESTIMENTI L’appello del governatore Draghi di Giuseppe Marci Il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi ha detto che la prima leva per modificare la situazione economica consiste nella formazione: "Una coraggiosa riforma del sistema d’istruzione, e in particolare dell’istruzione superiore, deve sollecitare i giovani in procinto di affacciarsi sul mercato del lavoro a investire seriamente in capitale umano". Parole che il professor Giavazzi, anch’egli economista, ha approvato e commentato così: "Scuola e istruzione, ripetuti tre volte". È quello che abbiamo sempre pensato (e detto, e scritto), regolarmente beffeggiati da un potere politico che nel campo della scuola e dell’istruzione negli ultimi decenni ha fatto più errori che opere sensate. Ma non dobbiamo perdere la speranza che finalmente capiscano e, quindi, pazientemente spieghiamo: non basta riempirsi la bocca di belle parole, bisogna investire. Tre volte di più, per seguire il monito di Giavazzi. E, possibilmente, nelle cose giuste, non in progetti infruttuosi e in carte per la burocrazia ma in strumenti per l’attività didattica, in insegnanti che lavorino in aula e non che siedano negli inutili Consigli, vero cancro della scuola, dalle elementari all’università. Guardiamo al panorama nazionale e chiediamoci quanto è stato investito, poniamo, negli ultimi dodici anni che secondo il Presidente della Confindustria Montezemolo sono stati "senza governo". Chiediamocelo anche in riferimento alla nostra realtà regionale, ma per davvero, e senza lasciarci fuorviare dalle somme elevate spese per iniziative pur prestigiose ma diverse rispetto a ciò di cui stiamo parlando. Il nostro tema non è: "convegni internazionali" o "musei e monumenti". È "scuola e formazione". Cosa si è fatto, in questo campo? Ad esempio: abbiamo tutte le aule necessarie? e le attrezzature? e i computer? il riscaldamento funziona? ci sono i fondi per le pulizie? Si potrebbero avere molti dubbi, al riguardo e si dovrebbe citare il caso - spero unico e irripetibile - di un Comune che ha demolito l’edificio scolastico e lo ha sostituito con un palco per musica e spettacoli. Nani e ballerine al posto di studenti e insegnanti nel frattempo dispersi in locali d’emergenza. Non è proprio quello che prescrive il Governatore Draghi ma non abbiamo sentito un lamento, al riguardo. E poi dobbiamo interrogarci sui risultati. Hanno imparato le lingue straniere? (e anche l’italiano: molti studenti, arrivati all’Università, parlano come se usassero una seconda lingua. Ma non ne possiedono un’altra, come prima). E il computer, lo sanno utilizzare bene e per gli usi della conoscenza, non solo per fare il solitario? Potremmo continuare, ma è inutile perché sono tutti quesiti retorici. La vera domanda, quella per la quale attendiamo risposta è: vi decidete o no a investire il triplo delle risorse, nell’istruzione? ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 Ott. ‘07 MUSSI: I PROFESSORI IN PENSIONE A 70 ANNI Domenico Ravenna GENOVA Rivedere l'età pensionabile del corpo accademico. Se ne parla da anni. Il ministro dell'Università e della Ricerca, Fabio Mussi, ha deciso di prendere l'iniziativa. E ieri, a margine della giornata inaugurale del Festival della Scienza, ha annunciato di aver pronto un provvedimento che anticiperà, con un meccanismo di gradualità, a 70 anni la soglia della pensione per i docenti universitari. Entro la fine di ottobre, Mussi presenterà in Consiglio dei ministri un disegno di legge che riguarderà i professori inseriti nella cosiddetta terza fascia (si tratta dei ricercatori universitari di ruolo) e i fuori ruolo (vale a dire i docenti di età compresa fra i 72 e i 75 anni). Il meccanismo che il ministro intende adottare prevede cinque "scalini" decrescenti: invece di innalzare l'età pensionabile, la riducono. Ogni anno l'età per congedarsi dall'insegnamento, oggi fissata a 75 anni, verrà anticipata di un anno in modo da raggiungere, nell'arco di un quinquennio, la soglia dei 70 anni. Il nuovo limite, individuato nel provvedimento annunciato da Mussi, punta ad avvicinare l'età pensionabile del corpo accademico italiano al livello medio, attestato intorno ai GS anni, vigente nel resto d'Europa. Nell'annunciare il disegno di legge, il ministro non ha trascurato di attenuare l'impatto sugli interessati. «Andare in pensione - ha sottolineato il ministro - non vuol dire andare via dall'Università dove, comunque, si possono fare numerosi lavori». Ma la finalità di fondo dell'operazione di svecchiamento degli atenei annunciata da Mussi è di liberare risorse per poter procedere all'assunzione di giovani ricercatori. Del resto, nel corso della cerimonia di inaugurazione del Festival della Scienza, giunto alla quinta edizione, il ministro ha rimarcato come nella legge finanziaria di quest'anno «ci sia un po' meno penuria di fondi e ci sia, invece, qualche soldo in più da destinare al mondo della ricerca e a quello dell'Università». «Mettere dei soldi - ha proseguito il ministro - significa esaltare le forti capacità scientifiche proprie dei nostri ricercatori: E, passo dopo passo, spero che sì vada sempre più nella direzione giusta, che è quella di un paese che sostiene la sua scienza e che punta sulla scienza dell'innovazione come una sua scelta strategica. Fuori da questo cammino - ha concluso Mussi - non c'è strada che porti in un porto sicuro e spero, quindi, che questo Governo e quelli che verranno, imboccheranno questa strada senza mai più deviare». MIUR ___________________________________________________________ Italia Oggi 24 Ott. ‘07 MODICA: DOCENTI FUORI RUOLO, TAGLI POSSIBILI DI BENEDETTA P PACELLI Cura dimagrante per le università. E atenei sempre più autonomi. Parte da qui la vera inversione di tendenza per il sistema universitario secondo il sottosegretario all'università Luciano Modica. Che nei giorni scorsi ha incontrato alcune rappresentanze del mondo accademico a Roma. Dagli stipendi alle attività di ricerca, fino alle sanzioni per chi non lavora con profitto: un'autonomia a tutto tondo la vera rivoluzione cui fa riferimento l'ex presidente della Conferenza dei rettori. Nel corso dell'incontro il sottosegretario ha affrontato anche il problema dei finanziamenti e, per rimpinguare le casse di un mondo in costante agonia economica, tra le soluzioni previste c'è quella di procedere a una diminuzione progressiva dei docenti fuori ruolo nell'arco di tre anni. La proposta, ha precisato Modica, potrebbe essere quella di chiedere al tesoro l'impegno di un prepensionamento dei fuori ruolo ultrasettantenni. Questo vorrebbe dire andare a un risparmio di circa 450 milioni di euro, che in sostanza potrebbero essere utilizzati per le assunzioni di circa 10 mila posti per ricercatori. Ma sul problema dei fondi il sottosegretario guarda all'immediato futuro con un certo ottimismo soprattutto per i fondi per i Progetti di ricerca di interesse nazionale. Che dal 2008 potrebbero subire «un discreto incremento» considerando che andranno a bilancio anche risorse del 2007 non utilizzate. Sul tavolo di discussione anche le nuove regole per il reclutamento per i ricercatori, bloccate dal consiglio di stato e sulle quali, denuncia, si stanno esercitando «poteri interdittivi forti». «Stiamo lavorando per limare il testo con la speranza che entro l'anno il regolamento sia pronto e dal 2008 i concorsi siano banditi finalmente con le nuove regole. Regole che dovranno essere ripensate anche per i concorsi per gli ordinari e gli associati bloccati da circa due anni per un regolamento attuativo della legge Moratti, di fatto, inapplicabile». AL ministero, ha spiegato il sottosegretario, si sta pensando a diverse soluzioni: o cambiare il regolamento togliendo le parti che non funzionano oppure varare un regolamento concorsuale anche per la prima e la seconda fascia, magari ripristinando la vecchia legge 210. ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 30 Ott. ‘07 LA TRASPARENZA SCELTA OBBLIGATA PER GLI ATENEI Manca solo un passaggio, poi sarà definita nei dettagli la griglia di indicatori del «test» che i corsi di laurea dovranno affrontare per essere attivati. Entro 30 giorni dalla registrazione del provvedimento sull'offerta formativa firmato venerdì scorso dal ministro dell'Università, Fabio Mussi, un decreto direttoriale è chiamato a individuare le informazioni obbligatorie che gli atenei dovranno offrire agli studenti. E secondo la linea prospettata dal Comitato nazionale di valutazione (Cnvsu) in un documento elaborato qualche settimana fa proprio in vista del decreto, la «trasparenza obbligatoria» degli atenei sarà davvero totale: e dovrà illustrare agli aspiranti studenti anche il curriculum scientifico di tutti i docenti, il successo degli ex-studenti sul mercato del lavoro, e la tipologia di strutture di supporto, fino all'indicazione degli alloggi e del costo della vita nella realtà dove si trova l'ateneo. Insieme all'efficienza, alle strutture e alla presenza di un corpo docente adeguato, la trasparenza entra da protagonista nei requisiti necessari per l'offerta formativa degli atenei, che ora hanno meno di tre anni (cinque per le università più giovani e per le private) per adeguarsi: da «minimi», com'erano definiti fino a oggi, i requisiti diventano, infatti, «necessari», e senza la "patente di qualità" assegnata dai nuclei di valutazione il corso di laurea non potrà vedere la luce. L'indicatore più stringente, e più temuto nelle facoltà, è quello che per ogni corso di laurea impone almeno quattro docenti di ruolo per anno. Con il rapporto che c'è oggi fra organico e numero di corsi attivati, questa asticella condannerebbe a una dieta spesso rigidissima il 70% delle facoltà. A uscire indenni dalla stretta, oggi sarebbero solo la Statale e il Politecnico di Milano (oltre allo Iusm di Roma, che però ha solo scienze motorie); la Federico II di Napoli e l'Università di Salerno registrano un piccolo deficit a scienze politiche, mentre alla Sapienza di Roma le facoltà da alleggerire sono sei. Tutte in rosso Trieste, Urbino e Viterbo, insieme a molti atenei privati che però possono contare su cinque anni di tempo per riallinearsi. I nuovi parametri, sottolineano dal ministero, nascono per mettere in moto una profonda «ristrutturazione dell'offerta formativa», per arrivare a una «sensibile riduzione dei corsi di laurea». Il decreto, attuativo delle Linee guida emanate a fine luglio, nasce per rimediare all'espansione disordinata dell'offerta, che oggi costringe gli studenti a scegliere fra oltre 3mila corsi di laurea (solo di primo livello) e a orientarsi fra più di 171mila diversi insegnamenti. Non tutti, però, sono d'accordo sulla ricetta, che, ad esempio, secondo Gennaro Ferrara, rettore della Parthenope di Napoli, «rischia di condannare le università giovani e in espansione; in questo modo un ateneo che attira un numero crescente di studenti non può attivare i corsi, perché le risorse per la docenza arrivano in ritardo rispetto al manifestarsi della domanda. Invece di un parametro generalizzato, sarebbe utile un'analisi rigorosa delle situazioni specifiche». Proprio ieri, del resto, i ritardi nella contrattazione erano alla base dello sciopero del comparto. Paolo Collini, preside di Economia a Trento, sostiene invece che «ora può essere giusto rendere più stringenti i requisiti, ma non sarebbe stato male preoccuparsi anche prima della loro effettiva applicazione», mentre fino a oggi «il ministero ha lasciato che molte facoltà non si adeguassero». G.Tr. ___________________________________________________________ Italia Oggi 30 Ott. ‘07 PAGELLE ANCHE PER I DOCENTI* L'orientamento del ministero dell’Università. Novità operativa dal 2011 La valutazioni per i ricercatori estese ai professori PAGINA A CUPA DI BENEDETTA P PACELLI Valutazione di merito estesa anche ai docenti universitari. È questo l'orientamento, secondo quanto appreso da ambienti vicini al ministero di Piazzale Kennedy, verso il quale si muove il ministro dell'università e della ricerca Fabio Mussi che, da sempre fautore della valutazione e del merito, sta pensando di estendere la pagelle non solo per i ricercatori, ma anche per i professori di prima e di seconda fascia. Ad aprire un dibattito sulla valutazione è stato un emendamento contenuto nel ddl (conversione del decreto legge governativo del 7 settembre 2007) contenente disposizioni urgenti in materia di avvio dell'anno scolastico e di concorsi per ricercatori universitari, approvato alla Camera a metà ottobre. La proposta era la seguente: affidare all'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario (Anvur) la verifica dei ricercatori e far pesare sulle università le conseguenze di candidature clientelari, per evitare che i concorsi, ancora banditi con le vecchie regole, fossero segnati dai localismi e dalla cooptazione. Insomma la valutazione, secondo il testo approvato a Montecitorio, viene affidata all'Anvur e, in caso di bocciatura, per scarsa qualità del lavoro accademico, scatterà la sanzione per l'ateneo che sarà costretto a pagare di tasca propria lo stipendio del dipendente assunto. Dopo tre anni l'esame sì ripeterà: se il ricercatore sarà di nuovo bocciato, l'ateneo deve continuare a pagargli a vita il salario che, quindi, non peserà più sulle casse dello stato. Ma all'aula del Senato c'è stato un dietro front su questa parte del dl: da destra e da sinistra sono spuntate le critiche. Risultato: formalmente l'aula ha fatto passare la novità, ma il governo si è impegnato a rivedere la questione, non appena ci sarà in discussione un provvedimento sull'università. E lo stesso ministro Mussi, infatti, non si è detto contrario sulla sostanza della norma, ma sulla sua formulazione che potrebbe determinare rischi e contraddizioni, perché se si valutano solo i ricercatori si giudica solo un segmento del mondo universitario. E quindi , perché non estenderlo anche alla docenza? In ogni caso c'è tempo per avere una lista dei promossi e dei bocciati. La valutazione non sarà operativa prima del 2011. Ma il dibattito resta aperto. C'è chi dall'opposizione si è dichiarato contrario al fatto che un agenzia valuti i singoli ricercatori perché si rischia in questo modo una sua paralisi. Ma c'è chi invece della maggioranza si dice d'accordo su valutazioni triennali e, magari, fatte anche dalla futura Agenzia. Sarebbe un segnale importante per le università che devono sapere che, se assumono un incompetente, poi pagano di tasca loro. Ma, sempre dalla maggioranza si ribadisce che certo il principio è corretto ma serve un provvedimento complessivo, che riguardi anche professori associati e ordinari. ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 24 Ott. ‘07 OCSE: L'ITALIA AGLI ULTIMI POSTI PER LA RICERCA MILANO Le imprese Ue incrementano gli investimenti in ricerca e innovazione, con picchi di eccellenza nel Nord Europa che spesso superano anche gli Stati Uniti. Invece Grecia, Italia e Ungheria sono i fanalini di coda dell'Ue, secondo l’Ocse. L'Italia inoltre è in ritardo anche negli investimenti nella formazione, così come nella ricerca universitaria e nella partecipazione del venture capital agli investimenti in ricerca e sviluppo. Mentre, al contrario, le imprese italiane ricevono una massiccia quota di contributi pubblici agli investimenti nella ricerca. Questo il quadro che emerge dal «Science, Technology and Industry Scoreboard aoo7», ovvero il Rapporto Ocse che monitora i principali indicatori relativi all'innovazione e alla ricerca fra i 30 Paesi membri dell'Organizzazione. «In Giappone e nella Ue - si legge nel documento - il rapporto fra spesa in Ricerca e sviluppo (R&D) e Prodotto interno lordo è salito nel 2005 rispettivamente al 3,3% e all'1,7%». La palma d'oro spetta alla Svezia (oltre il 4%), seguita da Finlandia, Giappone, Corea e Svizzera. L'Italia supera a malapena l’1%, con una quota di personale impiegato in ricerca e sviluppo dì poco superiore al5 per mille del totale (contro il io della media Ue e quasi il 15 per mille della Francia). Rispetto a una media Ocse del 7% l'Italia vanta invece un livello doppio di finanziamenti pubblici alla ricerca delle imprese (14%). R.E. ___________________________________________________________ Italia Oggi 27 Ott. ‘07 FONDI RICERCA .BANDO PRIN PARTECIPANO IN 80 MILA Sono circa 4 mila i Progetti ` di ricerca di interesse nazionale (Prin) presentati per questo 2007. Il numero totale dei progetti di unità operativa, cioè i progetti locali, è di oltre 13 mila a fronte dei circa 10 mila dell'anno precedente. Complessivamente il numero dei ricercatori partecipanti è arrivato a circa 80 mila. A disposizione circa 150 milioni di euro. Come ricorda una nota del ministero dell'università. Per la prima volta quest'anno, poi, secondo le nuove modalità definite dal ministero, potevano partecipare anche i ricercatori degli enti, le cui unità operative coinvolte nel Prin sono 609 con quasi 3.500 partecipanti. È previsto che una quota del 1096 dell'intero finanziamento sia riservata ai progetti i cui coordinatori scientifici abbiano meno di 40 anni. Ora sarà il comitato guida per il 2007, composto da nove esperti, che avrà il compito di curare la selezione delle proposte con funzione di garanzia nei confronti dello stesso ministero dell'università e della comunità scientifica. I criteri in base ai quali verranno valutate le domande di cofinanziamento sono esplicitati nel bando che assegna al comitato il compito di stabilire i criteri operativi per la valutazione e il punteggio da attribuire a ognuno dei criteri di valutazione. Per le operazioni di valutazione dei progetti il comitato si avvale di esperti anonimi che saranno scelti nella banca dati del Mur dalla quale verranno esclusi, naturalmente, tutti i partecipanti, a qualsiasi tiCalo, alle attività del Prin 2007. La percentuale forfettaria massima che le università possono contabilizzare, nella quota del 30% a proprio carico, per oneri gestionali legati al progetto, è stata portata dall’8 al 10% del costo totale del progetto. I giudizi valutativi su ciascun progetto saranno espressi sulla base di alcuni criteri: qualità scientifica, unitarietà, interesse nazionale e internazionale del progetto. Ma anche capacità del gruppo nazionale di ricerca di realizzare il progetto nei tempi previsti fino all'esperienza e all'autorevolezza scientifica del coordinatore nazionale e dei coordinatori di unità. Saranno motivo di valutazione anche la congruità della dimensione del gruppo nazionale e delle unità operative rispetto agli obiettivi di ricerca e all'interesse nazionale del progetto e -la sostenibilità finanziaria del progetto e congruità del prospetto finanziario. ___________________________________________________________ Il Giornale 30 Ott. ‘07 COSÌ FANNO CARRIERA I DOCENTI DELL'ULIVO Quando la politica entra negli atenei: candidati professori esaminati da commissari dello stesso partito, master per le Coop, generose consulenze da Milano All'università di Modena si insegnano cose importanti. Un valore su tutti: non scordarsi degli amici. E tanto meno dei compagni. Così anche nelle carriere dei docenti è tutto un riaffacciarsi di ricordi e vecchie conoscenze. Prendiamo il ds Giorgio Pighi. Ha fatto appena in tempo a festeggiare l'elezione a sindaco di Modena nel giugno 2004 che ha dovuto ricomprare lo spumante per brindare un altro successo, la nomina a professore associato di diritto penale. Dell'università di Modena, s'intende. Ebbene, diventato sindaco-professore Pighi ha deciso di finanziare il Master per la Sicurezza urbana della facoltà di giurisprudenza (2.500 curo a studente per l'iscrizione). Tra in docenti, oltre allo stesso sindaco, c'è anche il prof. Massimo Donini. Chi è costui? Il caso vuole che sia il presidente della commissione giudicatrice che nominò proprio Pighi professore associato. Insieme a lui - tra gli altri quattro commissari - c'era anche Stefano Canestrari, che col sindaco sembra condividere la passione politica (e lo schieramento), essendo stato rela tore in numerosi dibatti diessini e poi nominato da Prodi nel 2006 membro del Comitato nazionale di Bioetica. Coincidenze, certo. Del ,resto in Emilia i Ds la fanno da padrone, e anche il comitato scientifico del Master voluto dal sindaco non fa eccezione. La prof. Anna Coluccia ha partecipato a dibattiti in sezioni varie della Quercia e feste dell'Unità. Roberto Cornelli è membro di una commissione provinciale Ds. Luciano Vandelli è stato docente a un corso di formazione politica organizzato dai Ds nel 2006. Mancherebbero solo i parenti. Anzi no, perchè nel 2004 è spuntato un assistente nuovo a giurisprudenza, tale Francesco Pighi, nipote. La coop? Sono loro Le porte girevoli tra università e politica sono sempre ben lubrificate. Specie quando di mezzo ci sono la sinistra e le coop. Marco Causi è assessore al Bilancio della giunta Veltroni a Roma. Tre giorni dopo l'elezione di Veltroni nel 2001 Causi è stato giudicato idoneo per la qualifica di professore associato> che tuttora esercita all'università Roma Tre. Anche lui ha avuto la fortuna di avere commissari politicamente affini al concorso: Sebastiano Fadda, che ha collaborato con la Margherita; Paolo Pettenati ex assessore ad Ancona in una giunta Pds; e Paolo Palazzi, firmatario del manifesto «La cooperazione è un patrimonio del Paese da tutelare», stilato da Legacoop nell'aprile 2006, durante la bufera Unipol. Anche Causi deve credere profondamente nel valore sociale delle Coop, visto che è uno dei promotori del Master in economia e gestione delle imprese cooperative organizzato dalla sua facoltà. Il Master, che con 30 partecipanti porta nelle casse fino a 39mila curo a edizione, è tutto un intreccio di politica, coop e intelligentzia universitaria. Tra i docenti ci sono vari dirigenti di Legacoop e Fabrizio De Filippis, uno dei firmatari di quell'appello sottoscritto a suo tempo dal presidente della commissione che nominò Causi. Tutto ritorna nell'università italiana. Ma a sponsorizzare le coop non ci pensa solo Roma. C'è anche il Mic, ovvero il Master di management per l'impresa cooperativa, a Reggio Emilia. Nei fatti - hanno scoperto i giovani di An - una scuola di formazione per i quadri delle coop che utilizza la sede (e i professori) di quattro università e le strutture dell'ateneo emiliano. Il direttore scientifico del Mie è un certo Maurizio Brioni. Brioni chi? Il marito di Elena Montecchi, sottosegretario al ministero della Cultura... Logo Da 186mila Euro Problema: come si fa a trovare una «nuova identità visiva per riposizionarsi nella knowledge society»? Semplice, comprarsi un nuovo logo. Pazienza se lo stemmino costi uno sproposito, la bellezza di 186mila curo più Iva. Altro che «knowledge society», all'università La Sapienza di Roma sembra che abbiano poca conoscenza su come usare i quattrini pubblici. Anche perché con quella somma ' si poteva pagare lo stipendio di un ricercatore precario (1.000 curo al mese) per 15 anni. Alla faccia della fuga dei cervelli. Ma poi, a chi sono andati quei denari? Alla società Area di Antonio Romano Srl, docente a contratto nello stesso ateneo. Cioè, la Sapienza ha speso 186mila curo per affidare il lavoro a una società esterna che fa capo a un docente interno. Ma niente paura, perché è tutto risparmio. Come? Masi, lo spiega lo stesso Romano: «Certo, perché ho sottoscritto un contratto triennale con cui impiegherò a mie spese 12 persone su questo progetto. Basta fare i conti per capire che probabilmente io non ci guadagnerò». Pura beneficenza insomma. E perché tanta generosità? «Perché non c'è niente di più bello che trasformare l'idea personale in qualcosa di collettivo». Ah, gli ideali. Facoltà moltiplicate All'università della Basilicata gli studenti sono come i falchi pellegrini, ce ne sono sempre meno. Nel 2006 si sono laureati solo in 79. Gli immatricolati sono appena 1.295. Con questi numeri chiunque penserebbe a unificare, tagliare, eliminare corsi di ]aurea deserti e facoltà inutili. Il magnifico rettore Antonio Mario Tamburro invece no, non molla, anzi raddoppia. Ne] 2007 sono spuntati tre nuovi corsi di laurea, Economia, Scienze della formazione e Farmacia, con la promessa di attivare nel 2008 anche la facoltà di Architettura. Cioè pochi studenti, ma più professori, più contratti, più supplenze. Ma come avrà fatto a convincere il ministro Fabio Mussi, che aveva messo tra le priorità del suo mandato quello di impedire la proliferazione di nuovi corsi di laurea? «Vigileremo attentamente - disse il ministro - perché le "eccezioni" siano davvero poche». Ecco, l'università della Basilicata è una di quelle. È vero, Tamburro è uno che si dà da fare, e parecchio. In prima linea quando al ministero c'era Letizia Moratti, propose addirittura di chiudere l'università se fosse passata ]a riforma universitaria de] governo Berlusconi. Nel suo ultimo discorso inaugurale, davanti a un ammirato Fausto Bertinotti presente in Aula magna, ha persino citato Mao Ze Dong: «Noi insegniamo a pescare, se talvolta peschiamo lo facciamo per insegnare». E qualcuno che ha abboccato in passato l'hanno trovato. Nel 1999 la Regione finanziò 22 progetti di ricerca sui terremoti con la condizione di attivarli entro 24 mesi, pena la restituzione delle somme anticipate maggiorate degli interessi legali. Qualcosa andò storto, e ora ]'università si ritrova con un buco di 2 milioni di curo. Ma nonostante la voragine così profonda e le matricole in estinzione, l'università magicamente si amplia. Profondo sì, purché profondo rosso. IL DOSSIER BARONI E FEUDI LA DENUNCIA DEGLI STUDENTI AN da Milano Si intitola «Il Feudo. Sprechi, privilegi e nepotismo negli atenei» un dettagliato dossier sull'università italiana preparato dai giovani di Azione universitaria, movimento giovanile espressione di An. Lo studio è stato curato da Giovanni Donzelli, presidente nazionale di An, Augusta Montaruli e Massimo di Santo, che hanno raccolto ed elaborato le segnalazioni inviate dalla rete di Au presente negli atenei italiani. Sprechi, scandali, carriere fulminee, concorsi dall'esito scontato, coincidenze misteriose di nomi e persone. Un lavoro che i tre autori presentano come un work in progress da arricchire con nuove cronache «feudali» dalle università italiane. L'ESERCITO DEI CATTEDRATICI In Italia sono attive 86 università tra istituti statali e privati dove lavorano, tra ordinari e associati, quasi quarantamila docenti. Dalle aule escono ogni anno circa 300mila laureati, un numero ancora inferiore alla media europea anche se negli ultimi 10 anni la quantità dei laureati è raddoppiata, grazie soprattutto alle lauree brevi ___________________________________________________________ Italia Oggi 30 Ott. ‘07 NUMERO CHIUSO TEST, CRITERI DA RIVEDERE E ATTUARE Nuovi criteri sui contenuti dei bandi dei test di ingresso, indicazioni di carattere operativo,su come gestire gli esami, ma anche una se rie di consigli di modifica tecnica, Per esempio sui fogli dei test che vengono distribuiti agli studenti con la proposta, fra le altre, di aggiungere una casella quando il candidato decide di non rispondere alla domanda. Si muovono su questi tre filoni i suggerimenti dati dall'Alto commissario per la corruzione Achille Serra al ministro Mussi, per migliorare i test di ingresso nelle università a seguito degli scandali sui test truccati. Serra ha, poi, riferito di aver presenziato ad alcune sessioni di esame, riscontrando che, in alcuni casi, «gli esami vengono dati gomito a gomito», che «spesso si usano i cellulari, e che non basta controllare solo il nome e il cognome dello studente». Serra ha effettuato un'indagine nelle università più grandi. Da alcune proposte e indicazioni. In merito ai bandi è stato suggerito di richiedere se il candidato è già iscritto a un'altra facoltà. Sono stati poi dati indicazioni di tipo operativo, come l’istituzione di un comitato di garanti. È stata poi suggerita una proporzione tra vigilanti e numero di candidati che non deve essere inferiore a 1 a 25. Insomma per Serra le regole ci sono, ma «manca spesso l'attuazione pratica», «Abbiamo terminato la prima fase di accertamenti e abbiamo suggerito al ministro di emanare una direttiva. Anche se, i rettori potranno disattenderla». ___________________________________________________________ TST 24 Ott. ‘07 HONSEL: I MIEI ALGORITMI SOTTO LA DOCCIA Oltre il 40% degli studenti delle scuole secondarie ha debiti formativi in matematica: il ministro Fioroni l'ha definita un'emergenza. Di conseguenza, scende il numero delle vocazioni a intraprendere percorsi scientifico- tecnologici all'università, cosi importanti nell'era dell'innovazione. I Festival della Scienza e della Matematica, però, aumentano ogni anno di numero e per numeri di spettatori. Siamo di fronte all'ennesimo paradosso italiano? La matematica è affascinante solo se vista da lontano? Perché gli italiani, quando arriva il momento di ragionare, cosa che sanno fare molto bene, preferiscono esercitarsi nell'argomentare persuasivo dell'avvocato piuttosto che in quello dimostrativo del matematico? E’ ingenuo o, peggio ancora, semplicistico, immaginare di poter avere un'unica risposta. Ma il problema comunque resta e dobbiamo tutti porcelo all'inizio, quando affrontiamo un Festival della Scienza. Strategia personale La mia personale strategia per ristabilire un equilibrio tra le due culture è quella di prendere spunto dal lato divertente e quotidiano della matematica per far riflettere su questa disciplina soprattutto in modo attivo e partecipativo. Rifuggo la qualifica di «spiegologo» della scienza. Voglio invece presentarmi come un «facciofarologo». Perché la matematica o si fa o non è. Non è possibile spiegarla senza farla fare. Senza farla riconoscere in tanti momenti apparentemente non matematici della vita quotidiana: dalle battute di spirito alle altre manifestazioni più serie dello spirito quali la letteratura. E fin qui ho parlato solo di matematica. Vorrei anche aggiungere l'informatica. E’ una disciplina ormai considerata meramente come la capacità di essere bulimici consumatori di prodotti digitali inutilmente costosi, piuttosto che quella che ci insegna ad essere consapevoli utilizzatori della dimensione logica e procedurale insita in tutte le attività. Parlare di algoritmi quotidiani mi dà quindi un'occasione divertente per condurre la mia personale rivoluzione culturale. Spesso, senza saperlo, siamo dei matematici informatici assai migliori di quanto immaginiamo. Chi di noi si lava i denti procedendo a caso? Chi, forse ancora alla ricerca della pienezza delle proprie facoltà mentali, ragiona ogni mattina su come prepararsi il caffé, su come farsi la doccia? Nessuno credo. Nel corso degli anni ciascuno di noi ha elaborato una procedura fissa che compie quasi automaticamente. Ma non ha solamente trovato un modo di procedere che gli permetta di portare a termine quel determinato compito, per quanto banale sia. Ha piuttosto perfezionato tale procedura così da risparmiare qualcosa: il tempo, l'acqua, lo shampoo, il numero di volte in cui regolare la temperatura dell'acqua... Avevo un amico che aveva sviluppato un modo di farsi la doccia che riducesse l'acqua che gli usciva dal buco nella tenda, un altro che, avendo lo scarico difettoso, procedeva a intermittenza in modo che l'acqua non debordasse. (Incidentalmente, entrambi, a furia di perfezionamenti, finirono per non farsi più la doccia). Comunque sia, in tutti questi casi l'operazione che compiamo è quella di definire un algoritmo che poi andiamo ad ottimizzare, ovvero a renderlo più efficiente. Ma cos'è un algoritmo? una procedura, un metodo, una ricetta per risolvere un determinato compito o raggiungere uno specifico obiettivo o soddisfare una certa aspettativa, che è stata distillata cosi tanto, i cui passi elementari sono stati individuati e precisati con così tanta precisione, da poter diventare essa stessa oggetto di studio matematico rigoroso. Gli algoritmi quotidiani sono innumerevoli, non sottovalutiamoli. Alcuni ci portano, con naturalezza, alla soglia di problemi informatici importanti. Dovendo pagare la consumazione al bar, come possiamo ridurre il numero di spiccioli di resto che ci verranno dati? O come possiamo pure ridurre il numero degli spiccioli che abbiamo in tasca? Entrambi gli algoritmi, il più delle volte, hanno anche il vantaggio estetico di non farci abbassare ulteriormente il cavallo dei pantaloni, e regalarci un sorriso compiaciuto dalla cassiera. Questi sono algoritmi per risolvere problemi quotidiani, ma che ci danno il sapore di uno dei problemi aperti più importanti della matematica, il famoso P=NP che assicurerà un milione di dollari al suo solutore, essendo incluso nella lista dei «problemi del millennio» dell'Istituto Clay, oltre a rendere più rapido il compito di allocare qualunque tipo di risorsa. Le quattro operazioni In matematica gli algoritmi sono tanti. Quelli per fare le quattro operazioni. Quello per risolvere le equazioni di secondo grado. Quello per calcolare il punto medio di un segmento con riga e compasso. Quello per calcolare il massimo comun divisore di due numeri naturali... FURIL0 HONSELL UNIVERSITA' DI UDINE (A proposito: se abbiamo due damigianette piene di vino, ma anche l'olio va bene, una di sette litri ed un'altra di quattro, ed abbiamo inoltre un'altra damigiana abbastanza capiente ma vuota, è possibile lasciare esattamente un litro in una delle due damigianette a furia di fare travasi tra le tre damigiane? Se si, come e perché?). Algoritmi e anagrammi L'etimologia stessa della parola algoritmo è piuttosto interessante. Pur essendo l'anagramma di logaritmo, non ha nulla a che fare con esso, seppure il concetto di logaritmo ricorra molto spesso quando si analizzano algoritmi efficienti. Fa piacere, invece, alla corte di Federico Il, ricordare un'altra corte, quella dello sceicco abbaside Al Mansur, fondatore di Bagdad, che diede il via nell'VIII secolo d.C. allo sviluppo della civiltà araba. Tra i vari letterati, artisti e scienziati che radunò alla sua corte vi era pure il matematico Muliammad ibn Ms al Khwarizmi, che portò la matematica indiana a Occidente. Algoritmo deriva dalla latinizzazione del suo nome: al Khwarizmi fu un personaggio davvero notevole. A lui dobbiamo non solo l'etimologia di algoritmo, ma anche quella di un altro vocabolo usatissimo in matematica: algebra. Egli fu infatti l'autore dell'opera «al-Kitab al-mukhtasar fi hisab al- gabr wa al-muqabala», nella quale descriveva la soluzione delle equazioni di primo grado e spostava, «al-jabr», appunto, quantità da una parte e dall'altra dei simbolo di uguaglianza. Diventare più consapevoli degli algoritmi quotidiani migliora la qualità della nostra vita e ci permette di ridurre le tensioni e le frustrazioni come quando si cerca un parcheggio o si è in coda, mentre nella fila parallela tutti procedono speditamente. Il paradosso italiano Diventando consapevoli di cos’é una crescita esponenziale non solo ci commuoveremo più profondamente alla poesia del canto XXXVIII del Paradiso di Dante, quello più matematico, ma anche eviteremo di imbarcarci in un procedimento inutilmente lungo, quando ne avremmo potuto fare a meno. Non so se, partendo dalla matematica quotidiana, riusciremo a risolvere il paradosso della matematica italiana, ma, di certo, ci divertiremo di più ragionando matematicamente e ragioneremo di più matematicamente quando andremo a divertirci. E entrambe sembrano cose buone e lodevoli! RUOLO: E'PROFESSORE Di INFORMATICA E RETTORE DELL'UNIVERSITA Di UDINE RICERCHE: SEMANTICA DEI LINGUAGGI Di PROGRAMMAZIONE IL LIBRO: «L'ALGORITMO DEL PARCHEGGIO» - MONDADORI ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Nov. ‘07 CHI FRENA I CERVELLI STRANIERI di Andrea Ichino Il vero sintomo dei problemi dell'università italiana non è tanto la fuga dei cervelli nostrani, quanto piuttosto il mancato arrivo di "cervelli" di altri Paesi. Se i nostri atenei funzionassero bene, sarebbero una meta attraente per docenti e studenti stranieri, e lo scambio nei due sensi sarebbe perfettamente fisiologico, anzi mutualmente benefico, ma così non accade. A chi però prova in Italia a costruire isole d'eccellenza che possano attrarre studiosi dall'estero sembra che lo Stato e i suoi burocrati si divertano con meditata perfidia arendere il compito impossibile. A Bologna ha mosso i primi passi la Laurea Magistralis in Economics i cui corsi, in inglese, hanno già attirato le domande di 24 stranieri da quattro continenti e 32 italiani (http://imec.económia.unibo.it/). Soltanto informare la platea internazionale di questa opportunità è stata un'impresa difficile perché i burocrati sono convinti che tutti, a Pechino, Stoccolma o Buenos Aires, comprino ogni mattina la Gazzetta Ufficiale e sappiano interpretare il burocratichese dei bandi italiani. All'estero, verso dicembre di ciascun anno, gli studenti dell'ultimo corso di un cielo di studi fanno domanda per il cielo successivo al quale sono ammessi ad aprile sotto condizione che ottengano il titolo a giugno. Questa pratica ragionevole consente di evitare agli studenti di perdere un anno tra un ciclo e un altro e di prepararsi per tempo a un trasferimento in una città o addirittura un Paese diversi. Ma da noi, come recitano le 37 pagine (in italiano) delle istruzioni ministeriali, il burocrate vorrebbe che le domande per il ciclo successivo fossero presentate durante l'estate in modo da poter controllare l’equipollenza" del titolo inferiore, che deve essere già stato conseguito. Non solo, ma pretenderebbe di comunicare il 28 settembre, ad esempio a un danese, che è stato ammesso e che il l'ottobre può presentarsi a Bologna, ore 9.00, per la prima lezione. E il danese dovrebbe solo considerarsi fortunato di non essere un extracomunitario cinese, perché in quel caso dovrebbe recarsi fisicamente (nell'era di internet) all'ambasciata italiana del suo Paese; probabilmente non dietro l'angolo, per chiedere il visto entro una data ahimè incompatibile con il tentativo di non perdere l’anno. Proprio non si capisce perché in Italia le procedure di ammissione debbano aver luogo a settembre invece che durante il precedente anno accademico. Forse perché il burocrate pensa che gli studenti debbano andare all'università sotto casa e possano quindi decidere all'ultimo, ma se vogliamo attirare gli studenti stranieri, soprattutto quelli bravi, non possiamo non adeguarci al calendario internazionale. Non parliamo poi delle borse di studio, che sono poche, difficili da bandire per stranieri anche in caso di fondi privati e che avrebbe senso allocare agli studenti meritevoli, i quali altrimenti andrebbero altrove: non stiamo parlando di diritto allo studio nella scuola primaria! Purtroppo il burocrate sembra assai poco interessato alla qualità del candidato, mentre vorrebbe obbligare gli stranieri ad ottenere la certificazione Isee del loro reddito familiare: è difficile capire come ottenerla in Italia, figuriamoci dall’Azerbaijan! E a complicare le cose ci si mette anche la Questura che vuole garanzie sul sostentamento degli extracomunitari: tra le occupazioni elencate nel formulario, quella di ricercatore non è nemmeno menzionata, mentre modelle e giocatori di calcio sono ovviamente previsti. Si potrebbe continuare a lungo, ma il messaggio è uno solo: se vogliamo attirare studenti e docenti stranieri, come sarebbe utile e naturale, dobbiamo smettere di soffocare le università in una rete di vincoli formali che impediscono di realizzare ciò che peraltro viene loro chiesto di fare. Piuttosto, lo Stato abbia il coraggio di sostituire i controlli formali ex ante con seri controlli ex post sul raggiungimento di obiettivi preventivamente dati. Ad esempio, invece di imporre assurdi requisiti di uniformità tra discipline, senza peraltro riuscire a limitare la proliferazione di corsi di laurea (come l'obbligo di suddividere il sapere nel numero - chissà come scelto - di 15 insegnamenti per tutte le lauree magistrali da astronomia a biologia, da legge a medicina), il ministro Mussi lasci libere le facoltà di organizzarsi come meglio credono e abbia invece il coraggio di tagliare ex posti fondi ai corsi di laurea che non meritano sulla base del giudizio dì esperti internazionali. Da ultimo, e qui lo Stato non c'entra, qualcuno si leverà a difesa dell'italiano, ma dobbiamo rassegnarci al fatto irreversibile che non è in questa lingua che si discute nella comunità scientifica internazionale. Possiamo decidere di isolarci autarchicamente, ma se vogliamo attrarre stranieri non abbiamo alternativa. E, a ben vedere,in questo modo aiuteremo assai di più la diffusione della nostra lingua, perché gli studenti stranieri impareranno con piacere l'idioma di Dante fuori dalle aule. andreaichino@unibo.it ___________________________________________________________ Italia Oggi 2 Nov. ‘07 DOTTORATI DI RICERCA, C'È LA RIFORMA Il ministro Mussî prepara la rivoluzione: arrivano borse (li studio più ricche e scuole ad hoc Si punta sulla professionalizzazione dei giovani accademici DI BENEDETTA P PACELLI ottorandi come semplici portaborse e come collaboratori di cattedra. Forse un tempo però. Perché d'ora in poi il terzo livello di studio universitario, cioè il dottorato di ricerca (dopo la laurea triennale e quella magistrale), sarà all'insegna della qualità. Secondo quanto risulta a ItaliaOggi, il ministro dell'università e della ricerca, Fabio Mussi, starebbe per firmare i decreti sulla riforma del terzo livello accademico. Un provvedimento che, secondo le intenzioni ministeriali, dovrebbe «enfatizzare e va lorizzare la figura del dottore di ricerca, ma soprattutto tentare di dare delle opportunità affinché il dottorato non rappresenti solo il primo passo della carriera universitaria». Coerentemente con tutto questo si colloca anche l'annuncio dello stesso Mussi di uno sblocco di 20 milioni di euro riservati proprio al diritto allo studio e alle borse dei dottorandi che saranno destinate interamente per rimpinguare le tasche dei dottori. Fondi, questi, che certo non basteranno a coprire con le provvidenze economiche tutti gli attuali dottori (solo il 56% di questi ha una borsa e il restante è privo di copertura), ma saranno sufficienti a portare lo stanziamento previsto, a ridosso dei mille euro come è stato richiesto, tra l'altro, dall'Associazione dei dottorandi italiani che aveva lanciato una petizione con la sottoscrizione delle firme. Del resto, lo stesso provvedimento del ministro Mussi punterà anche ad affrontare la questione della copertura economica per i futuri dottori di ricerca eliminando proprio la possibilità che questi possano svolgere attività senza essere retribuiti. Ma soprattutto il decreto, che i tecnici del ministero stanno mettendo a punto, spinge sull'incentivazione, l'accreditamento delle scuole di dottorato. Perché saranno proprio queste il cuore pulsante della riforma. Sarà quindi favorita la nascita a livello di singoli atenei di scuole di dottorato divise per macro aeree di interesse aperte anche al supporto economico di imprese. La vera novità sarà infatti quella di puntare alla professionalizzazione del dottorando, creando un vero collegamento con il mondo delle attività produttive, un'attività di coinvolgimento e percorso formativo fatto con le imprese. Un punto questo che andrà a colmare anche un vuoto legislativo: l'articolo 4 della legge n. 210 del 1998 (relativa alle norme per il reclutamento per i ricercatori s i professori universitari) rimandava infatti a due regolamenti uno dei quali, mai definito, doveva servire a incentivare il collegamento con il mondo della produzione. Ora il decreto servirà a colmare questo vuoto legislativo puntando anche su questo punto per far sì che chi ha il titolo trovi nel concreto uno sbocco occupazionale. Ci saranno poi maggiori controlli sulla qualità della ricerca: per avere il titolo, infatti, bisognerà fare un lavoro originale e autonomo. _______________________________________________________ L’Unione Sarda 28 Ott. ‘07 MISSIONE DELL’ATENEO NELLE SCUOLE CINESI: «ISCRIVETEVI DA NOI» Anche l’Università di Cagliari va a caccia di studenti cinesi da attrarre nei corsi di laurea delle facoltà cagliaritane. Lo ha fatto partecipando alla Fiera sull’educazione secondaria europea, che si è svolta a Pechino, con una delegazione guidata dal prorettore all’Internazionalizzazione, Giovanna Maria Ledda. Obiettivo, migliorare i numeri attuali: risultano iscritti all’Ateneo infatti soltanto tre ragazzi cinesi, oltre a due studentesse in città attraverso un programma di scambio culturale. Dati bassissimi se si considera che sono 1.800 i cinesi che seguono un corso di formazione in Italia. Ancor più irrisori perché in tutto i ragazzi che vanno a studiare fuori dalla Cina sono circa 90 mila. Una spedizione che puntava a colmare il ritardo accumulato nell’attrazione di studenti cinesi nel nostro paese. Qualche passo rispetto a quattro anni fa è stato fatto: nel 2003 erano appena quaranta i cinesi iscritti in corsi di laurea o di studio in Italia. Come detto, dai dati dell’Istituto di Cultura italiano a Pechino, si è arrivati a 1.800, il due per cento del totale dei cinesi che vanno a studiare all’estero. Ancora molto poco. A Cagliari la situazione è peggiore: sono tre gli studenti iscritti, due nella facoltà di Scienze Politiche e uno in Lingue e letterature straniere. Grazie al programma di studio culturale Globus sono in città altre due studentesse cinesi. Troppo poco nonostante ogni corso di laurea abbia un certo numero di posti (uno o due) riservato proprio agli studenti che arrivano dalla Cina. Per cercare di potenziare lo scambio, secondo Giovanna Maria Ledda, è necessario puntare ad accordi con le università cinesi: «Grazie a questi progetti - ha spiegato durante la Fiera di Pechino - si hanno maggiori garanzie che gli studenti siano qualificati e meritevoli. Così si può arrivare a uno scambio fra i nostri studenti che scelgono di formarsi in Cina e i cinesi che vengono in Italia e a Cagliari». Durante la manifestazione sono state evidenziate delle difficoltà. Tra i problemi più frequenti quello del livello di formazione dei ragazzi: in Cina solo il 50 per cento degli studenti che ha superato l’esame di ammissione arriva alla laurea, mentre di quelli che si laureano solo il venti per cento prosegue la formazione con specializzazioni e soltanto il cinque per cento arriva a un dottorato. Tra gli esempi da seguire, quello dell’Università di Genova che ha duecento studenti cinesi iscritti: frutto di un lavoro di collaborazione che va avanti da tre anni. Matteo Vercelli _______________________________________________________ Corriere della Sera 2 Nov. ‘07 SOLENNI IMPEGNI PER DOPODOMANI MA SPENTE LE LUCI SALTANO I TAGLI Fausto Bertinotti andrà al prossimo congresso della Sinistra Europea, dov'è invitato non nel ruolo di presidente della Camera ma di comunista, con un volo di linea. Direte: embè? Ve l'immaginate se Angela Merkel avesse dato alle agenzie la notizia che era andata a Ischia, come ha fatto, con la Lufthansa? I tedeschi sarebbero saltati su: ci mancherebbe altro! Eppure ciò che altrove è scontato, da noi è finito in un dispaccio Apcom. Titolo: «Costi politica / Bertinotti a Praga senza volo di Stato». Sia chiaro: applausi. Meglio tardi che mai. Il presidente della Camera, la cui scelta di andare con l'aereo istituzionale anche in visita ai monaci del monte Athos, in vacanza in Normandia e perfino a una festa privata a Parigi aveva sollevato un mucchio di polemiche, ha fatto bene a tagliare con queste abitudini che, scrisse al Corriere, gli erano state «imposte dai servizi di sicurezza della Camera ». Resta tuttavia il tema: nei palazzi della politica si sono affermati negli anni tanti privilegi che perfino la scelta di prendere un volo di linea, come già capitò a Franco Marini quando fece visita al figlio a Edimburgo o a Tommaso Padoa- Schioppa, l'unico a essere andato spesso ai vertici internazionali con aerei low cost, viene considerata una notizia. Se non addirittura una notizia eccentrica. Il punto è che a distanza di mesi dall'esplosione del dibattito nel Paese sui costi della politica e su quanto viene restituito ai cittadini in termini di efficienza, al di là di segnali di buona volontà, volonterose sforbiciatine e solenni impegni per domani o dopodomani (come la riduzione dei ministri e dei sottosegretari o degli stessi parlamentari: ma dal prossimo governo e dalla prossima legislatura, s'intende), l'impressione netta è che quelli che Luigi Einaudi chiamava «i padreterni » non sappiano bene quali pesci prendere. Sanno che devono marcare qualche svolta netta. Chiara. Concreta. Ma non riescono a decidere esattamente da cosa partire. Basti vedere i pezzi perduti per strada da chi aveva garantito l'arrivo di tagli radicali. Tagli sui quali lo stesso Romano Prodi si era impuntato: «Guardate che se non ci mettiamo questa roba dentro, sono anche disposto a non farla per niente la Finanziaria». I consigli provinciali, comunali e circoscrizionali dovevano subire inizialmente una riduzione del 20%. Poi ridotta al 10%. Poi sparita. Le circoscrizioni dovevano essere abolite ovunque salvo che nelle metropoli. Poi salvo quelle delle città con almeno 250 mila abitanti. Poi ogni soppressione è scomparsa. Le comunità montane dovevano essere drasticamente diminuite concentrando gli aiuti verso quelle sopra i mille metri di altitudine. Poi sopra i 700. Poi sopra i 600 per le Alpi e i 500 per gli Appennini. Poi boh… L'ultimo altolà è arrivato ieri l'altro dallo stralcio di un emendamento che, presentato da Massimo Villone (autore con Cesare Salvi del libro denuncia «Il costo della democrazia») chiedeva che nel programmare le spese venisse finalmente adottato dagli organi costituzionali e a rilevanza costituzionale (Camera, Senato, Quirinale, Cne, Consulta, Csm...) il punto di riferimento dell'inflazione programmata e non più del «Pil nominale». Di che si tratta? Di un giochino da tempo utilizzato per mascherare i continui, irrefrenabili, mostruosi aumenti dei costi. Un esempio? Mettiamo che un anno l'inflazione programmata sia del 2% e la crescita dell'economia stimata di un altro 2%: il «Pil nominale» (cioè la crescita economica prevista più l'inflazione) sarà automaticamente del 4%. Il che significa che se tu vai a spendere il 3,9% in più rispetto all'anno prima puoi sì vantarti di rimanere al di sotto del «Pil nominale», ma aumenti i costi del doppio dell'inflazione. Tutto chiaro? L'emendamento Villone faceva chiarezza. Ed era stato fatto proprio dal relatore Giovanni Legnini, vale a dire dal governo. Ma lì la cosa si è inceppata. Il Colle, con una nota del segretario generale Donato Marra, faceva sapere d'aver già deciso per proprio conto: «Il bilancio di previsione dell'amministrazione del Quirinale per l'esercizio finanziario 2008 sarà predisposto in modo da mantenere la richiesta della dotazione a carico del bilancio dello Stato entro il tasso di inflazione programmato». Il presidente del Senato Franco Marini e quello della Camera Fausto Bertinotti, convenivano «sull'opportunità che, con autonoma decisione dei due Uffici di Presidenza, la dotazione ordinaria di Camera e Senato per l'esercizio finanziario 2008 venga ridotta in modo che il suo incremento, rispetto alla dotazione del 2007, non superi l'indice di inflazione programmata ». Risultato finale, lo stralcio dell'emendamento: «ledeva l'autonomia degli organi istituzionali». Tutto è bene quel che finisce bene? No, risponde Villone. Scusate, chiede, ma chi dovrebbe decidere, se non il Parlamento? C'è qualcuno più sovrano del Parlamento espressione della volontà popolare? «Nella esperienza costituzionale di tutti i paesi è sempre il parlamento l'organo legittimato a decidere l'attribuzione di risorse agli organi costituzionali». Quindi «non si capisce davvero perché il Parlamento inglese possa decidere e decida la “civil list” della Corona, e a quello italiano non sia invece consentito decidere sulla Corte costituzionale, la Corte dei conti o il Parlamento medesimo». Di più: «Non si capisce perché la legge possa in Danimarca stabilire che le spese della Corona sono annualmente aumentate secondo l'indice di incremento salariale del settore pubblico, e invece il Parlamento italiano non possa stabilire analogo principio per gli organi costituzionali». Parole d'oro. Per non dire di un «dettaglio » niente affatto secondario. Il voto alla Finanziaria avrebbe reso immediatamente operativa l'abolizione del giochino sul Pil nominale, recuperando 45 di quei 53 milioni di euro (pari quasi al costo annuale della monarchia britannica) che i vari organi istituzionali costerebbero in più nel 2008 in più. E avrebbero coperto parte dei finanziamenti necessari per abolire i ticket sulla specialistica e la diagnostica. Da subito. Così, invece, c'è solo un impegno. Per carità: solenne. Ma ci si consenta di ricordare che solo quattro mesi una notizia d'agenzia tranquillizzava i cittadini dicendo che «anche nell'ultimo anno le spese della Camera sono diminuite, in linea con un trend che dura ormai da alcuni anni e sui cui si sta ancora lavorando in modo da ottenere sempre maggiori risparmi». Parole stupefacenti se confrontate con i costi reali di Montecitorio: 749 milioni e 895 mila euro nel 2001, 980 e 300 mila cinque anni dopo, con responsabilità quella volta più della destra che della sinistra e un balzo del 16% oltre l'inflazione. Titolo dell'agenzia: «Camera, nel 2006 è costata 980,3 milioni, risparmi per 42,8». Ma come? Dove? Rispetto a cosa? Ovvio: alle previsioni fatte sulla base del Pil nominale. Per carità: fidarsi è un obbligo. Però ___________________________________________________________ Il Giornale 24 Ott. ‘07 TROPPA DISINFORMAZIONE SUL RISCALDAMENTO GLOBALE Jack Steinberger: «Al Gore non è uno scienziato Io dimostro con formule matematiche che ogni tipo di energia inquina: più consumiamo più inquiniamo» CARLO FAHICHIOTTI Le emissioni di anidride carbonica stanno uccidendo il clima mondiale? Ovvero, per dirla con il titolo di una tavola rotonda in calendario il prossimo 1 novembre a Genova (ore 10.30, Palazzo Ducale), nel quadro del Festival della Scienza, il «CO2 è colpevole o innocente»? A dibattere, un gruppo di scienziati di varie discipline (oceanografia, chimica, glaciologia), tra cui il premio Nobel per la fisica nel 1988 Jack Steinberger. Steinberger nato in Germania nel 1921, ma emigrato negli Stati Uniti nel 1934, dopo aver studiato, tra gli altri, con Enrico Fermi ed Edward Teller, dal 1968 al 1983 ha lavorato al Cern di Ginevra, dove tuttora continua l'attività di ricerca. Docente alla Scuola Normale di Pisa, dal 1997 è membro dell'Accademia dei Lincei. Professor Steinberger, lei è colpevolista o innocentista, nei confronti del Co2? «Sono convinto che il riscaldamento globale del pianeta sia anche frutto della concentrazione atmosferica di anidride carbonica. Ma tengo a sottolineare che quanto affermo nasce da un ragionamento scientifico, oltre che dai lavori di un gruppo internazionale di esperti del clima riuniti nell'Intergovernmental Panel on Climate Change, l’IPCC». Quindi le sue affermazioni nascono dal suo lavoro di fisico atomico? «Il mio lavoro consiste non nel trovare soluzioni, ma nel capire cosa sta succedendo nell'atmosfera. A Genova cercherò di aiutare le persone a capire come l'atmosfera terrestre, a causa delle massicce immissioni di Co2, abbia subito grandi modificazioni, soprattutto negli ultimi cento anni. E nel mio discorso farò uso di formule e dimostrazioni matematiche perché io sono uno scienziato». Pensa che siamo ancora in tempo per invertire la rotta? «Sono molto pessimista sul futuro della nostra società: più consumiamo e più produciamo anidride carbonica, è un circolo vizioso e le nuove potenze industriali, come la Cina, stanno contribuendo in maniera pesante a questo circolo. Le nostre economie capitalistiche si basano sul consumo: più le persone consumano, maggiore è la crescita. Ma, appunto, più le persone consumano, più cresce l'inquinamento atmosferico». Impostato così sembra più un discorso da economista o da sociologo che da fisico... «AL contrario, è un approccio scientifico: nel mio discorso dimostrerò la mia tesi esponendola con formule matematiche, non economiche o sociologiche. Perché, ripeto, io sono uno scienziato e mi baso su dati scientifici: il mio lavoro consiste nell'analizzare il passato, studiare il presente e cercare di delineare il futuro». Una soluzione potrebbe essere spostare la leva del consumo energetico sul nucleare? «So che in Italia non amate il nucleare e nemmeno io sono un fan di questo tipo di energia. Tuttavia bisogna tener presente che attualmente solo il 5 per cento dell'energia da noi utilizzata è di origine nucleare, la maggior parte deriva dagli idrocarburi come il petrolio. La cosa più importante, a mio parere, non è il tipo di energia utilizzata; ma ricordarsi che usare energia, di qualunque tipo, produce inquinamento, e questo ce lo dice la fisica. E perché usiamo l'energia? Perché consumiamo. Da qualunque parte la vediamo, il nodo è sempre quello: più consumiamo, più inquiniamo». II sottotitolo della tavola rotonda cui lei parteciperà a Genova suona «Dal caos climatico al caos dell'informazione». I media informano correttamente l'opinione pubblica su questi temi? «Ammetto che in generale lo science reporting, l'informazione scientifica, è un'impresa difficile, anche perché ormai gli scienziati sono sempre più specializzati. Per esempio, leggo articoli che hanno molte difficoltà a esporre il nostro lavoro al Cern, che riguarda la fisica sub- atomica. Dico leggo perché io non guardo la televisione, leggo i quotidiani e mi accorgo di quanto i giornalisti siano in imbarazzo nel riportare correttamente lo scenario scientifico. Da una parte è complicato cercare di convincere i non addetti ai lavori dell'importanza e della rilevanza delle,nostre ricerche; dall'altra è importante spiegare quanto facciamo. Il risultato, purtroppo, spesso è che l'opinione pubblica è confusa». Quando si parla di riscaldamento globale i mass media amano usare toni apocalittici: desertificazione, scioglimento dei ghiacci e così via. Concorda con quest'approccio? «Chiaramente sono molto preoccupato per l'impatto che il global warming, il riscaldamento globale, sta avendo sul pianeta, e di conseguenza sul nostro futuro, ma non amo il modo in cui questa situazione viene presentata di solito all'opinione pubblica. Ho visto il documentario di AL Gore, "Una scomoda verità", e non mi sono trovato molto d'accordo con esso: non è facile, da un punto di vista scientifico, dimostrare le conseguenze reali del riscaldamento globale, parlare di innalzamento dei mari o desertificazione». Quindi cosa ne pensa del fatto che Gore abbia ricevuto quest'anno il Nobel per la pace proprio per il suo impegno contro il global warming? «Credo che Gore stia facendo un buon lavoro d'informazione con dei mezzi che non sono i miei. Lui non è uno scienziato. Il suo film può avere effetti positivi, incrementare la consapevolezza, ma non va considerato un lavoro scientifico». Tracciando la sua autobiografia in occasione della consegna del Nobel lei scrisse: «Suono il flauto, purtroppo non molto bene». Lo suona ancora? «Sì. In realtà da giovane volevo suonare il pianoforte, ma visti i risultati disastrosi qualcuno mi consigliò di passare al flauto. Suonare questo strumento mi dà grande piacere, soprattutto quando facciamo musica da camera, con amici, colleghi o famigliari. Trovo la musica da camera più interessante ancora dell'opera o della musica sinfonica: suonare assieme un brano di Mozart è un piacere sociale oltre che una bellissima esperienza. In un certo senso la musica da camera è una metafora della ricerca scientifica: si lavora in gruppo, non esistono i solisti. Si pensa che il Nobel premi i geni, ma almeno per quanto riguarda le discipline scientifiche non è così: Einstein forse era un genio, ma ormai un premio è il coronamento di un lavoro d'équipe. Il Nobel va a uno o due o tre persone (nel 1988 Steinberger fu premiato insieme a Leon M. Lederman e Melvin Schwartz; ndr), ma andrebbe a tutto il gruppo di lavoro, che può essere anche di settanta persone». Il fisico terrà una conferenza sul rapporto -caotico tra clima e mezzi d'informazione ___________________________________________________________ The New York Times 22 Ott. ‘07 PRODIGI DA MICROELETTRONICA UNA BIBLIOTECA TASCABILE SAN JOSE, California - La possibilità di stipare più dati in meno spazio, su un chip di memoria o su un disco fisso, è la chimera inseguita dai produttori di congegni elettronici di largo consumo. I grandi cervelloni elettronici di un tempo si sono ristretti fino a planare sulle scrivanie, sì sono fatti portatili, tanto da accomodarsi sulle nostre ginocchia, e infine da entrare nelle nostre tasche. Ora, se un'idea su cui sta cimentandosi Stuart S. P. Parkin con un laboratorio dell'Ibm fosse giusta, i congegni elettronici potrebbero contenere, nello stesso spazio, una quantità di dati superiore tra le 10 e le 100 volte a quella attuale. Ciò significa che l’iPod, che oggi può contenere fino a 200 ore di video, potrebbe immagazzinare ciascuna trasmissione televisiva della programmazione settimanale di 120 canali. II mondo della tecnologia, ossessionato dalla densità dei dati, ha drizzato le antenne, perché Parkin non è nuovo a exploit del genere. Ricercatore dell'Ibm, per lo più sconosciuto al di fuori di una ristretta cerchia di fisici, ha lavorato per due anni in un laboratorio, all'inizio degli Anni Novanta, impegnato a trovare un modo per commercializzare uno strano effetto magnetico della meccanica dei quanti, osservato a temperature superfredde. Con l'aiuto di un assistente ricercatore, Parkin era riuscito ad alterare lo stato magnetico di minuscole aree di un disco magnetico per l’immagazzinamento dei dati, consentendo dì archiviare e recuperare informazioni in uno spazio più ridotta. Gli straordinari incrementi nella capacità di immagazzinamento dati resi possibili dalla magnetoresistenza gigante (Gmr), ha trasformato gli iPod audio e video, e i centri dati tipo Google, in una realtà. Stuart lavora un po' fuori dagli schemi, ma è quello che ci vuole per trovare il coraggio di uscire dal sentiero più battuto", dice James S. Harris, professore di ingegneria elettrica all'Università di Stanford e condirettore del Centro di scienza e applicazioni della magnetoelettronica Ibm-Stanford. Parkin, 51 anni, è convinto di riuscire a mettere a segno un altro progresso decisivo, che potrebbe moltiplicare per cento la quantità di dati caricabile su un chip o su un disco fisso. Se le sue ricerche andranno a buon fine, creerà una memoria "universale", capace, potenzialmente, di sostituire la Ram dinamica e i chìp di memoria flash, e addirittura di rendere possibile "un'unita disco su un chip". Secondo gli scienziati, potrebbe cominciare a sostituire le memorie flash di qui a 3-5 anni. Ciò non sola consentirebbe a ogni consumatore di trasportare una quantità di dati equivalente a una biblioteca universitaria su un piccolo congegno portatile, ma un incremento delta memoria di 10 0100 volte tanto avrebbe l’impatto di una scossa tellurica sulle tecnologie d'immagazzinamento dati attualmente esistenti. Scatenerebbe la creatività degli ingegneri, portando allo sviluppo di nuovi prodotti di intrattenimento, comunicazione e informazione. II settore dei chip di memoria flash è in pieno boom. Usate per l'immagazzinamento di dati nelle macchine fotografiche digitali, nei cellulari e nei personal computer, le unità flash disponibili in commercio, con chip di memoria multipli, possono archiviare fino a 64 gigabyte di dati. Nei prossimi cinque anni, si prevede che la capacità raggiungerà circa 50 gigabyte su un unico chip. La memoria flash, però, ha un difetto. In grado dì leggere i dati velocemente, è lenta nell'immagazzinarli. Da qui nasce la frenetica caccia a tecnologie di immagazzinamento dati alternative, che potrebbero sostituire il flash. I !approccio di Parkin, soprannominato racetrack memory (racetrach significa pista da corsa), potrebbe surclassare sia le memorie flash a stato solido sia i dischi fissi dei computer, traducendosi in una tecnologia suscettibile di trasformare l'intera industria dell'informatica. "Dopo tanti anni, stiamo per superare i limiti fondamentali della fisica", dice Parkin. "La racetrack memory ci dice che possiamo infrangerne le regole passando nella terza dimensione". L'idea è di avvolgere miliardi di cavi sottilissimi intorno al bordo di un chip in silicio, e di usare la corrente elettrica per far scorrere piccoli magneti su e giù lungo ognuno di questi cavi, da leggere e scrivere come uno e zero digitali. L'équipe di ricercatori riesce a far scorrere le minuscole calamite lungo nanocavi dentellati a velocità superiori a 100 metri al secondo. Dal momento che i minuscoli domini magnetici devono viaggiare solo su distanze sutimolecolari, le regioni magnetiche possono essere lette e scritte con polarizzazione differente alla velocità di un nanosecondo (un miliardesimo di secondo), molto maggiore a quella delle tecnologie attualmente esistenti. Se l'idea di Parkin finisse sul mercato, l'ingegnere sarà riuscito in un'impresa che fino a oggi era sembrata impassibile: trasportare per intero la microelettronica nella terza dimensione. Questa tecnologia può avere implicazioni davvero importanti, dice Mark Dean, vicepresidente della Ibm Research: "Rivoluzionerebbe tutto", è convinto. "Non solo il nostro modo di concepire l'immagazzinamento dei dati, ma anche il trattamento delle informazioni. Stiamo avviandoci verso un mondo dove saranno i dati a portarsi al centro della scena. Molto più che i computer". di JOHN MARKOFF Jim Wilsonl L'ambizione di Stuart Parkin: decuplicare o nientemeno centuplicare la capacità di immagazzinamento dati di un chip. Una nuova tecnologia può rivoluzionare il futuro di microchip e computer. _______________________________________________________ L’Unione Sarda 24 Ott. ‘07 SCUOLA, LA SARDEGNA FANALINO DI CODA Sestu: sta nei numeri della dispersione scolastica la radiografia del malessere della scuola nell'Isola. Solo nella provincia di Cagliari i dati fanno paura: il 28 per cento di abbandoni, il 25 di bocciati, il 60 per cento di insuccessi tra gli studenti dei vari ordini. A lanciare l'allarme è Sirio Sini, segretario regionale della Lega Autonomie che nei giorni scorsi ha organizzato col Comune di Sestu un convegno per fotografare le emergenze della scuola sarda. «I livelli qualitativi di istruzione sono insufficienti», spiega, «il 40 per cento degli studenti viene promosso col debito formativo. E gli edifici spesso privi delle minime norme di sicurezza». Sardegna è il fanalino di corda: in 29 comuni è assente la scuola primaria, 77 non hanno le medie e ben 298 non possono contare sulle superiori. Un quadro che costringe gli studenti a diventare pendolari, incrementando i disagi che poi rischiano di influire sul rendimento. A sviscerare il rapporto tra scuola ed enti pubblici è stato l'ex preside del Siotto di Cagliari, Francesco Floris. «In Sardegna a differenza di altre regioni, manca una legge quadro sull'istruzione che riconosca alla scuola piena autonomia, con ampi spazi per una didattica in linea coi tempi e che definisca bene i rapporti tra Enti e Regione». Stringere un patto formativo, dunque, che coinvolga famiglia e scuola, seguendo un progetto unitario che parta dalle materne fino alle superiori. «Invece si procede a pezzetti come se fossero realtà distanti l'una dall'altra». Critiche anche alle varie riforme varate ogni volta che sono cambiati i ministri, ma che non hanno risolto i problemi cronici. E se Antonio Loddo, dirigente scolastico del Siotto di Cagliari ha sottolineato i nuovi bisogni del mondo giovanile, con un occhio di riguardo alla necessità di puntare sulla ricerca, Patrizia Licheri (responsabile politiche scolastiche della Provincia di Cagliari) e Antonietta Fancello (responsabile segreteria organizzativa) hanno illustrato i piani strategici per istruzione e pianificazione, soffermandosi anche sull'osservatorio e i servizi di sostegno per disabili. Un convegno di grande interesse con una nota dolente: solo una decina dei 300 docenti ha risposto all'invito. FRANCESCO PINNA _______________________________________________________ L’Altra Voce 26 Ott. ‘07 POLO ALL'ATTACCO SUI PRECARI AL POLICLINICO di Marco Murgia - Da chi dipende il Policlinico di Monserrato? Dall'Università o dalla neonata Azienda mista? E chi deve gestire la situazione dei precari - medici, tecnici e amministrativi - in scadenza di contratto fra novembre e dicembre? Molti lavorano nella struttura da anni, con contratti da liberi professionisti rinnovati di anno in anno; altri, giovani e alla prima esperienza, da meno tempo. Tutti però con la stessa modalità di accesso: per chiamata diretta e direttamente dall'Università. E tutti, con la nascita dell'Azienda mista, chiedono la stabilizzazione della loro posizione. Si parlerà di questo, oggi, in una conferenza stampa annunciata dal centrodestra in Consiglio regionale: pronta una mozione da sottoporre all'attenzione della Giunta. Che però gioca d'anticipo: i nuovi contratti a tempo determinato - dicono in Regione - saranno stipulati dopo una selezione per titoli aperta a tutti. Fine della pacchia, insomma. Perché se è vero che molti dei medici “a tempo” hanno mandato avanti per anni la struttura di Monserrato, è altrettanto vero che ci sono dottori - magari con più esperienza alle spalle - che la gavetta l'hanno fatta saltando fra sostituzioni e guardie mediche notturne senza avere mai la possibilità di infilare neanche un piede fra le porte scorrevoli di un centro di quel tipo. Sino a ora, infatti, quelle porte si aprivano solo per chi era chiamato direttamente da questo o quel medico: per amicizia, interesse o parentela. Selezioni? Zero. Concorsi? Meno che meno. Allora capita di trovare anestesisti poco più che trentenni al lavoro nell'ultimo anno con contratti da oltre 60mila euro iva esclusa, ma anche radiologi in servizio da dieci anni che guadagnano 33mila euro. Modalità di contratto? Liberi professionisti, a progetto: senza nessuna indicazione sul rinnovo, fino a oggi non prevista, ma che in molti casi - eccellenti o meno - era la prassi. Forti della loro esperienza - di fatto, nonostante la situazione contrattuale da precari, lavoravano come dipendenti: anche 45 ore a settimana, contro le 15 previste - chiedono la stabilizzazione. Che sarebbe anche legittima, per diversi di loro. Possibile una sanatoria di questo tipo? Sono comunque l'anello debole di una catena che per anni è andata avanti e che ha fatto comodo a molti: dai politici ai baroni delle facoltà, in grado di piazzare questo o quello nel magico mondo della sanità. Prima o poi i contratti veri arriveranno: era il suggerimento per tenere duro ma anche la speranza per chi ha lavorato a Monserrato per anni dimostrando grande professionalità. E però questo è il primo anno in cui c'è l'Azienda mista: che scompagina i piani in vista della scadenza dei contratti. Per l'Università, il Policlinico non esiste più: quindi non valgono i rinnovi approvati in Rettorato, anche se è vero che la struttura monserratina godeva di autonomia contabile; ancora meno quelli sponsorizzati dalla facoltà di Medicina.La parola passa quindi alla Regione: più che altro, l'amministrazione se ne accolla la responsabilità. «Con i contratti in scadenza», spiegano dagli uffici, «si verificano due situazioni. Da una parte il Policlinico rischia il blocco delle attività, perché quelle in scadenza sono le posizioni della metà dei medici di Monserrato; dall'altra, la Regione non vuole più contratti di questo tipo». La soluzione? Se dal punto di vista giuridico resta aperta la questione sulle competenze fra Università e Azienda mista, l'obiettivo della Regione è chiaro: «I rinnovi dei contratti passeranno per una selezione per titoli a tempo determinato, dopo una ricognizione sul fabbisogno. Il 40 per cento dei posti sarà aperto a tutti, mentre il diritto di riserva - pari al 60 per cento - sarà destinato a chi ha prestato servizio per almeno un anno nella struttura». Una scelta utile per tamponare l'emergenza: «Poi ci sarà un concorso, per la stabilizzazione, aperto a tutti». Quello sì, senza nessuna riserva. ======================================================= _______________________________________________________ L’Unione Sarda 27 Ott. ‘07 BRACCIO DI FERRO SUI PRECARI «ASSUMETELI TUTTI» Braccio di ferro sui precari del Policlinico: sono 106 (compresi quelli di Sassari) , hanno in media 40 anni e guadagnano mille euro al mese. L'opposizione di centrodestra in Consiglio regionale ha presentato una mozione urgente per stabilizzarli. L'assessore regionale Dirindin e Ninni Murru (azienda mista) replicano: «Lo faremo ma occorre gradualità». Reclutati con chiamata diretta, i medici, con un'età media di 40 anni, percepiscono circa mille euro al mese e sono inquadrati con contratto di lavoro libero-professionale. La gran parte ha accumulato un'anzianità di servizio variabile fra i 4 e i 10 anni. Settantanove prestano servizio all'azienda mista di Cagliari, altri 27 in quella di Sassari. Al momento, secondo quanto riferito dalla minoranza di centrodestra, manca una ricognizione precisa del fabbisogno delle due aziende La situazione dei medici citati nella mozione, è stato spiegato, non è contemplata nel piano di stabilizzazione approvato con una delibera della Giunta lo scorso giugno. «Sono figure che hanno consentito al policlinico universitario di essere aperto e di andare avanti con la sua attività e che si occupano di assistenza, didattica e ricerca, senza vedersi riconosciuti il diritto alle ferie, alla malattia e al trattamento pensionistico», ha affermato il capogruppo dei Riformatori Pierpaolo Vargiu, primo firmatario della mozione che, considerato il carattere di urgenza, sarà discussa in Aula entro 10 giorni. Di «vero sfruttamento» ha parlato il consigliere di Forza Italia Mariano Contu, mentre l'esponente dell'Udc Alberto Randazzo ha accusato la Giunta di voler risparmiare e contenere i costi sulla pelle dei lavoratori.«Sbalordito» si è detto il consigliere del Nuovo Psi Raffaele Farigu, che ha proposto di ricorrere al giudice del lavoro. Da parte loro l'assessore regionale della Sanità, Nerina Dirindin, e il direttore generale dell'Azienda ospedaliero universitaria, Ninni Murru hanno incontrato alcuni lavoratori per ribadire l'impegno a trovare una soluzione. «Abbiamo ereditato una situazione difficile che ha leso i diritti dei lavoratori», ha detto Murru. «Il nostro obiettivo è quello di superare il lavoro precario, così come impongono le norme del servizio sanitario regionale, facendo una selezione che tenga conto anche dell'attività svolta in questi anni e procedendo con gradualità: dopo aver verificato il fabbisogno di personale cercheremo di bandire concorsi e selezioni per titoli». (m.v.) _______________________________________________________ Corriere della Sera 21 Ott. ‘07 ASSICURAZIONI: PIÙ TUTELATI I MALATI, MA ANCHE I DOTTORI Disegno di legge Obbligo di assicurazione per gli ospedali e risarcimenti rapidi Dati allarmanti sugli incidenti in corsia, continuo aumento del contenzioso tra medici e malati, tempi lunghissimi per i pazienti che chiedono giustizia e dottori che tendono sempre più alla «medicina difensiva», cioè ad effettuare solo interventi «sicuri», senza affrontare i rischi di nuovi percorsi terapeutici. Una scelta che potrebbe alla fine ritorcersi contro lo stesso paziente. Questa situazione di disagio è chiaramente emersa nel forum tenutosi a Roma il 2 ottobre scorso nell'aula Capitolare del Senato della Repubblica. In quella sede è stata segnalata l'esigenza di intervenire rapidamente, sia sul fronte del rischio clinico, sia su quello della responsabilità medica, con una normativa che tuteli il paziente in modo più incisivo e rapido e, nello stesso tempo, metta i medici in condizione di svolgere con serenità il proprio lavoro. Per quanto concerne la modifica della normativa sulla responsabilità, il ministro della Salute, Livia Turco, ha presentato, il 24 maggio 2007, il disegno di legge n. 1598 bis: «Disposizioni in materia di sicurezza delle strutture sanitarie e gestione del rischio clinico». Composto di soli tre articoli, il disegno di legge persegue la finalità di ridurre i rischi di malpractice imponendo alla struttura sanitaria di fornire una prestazione medica ottimale (la cosiddetta «garanzia di qualità»). E, nel contempo, per dare ai medici una tranquillità operativa, che fughi il timore di dover pagare di tasca propria gli eventuali danni lamentati dal paziente, ha previsto che debba risponderne direttamente la struttura sia essa pubblica o privata. Il disegno di legge prevede, poi, l'obbligo per la struttura di una copertura assicurativa o, in alternativa, la creazione di altre strutture di garanzia equivalenti. È infine prevista in ogni Regione l'istituzione di una Camera di conciliazione per la definizione con la più rapida via stragiudiziale della controversie. Fermo restando, in caso di insoddisfazione di una delle parti, il diritto di arrivare poi al Tribunale. Il disegno di legge del ministro Turco ha minore ampiezza rispetto a quello presentato nella scorsa legislatura (disegno di legge n. 130, cosiddetto Tomassini). In quest'ultimo era, tra l'altro, anche prevista l'istituzione di un albo nazionale dei periti e dei consulenti tecnici per le vertenze sulla responsabilità medica. In futuro, sarebbe auspicabile che il legislatore, accogliendo le istanze che vengono dall'intera categoria medica, oltre a valutare l'opportunità di prevedere l'istituzione di un Collegio nazionale dei consulenti tecnici (che poi finiscono per essere i veri giudici della vertenza), rivedesse il concetto di «colpa penale» per imperizia professionale riservando la sanzione penale, in presenza di interventi particolarmente complessi e difficili (come i trapianti) ai soli casi di «colpa grave». Naturalmente ciò non inciderebbe sul diritto del paziente a ottenere, in sede civile, il risarcimento dei danni subiti. Alfonso Marra, magistrato ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 30 Ott. ‘07 L'ISTITUTO SAN RAFFAELE RISCRIVE IL GENE MALATO Francesca Cerati MILANO Riscrivere una particolare porzione di Dna a nostro piacimento. Ovvero correggere la mutazione genetica, anziché sostituirla. È quanto è riuscito a fare per la prima volta un gruppo di ricercatori dell'Istituto San Raffaele- Telethon per la terapia genica di Milano in collaborazione con la californiana Sangamo BioSciences. «La novità è tutta nella tecnologia - precisa Luigi Naldini, condirettore dell'Istituto milanese e coordinatore dello studio, pubblicato ieri su Nature Biotecnology -. Non più di un anno fa la biotech Usa aveva sviluppato un nuovo approccio alla terapia genica: una sorta di chirurghi molecolari capaci di legarsi al Dna tagliandolo in un punto specifico. Ciò che mancava era il vettore capace di trasportare l’équipe micro-operatoria a destinazione. Noi, attraverso un particolare virus modificato, siamo riusciti a introdurre contestualmente sia lacopia di Dna da modificare sia il kit di chirurghi molecolari, riuscendo così a riscrivere una sequenza di Dna in cellule staminali umane». La tecnica è decisamente una svolta nel campo della terapia genica, in quanto verrebbero superati due limiti non trascurabili. «A oggi - continua Naldini-per curare i difetti genetici si introduce nella cellula un gene terapeutico ricostruito. Non essendo però l’orginale, il sostituto potrebbe non Esperimento in partnership con Telethon e la biotech Usa Sangamo BioSciences: modifiche al Dna delle cellule staminali svolgere perfettamente il tipo di controllo a cui è deputato. In più, andando a collocarsi in maniera casuale; potrebbe creare problemi. È evidente che se ripariamo il gene autentico questi inconvenienti sono superati». Ma il team milanese aveva un obiettivo più ambizioso: l'idea era di migliorare il gene targeting, il metodo di cui si è molto parlato a proposito del premio Nobel appena assegnato a Mario Capecchi. «Grazie al gene targeting - spiega Naldini -il ricercatore può scegliere come e quali sequenze di Dna del genoma vuole cambiare. Ma al momento l'efficienza di questo metodo è molto bassa, cioè soltanto una cellula su un milione incorpora la sequenza voluta; di conseguenza, è una tecnica che si può usare solo in casi particolari». La tecnica del San Raffaele, combinata con quella californiana, fa invece crescere la percentuale di successo fino al 50% delle cellule trattate. Ora occorre attendere i risultati relativi alla sicurezza della chirurgia molecolare del Dna: se tutto andrà bene, tra 4-5 anni inizierà la sperimentazione sull'uomo. ___________________________________________________________ Avvenire 25 Ott. ‘07 SE L’ETICA È RIDOTTA AL DNA La provocazione dello psicologo Usa Hauser: le norme morali sono figlie dell’evoluzione Ma questa ambiziosa grammatica. Universale " non spiega il corso storico dell'etica Molti filosofi ritengono che quelle descritte siano solo condizioni che rendono possibili comportamenti morali Da dove vengono le norme morali? Da Dio e/o dalla ragione, hanno sempre risposto gli uomini. Oggi, alcuni studiosi avanzano una terza possibilità: dall'evoluzione darwiniana e, in definitiva, dalla biologia. Ipotesi controversa che, tra l'altro, viene declinata secondo modelli alternativi. Uno dei più articolati e discussi è quello dello psicologo di Harvard Marc Hauser. La presentazione delle sue ricerche arriva ora in traduzione italiana (Menti morali Le origini naturali del bene e del mal H Saggiatore, pagine 505, euro 24,00). Basandosi su esperimenti, test con migliaia di volontari, esami di pazienti neurologici e fatti di cronaca, l'autore in sintesi dice che il senso di ciò (Te è giusto e dirò che è sbagliato, evolutosi nell'uomo per milioni di anni, precede i nostri giudizi coscienti e le emozioni collegate, dotandoci di una fonte nascosta di intuizioni etiche universalmente condivise, tanto da poter parlare di una facoltà morale innata, patrimonio di tutti gli uomini. Secondo Hauser, «i nostri istinti morali sono immuni dai comandi espliciti tramandatici da religioni e autorità. Qualche volta le nostre intuizioni etiche convergono con quelle espresse dalla cultura, a volte divergono». L’idea di una grammatica morale universale trae diretta ispirazione dalla grammatica generativa che il linguista Noam Chomsky introdusse negli anni Cinquanta: nello stesso modo in cui siamo dotati di una facoltà del linguaggio, che consiste in una scatola universale degli attrezzi per costruire i linguaggi possibili, cosi siamo dotati di una facoltà morale costituita da una scatola universale degli attrezzi per costruire i sistemi morali possibili. Per grammatica, Hauser intende un insieme di principi o di operazioni mentali necessari a produrre giudizi su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Ogni parlante di una lingua è capace di valutare se un'espressione è grammaticalmente adeguata, ma spesso non e consapevole dei motivi per cui emette quel giudizio. In analogia con la teoria chomskiana, gli elementi fondamentali della moralità che operano a livello inconscio non impongono i contenuti specifici dei nostri giudizi, né la decisione di aiutare o danneggiare il nostro prossimo in una data situazione. Essi limitano però il ventaglio delle scelte, come l'idioma cui siamo esposti da bambini ci permette di far scattare alcuni "interruttori" linguistici (ad esempio il tipo di costruzione della frase, in giapponese diverso dall'italiano), già pronti ad assumere alcune posizioni. Anche gli argomenti a favore dell'innatismo morale coincidono con quelli che sorreggono l'innatismo linguistico: l'universalità dei contenuti, la povertà dello stimolo (i dati cui sono esposti i bambini sono insufficienti a spiegare quello che sanno se dovessero impararlo da zero), il percorso di sviluppo degli individui simile nelle diverse culture. Ma come si sarebbe evoluta la grammatica universale? Hauser dà una doppia risposta. E possibile che (quello che oggi chiamiamo) l'istinto morale sia stato in origine selezionato a motivo delle sue conseguenze sull'efficienza della specie nel mantenere le norme sociali, alcune delle quali sarebbero comparse già negli animali superiori. In secondo luogo, non va escluso che alcune delle componenti che stanno alla base dell'istinto morale (come la capacità di distinguere azioni intenzionali e azioni accidentali, decisiva per il concetto di responsabilità) non si siano evolute per ragioni che ~?no specifiche della moralità (ovvero, per ci0’ che noi oggi chiamiamo moralità), ma siano state in seguito "cooptate" o "adottate" dalla facoltà morale. Il fatto che si supponga l'esistenza di una grammatica morale universale non equivale comunque al rifiuto della variabilità dei sistemi etici dovuta alla cultura. Ma, come detto, la facoltà morale porrebbe limiti alla gamma di variazioni interculturali possibili e, quindi, anche alla misura in cui religione, diritto e trasmissione intergenerazionale (famiglia, scuola) possono modificare i nostri giudizi morali, che sarebbero intuitivi e resistenti alle influenze ambientali. Tre le critiche principali a questa impostazione, che pure ha dalla sua una crescente mole di prove sperimentali. Primo, si sottovaluta la storia. Le norme morali cambiano (e molto) nel tempo: uccidere neonati o tenere schiavi è stato lecito e accettato, ora ci fa orrore. Secondo, molti filosofi morali ritengono che quelle descritte da Hauser siano soltanto condizioni che rendono fisicamente possibile la produzione dei comportamenti e degli enunciati morali: sono assai varie e, soprattutto, nessuna è in grado di rendere conto del contenuto specificamente morale delle pratiche umane. Terzo, alcuni scienziati cognitivi che non rifiutano la base biologica negano però che esista una grammatica morale universale, ribaltando l'impostazione di Hauser e cercando di dimostrare che non risponde ai criteri della teoria generativa di Chomslc. Ad esempio, sperimentiamo spesso dilemmi morali tra principi confliggenti, mentre nulla di simile si ha quando decidiamo sulla correttezza di un’esperienza linguistica. Di certo, è finita l'era in cui l'etica si studia soltanto a tavolino. _______________________________________________________ Corriere della Sera 30 Ott. ‘07 LA TURCO: SONO MEDICINE LEGALI NON POSSONO ESSERE NEGATE RIMEDIO ESTREMO «La pillola del giorno dopo è un rimedio estremo, ma se è nella farmacopea va data» LA NORMA «La legge sull'obiezione di coscienza non va cambiata, va bene com'è adesso» Il ministro: prodotti immorali? Non esistono, sì anche alla Ru486 IL RICHIAMO Giusto il richiamo del Papa a una sessualità responsabile, ma non il monito ai farmacisti ROMA - «Il Papa fa una riflessione di tipo pastorale, ed è giusto che richiami i giovani ad una sessualità matura e responsabile. Ma non ritengo debba essere preso in considerazione il suo monito ai farmacisti di opporsi con l'obiezione di coscienza sulla pillola del giorno dopo». Quindi, ministro Livia Turco, è d'accordo con l'associazione dei farmacisti e con chi ha giudicato l'appello del Pontefice una pesantissima intrusione nella politica e nella vita civile italiana? «I farmaci prescritti dal medico devono essere disponibili, non possono essere negati. E non esistono nel prontuario terapeutico medicine immorali, secondo la definizione che ne ha dato. Le autorità preposte alle autorizzazioni e al commercio, se così fosse, non ne avrebbero consentito la circolazione. Inoltre non so a cosa si riferisca il Pontefice quando parla di farmaci per l'eutanasia». È accettabile che la massima autorità della Chiesa cattolica intervenga su questi temi? «Prima dovrei leggere l'intero discorso. Benedetto XVI è solito proporre riflessioni di grande spessore e sono sicura lo abbia fatto anche in questa occasione. Però bisogna distinguere fra due piani. Il suo discorso è di tipo pastorale, riguarda l'importanza di avviare i giovani ad una vita sessuale matura, responsabile, basata sui sentimenti e sulla profondità dei rapporti fra uomo e donna. In un momento così critico per le giovani generazioni era necessario che intervenisse. La prevenzione è lo strumento migliore». Poi però ci sono le leggi dello Stato, e questo è il secondo piano della riflessione... «Con fermezza ribadisco che un ministro deve rispettare l'autorità che gli deriva dal Parlamento e dalle leggi. La pillola del giorno dopo è stata autorizzata dall'agenzia europea del farmaco, l'Emea. L'Italia doveva introdurla e se viene prescritta deve essere venduta». La legge sull'obiezione di coscienza va cambiata? «No, va bene come è adesso. La pillola del giorno dopo è un rimedio estremo, ma se è nella farmacopea va data». Deve darla anche il ginecologo quando gli viene richiesta in ospedale? «Il ginecologo non è vincolato. Deve prescrivere in scienza e coscienza». La pillola viene spesso accomunata ad una forma di aborto. È d'accordo? «Contiene alte quantità di estrogeni, gli stessi che compongono una pillola anticoncezionale». Presto l'agenzia italiana del farmaco, l'Aifa, dovrà accettare la richiesta di registrazione di un'altra pillola che farà discutere ancora di più, la Ru 486, vera e propria formula chimica abortiva. È vero che non manca molto all'arrivo in Italia? «Sappiamo con certezza che in questi giorni l'azienda francese che produce la Ru 486 presenterà all'Emea il dossier per la richiesta di autorizzazione per il mutuo riconoscimento. Una volta ricevuto il via libera, noi dovremo registrare il farmaco. È una decisione amministrativa, non politica». Appena giunta al ministero della Salute lei dichiarò di essere favorevole alla Ru 486 e che si sarebbe data da fare perché fosse disponibile in Italia. «Naturalmente non ho cambiato idea. È un farmaco largamente usato, di cui si sa tutto, è una valida alternativa all'aborto chirurgico. Non c'è bisogno di altre sperimentazioni. Chiederò un parere al Consiglio superiore di sanità affinché in Italia venga proposta nell'ambito della legge 194 sull'aborto, quindi non si parla assolutamente di vendita in farmacia. Spero che il dibattito che ne seguirà sia sereno». Margherita De Bac _______________________________________________________ La Nuova Sardegna 28 Ott. ‘07 OLBIA: SAN RAFFAELE, CI SARANNO ONCOLOGIA E NEUROLOGIA Via libera della Regione. Nel vecchio ospedale gli uffici di via Nanni e viale Aldo Moro GUIDO PIGA OLBIA. Al San Raffaele i lavori vanno alla grande. La struttura dell'ospedale è ben avviata, gli operai hanno tirato su già quattro piani, tutto dovrebbe essere pronto per l'inizio del 2009. Ma gli uomini di don Verzè si stanno muovendo anche dietro le quinte. Lunedì scorso erano a Cagliari dall'assessore Nerina Dirindin per discutere dell'offerta sanitaria: ci saranno medicina, chirurgia, riabilitazione. Sì della Regione a oncologia e neurologia. Intanto la Asl pagherà meno affitti: trasferire molti uffici nel vecchio ospedale. E' la Dirindin, assessore regionale alla Sanità, a confermare l'incontro con i dirigenti del San Raffaele. «Sono venuta qui a Olbia per ringraziare tutti quelli che hanno preso parte al trasferimento dal vecchio al nuovo ospedale - ha detto parlando al Melià al convegno della Asl sulle emergenze -. Un grazie a tutti, medici, infermieri, volontari. E un grazie al precedente direttore generale, dottor Gianni Cherchi, per il grande lavoro svolto». Poi, a margine dell'appuntamento ufficiale, ha parlato dell'ospedale privato che sta sorgendo a sud della città. «Ho incontrato i dirigenti del San Raffaele e loro mi hanno esposto i loro piani - spiega l'assessore -. Non è il primo incontro, né sarà l'ultimo: dovremmo farne altri prima dell'accreditamento della struttura privata al sistema sanitaria pubblico. Tuttavia, posso dire che i posti letto sono confermati, saranno 150. Tre i dipartimenti: medicina, chirurgia, riabilitazione». La novità arriva sull'offerta sanitaria nello specifico. Ci sarà la neurologia, seppure inizialmente portata avanti da un gruppo di specialisti. Ci sarà soprattutto l'oncologia urologica, un campo in cui il San Raffaele eccelle a livello europeo. Alcuni posti letto dovrebbero essere riservati alla nefrologia. I dirigenti del San Raffaele si sarebbero aspettati un po' di più, tanto che hanno bloccato la costruzione del quinto piano. Ma le cose potrebbero cambiare nel giro di un anno. «Tra il 2008 e il 2009 presenteremo il nuovo piano sanitario, c'è spazio per discutere ancora su altre specialità» dice l' assessore, capendo che Olbia e la Gallura spingono già (giustamente) per avere maggiori opportunità. «Stiamo lavorando in sinergia con il San Raffaele, come è giusto che sia, e non ci saranno problemi né sovrapposizioni» chiarisce Renato Mura, direttore sanitario della Asl. La Dirindin, poi, si è fatta accompagnare dai dirigenti della Asl di Olbia nel vecchio e nel nuovo ospedale. Ha visto il secondo piano del San Giovanni di Dio completamente vuoto e ha chiesto al manager che intenzioni abbia. «Stiamo pensando di trasferire qui alcuni uffici oggi in strutture prese in affitto dalla Asl - ha detto Giorgio Lenzotti -. E' un modo per razionalizzare il servizio e, soprattutto, per far risparmiare soldi alla Asl». Dovrebbero finire nel vecchio ospedale gli ambulatori e gli uffici del distretto sanitario che ora sono in via Nanni e, in un secondo momento, anche gli uffici del dipartimento di prevenzione di viale Aldo Moro. Per chiudere, nel corso di formazione della Asl («Il sistema di Emergenza-urgenza», era il titolo) si è parlato della camera iperbarica della Maddalena. Utile non solo per i sub (il 49% degli incidenti della Sardegna avviene in Gallura), ma anche per gli intossicati di monossido di carbonio. «Siamo 3 medici, 3 infermieri, 2 tecnici - ha detto Carlo Randaccio, direttore dell'anestesia dell'ospedale maddalenino -, ci servirebbe un potenziamento del personale». La Dirindin - l'assessore più vicino alle esigenze della Gallura e dalla Gallura stimatissima - ha preso nota. _______________________________________________________ L’Unione Sarda 28 Ott. ‘07 BAMBINI SANI? POCA TV E POCHE PATATINE Salute. Un convegno sull'obesità infantile: per i medici è l'epidemia del terzo millennio Allarme dei pediatri: un piccolo su 4 supera il peso ideale «Non è vero che un bimbo paffutto è sinonimo di salute». Sotto accusa l'alimentazione ipercalorica e la sedentarietà. Gravi conseguenze. Allarme obesità in tenera età: un bambino su quattro supera del venti per cento il peso ideale. E le cose non vanno meglio nemmeno a scuola: nelle medie i maschi in soprappeso sono il 15,5 per cento e gli obesi il 4,5; mentre le bambine con qualche chilo di troppo sono il 14,5 e le obese il 2 per cento. Salendo ancora con l'età, nelle superiori i ragazzi in soprappeso salgono al 17,9 per cento e gli obesi il 2,5, mentre le ragazze scendono sotto il due per cento (1,6). ALLARME Nell'Isola l'allarme obesità scatta dunque già nella culla, almeno stando alla ricerca effettuata dall'Istituto Superiore della Sanità e presentata ieri mattina in un convegno organizzato da AslCagliari e Regione con i massimi esperti sardi di endocrinologia infantile, pediatria e dietologi specialisti. Uno scenario allarmante che non deve essere preso sottogamba, soprattutto perché dall'obesità dipendono poi molte altre patologie. PREDISPOSIZIONE «È vero che esiste una predisposizione genetica" spiega Sandro Loche, responsabile del servizio di endocrinologia pediatrica al Microcitemico, «ma fattori importanti restano l'alimentazione eccessiva e sbagliata abbinata ad una scarsa attività fisica. In qualche caso, poi, l'obesità può essere legata ad alterazioni ormonali quali ipotiroidismo o disfunzioni surrenali». Tra i relatori anche Paolo Pusceddu, responsabile divisione pediatria del Brotzu, Giuseppe Sechi (direttore del servizio assistenza distrettuale ospedaliera dell'Assessorato alla Sanità della Regione) e Silvana Tilocca (dipartimento prevenzione). Ma oltre ad un'alimentazione squilibrata a pranzo e cena, hanno chiarito i pediatri intervenuti al meeting cagliaritano, gli stili di vita incidono non poco sul peso corporeo del bambino: sotto accusa l'abitudine a camminare poco a piedi e passare troppe ore davanti alla tv o al computer, magari facendo merenda con dolci o spuntini ipercalorici. IL CIBO Talvolta poi, specie con i più piccoli, sono gli stessi genitori a mettere all'ingrasso i propri figli. «Esiste l'idea sbagliata che un bambino eccessivamente paffuto sia simbolo di salute», hanno chiarito i pediatri, «ma purtroppo è l'opposto. Un'alimentazione corretta e regolare può evitare squilibri che poi si trascinano negli anni». Considerata dagli stessi medici come l'epidemia del terzo millennio, l'obesità infantile causa spesso frequenti problemi respiratori (apnea notturna), articolari (mobilità ridotta e piedi piatti) e disturbi all'apparato digerente. FRANCESCO PINNA _______________________________________________________ La Nuova Sardegna 27 Ott. ‘07 PUNTO UNICO: LA SPERIMENTAZIONE NEL CENTRO DI MONTE CLARO «Punto unico», una sola equipe per le visite mediche agli over 65 CAGLIARI. Il nome chiarisce tutto: «Punto unico». Qui, nella sede di Monte Claro, il paziente over 65 non autosufficiente è sottoposto a una diagnosi completa dall'equipe multidisciplinare formata da cinque esperti - medico del Distretto, medico di base, fisiatra, fisioterapista, assistente sociale e psicologo - e nel caso anche da specialisti in cardiologia, ortopedia e dermatologia. È la sperimentazione voluta dall'Asl 8 e presentata durante il convegno «Dai sistemi di valutazione e classificazione, un modello per la governance». Secondo il direttore generale dell'Azienda sanitaria, Gino Gumirato, il progetto cominciato nel l'anno scorso, su un campione di 600 anziani, trecento in città, è stato un successo. «Siamo così riusciti - ha detto il manager - a capire subito i bisogni del paziente e quindi a utilizzare, noi e il paziente stesso, meglio i servizi offerti dalla Asl. Inoltre il servizio ha inciso anche sui costi, con la drastica riduzione deu ricoveri inappropriati, perchè molti dei cinquemila ricoveri inopportuni di anziani che siamo riusciti ad evitare sono riconducibili proprio al successo di questa sperimentazione». Il ministero della Salute adesso guarda con attenzione al modello cagliaritano, unico in Italia, mentre la Azienda sanitaria è inenzionata ad ampliare il servizio offrendolo anche ai disabili. Il «Punto Unico di accesso» è aperto dal lunedì al venerdì, dalle 8 alle 14 e dalle 15 alle 18 e può essere contattato allo 070-6096356 e allo 070-6096447. ___________________________________________________________ Italia Oggi 30 Ott. ‘07 PIÙ INTELLIGENZA IN CORSIA Business intelligence I sistemi di gestione che aiutano la sanità a evitare sprechi e a fornire servizi migliori L'utilizzo di soluzioni di business intelligence nel settore della sanità può portare anche a risparmiare 1 milione di euro in un anno. È il risultato raggiunto dall'ospedale San Martino di Genova: «L'anno scorso uno dei nostri dipartimenti di medicina, grazie ai processi di razionalizzazione del farmaco, ha ottenuto questo risultato e la cifra risparmiata è stata investita in altre attività sanitarie», dice infatti Prancesco Copello, direttore controllo di gestione dell'azienda ospedaliera. In particolare, le attività sviluppate dal San Martino e supportate dai sistemi del fornitore Sas sono quattro: si va dall'individuazione dei percorsi terapeutici, per misurare e standardizzare le attività al fine di trattare tutti i pazienti alla stessa maniera, agli indicatori che monitorano il sistema. «In questo modo», osserva Capello, «i direttori dell'unità operativa verificano se l'andamento della gestione è in linea con gli obiettivi e possono effettuare benchmarking sui prodotti come i farmaci, per esempio, o sui servizi». In mezzo ci sono le attività di auditing e le procedure di risk management, che, come tutte le iniziative dell'azienda sanitaria relative alla sicurezza, riguardano sia gli operatori sia i pazienti. «Ogg al San Martino sono attivate iprocedure di risk assessment e di incident reporting la prima valuta le attività, individuando I possibili punti di rischio, la seconda descrive l’evento nel momento in cui avviene, e prevede le possibili modalità di intervento», afferma Copello. Ma in quale modo le tecnologie di business intelligence sono utilizzate al fine di assicurare l'efficienza e la sicurezza in settori come la sanità? La complessità del governo di una sistema sanitario, sia esso regionale, aziendale od ospedaliero, cresce costantemente e non è più sufficiente controllare singolarmente i ricoveri, le prestazioni. Una situazione in cui le piattaforme tecnologiche studiate per elaborare, confrontare e verificare dati e informazioni diventano preziose per la pianificazione strategica, per il monitoraggio degli obiettivi e per la gestione sul medio e lungo periodo delle necessità di organico, così come per la valutazione dei costi della ricerca e del rischio clinico. «Per un'azienda ospedaliera come il San Martino di Genova, composta da 120 unità operative suddivise in oltre 1.000 centri di costo, il controllo delle performance operativo-finanziarie e l'ottimizzazione nell'impiego delle risorse rappresentano una leva strategica per massimizzare la qualità del servizio in rapporto a vincoli di bilancio sempre più stringenti», puntualizza il direttore del controllo di gestione del San Martino. Nella pianificazione del budget, i metodi tradizionali, che ripartivano le risorse in base al dati storici e alle esperienze pregresse, si rivelavano del tutto inadeguati e producevano scostamenti significativi in fase di consuntivazione. «Il progetto realizzato si propone di offrire al management aziendale, ovvero ai direttori generali, di dipartimento e delle unità operative uno strumento decisionale per ottimizzare il processo di allocazione delle risorse a partire da un'analisi dettagliata dei costi relativi ai singoli centri di consumo e di produzione». Il progetto, che è partito nel 2002, ha comportato un investimento nell'ordine di decine di migliaia di euro e il prossimo step porterà all'introduzione di report dinamici Attualmente, questi ultimi sono pensati in modalità statica, ma con la possibilità di vedere il singolo dato o i dati aggregati a livello di dipartimento o della singola tipologia di ricovero. Monitoraggio delle risorse sia lato paziente sia dipendente, e un'analisi dettagliata della situazione per evitare situazioni di emergenza ed effettuare per tempo manovre correttive sono alla base anche di un altro progetto di business intelligence della sanità. Questa volta a prendere in mano i dati e a elaborare report mensili è toccato alla sede di Roma dell'università Cattolica del Sacro Cuore, Policlinico Gemelli I dati sono organizzati dal sistema in strutture che permettono di gestire una realtà molto complessa e il patrimonio delle informazioni accumulato negli anni ha ormai raggiunto dimensioni considerevoli. La necessità di elaborare questi dati si è evoluta dal semplici riepiloghi mensili all'elaborazione dettagliata per lo studio dei fenomeni per il controllo di gestione alla distribuzione dei dati ai ricercatori, alla rappresentazione della realtà con indicatori, alla navigazione per avere informazioni, effettuare raggruppamenti non predefiniti, costruire report e grafici, attivare funzioni statistiche e previsionali anche complesse. Per conciliare queste diverse esigenze, l'evoluzione dell'informatica all'interno del Policlinico Gemelli ha portato negli ultimi anni a suddividere le modalità di elaborazione dei dati in due macroaree: una di tipo gestionale, in cui confluiscono tutti i sistemi che elaborano i dati nella gestione giornaliera e un'altra di report e analisi in cui possono essere collocati i sistemi che elaborano i dati per distribuire informazioni più o meno aggregate e metterle a disposizione per eventuali approfondimenti o rielaborazioni. Per rispondere alle esigenze informative di business intelligence è stato realizzato un data warehouse con tecnologia Sas progettato e gestito dall'unità operativa datawarehouse della direzione amministrativa del Policlinico. «Tra i fenomeni presi in considerazione, particolare risalto è stato dato al mondo delle risorse umane con l'introduzione della soluzione Sas Human capita] management. Infine, da alcuni mesi è stato acquisito Sas Enterprise Bi Server, attualmente in fase di test, con cui sono già state predisposte una serie di analisi riguardanti le aree del magazzino e delle degenze», spiega Vincenzo Tracuzzi, responsabile unità datawarehouse. Attraverso questa soluzione il Policlinico ha ottenuto in tempi brevi cruscotti, indicatori e informazioni di sintesi. Per poter disporre di un sistema per il monitoraggio delle risorse in ambito ospedaliero è necessario fare in modo che le diverse unità operative possano dialogare scambiandosi le informazioni Una volta integrate le informazioni nel datawarehouse è necessario costruire dei parametri affidabili con cui confrontare i report mensili o settimanali Al fine di razionalizzare la fornitura di farmaci può essere vantaggioso utilizzare i dati disponibili nei protocolli per la profilassi chirurgica I report, soprattutto quelli sui consumi, devono contenere sia schede di sintesi, per esempio per confrontare i dati rispetto all'anno precedente, sia i dati di dettaglio, per esempio con analisi sui consumi dei farmaci ___________________________________________________________ MF 23 Ott. ‘07 L’APPENDICE È LA CULLA DI GERMI UTILI ALL'INTESTINO Scoperta l'importanza di questo organo Alcuni scienziati ritengono di avere scoperto la vera dunone dell'appendice, a torto finora considerata un organo inutile in grado di provocare disturbi anche gravi. Secondo i chirurghi della Duke University che hanno pubblicato la settimana scorsa il risultato dei loro studi sulla rivista Journal of teoretical Biology, l'appendice avrebbe una funzione molto positiva perché produce e protegge i germi utili all'intestino. I:organo è quindi correlato alla vasta massa di batteri all'interno del sistema digestivo umano, la maggior parte. dei quali aiuta a digerire. Talvolta però la flora batterica viene danneggiata o eliminata e solo l'appendice può ricostituire il sistema digestivo. ___________________________________________________________ MF 30 Ott. ‘07 TUMORE PRESO DI PETTO Medicina AI congresso di senologia di Firenze novità sull'oncoplastica L'utilizzo di cellule staminali adulte prelevate dal ~o favorisce la rigenerazione del tessuto ed evita cicatrici di Martina Federico La sperimentazione su nuovi farmaci, le ultime tecnologie a supporto della diagnostica e le novità nella ricostruzione estetica sono alcuni dei temi del congresso nazionale «Attualità in senologia» che ha luogo a Firenze fino a domani e che ha come motivo conduttore la lotta al tumore al seno, quarto di tutti i tumori femminili che colpisce 37 mila donne ogni anno. Una delle prime novità arriva da raloxifene, farmaco abitualmente utilizzato come cura per l'osteoporosi, che sarà sperimentato come prevenzione per casi di malattia recidiva. Sul versante terapeutico, oltre alle nuove tecniche come la cosiddetta «partial breast irradation», ossia la radioterapia localizzata, o la terapia sistemica post operatoria, ovvero l'eliminazione delle restanti cellule infette, Luigi Cataliotti, chirurgo oncologo all'Ospedale Careggi e presidente del comitato organizzatore, parla di «un'attenzione all'oncoplastìca», ossia all'importanza di dare rilievo anche agli aspetti estetici dell'operazione. Zutilizzo del lipofilling mediante cellule staminali adulte prelevate dal tessuto adiposo della donna (procedimento che consente la rigenerazione del tessuto ed evita, allo stesso tempo, cicatrici in altre parti del corpo) lascia intravedere nuove frontiere e nuovi approcci nella ricostruzione estetica. «La chirurgia conservativa rappresenta oggi lo standard nelle forme iniziali di carcinoma», ha aggiunto Cataliotti, «per il25% di interventi demolitivi la quasi totalità delle pazienti chiede la ricostruzione». Dal punto di vista della diagnostica clinica, sono state illustrate le possibilità di miglioramento nelle tecniche di screening, come, per esempio, quelle offerte dall'ecografia tridimensionale e dalla mammografia digitale che garantisce una precisione maggiore rispetto a quella tradizionale, oltre alla possibilità del trasferimento dei dati tra ospedali e tra medici consentendo in questo modo un più attento monitoraggio della paziente. La ricerca, in ambito diagnostico, terapeutico e chirurgico ha negli ultimi anni contribuito a una stabilizzazione dei casi di cancro alla mammella e a una costante riduzione della mortalità, che, da quanto emerge dai dati dell’Associazione italiana registri tumori, è di circa 11 mila decessi all'anno. ___________________________________________________________ The New York Times 22 Ott. ‘07 IL SONNO, QUESTO GRANDE BENEFATTORE A occhi chiusi: l’irresistibile gioco del cervello umano di BENEDTCT CAREY Il compito a prima vista è semplice: osservare sullo schermo varie coppie di uova di Pasqua e memorizzare come il computer le abbina. L'uovo blu sopra l'uovo arcobaleno, quello coi ghirigori sull'altro coi coralli, e così via; le uova sono solo sei. Quasi tutti sono in grado, dopo aver studiato gli abbinamenti per una ventina di minuti, di superare senza problemi un test al riguardo, anche il giorno seguente. Il margine d'errore cresce se si tratta di scegliere tra due uova che non sono state messe direttamente a confronto. L'uovo blu batte l'uovo arcobaleno, ma questo vuol dire che batte anche l'uovo coi ghirigori? Non è chiaro. Almeno fino a quando non ci dormi su. Lo dimostra uno studio pubblicato in maggio dai ricercatori dell'Università di Harvard e dell'Università McGill: gli studenti che dopo il gioco s'erano addormentati, quando ripetevano l'esame ottenevano risultati di gran lunga superiori a chi invece non aveva dormito. Risultato: durante il sonno, i soggetti dell'esperimento erano riusciti a individuare - cosa che non avevano saputo fare da svegli - la gerarchia che collegava le coppie di uova. "A mio avviso durante il sonno lo spiraglio della memoria si apre, é riesci a vedere il quadro d'insieme", dice l'autore principale dello studio, Matthew Walker, neuroscienziato all'Università della California (sede di Berkeley). Molte intuizioni simili, prosegue, avvengono "solo quando entri in quel mondo delle meraviglie che è il sonno". Da un secolo gli scienziati provano a capire perché abbiamo bisogno di dormire. Finora, hanno scoperto poco più rispetto a quel che sa un novello genitore: la mancanza di sonno ti rende più imprudente, più fragile emotivamente, riduce la capacità di concentrazione e, quasi sicuramente, la resistenza alle infezioni. Sanno anche che ad alcune persone possono bastare appena tre ore di sonno per notte, o persino meno, e che ci sono casi di individui rimasti svegli per oltre una settimana senza gravi risentimenti per la salute. Un piccolo gruppo di neuroscienziati ora sostiene che almeno una delle funzioni vitali dei sonno è legata all'apprendimento e alla memoria. Un'ondata di nuove scoperte, sugli animali e sull'uomo; indica che il sonno è fondamentale per immagazzinare ricordi importanti, forse anche per individuare connessioni che da svegli non si era riusciti a cogliere. La teoria è controversa: certi studio si insistono che non è affatto chiaro se il cervello, di notte, sia in grado di eseguire, sui ricordi, operazioni diverse da quelle che sa compiere durante la veglia, in momenti di quieta contemplazione: Le ricerche, tuttavia, indicano i progressi della scienza. Un tempo, il cervello durante il sonno era considerato uno schermo vuoto, una metafora della morte: oggi, si è scoperto che, in quelle ore, è una macchina attiva e risoluta, un'intelligenza clandestina che esce fuori la notte per giocare - e lavorare - durante le fasi del sogno e negli intervalli ultraterreni noti come "sonno profondo". "Per fare scienza, devi partire da un'idea, e per anni nessuno ne ha avuta una; il sonno pareva nient'altro che un annichilimento della coscienza", dice J. Allan Hobson, professore di psichiatria a Harvard. "Ora abbiamo alcune idee chiare su ciò che accade nel sonno". Le prove ci sono sempre state. I neonati, addormentati, emettono suoni come se stessero succhiando; le palpebre chiuse sono scosse da piccoli tremiti. Solo nei primi Anni `50, però, all'Università di Chicago, un'équipe si impegnò a registrare il fenomeno. Eugene Aserinsky e il suo vice, Nathaniel Kleitman, pubblicarono sulla rivista Science, nel 1953, un celebre studio sul sonno Rem ("movimento rapido degli occhi" in inglese). "Quello fu il vero punto di partenza degli studi, anche se allora nessuno se ne rese conto", dice William Dement, all'epoca studente di medicina nel laboratorio di Kleitman, e ora docente di psichiatria e medicina del sonno all'Università di Stanford, in California. Dement, infatuatosi delle teorie di Freud sui sogni, si lanciò ben presto nello studio del Rem, scoprendo che era un fenomeno universale e che avveniva periodicamente nel corso della notte, alternandosi con altri stati. Assegnò dei nomi a queste varie fasi: le fasi 3 e 4, dette anche fasi di sonno profondo, in cui le onde elettriche scorrono placidamente come increspature dell'acqua in mezzo all'oceano; la fase 2, un passaggio intermedio tra il sonno Rem e il sonno profondo; e la fase I, il sonno leggero. Poi, però, passato l'entusiasmo per il Rem, la ricerca finì nel dimenticatoio. "Ci fu un grande fermento, seguito, sostanzialmente, da 40 anni di nulla", dice Robert Stickgold, neuroscienziato cognitivo dell'Università di Ha rvard. II settore ha ripreso vita da una decina d'anni, concentrandosi su un'area trascurata: l'apprendimento e la memoria. Studi recenti suggeriscono che le varie fasi del sonno sono specializzate a gestire tipologie specifiche di informazioni. Un pomeriggio, nel laboratorio di Stickgold, al Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston, uno studente postdoc, Matthew Tlicker, esamina l'effetto dei sonnellini sulle parole memorizzate. "Scopriamo che se una persona s'appisola, cadendo anche in fasi di sonno a onde lente (il sonno profondo), ottiene risultati migliori nei compiti di memoria dichiarativa, cioè che richiedono la memorizzazione di informazioni basate su elementi di fatto, come le coppie di parole, rispetto a chi non ha dormito". Un individuo sano di solito impiega una ventina di minuti per cadere nel sonno profondo. Nella prima parte della notte, può trascorrere un'ora o anche più nella fase di sonno profondo, ma poi le fasi di sonno profondo si abbreviano. Insomma, se devi memorizzare qualcosa è meglio andare a letto presto e svegliarsi di buon'ora, consigliano i ricercatori. Il sonno Rem, che normalmente interviene più tardi nella notte, è importante, a quanto sembra, per il riconoscimento di schemi e forme ricorrenti (ad esempio per imparare la grammatica, o per giocare a scacchi). In uno studio del 2003, Sara Mednick - all'epoca a Harvard e aggi all'Università della California (sede di San Diego)- condusse con un team il seguente esperimento: 73 persane arrivavano nel laboratorio alle 9 del mattino e imparavano a distinguere tra una serie di forme intrecciate; in seguito alcuni dormivano per un'ora circa, alle 14, mentre gli altri rimanevano svegli. Sottoposti nuovamente al test, alle 19, chi aveva riposato ottenne risultati lievemente migliori. Il mattino seguente, dopo che tutti avevano dormito durante la notte, il gruppo di chi aveva fatto la pennichella il giorno prima risultò di gran lunga migliore. IL riposo pomeridiano aveva contemplato sia fasi Rem che fasi di sonno profondo. "Secondo noi un sonnellino che includa entrambe queste fasi conta quanto una notte di sonno, in termini di consolidamento della memoria", per quel che riguarda il riconoscimento di forme, dice Mednick. Anche il sonno di fase 2 produce effetti sugli individui, e gli scienziati cominciano soltanto ora a capire in che modo. Carlyle Smith, dell'Università di Trent, in Canada, ha scoperto un legame importante tra la durata della fase 2 e il progresso nell'apprendimento di compiti motori. Lo sanno bene i musicisti, da secoli: quel brano che le dita si rifiutano di suonare la sera, spesso al mattino scorre fluido e facile. Secondo Smith, gran parte del sonno di fase 2 è concentrato nella seconda metà della notte. "Perciò, se vi preparate per un'esibizione, o per un concerto 0 una gara, è meglio restare alzati fino a tardi che svegliarsi prestissimo", dice. "Buttar giù dal ietto gli atleti alle 5 del mattino, è per me è una vera follia". I sogni sfuggono ancora alle misurazioni scientifiche, però hanno già un posto nella teoria, appena nascente, dell'apprendimento legato al sonno. Probabilmente è durante la fase Rem che il cervello procede a mescolare, combinare e manipolare le tracce di memoria conservate, cercando connessioni nascoste che aiutano a dare un senso al mondo. Forse tutto ciò spiega anche quel dono prezioso spesso attribuito a una notte di sonno: l'ispirazione. 5i dice che sia stato durante il sonno che lo scienziato Dmitrij Mendeleev abbia avuto l'idea della tavola periodica degli elementi. Anche alcuni atleti, come il campione di golf Jack Nicklaus, hanno parlato delle intuizioni avute durante la notte. "È logico che queste intuizioni arrivino durante la fase Rem", conclude Walker. "Voglio dire: quale momento migliore per mettere in scena tutti questi canovacci, soluzioni e idee diverse se non nei sogni, quando non si rischia alcuna conseguenza?". NEGLI INCUBI, LA CHIAVE DI TUTTI I SOGNI di NATALIE ANGIER Pochi di noi, grazie al cielo, sono perseguitati da incubi ricorrenti e fiaccanti, tanto da richiedere una specifica terapia. Eppure sappiamo tutti quanto sia sgradevole il sogno, quand'è opprimente e angoscioso. L'incubo è per definizione un sogno terrificante al punto da provocare il risveglio. A volte l'unico effetto è questo, però esistono conseguenze anche peggiori. Indipendentemente dal contenuto, i brutti sogni ci offrono indizi potenzialmente rivelatori per risolvere il grande mistero che circonda innanzitutto il motivo per cui sogniamo, le possibili interazioni tra sogno e veglia e, aspetto più intrigante, il modo in cui riusciamo a costruire una realtà virtuale nella nostra scatola cranica. Un ottimo motivi per cui gli incubi ci aiutano a schiudere il mistero di come si formino i sogni, è che le nostre notti - lo dimostrano a sorpresa le ricerche - sono popolate per lo più da brutti sogni. Non basta: dice Robert Stickgold, studioso del sonno alla Harvard Medical School, che siamo tanto operosi nel fabbricare sogni da sfiorare il ridicolo: passiamo, nientemeno, il 60-70 per cento della notte sognando o immersi in una "esperienza onirica", il che vuol dire spendere circa tre ore ogni notte in preda all'ansia e allo sconforto innescati magari da un immaginario esame, o dalla sensazione di camminare a piedi nudi su fantasiosi cocci di vetro perché le scarpe, nel nostro mondo onirico, si sono liquefatte. La frequenza degli incubi aumenta nel corso dell'adolescenza, culmina nella giovane età adulta, e poi cala. A 55 anni d'età si ha in media un terzo degli incubi che affliggono i venticinquenni. Quanto alle donne, a tutte le età - giovani o mature - patiscono un numero notevolmente maggiore di incubi rispetto ai maschi: cosa che, secondo alcuni studiosi, può derivare dalla maggiore incidenza di ansia e disturbi dell'umore nei soggetti di sesso femminile. Il contenuto onirico segue anche variabili anagrafiche e culturali. Un occasionale sogno erotico forse non turba più di tanto un giovane occidentale che viva nel Ventunesimo secolo, ma per Sant'Agostino, nel Trecento, "i sogni erotici erano incubi", ricorda Kelly Bulkeley, studioso del sonno della Graduate Theological Union di Berkeley, California. "Li considerava una minaccia per la sua fede religiosa". Le specificità culturali possono influire sul contenuto universale dei sogni. Bulkeley e i suoi colleghi hanno scoperto che l'incubo di precipitare nel vuoto è comune tra le donne dei Paesi arabi, forse come metafora della condizione femminile. "In quei Paesi la purezza è un valore talmente esaltato e il rischio di `cadere nel peccato così temuto da amplificare l'incidenza di un incubo - quello appunto di cadere - normalmente già molto frequente". La notte il cervello attraversa quattro stadi di sonno, ciascuno caratterizzato da specifici tracciati di onde cerebrali e di attività neurochimica. II sonno REM ("rapid eye movement") in cui si registrano rapidi movimenti oculari dietro le palpebre chiuse, è lo stadio più frequentemente associato all'attività onirica e ne copre il90 per cento della durata. Ma si sogna anche in fasi non REM. All'inizio della fase REM, tutto il cervello cambia, spiega il professore Ross Levin, psicologo e studioso del sonno presso la Yeshiva University dì New York. Nel sistema limbico ferve l'attività dell'amigdala e della corteccia cingolata anteriore, che costituiscono 1-asse della paura" del cervello, per usare la definizione di Steven H. Woodward, psicologo dell'ospedale della Veterans Administration di Menlo Park, California. Contemporaneamente la corteccia prefrontale, sede del pensiero razionale e del ragionamento critico, è a riposo, "il che spiega come mai si possano sognare cose irrazionali, come un essere a quattro teste e dodici gambe", dice Levin. E' relativamente quieta anche la corteccia visiva primaria, che riceve gli stimoli visivi dal mondo esterno, mentre la corteccia visiva secondaria, che contribuisce a elaborarli e interpretarli, è vigile. Probabilmente è proprio qui che nascono le immagini fantastiche dei sogni, ipotizza Tore Nielsen dell'Università di Montreal. Altri sistemi sensoriali e motori restano attivi nel sonno REM, tra cui quelli normalmente deputati al controllo di braccia e gambe: ecco spiegato perché si sogna spesso di muoversi. A volte però si ha l'angosciante sensazione di non poter raggiungere una meta. In quel caso è attiva una piccola regione del cervello che paralizza la maggior parte del corpo, impedendoci di dare espressione fisica al sogno. Gli episodi di sonnambulismo si verificano soprattutto nella fase non REM quando il corpo non è paralizzato. Nel sonno la sinergia di corpo e mente ci permette di vagare in sicurezza in un paesaggio onirico inquietante e popolato da strani personaggi, ma gli studiosi sono in maggioranza convinti che il sogno abbia uno scopo importantissimo, potenzialmente funzionale all'adattamento evolutivo. In uno studio apparso su Fsychological Bulletin, Nielsen e Levin avanzano la tesi che il sogno serva a creare "memori impiegato dal cervello per manipolare vecchie paure privandole di efficacia e poi lasciarsele alle spalle, lasciando spazio alla percezione di nuove minacce che potrebbero presentarsi. "II cervello impara in fretta a distinguere ciò che deve temere", dice Nielsen. "Senza un controllo, però, da adulti avremmo paura delle stesse cose che temevamo da bambini". I brutti sogni ordinari, cioè quelli che noi sperimentiamo più spesso, raramente riepilogano avvenimenti sgradevoli della vita reale: piuttosto, li destrutturano e li reinventano, indebolendo così le paure. , "Un brutto sogno che non porta al risveglio riesce a gestire un'emozione intensa", dice Nielsen. "Ci inquieta, ma è risolutivo se non ci svegliamo". Gli incubi, invece, consentendo una fuga precoce dal sogno, rappresentano un fallimento del sistema di "estinzione della paura". In conclusione, riassume Nielsen, "I brutti sogni sono funzionali, gli incubi disfunzionali". ___________________________________________________________ TsT 31 Ott. ‘07 E'UNA MOLLA CHE SALVA IL CUORE Presentato il progetto di un team italiano contro lo scompenso cardiaco KETTYAREDDIA Semplice, ma geniale: una piccola molla a forma di anello potrebbe diventare la salvezza per chi soffre di scompenso cardiaco, una malattia che è provocata da un ingrossamento del ventricolo sinistro e dalla diminuzione delle funzioni del cuore. L'intuizione, diventata progetto di ricerca e quindi sperimentazione, è stata pubblicata ieri dal prestigioso «Journal of American College of Cardiology»: è frutto del lavoro lungo sette anni di un team di medici degli ospedali Riuniti di Bergamo, in collaborazione con il mollificio Sant'Ambrogio, una società high tech italiana specializzata nella produzione di componenti industriali di precisione. «L'idea è nata dall'osservazione costante e analitica della fisiologia e del funzionamento del cuore - ha spiegato ieri, presentando i risultati del lavoro, il dottor Eugenio Quaini, cardiochirurga e responsabile del Progetta Anelli Elastici -. L'architettura, la struttura e l’ultrastruttura cellulare del cuore lo fanno funzionare come una pompa, secondo le leggi dell'elasticità. Nella patologia dello scompenso cardiaco questa elasticità viene a mancare e il ventricolo sinistro perde la sua forma ellissoidale per assumerne una sferica, come un pallone da calcio. Ciò riduce progressivamente la capacità di pompare sangue e provoca mancanza di respiro e mancanza di sangue nei tessuti ed è una delle maggiori cause di mortalità al mondo». Negli Stati Uniti e in Europa lo scompenso cardiaco colpisce 11 milioni e mezzo di persone e provoca circa 550 mila decessi all'anno (in Italia ne soffrono 700 mila persone, vale a dire l’1,2% della popolazione ed è la prima causa di morte). La patologia può divenire refrattaria alle cure mediche. Anche le tecniche chirurgiche di riduzione del volume del ventricolo e di ripristino della forma ellissoidale, infatti, non assicurano la sua elasticità, tanto che l'ultima spiaggia per la cura di questa cardiopatia è il trapianto di cuore, con tutte le complicazioni del caso e la mancanza di donatari. «La nostra idea è semplice, ma ha già dato i primi risultati su un gruppo di pecore - ha sottolineato Paolo Ferrazzi, direttore del Dipartimento cardiovascolare degli Ospedali Riuniti di Bergamo -. Un anello, costituito da una molla metallica, è stato impiantato all'interno di cuori dilatati. L'anello, coordinandosi con i battiti cardiaci, agisce durante la fase di riempimento del ventricolo sinistro e restituisce, grazie al fenomeno elastico, la forza incamerata durante la contrazione». Questa energia nel cuore dilatato é dissipata per la mancata funzionalità di una proteina detta Titina, che conferisce elasticità al muscolo cardiaco. L'anello, posto all'interna del ventricolo sinistro, secondo le previsioni dei medici, potrebbe addirittura fare da fisioterapia al cuore e aiutarlo a riacquistare le capacità di pompaggio del sangue. La sperimentazione sugli uomini non è ancora iniziata e si spera che entro il 2008 questo gruppo di pionieri della cardiochirurgia, che per anni sì è autofinanziato, appoggiandosi a strutture private e alle proprie forze, inizi la fase sperimentate dell'applicazione clinica. «Stiamo sviluppando nuove tecniche per aumentare, con l'inserimento di queste molle biocompatibili, l'elasticità della valvola mitralica e di altre strutture del cuore», ha annunciato Quaìni. Ferrazzi si è ulteriormente sbilanciato, dicendo di sperare di riuscire in futuro a prevedere «l'inserimento dell'anello elastico non tramite chirurgia, ma con una semplice procedura percutanea». La malattia colpisce in_ Europa e Usa 11 milioni e mezzo di persone e provoca mezzo milione di morti l'anno ___________________________________________________________ Libero 28 Ott.‘07 PRIMO SUCCESSO IN. USA DELLE CURE VIRALI ANTICANCRO I ceppo del vaiolo più vita a 13 malati ap ROBERTO MANZOCCO SAN FRANCISCO Utilizzando una versione geneticamente modificata del virus del vaiolo un team di ricercatori Usa è riuscito a prolungare la vita di alcuni pazienti affetti da tumore al fegato in fase terminale, riuscendo in molti casi a ridurre di più del 50% le dimensioni della neoplasia. A ottenere questo risultato - che apre la strada allo sviluppo di cure "4irali' per il cancro -sono stati DavidKrrn e i suoi colleghi della Jemterex iotherapeutics (San Francisco). L'idea che alcuni virus possano in qualche modo eliminare o contenere i tumori risale agli inizi del '900; fu infatti proprio nel 1912 che una rivista scientifica italiana di ginecologia pubblicò un articolo relativo al caso di una donna affetta da cancro alla cervice la quale aveva subito una riduzione della neoplasia dopo aver ricevuto il vaccina contro la rabbia silvestre. Ma ora Kim e collaboratori si sono molto avvicinati alla soluzione del problema. Hanno iniziato a lavorare sul virus vaccinico - cioè il microrganismo responsabile del vaiolo , al quale ha ima agganciato a mo' di "coda" tutta molecola (l’actina) che gli permette di diffondersi molto rapidamente all'interno delle cellule umane. Gli studiosi inoltre hanno modificato questo virus in modo che non fosse più capace di sintetizzare un enzima noto come timidina-chinasi; senza di esso il virus vaccinico non è più in grado di riprodursi e quindi di danneggiare le cellule sane, Ma siccome le cellule cancerose producono in grosse quantità l'enzima in questione, ecco che il suddetto microrganismo può riprodursi esclusivamente in esse; non solo, una volta moltiplicatosi un numero sufficiente di volte, il virus vaccinico causa la morte delle cellule tumorali da lui utilizzate. E non è finita. Kim ha aggiunto ai suoi virus gm un gene che consente loro di produrre un tipo di citochina, cioè una molecola che funge da richiamo per le cellule immunitarie dell'organismo umano (le quali finiscono per attaccare i tessuti tumorali), Dopo aver testato con successo il virus sui conigli, gli scienziati hanno scelto 13 volontari affetti da tumore al fegato in fase terminale e hanno iniettato loro a più riprese il microrganismo gm: in 10 casi i tumori si sono ridotti (in cinque la riduzione ha superato il 50% del totale) e l'aspettativa di vita dei pazienti si è notevolmente allungata. _______________________________________________________ L’Unione Sarda 24 Ott. ‘07 FAVISMO, SARDI BEFFATI DALL’ESERCITO Il professor Antonio Cao spiega la causa della discriminazione Per gli scienziati il favismo non deve essere un motivo per escludere i sardi, ma l’Esercito ha ribaltato il verdetto di Lucio Salis Esclusi e beffati. Sono i giovani sardi, fabici, che vogliono arruolarsi nell’Esercito, ma vengono sempre respinti. Dopo anni di battaglie legali, una commissione di scienziati ha stabilito che il favismo, malattia provocata dall’ingestione di fave, non rappresenta un motivo valido per privarli delle stellette. Il ministero della Difesa ha recepito il verdetto, ma ha emesso un decreto che, di fatto, li esclude. «Una presa in giro», messa in atto giocando proprio sui dati indicati dalla commissione, «una ignobile furbata», secondo il professor Antonio Cao, già titolare della cattedra di Pediatria all’Università di Cagliari, direttore dell’Istituto di Neurogenetica e Neurofarmacologia del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche). Ma la partita non è finita. Perché un gruppo di parlamentari sardi, dell’intero arco costituzionale, ha presentato un disegno di legge che mira a cancellare l’odiosa (e ingiustificata) discriminazione. Quasi unica al mondo. Applicata solo nell’esercito turco. Per gli americani, i greci e i francesi il favismo non è causa di esclusione dalla Leva. Come esperto della materia, Cao (che al favismo e ad altre malattie genetiche ha dedicato una vita di studi) ha fatto parte della commissione, nominata dal ministero Difesa, chiamata a decidere se fosse giusto non ammettere nelle forze armate i giovani fabici. Con lui, altri illustri clinici: i professori Alberto Zanella e Sergio Amadori, il magistrato Giovanni De Cesare, il generale Michele Donvito. Dopo un’intensa fase di lavori e accese discussioni, «non sempre eravamo d’accordo», gli esperti decisero che il favismo non doveva essere considerato una patologia valida per impedire a un giovane di arruolarsi. Il tutto articolato in alcuni punti, sinteticamente riportati in un documento. Base di partenza, i valori di G6PD, sigla che indica l’enzima Glucosio-6-Phosphato Deidrogenasi presente nel sangue. La cui carenza, al di sotto di certi valori, provoca il favismo, cioè dissoluzione dei globuli rossi e crollo del tasso di emoglobina, fronteggiabile con trasfusioni di sangue. La commissione ha definito "non idonei al servizio militare" solo i soggetti fabici che abbiano avuto "comprovate crisi emolitiche". Idonei, senza alcun limite, invece, coloro che presentano "attività G6PD superiore o uguale al 30 per cento se maschi e al 70 per cento se femmine". Ma idonei devono essere considerati anche "i maschi che hanno G6PD inferiore al 30 per cento e le femmine inferiore al 70 per cento". Questi ultimi sono valori inferiori alla norma, piuttosto diffusi fra i sardi. I giovani nei quali vengono rilevati non dovrebbero essere inviati, per precauzione, nei paesi in cui si registra una diffusione endemica di malaria da Plasmodium falciparum. Perché, fra le possibili cause di crisi emolitica, non ci sono solo le fave, ma anche alcuni farmaci utilizzati per la cura della malaria. Chiarissimo il verdetto finale degli scienziati: «La rivalutazione complessiva del difetto da G6PD porta a concludere che tale difetto non debba essere considerato un fattore di discriminazione nella valutazione medico-legale dell’idoneità al servizio militare». I massimi esperti della materia erano convinti di aver risolto il problema. Non avevano però fatto i conti con l’opposizione, da sempre manifestata dalla medicina con le stellette, all’arruolamento dei fabici (come ben sanno tantissimi ragazzi e ragazze sarde). Le resistenze si sono materializzate nel decreto (n. 224) emesso dal Ministero della Difesa nel settembre scorso, che tiene conto del parere degli scienziati, ma individua due categorie di candidati al servizio militare. La prima è quella dei soggetti con valori G6PD superiori al 30 per cento (maschi) e 70 per cento (femmine). «Che saranno subito arruolati - spiega il professore -: peccato che in Sardegna non esistano». Della seconda categoria fanno parte i giovani con G6PD inferiore al 30 per cento (maschi) e al 70 per cento (femmine). «I fabici sardi hanno un’attività G6PD che va dall’1 al 3 per cento. Il decreto ne prevede l’arruolamento, ma dopo quelli della prima categoria. In teoria, riconosce loro una sorta di idoneità, che di fatto li esclude, perché i posti disponibili nell’esercito sono sempre in numero inferiore rispetto alla domanda. Un’autentica porcheria». È indignato il professore, perché si è utilizzato in maniera distorta il lavoro della commissione, per continuare con una discriminazione che non ha motivazioni scientifiche. «La verità è che i medici militari hanno paura di arruolare i fabici, anche se sanno benissimo che il loro stato di carenti dell’enzima G6PD non comporta alcuna menomazione. Non vogliono grane. Forse hanno paura che, in caso di incidente, qualche fabico faccia loro causa. E non sono assicurati». Scheda I pregiudizi e le crisi emolitiche Il difetto di un enzima che provoca l’anemia Il favismo è causato dalla carenza di un enzima, G6PD (Glucosio-6-Phosphato Deidrogernasi) presente in tutte le cellule del corpo umano e nei globuli rossi. Quando è manca, in parte, nelle altre cellule non dà problemi, mentre nei globuli rossi provoca emolisi, cioè la distruzione, con conseguente anemia. Il professor Antonio Cao spiega, in termini volutamente semplici, cos’è questo difetto, che in Sardegna colpisce il 16,4 per cento dei maschi e il 20,6 per cento delle femmine. «L’emolisi avviene a causa di fattori esterni scatenanti: nel caso specifico, le fave (non i piselli, come erroneamente si crede) e una serie di farmaci ossidanti, come diversi composti antimalarici». Professore, la crisi emolitica può essere provocata dall’ingestione di fave o anche dalla vicinanza di un campo in cui vengono coltivate? «Pure quest’ultima è una credenza errata. Fa male solo mangiare fave, perché contengono due veleni, che si chiamano vivicina e isuramide, che non sono volatili. Eppure, a causa di questa sciocchezza, alcuni paesi hanno vietato la coltivazione delle fave nei pressi dell’abitato. Di rado la crisi può essere scatenata anche da infezioni, come il tifo e l’epatite. Concetto fondamentale, comunque, è che il soggetto fabico è assolutamente normale». Il difetto è cronico, non si guarisce, non è trattato con farmaci, ma con trasfusioni di sangue, in caso di crisi gravi. È ereditario, si trasmette, per lo più, attraverso il cromosoma x delle donne. Può essere mortale quando causa insufficienza renale. È diffuso soprattutto in Africa, ma anche in alcune popolazioni dell’Asia meridionale e del bacino mediterraneo, come la Grecia e la Sardegna, dove raggiunge livelli elevati di diffusione. Sintomi rivelatori, febbre, ittero della cute e delle mucose, urine ipercolorate giallo arancione, pallore, debolezza, respiro frequente e difficoltoso, polso rapido, debole. L. S. _______________________________________________________ L’Unione Sarda 31 Ott. ‘07 LA SARDEGNA HA IL RECORD ITALIANO DI MALATI DI OSTEOPOROSI e occupa i primissimi posti per le artriti. Bastano i numeri per dare un'idea dell'emergenza delle malattie reumatiche nell'Isola. Secondo i dati dell'Istat, il 27 per cento della popolazione sarda - più di quattrocentomila persone - è affetto in qualche modo da artriti o artrosi alle articolazioni, con un'incidenza nettamente superiore alla media (solo Emilia Romagna e Toscana sono davanti). E i dati sull'osteoporosi sono ancora più allarmanti. La malattia che rende fragili le ossa (aumentando il rischio di fratture, anche gravi) colpisce l'11,30 per cento dei sardi, un record assoluto che non ha eguali nella penisola. I pazienti stimati sono circa 170mila (la media italiana scende all'8,20 per cento). Da qui l'appello lanciato dall'Asmar, l'associazione sarda dei malati reumatici, che chiede risposte «immediate e certe» sul piano sanitario approvato all'inizio dell'anno dal Consiglio regionale. D'altronde l'emergenza è stata presa in considerazione dalla Regione, che ha dedicato un capitolo a parte alle patologie reumatiche, ipotizzando la nascita di un centro ospedaliero che si occupi esclusivamente di reumatologia (visto che non esiste nulla di ciò in tutta l'Isola). «Ma dopo tanti mesi non c'è ancora un segnale concreto che migliori l'assistenza a migliaia di malati», fa notare Ivo Picciau, presidente dell'Asmar. «Fino a questo momento tutto l'impianto della reumatologia in Sardegna si regge sulle cattedre universitarie. E la situazione è paradossale. Ci sono appena ventidue posti letto, che non riescono in alcun modo a garantire la copertura per i casi più gravi». L'approvazione del piano sanitario diventa così un passaggio obbligato per dare risposte a tanti malati, anche perché molte patologie diventano invalidanti. L'artrite reumatoide, l'artrite psoriasica, la spondilite anchilosante e le connettiviti colpiscono complessivamente migliaia di persone. E i dati su tutte le malattie reumatiche sono destinati a crescere negli anni, visto il progressivo invecchiamento della popolazione. «Senza cure a assistenza adeguate si ha una conseguenza tutt'altro che secondaria», sottolinea Picciau. «I costi sociali per la collettività salgono in modo esponenziale. Risorse alla mano, sarebbe meglio investirle per curare le malattie in tempo, anziché attendere gli aggravamenti e la moltiplicazione delle spese». _______________________________________________________ L’Unione Sarda 30 Ott. ‘07 Sanità e affari sociali : CRESCE L'ESENZIONE PER I SERVIZI SOCIALI, 136 MILA RICHIESTE Aumentano le persone che chiedono un sostegno economico e si rivolgono ai servizi sociali. Anche tra coloro che hanno un reddito più alto, oltre i 250 mila euro, non mancano i nuclei familiari che nel 2006 hanno inviato all'Inps la cosiddetta Dichiarazione sostitutiva unica per l'accesso ai servizi sociali. Una crescita che non si ferma soprattutto al Sud, dove il disagio sociale, anche per chi ha redditi medio-alti, è sempre più evidente. Nel Mezzogiorno, il totale delle dichiarazioni per richiedere uno sconto su alcuni servizi è cresciuto del 5,6%, passando da oltre 2,6 a 2,755 milioni. LA SARDEGNA I contribuenti sardi hanno presentato nel 2006 oltre 136.000 dichiarazioni sostitutive del reddito per l'accesso ai servizi sociali e a prestazioni agevolate. I numeri della Sardegna sono tra i più elevati in Italia in proporzione al numero di abitanti, secondo una tabella pubblicata ieri dal “Sole-24Ore” in base a dati Inps. In valore assoluto, a guidare la classifica sono la Sicilia, con oltre un milione di dichiarazioni sostitutive, la Campania con quasi 700.000 e la Puglia con quasi 451.000. La maggior parte delle dichiarazioni inviate all'Inps dai contribuenti sardi riguarda i redditi tra 20.000 e 50.000 euro (oltre 44 mila). A COSA SERVE La dichiarazione sostitutiva unica serve per accedere a numerosi servizi sociali a pagamento garantiti dallo Stato sulla base del reddito dei contribuenti. Tra questi, ad esempio, l'assegno per nuclei familiari con almeno tre figli minori, la fornitura gratuita o semigratuita dei libri di testo, le prestazioni del diritto universitario allo studio, le mense scolastiche e anche alcune esenzioni sanitarie oltre che le tariffe sociali per la distribuzione di energia elettrica. I CONTROLLI Da ora in avanti, con la nuova Finanziaria nazionale, il Governo punta a intensificare i controlli sul sistema del welfare e quindi sull'Isee, l'indicatore della situazione economica equivalente che viene predisposto proprio sulla base della dichiarazione sostitutiva unica. Queste ultime, raccolte da Comuni, Caf o Inps, potrebbero essere trasmesse per via telematica all'Agenzia delle entrate oppure potrebbe spettare allo stesso beneficiario l'onere d'inviarle on line al fisco. Saranno poi gli ispettori dell'Agenzia delle entrate, dunque, a compiere i controlli per stabilire se il reddito dichiarato è quello reale. _______________________________________________________ La Repubblica 22 Ott. ‘07 GIOVANI SPECIALIZZANDI O RAGAZZI DI BOTTEGA? NON c’è leader politico, documento programmatico di partito, dichiarazione di intenti di destra o di sinistra che non ribadisca l’esigenza di incrementare la formazione qualificata delle giovani generazioni. A forza di ripeterla, senza un seguito pratico, questa asserzione si è tramutata in una giaculatoria a cui nessuno più crede. Tanto più quando gli atti vanno in senso opposto. Un caso fra i tanti mi è stato fornito da un gruppo di medici specializzandi che mi hanno esposto le condizioni dei 25.000 giovani laureati della categoria (hanno anche un organo di collegamento, il Sims e un sito: www.sims.ms ). Sono loro che nel prossimo futuro avranno nelle mani la salute degli italiani e la ricerca medica nel nostro Paese. Ecco come vengono trattati dopo 6 anni di corso di laurea (che per i più diventano 7 od 8) e le prove di tirocinio per l’abilitazione. A questo punto, se vogliono aprirsi una decente prospettiva di lavoro, debbono specializzarsi, dato che non esiste più un settore pubblico della professione non suffragato da un percorso specialistico. Persino il medico di base, per essere convenzionato col Servizio sanitario nazionale, deve aver superato un corso triennale di «medicina di famiglia». Ma non è così facile. I posti nei corsi di specializzazione spesso non rispecchiano il numero dei concorrenti, per cui vi è un’aliquota destinata ad un attesa prolungata. Inoltre i concorsi, che dovrebbero essere collegati ai tempi dell’anno accademico, hanno invece cadenze assolutamente incerte. Il ministro della Ricerca e dell’Università, Fabio Mussi, ad esempio, aveva assicurato che entro novembre le prove sarebbero state bandite, ma poi non se ne è saputo più nulla e i funzionari interrogati adombrano l’ipotesi di febbraio o marzo. Ma questo è il meno. Nel 1991 l’Unione europea, allora Cee, impartì una direttiva agli Stati membri per favorire la formazione dei giovani laureati. I laureati in via di specializzazione che operano negli ospedali avrebbero dovuto essere riconosciuti come medici in formazione, avere un contratto con uno stipendio minimo, la previdenza, l’assicurazione malattie, la maternità. Troppo bello per esser vero. Almeno da noi. I governi italiani, quale che fosse la maggioranza, si sono ben guardati per anni dal recepire la direttiva di Bruxelles. Nel frattempo agli specializzandi veniva conferita una misera borsa di studio di circa 960 euro mensili, senza alcun riconoscimento di orario, maternità e contributi previdenziali. Quel che è peggio venivano e vengono utilizzati come manovalanza di supporto alle carenze di organico degli ospedali universitari. Invece di assicurare a tempo pieno la loro preparazione in contatto col malato vengono trattati non di rado come «ragazzini di bottega » dai baroni dei nosocomi, utilizzati come infermieri, portantini, attendenti del primario (è capitato a me di constatare di persona come due specializzandi venissero incaricati ogni mattina di presidiare davanti ad un padiglione dell’Umberto I di Roma lo spazio per il parcheggio del loro capo). Spesso la notte sono lasciati soli di guardia, col supporto di un numero di telefono per raggiungere il collega di ruolo in caso di necessità (malgrado il regolamento reciti che il medico in formazione non possa sostituire il personale regolare ed, anzi, la sua attività si debba svolgere con l’assistenza di un tutor). Comunque nel 1999 venne approvata una legge che riconosceva per gli specializzandi il contratto di formazione-lavoro (oggi formazione specialistica), ma, con i tempi della nostra burocrazia, essa è entrata in vigore il primo novembre 2006 e solo nell’agosto del 2007 — ben 16 anni dopo la direttiva europea — sono stati firmati i primi contratti a una parte cospicua (non ancora a tutti) dei 5000 specializzandi dell’ultimo concorso, cui è assicurato uno stipendio di 25.000 euro lordi l’anno. Dopo tanta attesa, viene stappata qualche bottiglia di spumante. Ma, poi, passa un mese, ne passano due, ne sta per scadere il terzo, ma gli interessati non vedono traccia di emolumenti e non è loro stato richiesto neppure un recapito bancario dove versarli. I motivi di inquietudine non si fermano qui. Quando firmeranno gli altri all’incirca 20.000 specializzandi (la legge riguarda come è naturale tutta la categoria) entrati con i concorsi precedenti e che seguitano a ricevere il misero trattamento di borsisti, di cui nessuno parla? Si incrociano in questa penosa vicenda tutti i «topos» tipici della vulgata politica italiana: la condizione dei giovani, il precariato, la formazione e, infine, l’Europa. Su nessun punto le parole corrispondono ai fatti. _______________________________________________________ Corriere della Sera 29 Ott. ‘07 IL TRAPIANTO SECONDO GEOVA Chirurgia Primo caso in Italia, per rispettare le motivazioni religiose della paziente Sostituito il fegato senza ricorrere a trasfusioni di sangue DAL NOSTRO INVIATO BOLOGNA - Dodici ore di sala operatoria. Un secondo dopo l' altro a tagliare e subito a richiudere i vasi sanguigni, l' adrenalina a mille. Perché quando si trapianta un testimone di Geova, non c' è margine per l' errore. Chi rifiuta di ricevere sangue, plasma e piastrine, per convinzione personale, non ha molte chance e non ne concede. All' ospedale Sant' Orsola, il professor Antonio Pinna e l' équipe del Centro trapianti sono riusciti a spostare la frontiera più in là. E, per la prima volta in Italia, hanno eseguito un trapianto di fegato solo raccogliendo il sangue perso durante l' operazione e senza alcun tipo di trasfusione. La testimone di Geova, M.S. di 63 anni, ha ripreso la sua vita normale nel paesino ai piedi del monte Falterona, in provincia di Forlì-Cesena, dove abita. L' intervento risale al 12 luglio dell' anno scorso. Ma il professor Pinna, che ha lavorato all' università di Pittsburgh con Thomas Starzl, "padre" dei trapianti di fegato, ha accettato di renderlo pubblico soltanto adesso. Ne parla nello studio al primo piano della palazzina Trapianti, sotto lo sguardo severo dei 14 luminari suoi predecessori: da Giuseppe Atti, nel Settecento, fino a Giuseppe Gozzetti, scomparso nel 2005. Perché solo ora, professor Pinna? «Volevo essere sicuro dell' esito. Avevo bisogno di un anno per capire se tutto era andato bene». Rimettiamo indietro le lancette: quali problemi presentava la paziente? «La signora soffriva di un' insufficienza epatica cronica, una cirrosi diagnosticata otto anni fa. Dopo aver tentato diverse cure, l' unica indicazione terapeutica era il trapianto. Come testimone di Geova, però, ha chiesto di non essere sottoposta a trasfusione». Lei ha accettato. Poteva anche dire di no, giusto? « In linea di principio, non ho nessuna preclusione. Non posso costringere un paziente a cambiare religione e quindi devo pensare a come curarlo. Dal punto di vista etico, sono tenuto a fare di tutto per un malato, ma è chiaro che non posso rischiare di farlo morire». E dal punto di vista medico? «Non è una scelta facile, perché il trapianto di pazienti con rischio emorragico, che non possono essere trasfusi, determina un vertiginoso aumento delle complicanze. Ma l' esperienza, iniziata storicamente a Pittsburgh nel ' 91, ha dimostrato che è possibile trapiantare un testimone di Geova. Certo occorre seguire regole ben precise». Una specie di decalogo: può spiegarlo? «Il paziente deve arrivare al trapianto con un valore di ematocrito superiore al 40 per cento dell' intero volume ematico, che è la norma. Il numero di piastrine non può essere inferiore alle 100mila unità e non devono esserci situazioni tecniche chirurgiche, che in sé comportino un alto fattore di rischio di emorragia in sala operatoria. Tutti e tre i criteri devono essere rispettati contemporaneamente» Altrimenti, cosa può succedere? «Se uno dei parametri sballa, la quota di emoglobina in circolazione diminuisce. I tessuti rischiano un' asfissia grave che conduce alla morte del paziente e danneggia anche il fegato. Una perdita doppia, che deve far riflettere e agire con molta attenzione: perché l' organo poteva comunque essere utilizzato». Nel caso specifico, ha dovuto riflettere molto? «La paziente è venuta da me e ha spiegato quali erano i suoi problemi. Il suo caso presentava tutti i criteri necessari per poter affrontare il trapianto e perciò è stata accettata.» Se i requisiti fossero mancati? «Avremmo detto alla paziente che il trapianto si poteva fare, ma a quel punto avrebbe dovuto dare il consenso alla trasfusione. Il problema si pone con il paziente che sanguina in sala operatoria. Negli Usa, se non ho il consenso non posso trasfondere. In Italia posso, ma con una giustificazione. Poi sarà il magistrato a valutare se avevo ragione». Ci racconti l' intervento: avete usato tecniche particolari? «In sala operatoria, tutta una serie di procedure per limitare al minimo il sanguinamento. Abbiamo legato i vasi subito dopo averli tagliati e abbiamo reinfuso la paziente con la macchina per il recupero intraoperatorio, che recupera e reinfonde immediatamente il sangue». Perdoni la curiosità, ma quanto sangue si risparmia? «Da noi, il consumo medio si è praticamente dimezzato perché si sono adottate tecniche e procedure di cui beneficiano i testimoni di Geova e anche gli altri. Dieci anni fa era ragionevole pensare a una media di 20 unità di sangue per trapianto. Una unità equivale a circa 450 millilitri. Adesso siamo scesi a 5-8 unità, che è sempre troppo, ma è meglio di prima. Dobbiamo arrivare a zero, anche se è quasi impossibile». E dopo il trapianto? «Abbiamo somministrato eritropoietina, per stimolare la produzione di globuli rossi, e abbiamo ridotto al minimo indispensabile la diluizione ematica. La paziente è stata tenuta molto ben ossigenata, sotto ventilazione assistita per 72 ore. Per il buon successo dell' intervento, dunque, occorre avere a disposizione una camera iperbarica, qualora la carenza di emoglobina provochi danni ai tessuti. Bisogna poi ridurre al minimo indispensabile gli esami del sangue. Così preleviamo al massimo quantità da capillari pediatrici». Onestamente, la chirurgia di frontiera serve al progresso medico? «Non c' è dubbio. Tutti questi problemi devono stimolarci a trovare una soluzione e non a esorcizzarli. Bisogna solo avere bene in testa i criteri e non cullarsi nel facile ottimismo». Perché allora non diventa prassi comune? «In un mondo in cui siamo diventati molto assertivi, occorre riesumare l' antico "non so". Non si può obbligare un medico. Apprezzo molto di più un collega che si dichiara incapace, di uno che invece agisce credendo di sapere e poi sbaglia». Dagli Stati Uniti all' Italia: nessun rimpianto? «No, sono più i giorni che mi piace stare a lavorare qui. Dell' America ho gran bei ricordi: tutto ciò che si può fare, si fa. In Italia si guadagna di meno. Ma non si può avere tutto nella vita». Ruggiero Corcella * * * Fede e Donazioni Chi accetta e chi no Buddismo La donazione di sangue e quella di organi sono ammesse, ma il prelievo di organi va effettuato dopo tre giorni dalla morte clinica. Cattolicesimo La donazione di sangue e di organi è incoraggiata in quanto atto di carità. Ebraismo Gli ebrei ammettono le donazioni d' organi e i trapianti sono consentiti perché salvano l' uomo in immediato pericolo di vita. Induismo La donazione d' organo è una decisione individuale. Islam In base ad alcune interpretazioni del Corano si ammette la donazione d' organi purché ci sia consenso in vita o dei parenti; le trasfusione di sangue sono ammesse. Religione protestante Promuove la donazione d' organi. Corcella Ruggiero