SETTE PROF IN CORSA PER LA POLTRONA DI RETTORE - CINQUE FACOLTÀ IN CERCA DI PRESIDE - UNIVERSITÀ, UN ESAME PER IL NUOVO GOVERNO - PEROTTI: CHIUDIAMO GLI ATENEI CHE NON FUNZIONANO - ATENEI, IMPEGNI POSSIBILI CONTRO IL DISIMPEGNO - MONTALCINI: I MIEI MAGNIFICI 99 - ALBI: LAUREE TRIENNALI FUORI GIOCO - AGENZIA PER GLI ATENEI, PROVE DI INNOVAZIONE - CERVELLI IN LISTA D'ATTESA - SE VALUTI BENE RICERCHI MEGLIO - ORA IL BONUS RICERCA - CAGLIARI: GLI INQUINANTI IMPRIGIONATI - L'EBOLLIZIONE DELLO SPAZIO - IL NOSTRO CERVELLO DIVENTA DIGITALE - IL CARBONE VINCE A SORPRESA NELLA BATTAGLIA ECOLOGICA - ======================================================= OSPEDALI PSICHIATRICI, IN SALITA LA STRADA PER «SUPERARLI» - EPIDEMIOLOGIA MANAGERIALE: PER GESTIRE BISOGNA ESSERE INFORMATI 24% - IN «GAZZETTA» LE LINEE GUIDA PER GLI STUDI OSSERVAZIONALI (SOS) SUI FARMACI - SARDEGNA: RIABILITAZIONE AL RINNOVO: ECCO IL PIANO FINO AL 2010 - INTRAMOENIA LEGITTIMA ANCHE SENZA SPAZI - MEDICI DI BASE: NON SI CAMBIA – LUNGHE ATTESE PER I PAZEINTI - QUELLO CHE IL MALATO DOVREBBE SAPERE - IN MALATTIA (SENZA CERTIFICATO) SCONTRO SULL'ULTIMO PRIVILEGIO - UNA PILLOLA BATTE LA CELIACHIA - LIBERI DALLA MALARIA IL CASO SARDEGNA - RADIOTERAPIA, RISCHI RIDOTTI - FARMACI: LA RICERCA NON DEVE AVERE FRETTA - MORONI: AIDS, QUALE LEZIONE DAL FALLIMENTO DEI VACCINI USA - IL GENE MEGLIO DEL BUGIARDINO - UN FARMACO PER CURARE LA CATARATTA SENZA INTERVENTO CHIRURGICO - ======================================================= ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 19 apr. ’08 SETTE PROF IN CORSA PER LA POLTRONA DI RETTORE Cagliari. Ai sei candidati ufficiali si è aggiunta la neuroscienziata Del Zompo Si fa più agguerrita la lotta per occupare la poltrona di rettore dell'Università di Cagliari. Ai sei candidati ufficiali si è aggiunta Maria Del Zompo. La scienziata ha dato ieri la sua disponibilità durante un'affollata assemblea che ha messo di fronte, per la prima volta, gli aspiranti rettori. Per il dopo Mistretta sono in corsa Raffaele Paci, Francesco Sitzia, Giovannino Melis e Antonio Sassu (tutti provenienti dal polo economico giuridico), Gavino Faa, Giuseppe Santa Cruz e Maria Del Zompo (docenti della facoltà di Medicina). Università. Il rettore sarà un docente del polo economico-giuridico o di Medicina Dopo Mistretta, via alla grande corsa Ai sei candidati ufficiali si è aggiunta anche la Del Zompo Ieri dibattito pubblico in viale Sant'Ignazio tra gli aspiranti rettori, docenti, personale amministrativo e studenti Ai sei candidati che hanno ufficializzato la loro disponibilità a correre per la carica più alta dell'Università, si è aggiunto un altro importante avversario: Maria Del Zompo, docente di Farmacologia e neuroscienziato di fama mondiale. «In molti mi hanno chiesto di partecipare alle elezioni a Rettore. Ci sto riflettendo seriamente», ha confermato la professoressa intervenendo ieri nell'aula A del polo giuridico-economico durante la conferenza-dibattito che ha messo di fronte, per la prima volta, i candidati a Rettore per guidare l'Ateneo in quello che è stato definito il post ventennio di Mistretta . IL CONFRONTO Sale così a sette il numero degli aspiranti candidati: quattro provengono dal polo economico-giuridico (Raffaele Paci, preside di Scienze politiche e docente di Economia applicata; Francesco Sitzia, ordinario di Diritto romano, ex preside di Giurisprudenza, componente del Senato accademico e del cda del Banco di Sardegna; Giovannino Melis, docente di Economia aziendale, ex preside della facoltà di Economia; Antonio Sassu economista, ordinario di Politica economica, ex presidente del Banco di Sardegna), tre dalla facoltà di Medicina (Gavino Faa, attuale preside, Giuseppe Santa Cruz, ordinario di Anatomia patologica, e appunto Maria Del Zompo). Ieri si è svolto il primo confronto pubblico (unico assente per motivi di salute, Sassu) che segna l'inizio di un percorso che potrebbe portare a una scrematura dei candidati. Paci, Sitzia e Melis stanno sondando il terreno per arrivare a individuare, prima dell'estate, un solo nome da proporre per la carica di rettore. Corre da solo Sassu, mentre con la discesa in campo della Del Zompo è possibile che anche in Medicina si decida di avviare un dialogo interno per stabilire, e sostenere, un solo candidato e non tre. L'ASSENZA Nell'aula A di viale Sant'Ignazio ieri è stata sistemata la prima pietra di un lungo cammino: le elezioni per il dopo Mistretta si terranno tra maggio e giugno del 2009. Elezioni storiche perché dopo diciannove anni non ci sarà Pasquale Mistretta, ieri assente per altri impegni istituzionali. I maligni hanno ironizzato sostenendo che il Magnifico ha preferito non assistere all'inaugurazione di una campagna elettorale a cui non può partecipare. IL DIBATTITO I lavori sono stati aperti dai tre docenti organizzatori dell'incontro: Beniamino Moro, Gaetano Di Chiara e Antonello Tramontin. «Siamo davanti a delle piccole primarie senza votazione», ha detto Moro, «per portare gli argomenti dell'Università tra le varie componenti dell'Ateneo. Sperando che il prossimo Rettore metta al primo posto della sua agenda di lavoro un vero decentramento, dal rettorato alle facoltà fino ad arrivare ai dipartimenti, per quanto riguarda la ricerca, e ai corsi di studio, per la didattica». Di Chiara ha evidenziato l'importanza di un dibatto per «dare ai candidati la possibilità di ascoltare i problemi e le richieste che arrivano da tutta l'Università». Tramontin ha invece ricordato il forte legame tra Ateneo e città, «componente fondamentale per le scelte future che dovrà fare il rettore». I RIVALI In rigoroso ordine alfabetico i candidati si sono poi succeduti davanti a una platea di oltre duecento persone (presidi, docenti, sindacati, studenti e personale amministrativo). Faa ha spinto molto sul concetto di autonomia: «L'Università», ha detto, «deve dialogare e collaborare con tutti senza sottomettersi a nessuno. Il programma? Lo stabiliscono tutte le componenti dell'Ateneo, non il singolo candidato». Per Melis sarà importante «agire con trasparenza, puntare al decentramento e utilizzare al meglio le risorse del personale universitario». Paci ha ricordato che «insieme ai colleghi Sitzia e Melis è stato predisposto un programma di nove punti che sarà portato avanti, e ampliato, quando sarà definito il candidato unico del polo economico e giuridico». Santa Cruz ha puntato sulla limitazione dei poteri del rettori con l'introduzione «di un ufficio rettorale con i suoi componenti eletti democraticamente». Sassu ha inviato una lettera chiedendo scusa per la sua assenza e ricordando «il ruolo fondamentale nel territorio dell'Università, che deve agire in collaborazione con gli altri enti». L'ultimo intervento, prima del dibattito, è stato quello di Sitzia: «In questi giorni invieremo a tutti il programma condiviso con Paci e Melis. Tra le priorità indichiamo la ricerca, la didattica, il diritto allo studio e il rapporto con la Regione». Poi è stata la volta di Maria Del Zompo: «La ricerca è lo strumento più importante per attirare finanziamenti», ha detto, «e migliorare così la didattica. Chi crede in questa politica ha chiesto la mia candidatura. Ci sto riflettendo seriamente». Matteo Vercelli ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 16 apr. ’08 CINQUE FACOLTÀ IN CERCA DI PRESIDE Tra maggio e giugno elezioni a Medicina e Ingegneria Università. Si vota anche in Scienze politiche, Lettere, Lingue e letterature straniere In Medicina c’è un solo candidato, Mario Piga. Tre i docenti in campo in Ingegneria I due colossi dell’Università si preparano a cambiare guida. Le facoltà di Ingegneria e di Medicina eleggeranno tra maggio e giugno i presidi che prenderanno il posto degli uscenti Francesco Ginesu e Gavino Faa. Tornata elettorale anche in altre tre facoltà: Lingue e letterature straniere, Lettere, Scienze politiche. Anche in questo caso i presidi in carica non potranno candidarsi avendo raggiunto il tetto massimo dei mandati consecutivi. Il tutto mentre è iniziata la lunga corsa verso le elezioni del 2009 per il nuovo rettore. MEDICINA Con Gavino Faa che si prepara a tentare il grande salto alla guida dell’Università e che è giunto al limite dei mandati consecutivi da preside, la facoltà di Medicina si avvia alle elezioni che dovrebbero vedere in campo un solo docente: Mario Piga, ordinario di Medicina nucleare e presidente del corso di laurea specialistica in Medicina e Chirurgia, che ha ufficializzato la sua candidatura in uno degli ultimi consigli di facoltà. Tramontate da tempo altre ipotesi come quelle di Gian Battista Melis, direttore dell’istituto di Ginecologia al San Giovanni di Dio, e di Maria Del Zompo, docente di Farmacologia. INGEGNERIA È arrivato a fine corsa, dopo tre mandati e nove anni alla guida di Ingegneria, anche Francesco Ginesu. Sono tre i nomi attualmente in campo per sostituirlo: Giorgio Massacci (presidente del corso in Ingegneria per l’ambiente e il territorio), Giacomo Cao (ordinario di Principi di ingegneria chimica) e Giuseppe Mazzarella (docente del dipartimento di Ingegneria elettrica, ex presidente del corso di studio in Elettronica). Per il 5 maggio è stato convocato un consiglio di facoltà dove verranno presentante le candidature. Poi il 9 maggio la prima votazione. Se sarà necessario si tornerà alle urne anche il 16 e 23 maggio. Ginesu, che resterà alla storia come il preside che ha accompagnato nella sua nascita la facoltà di Architettura, potrebbe rientrare in gioco in futuro se dovesse andare in porto il progetto di creare il Politecnico di Cagliari. Il suo nome sarebbe tra i papabili per guidare il polo di specializzazione dei futuri ingegneri cagliaritani. SCIENZE POLITICHE Insieme a Gavino Faa c’è un altro preside in lizza per il posto di rettore. È Raffaele Paci che lascerà la guida di Scienze Politiche dopo due mandati. Il 20 maggio verranno presentante le candidature e il 20 giugno si andrà al voto. Per ora le voci di corridoio parlano di timide azioni da parte di alcuni docenti che stanno sondando il terreno per un’eventuale candidatura. LETTERE Stesso scenario in Lettere dove è iniziata la corsa per il sostituto del preside uscente, Giulio Paulis. Il consiglio di facoltà per l’ufficializzare i candidati non è stato ancora convocato. LINGUE Si svolgeranno tra fine maggio e giugno le elezioni in Lingue. Anche in questo caso nessun nome in circolazione. Le uniche cose certe sono che il preside uscente, Ines Loi Corvetto, e il suo avversario nell’ultima tornata elettorale di tre anni fa, Giuseppe Marci, non saranno tra i candidati. È convocato per oggi il consiglio di facoltà dove potrebbe emergere qualcosa in più. IL REGOLAMENTO Le elezioni sono indette dal decano dei professori ordinari della facoltà che convoca il consiglio. Nella prima seduta vengono formalizzate le candidature, poi si arriva al giorno del voto. Operazione aperta al consiglio di facoltà con l’intero corpo docente, i rappresentanti degli studenti e del personale. Il preside è eletto, alla prima votazione, se raggiunge la maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto, per passare poi all’elezione a maggioranza assoluta dei votanti nelle successive. Il docente eletto viene nominato preside con decreto del rettore e dura in carica tre anni accademici. Matteo Vercelli ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 14 apr. ’08 UNIVERSITÀ, UN ESAME PER IL NUOVO GOVERNO La riforma che non può attendere di Raimondo Cubeddu Benché unanimemente riconosciuta come strategica in un mondo in cui l'educazione, la ricerca e l'innovazione assumono un'importanza sempre maggiore, nella campagna elettorale la questione dell'università ha fatto soltanto capolino. L'attenzione purtroppo si è concentrata su altre questioni, e ognuno può dire se più o meno importanti. Certamente non così strategiche come la questione dell'educazione. Anche del perché se ne sia parlato così poco sono state date poche spiegazioni. Quella più maliziosa inclina a sostenere che dopo la prova del duetto Mussi- Modica, la sinistra e i docenti che in essa si riconoscono, non hanno certamente voglia ed interesse a sollevare il tema. E poiché si tratta di una questione seria dalla cui soluzione dipende il futuro nostro e dei nostri figli e nipoti, é il caso di lasciar perdere le polemiche. Di dimenticare che gli ultimi due anni sono stati impiegati a smantellare quel tanto (o poco) di buono fatto dal precedente governo, e che i tentativi di innovare sono finiti sotto un cumulo di contestazioni da parte delle associazioni (o corporazioni) dei docenti e da parte degli organi di controllo statali. E così lo stato giuridico dei docenti non è stato adeguato alle esigenze dei tempi, la riforma degli ordinamenti didattici procede nell'incertezza normativa, il percorso dell'agenzia di valutazione tra contestazioni, i famigerati concorsi si faranno con la vecchia normativa, quelli per ricercatore non si sa. Insomma, due anni persi; e non se ne avvertiva proprio il bisogno. Tuttavia a colpire non è tanto questo, quanto il silenzio degli studenti i quali non sembra si siano resi conto del danno che il ritardo causerà loro, e che sembrano non chiedersi se la loro formazione sarà concorrenziale con quella dei giovani degli altri paesi. Ora, o quanto prima, occorre però ripartire. Veltroni, le scorse settimane, ha toccato il tema lasciando intravedere che la sua strategia sarebbe ben diversa dalla politica universitaria che la sinistra ha perseguito per decenni. Dando prova di un innegabile buon senso, anche lui sembra essersi accorto che su quell'accidentata strada è impossibile proseguire anche perché nessuno sembra ormai in grado di dire dove potrebbe portare. Quasi come risposta, Gaetano Quagliariello e Giuseppe Valditara - i massimi esponenti di cose universitarie del PdL- hanno presentato delle misure urgenti nella prospettiva di una riforma più ampia e strutturale incentrata sul problema della concorrenza tra atenei, della creazione di agenzie di valutazione degli atenei e dei docenti, della mobilità dei docenti e degli studenti e, in lontananza, dell'abolizione del valore legale del titolo di studio. Per quanto la si possa considerare suggestiva, stimolante o irritante, si tratta di una prospettiva innovativa che assume i tratti della concretezza anche perché la si può vedere come una cura disperata per tentare di scuotere un corpo per alcuni ormai in coma e per altri affitto dal male oscuro del compiacimento della propria dissoluzione. Sullo sfondo la consapevolezza che chiunque vincerà le elezioni si troverà di fronte una brutta gatta da pelare. Ma qualche segnale lascia sperare che anche quella universitaria potrebbe essere compresa tra le fantomatiche riforme da fare con spirito bipartisan. L'importante, tuttavia, é di non perdere ancora altro tempo. _________________________________________________________________ Il Sole24Ore 19 Apr. ‘08 PEROTTI: CHIUDIAMO GLI ATENEI CHE NON FUNZIONANO NEL WELFARE TROPPI PARADOSSI «Chiudiamo gli atenei che non funzionano, smettiamo di dare soldi» E ai professori: «Il 75% non ha pubblicato nulla» Quando Roberto Perotti, il quarantaseienne professore della Bocconi di Milano che fa parte dell'ala più dura e "americana" degli economisti di Via Sarfatti, dice con aria tranquilla «e poi in Italia si premia soltanto l'anzianità, l'unica cosa in cui sono tutti bravi», a quel punto si leva dalla platea del Lingotto un applauso così secco e sonoro da fare accendere le luci, che si attivano nell'auditorium progettato da Renzo Piano ogni volta che c'è un rumore più alto del normale. L'applauso a scena aperta, con tanto di luci accese, sembra avere sulla platea un effetto quasi liberatorio. Lui, il liberista dell'Igier, l'amico di, Francesco Giavazzi e di Guido Tabellini con una lunga carriera negli Stati Uniti e in particolare alla Columbia University, in poche cartelle sta spiegando le sue posizioni sul welfare, sintetizzabili nel binomio «più incentivi e meno spesa». Una ricetta basata sull'idea che la spesa possa essere dannosa, se non si premia il merito e se non si sanziona l'inefficienza e l'illegalità. «Per farlo -dice Perotti - bisogna modernizzare il welfare»: Il che significa cambiare le priorità strategiche del Paese e rimodularne l'ingegneria sociale. Gli imprenditori in sala ascoltano Perotti sostenere la tesi secondo cui sarebbe illogico spendere 30 miliardi di euro per l'Alta Velocità ferroviaria, se non si riesce a migliorare, a costo zero, la situazione di chi a Roma vuole prendere un taxi. Seguono con attenzione quando Perotti illustra una slide che mostra come l'Italia, con la sua mano pubblica ultra ingombrante, destini poco più del 10% della spesa sociale al 20% della popolazione più povera, mentre in Danimarca la quota per i più disagiati sale al 33 per cento. Il paradosso si ripete con la quota di spesa sociale indirizzata al 20% più ricco: l'Italia riserva ai più abbienti il 27% della sua spesa, la Danimarca si limita al 10% per cento. II pubblico del Lingotto sembra assentire con decisione quando Perotti chiede una maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro e una riforma della giustizia del lavoro, mentre molti appaiono cauti quando domanda un minore coinvolgimento del sindacato nelle politiche sul welfare e sulle pensioni. Ma tutti esplodono in un applauso, che di nuovo fa accendere le luci, quando il liberista della Bocconi, con i suoi occhiali tondi e la cravatta lievemente stazzonata; dice: «Ma chiudiamoli, gli atenei che non funzionano. Smettiamo di dargli soldi». E, poi, un silenzio quasi imbarazzato per lo stato dell'arte delle nostre università, cala quando Perotti cita un dato: «Sappiate che più del 75% dei professori ordinari commissari in concorsi di economia non ha mai pubblicato una sola riga in una delle prime 20o riviste internazionali». P. Br. _________________________________________________________________ Europa 19 Apr. ‘08 ATENEI, IMPEGNI POSSIBILI CONTRO IL DISIMPEGNO CRISTIAN0 VIOLANTE Si è fermato quasi tutto puntando su interventi normativi che hanno proceduto lentamente. Ma il malcontento è superabile: Negli atenei vi è un diffuso scontento per le politiche su università e ricerca del governo uscente che rischia di incoraggiare un irragionevole disimpegno. Ma appelli e articoli a difesa di quanto realizzato nei 20 mesi del dicastero Mussi firmati dai suoi collaboratori rischiano di essere inutili o controproducenti. Non si può trascurare che, oltre a non aver risolto l’annoso problema dei maggiori finanziamenti necessari, non sono stati neanche garantiti gli scarsi fondi usualmente destinati al cofinanziamento della ricerca universitaria e l’assunzione e la carriera di nuovi professori. Si è fermato quasi tutto, puntando - con scarso realismo vista la consistenza della maggioranza- sull'annuncio di interventi normativi che hanno proceduto con usuale lentezza, e al riguardo è inutile lamentare le resistenze burocratiche se queste hanno fatto capo a vertici scelti dal ministro. La Moratti aveva affrontato il sottofinanziamento delle università statali incoraggiando quelle private, semiprivate e telematiche, mirando a una differenziazione classista e di destra del sistema. Ma la lenta emanazione dei provvedimenti di Mussi attuativi del decreto 270/04 e della legge 43/05, da realizzate nel prossimo anno accademico con un nuovo governo, non assicura né consenso né un reale cambiamento in strategie comunque poco innovative e inadeguate a invertire il declino che perdura nelle nostre università dagli anni '60. L apologia delle intenzioni e di quanto è in via di attuazione si dovrebbe accompagnare a una puntuale individuazione degli errori commessi e à conseguenti impegni per il futuro. Ne propongo alcuni che, se adottati, potrebbero rassicurare gli elettori universitari più di quanto non faccia l’attribuzione di tutte le colpe al ministro dell'economia. - Si rendano immediatamente disponibili i fondi addizionali previsti dal patto per l’università e li si assegni come previsto da quel progetto. - Nell'attesa di riformare, con leggi e normative appropriate, i meccanismi di governo del sistema (ministero, università), si impieghino con serietà le risorse esistenti, indirizzandole in modo pragmatico verso obiettivi innovativi, evitando di sottoutilizzarle e deteriorarle. - Si aumentino comunque l'autonomia e la responsabilità delle università e degli enti, senza reintrodurre meccanismi di controllo centralistici di sicura inefficacia e dubbia legittimità. - Oltre a investire nella partecipazione degli enti europei per la ricerca e la tecnologia, si guardi ai processi di modernizzazione che stanno interessando tutù i sistemi universitari europei. - Infine, nel riformare ambienti complessi e critici come le università e gli enti di ricerca, si eviti di usare come input e output articoli di giornale e siti web, preferendogli, rispettivamente, studi e pareri di esperti e la gazzetta ufficiale. *presidente del Nucieo di valutazione d'ateneo Sapienza Roma _________________________________________________________________ Repubblica 20 Apr. ‘08 MONTALCINI: I MIEI MAGNIFICI 99 DARIO CRESTO-DINA Bisogna dimenticarsi di vivere. È questo, dice, il segreto per avvicinarsi a qualcosa che può assomigliare all'illusione dell'immortalità. Tra due giorni la signora che mi guarda con occhi azzurri, limpidi e curiosi compirà novantanove anni. E un numero che inquieterebbe chiunque. Non lei. È un'età alla quale si giunge quasi sempre da solitari, è come sbarcare dopo un lungo viaggio su un'isola deserta e sapere che tutto ciò che conoscevamo ce lo siamo lasciato alle spalle, ma nulla, proprio nulla, possiamo immaginare del nuovo approdo, neppure la sua estensione geografica, se sarà un posto di valli e montagne da attraversare prima del prossimo mare o appena una lingua di sabbia. «Mi sento perla seconda volta un po' Robinson Crusoe. La prima fu negli anni del fascismo. Allora ero più sola, più giovane e meno forte di adesso, eppure il male produsse un bene». Seduta in un angolo del divano della sua casa romana con la leggerezza di un ramo antico, Rita Levi Montalcini sembra una vecchia appena nata. È elegante nel vestito blu che le scende fino alle caviglie, chiuso sul collo lungo e sottile. Il blu elettrico dell'abito esalta la sua testa bianca, al polso destro porta un bracciale che ha disegnato lei stessa e sul quale spicca, incastonato come un minuscolo cammeo, il giglio di Firenze. È un gioiello che aveva regalato alla sorella Paola, la gemella tanto amata morta otto anni fa. «Quella vagabonda della mia gemellino la chiamava con affetto nelle lettere alla madre -che è riuscita ad addentrarsi in un mondo chimerico libero da imposizioni di leggi». Paola era un'artista, allieva e amica di Felice Casorati. «Il suo cuore continua a battere dentro di me». Le pareti di questa bella e semplice casa sono attraversate dai suoi quadri. C'è un ritratto di Rita dipinto nel `45. C'è, sul pavimento del terrazzo, un grande mosaico che riproduce le traiettorie delle particelle atomiche nella camera a bolle. C'è la malinconia nello sguardo della professoressa ogni volta che parla di lei. Nostalgia, non il dolore del lutto. Non più. «Abbiamo avuto una bella vita. Non credo all'eternità. Si spegne tutto». Ricorda a memoria una poesia scritta per il nipote schizofrenico morto suicida a ventiquattro anni: «Che rimane di noi quando il fiato non appanna più il vetro...». A novantanove anni Rita Levi Montalcini ogni sera va a letto alle undici. Ogni mattina si alza alle cinque. «Non mi interessano né il cibo né il sonno». Mangia una volta al giorno, a pranzo. La sera si concede al massimo un brodo e un'arancia. «Sto bene. Malgrado la diminuzione della vista e dell'udito. Mai avuto una malattia». Ha un apparecchio acustico nelle orecchie, legge grazie a un video ingranditore. «Mi aiutano i miei collaboratori». Due in particolare, Pietro Calissano che è con lei da quarant'anni e Piero Ientile. «Il mio cervello funziona meglio di quando avevo vent'anni. Ho deciso di utilizzarlo di più proprio nell'ultima tappa del mio percorso. Penso di continuo, mi aiuta la passione per il mio lavoro». Continuo la ricerca sull'Nfg, la sigla dell aproteina che stimola la crescita delle cellule nervose, uno studio sulle malattie neurovegetative che ha cominciato più di mezzo secolo fa. Mi occupo della fondazione creata assieme a Paola in memoria di mio padre per il conferimento di borse di studio a studentesse africane a livello universitario, con l'obiettivo di creare una classe di giovani donne che svolgano un ruolo di leadership nella vita scientifica e sociale dei loro paesi. Sto scrivendo due nuovi saggi scientifici. Non mi sento mai stanca». Ogni giorno va in laboratorio, nella sua équipe ci sono altre sette donne. Si china sul microscopio, esamina gli embrioni di pollo come faceva cinquant'anni fa in America. Dice: «La mia intelligenza è mediocre, e il mio impegno è poco più che mediocre. Credo di avere due sole qualità: l'intuito e la capacità di vedere un problema nella sua globalità. Quand'ero giovane pensavo che la mia missione sarebbe stata quella di aiutare gli altri, volevo andare a curare i lebbrosi in Africa. Volevo disinteressarmi totalmente della mia persona, non volevo riconoscimenti». Non è andata cosi. Anche il destino accarezza i propri desideri a nostra insaputa. Nel 1986 ha vinto il Nobel per la medicina. «Abitavo già a Roma. Ricordo che era quasi notte quando mi telefonarono per darmi la notizia. Stavo leggendo un giallo di Agatha Christie. Lo rammento perché è raro che io legga romanzi, prediligo i saggi di filosofia. Ho fatto eccezione per Tolstoj, Michael Crichton e Agatha Christie, appunto. La cerimonia della consegna del Nobel a Stoccolma non fu particolarmente eccitante, piuttosto una specie di grande festival». Il primo agosto del 2001 la chiamò l'allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. «Mi disse: "Sono Ciampi e l'abbraccio. La nomino senatrice a vita per meriti scientifici e sociali". Riuscii a rispondere solamente grazie. Ero emozionatissima». Oggi il giudizio sulla politica è riassunto in un gesto di scoramento. La mano passata sugli occhi. «Sono assolutamente ignorante in fatto di politica, lamia appartenenza ad essa è di puro dovere civile e morale. Certo, sono sempre stata una donna di sinistra. In Parlamento ho trovato persone di grande intelligenza in entrambi gli schieramenti e amici come Romano Prodi, Tommaso Padoa-Schioppa e Anna Finocchiaro. La netta vittoria della destra nelle ultime elezioni mi ha sorpreso, ma sarebbe troppo facile sostenere che dopo vent'anni di fascismo e cinque di Berlusconi gli italiani hanno dimostrato ancora una volta di non avere capacità di scelta e di discrimine. Ci sono sentimenti e bisogni che vanno analizzati a fondo e io non possiedo gli strumenti per farlo. Mi ritiro, con modestia e rispetto». Severa è anche la pagella al paese. «L'Italia dà l'impressione di essere vecchia, come se fosse prigioniera di una campana di vetro che le impedisce di camminare. In diciotto mesi il governo di centrosinistra ha lavorato bene, ma poteva fare molto di più. Potrei dire che gli è mancato il karma. Nella nostra classe politica, almeno per quanto riguarda la ricerca medica e scientifica, non c'è la consapevolezza che la conoscenza significa ricchezza. É un peccato, perché abbiamo un capitale umano eccellente e un grado di innovazione tecnologica che nulla deve invidiare al resto del mondo. Dalle nostre università escono ragazzi molto preparati che non trovano però un terreno fertile sul quale esercitarsi, così la gran parte di loro, se può, fugge all'estero. Li regaliamo agli altri, per vederli ritornare magari dopo dieci o vent'anni, un po' più vecchi, un po' più stanchi. L'Italia non è mai stata capace di investire sulle capacità intellettuali della sua gente. Manca la voglia di riconoscere il merito». L'alloggio è al quarto piano di una casa costruita negli anni Sessanta su viale di Villa Massimo, alle spalle di Villa Torlonia. Sull'ascensore una bimba di quattro o cinque anni si stringe alle gambe della mamma e, mentre schiaccio il pulsante sulla bottoniera, mi chiede seria se sto andando a trovare la professoressa con i capelli bianchi. Rita Levi Montalcini non ha figli. Mi spiega perché cominciando da Dio. «Invidio chi ha la fede. Io non credo in dio. Non posso credere in un dio che ci premia e ci punisce, in un dio che ci vuole tenere nelle sue mani. Ognuno di noi può diventare un santo o un bandito, ma ciò dipende dai nostri primi tre anni di vita, non da dio. É una legge di una scienza che si chiama epigenetica, in altre parole si può definire il risultato del dialogo che si instaura tra i nostri geni e l'ambiente familiare e sociale nel quale cresciamo. Prenda una bicicletta o un insetto, oggi sono pressoché uguali a com'erano duecento anni or sono. Noi no. L'uomo è darwiniano al cento per cento. Ebbene, io a tre anni, a tre anni, glielo giuro, ho deciso che non mi sarei mai sposata e che non avrei avuto bambini. Sono rimasta condizionata dal rapporto vittoriano che subordinava mia madre a mio padre. A quei tempi nascere donna significa avere impresso sulla pelle un marchio di inferiorità. Eppoi ho visto troppe vite matrimoniali mai fortunate. Ne vedo tante anche ai nostri giorni. Vite tristi e vuote. Le racconto un episodio di quand'ero negli Stati Uniti. A un ricevimento mi si avvicina una signora e mi fa: "Anche suo marito è membro della National Academy?". Le rispondo "I am my own husband", sono io stessa mio marito. Lei si allontana frettolosamente e un po' interdetta, pensando probabilmente che non so esprimermi in inglese. Ho rinunciato a costruire una famiglia, non all'amore. Questo no. Ho avuto degli affetti, mi sono innamorata, sono stata felice. Ma forse il mio unico figlio è stato 1'Nfg. Ho avuto e ho amici importantissimi, gli amici di una vita: Renato Dulbecco, Giuseppe Attardi, il mio maestro Viktor Hamburgher alla Washington University di St. Louis, Norberto Bobbio, la poetessa Maria Luisa Spaziani. Tutto è stato enorme attorno a me». Dal passato non si levano fantasmi. «Senza Mussolini e Hitler oggi sarei soltanto una vecchia signora a un passo dal centenario. Grazie a quei due, invece, sono arrivata a Stoccolma. Non mi sono mai sentita una perseguitata. Ho vissuto il mio essere ebrea in modo laico, senza orgoglio e senza umiltà. Non vado in sinagoga né in chiesa. Non porto come una medaglia il dato storico di appartenere a un genere umano che ha sofferto molto, né ho mai cercato di trarre vantaggi o risarcimenti morali. Essere ebrei può non essere piacevole, non è comodo, ma ha creato in noi un impulso intellettuale supplementare. Come si può affermare che Albert Einstein era di razza inferiore? Dovremmo abolire anche nella nostra testa il concetto di razza. Esistono i razzisti, non le razze. E a me interessano soltanto le persone. Durante la guerra, a Torino ho trasformato in laboratorio la mia carnera da letto, un piccolo locale di due metri per tre in corso Re Umberto. Quella stanza diventò un centro di ricerca frequentato anche da alcuni miei compagni di scuola che professavano il fascismo e forse la domenica indossavano la camicia nera. Qualcuno cantava quelle stupide canzoncine. "Se ci manca un po' di terra prenderemo l'Inghilterra, se ci mancherà il sapone prenderemo anche il Giappone...". Tutti assieme si rideva. Con l'avvento delle leggi razziali di Mussolini la mia famiglia fu costretta a trasferirsi a Firenze. Scegliemmo un altro cognome, lo decisi io, Lupani, il primo che mi venne in mente. Ci ospitava una famiglia che vagamente sapeva di noi. Mi specializzai nella stampa di documenti falsi per gli ebrei, avevo rapporti con il Partito d'azione. Un giorno mi venne a trovare il professor Giuseppe Levi e per non farci scoprire disse semplicemente alla padrona di casa: "Mi chiami la Rita". Vede, sono stata anche allora come Crusoe. Sola. Devo alla solitudine anche il Nobel. Sono giunta alla scoperta sull'Nfg perché ero l'unica a lavorare in quello specifico campo della neurologia. Ero sola in una giungla e non conoscevo nulla o quasi. Sapere troppo, spesso, ostacola i nostri progressi». Le domando se ancora sogna. Mi dice di si. Spera che quando lei non ci sarà più altri continueranno i suoi studi sulla molecola proteica che le è valsa il Nobel, perché le sue applicazioni cliniche nella cura delle malattie degenerative del cervello possono essere straordinarie. «Ma la cosa che più desidero è la pace in Medioriente. Mi interrogo spesso sul conflitto tra arabi e israeliani. Non posso accettare l'idea di chi vorrebbe la soppressione dello Stato d'Israele e allo stesso modo non accetto che i palestinesi abbiano poche possibilità di esprimere liberamente la propria intelligenza. Credo ancora sia possibile raggiungere l'obiettivo di una convivenza pacifica tra i due popoli. Siamo tutti uguali, ha detto Confucio». Il tavolino di cristallo di fronte al divano è pieno di fiori. Sono rose bianche e gialle, azalee, iris, orchidee. Non sono lì per ciò che accadrà tra due giorni. Sono per una donna che ama i colori tutto l'anno. Lei si alza, mi tende le mani. Mi aspetto la loro fragilità. Le sfioro appena. Sono invece secche e nodose. Sono ferme, la stretta è forte e calda. «La vita non mi ha maltrattata. Sono una donna senza rimpianti. Se rinascessi ripercorrerei le stesse strade. Tutto è stato a mio vantaggio, anche ciò che non ho avuto, anche ciò che ho perso lungo il cammino. Certo, avrei potuto essere una donna migliore. Sono pessima in matematica. Non conosco la musica, solo un po' di Beethoven e Bach, qualcosa di Schubert, Mozart e Chopin. Non abbastanza. Amo molto il teatro, non l'opera. Nei rapporti umani ho trovato la compensazione ai miei novantanove anni. Accetto questa età senza fatica, non mi vergogno delle mie doppie protesi acustiche, dei miei occhi che non vedono quasi più. Voglio andare avanti. Non sono stanca di vivere. E non cerco la morte. Arriverà. Forse tra un mese, forse tra due anni, chissà. Le mie colpe sono di scarsa entità. Spero di avere pochissimo da farmi perdonare». _________________________________________________________________ Il Sole24Ore 15 Apr. ‘08 ALBI, LAUREE TRIENNALI FUORI GIOCO Ordini mercato. Agli esami di Stato tasso di successo degli iunior più basso rispetto ai quinquennali Continua gli- studi gran parte di chi ha il titolo di primo livello ROMA Pochi i laureati di primo livello iscritti agli Albi. E la selezione agli esami di Stato è, in molti casi, più severa per chi ha il titolo universitario triennale, rispetto ai quinquennali. Il tasso di successo degli iunior si ferma all’82,6% tra gli ingegneri, mentre gli specialisti arrivano all’88,7 per cento. Tra gli agronomi e forestali gli iunior superano la prova al 72,2%, i senior al 78,7 per cento. Tra i chimici gli abilitati triennali sano il 68,6% dei candidati, contro l’89,1% dei senior. La differenza tra i geologi è meno sensibile, ma l'andamento è comunque negativo per i triennali: 45,5°% contro il 50,6 per cento. Tra i biologi, il tasso di successo è al 91,7% per i quinquennali e all’85,8 per i triennali. In controtendenza gli architetti: i senior passano al 42,5 e gli iunior al 50%; tra i pianificatori l'abilitazione è raggiunta, rispettivamente, dal 42,2 e al63,8 per cento. Il bilancio è del Centro studi del Consiglio nazionale degli ingegneri (l'analisi 2007 su dati zoo6) ed è significativo della difficoltà dei laureati triennali a inserirsi nel mondo delle professioni. Emerge, infatti, uno scarto tra la preparazione universitaria e quanto richiesto per l'esame di Stato. D'altra parte, i laureati triennali sono i primi a non credere all'appetibilità del titolo. Gli ingegneri iuniores, per esempio, non raggiungono il 2% del totale dei professionisti appartenenti all'Ordine: «La laurea triennale commenta Paolo Stefanelli, presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri-continua a essere considerata dalla maggioranza degli studenti una tappa di avvicinamento alla laurea specialistica anziché una chiave di accesso alla libera professione: ogni cento laureati solo dieci conseguono l'abilitazione professionale. Tra i quinquennali, invece, ci si attesta all'89 per cento». La tendenza è generale. Lo conferma l'indagine sulla situazione occupazionale dei laureati del Consorzio Almalaurea. «Il 45°% dei laureati di primo livello - si afferma nell'ultimo rapporto - si dedica esclusivamente allo studio mentre una consistente quota tenta di coniugare studio e lavoro (18%). La principale motivazione all'origine della prosecuzione degli studi è data dalla volontà di completare e arricchire la propria formazione (66%); un terzo dei laureati ha sentito questa come scelta sostanzialmente necessaria per accedere al mondo del lavoro». In ogni caso, i laureati iunior non si sentono gli eredi dei tecnici diplomati. Tra i periti industriali l'accesso dei laureati si conta nell'ordine delle centinaia. E la responsabilità, secondo il presidente del Consiglio nazionale, Giuseppe Jogna, è del Dpr 328/2001 che, a parità di titolo di studio, consente di scegliere tra più Albi. «Una concorrenza sleale», secondo Jogna, poiché per , l'accesso all'Albo di geometri, periti industriali e agrari occorre un tirocino semestrale, non richiesto per diventare ingegnere o agronomo iunior. «In queste condizioni - conclude Jogna - conta poco che da noi gli spazi della progettazione siano ampi, mentre gli ingegneri iunior hanno competenze molto limitate». M.C:D. _________________________________________________________________ Il Sole24Ore 15 Apr. ‘08 AGENZIA PER GLI ATENEI, PROVE DI INNOVAZIONE Dopo un iter tortuoso e travagliato il parere favorevole della Corte dei Con ti ha finalmente consentito di varare la nuova Agenzia per la valutazione dell'università e della ricerca (Anvur). Le difficoltà a tradurre in pratica la proposta mettono in risalto la diffidenza strutturale di una parte consistente del sistema universitario di fronte a strumenti che almeno nelle intenzioni minacciano di intaccarne l’autoreferenzialità assoluta. Ostacoli non minori attendono adesso i primi passi dell’Anvur. Mai come in questo caso, infatti; il valore stesso dell'agenzia dipende da chi e come verrà effettivamente costituita: è soprattutto dalla qualità dei regolamenti operativi, e dall'autorevolezza, l'indipendenza e l'energia del primo consiglio, scelto dal Governo sulla base di terne selezionate da esperti, che dipende in sostanza il futuro della valutazione in Italia. Un consiglio lottizzato o inerte fornirebbe solo argomenti a chi crede, infondo, che valutare l'accademia sia impossibile, inutile, o le due cose insieme. Proprio sull’Anvur, nata ufficialmente poche ore prima del voto, ma anche erede del Civr, che nel corso degli anni ha goduto di un sostegno bipartisan, si misurerà la disponibilità dei partiti a ,sottrarre alcune questioni di interesse generale dalla conflittualità politica fine a se stessa. L'elaborato sistema sviluppato nel corso di due decenni in Gran Bretagna, e quello più recente ma non meno valido messo a punto in Spagna, non hanno mai dovuto fare i conti con il cambio di governo. Valutare, non dovrebbe neppure essere il caso di dirlo, non è di per sé né di destra né di sinistra. Valutare è, semplicemente, una condizione ineliminabile dell'attività universitaria e della ricerca, che per sua stessa natura si arricchisce ogni giorno nella dialettica tra proposte, reazioni, correzioni, idee nuove respinte o apprezzate. A trarre vantaggio dalla valutazione come pratica costante dovrebbero essere soprattutto i giovani. L'esperienza insegna per esempio che i progetti o gli articoli valutati anonimamente, cioè senza che ai revisori sia noto fautore, e viceversa, creano per studiosi non ancora affermati opportunità impensabili in un sistema in cui l'accesso ai fondi di ricerca o alle sedi editoriali più prestigiose è vincolato al rango accademico. E la prospettiva di una valutazione terza non potrà non influire, a regime, anche sulle pratiche di reclutamento del personale docente. È facile mettere in secondo piano il merito quando si rischia, al più, l'effimera critica di qualche collega. Molto meno facile farlo se dalla qualità delle scelte compiute dipende anche il futuro di un intero dipartimento. Starà all'Anvur render chiaro da subito qual è la posta in gioco. A ragione l’Anvur era stata concepita in tandem con nuove regole per il reclutamento dei ricercatori universitari, inopinatamente rigettate dalla stessa Corte dei Conti, poiché è chiaro che il metodo in vigore, già screditato e obsoleto, diventa semplicemente insostenibile in un sistema che si avvia a mettere la valutazione al centro delle proprie strategie. Sulla carta, i programmi elettorali dei due partiti maggiori promettono ora una vera e propria rivoluzione in materia; una liberalizzazione di cui non sono ancora chiari i contorni, ma che, se realizzata, attribuirà per forza un ruolo ancora più decisivo alla valutazione ex post. Vedremo tra non molto se le audaci intenzioni della vigilia sopravviveranno alla chiusura -delle urne. Quel che è certo è che l'Italia può continuare a ignorare le pratiche adottate nei principali Paesi avanzati per gestire e valutare fattività universitarie solo a prezzo di una marginalizzazione inesorabile. I segnali in questo senso sono già evidenti, anche se, forse, non ancora irreversibili. Ma non c'è tempo da perdere, e nel nuovo Parlamento nessuno, né la maggioranza né l'opposizione, potrà permettersi il lusso di ostacolare o indebolire la rapida messa a regime dell'Anvur per ammiccare a questo o quel gruppo di portatori di interessi particolari. _________________________________________________________________ Il Sole24Ore 18 Apr. ‘08 SE VALUTI BENE RICERCHI MEGLIO In primo piano l'esigenza che i finanziamenti siano legati al merito E che i bilanci siano trasparenti in modo da far conoscere fondi e costi Pubblichiamo una lettera della Svimez e la controreplica di Andrea Ichino agli interventi sul finanziamento della ricerca in Italia pubblicati sul Sole 24 Ore del 15 aprile. Il dibattito era stato iniziato dallo stesso Ichino sul Sole del 12 aprile di Andrea Ichino Sarebbe interessante sapere quanti sono in Italia gli istituti pubblici di icerca a cui siano state quadrupli cate le risorse. Temo che solo l’Isfol abbia ricevuto questa importante gratificazione nella Finanziaria aoo8, che ha incrementato il suo bilancio da 10 a 40 milioni. Di fronte a un tale riconoscimento chiunque penserebbe che questo istituto sia un "centro di eccellenza" pieno di futuri premi Nobel. Ma né sul suo sito né nella replica del suo presidente al mio articolo del 12 aprile troviamo una spiegazione chiara e trasparente di come questo istituto sia stato valutato per ottenere un tale premio, in un Paese in cui i fondi per la ricerca certo non abbondano. Il problema è che nel nostro Paese non sembra esistere un consenso sul significato delle parole "valutazione della ricerca", e questo è evidente nelle repliche suscitate dal mio articolo. Da un lato il presidente della Commissione Sanità del Senato, Ignazio Marino, condivide opportunamente l'appello degli scienziati italiani al presidente Napolitano e identifica nella peer review il metodo migliore oggi disponibile: ossia quel metodo adottato dalla comunità scientifica internazionale consistente in una valutazione regolamentata; anonima e indipendente (3 aggettivi importanti) di ogni progetto di ricerca e dei suoi risultati. Su posizioni simili, e ne prendo atto volentieri, è l’Isae che si sta avviando in questa stessa direzione, anche se sul sito di questo ente ho trovato solo una rapporto di valutazione relativo al periodo i999-ZOOa, che non credo sia la certificazione dei risultati a cui il presidente Maiocchi fa riferimento. Dall'altro lato, però, troviamo istituti, come il Cnel e l’Isfol, convinti che la valutazione possa essere fatta in altro modo,per esempio dai presidenti di Camera e Senato, oppure in base à non meglio precisati "livelli distinti" sul piano nazionale ed europeo. Certo la peer review non è una soluzione perfetta. Può essere fatta in tanti modi e non tutti senza difetti. Un elemento critico è dato da chi sceglie i valutatori. Per esempio è di gran lunga preferibile il metodo del Civr (Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca) piuttosto che quello del Mur (Ministero per l'Università e la ricerca). Il primo ha affidato a panel di esperti di diverse tendenze e non di nomina politica il compito di selezionare in modo collegiale i valutatori (referees) di ogni prodotto, riducendo quindi il rischio di arbitrio ingiustificato, distorsioni e interferenze. Nel sistema del Mur, invece, i refereés di un progetto vengono scelti da membri di un comitato di nomina politica e questo comporta rischi: basta scegliere i referees più severi per tutti i "non amici"... e il gioco è fatto. Non è quindi tutto oro quel che luccica, ma se la comunità scientifica internazionale ricorre a questi metodi, per quale motivo i centri di ricerca pubblici non dovrebbero fare altrettanto? Nulla vieta loro di usarne anche altri se preferiscono. La loro posizione sarebbe più credibile e trasparente se si assoggettassero alla peer review, magari confrontando questo metodo con quelli alternativi da loro preferiti, in modo da dimostrare, eventualmente, all'intera comunità scientifica internazionale che sta sbagliando tutto e che quei metodi alternativi sono migliori. Un motivo apparentemente valido per rifiutare la peer reviéw potrebbe essere che questi centri non fanno ricerca: fanno consulenza per il governo del Paese. Paolo Reboani del Cnel, ad esempio, ci dice che uno dei compiti di questo istituto è assicurare il raccordo tra il mondo scientifico e il mondo politico, condensando per le parti sociali le conoscenze scientifiche più avanzate. È, in effetti, un ruolo importantissimo di cui si sente la mancanza in Italia e che dovrebbe avvicinare alla frontiera della ricerca chi ne deve applicare i risultati. Ma questo difficile lavoro di traduzione non può essere fatto da chi è lontano dalla frontiera della ricerca e da chi non è in grado di discernere che cosa valga la pena di essere tradotto é che cosa invece sia privo di valore. Molte riviste scientifiche pubblicano lavori di rassegna che appunto servono a condensare le conoscenze esistenti, ma anche queste rassegne sono tipicamente sottoposte a peer review anonima. Perché questo non dovrebbe valere per il Cnel, dove si respira più conoscenza della storia sindacale italiana che delle frontiere della ricerca? Poi, anche ammettendo che questi enti stiano facendo un ottimo lavoro (cosa per altro vera per alcuni ricercatori al loro interno, non adeguatamente premiati proprio per l'assenza di una adeguata valutazione) siamo proprio sicuri che siano tutti necessari, tenendo anche presente che ai loro costi si sommano quelli della ricerca finanziata a livello regionale, provinciale e comunale, oltre a quella delle varie authority e dei ministeri? Cinque di questi enti ricevono una somma pari al 10% dell'intero bilancio per la ricerca del lvlur per tutte le discipline. Solo il più piccolo, la Svimez, mette in evidenza il bilancio nel suo sito. Per gli altri, le fonti di finanziamento e soprattutto il loro uso non sembrano facilmente reperibili. Tornando 21fIsfol, nella sua risposta brilla l'assenza di ogni riferimento ai criteri che questo istituto ha utilizzato per fare buon uso dell'incremento da 10 a 40 milioni dei fondi che gli vengono allocati. Se è vero che nel Ccnl 2002- 2005 degli Enti pubblici di ricerca sparisce ogni riferimento all'anzianità, come ci ricorda Maiocchi,perché questo criterio è stato invece utilizzato per le stabilizzazioni dei 302 precari dell'Isfol? Purtroppo non tranquillizza sapere che le 249 nuove assunzioni sono "solo" a tempo determinato: possiamo facilmente prevedere che questi ricercatori saranno assunti allo scadere del termine, nel 2013, sulla base del principio secondo cui "l’anzianità fa grado". _________________________________________________________________ L’Espresso 15 Apr. ‘08 CERVELLI IN LISTA D'ATTESA La burocrazia blocca alle frontiere ghi scienziati stranieri che che lavorano nel nostro Paese. Così si perdono brevetti e suldi Ue. Trieste lancia l’allarme DI SUSANNA JACONA SALAFIA Ci hanno messo più di vent'anni i triestini a fare della loro città un polo di attrazione per i cervelli di mezzo mondo. Hanno puntato su strutture di eccellenza come la Sissa (Scuola superiore di studi avanzati) o Ictp (International Center of Theorical phisicis), come l'Area Science Park, sul Carso, con oltre 75 istituti di ricerca tra cui il Sincrotrone. E il risultato è brillante: nell'area triestina c'è una concentrazione di cervelli che supera il 37 per mille sul totale della popolazione (la media italiana è del 3 per mille). Brillante, almeno fino a oggi. Perché vent'anni di buona scienza rischiano oggi di naufragare per una questione puramente burocratica. Che sbarra le porte agli scienziati stranieri che devono svolgere un progetto scientifico in Italia e che, da sempre, sono la linfa e il vanto dell’area triestina. La questione è davvero di lana caprina. Ma è rovinosa. E comincia con il decreto legislativo 17/2003, entrato in vigore il 21 febbraio, che disciplina i permessi di lavoro per gli scienziati non europei. La legge vuole evitare che i cervelloni cadano nella trappola delle quote riservate a badanti e braccianti. E dice esplicitamente che loro possono venire quando e come vogliono, purché l'istituto dove vanno a lavorare sia iscritto in una lista approntata dal ministero per l'Università e la Ricerca scientifica. Lista che, a oggi, il ministero non ha emanato: nessun ente scientifico in Italia risulta ancora accreditato, né è stata diffusa la complicata modulitisca che dovrebbero permettere il libero scambio delle idee della scienza. Risultato: istituti in panne e questure nel caos. A partire dalla questura triestina dove il giro di cervelli è più frequente che altrove. Così, ad esempio, due ricercatori, un americano e un russo, hanno da mesi le valigie pronte per venire al Sincrotrone sul Carso, dove gli scienziati stranieri sono circa 50, ma nessuno sa nemmeno come iniziare le pratiche per il rilascio dei visti, e un ucraino, invece, è bloccato a Kiev da un mese e mezzo perché il consolato ritarda nel rilascio del visto di lavoro. Si tratta, spiega Cristina Gavettini, addetta alle pratiche d'ingresso dei ricercatori stranieri al Sincrotrone, di persone che dovrebbero lavorare a progetti di ricerca già approvati. Quindi, il fatto che non riescano a venire comporta un grave danno economico, visto che molti finanziamenti, come quelli Ue, sono vincolati a tempi e risultati, e non ammettono ritardi. Ritardi? Nessun ritardo. Qui ci siamo attivati subito con diverse riunioni già da marzo», spiega Teresa Cuomo dei ministero: <.II decreto che stabilisce i criteri di iscrizione nella lista degli istituti accreditati è gia pronto per la firma del ministro. Abbiamo inoltre chiesto al ministero degli Interni che predisponga una circolare attraverso la quale si stabilisca che nelle more i ricercatori stranieri possano comunque usufruire della normativa ordinaria». Ovvero: il ministero è fermo alla definizione dei criteri di accesso per l'accredito, e la lista, nella migliore delle ipotesi, non sarà pronta prima di altri due o tre mesi. E a farne le spese sono i giovani scienziati, come i 50 dottorandi extracomunitari che frequentano ogni anno la Sissa o i ricercatori non Ue già assunti. Per non parlare delle complicazioni che attendono i più bravi , che dopo il dottorato riescono a spuntare un contratto. E impattano contro la burocrazia perché i permessi studio per dottorandi non possono trasformarsi in permessi di lavoro, a meno di dover rientrare in patria e ricominciare daccapo l'estenuante procedura. Come racconta Houman Safaai, fisico iraniano alla Sissa: 41 permesso di soggiorno? L'ho richiesto ad agosto e l'ho ottenuto il 10 febbraio. Ed è scaduta il 26 febbraio. Così ho iniziato una nuova pratica. E, se va tutto bene, me lo daranno a settembre». Dieci mesi ci sono voluti(dal dicembre 2006 all'ottobre 2007) invece per la neuro scienziata keniota Emily Ngubia Kuria e la russa Ekaterina Vinnik. «Sono storie all'ordine del giorno tra i nostri dottorandi», dice Stefano Fantoni rettore della Sissa: « E il problema è reso ancora più grave dal fatto che senza permesso i nostri scienziati non possono andare a presentare i loro lavori ai convegni internazionali. E questo è un danno non solo per loro, ma per rutta la scuola». «Ci sono stati ritardi perché spesso le documentazioni sono incomplete», replica il questore di Trieste, Domenico Mazzilli: «Ma al momento non possiamo fare di piu. E per i nuovi ingressi di lavoro dei ricercatori, fino a quando il ministero non chiarisce le modalità, la legge ci impedisce di rilasciare ______________________________________________________________________________ ItaliaOggi 17 apr. ’08 ORA IL BONUS RICERCA Lo Sviluppo economico sblocca l'incentivo per il 2008/2010 Crediti d’mposta fino al 40% dei costi DI LUIGI CHIAREI IA Parte il credito d'imposta per e imprese che investono in ricerca e sviluppo. Queste potranno fruire di un bonus fiscale pari al 10% dei costi sostenuti per le attività di ricerca e sviluppo. L’agevolazione sale però al40% qualora i costi legati a tali attività siano riferiti a contratti stipulati con università ed enti pubblici di ricerca. E il monte dei costi su cui determinare il bonus non potrà superare l’impoxto di 50 milioni di euro per ogni periodo d'imposta. In ogni caso, il bonus, indicato in dichiarazione dei redditi, non concorrerà né alla formazione del reddito né della base imponibile Irap. II credito d'imposta sarà accessibile da tutte le attività considerate "sane" in base alle regole comunitarie. La fruibilità dell'agevolazione scatterà per le dichiarazioni presentate tra il2008 e il2010, evidentemente in relazione agli investimenti effettuati nei periodi d'imposta 2007-2009. Ieri il dicastero per lo sviluppo economico, dopo il via libera della Corte dei Conti giunto lo scorso 14 aprile, ha sbloccato il regolamento con cui detta le modalità di accesso all’agevolazione. E attraverso il quale disegna il parco dei beneficiari. II testo del provvedimento - cofirmato dal ministro Pierluigi Bersani e dal capo del dicastero dell'economia, Tommaso Padoa Schioppa - è in corso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Va ricordato che il bonus ricerca è previsto dai commi 280,281 e 282 dell'art. 1 della legge 296/2006, la Finanziaria per il2007. Ed è stato successivamente potenziato dal comma 66 dell'articolo 1 della legge 244l2007, la manovra per il2008. II regolamento ministeriale di oggi, invece fis9a diritti e doveri a carico delle imprese. E parte subito dai doveri. Obblighi di comunicazione a carico delle imprese in relazione alle attività di ricerca e di sviluppo agevolabili, alle modalità di verifica e accertamento "della effettività delle spese e dei costi sostenuti" e alla loro coerenza con la disciplina comunitaria. Tre le macroaree di attività finanziate con il bonus. La prima area riguarda i lavori sperimentali o teorici svolti soprattutto per acquisire nuove conoscenze su fenomeni e fatti "osservabili", senza che siano previste applicazioni o utilizzazioni pratiche dirette. Dunque, viene finanziato lo studio anche non finalizzato ad attività reali di business. La seconda sfera di attività agevolate riguarda: ricerca e indagini critiche finalizzate ad acquisire nuove conoscenze, da usare per sviluppare nuovi prodotti, processi o servizi. O per consentire un miglioramento di quelli esistenti. Viene agevolata anche la creazione di componenti in sistemi complessi necessaria per la ricerca industriale. In particolare per accertarsi della validità delle tecnologie generiche. Infine, la terza e ultima area che beneficia di agevolazione (la più estesa) riguarda le attività di acquisizione, combinazione, strutturazione e utilizzo di conoscenze e capacità di natura scientifica, tecnologicà e commerciale. II tutto allo scopo di produrre piani, progetti e disegni per prodotti, processi o servizi nuovi, modificati o migliorati. A riguardo viene finanziata anche fattività concettuale di pianificazione e documentazione sui nuovi prodotti, processi e servizi, l'elaborazione di progetti, disegni e piani. E qualunque altra documentazione prodotta, purché non destinata a uso commerciale. Inoltre, il bonus fiscale sostiene la realizzazione di prototipi da usare per scopi commerciali e di progetti pilota destinati a esperimenti tecnologici e commerciali. Ma solo quando il prototipo è necessariamente il prodotto commerciale finale e il suo costo di fabbricazione è troppo alto per poterlo usare solo a fini di dimostrazione e di convalida. Finita qui? No. II credito d'imposta su ricerca e sviluppo agevolerà anche lo sfruttamento di progetti pilota a scopo commerciale. Determinazione del credito d'imposta. A questo scopo vengono considerate ammissibili, fino a un massimo di 50 milioni di euro per periodo d'imposta, i costi, relativi a: a) personale, ma solo per ricercatori e tecnici, purché impiegati in attività di ricerca e sviluppo. A fini della determinazione del bonus in questo caso viene preso in considerazione il costo aziendale del personale dipendente, compreso quello assunto con contratto "a progetto", in rapporto all'effettivo impiego per le attività di ricerca e sviluppo; b) strumenti e attrezzature di laboratorio, nella misura e per il periodo in cui sono utilizzati per fattività di ricerca e sviluppo; c) fabbricati e terreni esclusivamente per la realizzazione di centri di ricerca, nella misura e per il periodo in cui sono utilizzati per fattività di ricerca e sviluppo; d) ricerca contrattuale, competenze tecniche e brevetti, acquisiti e ottenuti in licenza da fonti esterne a prezzi di mercato, nel quadro di operazioni effettuate a normali condizioni di mercato e senza elementi di collusione; e) servizi di consulenza, utilizzati solo per attività di ricerca e sviluppo; f) le spese generali, ma solo se forfetarie in misura pari al 10% dei costi per il personale; g) i costi sostenuti per acquisto di materiali, forniture e prodotti utilizzati per fattività di ricerca e sviluppo. Accortezze. Il decreto ministeriale prevede infine che l’impresa beneficiaria indichi,"a pena di decadenza", in un'apposita sezione della dichiarazione dei redditi il prospetto dei costi sostenuti sulla base dei quali è stato determinato l'importo del credito d'imposta. E spiega che a controllare sulla corretta fruizione del bonus sarà l'Agenzia delle Entrate. Se il credito d'imposta di cui l'impresa ha fruitoto verrà bollato come illecito, allora scatterà il recupero dell'importo, interessi e sanzioni incluse. _________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 18 Apr. ‘08 CAGLIARI: GLI INQUINANTI IMPRIGIONATI Bonifiche, brevetto depositato da una società universitaria IGLESIAS. Un'azienda nata dall'Università di Cagliari ha brevettato un procedimento per il disinquinamento di siti minerari dismessi. Lo spin-off accademico LM. Innovative Materials Srl, ha depositato la scorsa settimana il brevetto nazionale "Procedimento per l'immobilizzazione di metalli pesanti presenti in suoli naturali, residui e scarti di lavorazione". Il brevetto ha come oggetto lo sviluppo di un procedimento di immobilizzazione dei metalli pesanti presenti in suoli naturali basato sull'applicazione di opportuni trattamenti meccanici. Il procedimento di immobilizzazione è applicabile a residui e scarti di lavorazione contenenti metalli pesanti, e quindi può essere applicato sia nell'area di Portovesme che nelle aree minerarie dismesse. Le applicazioni pratiche del brevetto depositato riguardano il possibile disinquinamento di siti dismessi anche nel Sulcis-iglesiente come pure l'immobilizzazione di metalli pesanti contenuti ad esempio nelle ceneri pesanti provenienti da impianti di incenerimento, e in questo caso il brevetto può trovare applicazione nell'inertizzazione delle ceneri dei forni degli impianti di trattamento dei rifiuti. La LM. Srl, vede al suo interno diversi docenti universitari, con la composizione societaria così suddivisa: 30% Giacomo Cao, 9% Roberto Orrù, 9% Alberto Cincotti, 9% Antonio Mario Locci, tutti docenti nel raggruppamento disciplinare "Principi di Ingegneria Chimica" e con il 9% Roberta Licheri, (unica non docente, ma dottore di ricerca in ingegneria metallurgica) 14% Corem Srl, 10% Promea Scarl, 10% Università di Cagliari. La società collabora attivamente per lo sviluppo delle proprie attività con il Dipartimento di Ingegneria Chimica e Materiali dell'Università di Cagliari, il Centro Interdipartimentale di Ingegneria e Scienze Ambientali dell'Università di Cagliari, il CRS4 Programma Ambiente ed Energia, il Laboratorio di Cagliari del Consorzio Interuniversitario Nazionale "La Chimica per l'Ambiente", il Centro Lince del Consorzio Interuniversitario Nazionale per la Scienza e la Tecnologia dei Materiali e l'unità di Cagliari del Dipartimento Energia e Trasporti del Consiglio Nazionale delle Ricerche. _________________________________________________________________ Il Sole24Ore 17 Apr. ‘08 L'EBOLLIZIONE DELLO SPAZIO HERCULES Il LASER NO POT Con la sua energia potrebbe spiegare l'origine del cosmo Si chiama giustamente Hercules ed è il più intenso laser di tutto l'universo. E’ stato realizzato all'Università del Michigan. Quello che conta per un fascio laser non è tanto o non solo la quantità di energia trasportata, ma la quantità di energia rilasciata per unità di tempo e di superficie. Così Hercules concentra la sua energia di 2o joule in una macchiolina del diametro di 1,3 millesimi di millimetro per un tempo brevissimo: 30 femtosecondi (10 alla meno 15 secondi), che corrispondono a una potenza di io alla az Watt per centimetro quadrato, due ordini di grandezza superiore alla massima potenza finora raggiunta, superiore a tutta la rete elettrica americana. È come se tutta l'energia del Sole fosse riflessa da uno specchio gigante e concentrata sulla Terra in un granello di sabbia. Questo impulso si ripete ogni dieci secondi (di solito la frequenza tipica è di un impulso al minuto) come un mitragliatore superpotente: Tralasciando la tecnica impiegata per realizzarlo (si tratta di un laser al titanio e zaffiro nel quale la luce viene strizzata, "energizzata" é focalizzata con un sofisticato sistema di specchi ed elementi ottici), è interessante quello che si può fare con uno strumento così al di fuori della portata della comune immaginazione. Per esempio può servire per accelerare gli elettroni e renderli così veloci da "vedere" l'effetto relativistico dell'aumento di massa come previsto da Einstein. Oppure potrà essere impiegato nella ricerca legata alla fusione termonucleare, per strizzare il plasma nella ciambella dove avviene la fusione con un sistema detto di confinamento inerziale che è l'alternativa a duello noto come confinamento magnetico. Ancora, molto interessante il suo impiego in medicina per sviluppare acceleratori compatti che potrebbero dare grande sviluppo al trattamento di forme cancerogene con fasci ioni e protoni più sottili e potenti per un trattamento mirato dei tumori senza generare effetti collaterali indesiderati. Ma l'impiego forse più intrigante è quello della fisica di frontiera. Molti scienziati sostengono infatti che una potenza così elevata e concentrata potrebbe portare a una «ebollizione dello spazio» e assistere alla generazione spontanea di materia semplicemente focalizzando energia molto elevata nello spazio vuoto. Si potrebbe cioè arrivare a capire come dal nulla, e solo a causa di un'enorme quantità di energia confinata in uno spazio ristretto, sia potuto nascere il primo germe di materia. LUDOVICA MANUSARDI CARLESI _______________________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 19 apr. ’08 IL NOSTRO CERVELLO DIVENTA DIGITALE La parola è naturale, leggere é una conquista: ma l'attività cerebrale si trasforma a causa di Internet, e-mail e sms Così la tecnologia sta cambiando le attitudini alla lettura e al linguaggio Una scienziata Usa analizza i rischi dell'apprendimento: i giovani davanti al computer maturano una falsa percezione della conoscenza di GIUSEPPE REMUZZI Leonardo da Vinci, Albert Einstein, Thomas Edison: uno faceva errori di ortografia, l'altro non parlò fino ai tre anni, Edison leggeva con fatica tanto che non poté frequentare la scuola. A leggere si impara, ma non è scontato perché il cervello dell'uomo non è fatto per leggere, qualcuno ci riuscirà, qualcun altro no o non subito. Leggere è arte recénte che l'uomo s'è inventato ó000 anni fa non di più e così il cervello s'è dovuto adattare a fare qualcosa che non s'era mai fatto prima. Ma per farlo si devono creare nuove connessioni tra neuroni e con le diverse strutture del cervello. In questo modo si passa da un cervello fatto soprattutto per parlare a un «cervello capace di leggere» ma ci vuole tempo ed educazione e ci si deve allenare. E prima di dire che un bambino è dislessico bisogna essere certi che abbia avuto tutte le opportunità di imparare. II «cervello capace di leggere» comincia a svilupparsi con qualcuno che ti legge una storia dal primo ai cinque anni di vita come dimostra Maryanne Wolf, neuroscienziata della Tufts University di Boston nel nuovo libro «Proust e il calamaro». E non basta, i ricercatori hanno visto che quanto più a un bambino si leggono delle storie tanto più in fretta imparerà a leggere. E in quel periodo lì chi sta in una famiglia dove qualcuno gli parla o gli legge dei testi arriva a conoscere milioni di parole in più degli altri bambini. E' come se la società fosse divisa in due parti, da una parte le famiglie che aiutano ì bambini a sviluppare un «cervello capace di leggere», dall'altra quelle che non lo fanno o non lo possono ,fare. Leggere i geroglifici dell'Egitto o i caratteri cinesi attiva delle aree diverse da quelle che si usano per leggere il greco 01'inglese ed è vero il contrario. Tanto che quando i cinesi provano a leggere in inglese il loro cervello all'inizio utilizza gli stessi percorsi neuronali fatti per leggere il cinese. Ma non funziona, e così col tempo il cervello trova altre strade e utilizza per l'inglese gli stessi circuiti che utilizziamo noi: Non che il cervello cambi, il nostro cervello è uguale a quello di 40.000 anni fa, ma lo usiamo in modo diverso. E' perché se lo si confronta con nuove sfide il cervello trova nuovi modi per affrontarle e superarle. E' così che siamo arrivati al «cervello capace di leggere», ma ci fu molta discussione. Socrate pensava che leggere e scrivere fossero attività che «denigravano L'intelletto». Lui considerava «vivo» solo il linguaggio parlato. Quella scritta per Socrate è lingua «morta» ed era un modo per perdere il bisogno di ricordare, «è scritto, è lì, non c'è bisogno di impararlo a memoria per trasmetterlo agli altri». Ma così la società si impoverisce pensava Socrate, che chiedeva ai suoi allievi di contribuire col ricordare alla memoria collettiva. Un po' aveva ragione. A noi si chiede di mandare a memoria molto meno che ai greci, ma anche molto meno che ai nostri nonni. E cosa succederà ai nostri figli a cui si chiederà di ricordare ancora meno? Oggi i ragazzi si parlano per sms, e noi e loro si dialoga per email. Non c'è più bisogno di scrivere, ci sono macchine che leggono e traducono per noi: E il cervello evolve con connessioni di nuovo diverse col rischio che chi si affida a internet fin dai primi anni di vita non riesca più a pensare da solo. Si potrebbe arrivare a un cervello digitale senza che ci sia stato il tempo di imparare a leggere, a organizzare, e interiorizzare il linguaggio, a prendere coscienza di sé (e coscienza della coscienza di sé). Ragazzi che si destreggiano benissimo con una quantità di informazioni che gli arrivano «online» ancor prima di aver avuto tempo di sviluppare un «cervello capace di leggere». Potrebbero avere una falsa percezione del conoscere e Maryanne Wolf nel suo libro fa capire che sarebbe un pericolo. Ma non è detto che sia così, in fondo è la stessa preoccupazione di Socrate di 2000 anni fa. Ma Socrate non aveva fatto in tempo ad apprezzare quanto lo scrivere aiuti a scoprire nuove strade di pensiero. Fosse vissuto altri 5o anni forse avrebbe cambiato idea. Man mano si diffondeva l'alfabeto, in Grecia si diffondevano l'arte. la filosofia, la scienza. Certo, perché i ragazzi possano continuare ad avere un cervello «capace di leggere» nell'era digitale glielo si dovrà insegnare, come si è fatto con i bambini dislessici. Leonardo se l'è cavata da solo, con fatica. «Diranno - scriveva - che essendo senza lettere non potrò farmi capire». S'è fatto capire, eccome. Ci ha lasciato anche progetti per macchine mai costruite, un po' perché la sua mente era più avanti della tecnica, ` un po' perché fare tanti progetti e non realizzarli è tipico di chi soffre di deficit di attenzione. 100 II numero (in miliardi) di neuroni che compongono il cervello. I neuroni comunicano fra di loro grazie a processi elettrochimici. I neuroni formano contatti specializzati che si chiamano sinapsi e producono speciali molecole chimiche chiamate neurotrasmettitori che vengono liberate dalle sinapsi. 1400 E'il peso medio (in grammi) di un cervello di uomo adulto. II cervello di un neonato pesa fra i 400 e i 450 grammi. Cervello di elefante: 6 chilogrammi: Cervello di scimpanzé: 420 grammi. Cervello di scimmia rhesus: 95 grammi Cervello di gatto: 30 grammi. Cervello di ratto: 2 grammi. 0,5 La velocità minima (in metri/secondo) di trasmissione delle informazioni nel cervello, che viaggiano a velocità diverse nei diversi neuroni. La velocità di trasmissione delle informazioni può arrivare fino a 120 metri al secondo. Centoventi metri al secondo significa 432 chilometri all'ora: Capacità cerebrali _________________________________________________________________ Repubblica 14 Apr. ‘08 IL CARBONE VINCE A SORPRESA NELLA BATTAGLIA ECOLOGICA Grazie alle nuove tecnologie, é diventato possibile depurare in anticipo questa fonte energetica che, al momento di essere bruciata nelle centrali elettriche, diventa fa meno inquinante fra quelle di origine fossile. La prova è nell'aumento degli impianti EUGENIOOCCORSIO Roma IL petrolio resta l'attore di maggior richiamo, ma a ben vedere il protagonista della sfida energetica mondiale è il carbone: stando ad uno studio reso noto in Italia dall'Assocarboni, la domanda mondiale di questa fonte "riscoperta" di recente è destinata a crescere del 73% tra il2005 e il 2030, molto di più del greggio. Il merito è tutto delle tecnologie per il cosiddetto "carbone pulito", cioè della trasformazione di questa che era una fonte inquinante per antonomasia in una sostanza che arriva alla centrale elettrica avendo eliminato una serie di minerali ed impurità che la rendevano tossica. Ci sono alcuni processi ormai sul mercato per rimuovere della materia e delle polveri non necessarie e rendere la combustione più efficiente e meno inquinante. Una di queste è la depurazione del carbone (Coal Washing), che implica la frantumazione del carbone stesso in piccoli pezzi e il passaggio dentro un filtro a separazione per gravità. Successivamente il carbone viene inserito in alcuni recipienti che contengono un fluido in cui il minerale galleggia, data la minore densità, mentre gli altri materiali affondano e vengono rimossi dalla miscela. C'è poi la ben nota partita della rigassificazione: le centrali termoelettriche equipaggiate con questo processo sono le favorite dalla comunità scientifica perché permettono di ridurre ulteriormente gli inquinanti ed ottenere un'elevata efficienza. Inoltre il carbone gassificato è altamente flessibile, e può essere usato, oltre che nella produzione di energia elettrica, per i trasporti o per le industrie chimiche. I sistemi a gassificazione sono chiamati Igcc, cioè Integrated Gasification Combined Cycle. Il carbone non viene bruciato direttamente, come nelle centrali a carbone tra dizionali (cioè le PCC, Pulverised Coal Combustion), ma reagisce con ossigeno e vapore per formare il syngas (principalmente idrogeno e monossido di carbonio). Dopo essere nuovamente depurato, viene quindi bruciato in una turbina a gas per produrre energia e nuovamente utilizzato per produrre vapore per alimentare una turbina a vapore. L'efficienza di utilizzazione è molto elevata, e quasi ducento centrali di questo tipo sono già funzionanti nel mondo. Soprattut to negli Stati Uniti si punta su questa tecnologia, considerata addirittura (il che è sorprendente vista la pessima reputazione del carbone in termini ecologici) la più promettente in termini di impatto ambientale, al punto che è alla base del progetto FutureGen per le centrali ad emissione zero. Inoltre, si ha un vantaggio in termini economici, in quanto il carbone è un combustibile assai meno costoso di petrolio e gas naturale. E in Italia? I rigassificatori sono in ritardo, ed è ancora ferma al 12% (come nel 2005) la quota di carbone nel mix di produzione di energia elettrica, a fronte di un 39% a livello mondiale e 33% a livello europeo. Secondo i dati elaborati dalla stessa Assocarboni (che è una delle più gloriose associazioni industriali italiane essendo nata nel 1897 e raggruppando oggi oltre novanta aziende), nel 2007 la produzione mondiale di carbone è aumentata del 7% rispetto al2006, attestandosi a un livello di 5,6 miliardi di tonnellate. È il quinto anno consecutivo che la produzione aumenta a un tasso più del doppio rispetto a quello del petrolio e del gas. A fronte dell'aumento della domanda è corrisposto comprensibilmente un aumento del prezzo, aggravato dal fatto che nel corso del 2007l’ industria carbonifera mondiale ha registrato problemi logistici portuali e climatici (forti alluvioni). Il tutto ha provocato il raddoppio delle quotazione del carbone rispetto al2000. Un periodo durante il quale peraltro sono quadruplicati i prezzi di gas e petrolio. La quota del carbone nella produzione di energia elettrica è aumentata nel 2007 fino (a livello mondiale) al 39%, contro il 20% del nucleare 20% e il 17 del gas. A livello europeo, il carbone registra un volume di importazioni pari a 235 milioni di tonnellate, pressoché invariate rispetto al 2006, mentre la quota di energia elettricaprodotta in Europa si mantiene al 33%, a fronte del 32% di nucleare e del 17% di gas. Secondo le previsioni delineate dall'International Energy Agency, i fabbisogni di energia primaria mondiale aumenteranno del 55% entro il 2030. In particolare, tra il 2005 e il 2030, i combustibili fossili continueranno a rimanere la principale fonte di energia primaria, soddisfacendo l’84% dell'aumento totale della domanda, In questo scenario, il carbone registrerà come si diceva all'inizio il maggior incremento di domanda. Cosa chiedono le industrie del settore? Intanto, stando alle note dell’Assocarboni, una maggiore certezza negli investimenti degli operatori elettrici, affinché siano tutelati e non ostacolati nella scelta del carbone, il cui utilizzo ridurrebbe l'impatto delle variazioni dei prezzi, così come risulterebbe rafforzata la competitività delle nostre imprese. Così come in Germania dove il 47% della produzione totale di energia proviene dal carbone, in Italia una più oculata diversificazione delle fonti energetiche è auspicata dagli operatori. Di fronte allo sviluppo di paesi come India e Cina, e alle trasformazioni che ciò comporta nel sistema energetico mondiale, la sfida secondo gli imprenditori del settore è di creare le condizioni per un sistema energetico più sicuro e competitivo, in cui tutti i paesi siano coinvolti per mettere in atto misure politiche e trasformazioni tecnologiche senza precedenti. Occorre pertanto, un livello di collaborazione globale tra industria e governi e una maggiore integrazione dei mercati regionali e internazionali dell'energia. In Italia c'è un ritardo rispetto alle medie europee e mondiali ======================================================= ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 15 apr. ’08 OSPEDALI PSICHIATRICI, IN SALITA LA STRADA PER «SUPERARLI» PIANETA CARCERE/ Il Dpcm sulla medicina penitenziaria prevede tre fasi per arrivare a chiudere i "manicomi giudiziari": ecco il progetto e le perplessità La ricetta: restituire gradualmente gli internati alle Regioni di provenienza Ma serve un super coordinamento tra Opg, Asl e Giustizia Gianfranco Rivellini Un po' ospedale, un po' carcere. Di fatto né l'uno né l'altro. I sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani sono l'ultima roccaforte dei manicomi. Strutture da cui è difficile uscire, "buchi neri" che ingoiano i cosiddetti "folli pericolosi". L'allarme era stato lanciato un anno fa dal gruppo misto Giustizia- Salute (si veda Il Sole-24 Ore Sanità n. 13/2007). L'eredità della commissione, che proponeva il graduale superamento degli Opg, è stata raccolta nell'allegato C del Dpcm sulla Sanità penitenziaria firmato il primo aprile dal premier Romano Prodi. Il cuore del provvedimento è racchiuso nelle tre fasi che pubblichiamo in pagina, indicate per il «decentramento» degli ospedali psichiatrici in applicazione del «principio di territorialità», secondo cui i soggetti vanno destinati in istituti vicini alla residenza delle famiglie. Saranno le cinque Regioni che attualmente ospitano gli Opg (Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Campania e Sicilia) a dover sbrigare il grosso del lavoro nei due passaggi iniziali. Soltanto alla fine entreranno in gioco le altre amministrazioni locali, chiamate a prendere in carico con piani ad hoc la quota di internati che proviene dai propri territori. Il decreto consiglia di istituire nelle Asl delle cinque Regioni "capofila" strutture ad hoc nell'ambito dei Dsm che sappiano raccordarsi con gli altri servizi sanitari e con le aziende di provenienza dei singoli internati. Uno specifico accordo con l'amministrazione penitenziaria dovrà inoltre definire le rispettive competenze nella gestione della struttura. Utopia? Forse. La sfida più difficile è senza dubbio una: riuscire a far dialogare mondi finora separati. E "scongelare" gli Opg dall'isolamento in cui vivono, salvo poche eccezioni, dall'inizio del Novecento. Manuela Perrone Dopo il via libera dato dalle Regioni, lo scorso primo aprile, a meno di due settimane dal voto, il Governo uscente ha varato l'atto per rendere effettive le disposizioni sulla Sanità penitenziaria contenute nella Finanziaria 2008. I contenuti del provvedimento sono ambiziosi. La riforma porta a compimento le linee generali del Dlgs 230/1999, con le integrazioni necessarie dopo la modifica del Titolo V della Carta costituzionale. Al riguardo sono gli allegati di dettaglio che potrebbero in futuro trovare serie difficoltà nello spiegamento dei loro contenuti programmatori, legate all'autonomia delle Regioni in materia di organizzazione dei servizi sanitari da erogare all'interno del circuito penale. Merita un approfondimento l'allegato C, «Linee di indirizzo per gli interventi negli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) e nelle case di cura e custodia». A parere di chi scrive il documento presenta criticità tali da porre in dubbio un'applicazione uniforme sul territorio nazionale, entro i termini di tempo previsti. Intanto gli Opg non sono dislocati in modo uniforme, in particolare le donne sono tutte concentrate in Lombardia, nell'istituto di Castiglione delle Stiviere (Mantova). Inoltre più del 50% degli internati sono residenti in sole quattro Regioni (si veda la tabella): Lombardia (194), Campania (140), Lazio (124), Sicilia (138). Questa distribuzione implica un forte rallentamento dei tempi preventivati nell'allegato, almeno per la realizzazione della cosiddetta "prima fase". Non si dimentichi inoltre che almeno il 10% della popolazione ricoverata in questi istituti rientra nello stato giuridico del detenuto con sopraggiunta infermità mentale (articolo 148 del Cp). Per questi si rende necessario il trasferimento nei centri clinici, apposite sezioni ancora in larga misura da approntare nelle carceri delle Regioni di residenza. Non si dimentichi ancora che il Codice penale resta invariato e, a meno di successivi atti di modifica legislativa del Parlamento, il magistrato di sorveglianza non può che applicare la legge, come il giudice della cognizione può tuttora, in base all'articolo 112 del Dpr 230/2000, disporre periodo di osservazione in Opg. Resta inoltre poco realistico immaginare lo sfoltimento in 12 mesi dei ricoverati al termine della misura di sicurezza, perché la Finanziaria 2008 non ha riservato risorse aggiuntive alle Regioni per sviluppare la rete dei servizi integrati con la residenzialità psichiatrica alternativa all'Opg. In particolare le misure alternative, quali la libertà vigilata e la licenza esperimento, non sono a carico del fondo sanitario del ministero della Giustizia, dunque non rientrano nella partita di giro operata dall'attuale Dpcm. Il problema esiste, specialmente gettando l'occhio sulla seconda tabella. I numeri (soggetti in Opg e in libertà vigilata nelle residenze protette) dicono che il fenomeno è aumentato significativamente in 7 anni e che il territorio già assorbe circa il 60% dei soggetti in esecuzione penale esterna. Non è però solo un problema di risorse aggiuntive da reperire, ma anche di strumenti culturali e organizzativi idonei a fronteggiare le sfide della territorialità. Quando si parla degli Opg, ma anche dei malati in libertà vigilata, si deve focalizzare l'attenzione sul paziente psichiatrico autore di reato. Precisamente sulla tipologia di reati e sulla tipicità del disturbo mentale in rapporto al reato. Sono pazienti gravi (almeno il 60-65% diagnosi in asse I, da cui l'irresponsabilità di fronte alla legge penale). Sono socialmente pericolosi (pericolosità in senso giuridico, accertata e decretata in sentenza da un giudice). Concetto su cui porre la doverosa attenzione, perché diversamente il "paziente difficile" che non delinque non è pericoloso fino a prova contraria, cioè fino a che non commette un reato. Assimilare il paziente pericoloso per sentenza al "paziente difficile" dei servizi significa operare approssimazioni non in linea con la letteratura internazionale, che ha evidenziato tutta la complessità nella gestione dei percorsi specifici per il recupero del malato reo, dentro la cornice di garanzie per la collettività (non a caso è il giudice di sorveglianza che emette un'ordinanza di cessazione della pericolosità). Dunque la logistica degli Opg, la distribuzione regionale anomala degli internati, la sottostima delle risorse necessarie, la sottovalutazione della tipologia e dei percorsi specifici del malato autore di reato, l'invarianza delle norme penali utilizzate dalla magistratura per innescare e sovrintendere il percorso penale pongono seriamente in forse la realizzazione della cosiddetta "prima e seconda" fase dell'allegato C. Qualche considerazione infine sulla "terza fase", quella dell'attuazione piena della regionalizzazione degli Opg e dei percorsi integrati Opgterritorio, da realizzare a cura dei Dipartimenti di salute mentale. In primo luogo si ritiene che sia necessario istituire un Ufficio di coordinamento nelle Regioni sede attuale di Opg. La responsabilità non può che essere posta in capo al direttore degli istituti medesimi, per operare il funzionale raccordo tra i Dsm regionali da un lato, l'Opg e il Provveditorato regionale dell'amministrazione penale dall'altro. Tale Ufficio va successivamente esteso anche nelle Regioni che, sempre secondo le linee guida, si doteranno di propri Opg, secondo il modello della custodia esterna operata dalla polizia penitenziaria. Infine, per realizzare un processo di riforma ispirato al modello territoriale della cura e riabilitazione del "disturbo mentale di confine" (paziente difficile a rischio di reato, paziente che delinque, detenuto psichiatrico in carcere, internato Opg e Ccc, percorsi delle misure alternative, libertà vigilata ecc.), non può che essere adottato il modello zonale dell'" Area vasta". Che va costruita come struttura sovra ordinata, interdipartimentale, dotata di autonomia tecnica, organizzativa e gestionale, in grado di programmare e gestire in modo coordinato la multidisciplinarità complessa propria della psichiatria territoriale, unita a quella della gestione delle dipendenze patologiche e a quella della psichiatria forense. Gianfranco Rivellini Psichiatra e criminologo clinico Opg Castiglione delle Stiviere Regione residenza Italiani Stranieri% italiani N. % N. % e stranieri Piemonte 55 4,8 6 5,9 4,9 V. d'Aosta 4 0,3 0 0,0 0,3 Liguria 46 4,0 1 1,0 3,8 Lombardia 194 16,7 26 22,4 17,7 Trentino A.A. 26 2,3 0 0,0 2,1 Veneto 57 5,0 10 9,9 5,4 Friuli V.G. 14 1,2 0 0,0 1,1 Emilia-R. 46 4,0 20 19,8 5,3 Marche 18 1,6 1 1,0 1,5 Toscana 64 5,6 9 8,9 5,7 Umbria 8 0,7 0 0,0 0,6 Lazio 124 10,9 17 16,8 11,3 Campania 140 12,3 4 4,0 11,6 Abruzzo 31 2,7 0 0,0 2,5 Molise 5 0,4 0 0,0 0,4 Puglia 59 5,2 1 1,0 4,8 Basilicata 7 0,6 0 0,0 0,6 Calabria 51 4,5 1 1,0 4,2 Sicilia 138 12,1 5 5,0 11,5 Sardegna 55 4,8 0 0,0 4,4 Totale resid. regioni 1.142 101 Reg. residenza non certa 23 15 Italia 1.165 90,9 116 9,1 100,0 Fonte: elaborazione da dati Ced Dap – Posizioni giuridiche Cp (222, 206, 219, 148) - art. 112 Dpr 230/2000 Gli internati (al 30 marzo 2007) Anno Sogg. in Mds Opge Ccc Libertà vigilata (x conv. Mds) Libertà vigilata (x Lfe) Totale % sogg. in Mds % esec. penale esterna 2004 1032 650 533 2.215 46,59 53,41 2005 1.147 702 541 2.390 47,99 52,01 2006 1.115 857 637 2.609 42,74 57,26 2007* 1.131 1.175 441 2.889 39,15 60,85 (*) I semestre Le misure Alternative La prima fase In una prima fase, a passaggio di competenze avvenuto, la responsabilità della gestione sanitaria degli Opg è assunta dalle Regioni in cui gli stessi hanno sede. Nello specifico, per lo stabilimento di Castiglion delle Stiviere subentra la Regione Lombardia, per quello di Reggio Emilia subentra l'Emilia- Romagna, per quello di Montelupo Fiorentino la Toscana, per quello di Napoli e quello di Aversa subentra la Campania per quello di Barcellona Pozzo di Gotto la Sicilia. Contestualmente i Dipartimenti di salute mentale nel cui territorio di competenza insistono gli Opg, in collaborazione con l'équipe dell'istituto, provvedono alla stesura di un programma operativo che prevede: ? dimettere gli internati che hanno concluso la misura della sicurezza, con soluzioni concordate con le Regioni interessate, che devono prevedere forme di inclusione sociale adeguata, coinvolgendo gli Enti locali di provenienza, le Aziende sanitarie interessate e i servizi sociali e sanitari delle realtà di origine o di destinazione dei ricoverati da dimettere; ? riportare nelle carceri di provenienza i ricoverati in Opg per disturbi psichici sopravvenuti durante l'esecuzione della pena. Questa azione è resa possibile solo dopo l'attivazione delle sezioni di cura e riabilitazione, all'interno delle carceri; ? assicurare che i periziandi e gli osservandi (ex articolo 112, comma 1 e comma 2 del decreto del Presidente della Repubblica 230/2000) siano assegnati nelle carceri ordinarie, naturalmente in sedi appropriate. Questi primi provvedimenti avranno come conseguenza un primo e opportuno sfoltimento del carico di internamento degli attuali Opg, il che rende possibile una migliore gestione personalizzata, un più idoneo rapporto tra operatori e internati e una maggiore possibilità di programmare le ulteriori fasi successive. La seconda fase In una seconda fase, a distanza di un anno, si prevede una prima distribuzione degli attuali internati in modo che ogni Opg, senza modificarne in modo sostanziale la capienza e la consistenza, si configuri come la sede per ricoveri di internati delle Regioni limitrofe o comunque viciniori, in modo da stabilire immediatamente rapporti di collaborazione preliminari per ulteriori fasi di avvicinamento degli internati alle realtà geografiche di provenienza. In via orientativa, ? all'Opg di Castiglion delle Stiviere, saranno assegnati internati provenienti dal Piemonte, dalla Val d'Aosta, dalla Liguria, oltre che naturalmente dalla Lombardia; considerando che tale struttura è l'unica con una sezione femminile, a essa verranno assegnate le internate provenienti da tutte le regioni; ? all'Opg di Reggio Emilia, gli internati delle Regioni Veneto, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Marche, oltre che dall'Emilia Romagna; ? all'Opg di Montelupo Fiorentino, gli internati della Toscana, dell'Umbria, del Lazio della Sardegna; ? all'Opg di Aversa e all'Opg di S. Efremo di Napoli, gli internati della Campania, dell'Abruzzo, del Molise, della Basilicata e della Puglia; ? all'Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, gli internati della Sicilia e della Calabria. Tra le Regioni titolari della competenza gestionale dell'Opg e le regioni limitrofe e/o viciniore devono essere predisposti programmi di cura, di riabilitazione e di recupero sociale di ciascuno degli internati prevedendo rapporti tra i diversi servizi sociali e sanitari utili e necessari per realizzare il programma di ulteriore decentramento nelle Regioni di provenienza. ? La terza fase La terza fase, a distanza di due anni, si provvede alla restituzione a ogni Regione italiana della quota di internati in Opg di provenienza dai propri territori e dell'assunzione della responsabilità per la presa in carico, attraverso programmi terapeutici e riabilitativi da attuarsi all'interno della struttura, anche in preparazione alla dimissione e all'inserimento nel contesto sociale di appartenenza. Le soluzioni possibili, compatibilmente con le risorse finanziarie, vanno dalle strutture Opg che richiedono la vigilanza esterna a strutture di accoglienza e all'affido ai servizi psichiatrici e sociali territoriali, sempre e comunque sotto la responsabilità assistenziale del Dipartimento di salute mentale della Azienda sanitaria dove la struttura o il servizio è ubicato. Tramite specifico Accordo in sede di Conferenza permanente fra lo Stato e le Regioni e Province autonome, vengono definite la tipologia assistenziale e le forme della sicurezza, gli standard di organizzazione e i rapporti di collaborazione tra il responsabile sanitario e il responsabile della sicurezza. Nelle fasi transitorie, le persone affette da disturbi psichici cui a partire dal 1° gennaio 2008 è stata applicata la misura di sicurezza saranno destinate alle sedi trattamentali più prossime alla residenza, tenendo conto della fase attuativa del Progetto di regionalizzazione degli Opg e delle forme alternative in essere per la esecuzione della misura di sicurezza. ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 15 apr. ’08 EPIDEMIOLOGIA MANAGERIALE: PER GESTIRE BISOGNA ESSERE INFORMATI 24% Lo strumento studiato per fare da guida all'"epidemiologia manageriale" è poco diffuso nelle Asl: solo il 24% l'adotta coprendo una popolazione pari al 47% del totale Relazione sanitaria: per gestire bisogna essere informati Eterogeneità di contenuti e di procedure di elaborazione caratterizzano la documentazione sulle condizioni di salute e l'uso dei servizi In azienda si realizza il 61% dei documenti ANTONIO GIULIO DE BELVIS, MASSIMO VOLPE DI ANTONIO GIULIO DE BELVIS * E MASSIMO VOLPE ** A quindici anni dalla sua istituzione, l'Asl si trova di fronte a una doppia sfida: coniugare il soddisfacimento appropriato e tempestivo dei bisogni di salute dei singoli e delle comunità, nel rispetto dei vincoli economici e finanziari, e dare trasparenza all'azione istituzionale, per consentire a soggetti interni ed esterni - primo fra tutti il cittadino - di valutarne la performance. Si tratta di un duplice impegno: il processo di programmazione aziendale e la necessità di calibrare sugli obiettivi della Asl l'organizzazione e l'erogazione delle attività socio-sanitarie rendono sempre più necessaria l'adozione di strumenti di conoscenza dei bisogni di salute, della domanda e dell'offerta di servizi e della qualità complessiva a essi associata. Come assicurare che il management delle aziende sanitarie possa disporre di tale substrato conoscitivo? Uno dei "sussidi" forniti dall'epidemiologia "manageriale" è la Relazione sanitaria. Essa è intesa come strumento per la descrizione quantitativa e qualitativa dello stato di salute della popolazione e dei fattori che possono influenzarla, per identificare le aree più problematiche all'interno del territorio aziendale e, suggerendo correlazioni non sempre evidenti nelle statistiche epidemiologiche tradizionali, stimolare l'azione di amministratori, professionisti della salute e cittadini. I risultati dell'indagine presentati nel volume da noi curato «La Relazione sanitaria: dalle informazioni alle decisioni» (Il Pensiero Scientifico Editore) , mostrano come la Relazione sanitaria, prevista fin dalla legge 833/78, sia una pratica ancora poco diffusa nelle aziende sanitarie: solo il 25% adotta e rende pubblica la propria Relazione sanitaria (nelle molteplici denominazioni con cui è battezzata: Bilancio di missione, Relazione sullo stato di salute, Profilo di salute ecc.), a riprova del fatto di quanto sia poco applicato il principio del "misurare per decidere". Considerando il totale della popolazione coperta da tale strumento, questa corrisponde a poco più di 27.400.000 abitanti, pari al 46,9% della popolazione italiana, con disomogeneità nella diffusione sul territorio nazionale (Figura 1). Per quanto riguarda la provenienza, il 61,3% dei documenti analizzati è stato realizzato a livello aziendale, il 21,1% a livello regionale o di Provincia autonoma, il 7,7% a livello di Area vasta, il 5,6% a livello di Comune e solo una minima percentuale in ambito provinciale (2,1%), distrettuale (1,4%) e circoscrizionale (0,7%). Le conclusioni dell'analisi possono essere articolate intorno a tre nodi concettuali. 1. Ruolo della relazione. Il ruolo che riveste la relazione nel governo aziendale può essere dedotto da tre elementi oggettivi: destinatari, obiettivi, riferimenti normativi. Riguardo al primo elemento, l'analisi ha evidenziato che i destinatari della relazione sono esplicitati nel 43% dei documenti esaminati e sono costituiti da cittadini, Regioni, amministratori locali (in particolare Conferenze sanitarie territoriali): è chiaro che l'indicazione di tali destinatari fa assumere ai documenti il ruolo di strumento di "rendicontazione sociale" con il quale la Regione o l'azienda assolve al proprio obbligo di "accountability", nel senso di rendersi conto della propria situazione per rendere conto a terzi dei risultati raggiunti. Nel rimanente 57% dei casi i destinatari non sono esplicitati: per tali casi si può ipotizzare che i documenti prodotti rappresentino per la Regione o l'azienda uno strumento di "autoconoscenza", quindi di "accountability parziale", nel senso che vengono prodotti e utilizzati per "prendere coscienza" della situazione esistente ai fini di poter operare le opportune scelte programmatorie e organizzative. Occorre peraltro aggiungere che la mancata esplicitazione dei destinatari suggerisce l'ipotesi che, in fase di elaborazione del documento, i redattori non abbiano valutato l'opportunità di utilizzare modalità di presentazione e di commento dei dati che ne consentisse la fruizione a un novero di persone non circoscritto ai soli "addetti ai lavori". Per quanto riguarda gli obiettivi, l'analisi ha evidenziato che essi sono dichiarati nel 75,2% dei casi e attengono alla necessità di supportare processi di programmazione (circa 35% dei casi), di comunicazione (27,6% dei casi) e di valutazione generica o specificamente epidemiologica (circa 40% dei casi). In circa il 25% dei casi gli obiettivi non sono dichiarati. Su questo aspetto si possono formulare due considerazioni: la prima è che tali documenti assolvono probabilmente funzioni multiple, variabili in relazione al contesto (anche culturale) in cui sono prodotti; la seconda è che, nei casi in cui l'obiettivo non è dichiarato, esso verosimilmente esiste, anche se non è immediatamente percepito dall'estensore del documento e in ogni caso la mancanza di chiarezza sugli obiettivi del documento può renderne più difficoltosa l'impostazione e l'elaborazione e, soprattutto, può determinare la produzione di un documento non utilizzabile o poco utilizzabile dai suoi committenti/destinatari. Per quanto attiene ai riferimenti normativi è stato evidenziato che solo il 26,7% dei documenti esaminati riporta un riferimento esplicito a una norma o a un atto di pianificazione che "giustifica" o rende necessaria l'elaborazione di una relazione. Questo dato può essere letto secondo due prospettive esattamente antitetiche: la prima, negativa, attiene al fatto che poche realtà hanno "normato" l'obbligo o i contenuti dei documenti; la seconda, positiva, è che, pur in assenza di espliciti vincoli normativi, varie Regioni e aziende hanno ritenuto opportuno e l a b o r a r e ugualmente il documento, come scelta autonoma e in a c c o r d o con la necessità di soddisfare specifiche esigenze interne. L'analisi concernente la presenza di riferimenti normativi ha riguardato anche l'eventuale richiamo al decreto ministeriale del 12 dicembre 2001 che contiene una serie di indicatori da utilizzare per il monitoraggio dei Lea. Naturalmente l'assenza di tale richiamo non significa tout-court che gli indicatori non vengano utilizzati ma, comunque, rappresentano un punto di riferimento e una sorta di bussola che dovrebbe guidare la rilevazione e la presentazione dei dati, anche per assicurare omogeneità nei contenuti delle relazioni e quindi facilitare la confrontabilità tra differenti aree territoriali. 2. Struttura formale della relazione. Gli aspetti formali dei documenti sono stati analizzati in relazione a tre elementi: unità operativa redattrice del documento, presenza di indice, numero di pagine. Per quanto riguarda il primo aspetto, l'analisi ha evidenziato che in circa il 64% dei casi il documento è stato elaborato dalla Regione o azienda (o altro livello organizzativo) in modo autonomo, nel 14% dei casi da un gruppo misto formato da personale interno e da consulenti esterni, mentre in circa il 22% dei casi non era indicata l'unità redattrice. Tale quadro si presta a due considerazioni: una parte (piccola) degli enti non dispone al suo interno delle competenze per la produzione del documento e quindi deve "appoggiarsi" a consulenti esterni con conseguente necessità di impegnare risorse a tale scopo; la mancata indicazione dell'unità redattrice potrebbe essere una svista o potrebbe essere voluta (nel senso che la Regione o l'azienda si assume la completa "paternità/maternità" del documento), ma, in ogni caso, priva chi legge il documento e non appartiene alla struttura, della possibilità di confrontarsi con un interlocutore tecnico per chiedere chiarimenti o approfondimenti sui dati pubblicati. Riguardo alla presenza dell'indice è emerso che in circa il 24% dei documenti esso è assente. In questo caso non può trattarsi che di una dimenticanza che, tuttavia, sarebbe opportuno evitare in quanto l'indice consente al lettore di "navigare" meglio all'interno di documenti che possono essere anche molto voluminosi. Riguardo al numero di pagine l'indagine ha posto in evidenza che la maggior parte dei documenti (circa il 40%) ha un numero di pagine compreso tra 100 e 199, ma sono ben rappresentati anche i documenti modello "Bignami" (meno di 100 pagine), mentre quelli modello "elenco telefonico" (più di 300 pagine) sono in netta minoranza. Rifacendosi al detto "in medium stat virtus" è ragionevole ritenere che il modello prevalente sia quello più adeguato, anche se i documenti esaminati presentano una estrema eterogeneità riguardo al mix tra testo e figure e riguardo alle dimensioni delle pagine. In presenza di documenti particolarmente ricchi di dati è consigliabile fornire all'inizio del documento stesso una sintesi (executive summary, highlights) dei dati considerati dal redattore o dal committente più importanti. 3. Contenuti della relazione. Questa parte dell'analisi ha evidenziato che le sei aree informative considerate (bisogni, determinanti di salute, domanda soddisfatta, domanda insoddisfatta, offerta, aspetti economico-finanziari) sono "coperte" nei documenti considerati in modo disomogeneo (tabella 1). Mentre vi è una quasi ottimale copertura degli aspetti relativi ai bisogni (demografia, mortalità, morbosità), una soddisfacente copertura di quelli relativi ai determinanti di salute (seppure con disomogeneità in relazione alle articolazioni interne dell'area: ambiente, stili di vita ecc.) e alla domanda soddisfatta (prestazioni erogate), risulta carente la copertura delle aree relative alla domanda insoddisfatta (mobilità passiva, liste di attesa), all'offerta (dotazioni strutturali, tecnologiche, di personale) e agli aspetti economico-finanziari (costi, ricavi). Inoltre, nell'ambito delle aree relative all'offerta e agli aspetti economico-finanziari, si riscontra una forte carenza di dati relativi all'assistenza collettiva negli ambienti di vita e di lavoro, carenza riconducibile verosimilmente alla parziale inadeguatezza dei flussi informativi relativi a tale livello. In sintesi si può affermare che il quadro complessivo dell'attività di documentazione del funzionamento del sistema sanitario a livello regionale e aziendale è sicuramente migliorabile, sia in termini quantitativi (più relazioni e dati) che in termini qualitativi (esplicitazione degli obiettivi dei documenti, coerenza del contenuto con gli obiettivi formulati). Il percorso di miglioramento può trarre forte giovamento dal confronto e dalla condivisione di esperienze, facilmente realizzabile attraverso la collocazione dei documenti sul web. Dove la Relazione sanitaria è strumento di monitoraggio dei risultati dell'attività della Asl, si registra il verificarsi di un meccanismo a "volano virtuoso": la sua sistematica applicazione produce informazioni a supporto delle decisioni e innesca efficaci circuiti di governance tra gli attori aziendali. A partire dall'analisi delle esperienze mondiali e attraverso i contributi di professionisti di Sanità pubblica, il volume propone un metodo per realizzar la Relazione sanitaria, costruita attorno a un framework validato a livello internazionale e applicabile a partire dai flussi informativi aziendali. Il nostro Sistema sanitario, chiamato dalle logiche della devoluzione a misurare la qualità dell'assistenza erogata, necessita di strumenti applicabili a livello territoriale, come la Relazione sanitaria della Asl, che prevedano, all'interno della "cornice concettuale" delle dimensioni di performance aziendale, il posizionamento delle informazioni e il percorso da adottare per utilizzare i dati per le decisioni finalizzate alla tutela e alla promozione della salute del cittadino. * Università Cattolica di Roma Istituto di igiene ** Policlinico universitario "Agostino Gemelli" Direzione sanitaria Tab. 1 - Copertura Area Bisogni Determinanti di salute Domanda soddisfatta Domanda insoddisfatta Offerta Economico-finanziaria ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 15 apr. ’08 IN «GAZZETTA» LE LINEE GUIDA PER GLI STUDI OSSERVAZIONALI (SOS) SUI FARMACI – Obiettivo: omogeneizzare la condotta dei Comitati etici e sburocratizzare il percorso Ricerche sui grandi numeri: le regole d'oro dell'Aifa Generalisti e pediatri senza paletti - Nasce un registro nazionale on line - Silenzio-assenso a 60 giorni per l'avvio delle operazioni Sara Todaro I dati sugli studi osservazionali svolti in Italia sono tratti dal sondaggio promosso della facoltà di Chimica e tecnologie farmaceutiche dell'Università di Bologna, curato da Anna Minarini e Francesco Gesuete. La rilevazione è stata eseguita nel 2006 su dati del 2005 tramite questionario e intervista telefonica su un campione di 51 Ce su 308 (17% dei Ce italiani) selezionati per volume d'attività e distribuzione omogenea nel territorio. I dati elaborati sono riferiti a un totale di 44 rispondenti pari al 12% dei Ce italiani. Barra a dritta e bussola condivisa per gli studi clinici osservazionali (o non sperimentali o non interventistici), quelli cioè che non comportano rischi aggiuntivi per i soggetti coinvolti, cui viceversa sono garantite le migliori condizioni di assistenza clinica. A fare chiarezza su studi indispensabili per valutare sicurezza, efficacia appropriatezza prescrittiva e aspetti farmacoeconomici dei medicinali sui grandi numeri, ovvero nella comune pratica clinica, sono le Linee guida Aifa appena pubblicate in Gazzetta e in vigore da luglio (determinazione 20 marzo 2008; Gu n. 76 del 31 marzo). Il documento - frutto di ripetuti confronto con le società scientifiche - punta a omogeneizzare la linea di condotta dei Comitati etici destinatari quanto meno della notifica dello studio che si intende avviare nella struttura o nel territorio di loro competenza. Allo stesso tempo vengono rimossi anche alcuni possibili ostacoli all'esecuzione degli studi. Tra i punti più importanti della determinazione figura in particolare l'istituzione di un registro nazionale informatizzato presso l'Aifa; la non obbligatorietà di iscrizione a particolari registri per generalisti e pediatri coinvolti nell'attività; la non obbligatorietà di polizze assicurative aggiuntive rispetto a quelle previste per la normale pratica clinica; l'obbligo di formale approvazione da parte del Ce per gli studi di coorte prospettici in cui i pazienti sono farmacologicamente trattati e seguiti nel tempo per la valutazione degli esiti; l'introduzione del silenzio/assenso a 60 giorni dalla notifica per tutti gli altri. In coerenza con quanto previsto dal Dlgs 211/2003 (recepimento delle norme Ue sulla buona pratica clinica nell'esecuzione dei trials) il documento precisa che per essere considerati osservazionali gli studi devono coinvolgere un farmaco prescritto per le indicazioni autorizzate in Italia, rientrante nella normale pratica clinica , prescritto al paziente indipendentemente dalla finalità di includerlo nello studio, monitorato secondo le procedure diagnostiche e valutative correnti (comprese visite di follow up, questionari, diari tenuti dal paziente eccetera). È lungo queste direttrici che dovranno muoversi gli studi avviati a partire da luglio presso strutture pubbliche, private, e ambulatori convenzionati o libero professionali: per amor di trasparenza gli eventuali compensi previsti per gli operatori coinvolti dovranno essere notificati al Ce e nel caso di operatori afferenti a strutture pubbliche o a vincolati da rapporto pubblico con le Asl, dovranno essere erogati tramite l'ente di appartenenza. Specifiche cautele previste fanno da contrappeso a una mole di lavoro prevedibilmente in crescita. Secondo i dati più aggiornati attualmente disponibili - tratti da una ricerca dell'Ateneo Bolognese -, nel 2005 gli studi osservazionali hanno rappresentato il 22% di tutti gli studi clinici valutati dai Ce e sono risultati promossi nel 41% dei casi da promotori no profit. Sempre nel 2005 solo meno della metà dei Ce aveva predisposto linee guida interne per la valutazione degli studi osservazionali e pur trattandosi nella stragrande maggioranza dei casi di studi multicentrici, la partecipazione dei generalisti era ridotta al lumicino. Tipologia studi osservazionali 1. Studi di coorte prospettici 2. Altri studi osservazionali: a) studi di coorte retrospettivi b) studi caso-controllo c) studi solo su casi ("case cross-over" e "case series") d) studi trasversali e) studi di appropriatezza N.B. In ciascuno degli studi indicati possono essere anche presenti obiettivi di valutazione economica dell'uso dei farmaci (farmacoeconomia) ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 15 apr. ’08 SARDEGNA: RIABILITAZIONE AL RINNOVO: ECCO IL PIANO FINO AL 2010 Approvato dalla Giunta Soru il restyling della rete territoriale I letti post- acuzie saranno 1.027 Manuela Perrone Si completa il quadro della riorganizzazione della riabilitazione in Sardegna, delineata in origine dal Piano regionale dei servizi sanitari 2006-2008: il 28 marzo scorso la Giunta guidata da Renato Soru ha approvato la riorganizzazione della rete territoriale. Programmando la ripartizione tendenziale delle attività nelle Province in termini di posti letto, posti residenziali e diurni e volumi di prestazioni per tipologia di assistenza. Obiettivo: superare entro il 2010 lo squilibrio nella distribuzione delle strutture sul territorio e la storica carenza dell'Isola, la Regione con la più bassa dotazione di posti letto per mille abitanti di tutto il Paese. Ma anche assicurare l'integrazione tra ospedale e territorio, nell'interesse dei pazienti. I parametri fissati sono definiti «tendenziali»: bisogna raggiungerli nell'arco di un triennio, «attraverso un percorso di progressivo adeguamento dell'offerta assistenziale e di verifica dei risultati raggiunti». A regime, nel 2010, la rete regionale dovrà contare su 1.027 posti letto per la riabilitazione ospedaliera (20 nelle unità spinali, 645 per il recupero e riabilitazione funzionale, 302 di lungodegenza e 60 di neuroriabilitazione); su 340 posti per la riabilitazione sanitaria (45 per la riabilitazione globale a ciclo continuativo alta intensità, 110 non alta intensità, 25 per la continuativa per disabili psichici e 160 per quella diurna per i disabili psichici); su 645 posti per il socio-riabilitativo (300 per il residenziale e 345 per il diurno. Dovrà inoltre garantire 132.750 prestazioni ambulatoriali intensive, 215.721 estensive, 132.750 domiciliari e 58.080 di mantenimento, ambulatoriale o domiciliare. In attuazione della delibera 53/8 del 27 dicembre 2007, le tabelle allegate al provvedimento di marzo indicano anche la ripartizione su base provinciale dei posti necessari a soddisfare il fabbisogno di riabilitazione, per i regimi continuativo e diurno, da parte delle strutture pubbliche e private accreditate. E precisano le tipologie di prestazioni effettuabili presso i centri pubblici e le singole strutture private transitoriamente accreditate. Agli assistiti non è richiesta alcuna spesa: per il 2008 e fino al completamento dei provvedimenti attuativi dei Lea, le prestazioni socio-sanitarie soggette a compartecipazione «restano a totale carico del bilancio regionale» sia per la quota sanitaria sia per quella sociale. Entro il 15 aprile le Asl devono assicurare un'adeguata informazione sull'offerta. Entro il primo maggio, invece, le strutture devono riclassificare i pazienti già assistiti in regime residenziale o semiresidenziale seguendo le "tracce" riportate nel documento regionale. Il restyling è entrato nel vivo. ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 15 apr. ’08 INTRAMOENIA LEGITTIMA ANCHE SENZA SPAZI «Si» ai primari solo se "esclusivi": una Regione può legittimamente riservare gli incarichi di direzione di struttura negli ospedali ai medici che giurano fedeltà al Ssn anche se le Asl non hanno ancora approntato spazi idonei alla libera professione intramoenia. L'inadempienza non vale infatti a "parificare" l'intramuraria con l'extramoenia. Lo ha stabilito la Corte costituzionale: con la sentenza n. 86 depositata il 4 aprile, la Consulta ha giudicato infondata la questione di legittimità costituzionale della riforma sanitaria del 1992 (Dlgs 502, articolo 15- quinquies, comma 5) e di una norma della Toscana (articolo 59, comma 1, della legge regionale 40/2005, come interpretata autenticamente dall'articolo 6 della legge 67/2005), sollevata dal tribunale di Grosseto in riferimento al principio di uguaglianza (articolo 3 della Costituzione). Nel corso di una controversia che vedeva un oculista opporsi all'ospedale grossetano, il giudice del lavoro aveva dubitato della legittimità dei due articoli in quanto «comportano la perdita della funzione dirigenziale in caso di scelta del medico di proseguire l'attività extramoenia senza distinguere l'ipotesi in cui vi sia la possibilità concreta dell'esercizio della libera professione intramoenia da quella in cui non vi sia» perché la Asl ha omesso di allestire strutture ad hoc. Per il tribunale, inoltre, la disciplina impone irragionevolmente al dirigente «di esercitare l'opzione prima di sapere se effettivamente l'azienda predisporrà le strutture necessarie» all'intramoenia, costringendolo così «a un salto nel buio». Oppure, se si avvale della facoltà di usare il proprio studio, a «esosi e caduchi investimenti strutturali». La Consulta non è d'accordo. Ripercorrendo l'evoluzione della disciplina del rapporto di lavoro dei dirigenti del Ssn, nota come sia «contraddistinta sin dall'origine da un tendenziale disfavore nei confronti dello svolgimento dell'attività libero-professionale». L'aziendalizzazione e l'accresciuta concorrenza tra pubblico e privato hanno profilato poi «una situazione di conflitto d'interessi» per il medico che lavori anche all'esterno del Ssn. Di qui la necessità di limiti all'extramoenia, stabiliti con il Dlgs 229/1999 che ha modificato la riforma del 1992 inserendo l'obbligo dell'opzione tra intramuraria ed extramuraria, il divieto di primariato per chi non sceglie l'esclusiva e il dovere per le Asl di creare spazi distinti per l'intramoenia. Il principio è stato subito temperato: dal 2000 è stata concessa ai medici l'"intramoenia allargata" (la possibilità di svolgerla negli studi privati), prorogata finora. Da ultimo, la legge 120/2007 ha imposto alle Asl di allestire spazi idonei negli ospedali entro gennaio 2009 (finora soltanto 9 Regioni sono in regola con i piani previsti, tra cui la Toscana). Alla luce delle norme in vigore - conclude la Consulta - «il caso nel quale la scelta del dirigente rappresenterebbe "un salto nel buio" si presenta come un'evenienza del tutto marginale». Tutt'al più può verificarsi «una disparità di mero fatto», legata all'assenza di spazi per l'intramoenia negli ospedali, che non configura però una violazione dell'articolo 3 della Costituzione: "vince" l'esigenza di fissare paletti al lavoro dei medici fuori dal Ssn. M.Per. ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 12 apr. ’08 MEDICI DI BASE: NON SI CAMBIA – LUNGHE ATTESE PER I PAZEINTI Categoria tiepida davanti al nuovo modo di assistere - Troppi pazienti continuano a rivolgersi ai pronto soccorso ALESSANDRA SALLEMI CAGLIARI. Sembrava di aver capito che i medici di base avrebbero fatto orari più lunghi in ambulatorio e che sarebbe stato riconosciuto loro un ruolo più attivo nella gestione di malattie diffuse e screening preventivi. Sembrava anche altro, ma in giro non c'è fervore, hanno vinto i riottosi? Il contratto firmato un mese fa alla Regione con i rappresentanti dei medici di medicina generale (Fimmg) fissava sulla carta alcune novità che peraltro avevano già cominciato a prendere piede nella vita quotidiana, ma senza ancora sradicare i problemi più comuni dei cittadini- pazienti perché affidate alla buona volontà dei singoli. C'è una dimostrazione: i pronto soccorso continuano a essere frequentati in modo improprio da persone che hanno disturbi facilmente risolvibili dal medico di base, se questo fosse davvero reperibile almeno al telefono nell'arco delle otto ore giornaliere messe nero su bianco nell'accordo del 20 marzo. I cosiddetti codici gialli e codici verdi (la priorità di accesso alle cure di un pronto soccorso è data dal codice che indica la gravità) sono tutt'ora destinati a lunghe attese nelle sale d'aspetto del pronto soccorso. Il Tribunale del malato ha quantificato in tre ore di media, fino a cinque, i tempi di attesa provocati dal numero di persone che affolla le anticamere. Questi tempi diminuiscono drasticamente durante la notte: perché dopo il tramonto al pronto soccorso ci arrivano sono le emergenze vere, le uniche che dovrebbero presentarsi anche di giorno. D'altronde, nei fatti non è stata condotta un'azione incisiva per scoraggiare un affollamento ingiustificato. C'è un esempio utile: per entrare in un ospedale adesso si deve comunque passare da un pronto soccorso se è vero che un medico di base dispone il ricovero in un reparto ma anche quando scrive «urgente», i reparti rinviano la valutazione dell'effettiva urgenza al pronto soccorso. Una revisione del sistema di accesso all'ospedale sarebbe d'aiuto. Tornando all'accordo firmato un mese fa: si indicavano 7 punti qualificanti che enunciavano principi, poi c'erano i cambiamenti che avrebbero dovuto dare corpo al tema della «centralità della persona», al «rafforzamento del rapporto di fiducia tra medico e paziente», alla «garanzia per il paziente del diritto di accesso (alle cure)» ecc. Non a caso si ampliava l'orario di ambulatorio dedicato alle attività: da un'ora fino a 4 in più alla settimana a seconda del numero di pazienti assistiti. Non risulta che nel capoluogo si sia visto uno studio dove siano state cambiate le targhette con l'orario di apertura. La disponibilità telefonica al momento risulta invariata, non è neppure cominciato il coinvolgimento totale nella cura e nell'assistenza dei pazienti diabetici. Fabio Barbarossa è l'ex presidente provinciale Fimmg, spiega che «l'accordo è stato siglato da troppo poco tempo» per essere operativo, ma anche che «il contratto firmato non ha soddisfatto i medici di famiglia». Barbarossa contesta la previsione di ricevere fuori dall'orario di ambulatorio gli informatori delle case farmaceutiche: «Significa non riceverli, visto che gli orari degli ambulatori sono già lunghi. Secondo molti di noi andava benissimo riceverne uno ogni tre pazienti». Barbarossa non è d'accordo sul fatto che per i pazienti fosse invece un'imposizione. «Un punto molto importante riguarda la raccomandazione di usare farmaci equivalenti - continua il medico - in questi giorni lo stesso Tribunale del malato assieme al Censis ha confermato che lo stabilire attraverso linee guida la necessità di prediligere i farmaci equivalenti sta minando la libertà del medico di famiglia e sta provocando la conflittualità con i pazienti». Ancora a proposito dell'orario ambulatoriale allungato: «Il medico di famiglia ha anche la responsabilità delle cure domiciliari, far crescere l'orario dell'ambulatorio significa farlo stare di più dentro il suo studio. Alcune questioni andrebbero chiarite meglio, il contratto non è stato accolto con entusiasmo e dal basso potrebbe salire la richiesta di riaprire le trattative». ______________________________________________________________ Corriere della Sera 13 apr. ’08 QUELLO CHE IL MALATO DOVREBBE SAPERE L'ospedale va giudicato a seconda del tipo dei malati che cura, se sono «complicati» e a rischio o quelli meno difficili Silvio Garattini I cittadini, soprattutto quelli ammalati, sono spesso presi dal dubbio quando si tratta di scegliere il medico da cui farsi curare e soprattutto l'ospedale dove trovare tutte le competenze per essere curati bene. La scelta non è facile perché i pazienti non hanno molti elementi per elaborare un giudizio informato. Molti ricorrono ad un medico di fiducia, altri alle esperienze di parenti o amici, ma in quest'ultimo caso non si tratta di un parere tecnico perché spesso prevale la valutazione dell'ambiente, dell'attenzione del medico, della simpatia degli infermieri. I pazienti più attenti possono consultare il sito web di vari ospedali e farsi un'impressione più diretta della struttura, ma è probabile che gli ospedali mettano in evidenza i punti di forza e sottacciano le debolezze. Valutare gli ospedali e la loro funzionalità è certamente possibile, anche se è molto difficile. Idealmente, che cosa sarebbe importante conoscere per avere elementi di giudizio significativi? Molte cose, che vengono qui di seguito riportate non necessariamente in ordine di priorità. C'è una serie di valutazioni che riguarda l'efficienza: occorre sapere per gruppi di malattie quanti sono i pazienti curati nell'arco di un anno. Escludendo le malattie rare per cui valgono altri parametri, è chiaro che curare molti pazienti con una stessa malattia comporta più esperienza, più dimestichezza per quella malattia e perciò maggiori possibilità di una cura adeguata. Un ospedale va valutato anche per la tipologia di pazienti che ospita: sono ammalati con polipatologie e molte complicazioni come capita nelle strutture pubbliche, o pazienti selezionati perché rendano molto e richiedano poco come accade in alcune strutture private? Ciò vale anche per la chirurgia. Quante ore al giorno sono utilizzate le sale operatorie? Quanto più si usano tanto più, in linea generale, le strutture devono essere efficienti e l'organizzazione accurata. Sulla base alle cartelle cliniche è possibile stabilire con buona approssimazione qual è il rapporto fra numero di ammalati di una determinata gravità e il numero di guarigioni tenendo conto dei risultati osservati rispetto a quelli attesi. Le caratteristiche delle cartelle cliniche sono un aspetto importante dell'efficienza. Come vengono archiviate, si ritrovano facilmente, sono chiare? Vi sono punti deboli in molte cartelle ospedaliere: sono scritte a mano, magari da più mani, spesso illeggibili e carenti di molti dettagli. È così difficile disporre di cartelle elettroniche nell'era dell'informatica? È molto più facile se si costruiscono con i medici e gli infermieri sotto la guida di una organizzazione esperta. Quanto sono lunghe le liste d'attesa? Sono giustificate per la notorietà di una certa équipe medica, o sono il risultato dell'attività "intramoenia" per cui chi paga è subito accontentato e chi non ha risorse aspetta? Essenziale è anche sapere se un ospedale ha un sistema per valutare gli errori dei medici, o se invece cerca di nasconderli. Ed è importante valutare quale sia il contributo che dà alla ricerca scientifica, nonché l'attenzione alla formazione del personale e alla interazione con altre strutture italiane e straniere. Ultimo, ma non per importanza, è il giudizio degli ammalati, che dovrebbe essere sempre tenuto nella massima considerazione. Quanto detto è sufficiente per capire che la valutazione è al tempo stesso essenziale e complessa. _________________________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 17 apr. ’08 IN MALATTIA (SENZA CERTIFICATO) SCONTRO SULL'ULTIMO PRIVILEGIO Blitz e polemiche per la giustificazione dal primo giorno di assenza Diritto perso a Bologna e Venezia. Confindustria: serve elasticità Gli ultimi ad arrendersi: i dipendenti dell'università Alma Mater. La scelta della Provincia di Milano: autocertificazione MILANO - Per i 2 mila 850 dipendenti degli uffici dell'Università di Bologna è una piccola rivoluzione. La battaglia sindacale per difendere la consuetudine decennale all'autocertiffcazione in caso di malattia è durata il breve spazio di un'irruzione in Rettorato (l'altro ieri), la minaccia di uno sciopero e il successivo tentativo di conciliazione in Prefettura. Poi, ieri, la resa: come (quasi) tutti i lavoratori del pubblico impiego e delle aziende private, quelli dell'Alma Mater avranno l'obbligo di presentare il certificato medico anche per un giorno di assenza dal lavoro. Quello di Bologna è solo l'ultimo caso di revoca di un piccolo privilegio che fino a oggi ha resistito in alcune nicchie, soprattutto universitarie (secondo la Cgil nella quasi totalità degli atenei). Colpa (o merito, dipende dai punti di vista) della «contrattazione di secondo livello», che ha permesso ai sindacati «di ottenere alcuni aggiustamenti rispetto alla legge che regola il contratto nazionale», spiega la Cgil. Prima dell'Alma Mater era già successo al Comune di Venezia, dove dal 26 marzo scorso ai 3.293 dipendenti non basta più una semplice telefonata per annunciare in ufficio di essere indisposti. Del resto, in Laguna c'era ben poco da fare: la circolare di dicembre con cui il ministro della Pubblica Amministrazione Nicolais chiedeva più rigore contro l'assenteismo nel pubblico impiego e una sentenza del Tar del Veneto (la numero 7 del g gennaio 2007) non lasciavano molte altre alternative. Esattamente come è avvenuto a Bologna. Dove però - va detto - quello del certificato medico è solo uno dei dieci punti di un braccio di ferro sul rinnovo degli integrativi del personale tecnico-amministrativo: «Non ci sarà sciopero e continuiamo a trattare, vista la legge in merito all'autocertificazione non c'era molto da conciliare - spiega Davide Valente della Cgil Università di Bologna -. Però mi preme di ricordare che si poteva farne uso per non più di cinque volte l'anno. E non mi pare proprio un'enormità». Ma il sindacato vive come un sopruso la scelta di far applicare una norma a cui deve attenersi la stragrande maggioranza dei lavoratori? «Non è questo, va benissimo combattere l'assenteismo. Siamo però sicuri che questo sia il modo migliore? - dice Rita Guariniello, responsabile nazionale Università della Cgil - E poi c'è un rischio: se mi sono sentito male e devo pure attraversare una città per andare dal medico, è facile che mi troverò costretto a prendermi due giorni anziché uno». I sindacalisti non sono i soli a pensarla così. Ci sono infatti enti pubblici che vanno nella direzione opposta di Bologna e Venezia. La Provincia di Milano, ad esempio, in cui l'amministrazione concede la deroga all'autocertificazione giornaliera: «Questo non vuol dire che da parte nostra si eserciti un controllo più blando, anzi - spiega Claudio Tosi, segretario delle autonomie locali della Provincia milanese -. Laddove infatti c'è il sospetto di un comportamento irregolare, la legge ci permette in ogni momento di richiedere il certificato». Sempre a Milano, per i lavoratori del Comune è invece d'obbligo la giustifica. E nel privato? Anche qui, la legge parla chiaro: se si salta una giornata, entro 48 ore il datore di lavoro ha diritto alla certificazione medica. Ma, visto che la copertura dell'Inps scatta soltanto dal quarto giorno in poi, l'azienda può decidere di essere comprensiva: «Non sono la maggioranza a farlo - dicono dalla Confindustria-, però certo, ci sono imprese che fino al terzo giorno si accontentano di una telefonata». Accade così con i 75 dipendenti della Samo di Guido Riva, presidente del comitato tecnico sanità di Confindustria: «Abbiamo scelto di essere elastici: si elimina un po' di burocrazia e si favorisce un rapporto di fiducia con i lavoratori. Due cose molto, molto utili, soprattutto nelle piccole e medie aziende». ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 15 apr. ’08 UNA PILLOLA BATTE LA CELIACHIA La dieta non è l’unica arma In un convegno tutti i segreti delle nuove ricerche e dei progressi medici ORISTANO. Come si è evoluta la ricerca negli ultimi anni? Quali sono le recenti acquisizioni? Quali prospettive ci riserva il futuro? A questi interrogativi daranno risposta gli esperti che parteciperanno al convegno organizzato dal Presidente dell’Associazione Italiana Celiachia Sardegna, Maria Teresa Russo, in programma sabato al Mistral 2. Attualmente l’unica terapia per la cura della celiachia consiste nella stretta osservanza di una dieta aglutinata, il che comporta la rinuncia di buona parte di quei momenti di socializzazione quali una cena tra amici, il rito della pausa caffè, senza dimenticare i problemi ancor più gravi derivanti dalla carenza di pasti adeguati nelle mense scolastiche, universitarie, aziendali e, spesso, anche in quelle ospedaliere. Sulla scorta di queste considerazioni e per regalare un po’ di normalità alla vita dei celiaci, uno dei filoni della moderna ricerca è orientata ad individuare terapie alternative alla dieta. Uno dei centri di ricerca che sta lavorando su tale nuovo indirizzo è l’Università di Baltimora, dove il professore Alessio Fasano, direttore del Mucosal Biology Research Center University of Maryland, sta sperimentando una pillola che, inibendo il sistema immunitario, consente la temporanea assunzione di glutine. Sabato ci sarà l’opportunità di apprendere dalla viva voce dell’ideatore a quali risultati è pervenuta la sperimentazione della pillola. Novità si registrano anche nel campo della presentazione clinica e della diagnosi come evidenzierà il professor Antonio Calabrò dell’Università di Firenze, mentre luci ed ombre della dieta aglutinata verranno trattate dal professor Umberto Volta dell’Università di Bologna. Per fornire inoltre una panoramica sulle patologie e sulle complicanze correlate alla celiachia verranno affrontati i più svariati argomenti come i disturbi del sonno (Monica Puligheddu), le problematiche riproduttive (Giovanni Monni), le osteoporosi secondarie (Quirico Mela e Lorenza Montaldo), la diagnostica istopatologica (Antonio Maccioni), le malattie della tiroide (Stefano Mariotti), esami di laboratorio per la diagnosi di celiachia (Gianpiero Piras), il telarca precoce (Mauro Congia), le intolleranze alimentari (Paolo Usai Satta), la presentazione dell’odonto-day (Gloria Denotti e Vincenzo Piras). Modereranno gli interventi Antonello De Lisa, Domenico Gallisai, Paolo Usai e Maurizio Zanda. Al termine delle sessioni i partecipanti potranno porre quesiti ai relatori ed accendere un dibattito sugli argomenti trattati. Per informazioni ed iscrizione al convegno ci si può rivolgere all’Aic Sardegna al 338/8310343 e allo 070/6848285. ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 15 apr. ’08 LIBERI DALLA MALARIA IL CASO SARDEGNA Una malattia capace di condizionare per secoli la vita nelle zone costiere e oggi presente nei Paesi della fascia tropicale e subtropicale, dove causa due milioni di vittime all’anno. È la malaria: autentico flagello in Sardegna fino alla sua eradicazione, avvenuta nel 1950. Il presupposto per la prosperità delle zanzare Anopheles (vettore dei parassiti Plasmodium che costituiscono la causa delle febbri) è la presenza di acque stagnanti, tuttavia l’origine della malaria è rimasta sconosciuta per secoli: si credeva che a provocare la malaria fossero i miasmi, o l’aria mala, sopra le acque ferme e limacciose, da cui il nome. La scomparsa della malattia può essere considerata una tappa fondamentale della storia della Sardegna. Anzi, per alcuni sarebbe proprio questa la tappa fondamentale: in grado cioè di far uscire l’isola pestilente da una grave condizione di povertà e di sottosviluppo. Questa è la chiave in cui va letta la ricostruzione della vicenda tracciata da Eugenia Tognotti, docente di Storia della Medicina all’Università di Sassari, nel libro “Per una storia della malaria in Italia. Il caso della Sardegna” (seconda edizione riveduta e ampliata, Franco Angeli, 2008, 23 euro, 297 pagine). Dalla minuziosa ricostruzione delle condizioni che portarono al triste primato italiano per morti a causa delle febbri malariche emergono alcuni dati rilevanti: «dappertutto, e in particolare nei villaggi di pianura più poveri e nei piccoli agglomerati rurali di nuovo insediamento - scrive Eugenia Tognotti - agivano quei meccanismi di degradazione, di sfruttamento intensivo e di rapina delle risorse che si mettono in moto tutte le volte in cui si verifica uno scollamento brusco del rapporto di interazione tra uomo e ambiente», come nella costruzione delle ferrovie sarde, che privò del naturale sistema di difesa dal ristagno costituito dagli alberi (abbattuti per fare traversine). Lo sottolinea anche Frank Snowden (docente di Storia della Medicina all’università di Yale) nella prefazione: «Un buon esempio della metodologia della Tognotti è dato dal primo capitolo del libro, nel quale vengono documentate le conseguenze devastanti per la salute degli isolani, provocate dall’ideologica insistenza del nuovo regime liberale nella radicale privatizzazione delle terre e nella libera economia di mercato, insistenza che ha determinato una dilagante deforestazione ( lo sterminio del bosco , per usare le sue parole) e tutte le sue conseguenze: insabbiamento dei fiumi, inondazioni, e la formazione di distese di acqua stagnante, per la gioia della zanzara anofele». Snowden interverrà a Sassari (Facoltà di Medicina e Chirurgia, Aula A) oggi alle 11, sul tema che lo ha reso famoso nel mondo: “L’occupazione tedesca della provincia di Latina: Malaria e bioterrorismo”. Nel volume “La conquista della malaria. Una modernizzazione italiana. 1900-1962” (Einaudi, 2008) Snowden documenta la reintroduzione, compiuta dalle truppe tedesche nel 1943, della zanzara Anopheles labranchiae nelle paludi pontine (appena bonificate dal regime fascista) allo scopo di rallentare la marcia delle truppe alleate, sbarcate nel vicino litorale di Anzio. Ma gli angloamericani erano stati vaccinati, così l’effetto fu invece l’improvviso aumento di morti per malaria, passati da 1.217 del 1943 a 54.929 in 1944. Il libro di Eugenia Tognotti sarà presentato da Frank Snowden oggi, alle 18, nell’Aula Magna dell’Università di Sassari, con la partecipazione, di Guido Rosati (Preside della Facoltà di Medicina), Antonello Mattoine (Direttore del Dipartimento di Storia), Ugo Carcassi (docente di Clinica medica dell’Università di Cagliari), Piero Cappuccinelli (Accademico dei Lincei) e Maria Stella Mura (Direttore della Clinica delle Malattie Infettive dell’Università di Sassari). Le ultime pagine del libro sono dedicate alla storia dell’annientamento della zanzara. Un esito felice, garanzia di sviluppo e prosperità che vide coinvolte centinaia di persone. Ma fu anche un gigantesco “esperimento scientifico di eradicazione di un genere entomologico” il cui prezzo fu la brutale intrusione del DDT nell’ecosistema delle acque interne della Sardegna. Andrea Mameli _________________________________________________________________ MF 15 Apr. ‘08 RADIOTERAPIA, RISCHI RIDOTTI Salute Test su una molecola che fa da scudo agli effetti delle radiazioni sulle cellule sane Una rete di protezione evita la morte dei tessuti colpiti per errore dai raggi di Pietro Pierangeli Una sigla potrebbe racchiudere un importante fattore di protezione per tutti gli organismi esposti a radiazioni. Conosciuta come CBLB502 e sviluppata da un team di ricerca tutto americano, la molecola-scudo ha dimostrato, durante i test sugli animali, di essere in grado di innescare un meccanismo biologico che aumenta la percentuale di sopravvivenza delle cellule sane esposte a radioterapia, i raggi utilizzati per demolire tessuti tumorali. I risultati apparsi sulla rivista Science potrebbero indurre a scegliere più spesso la radioterapia come arma efficace per arginare i tumori, tecnica in grande evoluzione ma che come rovescio della medaglia presenta ancora effetti indesiderati come la distruzione di porzioni di tessuto sano. Le radiazioni, infatti, mentre da un lato fermano la crescita del cancro inducendo le cellule che lo costituiscono all'apoptosi, o suicidio cellulare, dall'altro possono colpire le cellule sane circostanti. Questo è il motivo per cui le tecnologie a disposizione dei radiologi sono rivolte sempre più a colpire in modo preciso il bersaglio, il raggio dovrebbe essere indirizzato infatti solo verso le cellule malate in modo da evitare accuratamente le parti sane. La molecola in fase di studio, CBLB502, potrebbe aggirare questo problema formando una sorta di rete di protezione intorno ai tessuti sani grazie alla sua capacità di interrompere il processo di apoptosi nel caso questi venissero colpiti per errore. I ricercatori hanno sviluppato la molecola osservando le strategie messe a punto dalle cellule per sopravvivere alla radioterapia e hanno identificato la proteina responsabile dell'innesco del processo di morte cellulare: CBLB502 è in grado di inibire questa proteina impedendo sul nascere il processo. «La molecola agisce sulle cellule sane, come abbiamo potuto vedere sia in tessuti del tratto digestivo sia nel midollo osseo di topi e scimmie usati per le sperimentazioni», afferma Andrei Gudkov del Lerner Research Institute di Cleveland, ricercatore che ha partecipato alle sperimentazioni, «mentre non ha alcun effetto sulle cellule cancerogene lasciandole di fatto vulnerabili all'attacco delle radiazioni». Inoltre, non sono stati registrati effetti secondari di questa protezione e nemmeno si è mai verificata nei test la trasformazione della cellula sana, colpita ma sopravvissuta grazie alla nuova molecola, in cellula tumorale. «In sostanza CBLB502 riduce la tossicità delle radiazioni non influendo sull'effetto anti-tumorale delle radiazioni stesse e senza promuovere la carcinogenicità delle cellule procurata dalle radiazioni», aggiunge Gudkov. Secondo quanto pubblicato la molecola mostra il suo effetto scudo sia iniettata prima della esposizione alle radiazioni sia dopo. Non solo, oltre a evitare gli effetti collaterali della radioterapia potrebbe permettere di utilizzare dosi ancora più massicce di radiazioni rendendo la tecnica ancora più letale esclusivamente per la masse tumorali. «Solo quando le proprietà protettive della molecola osservate in laboratorio potranno essere riprodotte in studi clinici su esseri umani potremo dire di essere di fronte a una svolta nel trattamento dei tumori con la radioterapia», conclude Gudkov. Le applicazioni della nuova molecola, inoltre, potrebbero superare i confini degli ospedali, commentano gli stessi ricercatori, arrivando a proteggere anche popolazioni esposte a radiazioni a causa di piccoli o grandi in incidenti nucleari. _______________________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 20 apr. ’08 FARMACI: LA RICERCA NON DEVE AVERE FRETTA Salute di Giovanni Apoione Mettere in commercio nuovi farmaci oncologici prima di avere a disposizione i risultati definitivi degli studi che lì riguardano non risponde agli interessi dei pazienti e causa problemi nell'interpretazione dei risultati. E la conclusione dei ricercatori dell'Istituto Mario Negri di Milano e dall'Agenzia Italiana per il Farmaco (Aifa) presentata nell'articolo Stopping a trial early in oncology: for patients or for industry? pubblicato sulla rivista Annals of Oncoiogy. Risulta che un numero importante di studi sia stato interrotto precocemente perché è emerso un apparente beneficio del farmaco sotto indagine. Ma come è possibile che avvenga questo? Per provare che un farmaco non è dannoso e che, anzi, è efficace, è necessaria una sperimentazione condotta con metodo rigoroso. In genere all'interruzione si arriva in seguito a tre risultati: primo, il farmaco si dimostra più tossico di quanto ci si aspettava; secondo, il farmaco si rivela meno efficace del previsto; terzo, l'efficacia del farmaco va oltre le aspettative e lo studio viene abbandonato perché il beneficio è talmente evidente che sarebbe inutile, o non etico, continuarlo. L'interruzione precoce per quest'ultimo motivo è, però, diventata molto frequente negli ultimi anni. Si tratta in molti casi di sperimentazioni condotte dall'industria farmaceutica per provare il valore dei nuovi preparati anti- tumorali e ottenere il permesso di metterli in commercio. In particolare, la nostra ricerca ha messo in evidenza tre fenomeni preoccupanti: i metodi statistici usati nelle analisi di dati ancora provvisori portano per loro natura a una stima dell'effetto del farmaco superiore a quella reale; bloccare lo studio prima che sia completato impedisce di conoscere tutti i dati definitivi sul rapporto tra rischi e benefici; rendere, infine, il farmaco disponibile nella pratica clinica blocca altre ricerche, necessarie per confermare i risultati ottenuti. Perché, allora, non aspettare i dati definitivi prima di dare il via libera ad un farmaco? Chi sostiene l'eticità di uno «stop» precoce degli studi sostiene che non si può dare ai pazienti del gruppo di controllo con cui vengono confrontati quelli che ricevono il nuovo farmaco, un trattamento meno efficace di quello in sperimentazione. L'altra motivazione «forte» è che la disponibilità di informazioni precoci sull'efficacia del farmaco innovativo permette di offrire ai pazienti in tempi veloci una opportunità di cura di cui non disponevano fino allora. In realtà, data la frequenza del fenomeno, che nella maggior parte dei casi riguarda gli studi sponsorizzati dall'industria farmaceutica, vi è il sospetto che si tratti di un modo per far arrivare sul mercato un prodotto, nel contesto di una vivace competizione tra le varie industrie farmaceutiche. Il quadro è aggravato dai costi altissimi di questi nuovi farmaci, costi che hanno un grande impatto sui bilanci dei servizi sanitari. *Istituto di Ricerche Farmacologiche M.Negri, Milano ______________________________________________________________ La Repubblica 17 apr. ’08 MORONI: AIDS, QUALE LEZIONE DAL FALLIMENTO DEI VACCINI USA Mauro Moroni traccia la strategia anti-hiv dopo l'interruzione delle sperimentazioni di Daniele Diena "UN FLOP paragonabile al disastro del Challenger per la Nasa". Così Robert Gallo, padre storico del virus dell'Aids, ha definito il recente fallimento della sperimentazione dei due vaccini americani anti-Hiv più avanti nel mondo, essendo già in fase III, quella su grandi gruppi di persone. I due progetti ("Step", sui gay, e Phambili, sugli eterosessuali), basati sullo stesso antigene virale, sono stati bloccati in dicembre perché non solo non funzionano, ma favoriscono l'infezione: tra i volontari dello Step i casi di Aids erano addirittura doppi rispetto al gruppo di controllo trattato con placebo. Una tale débâcle, costata 35 milioni di euro, che il National Institute of Health americano in questi giorni sta decidendo se e come reimpostare l'intera strategia di ricerca del vaccino anti Aids. Non è escluso che i 497 milioni destinati per quest'anno al progetto cambino target. Professor Moroni, lei che studia il virus fin dalla sua comparsa e che si è anche occupato del progetto di ricerca italiano per un vaccino anti Hiv, come può spiegare spiega questo fallimento? "Sapevamo dall'inizio di avere a che fare con un virus che si era selezionato apposta per eludere le nostre risposte immunitarie. La sfida del vaccino, nota da quando si è iniziato a correre, è che pur in presenza d'una risposta immune, il virus sopravvive e prima o poi sopraffà il sistema immunitario portando, in assenza di cure, a morte. Trovare un vaccino che faccia di più del nostro sistema immunitario è quindi una sfida ad alto rischio: non mi sorprendono queste difficoltà". Qualcuno ha detto che la sperimentazione animale è stata fatta su un gruppo di scimmie troppo piccolo: vanno riviste le modalità della sperimentazione preclinica? "È un'ipotesi, da verificare alla luce degli esperimenti: ogni esperimento pone problemi che vanno affrontati nel succedersi delle sperimentazioni. Peraltro la fase preclinica non può essere fatta che su piccoli gruppi di animali anche per motivi di costi: si inizia con piccoli numeri che possono essere aumentati secondo i risultati. Il problema è che un modello animale perfetto non c'è: il virus è umano, il vero banco di prova è sempre l'uomo...". Lo "Step" era costituito di gay. Il risultato negativo non potrebbe essere stato condizionato dalle particolari condizioni del loro sistema immunitario? "Gli omosessuali non sono esposti alle infezioni più degli eterosessuali. Però è vero che chi ha un'attività sessuale promiscua ha il sistema immunitario più attivato da eventuali infezioni sessuali. D'altra parte, il virus dev'essere efficace proprio sulla popolazione a rischio". Potrebbe essere bloccata anche la sperimentazione del vaccino terapeutico italiano, ad oggi pronto per la fase II? "Quanto è successo è certo un duro colpo per la possibilità di proseguire gli studi. In una comunità scientifica allargata come l'attuale si deve prendere atto dei risultati scientifici di qualunque parte del mondo. Sono convinto che tecnici e scienziati del nostro Istituto Superiore di Sanità prenderanno in seria considerazione questi risultati, traendone le conseguenze più idonee". Il National Institute of Health sta decidendo se e come rivedere l'intera strategia di ricerca del vaccino anti Hiv: lei da dove comincerebbe? "Il Nih è di fronte a una scelta molto importante: se allocare ancora gli ingenti finanziamenti necessari a continuare su questa strada. Penso che sia doveroso, altrimenti sarà molto difficile frenare l'epidemia nei Paesi dove la cultura sanitaria è ancora molto scarsa. In Occidente basterebbe il buon senso e a costo zero, ma nel Terzo Mondo il vaccino è l'unica strada". Non è forse il momento di mettere anche un freno, nello sviluppo dei nuovi farmaci, a certa fretta di molte case farmaceutiche, che talvolta diviene approssimazione? "Dipende molto dal tipo di patologia: malattie gravi come è stato l'Aids, come sono tuttora l'Alzheimer e i tumori impongono d'accelerare la disponibilità dei farmaci. Quando abbiamo iniziato a usare l'Azt l'abbiamo fatto sulla scorta di un solo lavoro scientifico che ne documentava l'efficacia e così è stato per i farmaci venuti dopo, gli inibitori della proteasi. Così avviene per molti antitumorali. Le autorità regolatorie sono già abbastanza severe e comunque il vero banco di prova di ogni farmaco è sempre la fase 4, quella post registrativa: alcuni eventi gravi si possono verificare solo nei grandi numeri successivi alla commercializzazione". _________________________________________________________________ TST 15 Apr. ‘08 IL GENE MEGLIO DEL BUGIARDINO La Food&drug consiglia, una, modifica storica sull'etichetta, di un anticoagulante “Ogni paziente può prevedere tutti gli effetti collaterali se si sottoporrà a un test genetico EUGENIA TOGNOTTI UNIVERSITA'Di SASSARI Cosa che potrebbe porre un provvidenziale freno alla lievitazione della spesa sanitaria: la medicina personalizzata sarà, infatti, in grado di migliorare l'efficacia dei farmaci, considerato che alcune terapie funzionano solo nel 30- 50% dei pazienti Ma qual è lo stato dell'arte in questo campo di ricerca e che cosa ci promette per il futuro? A questo bilancio ha dedicato l'editoriale uno dei più prestigiosi periodici medici internazionali, il «New England Journal of Medicine». Senza trionfalismi ma richiamando le tappe fatte e da fare, l'articolo - intitolato «Pharmacocogenomics. Ready for Prime Time?» - richiama la recente decisione dell'agenzia americana del farmaco - Food and Drug Administration - di giustificare, in base alle conoscenze farmacogenomiche acquisite, una modifica nelle etichette di un medicinale diffusissimo, il Warfarin, per informare che i pazienti possono trarre beneficio da un test genetico. Si bada di un «caso» indicativo della strada che imbocca la personalizzazione della medicina. Il Warfarin è un anticoagulante, al quale si fa ricorso per prevenire la formazione di trombi. Può provocare emorragie, uno di quegli «efletti indesiderati» importanti, che rende particolarmente difficile il dosaggio. Trovare il modo efficace e sicuro di somministrare il farmaco era, dunque, una preoccupazione per i medici e una sfida per i ricercatori, i cui studi hanno contribuito a dare conto delle potenzialità della Farmacogenomica. Ora si sa che esistono due geni, chiamati CYP2C9 e VKORI, che possono influenzare ' con le loro variazioni, la risposta al farmaco. In particolare alcune varianti del gene CYP2C9 alterano il metabolismo del farmaco ' ne influenzano cioè la sua permanenza in forma attiva nell'organismo; da parte loro i polimorfismi da gme VKOW incidono sull'efficacia del medicinale. Considerare tali fattori nella pratica può portare a ridurre i problemi collegati all'aggiustamento del dosaggio: eseguire il test, quindi, potrà permettere di stabilire quale sia, da una parte, la dose necessaria e, dall'altra quella massima tollerabile, in modo da evitare gli effetti avversi. Che cosa dovremo dunque aspettarci dagli sviluppi di questo esaltante campo di ricerca? All'orizzonte si stagliano la scoperta di nuovi «bersagli» e di nuovi farmaci «fatti su misura» per trattamenti personalizzati, attraverso l'identificazione della relazione tra genotipo e risposta terapeutica. Ma è già a portata di mano la possibilità di introdurre nella pratica clinica le informazioni sull'influenza delle variazioni genetiche sull'efficacia di alcuni farmaci in circolazione. Intanto non sembra un esercizio di fantasia immaginare che un giorno non lontano diventerà di routine, nella pratica, l'analisi del Dna per identificare la sensibilità del paziente a particolari farmaci capaci di produrre effetti indesiderati. _________________________________________________________________ Libero 16 Apr. ‘08 UN FARMACO PER CURARE LA CATARATTA SENZA INTERVENTO CHIRURGICO r.m.) Addio agli interventi chirurgici per curare la cataratta: arriva dagli Usa un nuovo composto chimico, sotto forma di gocce, in grado di rimuovere le sostanze proteiche e lipidiche che offuscano il cristallino, causando la patologia. A sviluppare questa terapia è stato un ingegnere elettrico, Rajiv Bhushan, che sei anni fa decise di curare per contro proprio gli occhi del padre. L'efficacia del suo composto chimico è stata poi testata da Randall Olson, oftalmologo dell'Università dello Utah (a Salt Lake City). Ora il nuovo farmaco, che dovrebbe anche mitigare i sintomi del glaucoma e della degenerazione maculare, sta entrando nelle fasi finali di sperimentazione clinica e potrebbe arrivare nelle farmacie nel giro di due anni.