APPUNTI PER IL RILANCIO UN'AGENZIA PER LA RICERCA NEL NOME DELMERITO - COSSU: RICERCATORI, POCHI E VECCHI - BARONI ANTI ERASMUS - LAUREE TRIENNALI COL FRENO - FIGEL: FORMAZIONE COMPLETA - UNIVERSITÀ FORMATO FAMIGLIA: MOGLI FIGLI DEI RETTORI - VIA LE PARTIGIANERIE DAGLI ATENEI - LA RIVOLTA DI BARI, CAPITALE DEI: TEST TRUCCATI - ATENEO DI CATANIA A GIUDIZIO: CON IL TRIENNIO NON SI INSEGNA - OGNI MINISTRO UNA RIFORMA - È TUTTO DI CHIARA COME IL SOLE - APRIRE LE MENTI E SPEGNERE I TELEFONI - ITALIA: PAESE DEI CERVELLI SPRECATI - IL MINISTERO NON ACCETTA E-MAIL - TUTTI PAZZI PER LA LAUREA ONLINE - SAPERI MESSI A PROFITTO NELLA RETE DELLA GRANDE MELA - LUCERTOLA ITALIANA: IN 30 ANNI UNA EVOLUZIONE DA RECORD - SCIENZA 2.0 - RFID: TUTTO IL MONDO IN UNA ETICHETTA - USA, LA RICERCA DIVENTA «LOW COST» - ELETTRICITÀ SENZA FILI - IN INDIA L'ISTRUZIONE DIVENTA BUSINESS - ROBOT: LO SPECCHIO DELL'INGEGNERE - CISAL UNIVERSITÀ, ORGANI RINNOVATI - ======================================================= ENTRANO IN VIGORE I NUOVI LEA - ABORTO, È BOOM DI OBIETTORI - SPECIALIZZANDI: POSTI E CONTRATTI - UE, LA SANITÀ ELETTRONICA AVANZA - SALUTE MENTALE, UN DECALOGO PER RISALIRE LA CHINA - RICETTARI SSN, VIA AL SECONDO ROUND - L’ELICA CHE CAMBIÒ IL MONDO - STORIA DELLA SARDEGNA RACCONTATA DALLA MEDICINA - IL SUPER CUORE - IL BOOM DEI FARMACISTI - I SEGRETI DELLA CHIRURGIA DELLA CAVIGLIA - LA DIAGNOSI DELLE MALATTIE COMINCIA DAI SOGNI - DIABETE AL TAPPETO - VIAGRA E I SUOI FRATELLI DALLA DOPPIA VITA - L'EPATITE B È ALLE STRETTE - LA CURA SARDA CONTRO IL MAL DI TESTA - IN ARRIVO I FARMACI BIOSIMILARI - ODONTOIATRIA: IMPIANTI POSSIBILI E AFFIDABILI IN CARENZA D'OSSO - DOPPIO ATTACCO ALL’EPATITE C - L'OCCHIO VEDE, IL CERVELLO SA GIÀ - ======================================================= __________________________________________________________________ Il Messaggero 04 Mag. ‘08 APPUNTI PER IL RILANCIO UN'AGENZIA PER LA RICERCA NELNOME DELMERITO di SILVIO GARATTINI NELLE precedenti tornate elettorali si parlava molto di ricerca scientifica, ma poi indipendente dal colore dei Governi, il risultato era sempre quello: la riduzione dei fondi a vantaggio di altre categorie, l'ultima è andata a vantaggio degli autotrasportatori. Questa volta le problematiche della ricerca scientifica non sono state mai neppure menzionate dai contendenti: speriamo che porti fortuna! È obbligo ricordare che un Paese come il nostro, che manca quasi completamente di materie prime, ha bisogno di realizzare prodotti ad alto valore aggiunto per i mercati internazionali, questi possono arrivare solo attraverso il potenziamento della ricerca scientifica. Ricerca che richiede necessariamente una programmazione a tempi lunghi dove sia ben equilibrato l'impegno per la ricerca di base - apparentemente senza finalità immediate - e la ricerca di trasferimento che deve sfruttare le conoscenze per trasformarle in prodotti di vario tipo. La programmazione deve tener conto della situazione italiana in cui i ricercatori sono la metà di quelli degli altri Paesi europei e -salvo eccezioni - non raggiungono quella massa critica che oggi è necessaria per essere competitivi. Apparentemente il contributo pubblico alla ricerca (0,6 per cento del Prodotto interno lordo) sembra non essere diverso da quello degli altri Paesi, ma di fatto serve solo per pagare la pletora degli amministratori e dei professori universitari. La spesa per la ricerca é inoltre imprevedibile, manca di continuità, viene dispersa in molti rivoli, privilegia gli amici, è influenzata pesantemente dalla politica; e per tutte queste ragioni 'e largamente irrispettosa del merito. Una prima proposta è perciò quella di fare chiarezza sulla destinazione dei fondi: occorre distinguere chiaramente ciò che è destinato all'Università e ciò che rappresenta l'investimento per la ricerca. I fondi destinati alla ricerca devono essere spesi su base competitiva è devono essere aperti a tutti i centri di ricerca no-profit indipendentemente dalla loro denominazione. Beninteso, è necessario che i fondi disponibili aumentino e in modo significativo, perché quando si é nella "miseria" non è possibile operare quei cambiamenti che sono indispensabili per spendere bene i soldi di tutti. Si ha l'impressione che la gente abbia capito molto più dei politici l'importanza della ricerca, soprattutto quella che riguarda la salute, e che quindi sia disposta anche ad accettare sacrifici in altri campi e a contribuire come di fatto fa rispondendo all'appello delle "charities". I cambiamenti necessari sono di due ordini: fissare le priorità e le risorse (compito dei politici) e mettere in atto criteri meritocratici per la distribuzione delle risorse (compito della comunità scientifica), Il primo cambiamento deve essere fondamentalmente ancorato al mondo industriale: in alcuni settori l'industria già esiste, ma deve raggiungere dimensioni adatte, in altri settori lo sviluppo della ricerca rappresenta la condizione per creare attività industriali. Le risorse devono essere almeno raddoppiate così come ha fatto quest'anno la Spagna e come ha fatto negli anni passati l'Irlanda. Il secondo cambiamento è più difficile e non può certo essere lasciato nelle mani dell'Università che non ha dimostrato capacità di selezione neppure al suo interno. Occorre quindi un cambiamento forte, come la realizzazione di una Agenzia italiana per la ricerca scientifica (Airs) dotata di autonomia, sganciata dai Ministeri. L'Airs deve essere una struttura snella, con competenze tecnico scientifiche, idealmente capace di coordinare tutta la ricerca italiana, pubblica e privata no-profit, attraverso bandi di concorso con una valutazione fatta da comitati internazionali. Certamente non sarà facile indurre i vari Ministeri a rinunciare al loro piccolo-grande potere di distribuzione, ma l'assemblaggio delle risorse è una condizione indispensabile: può avvenire in modo graduale, ma deve avvenire in tempi non biblici. Il compito dell’Airs abbraccia altre necessità. In primis il reclutamento dei giovani ricercatori che oggi è difficile perché le migliori "teste" si rivolgono ad altri campi dove la carriera è meno insicura e le possibilità di migliorare sono maggiori. Occorre istituire un percorso che parta da borse di studio non dà fame per ottenere il PhD, non il dottorato di ricerca all'italiana, e prosegua con contratti di ricerca post - doc e con posizioni a tempo indeterminato per i migliori. scindendo la carriera universitaria da quella della ricerca scientifica. L'Airs avrà molti compiti fra cui quello di organizzare il supporto dell'accademia alla ricerca industriale, soprattutto delle piccole-medie imprese, un problema ancora irrisolto che richiede una nuova impostazione. L'altro compito fondamentale è rappresentato dalla necessità di un'interfaccia con l'Unione Europea. Sempre di più dobbiamo essere pronti ad abbandonare la prospettiva di una ricerca nazionale per integrarci nella ricerca Europea che dovrà dilatarsi e andare velocemente oltre la striminzita disponibilità economica limitata solo al4 per cento delle risorse nazionali destinate alla ricerca. L'Airs dovrà anche cercare sinergie per aumentare i finanziamenti per la ricerca, interagendo ad esempio con le fondazioni bancarie nazionali. Infine deve essere chiaro che fAirs deve abbandonare la tendenza italiana a finanziare la ricerca per discipline o per gruppi di discipline, per rivolgersi ai grandi problemi: l'energia, l'ambiente. la salute e così via, estraendo da queste grandi aree tematiche specifiche da affrontare con mentalità multidisciplinare. II rinnovamento dell’organizzazione della ricerca e l'aumento delle risorse disponibili non sono una risposta alle spinte corporative dei ricercatori, sono un indispensabile impegno del nuovo Governo se si vuole mantenere all'Italia il suo ruolo di Paese industriale e agli italiani delle future generazioni almeno l'attuale livello di vita. ____________________________________________________ MONDO SALUTE Apr. ‘08 COSSU: RICERCATORI, POCHI E VECCHI AMARA RIFLESSIONE DEL PROF GIULIO COSSU Gli investimenti scarsi, poco più dell'1 % del PIL, e lontanissimi dai livelli raggiunti nella comunità internazionale. Sbagliata la scelta che privilegia la cultura umanistica e deleteri i criteri di distribuzione dei fondi. DI MESSINA Lo scenario dell'attività di ricerca scientifica in Italia è desolante. E i nu meri fotografano impietosamente la situazione. 9Italia investe da anni nella ricerca poco più dell'1% del Pii, con una comunità scientifica piccola (sono 70mila le persone impegnate nel settore, contro le 150mila della Gran Bretagna, le 160mila della Francia, le 240mila della Germania, le 650mila del Giappone e il milione e 200mila degli Stati Uniti) e i posti dell'università occupati dagli over 60: se i professori ordinari in cattedra con meno di 35 anni sono, infatti, 9 su 18.651, ossia lo 0,05% (a fronte del 16% della Gran Bretagna, dell'll,2% della Francia e del 7,3% degli Stati Uniti), quelli con più di 65 anni sono il 30,3% (contro l'1%, l'1,3% e il 5,4%, di Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti). E i ricercaturi? II 52,6% ottiene il titolo di dottore di ricerca tra i 30 e i 34 anni l su 3 accede alla carriera verso i 38 e l'età media è di 46 anni. Senza tralasciare realtà come il Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche ), dove 32 su 107 direttori (o facenti funzione) di istituto hanno più di 67 Anni, l'età più frequente è 68 anni e solo 14 sono sotto i 55. Inoltre, una trentina sono a tempo pieno sia docenti in qualche ateneo sia direttori al Cnr: oltre la metà occupa la posizione da più di 10 anni e diversi addirittura da più di 20. "È una gerontocrazia, ci sono difficoltà economiche e la saturazione dei ruoli", ammonisce Giulio Cossu, professore all'Università Statale di Milano, dipartimento di Biologia, e direttore dell'Istituto di ricerca sulle cellule staminali del San Raffaele. "La carriera universitaria è sempre più lenta. Un posto di ricercatore si comincia a vedere - salvo casi particolari - dopo i 35 anni. C'è uno spostamento progressivo dell'inizio della carriera e la consuetudine, tutta italiana, di rimanere aggrappati alla poltrona fino ad età avanzata". Professor Cossu, perché in Italia è così complicato affermarsi nell'ambito della ricerca scientifica? "Per tre ordini di problemi: innanzitutto, la difficoltà della carriera, che spesso comincia a 40 anni; poi, quasi sempre tutta la carriera si svolge nella stessa istituzione, con la conseguente cristallizzazione dello status quo e l'isterilirsi di un terreno non più fertilizzato da nuovi ingressi e nuove conoscenze; infine, il merito: che io pubblichi 10 lavori all'anno o non pubblichi lavori da 20 anni e non abbia portato fondi per la ricerca, non modifica né il mio salario né, spesso, il mio avanzamento di carriera. Resta tutto fermo. Anche perché nelle università italiane il lavoro didattico è pesante, con molte più ore di insegnamento di quante ne debba fare un collega americano. Questa situazione è stata in parte causata dal moltiplicarsi delle piccole università decentrate (quasi sempre colonie delle università maggiori) e dei corsi di insegnamento. Ne consegue che, per l'assegnazione di nuove posizioni, diventa prioritario il carico didattico e non la qualità scientifica. Questo sta lentamente trasformando le nostre università in superlicei (tipo college americano) e sottrae tempo e risorse umane alla ricerca. Infatti, sovraccaricando la didattica, aumentano i ricercatori che, anziché dedicarsi alla ricerca, si limitano a fare i professori a tempo pieno o quasi". Si investe poco nella ricerca o, piuttosto, sono viziose le dinamiche di distribuzione dei fondi? "Si investe poco, ma non pochissimo. Il problema è costituito dalle modalità di assegnazione dei fondi, che spesso vengono spacciati come investimenti destinati alla ricerca, ma che, W realtà, sono iscritti a bilancio della sanità o della piccola-media industria, anche per percentuali elevate. Ad esempio, il ministero dell'Università e della Ricerca (Miur) finanzia da sempre una ricerca industriale cosiddetta pre- competitiva, che, in verità, tiene in vita piccole- medie industrie, riducendosi spesso ad una sorta di sussidio. Perdi più, la distribuzione degli investimenti avviene, il più delle volte, senza criteri meritocratici, con evidente commistione tra chi elargisce i fondi di ricerca e chi li riceve. Per ovviare a questa stortura, all'inizio degli anni '90, Giovanbattista Rossi introdusse, all'epoca dei primi finanziamenti per la ricerca sull'Aids, il rivoluzionario sistema della peer review o revisione paritaria, una valutazione degli articoli e dei progetti fatta da revisori- specialisti, che, grazie all'anonimato e all'indipendenza, garantisce l'imparzialità nelle decisioni sul finanziamento alla ricerca e sulla pubblicazione di articoli scientifici. Fatta la legge, però, si può sempre trovare l'inganno. La scelta dei revisori deve avvenire attraverso una serie di parametri morali, che scongiurino condizionamenti o conflitti di interesse (i revisori, ad esempio, non devono essere scelti tra i colleghi della stessa istituzione o che abbiano collaborato con chi propone la ricerca). Se ciò non accade, si torna a un circolo vizioso. Leges sine moribus vanae, diceva Orazio: le leggi senza morale sono inutili!". Negli anni ha avvertito differenze nell'attenzione posta ai problemi della ricerca scientifica da parte dei governi di centrodestra e di centrosinistra? "Nessuna differenza sostanziale. Anche l'ultimo governo Prodi, con Fabio Mussi ministro del Miur, era partito con bellissimi progetti e ottimi propositi, salvo poi sottrarre dai fondi per la ricerca quelli necessari a soddisfare le richieste delle categorie penalizzate dalle liberalizzazioni (camionisti, tassisti, controllori di volo, etc.). In Italia, chi può paralizzare e ricattare il paese ottiene ciò che vuole: se scioperano i ricercatori, non se ne accorge nemmeno la stampa". Altra questione spinosa, la "fuga dei cervelli" italiani all'estero. Al Cnr francese, quasi 1/3 dei ricercatori sotto i 30 anni è italiano e, anomalia tutta nostra, se Germania, Francia o Regno Unito, per non parlare degli Stati Uniti, hanno più laureati stranieri nel loro Paese che laureati emigrati all'estero, in Italia la percentuale di laureati emigrati è 7 volte maggiore di quella di laureati stranieri presenti nel nostro Paese! Come si può arginare l'emorragia? "Nell'era del mercato globale, non è grave che i ricercatori italiani vadano all'estero, ma che quelli stranieri non vengano in Italia. II che avviene per diverse ragioni: le scarse prospettive di fare ricerca in modo indipendente e autonomo, gli stipendi bassi e la lentissima progressione di carriera. È interessante il progetto voluto dal professore -senato - re Ignazio Marino: a quanti hanno meno di 40 anni e le carte in regola per rispondere al bando di concorso, sarà destinato il 5% (dal 2008 il 10%) dei fondi perla ricerca del ministero della Salute. Sedici milioni di curo che, suddivisi in finanziamenti tra i 400mila e i 600mila curo per ogni progetto, andranno non all'ente di ricerca ma al ricercatore stesso". Infine, quale futuro attende la ricerca scientifica in Italia e quali soluzioni adottare per rilanciarla? "Purtroppo c'è un problema ancestrale: è dall'epoca di Galileo Galilei che la scienza non se la passa bene in Italia. A cominciare dalla forma mentis data agli studenti, con una concezione troppo umanistica della cultura e la considerazione della scienza come materia da tecnici, retaggio della forte influenza cattolica. Inoltre, in Italia l'università è obsoleta e pubblica. La ricerca moderna è quasi sempre quella delle università private, che seguono il modello delle companies americane, un sistema spesso duro, ma dove se funzioni vai avanti, altrimenti vai via, con un rapporto diretto tra produttività (capacità di produrre e di attrarre fondi) e carriera. L'industria italiana, infine, investe pochissimo nella ricerca. E i governi deputati a farlo - al di là di promesse che quasi sempre si riducono a spot elettorali - nei fatti si sottraggono al loro ruolo. L'investimento in ricerca non paga subito, bisogna avere pazienza. La Finlandia, paese poverissimo, ha investito nella ricerca e con gli anni sono esplose imprese come la Nokia. In Italia, invece, manca il tempo, condizionato com'è dalla brevissima durata dei governi. Ma, per fortuna, ci sono organizzazioni come Telethon, l'Aire e le altre Charities, l’European Research Council, che stanziano significativi fondi per la ricerca, con particolare attenzione ai giovani. Fondi che, tutto sommato, hanno permesso alla ricerca italiana di sopravvivere e, almeno nei settori che richiedono investimenti meno ingenti, di tenere abbastanza il passo con la ricerca internazionale. In conclusione, il futuro dipenderà molte) da un cambiamento di mentalità sia di chi detterà le regole sia di noi ricercatori che dovremo e potremo adeguarci ad una realtà più europea". __________________________________________________________________ Io Donna 26 Apr. ‘08 BARONI ANTI ERASMUS Far le valigie pesa. E vivere a Londra o a Madrid con 400 euro al mese è dura. Ma se le borse delle università europee restano inevase è anche perché spesso i prof remano contro. Per paura del confronto di Cristina Lacava Nel 2007 la Spagna ha ospitato 6.350 Erasmus italiana . Gabriele ha rinunciato: davanti alla prospettiva di sopravvivere a Madrid con 400 euro al mese, ha capito che non poteva farcela. Lorenzo invece è partito, ma dopo due mesi ha fatto dietrofront: nessuno l'aveva avvertito che gli esami sostenuti a Siviglia non sarebbero stati convertiti alla pari con quelli italiani. Antonio, futuro ingegnere, è stato rifiutato da Edimburgo perché l'accordo tra l'ateneo italiana e quello scozzese non prevedeva il suo piano di studi. Agli universitari italiani, Erasmus (il programma della Commissione europea che finanzia le esperienze di studio all'estero) piace, tant'è che sono in parecchi a presentare domanda. Poi però molti ci ripensano, e non partono più. Problemi di spese, di studio, di madri apprensive? Dati nazionali non ce ne sono, però filtrano quelli di alcuni atenei: alla Statale di Milano, nel 2007/08, per 650 posti a disposizione sono state presentate 1.148 domande; ma solo 545 giovani, alla fine, hanno fatto i bagagli. A Pavia, sono stati coperti 279 posti tra i 619 liberi. A Padova, 781 su 1.729. A Tor Vergata, l'utilizzo raggiunge il 75 per cento. Insomma, La tanto decantata (dagli adulti l mobilità, non convince i ragazzi. O forse, sono genitori e baroni a tirare il freno a mano. Perfino Clara Grano, coordinatrice dell'Ufficio nazionale Erasmus, ammette qualche difficoltà. Certo, i numeri generali sono imponenti: l'anno scorso, per il ventennale del programma, 17.000 studenti italiani (l’1 per cento del totale) sono partiti per uno dei 31 paesi aderenti. Ma le percentuali sono in stallo da qualche anno. «I ragazzi si mettono in coda per studiare a Londra e a Madrid e non trovano posto. Intanto, Tallin e Bucarest restano scoperte». Se guardiamo infatti le mete dei 17.000, vediamo che 6.350 sono andati in Spagna, 2.000 in Francia, 1.700 in Germania; in fondo alla classifica resta Riga, con 8 italiani, insieme con Bulgaria e Cipro. 13 a testa. «Per tre posti alla facoltà di Veterinaria a Madrid concorrono in sette», spiega Luigi Filippo dalle Rose, delegato del rettore .a Padova per la mobilità studentesca. «Per due posti a Vilnius si presenta un solo candidato». Non sarebbe più semplice allora aumentare i posti nella penisola iberica e azzerare quelli poco graditi nell'Europa dell'Est? «No» è la risposta. «La Commissione europea vuole festeggiare il tremilionesimo studente Erasmus entro il 2012. Siccome ogni accordo con un'università straniera prevede un massimo di 3-4 studenti, e non possiamo saturare la Spagna, dobbiamo diversificare l'offerta. In quanto a Vilnius, è vero che pochi vanno. Molti, in compenso, arrivano. Per i nostri atenei, perennemente in deficit nel rapporto tra studenti italiani in uscita e stranieri in entrata, l'accordo con Vilnius è prezioso». E pensare che nelle università dell'Europa dell’est i corsi sono in ingkese «e i pochi che vanno. tornano sempre soddisfatti, perché i corsi sono molto ben organizzati» aggiunge Lorena Bertocchi, dell'ufficio mobilità dell'universitaàdi Pavia. Ma l'irregolare andamento dei flussi da solo non spiega il sottoutilizzo delle borse. Chiara Saraceno, la docente di Sociologia della famiglia all'università di Trento che per prima ha lanciato l'allarme, prova a riassumere gli altri problemi: «Sono tre. Il primo è economico: la borsa di studio è solo un contributo. Se le famiglie non aiutano, i ragazzi non ce la fanno. Secondo: i giovani italiani non vanno all'estero volentieri. I cervelli fuggono? Gli altri tentennano, e intanto restano a casa. Terzo, e secondo me più grave: il comportamento dei miei colleghi, che non riconoscono gli esami sostenuti all'estero. Alcuni professori dicono: non c'è la mia materia. Altri: non c'è il mio programma. Altri ancora, i peggiori: non c'è il mio libro. I ho visto perfino alcuni presidi di facoltà ostacolare la diffusione di Erasmus, con motivazioni deprimenti». Secondo la denuncia della Saraceno, dunque, molti professori remano contro, forse perché non amano la concorrenza. «Purtroppo è vero», conferma Clara Grano. Per Lorena Bertocchi, «i docenti non accettano che uno studente sostenga un esame all'estero con un programma parzialmente diverso dal loro. La considerano una perdita di tempo, un'inutile complicazione». L'ostruzionismo finisce per scoraggiare i ragazzi, che temono di restare indietro con gli studi: «La paura è diffusa» aggiunge Maria Antonietta Confaionieri, delegata per l’Erasmus a Pavia. «Ma ingiustificata: secondo le nostre indagini, chi va all'estero ha gli stessi tempi di laurea di chi resta. Purtroppo i ragazzi sopravvalutano i rischi e sottovalutano i vantaggi». Cerro, non tutti gli esami sono facilmente "traducibili": per chi studia diritto privato o costituzionale, è difficile trovare un corrispettivo, mentre chi si occupa di sociologia delle culture non ha difficoltà. «Basterebbe ci-care accorpamenti tra discipline, se non uguali, simili» propone la Saraceno. «Gli atenei dovrebbero informare meglio gli studenti». Un suggerimento su cui forse varrebbe la pena di riflettere. Di sicuro, molti entusiasmi si smorzano quando i ragazzi scoprono l'entità del finanziamento della Commissione europea: quest'anno, la borsa è di 200 euro al mese, cui si aggiungono le integrazioni delle università, del ministero e degli enti locali, Per fare un esempio, a Padova il contributo totale mensile varia da un minimo di 300 a un massimo di 600 euro. Sempre poco. Se i genitori non danno una mano, il soggiorno è a rischio: «Molti comprano senza battere ciglio l'auto nuova ai figli, poi si lamentano delle tasse universitarie. Figuriamoci se investono su un soggiorno all'estero» accusa Confalonieri. L'ultimo ostacolo, dunque, è quello culturale. «Gli italiani non mollano gli ormeggi, bisogna ancora spronarli» dice Loredana Oliva, che ha appena pubblicato lo invece studio all'estero (Sperling & Kupfer), con un dettagliato elenco di siti e indirizzi utili per chi vuole provarci. «I nostri ragazzi sono insicuri, non riescono a prendere il largo. Colpa degli adulti». Tra madri ansiose, soldi con il contagocce, professori ostili, ogni velleità di fuga rischia di naufragare. Giulia, studentessa modello in Bocconi, ha deciso di rimandare: «Ora perderei tempo. Dopo la laurea invece andrò in Cina, paese stimolante per me che studio marketing». La gettonatissima Spagna non le interessa: «Che valore aggiunto potrei avere con sei mesi a Madrid? Nessuno. Vivo già da sola, non mi serve l’Erasmus per capire cosa significa l'autonomia». MIA CARISSIMA ITALIA Un popolo di simpaticoni, in un paese mal messo e costoso. II giudizio degli stranieri venuti in Italia con Erasmus non lascia dubbi: tra i 1.500 che hanno risposto al sondaggio di www.studenti.it, l’83 per cento ha speso di più che nel proprio paese. La voce più cara? L'affitto, che ha fatto dannare il 69 per cento. La casa è anche difficile da trovare per il66 per cento. Bocciata pure l'università, che secondo il 71 per cento non funziona. Eppure, alla fine del soggiorno, il60 per cento tornerebbe; l'entusiasmo si è smorzato (alla stessa domanda, posta all'arrivo in Italia, il 97 per cento aveva risposto si) ma comunque resta. Nonostante tutto. __________________________________________________________________ Italia Oggi 26 Apr. ‘08 LAUREE TRIENNALI COL FRENO In vista dell'esame per esperto contabile il 3+2 mostra qualche criticità Corsi poco funzionali per l accesso alle professioni DI IGNAZIO MAR1N0 auree triennali nate sotto la stella sbagliata. Certificato il fallimento del percorso di primo livello in giurisprudenza attraverso le nuove classi in vigore dal 2010, anche per l'indirizzo economico le soddisfazioni non vanno a mille. Anzi. I:ennesima prova arriva dall'esame per l'abilitazione da esperto contabile e relativo accesso alla sezione B dell'Albo unico dei commercialisti. Un esempio può rendere l'idea. Uno studente con qualche anno di studi all'attivo, grazie alla riforma Berlinguer-Zecchino, prende una laurea triennale nel 2003. Inizia i tre anni di pratica presso un commercialista per intraprendere la libera professione. Nel frattempo entra in vigore l'Albo unico dei dottori commercialisti e degli esperti contabili (decreto legislativo 139/2005) che manda in pensione il vecchio albo dei ragionieri. Nel 2006 il tirocinante finisce la sua pratica. La collocazione naturale sarebbe la sezione B dell'albo appena istituito. Che però non esiste in quanto, per una dimenticanza del legislatore, non è stata prevista una sezione transitoria per il nuovo profilo professionale. L'ordine unificato, infatti, nascerà fisicamente solo il 1° gennaio 2008. Quindi, il laureato triennale (2003) che ha completato la pratica (2006) ha dovuto aspettare fino a oggi per potersi iscrivere all'esame per cui ha studiato. E nel frattempo? Non è da escludersi che il giovane si sia iscritto alla specialistica per accedere direttamente alla sezione A dei dottori e poter svolgere funzioni ancora più complesse e redditizie. Motivo per cui, a poche settimane dall'esame per esperto contabile (si veda ItaliaOggi del 24 aprile), nessuno al Consiglio nazionale di categoria riesce minimamente a ipotizzare in quanti presenteranno domanda di ammissione al test. Di certo, se l'obiettivo delle lauree di primo livello era quello di accorciare le distanze fra università e lavoro non si può dire che il risultato sia stato raggiunto. Visto che, almeno per le classi 17 e 28, un laureato di cinque anni fa ancora oggi è in attesa di poter sostenere la prova per l'abilitazione a una professione. Qualche anno fa l'allora sottosegretario all'università Maria Grazia Siliquini ci provò a risolvere il problema, istituendo le sezioni transitorie per i commercialisti (si veda ItaliaOggi del 30/3/06) ma la Corte dei conti bocciò il provvedimento perché lo strumento legislativo scelto (un regolamento) non era adatto. Le cose non migliorano nell'area tecnica. Pochissimi per esempio sono gli architetti iunior, molti di più gli ingegneri che però in questi anni non hanno mancato di denunciare la mancanza di confini chiari con le competenze degli ingegneri quinquennali. __________________________________________________________________ Il sole24Ore 01 Mag. ‘08 FIGEL: FORMAZIONE COMPLETA DI GUIDO ROMEO Le Università e la formazione devono affrontare una riconversione simile a quella già compiuta dal settore manifatturiero. Solo chi saprà innovare, puntando su nuovi modelli e conoscenze avanzate riuscirà a sopravvivere e a generare vero sviluppo. È questa la visione di Jan Figel, commissario europeo per l'educazione e la cultura che spiega: «Le Università europee funzionano ancora oggi su un modello messo a punto 200 anni fa, ma oggi la conoscenza e i modi con la quale viene trasmessa sono mutati radicalmente». Non utilizza mezzi termini il commissario che sottolinea come oggi non è sufficiente l'informazione, ma occorre anche saperla utilizzare. «Le università europee si devono specializzare e diversificare - osserva Figel - puntando su una forte interdisciplinarietà e non avere paura di creare legami forti con il mondo della ricerca e delle imprese. Non si tratta di perdere o meno la propria indipendenza, ma di rispondere alle necessità della società perché i nostri atenei non possono permettersi di diventare fabbriche di disoccupati». Il commissario mette il dito nella piaga perché a fronte di una disoccupazione media in Europa del 7 %, tra i neolaureati, la percentuale è esattamente il doppio: rq per cento. «Si tratta di una voragine che dobbiamo colmare in fretta perché formazione e cultura non sono una spesa, ma un investimento nello sviluppo. Lo dimostra il caso della Finlandia, in testa ai test Pisa dell'Ocse da 15 anni». Dalla leadership finlandese nei test Pisa, che non misura semplicemente l'erudizione, ma la capacità di utilizzare le conoscenze acquisite per produrre analisi e risoluzione dei problemi, discendono infatti casi come Nokia e un fiorente settor dell’It e delle tecnologie avanzate che fanno da traino all'economia nazionale. Una lezione importante per l'Italia, che l'anno scorso ha segnato appena 475 punti contro la media europea di 500, ma complessa da realizzare. Quello finlandese è infatti un successo costruito grazie agli investimenti in tecnologia che hanno permesso di cablare e connettere in rete tutte le scuole, ma non solo. «La tecnologia non,deve essere un fine in sé, ma è uno strumento formidabile per moltiplicare l'impatto della formazione se la si sa utilizzare - avverte Figel - e infatti in tutte le economie avanzate è in crescita non solo la domanda di formazione, ma anche di conoscenze pedagogiche». Perché gli studenti possano trarre il massimo beneficio da connessioni in larga banda, archivi on-line e network sono infatti necessari docenti in grado di mediare il rapporto con questi nuovi strumenti e in qualche modo essi stessi studenti in formazione continua per rincorrere l'evoluzione sia degli strumenti e delle conoscenze. Nell'era della sovrabbondanza dell'informazione, non servono enciclopedie, ma strumenti tecnici e intellettuali per imparare a navigare il sapere, creando senso e quindi valore. «Il processo di Bologna, mirato ad abbattere le barriere dell'istruzione superiore tra i Paesi membri ,va nella giusta direzione e l'Italia è ormai citata in tutto il mondo per questo, ma non basta-osserva Figel, oggi dobbiamo mirare a una migliore specializzazione, un più accurato finanziamento e, soprattutto, a una nuova governance più attenta che punti all'eccellenza delle università». Per Figel la partita che si gioca sulla formazione è una delle più cruciali perché legata a doppio filo con la cultura, il vero patrimonio dell'Europa. «La tradizionale dicotomia tra cultura e business è molto pericolosa - osserva questo slovacco laureato in elettromeccanica e specializzato in relazioni internazionali - perché tende a mettere i due campi in opposizione con la prima come una voce di costo. Cultura e creatività possono invece portare crescita e sviluppo. La cultura è già responsabile di un indotto fenomenale se si pensa che il 55% del turismo mondiale è diretto verso l'Europa, ma la sua importanza va ben al di là di monumenti e musei. La cultura è il carburante per quelle che la commissione ha definito le industrie creative e che comprendono dal cinema, alla letteratura, alla musica e al design dove la sintesi tra creatività e tecnologia è più evidente - spiega il commissario - e che hanno un fortissimo impatto sull'economia dei Paesi membri oltre che sulla loro identità». Cifre alla mano, le industrie creative contano per almeno il 2,6% del Pil europeo, superando il settore dell'auto, dando lavoro a cinque milioni e mezzo di persone e con un valore complessivo di 60o miliardi di euro 1"anno. Numeri di tutto rispetto che hanno indotto la Commissione Europea ad adottare per la prima volta l'anno scorso un "policy paper" sull'agenda per la cultura europea articolato in tre capitoli. «Il primo è volto a incoraggiare l’espressione della diversità culturale e della dialogo interregionale - spiega Figel che ha recentemente lanciato il 2009 come anno europeo della creatività e dell'innovazione - il secondo a promuovere l'utilizzo della cultura come catalizzatore di creatività e il terzo che propone una visione della cultura come una componente delle relazioni esterne della Ue». Quelle europee non sono però che raccomandazioni sulle quali devono agire i governi nazionali, facendo tesoro anche di analisi come le tre T richiamate dal teorico della creatività Richiard Florida: promozione dei Talenti e quindi formazione a tutti i livelli; accesso alle Tecnologie intese non solo come infrastrutture, ma anche come capacità di utilizzarle e Tolleranza, come dimostra il caso della Roma antica che ha saputo mettere a frutto le capacità di artisti, commercianti e inventori di tutto il Mediterraneo. guidoromeo.novaioo.ilsoles4ore.com Le università europee si devono specializzare e diversificare e non aver paura di legarsi al mondo della ricerca e delle imprese Cultura e creatività possono portare crescita e sviluppo. La cultura è il carburante di quella che abbiamo definito industrie creative Jan Figel, 48 anni, è commissario europeo per l'Educazione, la cultura e la gioventù. ingegnere laureato in elettromeccanica ed elettronica di potenza presso l'Università di Kogice, in Slovacchia, si è specializzato in relazioni internazionali presso l'Università di Georgetown, negli Stati Uniti, e I'Università di Anversa in Belgio. Dal 1998 aai 2002 è stato ministro degli Esteri della Repubblica slovacca e dal 1999 al 2003 negoziatore principale per l'adesione della Repubblica slovacca all'Unione europea. Nel 2006 ha pubblicato il primo studio europeo sull'impatto economico della cultura e delle industrie creative in Europa. __________________________________________________________________ Corriere della Sera 03 Mag. ‘08 UNIVERSITÀ FORMATO FAMIGLIA: MOGLI FIGLI DEI RETTORI Il presidente Crui. i cognomi non contano C’era una volta una famiglia molto in voga», canticchia Gappa, al secolo Gaspare Palmieri, psichiatra e cantautore modenese. «La famiglia del rettore», così si intitola la filastrocca, è composta da una moglie preside, un fratello professore ad Avellino, ed una nonna esperta di geriatria, più svariati parenti e affini, tutti rigorosamente in «toga». La canzoncina satirica apparsa per la prima volta sul web, rapidamente ha contagiato le aule dell'ateneo di Modena, dove i due rampolli del rettore Giancarlo Pellacani sono diventati ordinari a tempo di record. In Italia sono 24 i «magnifici» con «famiglia». Ci sono anche mogli impalmate prima di indossare l'ermellino, fratelli e cugini colleghi di facoltà. Ma in 19 casi parliamo di figli, sangue dello stesso sangue, per i quali più di un rettore si è messo nei guai. Ne sa qualcosa il potente numero uno dell'università di Firenze, Augusto Marinelli, per tre anni nel mirino della magistratura a causa dell'assunzione di suo figlio Nicola. Nel 2002 il giovanotto è stato promosso ricercatore di Economia Agraria grazie ad un concorso bandito dalla facoltà di Medicina. Da Firenze l'inchiesta è passata a Trieste, e anche se il pm ha chiesto l'archiviazione, non ha potuto fare a meno di sottolineare le «anomalie» del sistema. Sono invece alle prime battute le indagini sulla Sapienza. E anche in questo caso lambiscono il rettore, Ruggero Guarini, per l'appalto vinto dal professore di Progettazione che ha promosso ricercatrice sua figlia, Maria Rosaria. La secondogenita, Paola, insegna invece architettura degli interni, e tutte e due erano state dipendenti amministrative prima di passare dall'altro lato del corridoio. Il presidente della Crui, Guido Trombetti, invita alla cautela. Anche lui .ha una figliola che lavora nel suo stesso ateneo, la Federico II: «Tuttavia, finché si rispetta la legge non vedo quale sia il problema. Calare dall'alto delle limitazioni non serve. L'importante è che prevalgano sempre capacità e merito a prescindere dai cognomi». Ma sempre più spesso la gente, dentro e fuori l'università, si indigna. A Salerno alcuni giornali locali hanno contestato 1a nomina a ricercatore del figlio del rettore Raimondo Pasquino. Era l'unico candidato al concorso, e così ha vinto nonostante il curriculum ancora acerbo. A Bologna, invece, due parlamentari del centrodestra hanno convocato una conferenza stampa per discutere delle parentele togate di Pier Ugo Calzolari, impegnato fino a poco prima nella stesura di un codice antinepotismo. Il magnifico ha reagito querelando: «Giacomo (il figlio docente ad Economia ndr) è stato danneggiato dalla nostra parentela». Giovanni Pellacani, uno dei rampolli modenesi presi in giro da Gappa, ha vinto il concorso da ordinario a 36 anni. L'età media per chi ricopre certi incarichi sfiora i 60. Meglio di lui ha fatto Giovanni Perlingieri, promosso poco più che trentenne per la gioia del padre Pietro, ex rettore dell'Università di Benevento. Il numero uno di Macerata, Roberto Sani non ha discendenti all'università ma una moglie bibliotecaria. Il che, nel generale andazzo, è nella norma: Ben più eclatante è l'exploit della sua assistente, Anna Ascenzi, che in quattro mesi ha superato àue concorsi, passando da ricercatrice ad ordinaria. Qualche giorno fa, il Secolo XIX ha rivelato le somiglianze (parti dell'indice e intere frasi) tra uno dei saggi della pedagoga e la tesi di un sacerdote laureatosi vent'anni fa alla Cattolica di Milano. All' epoca il correlatore era, guarda caso, lo stesso Sani. «Così fan tutti», verrebbe da dire. Ma c'è anche chi la pensa diversamente: «Stiamo per approvare un codice etico che impedisce a docenti imparentati di lavorare nello stesso settore», afferma Fulvio Esposito, a capo dell'università di Camerino, famoso per aver annunciato che si sarebbe dimesso se la figlia si fosse, iscritta nel suo ateneo: «Mettere dei paletti è importante - spiega - ma può non bastare: c'è sempre qualcuno che si diverte a fare lo slalom». Antonino Liberatore, a capo del sindacato dei docenti Uspur, ricorda ancora i tempi in cui «i figli venivano messi alla prova dai propri padri». Per il professore fiorentino «un ragazzo che riesce a imporsi senza raccomandazioni è motivo d'orgoglio per i genitori. Eppure le cose vanno esattamente nel senso opposto». L'autonomia ha consegnato nelle mani dei rettori un potere quasi assoluto. AL punto che alcuni di loro si sono assicurati una specie di clausola per l'eternità. Con l'appoggio del senato accademico hanno annullato i limiti di eleggibilità e ora governano come «highlanden> le università italiane. Il decano è il bresciano Augusto Preti, incollato alla poltrona da cinque lustri, 25 anni. Seguono Pasquale Ristretta a Cagliari (i7 anni al comando e un figlio nel corpo docente), e altri io colleghi con oltre dieci anni di anzianità. Il perugino Francesco Bistoni è ancora a quota otto, ma potrebbe,rinnovare nonostante gli esposti anonimi che gli sono piovuti addosso. Adesso la procura indaga sull'ignoto diffamatore, ma anche sull'assunzione alla Sapienza del primogenito. Per finire, il napoletano Gennaro Ferrara, ex mastelliano arruolato dall'Udc. È lui il vero patriarca dell'università italiana. AL volante della Parthenope,da ben 22 anni, può contare tra i suoi professori due generi e una figlia. La giovane seconda moglie, una sua ex allieva, opera nel settore delle consulenze. Dal momento che nella piccola università le «famiglie con la toga» sono almeno 10, a suo tempo anche l'ex ministro Mussi tiro le somme: «Certi consigli di facoltà sembrano Natale in casa Cupiello». Antonio Castaldo acastaldo@corriere.it ____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 30 Apr. ‘08 VIA LE PARTIGIANERIE DAGLI ATENEI Elezione del nuovo rettore cagliaritano di Paolo Pani* È iniziata in largo anticipo la campagna elettorale per l’elezione del Rettore nell’Ateneo cagliaritano, alcuni dicono dopo il "ventennio". È un fatto positivo. Si cambierà pagina? È una domanda del tutto legittima. Quelli passati sono stati anni d’unanimismo di "a ciascuno al suo", senza apparenti contrasti. Il Senato accademico e le sue rappresentanze di Facoltà hanno condisceso, spesso per propri tornaconti particolari, talvolta contro gli interessi generali per la crescita complessiva dell’Ateneo. È stata "pax" universitaria d’assordante silenzio, senza confronti né rendiconti. Nei primi incontri della campagna elettorale sembra che invece sorgano i problemi quasi a significare che si debba partire da "un inizio virtuoso", ma senza storia o precedenti. Primo argomento: l’autonomia universitaria. Richiesta del tutto legittima, ma insieme anche preoccupante, su cui è doveroso soffermarci. Autonomia universitaria? Accademica, ma non solo, ha, infatti, confini più larghi. Il fatto che l’autonomia universitaria sia garantita dalla nostra Costituzione è condizione necessaria, ma non sufficiente. Autonomia è un processo, non un’acquisizione "per sempre", ma critica e propositiva, in un continuo confronto. È naturale che il primo confronto sia dell’Ateneo con il suo territorio, in primo luogo in termini urbanistici, che saranno poi quelli che determineranno, in termini logistici e organici, altre integrazioni, quelle della trasmissione del sapere e della cultura verso la città. L’Università sceglie in modo del tutto autonomo i luoghi dei suoi insediamenti urbanistici. Cagliari ha scelto due modelli, quello del "campus", in fuga dalla città, a Monserrato, verso il Campidano, e quanto rimaneva, in città. Il primo caso (Monserrato) è oggi una realtà distaccata dal territorio, esclusivamente di "lavoro", di netta cesura rispetto ai luoghi che la circondano. Contrariamente al "campus" di qualità anglo-americana, gli studenti del nostro "campus" lo abbandonano per spendere il loro tempo post-lavorativo in altri luoghi, in modo disperso. È l’anomalia del nostro "campus" che porta a una sua oggettiva sotto- utilizzazione. Una delle funzioni del "campus" sarebbe dovuta essere quella di costruire una "comunità di studenti e di docenti": non è successo. Purtroppo, all’interno stesso del "campus", sono assenti quei luoghi informali d’incontro (per la comunità universitaria di docenti e studenti) che non siano quelli tradizionali dell’aula e quelli canonici dell’Accademia. Il secondo modello è invece quello dell’Università in città. È oggi puzzle di frammenti di cui non si riesce a intravedere l’immagine di un progetto complessivo. A questo proposito è stato quanto mai opportuno l’intervento di Antonello Tramontin in un incontro di universitari tenutosi recentemente in viale Fra Ignazio. Per sua sensibilità professionale, Tramontin ha cercato di interpretare "l’Università in città", oltre il puzzle, nel tentativo d’individuare l’ipotesi di una possibile continuità urbanistica tra Ateneo e città. È argomento forte, di confronto, politicamente molto attuale. È aperto un acceso dibattito fra amministrazione municipale e quella regionale sulle scelte urbanistiche per Cagliari e per lo stesso Ateneo cagliaritano. Il dibattito è, purtroppo, fortemente inquinato da inopportune partigianerie. Per la sua autonomia, l’osservatorio dell’Ateneo ha condizioni di privilegio, concesso che non debba parteggiare per alcuna "fazione politica", ma che, per spirito di servizio, dovrebbe operare autonomamente per gli interessi generali, in una posizione di ragionevole equilibrio. È un’affermazione di principio di cui molti potranno sorridere (forse legittimamente), ma che l’Ateneo e i candidati alla carica per il Rettorato dovrebbero rivendicare per riaffermare una propria autorevolezza istituzionale. La campagna per l’elezione del Rettore potrebbe essere un’occasione opportuna per porre l’Ateneo come parte importante per disegnare la città del futuro. Esiste la sensibilità? È, innanzitutto, necessaria una convergenza di energie, cittadine e regionali, dalla politica, oltre le partigianerie, a un’imprenditoria immobiliare, che sappia coniugare profitto e spirito di servizio. È possibile? Ai politici e agli imprenditori la risposta. Per l’Ateneo è un’occasione anche per uscire dalle chiudende dell’Accademia, per aprire un dibattito altrimenti asfittico di un Ateneo oggi esclusivamente "questuante". Dopo il "ventennio" si aspettano risposte adeguate. *Università di Cagliari __________________________________________________________________ Corriere della Sera 03 Mag. ‘08 LA RIVOLTA DI BARI, CAPITALE DEI: TEST TRUCCATI P. Mistretta È sulla poltrona di rettore all'università di Cagliari da 17 anni Gennaro Ferrara Regge l'università di Napoli Parthenope da 22 anni Augusto Preti È suo il record italiano: è rettore all'università di Brescia da 5 anni Proseguono le inchieste della magistratura su concorsi e esami nell'università barese Petrocelli, il nuovo «magnifico: codice etico e tetto del numero di mandati MILANO - Concorsi pilotati, test truccati, esami venduti. Ora a Bari anche gli studenti hanno deciso di dire basta. «Ma davvero pensate di fare carriera senza raccomandazioni, senza essere figli di qualcuno?«, ha chiesto una ragazza del terzo anno durante un'assemblea ad Economia. L'ex rettore Giovanni Girone, presente alla riunione, ha girato la faccia da un'altra parte. Nella sua facoltà insegnano la moglie, un genero e tre figli. Nepotismo e malversazioni hanno fatto di Bari la capitale della corruzione universitaria. E di fronte alla progressiva scomparsa della meritocrazia dalle aule e dai concorsi, è impossibile restare indifferenti. «II sistema universitario attraversa un momento critico ed attualmente è sotto attacco - spiega il nuovo rettore, Corrado Petrocelli -. Ma non lo merita: nel complesso della pubblica amministrazione la nostra è la realtà più produttiva». Non la pensa così la magistratura, che da qualche anno a questa parte ha preso di mira proprio l'università e i suoi alberi genealogici. «Ma anche noi abbiamo fatto la nostra parte, denunciando e fornendo ogni tipo di aiuto», insiste Petrocelli, che si fa forte del codice etico approvato a gennaio scorso, dopo una gestazione durata due anni avviata proprio da Girone. «E poi, per quanto riguarda le cariche a lunga scadenza, posso dire di sentirmi in minoranza alla Crui. A Bari il massimo è due mandati triennali. Per me possono bastare». L'ultimo dei magnifici matusalemme, Marco Mancini, rispetto ai colleghi è un ragazzino. Ordinario di Glottologia e segretario della Crui, ha 5o anni, 8 dei quali spesi alla guida dell'università della Tuscia. Proprio la scorsa settimana ha ottenuto dal senato accademico quella che è stata definita «la riforma della governance». «Dopo aver svolto i suoi due mandati elettorali della durata di tre anni ciascuno - spiega il docente di Scienze dell'Alimentazione, Mauro Moresi, capofila di una sparuta minoranza di oppositori - nel 2004 ha chiesto una riforma statutaria per estendere di altri tre anni il suo mandato con la scusa di aggiungere alcuni nuovi organi nello statuto. Oggi si è accorto che non ha potuto realizzare quei nuovi organi e ha chiesto un'ulteriore modifica statutaria per ricandidarsi per ulteriori tre anni; portando così a 121a permanenza del rettore al comando dell'Ateneo, in barba a tutti i principi regolamentari e di etica». Ora alcuni docenti vorrebbero fermarlo, e stanno perciò preparando un ricorso al Tar: «Come ha detto Gherardo Colombo qualche tempo fa - conclude Moresi - in questo paese non esistono regole. E se ci sono si cambiano». Lo scorso gennaio, l'allora ministro Fabio Mussi aveva deciso di limitare la longevità istituzionale dei sui rettori fissando a sei anni il tetto massimo di permanenza al vertice. Ci sarebbe stata una strage: 33 università, come ha calcolato Fabio Sottocornola del Mondo, avrebbero perso il proprio numero uno. Ma poi il governo è caduto e l'intenzione ministeriale è rimasta tale. «Mussi si è mosso troppo tardi», afferma Francesco Merloni, docente di diritto amministrativo a Perugia. «E se era contrario, perché allora ha sempre vidimato le modifiche statutarie ogni qualvolta veniva interpellato?»: Il docente perugino ha dato vita ad una rete universitaria, la «Sveglia», che punta ad arginare lo strapotere conferito a chi governa gli atenei: «Con l'autonomia ormai decidono ogni cosa, anche dal punto di vista economico». Fino ad oggi il docente perugino è riuscito a coinvolgere una ventina di colleghi di dieci diverse sedi universitarie. Il prossimo passo sarà indire un'assemblea per cominciare a discutere sul ruolo dei rettori italiani: «Dicono di lavorare per il bene di studenti e docenti, ma poi si affannano per gestire piccoli pezzi di potere. Stanno trasformando l'università in una macchietta». A.Cas. __________________________________________________________________ Il sole24Ore 28 Apr. ‘08 ATENEO DI CATANIA A GIUDIZIO: CON IL TRIENNIO NON SI INSEGNA Andrea Maria Candidi Si è aperto il contenzioso sul corso di laurea in Educatore dell'infanzia presso l'Università degli Studi di Catania. Alcune studentesse hanno infatti citato in giudizio l'ateneo' davanti al Tribunale catanese, per la presunta ingannevolezza del messaggio che, sul sito internet,accompagnava la descrizione del corso universitario. In particolare, nella frase in cui si faceva riferimento agli sbocchi professionali che il conseguimento del diploma avrebbe permesso: «i laureati svolgeranno attività di assistenza e di educazione per la prima infanzia negli asili nido, nell'ambito dell'assistenza sociale ed in ogni altra tipologia di servizio rivolto all'età infantile, nonché attività di insegnamento nelle scuole dell'infanzia». Proprio quest'ultimo riferimento all'insegnamento nelle scuole materne ha fatto scattare la molla della citazione in giudizio. Quando alcune studentesse, mosse dalla prospettiva di uno sbocco di tale tipo, si sono poi rese conto che le cose non stavano così. Per accedere all'insegnamento è infatti richiesta la laurea quadriennale e non triennale. Come da tabelle ministeriali in materia. Dunque, oltre al compimento del ciclo di studi, per il loro obiettivo le future maestre d'asilo dovrebbero aggiungere un altro anno. A differenza di quanto, invece, recitava il messaggio "pubblicitario" al centro della vertenza. Di qui la citazione in giudizio per pubblicità ingannevole, ai sensi dell'articolo 20 del Dlgs 206/2005, con tanto di richiesta di risarcimento del danno. Secondo Febronia Elia che, quale preside della facoltà di Scienze della formazione, ha ereditato la questione sorta prima del suo mandato, se un errore c'è stato; non è da imputare a malafede. All'origine dei fatti, nel 2oói, l'Università catanese, forte di un numero considerevole di iscritti (67mila); aveva chiesto al Ministero di inserire nella propria offerta anche il corso quadriennale, riservato invece ai capoluoghi di Regione: «Visto che in altre regioni era stata concessa tale possibilità - spiega la professoressa Elia - si avanzò la richiesta, con la speranza che venisse accettata». Nel frattempo, confidando nel successo dell'operazione, il messaggio è partito. Quando poi il Ministero ha risposto picche, l'errore è stato quello di non modificare il testo. «L'anno scorso - prosegue il preside-, dopo che alcuni studenti mi hanno fatto rilevare la cosa, ho provveduto a far modificare il messaggio». Ma non solo. A titolo di parziale risarcimento, il preside si è impegnato «a far considerare al competente assessorato regionale la laurea triennale di educatore dell'infanzia quale titolo preferenziale per la copertura del fabbisogno di personale negli asili nido». AL Tribunale di Catania spetta ora il compito di verificare la fondatezza della richiesta delle studentesse, vale a dire la sussistenza dell'ingannevolezza del messaggio contenuto nelle pagine web dell'università siciliana. LE NORME AZIONI INGANNEVOLI È considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea a indurre in errore il consumatore medio e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso. Altresì considerata ingannevole una pratica commerciale che, nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, induce o è idonea ad indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso. Alcune studentesse hanno citato l'Università per un messaggio fuorviante sugli sbocchi professionali ____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 29 Apr. ‘08 OGNI MINISTRO UNA RIFORMA Nelle Università regna la confusione di Beniamino Moro L'Università di Cagliari soffre dei problemi generali dell'università italiana, derivanti da una sovrapposizione di riforme che hanno creato molta confusione. Ogni ministro che si è succeduto negli ultimi dieci anni, da Berlinguer a Zecchino, dalla Moratti a Mussi, ha voluto lasciare la sua impronta. Non si faceva in tempo a modificare gli ordinamenti didattici in base a una riforma, che bisognava frettolosamente riadeguarli al rispetto della successiva normativa dettata dal nuovo ministro. Il risultato è che nell'ultimo decennio non ci sono stati due anni consecutivi in cui i curricula degli studenti siano rimasti invariati, in un guazzabuglio di corsi di studio che sono proliferati come funghi, di discipline inventate dalla fantasia creativa che ai docenti non manca mai e di incertezza sui provvedimenti che il futuro ministro non mancherà a sua volta di prendere. Si aggiunga che l'autonomia è stata interpretata come alibi per tagliare i fondi di finanziamento (come dire, ognuno si procuri i finanziamenti sul territorio) e tuttora manca la normativa sulle carriere dei docenti e sui concorsi, con le vecchie regole che sono state abolite e quelle nuove che non hanno ancora i decreti di attuazione. Ciò premesso, l'Università di Cagliari soffre di problemi specifici suoi, che è opportuno isolare nella loro essenzialità. Un punto di partenza è costituito dal fatto che nelle classifiche internazionali sull'attività di ricerca scientifica, la nostra università occupa un posto di tutto rilievo, intorno al 400° posto a livello mondiale, al 172° posto in Europa e tra le prime 17-20 in Italia. Per mantenere queste posizioni e non scivolare in Ateneo di servizio (di serie B), è perciò necessario prestare più attenzione alla distribuzione delle scarse risorse, indirizzandole in modo più mirato a favore dei dipartimenti e dei ricercatori scientificamente più produttivi. Un discorso analogo vale anche per la didattica, dove i corsi di studio entrano in competizione tra loro. Nel lungo periodo prevarranno quelli meglio organizzati, la cui reputazione dipenderà dal valore scientifico dei docenti che vi insegnano. Un'altra annotazione riguarda il bilancio e i servizi. La Regione può fare molto per finanziare le università sarde, ma le modalità di finanziamento non possono essere condizionate ai programmi regionali. La ricerca di base è libera e come tale va finanziata, senza nulla togliere ai programmi finalizzati cui la Regione può essere interessata. Quanto ai servizi, sono molto importanti quelli che la regione offre agli studenti attraverso l'Ersu, compresi i servizi abitativi, che però si devono armonizzare col resto della città universitaria, senza creare sovraffollamenti, come presumibilmente si verificherebbero con l'attuazione dell'accordo di programma sul campus universitario di viale La Playa, che nei giorni scorsi è stato bloccato dal Comune. Gli incrementi di cubatura della nuova casa dello studente rispetto al piano originario, infatti, come ha deciso il Consiglio comunale, non sono compatibili con lo sviluppo equilibrato dei servizi esistenti. In alternativa, altre aree dismesse o in via di dismissione (Buoncammino, tribunale militare, poste e l'intero complesso ospedaliero di Is Mirrionis) potrebbero più felicemente concorrere a delineare la futura città universitaria. ____________________________________________________________________ La Voce 22 Apr. ‘08 È TUTTO DI CHIARA COME IL SOLE: il Vaticano era contro Silvio due Moro e una figurina in facoltà L'eclettismo dilaga dalla scienza alla politica: l'arte del possibile e, per i geniali neofiti, dell'impossibile. Resterà negli annali un editoriale post- elettorale del noto tossicologo Gaetano Di Chiara. Ormai appare sprecato nella sua disciplina, dove ha meritata fama internazionale. Svetta in politologia d'assalto: sorpassando Eugenio Scalfari, Barbara Spinelli, Giovanni Sartori e altri sopravvalutati. Pare sia conteso tra Corsera, New York Times e L'Araldo di Masullas. Sull'Unione Sarda del 17 (brutto numero) aprile, ha svelato che Berlusconi ha vinto “nonostante avesse contro i poteri forti: dal Vaticano alla Confindustria, fino ai grandi giornali” (anche il suo?). Il folgorante editoriale è stato mostato al Cavaliere. Ha scoperto d'essere nel mirino di Confindustria: e passi. Montezemolo, sempre con gli operai e il metallurgico Schumacher, ora è anche sponsor dei sindacati. Berlusconi ignorava d'avere contro la Santa Sede. Inviso a Ratzinger, Ruini e i porporati di Curia. Tutti marxisti-leninisti, “rossi” (smascherati dagli abiti), mai azzurri o neri, a parte i gesuiti. È rimasto basito: credeva il contrario. Di Chiara gli ha aperto gli occhi: santo subito, ma non dall'ostile Vaticano. Unici scettici, alcuni colleghi di neoscienze. A partire dall'agnostico Gianluigi Gessa: Di Chiara ne è stato allievo. Gessa non commenta, ma l'ironico sguardo levato al cielo è stato decrittato. Pare abbia detto: “Ah, le dopamine. Rischioso, maneggiarle troppo”. Come fa appunto il politologo di Terrapieno prestato improvvidamente alla tossicologia. Non sono politicamente corrette: forse dopanti. Comunque Di Chiara si produce anche in attività accademiche con un collega, Beniamino Moro, ugualmente editorialista dell'Unione. Per l'economia: non domestica, benché con richiami familiari. I due, assieme ad Antonello Tramontin, organizzano un incontro per dare e avere lumi sul Rettore che, incredulo, prenderà il posto di Pasquale Mistretta. La sintonia politica tra Moro e Di Chiara è chiarissima. Non estesa alle compresenze di sangue del primo nell'ateneo. Dove insegna Romano Piras, ordinario di economia, afferente al Dipartimento di cui è direttore lo zio Beniamino Moro. Nei dintorni anche Alessio: ricercatore, docente nel corso di laurea di cui è presidente il cugino Romano Piras, afferente al Dipartimento di cui è direttore Beniamino Moro. Alessio ha lo stesso cognome, essendone appunto figlio. Due Moro e un consanguineo. Affinità elettive riunite, in questa Sardegna dove tutto si tiene: stretto, all'Università e altrove. Senza dopanti, naturalmente. (giorgio melis) ____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 22 Apr. ‘08 APRIRE LE MENTI E SPEGNERE I TELEFONI Consigli agli universitari di oggi Il professor Malavasi era - e penso sia ancora oggi - uno dei pochi docenti che nella facoltà di Economia e commercio (come si chiamava una quindicina di anni or sono) dell’Università di Cagliari aveva il grandissimo merito di stimolare e concorrere a formare l’intelligenza dei discenti. Le sue lezioni, sicuramente impegnative, da conquistare una per una, per essere comprese e capitalizzate presupponevano inderogabilmente la preventiva lettura dei manuali suggeriti (singolarmente non quello mai scritto dallo stesso professore «perché altrimenti avete le risposte belle e pronte e invece desidero che ragioniate e le risposte le elaboriate voi studenti», era solito ripetere in aula), prima dei pur pregevoli insegnamenti che costituivano la materia del corso, per i non moltissimi che optavano per il relativo inserimento nel Piano di studi e per gli ancora meno numerosi studenti che seguivano con continuità l’intero ciclo di lezioni, hanno rappresentato un passaggio certamente significativo dell’intero percorso universitario e un sicuro punto di riferimento negli ulteriori percorsi formativi e lavorativi intrapresi dagli studenti che, seppur non senza difficoltà, hanno superato il relativo esame finale. Per sgombrare il campo da facili quanto superficiali considerazioni, anche il sottoscritto è stato "craccato" la prima volta che si è presentato all’esame. Non volendo e non potendo commentare con maggiore puntualità la vicenda portata all’attenzione dei lettori de L’Unione Sarda (dal titolo "Consiglio del docente: non venga all’esame di Tecnica bancaria" del 23 marzo scorso), considerato fra l’altro che ognuno di noi può avere una giornata più problematica di altre nel corso della quale si lascia andare a qualche espressione sopra le righe - e non per questo deve trascurarsi l’intero patrimonio positivo che gli appartiene cui, curiosamente, nessuno fa cenno - credo sia importante per gli studenti universitari di oggi e di domani, il cui iter formativo risulta già abbondantemente messo alla prova dalle riforme che si sono fin qui succedute, imparare a riconoscere celermente tra i vari docenti quelli che effettivamente assolvono al loro compito di formazione, maturazione, stimolo e crescita intellettuale degli stessi studenti, e a questi dedicare massime attenzioni, abbandonando per converso improbabili rapporti costi-benefici di cui a quella età non si è in grado di valutare le diverse variabili, in virtù dei quali si potrà forse conquistare più agevolmente e velocemente la laurea, ma con una qualità, tanto intellettuale quanto connessa alle complessive conoscenze acquisite, che emerge chiarissima in tutti i suoi limiti nella stragrande delle esperienze post laurea (quindi occupative, professionali o imprenditoriali) in cui successivamente il giovane laureato si cimenta. Se poi, per conseguire questo risultato di rilievo (non meno dei numerosi altri che caratterizzano la vita di ciascun individuo), si devono sopportare dei sacrifici, rappresentati nel caso di specie da un rilevante impegno nella preparazione dell’esame e, in una dimensione di rilievo ben minore, da una saltuaria spigolosità caratteriale del docente, che curiosamente tuttavia non determina alcun effetto problematico per quegli studenti che affrontano il corso con serietà, impegno e chiara volontà di apprendimento/accrescimento, ma pare suscitare conseguenze sfavorevoli solamente per coloro che, viceversa, desidererebbero invero addivenire alla laurea con un percorso estremamente agevole e come tale privo di qualunque difficoltà (in cui supportati da una cultura molto diffusa nel nostro Paese riguardo ai giovani i cui effetti devastanti sono nettamente percepibili a più), francamente non si comprende di cosa ci si lamenti. Con la stessa brutalità recentemente utilizzata da Giampaolo Pansa nella rubrica "bestiario" (su L’Espresso del 13 marzo scorso: «Voglio essere brutale: a molti ragazzi di oggi lavorare non piace. La precarietà diventa l’alibi per fare flanella»), a quegli studenti ci sarebbe da dire solo poche cose: spegnete i cellulari, imparate a rimanere concentrati per più ore, ringraziate di avere un docente che vi mette realmente alla prova (e che fa fino in fondo il suo dovere), e sperimentate, almeno per una volta, cosa significa conquistare un risultato non facile armati solo delle vostre capacità. Se ancora non lo avete capito, l’università serve anche a questo. Eugenio Zirone __________________________________________________________________ Repubblica 29 Apr. ‘08 ITALIA: PAESE DEI CERVELLI SPRECATI Creatività e talento sempre più sacrificati Un libro scardina il mito del genio italico MICHELE SMARGIASSI Fantozzi si guarda allo specchio, si vede Leonardo, e si consola. La figura professionale più richiesta dal mercato del lavoro italia no è ancora il ragioniere, ma i discorsi dei politici e quelli del bar, unanimi, s'aggrappano ancora al mito del genio italico che ci salverà. Non siamo forse il paese degli artisti,degli stilistiche II mondo c'invidia? No. Non lo siamo. È ora di toglierci dalla testa mitologie non solo infondate, ma pericolose. Lo fa con chirurgica spietatezza Irene Tinagli, la ricercatrice italiana del team dell'americano Richard Florida, il padre della "teoria della classe creativa". Il suo Talento da svendere, in uscita oggi da Einaudi, ha i numeri del saggio, il taglio di un pamphlete l'obiettivo di smontare un po' di luoghi comuni sul paracadute che garantirebbe all'Italia scalcinata e impoverita di sopravvivere agli scontri coi titani della globalizzazione: ovvero la sua riserva di creatività, garantita, eterna, quasi genetica. Poveri ma geniali? Ma dove? A che serve il genio, quand'anche l'avessero nel Dna, ai48 italiani su cento che non sanno usare Internet, alla spaventosa maggioranza che non sa neanche una lingua straniera, alla quasi totalità che non sa cosa succede nel mondo? Dove starebbe questo genio, poi, che nomi ha? Rubbia, Levi Montalcini, Dulbecco, i nostri premi Nobel, che poi hanno tutti studiato e lavorato all'estero? «Michelangelo diventò un grande artista perché aveva un muro da affrescare, e io in Italia non avevo un muro», così, amaro, Riccardo Giacconi, premio Nobel 2002 per la Fisica, italiano all'anagrafe, americano per obbligo. Marconi inventò la radio a Pontecchio, ma andò a fondare la sua impresa a Londra. Meucci inventò il telefono negli Usa. Armani, Versace? Guardiamo ai ruolini d'assunzione, piuttosto: fanno scorso le imprese italiane hanno offerto solo il 9 per cento dei nuovi posti a figure professionali altamente qualificate. Il mito del genio solitario ci sta facendo del male. Ci rende pigri, inattivi, inattesa che l’intelligentone ci piova addosso dal cielo. Ai paesi in ascesa impetuosa non importa nulla della "caccia al talento " individuale e straordinario, da pescare già fatto "come una perla nel guscio dell'ostrica": producono invece ottimi, anonimi, compatti, efficienti staff. Negli Usa vanno forte ingegneri biomedici, elettronici e ambientali: da noi, en attendant un Galileo o un Brunelleschi, la categoria professionale in maggiore espansione è quella dei commessi e degli impiegati. E’ un milione di laureati s'accontenta di lavori che avrebbe potuto fare senza laurea. Abbiamo gioito troppo presto per l'impennata di iscrizioni seguita alla riforma universitaria (più 6% dal 2001 al2004); ma è già rientrata, scopre Tinagli: dal 20041e iscrizioni sono in calo di circa 6-8 mila unità l'anno. Gli atenei italiani offrono l'inverosimile catalogo di 5434 corsi di laurea diversi, ma le matricole sono cresciute solo del 2 per cento e i laureati "brevi" trovano lavoro più tardi e peggio pagati dei diplomati. Una domanda "scorretta" s'affaccia alla mente di ogni diciottenne: conviene proprio continuare a studiare? Le statistiche dicono che i laureati guadagnano in media 26.700 euro annui contro i 17.700 dei diplomati, ma è una media ingannevole: si arriva al top della retribuzione solo dopo molti anni, e il rischia di non iniziare nemmeno la gara è alto. Il problema allora non è delle mamme. La dotazione d'intelligenza è equamente distribuita nel mondo. Potenzialmente non siamo svantaggiati: produciamo più ingegneri della Germania, e il 7,5% della produzione internazionale di pubblicazioni di fisica è firmata da autori italiani. Secondo i criteri di Florida, la classe creativa italiana (quella parte di forza chiamata a "elaborare continuamente operazioni complesse per risolvere problemi non standardizzati") arriva a quattro milioni di persone, il 21 percento degli occupati, ed è raddoppiata in un quindicennio. Ma per farlo fruttare, il talento bisogna coltivarlo. È il "processo di valorizzazione" che in Italia è vicino al collasso. E qui le colpe sono di molti. Gli attori del sistema che non fanno la loro parte sono almeno tre: l'università ' l'impresa, e la geografia. Della prima s'è detto: e non basta il rientro faticoso di qualche centinaio di "cervelli" per riequilibrare una "bilancia dei pagamenti" del talento drammaticamente deficitaria (importiamo il 3 per cento dei nostri "creativi" dal mondo, ma esportiamo il 5% dei nostri solo negli Usa). Quanto alle imprese, l’Isfol s'è preso la briga di contare gli annunci di offerta di lavoro: nel 2006 tre su quattro non chiedevano alcun titolo di studio, il 7% in più di tre anni prima. Avere studiato non paga. Sotto la soglia degli 800 euro mensili, calcola l’Ires, c'è il 14 per cento dei licenziati elementari, il 14,1 dei diplomati e il 28,2 per cento dei laureati. Retribuzioni decenti sono più un premio all'anzianità che al merito: nei paesi Ocse siamo quello che paga meno i laureati tra i 30 e i 40 anni. Negli anni Ottanta il divario retributivo tra laureati a inizio e fine carriera era del 20%, nel 2004 era del 35%. E la geografia? Ha le sue colpe, ed è in questo capitolo che l'analisi di Tinagli risente di più dell'originale impostazione di Florida. L'Italia dei campanili, delle comunità piccole ospitali e coese... Scordatevela. È un paese di gabbie: soffocanti e bigotte. Tra tutti gli europei, secondo il World Value Survey, gli italiani sono quelli che gradiscono meno (29%) avere per vicino di casa un gay: più ancora che un tunisino. Cosa c'entra? C'entra, è il termometro dell'apertura mentale al nuovo, al diverso, senza il quale si implode nel conservatorismo e nel declino. Del resto si vede: solo il 21% dei nostri manager è donna, il35 in Germania, il31 in Spagna. Persino i "distretti industriali", salvezza e patrimonio dell'Emilia rossa come del Nord Est leghista, hanno fatto il loro tempo e oggi sono, dice Tinagli, circuiti troppo chiusi, insofferenti delle eccentricità che possono turbare una comunità ma anche portarle stimoli nuovi. Il genio italico soffre di costipazione. Ci restano sole e mare? __________________________________________________________________ Il sole24Ore 24 Apr. ‘08 IL MINISTERO NON ACCETTA E-MAIL Con grande fatica, per superare ostacoli burocratici, il dipartimento di Scienze economiche dell'Università di Bologna ha lanciato un nuovo programma di dottorato allineato agli standard internazionali. Tutto è pronto compreso il nuovo sito in http://www.phdeco.unibo.it/ in inglese per illustrare agli stranieri i vantaggi di Bologna e spiegare come fare domanda. Ma non si può procedere: manca la pubblicazione del bando in italiano sulla Gazzetta Ufficiale (u pagine di burocratese contro le due nel sito). Chiunque penserebbe che basti mandare un'email al ministero della Giustizia con documento in allegato. Non è così: il ministero accetta solo l'originale cartaceo firmato e spedito per raccomandata con ricevuta di ritorno. Per accelerare i tempi, la soluzione alternativa suggerita è l'invio di una persona che porti amano il documento a Roma. Il ministero non specifica se il messo debba andare a piedi, a cavallo o possa usare almeno il treno. Qualcuno spieghi ai burocrati che i documenti cartacei sono falsificabili tanto quanto quelli informatici, se non di più; e che rendere la vita impossibile alle persone oneste, che sono in maggioranza, senza riuscire a impedire gli abusi della minoranza di disonesti è inefficiente. __________________________________________________________________ Il sole24Ore 24 Apr. ‘08 TUTTI PAZZI PER LA LAUREA ONLINE. ATENEI VIRTUALI UNA RICERCA 0 Crescita del 21,5 % in un solo anno anche se i numeri assoluti restano bassi DI MICHELE FABBRI Sono quasi 5omila le persone che, nel nostro Paese, hanno deciso di laurearsi via internet nell'anno accademico 2005-2ooG. Lo rivela la Ricerca sul mercato delle lauree online nelle università italiane recentemente pubblicato da Omniacom, il Consorzio europeo per la formazione integrata. Il numero di chi intende diventare dottore sfruttando le potenzialità didattiche offerte dalla rete è destinato à crescere rapidamente, se è vero che gli iscritti, secondo l'indagine, sono aumentati del 21,5% in un solo anno. E il dato è tanto più significativo se si considera che nello stesso periodo il totale degli studenti universitari è calato di quasi un punto percentuale (0,9%). Che studiare online piaccia sempre di più e che il valore di mercato di questo segmento dell'istruzione cresca rapidamente lo confermano tutti i dati dell'indagine. In quattro anni il numero degli atenei che offre questa modalità formativa è quasi raddoppiato, passando da 24 a 45 con un ventaglio di ben 222 lauree. Il valore totale del mercato è di quasi 85 milioni di euro; con un incremento, rispetto all'anno precedente, de1 28,6% (il prezzo medio dei corsi di laurea on- line nel 2006/07 è pari a 1.740 euro, cresciuto, rispetto all'anno precedente, del 5,9%). L'offerta è polverizzata in una miriade di corsi che spesso raccolgono pochi iscritti, male lauree dei settori politico sociale, economico statistico, giuridico e ingegneristico raccolgono più della metà degli studenti, mentre in dieci università si concentra più del 70% del fatturato totale. A Scienze economiche e Scienze giuridiche dell'Università telematica Marconi di Roma vanno il primo e secondo posto della graduatoria dei corsi con maggior fatturato (rispettivamente di 4:520.262 e 4.347,155 euro). Un'attenzione particolare, in questo quadro, meritano 1e "università telematiche" (quelle che offrono solamente corsi online), che hanno quasi raddoppiato in un anno il proprio fatturato, raggiungendo un quarto del mercato totale. L'ottima performance economica è dovuta però anche al fatto che studiare online costa caro: il costo medio delle università telematiche è infatti superiore del 27% rispetto a quello delle tradizionali che offrono l’online. In questo segmento il leader di mercato è l'Università telematica Marconi di Roma, a cui spetta l’8i,4% del totale, e che rappresenta un caso eccezionale, essendo cresciuta del 340 per cento. A Te1.Ma, che occupa il secondo posto, compete una quota di mercato pari appena al5 per cento. Fra le università tradizionali, quelle raggruppate nel Consorzio Nettuno coprono il 71,9% del mercato. Per avere un'idea dei numeri in ballo e delle tendenze, bisogna considerare però qualche dato di raffronto. Se è vero infatti che l'incremento è molto forte, è vero anche che stiamo parlando di valori assoluti ancora molto bassi: gli iscritti online rappresentano infatti appena il 2,7% del totale di circa un milione e settecentomila universitari. Se poi consideriamo unicamente le nuove "università telematiche" (quelle attive al momento della rilevazione), notiamo che i loro "studenti virtuali" rappresentano appena lo 0,56% del totale. Sono infatti soprattutto le università tradizionali a coprire la parte più consistente di questo settore della formazione raccogliendo l’80% degli studenti. È un dato da non sottovalutare, perché da un lato è un segnale di crescente dinamismo del mondo accademico, generalmente poco aperto all'innovazione didattica e a quella online in particolare, dall'altro ridimensiona il timore che le università telematiche, la cui crescita rapida e disordinata aveva sollevato molte critiche, siano un elemento di destabilizzazione del sistema formativo. Ma i dati più significativi della ricerca sono forse quelli qualitativi, che descrivono le caratteristiche degli studenti online. Da un approfondimento condotto su un campione, risulta infatti che chi si rivolge alla rete, molto spesso, lo fa perché altrimenti non avrebbe possibilità di frequentare. Gli studenti a tempo pieno rappresentano, infatti, meno di un quarto (24%) del campione, mentre il 3G% ha un lavoro par time e ben il 40% mentre studia svolge un'attività a tempo pieno. E solo il 19% è in età immediatamente post scolare, mentre un terzo ha addirittura più di trent'anni. Questo tipo di studio incontra pertanto molto probabilmente le esigenze di chi lavora, non può allontanarsi da casa per studiare e non ha un curriculum di studi lineare. Non si tratta, dunque, di concorrenza fra università tradizionale e nuove forme di sapere (come spesso si è temuto), ma, di allargamento dell'offerta, in una dimensione di complementarietà, che dovrebbe evolvere verso una collaborazione. A patto che la qualità della formazione online, su cui si sono puntate le critiche a recenti progetti di università telematiche, sia garantita. «Cadono, afferma Marcello Giacomantonio, che ha curato la ricerca, il pregiudizio consolidato secondo cui gli studenti a distanza sono solamente duelli che non vogliono spostarsi e l'idea che ci sia una concorrenza interna alla formazione superiore di cui la componente a distanza rappresenta l'anello debole e di scarsa qualità. Ne consegue che il segmento delle lauree online potrebbe essere per il nostro Paese un interessante laboratorio finalizzato proprio al recupero di quella "scolarità" per la quale siamo particolarmente carenti. La qualità della formazione online dovrebbe essere garantita, considerando che ben l’80% del mercato è gestito dalle università tradizionali, spesso le più qualificate. Eppure, il settore ci appare vittima di alcuni mali e pregiudizi: le lauree on line sono considerate lauree di serie B». __________________________________________________________ Il manifesto 24 Apr. ‘08 SAPERI MESSI A PROFITTO NELLA RETE DELLA GRANDE MELA GL Ro. Il primo edificio della New York University è sorto nel 1835 a Washington Square, nel cuore del Greenwich Village. II suo marmo era stato fornito dal lavoro non pagato dei prigionieri di Sing-Sing. L'anno precedente, per protestare contro l’uso dei detenuti, i tagliatori di pietre avevano assaltato gli edifici dell'impresa appaltatrice: solo l'intervento della Guardia Nazionale avrebbe domato il primo rivolta del labor movement a New York. Oggi la Nyu è uno dei principali modelli di global university. da Accra ad Abu Dhabi e Shangai, è un brand transnazionale dell'istruzione superiore. Tale modello è fondato sulla cattura del lavoro precario nelle «cave» contemporanee in cui si produce sapere. I circuiti di accumulazione del «capitale cognitivo» percorrono confini porosi, componendosi attraverso una complessa articolazione di figure, che va dall’iadjunct professors e graduate students, ai janitors e lavoratori dei servizi. Di ciò si occupa The University Against Itseif (Temple University Press, 2008), curato, da Monikà Krause, Mary Nolan, Michael alm e Andrew Ross. La raccolta di saggi analizza, dal punto di vista di chi vi ha in varia misura preso parte, la mobilitazione e lo sciopero dei graduate students della Nyu, dal novembre 2005 al maggio 2006, in seguito alla decisione dell'amministrazione di cancellare la contrattazione con la loro union, il Gsoc. Dopo essere stati costretti - prima tra le università private americane - ad accettarla, l'argomento ora usato dal management è sfacciata mistificazione: benché sostengano buona parte del carico didattico e della ricerca, i graduate students sarebbero soggetti in formazione, dunque non lavoratori. La rivendicazione di organizzarsi lede la loro libertà accademica e intellettuale: così un culto liberale si schiera contro le istanze del lavoro vivo. La stessa amministrazione universitaria ha ormai poco a che fare con le tradizioni accademiche: presieduta da John Sexton, in virtù della sua capacità di attrarre cospicui fondi, è composta per intero da figure del mondo corporate. La Nyu sta inoltre contribuendo a ripensare lo sviluppo metropolitano complessivo, per guidare - come mostrano Duncornbe e Nash-il passaggio dalla Ere Economy, basata su finanza, assicurazioni e proprietà immobiliare, alla Ice economy, cioè la messa a valore delle risorse intellettuali, culturali e formative. Non a caso le grandi università private sono i principali agenti della geninfication, o studenfitication: la Columbia nel West Harlem, la Nyu verso il Lower East Side. In breve: la stessa università diventa metropoli, e viceversa La prospettiva predicata da Richard Florida di uno sviluppo capitalistico trainato dalla creative class si fa qui realtà; ma quel processo - evidenziano Dawson e Lewis - è stato reso possibile dalla «tolleranza zero» di Giuliani. L'economia creativa è dunque una forma di cattura e controllo della forza-lavoro. Tuttavia, sottolinea Ross, l’aziendalizzazione dell'università si accompagna, nel capitalismo e' ognitivo, ad una sorta di universitarizzazione dell'azienda. In questo quadro, lo sciopero dei graduate students ha tracciato con chiarezza le linee di classe nell'università-metro, oli. Assai meno chiare, invece, sono le linee interne di composizione e organizzazione di questo conflitto, su cui il libro si interroga a partire dalla mancata vittoria delle rivendicazioni bread- and-butter del Gsoc. Un punto fermo sembra emergere: le strutture storiche del labor movement si possono utilizzare, come i graduate students hanno tentato di fare, ma cio non di meno sono definitivamente superate. II problema non è solo il pervicace anti - intellettualismo dei leader sindacali, e la soluzione non può essere la riproposizione delle gilde di mestiere. Le irruzioni di parzialità che eccedono la semplice politica del riconoscimento di status, qui raccontate criticamente dai precari non-bianchi e dagli studenti, infrangono infatti ogni possibile riduzione della molteplicità all'unità della rappresentanza. Le union dei docenti, del resto, diventano spesso non solo stakeholder della govemance universitaria, ma articolazione manageriale delle funzioni di controllo e precarizzazione. Le parzialità, è la tesi del libro, si possono comporre solo su una nuova linea di forza: il rovesciamento del rapporto tra università e metropoli agito nella «produzione politica del comune». Chissà che ciò che si chiama autoformazione non sia una delle nuove forma del conflitto di classe nella corporate university. __________________________________________________________________ La Repubblica 23 Apr. ‘08 LUCERTOLA ITALIANA: IN 30 ANNI UNA EVOLUZIONE DA RECORD Studiata su un isolotto croato, in poco tempo ha subito metamorfosi che in natura richiedono milioni di anni I ricercatori Usa: "Ora ha stomaco, bocca e testa molto più grandi. Non mangia solo insetti ma anche vegetali" Il mistero della lucertola italiana in trent'anni un'evoluzione da record n gruppo di "lucertole italiane", quelle che normalmente osserviamo sui muri o tra i sassi di casa nostra, introdotto in una piccola isola al largo della Croazia, si è evoluto in soli 30 anni dando origine a una trasformazione morfologica e comportamentale che di solito in natura avviene nell'arco di milioni di anni. In sole tre decadi la lucertola, che è lunga mediamente 13 centimetri, ha sviluppato una nuova struttura dei proprio intestino (e ciò 1e ha permesso di mangiare anche vegetali, mentre da sempre la sua alimentazione si basava su piccoli insetti), ha allargato 1a dimensione della testa e sviluppato un morso molto più forte che nel passato. Nel 1971 un gruppo di ricercatori introdusse cinque coppie di lucertole italiane nella piccola isola di Mrcaru, prendendole dall'isola Kopiste, entrambe nel Mar Adriatico meridionale. Oggi le cinquemila lucertole che si trovano sull'isolotto sembrano molto diverse da quelle introdotte trent'anni fa, ma l'analisi del loro Dna ha dimostrato senza ombra di dubbio che sono tutte discendenti proprio delle dieci rilasciate agli inizi degli anni Settanta. La scoperta della mutazione è stata fatta solo recentemente perché l'isola, dal momento in cui vennero introdotte le lucertole italiane, non fu più oggetto di studio per un lungo lasso di tempo. Dapprima la ricerca si trovò ad affrontare diversi problemi finanziari, poi ci ha pensato la guerra che ha sconvolto 1a ex Jugoslavia a tenere lontani i ricercatori. Spiega Duncan Irschick dell'università del Massachussetts (Usa), autore della ricerca pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences. «Solo dal2004 l’isola è diventata una meta turistica e così abbiamo potuto ricominciare le nostre ricerche senza problemi. Fino a quel punto non sapevamo neppure se le 5 copie iniziali fossero sopravvissute. Ciò che abbiamo scoperto è stato, per noi biologi, davvero scioccante». Continua il ricercatore: «Negli anni Settanta l'isola aveva una propria specie di lucertole, molto meno aggressiva di quella introdotta. La nuova specie ha quasi del tutto cancellato quella indigena. Tuttavia, al momento, non sappiamo come ciò sia avvenuto. Ma 1a vera sorpresa sta nel fatto che lalucertola italiana si è perfettamente adattata all'isola grazie ad una velocissima evoluzione, la cui rapidità non ha confronti». Per capire quanta avvenuto va detto che di salito i piccoli rettili non sono in grado di digerire i vegetali, e che sull'isola croata vi sono moltissime piante, cibo abbondantissimo per quegli insetti sui quali si basava la dieta delle lucertole italiane. Ciò nonostante le lucertole hanno sviluppato anche un altro modo di cibarsi. Prosegue Irschick: «Ci ha sorpreso scoprire che dopo soli 30 anni 1e lucertole hanno sviluppato 1a valvola ileo-cecale, che congiunge il piccolo con il grande intestino e che rallentala digestione permettendo loro di cibarsi anche di cellulosa». Ciò vuol dire che ora oltre che degli insetti, le lucertole possono cibarsi anche di piccoli vegetali. Ed è stato questo mutamento a far si che si sviluppassero in loro mascelle più forti (in grado di recidere piccoli fusti) e di conseguenza anche una testa più grande. In seguito alle trasformazioni fisiche c'è stata anche un'evoluzione della società delle lucertole: la grande quantità di cibo ora a disposizione ha dato il via ad una veloce riproduzione della specie e a un aumento inusitato della densità di individui. Ma come è potuto avvenire un tale mutamento in così poco tempo? Spiega Andrei Hendrp, dell'Università McCill di Montreal (Canada): «Esistono due possibilità. La prima può essere legata ad un puro fatto genetico, la seconda a un classico caso di "risposta plastica all'ambiente". Tendo a ritenere che però qualcosa di genetico debba esserci per forza». __________________________________________________________________ Il sole24Ore 24 Apr. ‘08 SCIENZA 2.0 La pubblicazione dei risultati delle ricerche scientifiche attraversa un ripensamento profondo. Le informazioni sulla ricerca sono strategiche per alimentare il progresso delle conoscenze dell'umanità, ma sono anche decisive per ogni forma di valorizzazione delle loro applicazioni economiche. La prima tensione porta gli scienziati a scambiarsi liberamente le informazioni, la seconda li spinge a tener segreti i loro risultati. La contraddizione è palese. ' Per di più, le colorine sulle duali poggiava il sistema delle pubblicazioni scientifiche sono da qualche tempo leggermente in crisi. Il potere e, in un certo senso, il prestigio delle riviste classiche come «Science» e «Nature» è in discussione. Quelle riviste avevano assunto il doppio ruolo di valutatori di ultima istanza della qualità scientifica dei paper che decidevano di pubblicare e nello stesso tempo ne garantivano la notorietà mediatica globale, con conseguenze importanti per il successo degli scienziati e per la quantità di finanziamenti che questi riuscivano ad attirare ai loro laboratori. Ma un grande potere è anche un grande rischio. Qualche errore di troppo ha ridotto la loro affidabilità percepita. E nello stesso tempo, i media sono andati a cercare altre fonti di informazione sugli sviluppi della scienza, per, non essere tutti allineati all'agenda dettata da quelle riviste. I sistemi troppo concentrati non funzionano. È anche un tema antropologico ,e biografico: chi fa lo scienziato per una vocazione a svelare i segreti dell'universo e dei suoi piccoli abitanti ha esigenze diverse da chi si concentra piuttosto sulla moltiplicazione delle risorse da destinare alle ricerche o sull'accrescimento della propria notorietà e ricchezza personale. Ed è chiaro che la scienza accelera quando gli scienziati condividono le loro conoscenze, fanno confronti incrociati sugli esperimenti, si scambiano ipotesi e commenti. Un mondo di laboratori chiusi dietro muri di avvocati brevettuali non garantisce la stessa velocità di avanzamento della ricerca. E non per nulla si stanno moltiplicando le iniziative per consentire agli scienziati di scambiarsi apertamente idee e informazioni. È un recupero dello spirito internettiano originario, condito da soluzioni che attualmente vanno sotto il nome di Web 2.0. SciVee, per esempio, presentata anche alla recente edizione di Fest, a Trieste, è una piattaforma che consente agli scienziati di pubblicare video, Blog e altro materiale da condividere; 3QuarksDaily invece è un gruppo di Blogger-scienziati che informano in modo relativamente coordinato sugli sviluppi della ricerca; Openwetware serve a condividere conoscenze, opinioni ed esperienze tra biologi e Biotecnologi. E poi c'è Plos che da tempo agisce come rivista scientifica, ma in chiave aperta e senza eccessive preoccupazioni dal punto di vista del business editoriale. È chiaro che il tema della remunerazione dei finanziamenti privati alla ricerca è sempre fondamentale. Ma non dovrebbe portare a un'interpretazione integralista. L'ecosistema della ricerca ha bisogno di diversità, di scambio aperto e libero di idee. L'eccessiva concentrazione di tutti gli sforzi sulla valorizzazione economica dei risultati della ricerca può provocare un rallentamento del progresso scientifico. O almeno questo è ciò che pensano le migliaia di scienziati che hanno cominciato a usare il web 2. o per esprimere le loro attività e per connettersi tra loro. _________________________________________________________ MF 22 Apr. ‘08 RFID: TUTTO IL MONDO IN UNA ETICHETTA Rfid A che punto è la diffusione delle tecnologie che consentono l'identificazione a distanza di oggetti, animali e persone? di Elisa Pavan Musei che, attraverso palmari, possono orientare i propri visitatori all'interno dei percorsi, fornire descrizioni delle opere o sfidare i ragazzi con istruttive cacce al tesoro. Ospedali che con un braccialetto controllano direttamente i pazienti, allevamenti che monitorano e tracciano il proprio bestiame in modo più rapido e sicuro. Sono solo tre esempi di come l'applicazione della tecnologia Rfid, radio frequency identification, che consente la trasmissione a distanza di dati su oggetti, animali e persone sfruttando le onde radio, possa aiutare aziende, imprese e organizzazioni culturali a migliorare la propria efficienza e al tempo stesso rispondere a quelle esigenze di tracciabilità che le normative e le leggi del mercato richiedono in sempre più settori. Il sistema si compone di un trasponder o tag e di un reader (il lettore) che per comunicare fra loro devono essere sintonizzati sulla stessa frequenza I) tag è formato dall'etichetta, un microchip, apposta sull'oggetto e contenente tutte le informazioni che lo identificano, e da un'antenna che legge i dati e riceve e trasmette i segnali radio da e verso il lettore Rfid; il reader è il dispositivo, fisso o portatile, deputato alla lettura del tag Rfid, che converte le onde radio del tag in un segnale digitale che può essere trasferito su un computer. I sistemi Rfid utilizzano varie frequenze, da quelle basse (LF, tra 125 e 134 kHz), a quelle alte (HF, intorno ai 15 MHz), alle altissime frequenze (1111F, tra 860 e 960 MHz) e le micro-onde (superiori ai 2,45 GHz). Le diverse bande di frequenze presentano caratteristiche diverse e sono indicate per applicazioni differenti. In generale, al crescere della frequenza crescono la distanza di lettura e la quantità di informazioni che si possono trasferire nell'unità di tempo, mentre diminuiscono la capacità di resistenza alle condizioni operative e i costi. I tag a bassa frequenza utilizzano poca potenza, sono capaci di attraversare materiali non metallici e liquidi, ma il segnale per la lettura non supera i 30- 40 centimetri. Le etichette ad alta frequenza lavorano meglio con oggetti metallici e arrivano a coprire una distanza di circa un metro. Le altissime frequenze offrono range di lettura più ampi e permettono di trasferire i dati velocemente, ma non attraversano facilmente i materiali. Le soluzioni con tag a 2,45 GHz sono impiegate nei telepass, interporti e simili. IL PROGETTO WI-ART Un esempio delle variegate possibilità che la tecnologia Rfid oggi arriva a offrire è l'applicazione su tecnologia Intel e Oracle messa a punto dal laboratorio Rfid Lab dell'Università La Sapienza di Roma. Wi-Art, questo il nome dell'applicazione che è stata attivata prima presso il Museo delle origini di Roma e poi in altri musei italiani, è in grado di fornire all'utente descrizioni ; storico-artistiche sulle . opere e di orientarlo all'interno dei percorsi museali, attraverso un'interfaccia grafica semplice e l'uso di tecnologie WiFi, Rfid, Text to Speech. Grazie all'informatizzazione del sistema di archiviazione dei reperti del Museo con tecnologie Rfid e alla creazione di profili descrittivi per ogni singolo oggetto, mediante l'utilizzo di un palmare (pda), ciascun visitatore può usufruire di una guida personalizzata che avrà la funzione di ponte informativo tra l'opera d'arte e il bagaglio di contenuti che ne permettono la comprensione. AL passaggio del visitatore, le opere identificate dal tag Rfid invieranno automaticamente le informazioni (audio, video, testo) al palmare. «Vicino all'opera il palmare comincia a vibrare», ha spiegato Carlo Maria Medaglia, coordinatore dell'Rfid lab, «e fornisce la descrizione dell'opera, un indovinello per i bambini o altre curiosità». Questa iniziativa di edutainment è utile per gli studenti e persino per i disabili visivi, per i quali sono previste descrizioni particolareggiate e indicazioni di percorso. In questo modo «ragazzi e adulti possono avvicinarsi all'arte in modo più stimolante, accedere a contenuti multimediali di vario tipo e anche proseguire il rapporto con il museo anche da casa, per esempio inserendo commenti alla visita su sito web del museo, che riconosce i visitatori già profilati durante la gita. I ragazzi possono scaricare le foto che hanno fatto e rivedere il loro percorso». Serve poi ai musei per attirare nuovi visitatori, che sono più attratti da un'esperienza innovativa. Questo progetto è stato adottato anche da altri musei. Ma l’Rfid può essere usato pure per «la gestione documentale e la gestione delle biblioteche», come aggiunge Medaglia. Wi-Art è una soluzione resa possibile dal software Oracle, specificatamente database e Sensor RdoP SPrver (ossia la tecnologia che abilita al Rfid), basato sul processore quad-core Intel Xeon 5320. ALLEVAMENTO E TRACCIABILITÀ L'identificazione a radiofrequenza può portare impensati vantaggi anche per gli allevatori. Il Consorzio produttori bionature, che in Emilia Romagna realizza prodotti avicoli di alto profilo con il marchio Del Campo, ha adottato Televet, un sistema di telecontrollo sviluppato da Confor e basato su Oracle Application Server lOg e Oracle Database lOg utilizzato per monitorare le condizioni di vita degli animali presso gli allevamenti di pollame e di bestiame in ottemperanza alle norme della Comunità europea. Il sistema, che ha permesso al partner Confor di vincere l’Oracle PartnerNetwork Innovation Award, premio per i partner più innovativi a livello Emea, consente il controllo remoto dei magazzini delle aziende agricole e fornisce funzioni di intelligence che indicano le condizioni ottimali per incrementare la produzione pur rispettando e migliorando le condizioni di vita degli animali. «Abbiamo adottato il sistema circa 18 mesi fa», ha raccontato Guido Sassi, presidente di Del Campo, «e i primi riscontri sono stati positivi. I polli sono costantemente monitorati, vengono misurati l'umidità presente nelle lettiere, la temperatura dell'aria, i livelli di acqua e cibo, che ci fanno quindi capire se gli animali si sono nutriti o no. Un impianto video consente di vederli anche da lontano. Queste informazioni, poi tradotte in grafici e a cui possiamo accedere in modo remoto anche da personal computer, cellulare, internet, o satellite, ci consentono di avere una gestione più efficace dell'allevamento, andando subito a ripristinare le condizioni di benessere ambientale e prevenendo situazioni di malessere che portano a malattie come la coccidiosi e quindi alla morte dei polli». Un altro progetto interessante in ambito agroalimentare è quello per la tracciabilità del bestiame, bovini e ovini, dell'Associazione regionale allevatori (Ara,) Sardegna, sviluppato insieme a Honeywelll Imaging and Mobility e sempre con tecnologia Rfid e che ha consentito di rendere più rapide le operazioni di conteggio, identificazione e trasporto dei capi. «La sperimentazione», ha spiegato Roberto Chiappetta, responsabile del progetto e caposervizio informatico di Ara Sardegna, «è nata in seguito al progetto Idea del centro comune di ricerca di Ispra, che ha valutato la più fattibile tra diverse applicazioni tecniche quella che prevedeva l’identificazione attraverso il bolo endoruminale dell'animale, precedentemente dotato di un tag Rfid passivo inserito nel rumine. II tag viene annegato all'interno del componente in ceramica e opera in modo completamente sicuro per il capo di bestiame». Nel 2005, con l'approvazione del budget da parte della regione Sardegna, è partito il progetto lesa, Identificazione elettronica Sardegna «Dopo l’acquisto delle attrezzature necessarie e i corsi teorici e pratici per addestrare i lavoratori, abbiamo iniziato il tracking del bestiame. L'iniziativa coinvolge quattro associazioni provinciali, il ministero della Salute, l'Associazione italiana allevatori e l'Istituto zooprofilattico di ' Teramo. A fine maggio, quando terminerà il progetto, saranno stati tracciati circa 420 mila capi». I vantaggi per gli allevatori, secondo Chiappetta, sono immediati e chiari. «Finora le persone che fanno il controllo dei capi erano due: una per tenere fermo l'animale e leggere il numero di matricola, riportato sulla marca auricolare, l'altro per cercarlo sul palmare. Con questo metodo basta una sola persona:. il riconoscimento dell'animale avviene via Bluetooth tramite un'antenna transponder. Senza contare che è un bene che vengano eliminate le marche auricolari, perchè possono causare infezioni, soprattutto agli ovini». I controlli funzionali di tutti i giorni o quello nei trasporti per il pascolo, le vaccinazioni o il macello, risultano quindi più rapidi, «il tempo si riduce del 30%», secondo le stime di Chiappetta. RFID ANCHE IN OSPEDALE La sanità comincia a scoprire i vantaggi delle etichette Rfid, anche se in Italia i casi non sono molto diffusi. Tra gli esempi più eclatanti c'è quello dell'ospedale britannico Birmingliam Heartlands, parte della The Heart of England NHS Foundation Trust, una delle strutture sanitarie più grandi d'Inghilterra, con un bacino di utenza di mezzo milione di persone e in grado di assistere 574 mila pazienti all’anno. L’ospedale ha sviluppato con il fornitore di soluzioni tecnologiche per il settore sanitario Sale surgery systems un nuovo sistema di gestione dell'identificazione dei pazienti da applicare alle procedure operatorie, basato su Rfid. II nuovo sistema si basa sulla combinazione di tag e software per procedure in tempo reale mediante pda, stampanti e bracciali di identificazione di Zebra Technologies. «I bracciali di identificazione di ogni paziente», ha spiegato David Morgan, primario di chirurgia, «ci forniscono le informazioni necessarie per ogni fase del trattamento, dalla somministrazione dei farmaci alle trasfusioni sanguigne, fino alle procedure chirurgiche da eseguire». II progetto pilota, partito nell'unità di day-hospital del reparto di otorino-laringoiatria, ha consentito di portare a termine un intervento in più al giorno, circa 672 procedure semplici o intermedie in più all'anno. Un risultato che genera un profitto aggiuntivo extra tra le 70 mila e le 270 mila sterline Fanno (in base al tipo di procedura) e che ha convinto l’ospedale a estendere la metodologia a tutti i reparti. Ma come funziona il sistema? Al momento del ricovero, il paziente viene fotografato e dotato di bracciale di identificazione stampato con tag Rfid integrato. L'immagine digitale del paziente fa parte dei dati memorizzati all'interno del bracciale e viene usata per verificarne l'identità. Tutti i sanitari coinvolti negli interventi sono dotati di terminali palmari wireless che consentono di visualizzare in ogni momento tutti i dati relativi alle operazioni e ai pazienti. Basta avvicinarsi al paziente con il pda per identificarlo correttamente mediante visualizzazione della foto incorporata nel bracciale oppure mediante scansione del tag. Le verifiche pre-operatorie del paziente vengono registrate nel pda, per aggiornare i dati sull'intervento in tempo reale. Un sistema di segnalazione a semaforo integrato nei dati del paziente passa da rosso a verde per indicare che tutte le verifiche necessarie prima dell'intervento sono state portate a termine. Nel momento in cui il malato raggiunge la sala operatoria, il lettore lo identifica mediante il tag Rfid e tutte le informazioni necessarie vengono recuperate e visualizzate sullo schermo, unitamente alla procedura chirurgica pianificata L'efficienza in sala operatoria viene automaticamente misurata, perché ogni fase dell'intervento è registrata con l'indicazione della data e dell'ora; la procedura è codificata dal chirurgo che esegue l'intervento per incrementare l'efficienza e ridurre ulteriormente i tempi amministrativi. Oltre a garantire la sicurezza e l'efficienza delle procedure chirurgiche, il nuovo sistema può essere impiegato per supportare altri tipi di procedure, quali il calcolo dei rischi di trombosi venose profonde, la fase di ricovero, di dimissione e trasferimento, così come qualsiasi altra procedura che richiede la verifica dell'identificazione del paziente. Analogamente, il sistema può essere utile per monitorare le infezioni collegate ai pazienti, ai letti e al personale. Inoltre, se una biopsia o un'analisi viene effettuata in sala operatoria, è possibile . stampare direttamente l'etichetta corretta con i dati del paziente per evitare errori di etichettatura dei ' campioni. In Italia qualche ospedale utilizza i braccialetti Rfid nei reparti di ostetricia, per identificare con certezza la madre e il proprio piccolo. Ma la frontiera sanitaria dell'Rfid è ancora tutta da esplorare. ____________________________________________________________________ Corriere della Sera 26 Apr. ‘08 USA, LA RICERCA DIVENTA «LOW COST» Dopo la società post-industriale, tocca ora alla società post-scientifica: imprese e laboratori americani hanno cominciato a colmare il gap tra la ricerca di base e il trasferimento dei suoi risultati in un nuovo prodotto innovativo, affidando una parte del lavoro agli scienziati low cost di Paesi asiatici con buone università come l' India o Singapore. Anche qui, come per i casi di «delocalizzazione» di industrie e di outsourcing di servizi trasferiti al di là del Pacifico, c' è chi teme una progressiva «desertificazione» dell' America: non più solo perdita di posti di lavoro manifatturieri e nel terziario, ma anche nella ricerca, che è stata fin qui il cuore del successo del made in Usa. Eppure, con la globalizzazione che avanza nonostante timori e critiche, questo è sicuramente un elemento positivo: se il costo della scienza sale, lo spostamento di un pezzo della ricerca all' estero aiuta i creatori americani di nuovi prodotti e nuovi servizi a restare leader dei loro mercati. Del resto, da tempo gli Usa temono di non riuscire più a produrre un numero di «cervelli» - matematici, fisici, biochimici, ingegneri - sufficiente. «Non dobbiamo avere paura: è così che arrivano anche da noi i benefici della crescita tecnologica dell' Asia», nota Patrick Windham, docente di sistemi tecnologici a Stanford. E' il meccanismo che consente, ad esempio, alla Seagate Technology di restare leader mondiale del digital storage (gli hard disk dei computer): la ricerca dei suoi laboratori di Pittsburgh è sempre più integrata con quella commissionata a Singapore. Questa società post-scientifica o, se preferite, il low cost applicato alla scienza, è un segno di vitalità del sistema economico americano, così come lo è - per fare un altro esempio - il successo dei sistemi di welfare to work: la gestione attiva degli esuberi che vengono reindirizzati verso il mercato del lavoro limitando al massimo i tempi di «parcheggio». Meccanismi di «assistenza dinamica» introdotti durante la presidenza di Bill Clinton che hanno un successo tale da indurre molti altri Paesi - dalla Gran Bretagna all' Olanda, dai Paesi scandinavi all' Australia - a imitarli: il welfare to work sta divenendo un business globalizzato di agenzie internazionali che indirizzano i lavoratori verso nuove specializzazioni con più efficienza di quanto non facciano gli enti pubblici dei singoli Paesi. L' America superindebitata, con le banche in crisi e la Riserva Federale costretta a un intervento di salvataggio senza precedenti, sembra ad alcuni un Paese nel quale il liberismo è ormai arrivato al capolinea. Negli anni scorsi sono stati di certo commessi errori gravi: «eccessi di mercatismo», per citare un' espressione divenuta comune, di cui è responsabile soprattutto l' amministrazione Bush che non ha usato i suoi poteri regolatori in nome di un' interpretazione ideologica e un po' caricaturale del liberismo. La loro correzione richiederà tempo e avrà costi molto alti. Ma, sotto questa patina grigia, le forze del mercato continuano a muoversi con dinamismo e creatività. massimo.gaggi@rcsnewyork.com Gaggi Massimo __________________________________________________________________ Espresso 01 Mag. ‘08 ELETTRICITÀ SENZA FILI Alimentare e o ricaricare telefonini solo attraverso onde radio. evitando cavi, spine e intralci. E l’ultima sfida della ricerca. Ecco come funzionerà DI FEDERICO FERRAZZA Nikola Tesla l'aveva sostenuto più di un secolo fa: trasferire elettricità senza ricorrere ad alcun cavo è possibile. Lo scienziato croato, che ha passato gran parte della sua esistenza negli Stati Uniti, aveva provato più volte a dimostrarlo. Tesla, infatti, non riusciva a immaginarsi un mondo ricoperto di fili che trasportassero elettricità in ogni angolo del pianeta. Così pianificò la costruzione della Wardenclyffe Tower, una torre alta 57 metri che sarebbe dovuta nascere a Long Island. New York, utile per esperimenti che provassero la trasmissione di energia elettrica dalla sua cima fino a terra. La costruzione, però, non fu mai terminata (e in seguito venne smantellata durante la Prima guerra mondiale) per gli investimenti elevati di cui necessitava e per la bancarotta finanziaria in cui fini lo stesso Tesla. Ma oggi, a più di un secolo di distanza, i costi della tecnologia e dei materiali si sono abbassati e sono diversi i progetti (alcuni già sul mercato) per il trasferimento wireless (senza fili) di elettricità. I tempi sono quindi maturi. Tanto che la prestigiosa rivista "Technology Review„ del Mit di Boston ha messo la WiTricity, neologismo per indicare la "wireless electriciry", fra le dieci tecnologie emergenti del 2008. Ma a cosa serve la WiTricitv? I ricercatori e le aziende che ci stanno lavorando non pensano, come Tesla, di sostituire i cavi che ci portano in casa l'elettricità con un sistema di alimentazione senza fili. L'obiettivo è infatti ricaricare dei dispositivi elettrici mobili. Il primo esempio che viene in mente è quel[o di telefonini, palmari, lettori mp3, videocamere e così via. Non è un caso, dunque, che le prime aziende a commercializzare dei caricabatterie senza fili puntino proprio a questo mercato. La società Powercast con sede a Ligonier in Pennsylvania ha sviluppato una soluzione proprio per alimentare questo tipo di oggetti. Che però devono essere prima modificati. Non ricorrendo a fili, infatti, la trasmissione di elettricità avviene attraverso onde radio. II dispositivo ricaricato deve quindi essere munito di un'antenna ad hoc per poter ricevere l'energia. L'antenna altro non è che un ricevitore da installare all'interno dell'oggetto. «II trasferimento di elettricità senza fili funziona in maniera simile a ogni altra trasmissione a onde radio», spiega Roberto Massola, amministratore unico della R. M. Sistemi Elettronici, un'azienda di Avigliana (Torino) che sta sviluppando alcuni progetti nel campo della WiTricity: «Da una parte c'è un oggetto primario che emette energia e dall'altra ce n'è uno secondario che invece la riceve. Entrambi devono avere delle antenne per dialogare e trasferirsi l'elettricità. Di solito l'oggetto primario lavora a una frequenza e a una tensione più alte. Per questo il dispositivo che riceve l'energia è anche dotato di un sistema elettronico in grado di adattare l'energia che riceve alle sue esigenze». Una delle prospettive più interessanti legate alla WiTricity è il risparmio di energia dovuto proprio all'elettronica usata nei due dispositivi, il fornitore e il ricevitore di elettricità. Quest'ultimo, infatti, è in grado di chiedere in automatico l'energia di cui ha bisogno, con conseguente risparmio fra il 20 e il 40 per cento», continua Massola. Ma queste performance si ottengono se l'oggetto da ricaricare è molto vicino (qualche millimetro) alla fonte di energia. Ma se invece si tratta di distanze più ampie, di qualche metro? Ad aver trovato una soluzione, seppur ancora in fase sperimentale, è stato uno dei principali teorici della WiTricitv, Marin Soljacic, scienziato che lavora presso il Mit di Boston. È stato il suo team a condurre i principali esperimenti negli ultimi anni. Uno dei suoi studi più recenti è stato pubblicato lo scorso anno su una delle bibbie della scienza: la rivista statunitense "Science". Nel test portato avanti dalla équipe di Soliacie si dimostrava come era stato possibile alimentare senza fili una lampadina da 60 watt con una fonte di energia distante oltre due metri. Niente di nuovo rispetto ai suoi esperimenti precedenti, se non per il fatto di ridurre al massimo il dispendio di energia. Un aspetto da non sottovalutare. Per capire il perché basta citare la trasmissione delle tradizionali emittenti radiofoniche che disperdono nell'ambiente un'enorme mole di onde "superflue". Se così non fosse non potremmo ascoltare la radio in automobile la cui antenna capta il segnale in tutti i punti attraversati dalla vettura. Nella trasmissione di elettricità, però, tutto questo non serve, visto che (perora) non si ha intenzione di alimentare oggetti in movimento. Soljacic ha quindi trovato il sistema di trasmettere in modo efficiente energia elettrica a distanza, riuscendo a direzionarla in maniera precisa. Come? Usando due dispositivi risonanti, cioè in grado di lavorare alla stessa frequenza. In questo modo azionando il primo, il secondo (la lampadina) ha ricevuto elettricità per induzione magnetica. L'interazione fra i due oggetti, però, non coinvolge più di tanto il resto dell'ambiente circostante, disperdendo pochissime onde elettromagnetiche e non provocando, quindi, possibili danni alla salute delle persone. La soluzione di Soljacic non è ancora pronta per entrare sul mercato. Ecco perché alcune società hanno pensato a delle strategie alternative. Strade meno comode, ma che comunque danno l'idea delle potenzialità della WiTricity. È il caso della WildCharge e della Splashpower. Queste aziende commercializzano a meno di 60 dollari dei tappetini, simili a quelli per il mouse del computer, da collegare alla rete elettrica e su cui appoggiare il cellulare o il lettore mp3 per ricaricarli. Per farlo serve un adattatore (la WildCharge lo vende a 35 dollari) da collegare alla batteria del dispositivo per consentirle di catturare energia dal tappetino. La WiTricity può quindi servire anche a ridurre il numero di caricabatterie che possediamo per tutti i nostri gadget elettronici. Non solo. Come è nella visione della PowerCast, infatti, possedendo un sistema di elettricità senza fili in casa oppure in ufficio si potrebbe avere il telefonino, il computer o qualsiasi altro device sempre carichi, aumentando anche all'infinito la durata delle loro batterie. Inoltre, anche gli oggetti che di solito non sono sempre in movimento, come il televisore o il lettore dvd, non richiederebbero più cavi per la loro alimentazione. In pratica lo scenario disegnato dalla WiTricity è molto simile a quello delle reti Wi-Fi: punti di accesso collegati fisicamente alla rete elettrica che distribuiscono energia senza fili in un raggio d'azione più o meno ampio. Per questo non sono solo delle aziende come la WildCharge, la Splashpower o la PowcrCast a occuparsi di questa tecnologia. A lavorarci ci sono anche i big dell'elettronica di consumo come Philips. Le prospettive della elettricità wireless non coinvolgono esclusivamente il mercato della econsumer electronics. A guardare con interesse alla tecnologia sono anche le aziende del settore automobilistico. Quando infatti sarà definitivamente decollato il business delle auto elettriche, la Wi-Tricity potrebbe tornare comoda: non servirà collegare fisicamente la vettura alla rete elettrica né a casa né arrivati in un eventuale distributore. E poi ci sono tutte le applicazioni industriali», afferma Massola: se nelle fabbriche i macchinari o i robot fossero alimentati da elettricità senza fili, sarebbero molti i vantaggi, I cavi, per esempio, non si usurerebbero, eliminando i costi di manutenzione. Inoltre L'assenza di fili renderebbe tutti i processi più veloci». Per arrivare a uno scenario del genere occorre risolvere ancora qualche problema. Il primo: trovare un sistema di areazione efficiente che raffreddi le antenne quando sono impiegate per intervalli prolungati di tempo. Poi bisognerà aumentare la potenza. Oggi, infatti, alimentare senza fili un dispositivo come la lampadina usata nell'esperimento di Soljacic è piuttosto facile. Non è altrettanto semplice quando la potenza elettrica è superiore ai mille watt. Risolti questi problemi, la WiTricity non sarà più solo una tecnologia emergente. __________________________________________________________________ Il sole24Ore 01 Mag. ‘08 IN INDIA L'ISTRUZIONE DIVENTA BUSINESS Nell'economia della conoscenza l'istruzione è un grande business e sperimenta nuove formule: Soprattutto in India dove la richiesta di diplomi è altissima, ma appena il 7% dei ragazzi tra i 18 e i 23 anni riesce a trovar posto in un'università secondo il Niepa, l'istituto nazionale per la pianificazione dell'educazione di New Delhi. La formazione avanzata è una priorità nazionale e, se non si provvede, il subcontinente potrebbe presto scontrarsi con un, "education-crunch". Una vera e propria carenza di cervelli, che si tradurrebbe in un collo di bottiglia per lo sviluppo del subcontinente: Il mercato della formazione avanzata è in crescita e gli indiani sono disposti a pagare anche cifre molto salate: Le statistiche governative indicano che ogni anno circa roomila ragazzi indiani spendono almeno 2,5 miliardi di euro per andare a studiare all'estero. Qui sono già 131 le università straniere, americane e britanniche in testa, ad aver avviato collaborazioni con centri locali. Una legge per il riconoscimento nazionale dei titoli degli istituti stranieri è pronta dal 2006, ma arenata in Parlamento sulle secche della sinistra di Governo che la vede come un attacco culturale all'India. Ciò non ha però impedito la penetrazione degli istituti stranieri in tutto il Paese. L'istituto di management di Hyderabad propone programmi di formazione continua in collaborazione con Harvard; Oxford ha annunciato la creazione, entro il 2009 di un istituto indiano per l'economia in joint-venture con la Btp Hindustan construction company. Per gli istituti occidentali è un modo di entrare sul mercato di milioni di studenti, ma anche di imparare come trasmettere conoscenze avanzate a grandi numeri di studenti in una delle economie più dinamiche del mondo, con settori così diversi come il micro-manifatturiero e l’hi-tech. Per gli indiani gli investimenti stranieri sono un ottimo modo di far fronte agli scarsi investimenti in istruzione (appena lo 0,37% del Pil contro l’1,41% degli Usa), ma anche per alzare il livello dei diplomati: Solo un quarto dei 3oomila ingegneri diplomati ogni anno dagli atenei indiani avrebbe infatti il livello di i preparazione richiesto da molte grandi aziende. Gli investimenti stranieri sono una boccata d'ossigeno secondo gli esperti del Niepa, ma guai a rinunciare agli investimenti pubblici in istruzione. Senza di essi si rischia solo una commercializzazione più spinta del settore, senza un reale aumento della competitività del Paese: (gu, ro.) __________________________________________________________________ Il sole24Ore 01 Mag. ‘08 ROBOT: LO SPECCHIO DELL'INGEGNERE Il boom delle tecnologie sociali, quelle che aiutano l'uomo, e sono a forma di uomo. Per far fronte all'esercito di anziani Un robot genera conoscenza: Sia il manichino antropomorfo sia il braccio meccanico sono strumenti. Che promettono di fornire risposte di assistenza DI LUCA TREMOLADA Cosa è un robot umanoide? Ebbi l'onore di chiederlo direttamente a Shigeo Hirose, ovvero a colui che qui in Giappone è ritenuto un genio e un visionario della robotica. Ricordo che lo avvicinai al termine di un convegno al Tokyo Institute of Technology. Lui ci pensò un po' e poi mi rispose: ci sono due approcci. Sedevo lavare i piatti non costruisco un robot umanoide. Ma una lavastoviglie. Se invece voglio generare conoscenza e con essa capire cosa è e come funziona l'uomo, allora costruirò un robot». Di fronte al padre della moderna robotica c'era Massimiliano Zecca, 34 anni, ricercatore nei Takanishi Lab di Waseda, la più prestigiosa università privata del Giappone. Con lui, anzi chi lo ha accompagnato e présentato a Hirose, c'era Michele Guarieri, assistant professor al Tokyo Institute ofTechnology e ricercatore al laboratorio di robotica Hirose&Fukushima. Coetanei, uno pisano e l'altro mantovano, entrambi hanno lasciato l'Italia per il Giappone, entrambi lavorano sui robot; ma su due tipologie completamente diverse. Guarnieri si occupa di robot specializzati nelle emergenze, a forma di ragno ,o di serpente, studiati per disinnescare mine o scavare nelle macerie per trovare superstiti. Massimiliano invece studia i robot umanoidi, in particolare sta lavorando sulle emozioni, o meglio delle interazioni uomo-macchina. , «I nostri robot sono completamente diversi da quelli di Michele - racconta Zecca -. Hanno un aspetto antropomorfo e agiscono come essere umani. Per esempio, il mio gruppo sta lavorando a una macchina capace di camminare e di interagire con l'uomo trasmettendo e simulando emozioni». La descrizione dei robot allo studio all'Università di Waseda fa pensare a sistemi evoluti di assistenza quotidiana, a tecnologie sociali per aiutare l'uomo, fatte a forma di uomo. La distanza tra questi manichini automatici e i ragni meccanici di Guarnieri sembra incomabile. Eppure qualche cosa ce l'hanno in comune. «Sono entrambi strumenti - racconta il ricercatore del Tokyo Institute of Tecliology -. Nel nostro caso è ancora più evidente perché si tratta di macchine controllate interamente dall'uomo. Forse per questo io, a differenza di altri che si occupano di umanoidi, quando penso a un robot, lo immagino scomposto nelle sue parti principali. Vedo i giunti, il motore, i microprocessori, le batterie, i sensori, le telecamere...». Sguardo da ingegnere, verrebbe da chiosare. Eppure, racconta Guarnieri, la maggior parte di coloro che si occupano di robot umanoidi ne parla come se fossero esseri umani. E non parliamo solo dei tecnici. «A Capodanno- ricorda il ricercatore mantovano –ho visto una ragazzina giapponese che faceva vedere i fuochi artificiale al suo robottino- cane Aibo. Più in generale qui c'è una passione e una attesa per gli automi unica in tutto il mondo». Eppure, i robot non nascono nelle terre del Sol Levante. Perché allora solo qui si investono soldi e risorse in queste macchine tanto da prevedere a breve un futuro popolato da badanti automatiche, pazienti artificiali, portinai meccanici? «Innazitutto è bene chiarire che prima di vedere una badante meccanica per casa passeranno ancora molti anni-osserva Zecca-. Le nostre macchine funzionano per o in contesti e con funzioni molto specifiche. Tuttavia, per capire cosa sono i robot e perché hanno scelto il Giappone per evolversi occorre fare qualche passo indietro». La parola robot, mi spiega Zecca, deriva dal termine ceco "robota", che significa "lavoro pesante" o "lavoro forzato". L'introduzione di questo termine si deve allo scrittore ceco Karel Capek, il quale usò per la prima volta il termine nel iqao nel suo dramma teatrale "R.U.R. - I robot universali di Rossum". Insomma, il robot non appartiene solo alla cultura orientale. «Anzi, direi il contrario. Duecento anni fa circa - racconta Zecca-la tecnologia dell'epoca permise di costruire i primi giocattoli meccanici. Nel Vecchio Continente troviamo decine di esempi di questo tipo: dal flautista all'anatra meccanica. In seguito, però, le creature meccaniche iniziarono a essere viste come qualcosa di più che dei semplici giocattoli, generando così paure e tensioni sociali ben espresse dal racconto su Frankenstein (i8i8)». E mentre in Europa fece breccia l'idea che gli esseri umani sarebbero stati rimpiazzati dalle loro creazioni, in Giappone l'idea del robot piacque subito. Il robot fu percepito come un amico dell'uomo, e non una aberrazione o un insulto a Dio. Ad esempio "Astro Boy" (Tetsuwan Atom - Atom dal pugno di ferro), il primo cartone animato sulla robotica, creato dal famoso Osamu Tezuka nell'aprile yga, è un bambino robot dai sentimenti umani, frequenta la scuola come gli altri bambini e lotta contro molti nemici per difendere la Terra e i suoi abitanti. «Da Astro Boy in poi - spiega il ricercatore italiano-, tutti i cartoni animati giapponesi hanno sempre visto i robot come amici. Merito anche della cultura nipponica e della religione fortemente animista e popolata da spiriti. Per i giapponesi la vita appartiene agli uomini come agli oggetti. Mentre l'idea che una creazione dell'uomo possa essere un affronto alle prerogative di Dio appartiene invece a una certa cultura cristiana». Da qui la via Giapponese al robot. Un po' servo, un po' amico, il robot personale si dovrà occupare non solo dei bisogni fisici della persona, ma anche di quelli psicologici. In questo modo le persone possono rimanere attive molto più a lungo, contribuendo quindi al benessere della società. Questa la visione condivisa in estremo oriente e la promessa, che Governo e istituti di ricerca pubblici e privati stanno portando avanti dalla Seconda guerra mondiale. Ma non c'è solo 1a promessa di un assistente meccanico personalizzato e personalizzabile. C'è anche un'altro significato. Che discende proprio dalle parole del professor Hirose. I robot oggi sono tecnologie sociali che promettono di fornire risposte in termini di assistenza a una popolazione composta sempre di più da anziani. Ma soprattutto sono anche un formidabile pretesto per comprendere e capire meglio l'uomo. «Costruire un automa significa guardare all'uomo con gli occhi dell'ingegnere. Per simulare una emozione- racconta il ricercatore - occorre capire cosa succede quando ci emozioniamo. Costruire una macchina che cammina significa capire come camminiamo noi». Forse è proprio così, costruire un robot è un punto di vista. Oppure, un pretesto per guardare all'uomo. IN OSPEDALE CHIRURGO, ANESTESISTA, INFERMIERE E PAZIENTE Opera, visita:.e si finge malato DI AGNESE CODIGNOLA E LUCA SALVIOLI Sempre più robot affiancano i medici in carne e ossa. In entrambe le vesti: come pazienti o come colleghi. Oltre all'ormai famoso Da Vinci, il chirurgo robotico che opera anche in decine di centri italiani per asportare tumori, calcoli e altro, in sala operatoria potrebbe arrivare presto l'anestesista robotico: una sperimentazione internazionale su oltre 200 pazienti ha mostrato che il robot è in grado di monitorare le funzioni vitali e intervenire come lo specialista per modulare i farmaci. Inoltre, sono allo studio tutori e mani robotiche ancora più raffinati; in corsia, invece, potrebbe essere Star Wars R2D2, alias Dr. Robot, a svolgere le funzioni del medico. Il prototipo, messo a punto al Johns Hopkins Hospital di Baltimora, ha uno schermo piatto e una videocamera per permettere al medico di parlare con il malato. In più cammina, parla e dispensa farmaci; al Mount Sinai Hospital hanno usato un robot simile per assistere più di cento operati, con significative riduzioni dei giorni di ricovero. Infine, molti robot stanno entrando nella riabilitazione post ictus o in quella delle lesioni spinali. E àncora. AL SimuLearn di Bologna (unico caso europeo insieme a Tubinga, in Germania) i robot sostituiscono i pazienti per la sperimentazione clinica. L'ultimo arrivato è Harvey, realizzato dall'Università di Miami. Simula 50 patologie. «Il futuro è l'addestramento dei medici in simulazione - spiega Fabio Belluzzi, specialista in cardiologia e docente all'Università degli Studi di Milano -come avviene in aviazione nella preparazione dei piloti». Belluzzi da quattro anni lavora al SimuLearn e tra poco farà lo stesso a Milano, dove nascerà un centro simile al Policlinico, con l'Università di Milano. Come funziona? Grazie al lavoro ingegneristico e a software dedicati. I medici sono assistiti da un'infermiera professionale. Gli istruttori gestiscono i parametri clinici in regia, collegati a chi si trova di fronte al robot con gli auricolari. «Ci concentriamo prevalentemente sulle aritmie-spiega Belluzzi-. Ne12oo7hanno partecipato 5.80o medici. Si arriva a ricostruzioni estremamente realistiche». L'oggetto è l'uso corretto della posologia, dei farmaci e delle apparecchiature medicali. Per ridurre gli errori. Soprattutto in cardiologia, nelle anestesie e in ortopedia. SORVEGLIA, PULISCE E TIENE COMPAGNIA DI AGNESE CODIGNOLA S r chiama uBot-5, e sarà forse il più fedele collaboratore dei T-/ milioni di americani (e di molti altri milioni di persone in tutto il mondo) ex baby- boomers che entreranno nella terza età nei prossimi 3o anni, perché i ricercatori dell'Università del Massachussetts lo hanno fornito di tutto quello che è necessario per assistere in ogni momento un anziano che vive da solo. UBot-5 è infatti in grado di comporre il numero dell'emergenza telefonica, del medico e dei familiari, se il suo padrone cade o se, dopo avergli mostrato come fare, questi non mostra una risposta motoria (per esempio il sollevamento di un arto); può applicare uno stetoscopio collegato via internet con il centro di emergenza; grazie a un'interfaccia video Lcd, a un touch screen e a una web cam permette una comunicazione 24. ore su 24, con i parenti nonché, a questi ultimi, di controllare che tutto sia a posto; sgombera il percorso dell'anziano da eventuali ostacoli abbandonati, che identifica con un sensore; porta fino a un chilogrammo di spesa alla volta; si occupa delle pulizie, del giardinaggio, delle piccole spese e di molte altre incombenze, a seconda del tipo di modello. UBot-5, inoltre, che è stato sviluppato nell'ambito del progetto Assist, non vuole supplire agli aspetti affettivi dell'esistenza dell'anziano, ma agevolarli, per esempio se il parente abita in un'altra città, e contribuire a mantenere il più a lungo possibile l'autosufficienza. Potrebbe invece imparare anche a parlare iCub, il robot intelligente ideato dal consorzio europeo Italk, la cui intelligenza è impostata per reagire come quella di un bambino che apprende. Nel frattempo, a tenere compagnia a coloro che vivono soli, potrebbe pensarci un cane robotico come Aibo della Sony, o Sparky, ideato dagli ingegneri dell'Università di Saint Louis,che hanno anchev erificato l’effetto della pettherapy robotica su una quarantina di anziani in casa di cura. I partecipanti sono stati assegnati a uno dei due modelli meccanici, oppure a un cane vero, e dopo due mesi, secondo quanto riferito sul « Journal of the American Medical Directors Association», non è emersa alcuna differenza nei tre gruppi quanto a diminuzione della sensazione di solitudine e attaccamento all'animale. ESPLORATORE, MA ANCHE SOLDATO DI ANDREA CAROBENE Il prossimo 13 maggio l'Orchestra sinfonica di Detroit sarà guidata da un direttore d'eccezione: il robot Asimo di Honda. 2 la prima volta che l’androide di rao cm si esibisce in una sala da concerti, ma il risultato sarà probabilmente buono. Oggi i robot saltano, corrono, giocano a calcio e sanno ballare, così come l'italiano Xbot, della Nuzoo. L'impiego degli automi non è riservato solo ad attività ludiche, ma è soprattutto diretto allo svolgimento di tutte quelle azioni pericolose, faticose o impossibili per l'uomo. Da quando nel 1961 General Motors introdusse l'automa Unimate per lavorate con dischi incandescenti di metallo pressofuso, fuso di robot nell'industria metalmeccanica è divenuto una costante. Nella maggior parte dei casi si tratta di macchine non autonome e che reagisco no poco agli stimoli ambientali. Tuttavia, il loro impiego è prezioso nei settori della verniciatura, dell'assemblaggio, o in tante attività ripetitive. Un campo che ha beneficiato enormemente dei robot è quello dell'esplorazione, per scandagliare i fondali marini, per avventurarsi in prossimità dei coni vulcanici o per "passeggiare" sui pianeti, così come avviene per i due rover della Nasa Spirite Opportunity, che si trovano su Marte dal gennaio 2004. Progettati per un'attività di soli tre mesi, hanno dimostrato un sorprendente attaccamento alla "vita" e sono ormai in attività da oltre quattro anni! La Natura sembra essere la fonte maggiore di ispirazione per chi progetta robot: sono così stati realizzati «robot serpenti» per muoversi agevolmente sul terreno o «robot pesci» per l'esplorazione dei mari. L'ultimo in ordine di apparizione è un «robot granchio» progettato all'Università di Bath: un automa che ha tra le sue caratteristiche quello di essere costruito con i mattoncini Lego Technic. Un uso particolare dei robot è quello militare. Aeroplani teleguidati, gli «Unmanned Aerial Vehicle», sono usati comunemente in guerra per esplorare i territori nemici. In Iraq e in Afghanistan viene usato il PackBot della iRoUot equipaggiato con videocamere, puntatori laser e altri sensori, e che in alcune versioni riesce anche a scoprire esplosivi nascosri. Il robot di 1,8 metri Bear (Battlefield Extraction-Assist Robot) è invece stato progettato, sempre dall'esercito Usa, per soccorrere i soldati feriti e trasportarli al riparo. Perché i robot possono soprattutto salvare vite umane, ed è per questo che all'Università di Manchester stanno sviluppando un automa scavatore capace di estrarre le persone da sotto le macerie. CONOSCI TE STESSO ATTRAVERSO I ROBOT DI LETIZIA GABAGLIO Studiare i robot per studiare l'essere umano. E viceversa. Secondo Yoshiko Nakamura, professore di meccano-informatica all'Università di Tokio, non esiste una scienza più umano-centrica della robotica. «Lo studio dei robot porta a indagare prima di tutto la natura della creatura umana: i molti gradi di libertà dello scheletro, i diversi attuatori del sistema muscolare, un numero incalcolabile di sensori negli organi di senso sono alcuni fra gli oggetti della ricerca robotica che fanno apprezzare la straordinaria macchina complessa che è l'essere umano», spiega il ricercatore giapponese a Nòva24. Comprenderne il comportamento, analizzarne i linguaggi, scoprire il segreto dell'intelligenza intesa come la capacità di far interagire fra loro i sistemi complessi che compongono l'organismo non è una sfida che la robotica può affrontare in solitudine. Fisiologia, biologia, medicina, psicologia e ingegneria, ma anche filosofia e storia devono contribuire alla sfida, e la robotica può restituire il favore in termini di nuove conoscenze utili anche in queste discipline. «Fin dai suoi esordi la robotica è stata una scienza centrata sull'uomo, ma oggi questo è ancora più vero perché siamo arrivati a un punto cruciale nella storia della ricerca ih questo campo», afferma Nakamura. Che si sia di fronte alla svolta lo testimonia l'interesse di numerose aziende che investono capitali nei laboratori di Nakamura: Toyota, Olympus, Sega, Fujitsu; Mitsubishi e altri contribuiscono per metà al budget del progetto Irt (Information and robot technology) che vede cinque gruppi di lavoro impegnati per io anni nella realizzazione di robot umanoidi in grado di aiutare gli anziani in casa, i clienti in un grande magazzino, gli impiegati in ufficio. E quindi, prima di tutto, capaci di comunicare e interagire con gli umani nei loro stessi spazi. «Ecco perché i robot dovranno essere forzatamente antropomorfi, anche se questa scelta complica il lavoro dei ricercatori. gli spazi all'interno dei quali dovranno muoversi sono pensati per gli umani, e noi, da parte nostra, siamo abituati a interagire con esseri simili a noi, in fattezze e comportamento», continua Nakamura. Cercare di comprendere l'intelligenza umana è oggi quindi sempre più importante non solo da un punto di vista squisitamente scientifico, ma anche perché i robot che in futuro lavoreranno fianco a fianco con gli umani dovranno interpretare, anche se all'inizio solo a un livello primitivo, il modello simbolico sulla base del quale gli umani si esprimono. L'obiettivo è dunque chiaro: costruire la comunicazione fra robot e umani. E non solo attraverso la codifica del linguaggio, ma anche del movimento di tutto il corpo. È con questo infatti che gli uomini comunicano in maniera completa e ricca, facendo arrivare a chi sta intorno a loro un complesso di segnali che compongono il significato che si vuole trasmettere. È un sistema simbolico complesso che va codificato e reso accessibile alle macchine. «Nel nostro laboratorio abbiamo deciso di concentrarci proprio su questo aspetto: riuscire ad analizzare il movimento degli essere umani, farne un modello matematico e con l'aiuto della statistica implementarlo su robot che siano in grado di riprodurre quel movimento e, cosa più importante, di riconoscerlo negli umani» spiega Nakamura. Allo scopo i ricercatori sono riusciti a segmentare diversi tipi di movimento umano -in particolare quello di un uomo che cammina, fa stretching, balla, calcia-, e ne hanno individuato tutti i parametri fisici che, elaborati, hanno dato vita a modelli di movimento da implementare sulle macchine: in questo modo i robot da una parte sono in grado di muoversi in maniera simile agli umani, dall'altra riescono a decifrarne il movimento. Allo stesso modo il gruppo di Nakamura ha costruito modelli della rete muscolare e del sistema scheletrico. E poi ancora, ha passato al setaccio i movimenti di una persona nella sua vita quotidiana ricavandone roo parametri indipendenti di informazione motoria. Il flusso delle conoscenze passa quindi dall'uomo al robot, ma fa anche il percorso inverso. L'attenzione che la robotica dedica a comprendere i sofisticati meccanismi che governano il corpo umano e le scoperte che ne possono derivare possono rappresentare un contributo di conoscenza per settori come la medicina, la fisiologia, la diagnostica. Così i programmi sviluppati da Nakamura potranno essere usati anche nella riabilitazione dopo gli infortuni o per allenare gli atleti. Ma l'applicazione su cui si investono maggiori risorse rimane quella dell'assistenza alle persone anziane: l'invecchiamento della popolazione, problema fortemente sentito in Giappone, sta infatti spingendola ricerca a trovare soluzioni in tempi brevi. «La tecnologia robotica deve riuscire prima di tutto ad aiutare gli umani nella loro vita di tutti i giorni; deve aumentarne la forza e la destrezza, ma anche la memoria. Per vivere insieme, umani e robot devono avere esperienze simili; i robot dovranno sentire e vedere come e più dell'uomo così da poter immagazzinare una quantità enorme di dati e quando sarà necessario aiutare la memoria degli uomini. In io anni speriamo di dare all'industria dei prototipi che poi essa potrà cominciare a produrre su larga scala. Tra 20 anni quindi avere in casa un robot maggiordomo sarà normale e i computer saranno embedded in tutte le case, computer invisibili disseminati ovunque intorno a noi, in casa, in ufficio». Le parole di Nakamura dipingono un futuro che può sembrare ancora lontano, ma che nei laboratori giapponesi è quasi realtà. ____________________________________________ L UNIONE SARDA CAGLIARI 26 Apr. 06 CISAL UNIVERSITÀ, ORGANI RINNOVATI Il congresso nazionale del Coordinamento sindacale autonomo (Csa) della Cisal Università ha confermato Arturo Maullu, di Cagliari, segretario generale nazionale del Coordinamento dei Sindacati autonomi universitari. Oltre a Maullu, le università di Cagliari e Sassari hanno avuto eletti nel Consiglio direttivo nazionale i professori Andrea Loviselli, Michele Meloni, Vincenzo Piras, Giulia Farci e Valerio Mais. ======================================================= ____________________________________________________________________ Il sole24Ore 5 Mag. ‘08 ENTRANO IN VIGORE I NUOVI LEA Il Dpcm firmato dal presidente del Consiglio e dai ministri della Salute e dell'Economia Nomenclatori al via dopo i tariffari - Monitoraggio stretto sui costi P.D.B. All'ultimo metro della legislatura e con il Governo Berlusconi-quater alle porte di palazzo Chigi i nuovi livelli essenziali di assistenza hanno tagliato la scorsa settimana il traguardo. E con le firme al Dpcm che li istituisce di Romano Prodi , Tommaso Padoa-Schioppa e Livia Turco fanno il loro ingresso sulla scena sanitaria sostituendo il precedente decreto del 2001, firmato in qual caso proprio da Silvio Berlusconi . Obiettivo del restyling, deciso dal Patto per la salute del 2006 da Governo e Regioni è dare la certezza del diritto ad avere pari prestazioni e pari servizi in tutta Italia. «La Sanità è gestita e organizzata autonomamente dalle Regioni - ha commentato il toscano Enrico Rossi , capofila degli assessori - come prevede la Costituzione, ma nello stesso tempo è una sola per i diritti e i doveri del cittadino e delle istituzioni. Per questo le Regioni hanno condiviso l'aggiornamento dei Lea, impegnandosi in un attento monitoraggio dei loro effetti sul piano della razionalizzazione e dell'appropriatezza della spesa». «I nuovi Lea - ha commentato il presidente dei governatori, Vasco Errani (Emilia Romagna) contengono l'aggiornamento delle prestazioni garantite dal Ssn, cogliendo le innovazioni scientifiche e tecnologiche e valorizzando i servizi territoriali e domiciliari, con una maggiore integrazione sociale e sanitaria». Con i nuovi Lea sono stati ridefiniti i campi di azione dell'assistenza sanitaria pubblica: oltre 5.700 tipologie di prestazioni e servizi per la prevenzione, la cura e la riabilitazione (v. Il Sole-24 Ore Sanità n. 12 e 13/2008 e per il testo integrale www.24oresanita.com) . A tenere in stand by il provvedimento è stato fino all'ultimo il dubbio dell'Economia sulla copertura economica, quantificata dalla Salute in 1,17 miliardi legati alla ventata di appropriatezza sui ricoveri ospedalieri, ma che secondo i tecnici di Padoa-Schioppa non avrebbero garantito la copertura degli aumenti di spesa legati a esempio ai nuovi tariffari per la specialistica e la protesica. Così, una volta agganciata l'entrata in vigore di questi alla definizione preventiva delle loro tariffe e stabilita la necessità di un monitoraggio serratissimo sui costi e sull'applicazione del provvedimento perché nessuno "scappi" dalle misure previste, l'Economia ha sciolto le riserve e il Dpcm ha avuto via libera. Oltre alle novità riportate in tabella, i nuovi Lea prevedono a esempio la fornitura gratuita di prodotti aproteici ai nefropatici cronici non più affidati alla discrezionalità delle singole Regioni. O anche l'inserimento tra le prestazioni di laboratorio di prestazioni per la diagnosi o il monitoraggio di malattie rare. Poi per i portatori di gravi disabilità l'introduzione di nuovi ausili informatici di comunicazione e di controllo ambientale, ausili per la mobilità personale, per la cura e l'adattamento della casa e apparecchi acustici di ultima generazione per le persone con sordità preverbale e periverbale. In arrivo anche la revisione delle cure domiciliari suddivise per gradi di complessità e per i malati in fase terminale, la revisione dei servizi territoriali di assistenza socio-sanitaria e per i non autosufficienti sono previsti profili di cura con un crescente livello di intensità assistenziale sulla base della valutazione multidimensionale dei bisogni di cura del paziente. Le novità per l'assistenza P F M IMITI ARMACI REVENZIONE ENO CESAREI DONTOIATRIA IÙ AMBULATORIO UOVI NOMENCLATORI IAGNOSI PRECOCE ISPARMI PER 1,17 MILIARDI ALATTIE RARE O CRONICHE Ai medici di base anche la gestione ambulatoriale e domiciliare delle patologie acute e croniche R Diventano 108 (da 43) i Drg a rischio di "inappropriatezza" e si spostano in ambulatorio con ticket 24 prestazioni oggi assistite in day surgery N Per assistenza specialistica e protesica arrivano nuovi nomenclatori che però entreranno in vigore solo al momento della definizione delle relative tariffe Accanto alle farmacie Asl e Ao erogheranno i medicinali con la distribuzione diretta L Confermati limiti e condizioni di erogabilità per densitometria ossea e chirurgia rifrattiva. Gli interventi di chirurgia estetica saranno erogati solo in caso di incidenti, malattie o malformazioni congenite D Per i neonati è prevista la diagnosi precoce delle malattie congenite, della cataratta e della sordità congenite Esenzioni per 109 patologie rare. Introdotte sei nuove malattie croniche M Riduzione del parto cesareo, con soglie fissate a livello locale e procedure analgesiche per il parto naturale O Per tutti visita odontoiatrica di controllo e trattamento delle urgenze. Limiti alle prestazioni ambulatoriali P Vaccinazione Hpv, sorveglianza e prevenzione delle malattie croniche, con programmi su stili di vita e screening Tutti i numeri ? ? ? ? ? 1.010 ausili di serie 1.670 protesi su misura 190 tipi di ausili monouso 2.230 prestazioni specialistiche 20 tipi di prestazioni termali 500 classi di prestazioni ospedaliere 78 programmi di prevenzione collettiva per patologie prevenibili 10 tipologie di assistenza domiciliare e residenziale per anziani non autosufficienti 4 tipologie di prestazioni riabilitative intensive extraospedaliere 25 altre tipologie di prestazioni per soggetti appartenenti ad aree di bisogno socio-sanitario complesso (salute mentale, dipendenze, disabilità ecc). ____________________________________________________________________ Il sole24Ore 5 Mag. ‘08 ABORTO, È BOOM DI OBIETTORI Nella Relazione del ministero l'ultima fotografia sull'applicazione della legge 194/1978 Interruzioni in calo del 3% - Sette ginecologi su dieci fanno obiezione Marzio Bartoloni Sempre meno aborti in Italia (-3% nel 2007 rispetto all'anno prima), anche se tra le straniere continuano a crescere. Ma l'interruzione volontaria di gravidanza rischia di diventare sempre più un percorso a ostacoli: il fronte del no all'aborto tra i medici ha segnato un vero e proprio boom, ben sette ginecologi su dieci hanno scelto la strada dell'obiezione di coscienza costringendo molte donne a lunghe peregrinazioni in cerca dell' ospedale giusto. Ad aggiornare i numeri sull'applicazione della legge 194 è l'ultima relazione 2006-2007, inviata la settimana scorsa dal ministro della Salute, Livia Turco, al Parlamento. Dove emergono due facce altrettanto nitide della stessa medaglia: il numero degli obiettori di coscienza cresce nettamente di oltre il 10% tra i ginecologi (il 69,2% rispetto al 58,7% del 2003), raddoppiando al Sud con punte dell'83 e dell'84% in Campania e in Sicilia. Ma anche il Nord è sulla scia con il Veneto che ne conta il 79,1 per cento. Dall'altro lato diminuiscono gli aborti: nel 2007 le interruzioni sono state 127.038 contro i 131.018 casi del 2006 (-3%), con un crollo del 45,9% rispetto al 1982, l'anno del boom di aborti. Il calo, tuttavia, è da imputare soprattutto alle donne italiane (-3,7% rispetto al 2005), soprattutto se istruite, occupate o coniugate, mentre tra le straniere il ricorso all'aborto continua a salire (+4,5% rispetto al 2005). Sul fronte delle liste d'attesa non mancano le cattive notizie. La maggior parte delle italiane (il 56,7%) che scelgono di sottoporsi a una interruzione volontaria di gravidanza deve attendere, tra certificazione e intervento, non più di 14 giorni. Per un altro 25,4% l'attesa si prolunga fino a 3 settimane. Il 12,4% aspetta tra 22 e 28 giorni. Solo il 5,6% è costretta a valicare le 4 settimane. Questo il dato nazionale (anno 2006), come risulta dalla relazione del ministro della Salute. Ma c'è una Regione, il Veneto, in cui i tempi di attesa si dilatano. Il 42,5% delle donne venete, infatti, deve aspettare più di 3 settimane: il 23,4% tra 22 e 28 giorni, e il 19,1% oltre 28 giorni. Decisamente sopra la media nazionale anche la provincia di Bolzano (25,6% oltre i 22 giorni) e il Lazio (22,6%). «Il fenomeno dell'obiezione di coscienza andrebbe studiato e capito al di là della mera relazione statistica», spiega Amedeo Bianco , presidente dell'Ordine dei medici. «L'obiezione di coscienza è una scelta di libertà individuale incoercibile prevista dalla stessa legge 194» aggiunge Bianco che però di fronte a obiezioni di massa dell'80% ammette che può comportare «serie difficoltà». «Rimango stupito da questo aumento di obiezioni - afferma Giovanni Monni , presidente dell'associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani (Aogoi) - può darsi che il clima stia cambiando. Anche se pressioni in questo senso non ci sono, è automatico che in qualche Regione, dove c'è un assessore, o un direttore generale contrario all'aborto, indirettamente ci possano essere delle conseguenze». Nella Relazione non mancano altri dati significativi, a cominciare dal calo degli aborti clandestini: si stima che siano stati circa 15mila nel 2005 (rispetto ai 20mila dell'anno precedente). Stabile, invece, il numero degli aborti terapeutici effettuati dopo il novantesimo giorno di gravidanza, pari al 2,9% del totale. Rimane, infine, sul terreno della sperimentazione l'aborto farmacologico con la pillola Ru486: dal 2005 al 2007 sono state 2.353 le donne che hanno fatto ricorso alla cosiddetta "pillola ella discordia" e sei complessivamente le Regioni che l'hanno autorizzata (Piemonte, Trento, Toscana, Emilia Romagna, Marche, Puglia). Per il ministro Livia Turco gli ultimi dati confermano la bontà della legge 194 che ha contribuito al «cambiamento sostanziale del fenomeno abortivo nel nostro Paese». Ora il resto del lavoro tocca alle Regioni che dovrebbero puntare sulla «prevenzione per le donne straniere» e sul «potenziamento dei consultori». E soprattutto garantendo «l'attuazione della legge, anche attraverso la mobilità del personale - conclude la Turco - visto l'aumento dell'obiezione di coscienza». In questo senso la Turco aveva presentato delle linee guida per scongiurare l'obiezione di massa, ma il documento è naufragato in Conferenza Stato-Regioni per il secco no della Lombardia e della Sicilia. L'andamento dell'abortività (1978- 2007*) Obiezione per categoria professionale nel servizio in cui si effettua l'Ivg (2006) ? ? ? ? ? ? ? ? ? ? ? ? ? ? ? ? ? ? ? ? ? Puglia Sicilia Molise Trento Liguria ITALIA Veneto Bolzano Umbria Toscana Calabria Abruzzo Sardegna Lazio (**) Basilicata Piemonte Campania Regione TALIA INSULARE TALIA CENTRALE TALIA MERIDIONALE TALIA SETTENTRIONALE (*) Il dato fa riferimento al 2002; (**) il dato fa riferimento al 2001 98 56,3 128 38,1 98 6,8 1.565 65,2 1.441 41,8 2.838 26,2 285 62,9 227 41,8 341 23,3 20 74,1 26 43,3 163 68,8 16 60,4 20 37,7 301 14,8 292 79,1 274 49,7 779 56,8 854 71,0 822 54,8 4.025 57,0 189 55,9 138 28,2 398 32,7 73 70,2 72 62,6 717 72,1 443 77,7 443 67,6 2.418 61,8 917 71,5 766 59,3 4.135 46,4 81 45,5 122 39,9 1.592 33,4 24 82,8 28 77,8 73 82,0 332 83,0 235 73,7 500 74,0 321 79,9 224 63,5 787 76,0 62 44,0 64 45,1 210 33,0 97 73,5 93 68,9 973 57,0 444 76,3 405 70,1 1.104 69,1 346 84,2 334 76,4 842 84,3 98 57,3 71 50,4 262 43,7 3.780 69,2 3.434 50,4 12.102 42,6 Ginecologi Anestesisti Personale non medico Numero Percentuale Numero Percentuale Numero Percentuale Valle d'Aosta 2 16,7 8 44,4 0 0,0 Lombardia 578 68,6 523 46,4 831 31,2 Friuli Venezia Giulia 76 59,8 53 40,2 153 37,1 Emilia-Romagna 198 53,5 182 29,1 172 14,5 I Marche (*) 149 78,4 169 70,7 492 52,9 ____________________________________________________________________ Il sole24Ore 5 Mag. ‘08 SPECIALIZZANDI: POSTI E CONTRATTI Per l'anno accademico 2007-2008 il fabbisogno di specializzandi è fissato a 7.460 unità. E il numero di contratti di formazione specialistica a carico dello Stato (25mila euro i primi due anni e poi 26mila euro dal terzo anno in poi), è fissato in 5mila unità. Recepisce in pieno l'accordo Stato-Regioni del 1 agosto 2007 il decreto del ministero della Salute 22 settembre 2007, pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 94 del 21 aprile 2008. E specifica che se le Regioni dovessero aver bisogno di ulteriori contratti di formazione, sempre nel limite fissato dal fabbisogno, si dovrà far fronte ai relativi costi con risorse acquisite dalle Università. Sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 95 del 22 aprile 2008 il ministero della Salute ha pubblicato poi il decreto 25 gennaio 2008 di determinazione di ulteriori prezzi da assumere come base d'asta per le forniture del Ssn (v. Il Sole-24 Ore Sanità n. 1/2008) e sul Supplemento ordinario n. 101 alla stessa «GU» il ministero dell'Economia pubblica il decreto 4 aprile 2008 di revisione del Dm 24 giugno 2004 (Progetto tessera sanitaria), che contiene i parametri tecnici per la trasmissione telematica dell'associazione medico- ricettario da Asl e Ao. ____________________________________________________________________ Italia Oggi 26 Apr. ‘08 UE, LA SANITÀ ELETTRONICA AVANZA Italia nella media: sempre più medici usano l'informatica Lo ha rivelato un sondaggio della Commissione europea sui servizi di assistenza sanitaria La sanità «elettronica» prende piede in Europa, e l'Italia è in generale in media con lo sviluppo dei Ventisette. A rilevarlo è stata la Commissione europea, che ha pubblicato ieri un sondaggio paneuropeo sui servizi elettronici di assistenza sanitaria (eHealth), dal quale risulta che l'87% dei medici europei (medici generici) usa il computer (l'Italia è all'86%) e il 48% dispone di una connessione a banda larga (in Italia il 49%). I medici europei ricorrono sempre più ai mezzi elettronici per archiviare e inviare i dati dei pazienti, come per esempio i referti di laboratorio. Grazie alla diffusione delle applicazioni di sanità elettronica, l'assistenza sanitaria in Europa secondo la Commissione è già migliorata, dotandosi di un'amministrazione più efficiente e riducendo i tempi di attesa per i pazienti. L'indagine evidenzia anche le aree in cui i medici potrebbero fare maggior ricorso alle tecnologie dell'informazione e delle comunicazioni (le cosiddette Tic), per offrire, per esempio, servizi di telesorveglianza, ricetta elettronica e assistenza medica transfrontaliera. «L'Europa comincia a cogliere i frutti della connessione a banda larga nel settore della sanità elettronica. Mi congratulo per l'impegno dimostrato da medici e amministrazioni sanitarie a lavorare in modo più efficiente», ha commentato Viviane Reding, commissaria europea per la società dell'informazione e i media. «Questa diagnosi evidenzia peraltro che è giunto il momento di promuovere un più ampio uso di tali servizi elettronici, che possono recare benefici straordinari a tutti i pazienti, in ogni parte d'Europa». Secondo il sondaggio sull'uso delle Tic tra i medici generici in Europa, le applicazioni di sanità elettronica assumono un ruolo sempre più importante nella pratica medica. Ci sono tuttavia notevoli differenze all'interno dell'Europa quanto alla loro disponibilità e utilizzazione. Il 69% dei medici europei usa internet (il 71% in Italia) e il 66% si serve del computer durante le visite. Ci sono però ampi divari da un paese all'altro: la penetrazione della banda larga tra i medici di famiglia è massima in Danimarca (91%) e minima in Romania (5% circa). In Europa (e l'Italia è in media) i dati amministrativi dei pazienti vengono conservati in forma elettronica nell'80% degli studi medici; il 92% di questi è solito archiviare elettronicamente anche i dati relativi a diagnosi e terapie e il 35% conserva in formato elettronico le radiografie. I medici europei spesso scambiano elettronicamente dati con i laboratori (40%) e in minor misura con altri centri sanitari (10%). Dal sondaggio emerge che i paesi più avanzati dal punto di vista della connettività e dell'accesso alle tecnologie informatiche sono tendenzialmente quelli che più le utilizzano a scopo professionale. In Danimarca, per esempio, che è il paese d'Europa con la più alta penetrazione di internet ad alta velocità, il 60% dei medici scambia correntemente comunicazioni elettroniche con i pazienti (mentre la media dell'Ue è di appena il 4%). Il sondaggio evidenzia anche le aree che si prestano a ulteriori progressi, come le ricette elettroniche, che sono utilizzate solo dal 6% dei medici generici dell'Ue e sono attualmente in uso in soli tre stati membri: Danimarca (97%), Paesi Bassi (71%) e Svezia (81%). In Italia risulta un 1%. La telesorveglianza, che consente ai medici di seguire a distanza il decorso di una malattia o di tenere sotto osservazione i pazienti affetti da disturbi cronici, è praticata soltanto in Svezia (dove il 9% dei medici presta tale servizio), nei Paesi Bassi e in Islanda (circa il 3% in entrambi). La Commissione intende presentare, nel corso di quest'anno, una relazione sulle potenzialità e sullo sviluppo della telemedicina. Rari sono gli scambi di dati sui pazienti da un paese all'altro, praticati da appena l'1% dei medici generici dell'Unione europea, con la percentuale più alta nei Paesi Bassi (5%). Nel corso dell'anno la Commissione intende formulare raccomandazioni sull'interoperabilità transfrontaliera dei sistemi di cartella clinica elettronica e darà avvio, insieme a vari paesi, a un progetto di servizi sanitari elettronici transfrontalieri per i pazienti che viaggiano all'interno dell'Ue. Bisogna dare atto che la maggioranza dei medici europei, comunque, riconosce che le tecnologie informatiche contribuiscono a migliorare la qualità dell'assistenza prestata. I medici che non utilizzano le Tic indicano come principali ostacoli la mancanza di formazione e di supporto tecnico. Per una più ampia diffusione della sanità elettronica auspicano che venga dato maggiore rilievo alle Tic nello studio della medicina, che vi siano più opportunità di formazione e che si sviluppi il collegamento in rete tra operatori sanitari per lo scambio di informazioni cliniche. Sempre in tema di tecnologie dell'informazione e delle comunicazioni, nei giorni scorsi l'eurocommissaria Reding ha presentato alcuni dei progetti che saranno affrontati dalla Commissione europea nel biennio 2008- 2010 attraverso i2010, strategia digitale dell'Ue per la crescita e l'occupazione. Tra questi, iniziative in favore della ricerca nel settore delle Tic; una guida per incoraggiare l'uso delle nuove tecnologie on-line e progetti su larga scala per sostenere i servizi pubblici paneuropei, come la firma elettronica. ____________________________________________________________________ Il sole24Ore 5 Mag. ‘08 SALUTE MENTALE, UN DECALOGO PER RISALIRE LA CHINA DA 17 ASSOCIAZIONI LA PROPOSTA DI UN MANIFESTO GISELLA TRINCAS DI GISELLA TRINCAS * Il 27 marzo a Roma abbiamo Salute mentale, un decalogo per risalire la china presentato il manifesto-appello «Ogni persona per ciò che è nel rispetto della propria dignità e nella libertà», sottoscritto da 17 organizzazioni (Anpis, Associazione Persona e Danno, Arci, Cgil, Cgil Funzione pubblica, Cittadinanzattiva, Cnca, Coordinamento ligure degli utenti, Fish, Fondazione Don Luigi Di Liegro, Fondazione Franco Basaglia, Forum nazionale salute mentale, il movimento delle Parole ritrovate, Medicina democratica, Psichiatria democratica, Rete toscana degli utenti, Unasam). Organizzazioni e federazioni a cui fanno riferimento centinaia di organizzazioni locali e centinaia di migliaia di aderenti. È un grande patto per la salute mentale che, partendo dal riconoscimento dello straordinario salto di civiltà e progresso compiuto dall'Italia con la legge 180/1978 e quindi con la chiusura definitiva dei manicomi, pone all'attenzione delle autorità politiche, delle istituzioni e dei cittadini, la necessità di affrontare con decisione dieci questioni fondamentali (si veda il manifesto in pagina). Abbiamo posto fortemente l'accento sul fatto che dal 2000 al 2005 (secondo dati Istat) le visite psichiatriche sono aumentate del 18,5%, che occorre potenziare i servizi pubblici di salute mentale qualificandone l'operato, e che ogni anno vi sono circa 6mila nuovi casi principalmente tra i giovani. Abbiamo rappresentato la forte preoccupazione circa la ripresa e diffusione di pratiche coercitive (contenzione, abuso farmacologico, porte chiuse, elettroshock) in tantissimi servizi psichiatrici di diagnosi e cura; la scarsa attenzione al bisogno di sostegno delle famiglie che devono essere assolutamente alleggerite dall'enorme carico assistenziale. Abbiamo sottolineato le insostenibili differenze nell'offerta di servizi tra una Regione e l'altra e all'interno della stessa Regione. La scarsa propensione dei servizi a offrire percorsi di cura orientati verso l'emancipazione delle persone con sofferenza mentale, percorsi di cura che restituiscano speranza di guarigione. Abbiamo rilevato lo scarso sostegno all'impresa sociale e quindi a quelle forme di intervento che possono garantire percorsi riabilitativi ed emancipativi di reinserimento sociale attraverso il lavoro. Le testimonianze delle persone che vivono sulla propria pelle l'esperienza della sofferenza mentale rendono con perfetta chiarezza l'idea di cosa significa operare nell'interesse del benessere delle persone. E quanto buoni servizi di salute mentale sono stati in grado e sono in grado di aiutare concretamente le persone a intraprendere percorsi di ripresa. Il punto sta nel diffondere i buoni servizi di salute mentale (che vogliamo presenti su tutto il territorio nazionale), preparare adeguatamente il personale, mettere in campo le necessarie risorse finanziarie, puntare su servizi e strutture di alta qualità. Non c'entra quindi la legge 180 (che va assolutamente difesa) ma c'entra la buona volontà delle istituzioni e degli amministratori che devono garantire tutti gli strumenti necessari ai servizi per operare nel rispetto dei bisogni reali delle persone e nel rispetto delle indicazioni legislative (anche europee). Il manifesto si pone quindi quale strumento di controllo e azione fortemente unitaria di tutte le organizzazioni che fino a oggi hanno difeso con convinzione e determinazione i percorsi di civiltà. Sul manifesto si è aperta la campagna di raccolta firme nell'intero territorio nazionale. Il risultato verrà comunicato al nuovo Governo con modalità che si andranno a definire. Possono aderire cittadini e associazioni. Informazioni possono essere richieste a tutte le organizzazioni che hanno sottoscritto il manifesto. * Presidente Unasam Le dieci questioni fondamentali LA LOTTA ALLO STIGMA Stigma e pregiudizio sono figli dell'ignoranza, si può combatterli se la società tutta saprà affrontare le questioni della salute mentale con la dovuta consapevolezza e responsabilità. Ognuno, per la sua parte, con strumenti formativi e informativi, può favorire la cultura dell'accoglienza, della comprensione e della solidarietà LA PRESA IN CURA E IL DIRITTO ALLA SPERANZA DI GUARIGIONE Partendo dalla qualificazione dei servizi per la salute mentale (centralità del territorio con i centri di salute mentale operanti nelle 24 ore 7 giorni su 7) e degli stili operativi, con la partecipazione attiva degli utenti e dei "carers". Si può e si deve curare senza abbandonare né mortificare IL DIRITTO AL CONSENSO INFORMATO Gli utenti devono conoscere i vari percorsi che la salute mentale può offrire loro e hanno diritto di esprimere un consenso libero e informato prima di qualunque intervento, anche farmacologico. Tutti devono essere messi in grado di esercitare il proprio diritto anche quando non sono nelle condizioni di farlo IL DIVIETO DELLA CONTENZIONE E IL CONTROLLO DELL'ABUSO FARMACOLOGICO Nella maggioranza dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura si legano le persone, si tengono le porte chiuse a chiave, si fa un uso massiccio di psicofarmaci come unica risposta alla complessità della sofferenza e dei bisogni che le persone esprimono. La contenzione è violazione esplicita dei diritti umani in quanto azione lesiva della libertà e della dignità della persona. Fare a meno delle contenzioni e tenere le porte aperte nei luoghi di cura dovrebbe essere riconosciuto un obiettivo di qualità dei servizi I TRATTAMENTI SANITARI OBBLIGATORI (TSO) Non costituiscono la norma e quando strettamente necessari, devono essere attivati nel pieno rispetto della procedura indicata dalla legge e nel rispetto della dignità della persona; trattandosi di un atto medico, devono essere gestiti da personale sanitario. Qualunque abuso deve essere perseguito penalmente LA RESIDENZIALITÀ NELLA SALUTE MENTALE Va condotta una serie e urgente indagine conoscitiva su tutte le strutture che accolgono persone con sofferenza mentale e sulla forzata e prolungata istituzionalizzazione. Quando necessario, le persone devono poter sperimentare un percorso di cura e di ripresa in una struttura residenziale che abbia le caratteristiche di una civile abitazione, in piccoli gruppi di convivenza, a diversa intensità di assistenza sulla base dei bisogni individuali. Si devono prevedere inoltre progetti personalizzati di "abitare assistito" LA FORMAZIONE DEL PERSONALE Nel rispetto delle indicazioni contenute nel Piano d'Azione sulla salute mentale per l'Europa (emanato dalla Conferenza di Helsinky), occorre "disporre di una forza lavoro competente ed efficace". Il sapere trasmesso nei luoghi della formazione ha continuato a rifarsi pressoché esclusivamente a una cultura biologista, non dà informazioni sulle culture della psichiatria di comunità e non riconosce loro cittadinanza scientifica. Impostazioni rigide ignorano l'importanza della dimensione sanitaria, sociale e antropologica nel disturbo mentale IL DEFINITIVO SUPERAMENTO DEGLI OSPEDALI PSICHIATRICI GIUDIZIARI Il passaggio in corso della Sanità penitenziaria al servizio sanitario nazionale conferisce, alle Regioni e aiDipartimenti di Salute Mentale, una funzione e una responsabilità fondamentali nel trattamento dei pazienti psichiatrici autori di reato, consentendo così, finalmente, di poter fare a meno degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Riteniamo che questo sia un obiettivo di straordinaria importanza e che si possa realizzare senza andare a ricostruire luoghi dove la cura sia associata alla custodia IL SOSTEGNO ALL'IMPRESA SOCIALE Va potenziato il sostegno alle imprese sociali che operano territorialmente in accordo con i Dipartimenti di Salute Mentale che, più di altri, possono facilitare i percorsi di ripresa ed emancipazione sociale delle persone con sofferenza mentale, con particolare riferimento alle cooperative di tipo b, che si occupano di inserimento lavorativo L'INTERDIZIONE, L'INABILITAZIONE E L'AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO Si sottolinea l'urgenza di procedere all'abrogazione della legge sull'Interdizione e Inabilitazione e al rafforzamento dell'amministrazione di sostegno che deve mantenere un carattere temporaneo __________________________________________________________________ Il sole24Ore 24 Apr. ‘08 L’ELICA CHE CAMBIÒ IL MONDO Le novecento parole spedite alla rivista Nature il 2 aprile del 1953 cambiarono la storia della biologia e quella dell'uomo. Nel testo James Dewey• Watson e Franàs Compton Crick descrivevano per la prima volta la struttura "a doppia elica" del DNA. La comunicazione dal titolo «A structure DeoxiriUose Nudeic Acid» è stata definita la "stele di Rosetta" della biologia ed ha fruttato ai due scienziati il premio Nobel per la Medicina nel 1962. Il 25 aprile si festeggia negli Stati Uniti il National DNA Day con un sito dedicato ww,v.genome.gov, una chat aperta al pubblico dove i ricercatori dialogano sui temi della genetica e incontri divulgativi. Per tour virtuale nel DNA ecco l'indirizzo: http://learn.genetics.utah.edu/units/Uasics/tour/ Oppure http://www.dnai.org dove nella sezione Applications vengono spiegate le più comuni applicazioni della genetica e l'uso che se ne può fare in paleontologia, per spiegare le origini umane. La comunicazione a Nature è del 1953 , ma la storia del DNA parte nel 1869. Un fisiologo svizzero. Friedrich Miescher, studiando il nucleo delle cellule, trovò una sostanza a cui diede il nome di "nudeina" dentro la testa degli spermatozoi di salmone. La natura acida della nudeina le cambiò il nome in "acido nucleico" e in esso Alrecht Kossel riscontrò quattro basi azotate: adenina, guanina, citosina e timina. Scoperta che gli valse il Nobel nel 1910, mentre nello stesso anno al Rodcfeller Institute di New York Theodore Levene scopri che gli acidi nucleici animali contengono uno zucchero, il desossiriUosio. Solo nel 1952 venne accettata l'idea di Aver che il DNA fosse materiale genetico. È a questo punto che l'americano Watson e l'inglese Crick entrano in scena. Watson ebbe la sua prima intuizione a Napoli durante un simposio dove pensò di applicare la cristallografia a raggi X per analizzare la struttura delle grosse molecole biologiche. Decisivo poi l'incontro con Crick, a Cambridge con cui iniziò a lavorare. Nel frattempo Elena Ottolenghi-Nightingale dimostrò che il DNA di cellule adulte impiantato in cellule embrionali ne muta le proprietà. Ma quando pubblicò il suo studio non parlò mai di "genetico" e quindi il suo fu un successo dimenticato. Poi il chimico Linus Pauling ipotizzò che il DNA avesse una struttura a elica. Rimaneva oscuro come ff DNA trasmette la sua informazione e si copia. La soluzione veniva cercata nella struttura del DNA: lo studio dei due scienziati era tappezzato di ritagli di cartoncini colorati, sulla scrivania e sul pavimento che servivano a simulare i modelli molecolari. La soluzione era di là da venire e l'intuizione arrivò a bordo di un treno che riportava Watson a CamBridge: i filamenti di DNA erano solo due (e non tre come creduto sino a quel momento) e le basi erano rivolte all'interno e non all'esterno, proprio come i pioli di una scala a chiocciola. Il resto è storia della medicina e della biologia. ____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 30 Apr. ‘08 STORIA DELLA SARDEGNA RACCONTATA DALLA MEDICINA A Cagliari due giornate di studio tra passato e presente Dai riti magici alla Tac, dalle pozioni agli antibiotici «La storia della medicina per una professione sempre più moderna e vicina ai pazienti», è il tema del congresso in programma ieri e oggi nella sede dell'Ordine dei medici della provincia di Cagliari in via Dei Carroz. Giunto alla quarta edizione, l'appuntamento vuole studiare il passato per mettere meglio a fuoco i grandi temi del presente. «Orgogliosi di essere gli unici in Italia a proporre questo tipo di confronto», ha detto in apertura il presidente Raimondo Ibba, sottolineandone «l'importanza, soprattutto oggi che siamo alle prese con problemi etici e di ridefinizione del nostro ruolo nel rapporto tra l'uomo e la salute individuale e collettiva». Insieme all'Ordine, l'iniziativa è stata curata dall'associazione "Clemente Susini", «nata nel Duemila per la valorizzazione del patrimonio culturale e scientifico e delle cere custodite alla Cittadella dei Musei», spiega il segretario Enrico Fanni. Quasi un simbolo, Susini, di sintesi di storia, arte e scienza. «Le sue sculture sono perfette, talmente reali da apparire più vere di un cadavere e considerate le più belle del mondo. Riuscì nell'impresa grazie al contributo determinante di un anatomico sardo, Francesco Antonio Boi, di Olzai, docente all'Università di Cagliari, che mise in evidenza particolari scoperti duecento anni dopo». Due giornate intense, trenta relazioni su un panorama vastissimo. Qual è l'elemento unificante? «Innanzitutto la Sardegna, studiata attraverso la storia della medicina. Abbiamo poi voluto inserire un omaggio alla donna con alcune ricerche inedite, frutto di materiale archivistico». Sotto quali aspetti? «Ovviamente come medico, su sui ci soffermiamo io, e il professor Ugo Carcassi. Altri si occupano delle ostetriche esaminando parallelamente l'evoluzione del parto nel corso del tempo. Un contributo particolare e originale lo offre la professoressa Beccheroni raccontando di Sisaia, la prima donna sarda della preistoria, particolarmente interessante perché il suo cranio presenta una trapanazione cui probabilmente sopravvisse. La professoressa Maria Cristina Dessì illustra il caso di una donna posseduta dal demonio alla fine del 1500 che fu visitata dai medici di Luivi XIV re di Francia senza che riuscissero ad arrivare a una conclusione attendibile sulla possessione o sulla presenza di una qualche malattia mentale». Indemoniati e disturbi psichici rimandano a un passato dai labili confini tra magia e scienza. Solo superstizioni o non è proprio così? «Assolutamente no, come per la medicina popolare sarda che nasceva non solo da quel che il regno vegetale metteva a disposizione per le terapie, ma anche dalla credenza nel magico, nel soprannaturale. Alla base c'era la volontà di salvaguardarsi dal maligno ricorrendo ad amuleti, canzoni, rituali, intrecciando elementi pagani e cristiani». Quando il medico condotto era ancora da venire, a chi era affidata la cura della salute? «In gran parte alla medicina popolare che ha svolto un ruolo importante ma è stata anche un ostacolo allo sviluppo della organizzazione sanitaria. I medici erano solitamente dislocati nelle città principali. Nell'interno, chi esercitava, se così possiamo dire, erano persone non abilitate prive della patente, come si chiamava allora, per alcune specialità o del diploma di medico. Vi erano soggetti, dallo stregone alla donna saggia, alla maestra de partus , che svolgevano un lavoro basato sulla pratica o su quel che ora conosciamo come effetto placebo. Hanno sicuramente dato un contributo nell'assistenza ma furono un fattore di resistenza rispetto al mutamento della mentalità. Fino ai primi del Novecento c'è stata un'opposizione alla distribuzione dei sanitari e della sanità nel territorio». Pesavano, forse, anche le condizioni sociali. «Sì, ma soprattutto quelle culturali. L'arrivo del nuovo non è mai stato visto con favore e non se ne coglieva l'importanza». Il congresso affronta alcuni mali come la malaria o le malattie dell'infanzia, veri flagelli fino a un recente passato. Si può segnare un punto di svolta? «Per quel che concerne i bimbi, la professoressa Vardeu analizza i rapporti tra le mamme, i loro figli e i pediatri ante litteram dell'inizio del secolo scorso a Cagliari e nelle zone adiacenti. Sono anni in cui andava affermandosi la figura del pediatra che avrà poi un ruolo cruciale nei decenni successivi. In altri interventi si ricostruisce la storia della vaccinazione antivaiolosa e di come la sua introduzione, avviata da Pietro Antonio Leo, fu vissuta dalla popolazione fino alla legge del 1929 la cui applicazione incontrò parecchie difficoltà in diverse zone dell'Isola. Un problema, ad esempio, furono le basssime retribuzioni percepite dai medici che, quindi, trascuravano le aree dell'interno. Dovendo pagarsi un assistente, la cavalcatura, il vitto e l'alloggio, preferivano rinunciare alle trasferte piuttosto che rimetterci». Le vaccinazioni evocano il ricordo delle grandi epidemie. L'ultima pestilenza fu nel 1816 poi non più. Perché? «All'epoca vi erano diversi problemi dal punto di vista infettivo. Imperversavano il vaiolo, il colera, la peste e altre malattie come il tifo petecchiale, cioè portato dai pidocchi, che potrebbe essere stato la causa di quell'ultima pestilenza. L'intervento della dottoressa Puddu esamina quel che accadde in quegli anni, segnati da un'elevata mortalità, centrando l'interesse sul tipo di morbo per verificare se fosse contagioso, oppure no, come sembra più probabile. Il veicolo era il pidocchio. Vi fu poi un miglioramento delle condizioni igieniche. Con l'arrivo di Carlo Felice a Cagliari, si istituirono il medico e lo speziale dei poveri. Poter richiedere le loro prestazioni migliorò assistenza e informazione sull'igiene pubblica, personale, dell'abitazione e dei cibo». STEFANO LENZA ____________________________________________________________________ Il sole24Ore 28 Apr. ‘08 RICETTARI SSN, VIA AL SECONDO ROUND Aggiornati i disciplinari tecnici per il monitoraggio informatizzato della spesa sanitaria a carico delle Asl Dal 1 giugno invio secondo i nuovi standard - Medici obbligati al codice a barre Sara Todaro, Manuela Perrone Un passetto in più e nuove scadenze nella lunga marcia di avvicinamento al grande progetto di monitoraggio informatizzato della spesa sanitaria pubblica tramite il controllo incrociato sui quantità e tipologia delle prestazioni garantite al singolo assistito. L'ultima puntata della telenovela che ha per protagonista l'articolo 50 della legge 326/2003 all'epoca meglio nota come "decreto sviluppo" - è andata in onda pochi giorni fa con la pubblicazione in Gazzetta (Gu n. 86 dell'11 aprile 2008) di due decreti che - a sperimentazioni regionali esaurite - tirano le somme dettando il restyling dei ricettari Ssn e l'aggiornamento dei dettagli tecnici deputati a facilitare la trasmissione telematica delle prescrizioni a carico del servizio sanitario pubblico. Il primo, datato 17 marzo, è una coproduzione Economia-Salute che mette un nuovo punto fermo all'uso dei vecchi foglietti "rosa": il codice a barre contenente i dati del paziente cessa di essere un optional e diventa obbligatorio; i vecchi formulari potranno essere utilizzati solo fino a esaurimento scorte. Nel frattempo i medici potranno riportare in chiaro il codice fiscale dell'assistito nello spazio previsto nella ricetta. Come per il passato, i nuovi blocchetti in filigrana li stamperà il Poligrafico, che ne curerà la distribuzione alle Asl e ai servizi di assistenza ai naviganti. Affidato invece al decreto del Ragioniere generale dello Stato del 18 marzo il compito di aggiornare i parametri tecnici utili alla trasmissione telematica dei dati delle prescrizioni al ministero dell'Economia per il controllo sull'appropriatezza della spesa. Complesso (e destinato esclusivamente alla lettura da parte degli aficionados del mondo byte) il disciplinare tecnico allegato al provvedimento. Quest'ultimo fissa però in modo inequivocabile le nuove scadenze per l'adozione e la messa in opera delle ultime regole: il regime transitorio che consente di provvedere all'obbligo informativo in base alle procedure fissate nel maggio 2005 decorre dal primo maggio prossimo. Ma le ricette utilizzate nelle strutture pubbliche o convenzionate a partire dal 1 giugno dovranno essere trasmesse esclusivamente secondo i nuovi standard. E sarà quanto meno una nuova corsa. Se non polemiche, come accade per il pianeta dei medici di medicina generale, tenuti come gli altri ad adeguarsi a una normativa con profili (e scadenze) ancora nebulose. «Qualcuno sembra non tenere conto che il 30% dei medici prescrittori non ha il computer - commenta Giuseppe Greco , dell'Esecutivo nazionale Fimmg - e che ai dipendenti Asl e agli specialisti ambulatoriali interni i Pc dovrebbero essere forniti dalle strutture sanitarie». Non solo i Pc: ogni medico dovrà essere dotato di stampante laser o ink-jet. «Abbiamo calcolato - dice Greco - che soltanto per scrivere a mano il codice fiscale serviranno 52 ore all'anno. E che, per i medici informatizzati, raddoppieranno i costi di stampa: serviranno due cartucce a settimana, invece che una, pari a 600 euro di spesa in più all'anno. È evidente come l'indennità informatica mensile di 77 euro non copra le spese cui siamo obbligati». Ma il cruccio maggiore è un altro: «Si dimentica che il nostro lavoro non è amministrativo: la nostra missione è curare le persone». __________________________________________________________________ la Repubblica 25 Apr. ‘08 IL SUPER CUORE L'ultima buona notizia arriva dagli Usa: l'attività fisicafa meglio del previsto Un altro tassello nella sfida per allungare la vita: ecco i passi in avanti compiuti dalla ricerca ELENA DUSI I passato è fatto di medicine che controllano pressione e colesterolo. Il futuro, nel campo del cuore, vede sempre più concretamente geni e cellule staminali al centro della sua attenzione. Se i farmaci ci hanno aiutato finora a ridurre la mortalità, nonostante il nostro sia uno dei paesi più anziani del mondo, le tecniche che annusiamo nel domani della scienza ci promettono di vedere una malattia prima ancora che arrivi - quando è ancora scritta solamente nei geni - e di curarla con tecniche che sempre più spesso escludono il bisturi (sonde che corrono nei vasi sanguigni e non lasciano ferite) o sostituiscono i tessuti consunti con cellule fresche. «Un tempo i nostri strumenti erano stetoscopio e occhio clinico - racconta Ottavio Alfieri, responsabile del dipartimento cardio-toracico-vascolare del San Raffaele di Milano - mentre oggi abbiamo apparecchi che ci mostrano il cuore come se fossimo al suo interno. Risonanze magnetiche, tac, ecocardiografie tridimensionali. Difficilmente un particolare sfugge a questi strumenti. Fare una diagnosi oggi è diventato più semplice e i miglioramenti in questo campo sono continui». Penetrare nei segreti del cuore per esplorarne meglio ogni angolo è una delle strade per vincere le malattie. AL Massachusetts General Hospital per esempio hanno deciso di osservare come il cuore di un atleta cambia giorno dopo giorno. Con un particolare ecocardiagrafo, hanno seguito 40 vogatori e 35 giocatori di footbal nelle sessioni di allenamento, guardando il cuore cambiare forma e irrobustirsi. Dopo tre mesi, i ventricoli dei vogatori si erano espansi, le pareti del cuore dei giocatori di football inspessite. I battiti del cuore erano rallentati nei primi e accelerati nei secondi. «Siamo rimasti sorpresi dalla rapidità con cui differenti tipi di attività fisica modificano il cuore» ha detto Aaron Baggish, il medico che ha curato l'esperimento. sempre in tema di sport, il Centro del genoma di Santiago de Compostela diretto da Angelo Carracedo, ha messo a punto un test genetico per individuare gli atleti che rischiano la morte improvvisa per infarto. «Molti di questi geni sono conosciuti-spiega Giuseppe Novelli, genetista dell'università romana di Tor Vergata - e mancava uno strumento capace di andarli a leggere. È assurdo che degli atleti muoiano in campo quando basterebbe uno screening dei loro geni per individuare i ragazzi a rischio». In Italia il quadro della situazione in fatto di cuore è sotto agli occhi di Simona Giampaoli, che dirige l'unità di epidemiologia delle malattie cardiovascolari all'Istituto Superiore di Sanità: «L'incidenza ha iniziato a scendere a metà degli anni '70. Questo nonostante i test diagnostici siano diventati molto più precisi, e includano dunque casi che in passato sfuggivano all'occhio dei medici. Con gli esami di oggi riusciamo a individuare infarti molto piccoli. E una grossa mano ci è arrivata dalla legge contro il fumo». Che non è un frutto di scienza o tecnologia, ma «da quando è stata introdotta ci ha permesso di notare un calo di infarti e ictus assai netto». Legge contro il fumo a parte, gli stili di vita non sembrano venire in aiuto alla salute del cuore. I dati sull'aumento dell'obesità nel nostro paese e la scarsa pratica sportiva dovrebbero tradursi in un grafico delle malattie cardiovascolari rivolto all'insù. Se questo non avviene, è proprio grazie ai farmaci. Quattro confezioni di medicine su dieci, fra quelle consumate in Italia, servono a tenere sotto controllo la salute di cuore e vasi sanguigni. In tutta Europa ictus e infarti smuovono pillole per un valore di 192 miliardi di euro all’anno. Nel nostro paese il 37 per cento della spesa farmaceutica se ne va propria in rimedi per il mal di cuore. «Eppure non tutti i pazienti rispondono ai farmaci allo stesso modo. La sfida della cardiologia del futuro? Capire perché ogni individuo funziona a modo suo» dice senza esitazioni Alfieri. La risposta è scritta nei geni, ed è per questo che si sta sviluppando la branca della farmacogenomica.Oggi, non sapendo chi esattamente trarrà beneficio da un farmaco, si tende ad allargare il raggio delle prescrizioni. Ma quando la lettura del Dna diventerà pratica corrente, sarà possibile distinguere chi è un bersaglio sensibile da chi non trarrà nessun beneficio dal medicinale. È un po' quanto sta avvenendo nel campo dei tumori, dove le terapie sono tanto più utili quanto più sono personalizzate, nonostante le lentezze per i costi e i macchinari di cui la diagnosi genetica ha bisogno. Che i successi in medicina siano legati al portafoglio è provato d'altronde dall'India, dove la popolazione ha un'età media molto più bassa della nostra, ma un accesso ai farmaci limitato. Secondo una ricerca pubblicata oggi sulla rivista medica Lancet, ne12010seimalatidicuoresudieci avranno cittadinanza indiana. E già oggi l’80 per cento degli infarti uccide gli abitanti dei paesi a basso reddito. In Italia, nonostante le scarse risorse di cui gode la scienza, la ricerca nel campo della genetica procede spedita. «Per quanto riguarda Dna e cuore - sottolinea Francesco Violi, cardiologo del Policlinico Umberto I di Roma - esistono dei geni che facilitano l'insorgenza di un infarto. E altri che rendono invece i fortunati possessori mmunida condizioni come l’arteriosclerosi. Man mano che procediamo nelle ricerche, ne individuiamo sempre di nuovi». Uno dei cacciatori più attivi in questo campo è Giuseppe Novelli: «Nel fenomeno dell'arteriosclerosi sono coinvolti almeno 400 geni, che regolano pressione, metabolismo dei grassi e altro. I problemi per il cuore non nascono quando ci sono tanti lipidi in circolo nel sangue. Ma quando queste molecole riescono a penetrare all'interno dei vasi, facendo morire alcune cellule, scatenando infiammazioni e innescando il fenomeno dei trombi. La capacità di un vaso di difendersi o no dalla penetrazione dei lipidi dipende da alcuni geni. In un esperimento in Giappone si è modificato un frammento di Dna di un topolino di laboratorio, che ora può mangiare grassi a volontà senza soffrire di arteriosclerosi». Tra geni, staminali e apparecchi in stile Nasa che non ovunque sono a disposizione, si ha l'impressione che la medicina del cuore si trascini nel presente inattesa di un futuro rivoluzionario, che arriverà chissà quando. Prova ne è la storia delle cellule staminali: salutate come la pietra filosofale in grado di curare ogni tipo di malattia degenerativa, attendono ancora dei risultati limpidi che confermino le speranze. «Abbiamo appena condotto una ricerca – racconta Alfieri- iniettando delle staminali nel cuore, per recuperare la funzione di un frammento di muscolo che aveva perso la capacità di contrarsi. Ma i risultati non sono stati positivi. Ai pazienti che mi scrivono per sottoporsi a questa cura sono costretto a dire che è ancora presto». Geni e "cellule bambine", suggerisce il cardiochirurgo del San Raffaele, si trovano su un piano diverso rispetto alla medicina cui siamo abituati aggi. «Abbiamo raggiunto un buonlivello nel curare le malattie che causano una morte precoce. Ma non sappiamo far nulla per allontanare la morte naturale, quella che avviene per consunzione dei tessuti a 90 0 100 anni. Per ottenere ciò dovremmo fare un salto che è ancora troppo grande per noi, intervenendo all'interno della nostra natura umana». Modificando i nostri geni, appunto, e rinnovando i tessuti consunti con le cellule staminali capaci di rimanere sempre bambine. L'ultimo studio americano dice che l’attività fisica fa meglio dei previsto, genetica e ricerca sulle staminali garantiranno una maggior longevità. Ma Lancet sostiene che la battaglia alle cardiopatologie si è solo spostata: nuovo fronte, l'India __________________________________________________________________ Io Donna 26 Apr. ‘08 IL BOOM DEI FARMACISTI Università. Macché filosofi o economisti: i ragazzi sognano di dispensare pillole e sciroppi. Nell'ultimo anno, le iscrizioni alla facoltà di Farmacia sono cresciute addirittura del 23 per cento. Merito della liberalizzazione stabilita con il decreto Bersani del 2006, che ha ampliato il mercato del lavoro: così almeno sostiene il garannte per la sorveglianza dei prezzi, Antonio Lirosi, Ai farmacisti, però, quest'interpretazione non piace. «Gli immatricolati sono in aumento da anni, in modo costante» replica Andrea Mandelli, vicepresidente della Fofi, la Federazione degli Ordini dei Farmacisti. «Il 68 per cento dei nostri laureati trova lavoro in un anno; dopo cinque, il 90 per cento ha un'occupazione. Sono dati paragonabili a Ingegneria». ); innegabile, però, che grazie al decreto Bersani sono state aperte 2.223 nuove parafarmacie, dove si vendono prodotti sanitari c farmaci da banco (con la presenza obbligatoria di un farmacista). Eppure Mandelli non ci sta: «Non sono nuovi posti ma solo spostamenti. Il mercato del lavoro non è cambiato: infatti la vendita dei prodotti da banco è aumentata pochissimo, nonostante le parafarmacie». La ricetta migliore, secondo lui, è quella proposta dalla stessa Fofi al ministero della Salute: ridurre il numero eh abitanti necessario per aprire le farmacie, snellire le procedure. Se passasse, si potrebbero far partire in poco tempo duemila nuovi esercizi. Cristina Lvcuva __________________________________________________________________ Il Giornale 24 Apr. ‘08 I SEGRETI DELLA CHIRURGIA DELLA CAVIGLIA Ad Abano Terme l'ortopedico Alan Shaw; pioniere di questa specialità, illustra le metodiche più innovative Volpe: «Le distorsioni con lesioni delle cartilagini possono evolvere in gravi osteocondriti» Luigi Cucchi • Nel Veneto, ad Abano Terme, si è tenuto un incontro di chirurghi ortopedici specialisti nelle patologie del piede. Era presente Alan Shaw, pioniere di questa chirurgia, formatosi prima al Californian College of Podiatry, poi in Georgia> ad Atlanta, dove ha messo a punto in quarant'anni le metodiche più innovative che si sono diffuse nel mondo per correggere le deformità dell’avanpiede. All'inizio degli anni Novanta, Shaw iniziò sia ad Atlanta sia in Italia, con i rappresentanti della Società italiana della chirurgia dei piede, tra cui Antonio Volpe e Massimo Toffolo, una intensa collaborazione tesa a diffondere l'esperienza acquisita: dai rigorosi concetti biomeccanici di Ruth all'osteotomia di Austin, all'asportazione per via dorsale del neuroma di Morton, un fastidioso rigonfiamento del nervo interdigitale che provoca crisi dolorose di tipo nevralgico. Ad Abano, il chirurgo Shaw ha trattato in modo particolare le nuove prospettive terapeutiche nel campo della patologia artrosica della articolazione dell'alluce, ha poi eseguito un intervento chirurgico sull'alluce rigido, una forma artrosica che si manifesta con un eccesso di osso anche nei giovani, soprattutto i calciatori. Questo tema è stato al centro di un simposio scientifico che ha evidenziato le opportunità offerte dall'impiego delle nuove protesi metatarso falangee di ultima generazione, a tre componenti, in titanio poroso. Questi impianti, sotto il profilo funzionale, sono molto simili a quelli protesici della spalla e del ginocchio ed offrono risultati positivi simili a quelle che da tempo si ottengono con le protesi dell'anca. Si è parlato anche delle problematiche relative agli infortuni della caviglia. La distorsione della caviglia è considerata spesso da molti medici un male minore, una patologia quasi banale. Le lesioni legamentose e cartilaginee e le microfratture con diagnosi clinica e strumentale (risonanza magnetica) raramente si debbono operare. Tendono a guarire spontaneamente con la terapia Rice, cioè con il riposo, la compressione, l'elevazione ed i tutori, a cui segue la riabilitazione. . Tuttavia non sempre periodi di immobilizzazione e fisioterapia producono gli effetti sperati e, in non rare situazioni, le lesioni legamentose e cartilaginee troppo spesso sottovalutate vanno affrontate con maggior impegno. Un accurato e sapiente esame clinico da parte di specialisti competenti, esperti in chirurgia del piede e della caviglia, una RMN o una TC possono portare alla diagnosi ed al trattamento corretto, qualche volta chirurgico, onde evitare le inevitabili evoluzioni artrosiche. Una semplice tallondinia, cioè il dolore sotto il tallone, può diventare assai fastidioso per chi lo subisce. È una sindrome che può derivare da molti fattori, tra i quali l'aumento di peso, il piede cavo (arco plantare eccessivo), le forme reumatiche, il sovraccarico sportivo o lavorativo. Anche L'artroscopia di caviglia per il trattamento delle aderenze fibrose, delle calcificazioni delle sinoviti, delle lesioni cartilaginee, le nuove tecniche di ritensione legamentosa con ancorette in titanio, i trapianti cartilaginei con mosaicoplastica o cellule coltivate rappresentano una nuova frontiera, un territorio semisconosciuto ancora da scoprire anche da parte di molti medici. Antonio Volpe è tra i maggiori esperti italiani della chirurgia dell'arto inferiore. A lungo consigliere e presidente della Società italiana di chirurgia del piede e della caviglia e membro di quella europea ed americana, ha eseguito personalmente più di 8mila interventi. Da oltre 14 anni ha sviluppato ad Abano la chirurgia ortopedica del piede e della caviglia raggiungendo livelli di eccellenza. Abano, assieme all'Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna ed al Galeazzi a Milano, è tra i centri con la più ampia casistica. Il dipartimento ortopedico è cresciuto di importanza divenendo sempre più un punto di riferimento. __________________________________________________________________ Libero 26 Apr. ‘08 LA DIAGNOSI DELLE MALATTIE COMINCIA DAI SOGNI Chi è colpito da demenza e apnee notturne ha un attività onirica diversa da chi è sano. Basta analizzarla Per prevedere il male GIAMMA GROSSI MILANO Riuscire a diagnosticare in anticipo le malattie semplicemente analizzando i sogni che facciamo. È questo l'obiettivo degli studiosi del Centro di medicina del sonno dell'università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Interessanti risultati sono già emersi per quanto riguarda la relazione fra attività onirica e malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e il morbo di Parkinson, di cui soffrono milioni di persone in tutto il mondo. Secondo i ricercatori i sogni di un malato di Alzheimer - o quelli di un soggetto colpito dal Parkinson - non sono uguali a quelli delle persone sane, ma presentano delle caratteristiche peculiari. Caratteristiche che sono il risultato della lenta e progressiva perdita delle capacità cerebrali. In particolare la persona colpita da una patologia neurodegenerativa presenta una attività del cervello per certi versi molto simile a quella di un bambino. Gli studiosi hanno potuto costatare che il sogno realizzato da un individuo vittima di una forma di demenza senile, è spesso molto simile a quello di un giovanissimo. Esempi? Il bambino sogna frequentemente animali, specie che esistono davvero o anche completamente immaginarie. La stessa cosa accade nei malati di Alzheimer o Parkinson. Non solo. Un bimbo difficilmente fa sogni di natura sessuale, e questo accade anche nel malato di demenza senile. In generale, i sogni di queste persone denotano inoltre un livello di aggressività più elevato della norma. Spesso, quindi, i malati si agitano nel sonno, parlano e scalciano. Cosa che invece non succede, normalmente, nelle persone sane: in chi non ha problemi di natura neurodegenerativa, durante il sonno, i muscoli sono rilassati e le uniche parti del corpo in movimento sono gli occhi nel corso della cosiddetta fase Reni (Rapid Eye Moviments). Gli scienziati non hanno indagato solo sulla relazione sogno-malattia neurodegenerativa, ma anche sul legame tra l'attività onirica e un'altra patologia, l'apnea notturna. Chi ne è colpito spesso va Incontro a casi di ipossia, momenti in cui l'organismo perde la capacità di ossigenare adeguatamente il cervello. Il male colpisce frequentemente chi soffre di obesità, e parrebbe essere direttamente collegato a manifestazioni patologiche come l’ictus. Gli esperti hanno messo in luce che anche una persona soggetta ad apnee notturne può essere riconosciuto sulla base della qualità dei suoi sogni. Di solito, infatti, queste persone tendono ad avere un'attività onirica molto intensa e molto più lunga rispetto a chi è sano, e al risveglio hanno come l'impressione di aver sognato per -tutta la notte. Secondo gli scienziati il motivo di ciò è strettamente riconducibile al fenomeno dell'ipossia che porta a un'attivazione eccessiva del cosiddetto lobo limbico, porzione cerebrale legata alle emozioni, e quindi al contenuto emotivo dei sogni. Insomma, i ricercatori dicono che se fino ad oggi si è cercato di interpretare i sogni solo sotto l'aspetto psicologico, d'ora in poi invece si potrà indagare l'attività onirica anche per sapere qualcosa di più in relazione a un organismo da un punto di vista biologico. Potrebbe quindi non essere lontano il giorno un medico potrà prevedere l'evoluzione di una malattia semplicemente domandando al paziente che tipo di sogni fa la notte. __________________________________________________________________ Milano Finanza 26 Apr. ‘08 DIABETE AL TAPPETO di Giovanni Domina Terapie mediche e chirurgiche sempre più mirate ed efficaci per la cura del diabete. La ricerca in questo campo si sta concentrando non solo sulla cura delle patologie metaboliche, spesso associate all'obesità, ma anche sugli effetti collaterali del farmaci oggi in uso, cercando di minimizzarli. E le novità non mancano, come dimostra l'arrivo in Italia del primo antidiabetico orale amico del pancreas e della linea, mentre si ampliano le indicazioni del bisturi. Si chiama Vildagliptin la nuova molecola per la cura del diabete di tipo 2, quello più diffuso che colpisce le persone adulte, già disponibile in Italia: agisce solo quando serve sui livelli di glicemia, e non sull'insulino- resistenza come le terapie tradizionali. Questo farmaco funziona infatti selettivamente, ovvero in presenza di concentrazioni elevate di glucosio, ripristinando la normale funzionalità delle cellule del pancreas che regolano la produzione di glucagone (l'ormone che permette il controllo del glucosio nel sangue) e di insulina. «I benefici di Vildagliptin sono stati dimostrati da un programma internazionale di sviluppo clinico, che ha coinvolto in oltre 60 studi più di 20 mila pazienti», sottolinea il professor Emanuele Bosi, Endocrinologo dell'Università Vita - Salute San Raffaele di Milano, «Il nostro paese ha contribuito significativamente allo studio, coinvolgendo oltre 1.200 pazienti in ben 90 centri, tra cui lo stesso Ospedale San Raffaele». L'azione terapeutica di Vildagliptin è misurabile sin in termini di efficacia. Sia in termini di sicurezza. Da un lato, infatti, il farmaco riduce in misura significativa la glicemia senza comunque aumentare il rischio di ipoglicemia (ovvero un basso livello di zuccheri nel sangue), e ha un effetto neutro sul peso, cioè non determina quell'aumento che spesso si osserva in corso di tradizionale terapia antidiabetica. Dall'altro, il farmaco non presenta effetti indesiderati significativi e ha livelli di tollerabilità simili a quelli dei placebo, quindi molto elevati. «I farmaci tradizionali possono ridurre efficacemente la glicemia», spiega il dottor Edoardo Mannucci, diabetologo dell'Ospedale universitario Careggi di Firenze, «ma non possono arrestare il processo di peggioramento progressivo del diabete. Senza considerare che spesso, nel breve termine, causano effetti indesiderati come ipoglicemia, nausea, diarrea ed edema». I trial clinici sul farmaco hanno confermato l'elevata tollerabilità anche in particolari gruppi di pazienti, come gli anziani oppure etnie ad alto rischio. Il nuovo farmaco dovrebbe quindi permettere di controllare in modo efficace i livelli di zuccheri nel sangue, bloccando l'aggravamento della malattia. «Nel corso degli anni la glicemia, a causa di un inarrestabile declino della secrezione di insulina unito a stili di vita sedentari e a un'alimentazione errata, tende progressivamente ad aumentare, innescando un naturale processo di peggioramento che nel tempo porta molti diabetici alla necessità di terapia con insulina», spiega il professor Mannucci, «l farmaci ipoglicemizzanti tradizionali possono ridurre efficacemente la glicemia, ma non arrestare la progressione del diabete. E questo aumenta il rischio di complicanze, come malattie cardiovascolari, oculari e renali, che possono avere un impatto devastante sulla qualità della vita». Se le nuove terapie farmacologiche sembrano garantire ai pazienti nuovi vantaggi, l'approccio chirurgico fa registrare importanti progressi: la chirurgia del diabete, infatti, aumenta le sue indicazioni. Numerosi studi scientifici dimostrano che la chirurgia bariatrica, disciplina che comprende diversi tipi di interventi per i pazienti obesi, è efficace nella cura del diabete, malattia strettamente connessa proprio all'obesità. Nell'SO% dei casi, infatti, i pazienti diabetici sono sovrappeso oppure obesi. Questa correlazione è testimoniata anche da studi genetici, secondo i quali le alterazioni metaboliche presenti nei soggetti obesi hanno come manifestazione primaria l’insulino-resistenza, prima ancora dell'alterazione del metabolismo del glucosio e del peso. E ancora, a conferma di questo legame, si è riscontrato che nei soggetti con familiarità per il diabete l'indice di massa corporea è significativamente più elevato nella riduzione 'dei sintomi del diabete. Anche dall'estero arrivano conferme di validità della chirurgia 'metabolica. Secondo i risultati di un'analisi pubblicata sul Journal of the American Medical Association, basata sull'analisi di 136 studi per un totale di 22.094 , pazienti operati, la risoluzione ' del diabete risulta nell'83,7% dei casi dopo bypass gastrico e addirittura nel 98,9% dei casi dopo diversione bilio-pancreatica. In particolare, su 383 pazienti obesi diabetici operati ben 381 risultano guariti dal diabete dopo un anno, ovvero il99,5% già dopo 12 mesi è riuscito a sconfiggere l’insulino resistenza e a migliorare la funzione della betacellula, quella deputata alla produzione di insulina; il99,3% degli stessi soggetti risulta completamente guarito dopo dieci anni. La chirurgia bariatrica si conferma da un lato procedura salvavita per i pazienti obesi, e dall'altro importante opportunità di. miglioramento della qualità di vita. Consente infatti una sostanziale riduzione delle patologie associate, dal diabete all'ipertensione, dalle patologie cardiovascolari fino a quelle ortopediche. Ma anche la possibilità di liberarsi dalla necessità di assumere farmaci a vita per i pazienti diabetici. «Queste tecniche», illustra il presidente della Sicob, Luigi Angrisani, direttore dell'unità 'operativa complessa !di chirurgia generale :laparoscopica e miniinvasiva dell'Ospedale San Giovanni Bosco di ' Napoli, «risultano sempre più personalizzate, :cioè, elaborate in funzione delle condizioni psicologiche e del tipo di obesità: cui ciascun soggetto è affetto. Ma anche mininvasive: è sempre maggiore il ruolo della chirurgia laparoscopica, che evita il dolore e il trauma della grandi incisioni tradizionali e prevede esclusivamente cinque minuscoli fori sull'addome del paziente». Sempre più massiccio., infine, l'utilizzo delle nuove tecnologie, e del bisturi a ultrasuoni in particolare, che garantisce importanti vantaggi in termini di maggiore sicurezza e minori complicanze. rispetto a quello dei soggetti senza familiarità. Tra gli studi a sostegno della chirurgia bariatrica per la cura del diabete ha suscitato interesse quello condotto dall'Università di Roma Tor Vergatatrail2003 e il 2007, presentato al XVI Congresso nazionale Sicob, Società italiana di chirurgia dell'obesità e delle malattie metaboliche appena concluso. Condotto su oltre 200 pazienti, di cui 164 operati ed 80 non sottoposti a intervento chirurgico, ha evidenziato che numerosi pazienti trattati chirurgicamente a distanza di tre anni dall'intervento non presentavano più i sintomi della malattia, che risultava presente solo nel 3,1% dei casi rispetto al 15,2% registrato prima dell'operazione. AL contrario, nel gruppo che ha seguito esclusivamente la cura farmacalogia,il numero di soggetti affetti da diabete è aumentato dalf8,8 al 12,5%. Sono due, in particolare, le procedure che hanno sul diabete un effetto benefico specifico e costituiscono la cosiddetta «chirurgia metabolica»: la diversione Biliopancreatica e il by-pass gastrico, la cui efficacia è stata dimostrata dagli studi coordinati dal professor Nicola Scopinaro, ordinario all'Università di Genova. A seguito dell'intervento si verificano una riduzione dell’insulino- resistenza e la normalizzazione delle condizioni metaboliche dei pazienti già dopo un mese, risultati che si mantengono costanti nel tempo. «Questi due approcci», precisa proprio il professor Scopinaro, «si sono dimostrati efficaci nella cura del diabete anche in pazienti non obesi, come risulta dallo studio che abbiamo appena concluso su entrambi i tipi di interventi». Nel corso del Congresso annuale Sicob è emerso che anche il bendaggio ;gastrico svolge un ruolo positivo __________________________________________________________________ Repubblica 26 Apr. ‘08 VIAGRA E I SUOI FRATELLI DALLA DOPPIA VITA La "pillola blu" era stata pensata per contrastare i dolori dell'angina pectoris Sempre più medicinali concepiti per curare un determinato male si rivelano efficaci per un'altra patologia: e spesso gli si aprono così fatturati miliardari LAURA HISS Sono farmaci dalla doppia vita, nati per curare alcune malattie ma che si ri velano efficaci anche (o solamente) nella cura di patologie diverse. Sono noti nell'ambiente scientifico come off-label, e il più celebre è l'aspirina, che ebbe grande fortuna come il farmaco che aiutò a frenare l'epidemia di Spagnola dopo la prima guerra mondiale, e che nel 1950 entrò nel Guinness dei primati come l'antidolorifico più diffuso: del mondo: Accompagnò gli astronauti dell'Apollo sulla luna, lenì i mal di testa: di Don Camillo e dei personaggi di Cent'anni di solitudine. Fece guadagnare il Nobel a Sir John Vane e fu sperimentato in tali e tante condizioni da diventare oggetto di 3mila pubblicazioni scientifiche: Due decenni più tardi ritrovò una seconda giovinezza, quando i primi studi scientifici suggerirono i suoi benefici per il sistema cardiovascolare. Il caso più recente è il Prozac, nato come farmaco per la depressione, che è stato eletto a possibile terapia perla cura della ambliopia, o malattia dell'occhio pigro, come risulta dalla ricerca dell'equipe italiana di neurobiologia della Scuola Normal è di Pisa e dell'Istituto di Neuroscienze del Cnr, guidata dal professor Lamberto Maffei. Pubblicata su Science, la ricerca ha portato alla luce che la fluoxetina, la molecola del Prozac, sarebbe in grado di ringiovanire il cervello adulto; al punto da permettere il recupero 'di una visione normale in ratti ambliopi. Il Prozac è impiegato nei trattamento della depressione, altri esempi vengono dalla cura dei tumori. Accade spesso che il malato oncologico presenti patologie concomitanti che lo rendono più fragile. Allo stesso modo, può succedere che un certo chemioterapico si sia dimostrato efficace in usi o assortimenti nuovi e che le autorità sanitarie non abbiano ancora ratificato il nuovo uso o, ancora, che le novità riguardino farmaci non più coperti da brevetto, e che per questo nessuna azienda chieda l'estensione delle indicazioni. Infine, capita che in molti tumori considerati rari o per alcuni di quelli infantili non vi siano strumenti farmacologici, e che per questo i medici, in base alla loro esperienza e ai dati della letteratura, decidano di usare farmaci indicati per altre neoplasie. In Italia il 78% dei pazienti oncologici è curato con farmaci off label. A sorpresa, uno dei farmaci usati in oncologia è la talidomide, proprio il farmaco che negli anni 50 venne ritirato dal commercio per i danni che provocò ai bambini nati da madri che lo avevano assunto in gravidanza. La talidomide era venduta come sedativo, anti- nausea e ipnotico, rivolto in particolar modo alle donne in gravidanza. Ma ebbe effetti disastrosi e fu ritirato dal commercio nel 1961 dopo la nascita di centinaia di bambini affetti da focomelia. Oggi invece la talidomide si è dimostrato efficace nel mieloma, in alcune forme di mielodisplasia e di mielofibrosi. In America sono oltre 100.000 e in Europa già 10.000 i pazienti sottoposti a terapia con talidomide che negli ultimi 4 anni hanno utilizzato con successo questo farmaco. E come dimenticare il Viagra, che compie proprio in questi giorni dieci anni? Eppure, prima del 1998 la Food and Drug Administration stava verificando gli effetti del sildenafil, il principio attivo, come farmaco antidolorifico per l'angina pectoris. Erano risultati piuttosto deludenti, ma i medici nel condurre gli esperimenti scoprirono quasi per caso che il farmaco poteva avere effetti ben più validi nel trattamento della disfunzione erettile. Per di più, negli anni successivi sono state ipotizzate ancora altre utilizzazioni per il Viagra in campo andrologico a livello miocardico; coronarico, vascolare sistemico, piastrinico e polmonare, per cui non è esclusa a questo punto una "terza vita della pasticca blu. Ma il caso forse più sorprendente in assoluto è quello del Valium, da sempre uno dei tranquillanti più classici, usato da milioni e milioni di persone in tutto il mondo per prendere sonno la sera. Bene; poco tempo fa se ne sono scoperte le virtù in ostetricia. Attraverso meccanismi tra i quali la sedazione centrale ha: una funzione determinante, Valium facilita il parto rendendo la partoriente più calma e cooperante. Inoltre, somministrato tempestivamente in caso di minaccia di parto prematuro, ossia immediatamente all'inizio della dilatazione del collo; permette la continuazione della gravidanza per settimane o sino al termine. Non è finita: nel caso di cosiddetta "placenta previa", dosi elevate determinano una sedazione opportuna in quanto facilitano il rigoroso riposo a letto che va prescritto alle pazienti. Infine, tutto un altro settore. Sigle come C9H1SN50 o diamino – pirimidilpiperidinossido diranno poco, eppure sono le formule della molecola più conosciuta contro la caduta dei capelli: minoxidil. E' un altro caso di farmaco di gran successo nato per altri scopi: negli anni 70 fu introdotto come anti- ipertensivo e la scoperta della sua efficacia per la caduta dei capelli è stata ancora una volta casuale: un effetto collaterale sui pazienti affetti da ipertensione e trattati con questo farmaco per via orale era; infatti, la ricrescita dei capelli. E’ molto lungo l'elenco di farmaci che curano una malattia diversa da quella per cui erano stati concepiti: oltre a casi a sinistra, i più clamorosi sono il Valium e il Monoxidil __________________________________________________________________ MF 29 Apr. ‘08 L'EPATITE B È ALLE STRETTE Ricerca I farmaci per il trattamento dell'infezione da Hbv sono sempre più potenti e tollerabili I nuovi antivirali riducono il rischio che il virus muti e sviluppi resistenze di Elisa Martelli si amplia la gamma dei farmaci in grado di bloccare la replicazione del virus dell'epatite B, minimizzando resistenze e effetti collaterali. Dopo il completamento degli studi di fase III è stato approvato dall'Emea l'uso del tenofovir anche per l'infezione da Hbv, in arrivo in Italia entro la fine del 2008. «È un antiretrovirale già impiegato nel trattamento dell'infezione Hiv e presenta un'alta barriera genetica che ostacola le mutazioni del virus. A differenza di altre molecole non sviluppa resistenze crociate, può quindi essere impiegato anche per pazienti che sono già stati trattati con altri antivirali», spiega Antonio Craxi, direttore dell'unità operativa di gastroenterologia all'Azienda ospedaliera universitaria del Policlinico di Palermo. Un altro antivirale, l'entecavir, si ò confermato, invece, come uno dei farmaci di prima scelta nella cura dell'epatite B cronica in pazienti non trattati precedentemente con altri inibitori della replicazione virale. «In cinque anni di cura il 99% dei pazienti non ha sviluppato resistenza al virus, grazie all'alta barriera genetica della molecola, che costringe il virus a tre mutazioni per sfuggire al farmaco, rispetto ad agli altri antivirali, come la lamivudina, che perdono di efficacia dopo una o due mutazioni del virus», commenta Alfredo Alberti, professore di medicina interna e gastroenterologia all'università di Padova, in occasione del 43° congresso della European association for the study of the liver (Easl), tenutosi a Milano. «Oltre il 90% dei casi trattati con il farmaco, inoltre, non presenta tracce del virus nel sangue», ciò non significa che l'infezione sia debellata ma si scongiurano le complicanze derivate dalla cronicizzazione della malattia causata dalla permanenza del virus nell'organismo per più di sei mesi senza trattamento. « IL30% dei malati cronici di epatite B rischia di sviluppare la cirrosi e il30- 40°1o di questi il tumore al fegato», afferma Alberti. «Con 400 milioni di malati al mondo, l'epatite B cronica è la seconda causa di morte per cancro», continua Luca Guidotti, responsabile dell'Unità di immunopatogenesi delle infezioni al fegato dell'Istituto San Raffaele di Milano. «Sono circa 5-600 mila i pazienti affetti da epatite B in Italia, di questi 20-25 mila pazienti sono trattati con terapie», dichiara Alberti. Si tratta di un'infezione virale dovuta al contatto con sangue o liquidi organici infetti, le principali vie di trasmissione sono quindi quella ematica e quella sessuale. Dal 1991 in Italia è stato introdotto il- vaccino obbligatorio per i neonati, resta comunque una larga parte della popolazione dell'era pre-vaccino esposta all’infezione, senza tralasciare l’aumento dei casi dovuto all'immigrazione da zone ad alta endemia come l'Europa dell'est e l'Asia. «Esistono diversi protocolli per il trattamento dell'epatite B, i nuovi medicinali non escludono l'uso di cure standard, come quella con l’interferone, che possono essere combinate con gli antivirali», commenta Claudio Tiribelli, direttore del Centro clinico per gli studi sul fegato di Trieste. «L'interferone, molecola presente anche nel nostro organismo con un doppio effetto antivirale e di stimolazione del sistema immunitario, ha portato buoni risultati ma può essere adottato solo in circa un quarto dei casi, in quanto deve essere assunto per via iniettiva, non è adatto in fasi troppo avanzate della malattia e presenta pesanti effetti collaterali», spiega Craxi. Nella grande maggioranza dei casi la terapia è eradicante, non soppressiva, l'assunzione orale dei nuovi antivirali facilita quindi trattamenti a lungo termine. ____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 25 Apr. ‘08 LA CURA SARDA CONTRO IL MAL DI TESTA Medicina. Pubblicato un importante studio dell'équipe del neuropsichiatra Cianchetti Via il dolore grazie a un'iniezione in un'arteria del cranio Medici disponibili a visitare gratuitamente i pazienti, per valutare se hanno le caratteristiche per ottenere risultati dal nuovo trattamento. Una puntura contro il mal di testa. Un'iniezione di liquido fisiologico in corrispondenza di alcune arterie del cranio ha interrotto casi di cefalea cronica che nemmeno ai farmaci erano riusciti a interrompere. C'è ancora molta cautela nel mondo scientifico, ma lo studio effettuato da un gruppo di ricercatori e neurologi cagliaritani potrebbe dare nuove speranze per chi soffre di emicranie dolorosissime, spesso croniche e con numerose ricadute durante l'anno. Gli esiti della prima fase della ricerca, coordinata dai neurologi Carlo Cianchetti e Yousef Hmainad, è stata pubblicata di recente nel Journal of Neurology , rivista della European Neurological Society. Base operativa della sperimentazione il dipartimento di Neuropsichiatria dell'età evolutiva (nella clinica Macciotta) che ormai da qualche anno ha iniziato ad applicare tecniche innovative di trattamento che non prevedono l'utilizzo di farmaci. L'ultima adottata è stata, per l'appunto, l'iniezione di liquido fisiologico in prossimità di alcune arterie craniche che, in alcuni pazienti, ha provocato la scomparsa del dolori anche persistenti che andavano avanti da settimane. «Questo risultato», spiega Carlo Cianchetti, primario della Neuropsichiatria infantile, «suggerisce che le strutture nervose, che trasmettono al cervello la sensazione di dolore e che sono situate attorno alle arterie, vengano eccitate da sostanze "algogene" (cioè che danno la sensazione di dolore). Il liquido iniettato diluisce tanto da impedire loro di agire sul nervo in quantità sufficiente a causare il dolore». Due anni fa, un altro studio dell'equipe Cianchetti-Hmidan, aveva scoperto l'efficacia della compressione prolungata sulle principali arterie del cranio. Seguendo proprio questo principio, numerosi pazienti stanno da tempo usando un dispositivo (una specie di cuffia) studiato dal dipartimento che consentirebbe di attenuare alcune forme di mal di testa senza l'utilizzo di medicinali. Raccolti i primi risultati, nelle prossime settimane scatterà la seconda fase della sperimentazione (aperta anche agli adulti), con un numero maggiore di pazienti. I medici della Neuropsichiatria sono disponibili a una visita gratuita dei pazienti, valutando sulla base dei dati clinici relativi al loro mal di testa se abbiano le caratteristiche idonee ad ottenere risultati dal nuovo trattamento (gratuito). In particolare le cure sono indicate per pazienti con cefalea frequente, anche quotidiana, o presente da tempo (anche 10 o 20 anni) e resistente alle cure farmacologiche tradizionali. FRANCESCO PINNA __________________________________________________________________ Il Giornale 03 Mag. ‘08 IN ARRIVO I FARMACI BIOSIMILARI A Bologna cinquanta medici ed amministratori sanitari si confrontano su scelte e casti terapeutici Non vi sano ancora regole chiare per un uso responsabile dei medicinali-copia biotecnologici Luisa Romagnoni Massima sicurezza per i pazienti e risparmio sulla spesa sanitaria? Possono convivere queste due componenti? A Bologna oltre 50 medici ed amministratori di strutture ospedaliere e Asl, si sono confrontati su questo tema in un convegno dedicato a problemi e opportunità dei farmaci biologici e biosimili, promosso dalla Scuola superiore di oncologia e Scienze biotecnologiche: Con i successi ottenuti dai farmaci biologici (molecole «intelligenti» destinate alla cura di patologie gravi, tumori, malattie infettive e immunitarie, patologie cardiovascolari, respiratorie e neurologiche), la scadenza dei brevetti di alcuni di questi composti e il conseguente arrivo sul mercato, a costi inferiori, dei farmaci biosimili (farmaci fotocopia dei biologici), medici e amministratori pubblici si trovano oggi di fronte a nuove opportunità terapeutiche, il cui impiego è caratterizzato ancora da una certa cautela. Infatti se da un lato è assodato che i farmaci biosimili. sostengono adeguati profili di sicurezza, è pur vero che nessun produttore è in grado di garantire che un farmaco biosimile sia l'esatta fotocopia del composto biologico di riferimento. Questo perché i farmaci biologici sono messi a punto utilizzando cellule animali o vegetali e in natura non esistono due cellule uguali. Le fotocopie, vale a dire i biosimili, potranno essere più simili, ma sicuramente mai uguali. «È fondamentale comprendere quali siano le caratteristiche peculiari di questi farmaci copia e come se ne debba disciplinare l’impiego», afferma il professor Antonio Santoro, dell'unità operativa di nefrologia, dialisi e ipertensione del policlinico Sant'Orsola Malpighi. «Da qui la necessità di avviare un confronto costruttivo tra le diverse parti interessate al problema, ministero della salute, Alfa, regioni, classe medica e ricercatori, cercando di definire un intervento normativo che sia rispettoso dei diritti del malato e, al tempo stesso, permetta di offrire a condizioni più vantaggiose farmaci ugualmente efficaci». L'agenzia europea per il farmaco (Emea), che ha già dato il via libera a «copie» di alcuni farmaci tra cui l’eritropoietina utilizzata per la cura dell'anemia in pazienti con problemi renali o sottoposti a chemioterapia, ha definito nel febbraio 2006, le linee guida per l'approvazione dei biosimilari. Nel documento si stabilisce la necessità di confrontare la qualità, là sicurezza e l'efficacia del farmaco copia rispetto al farmaco originale attraverso studi pre clinici e clinici, secondo procedure ben diverse da quelle utilizzate abitualmente per la produzione dei generici: per l’Emea la bioequivalenza (la disponibilità del principio attivo nell'organismo del malato) non basta a qualificare un biosimilare. Occorrono studi comparativi pre clinici e tossicologici della durata di almeno 28 giorni, seguiti dalla somministrazione su volontari sani e quindi da studi clinici di efficacia contro placebo. Anche i continui richiami ad una disciplina normativa hanno trovato riscontro in Europa. In particolare, il Parlamento francese, sulla base del principio di precauzione, ha approvato nel marzo 2007 una legge che impedisce, a differenza di quanto avviene con i generici, la sostituzione «automatica» tra farmaco biotecnologico originale e la sua copia, a meno che non vi sia una specifica indicazione da parte del medico. Per garantire la sicurezza ai pazienti è fondamentale che i medici conoscano bene come usare questi farmaci. Al riguardo sottolinea il professor Leonardo Santi, presidente del Comitato nazionale per la biosicurezza e le biotecnologie e le Scienze della Vita: «Medici e farmacisti devono sapere che esiste una marcata diversità tra biosimilari e farmaci generici chimici, mentre le autorità preposte dovranno far si che i sistemi di approvazione e nomenclatura permettano una classificazione e un utilizzo sicuri». Le autorità italiane e quelle regionali, non Esami in laboratorio hanno ancora elaborato una normativa specifica sui biosimili. L'esempio francese potrebbe rappresentare un valido punto di equilibrio tra sicurezza dei pazienti e il risparmio per il servizio sanitario nazionale. __________________________________________________________________ Il Giornale 03 Mag. ‘08 ODONTOIATRIA: IMPIANTI POSSIBILI E AFFIDABILI IN CARENZA D'OSSO Luigi Barzis L'implantologia ha compiuto grandi passi avanti in questi ultimi anni. In un passato anche recente in soggetti edentuli era impossibile inserire impianti in titanio integrati nell'osso al posto di protesi mobili. Anche oggi sostituire i denti perduti con impianti fissi tradizionali non sempre è possibile. II 30-40 per cento delle persone interessate, infatti, presenta un'insufficiente consistenza ossea, che rende inaccessibile questo tipo di riabilitazione: «Gli impianti utilizzati dalle tecniche implantologiche più diffuse e standardizzate, i cosiddetti, impianti sommersi, hanno un ingombro piuttosto elevato», precisa il dottor Silvano Tramonto, odontoiatra, direttore dei Centri implantologici Tramonto di Milano e Stezzano-Bergamo (www.tramonte.com), ricordando le difficoltà che si possono incontrare quando si è in presenza di osso ridotto che non consente impianti sommersi. Una soluzione, in questi casi, può essere l'incremento del volume osseo attraverso un trapianto autologo. «Alcuni frammenti ossei vengono prelevati da parti del corpo del paziente stesso (in genere, dall'anca o dalla teca cranica) e quindi innestati nell'area da ispessire, purtroppo, anche questa tecnica presenta però inevitabili limiti: oltre ai tempi estremamente lunghi della procedura, va messa in conto una certa percentuale di insuccesso, a causa di diverse possibili complicanze, che si possono manifestare specialmente quando l'osso da ispessire è quello mandibolare». In questo caso, infatti, vi è la tendenza dell'osso mandibolare a riassorbire l'innesto. Un'alternativa a questa metodica è rappresentata dalla tecnica transmucosa a moncone emergente: «Grazie a viti dall'ingombro ridotto e facilmente malleabili, l'implantologo - afferma Tramonto - può lavorare con estrema duttilità aggirando le formazioni anatomiche che presentano aspetti critici, effettuando inserzioni molto angolate e utilizzando al meglio i punti di ancoraggio anche in mandibole atrofiche». Nei casi in cui la consistenza ossea sia particolarmente ridotta, è possibile ricorrere a un' ulteriore metodica che prevede un sistema di protezione atto a garantire all'impianto la massima stabilità possibile. «Si tratta della cosiddetta saldatura endorale. Il fatto che la saldatura avvenga direttamente all'interno del cavo orale non deve far temere il rischio di bruciature delle mucose gengivali. «Non si tratta, in realtà, di una fusione ad alta temperatura, ma di un particolare processo chiamato "sincristallizzazione", che avviene a temperature assai più basse di quelle necessarie alla fusione», spiega ancora Tramonto. «Le saldatrici endorali di ultima generazione, oltretutto, sono in grado di produrre le temperature necessarie facendo passare la corrente continua nelle parti da unire per un tempo estremamente ridotto (3-4 millesimi di secondo), il che contribuisce ad evitare il benché minimo danno ai tessuti circostanti». «Le saldatrici endorali di ultima generazione sono in grado di produrre senza alcun danno le temperature necessarie in solo 3-4 millesimi di secondo», ricorda il dottor Silvano Tramonte __________________________________________________________________ Il Giornale 03 Mag. ‘08 DOPPIO ATTACCO ALL’EPATITE C QUESTA MALATTIA COLPISCE DUE MILIONI DI ITALIANI Ignazio_ Mormino I nemici "silenziosi" della nostra salute sono tanti. Uno dei più temibili è l'epatite C, che può essere scoperta molti anni dopo il suo esordio. Secondo i dati presentati al recente Congresso europeo per lo studio delle malattie epatiche, tenutosi a Milano, soffrono di epatite C, nel mondo, 180 milioni di persone (due milioni in Italia). La malattia si trasmette attraverso trasfusioni di sangue infetto, scambio di siringhe già impiegate e infettate dal virus o più raramente la via sessuale. Un semplice esame del sangue che rivela un'alterazione dei valori delle transaminasi rappresenta un segnale di allarme, che può essere confermato dalla ricerca degli anticorpi destinati a contrastare l'azione del virus (HCV) che provoca l'epatite C. Una ecografia ed un esame non invasivo chiamato fibroscan possono evidenziare una fibrosi o cirrosi che richiedono un approfondimento tramite una biopsia, utile anche quando si è in presenza di un possibile carcinoma. Lo sbocco tumorale è la complicazione più temibile, che porta alla morte o, quando possibile, al trapianto di fegato. Nel corso del Congresso europeo per lo Studio delle malattie epatiche è stato ribadito che in 50 casi su cento il carcinoma del fegato colpisce soggetti affetti da epatite C. Servono dunque terapie che rallentino il decorso della malattia prima delle devastanti complicazioni oncologiche. Tra le più efficaci c'è quella che associa il peginterferone alfa-2-a alla ribavirina> con risultati scientifici documentati da vari studi internazionali. Due meritano una menzione: il Probe e il Practice. Nel primo, su seimila pazienti, è stato dimostrato che la terapia a base di peginterferone alfa-2a e di ribavirina porta all'eradicazione del virus HCV in una elevata percentuale di casi, ciò significa che è stato sconfitto. Nel secondo, condotto in Germania su 3470 pazienti viene confermato l'alto tasso di risposta terapeutica e viene sottolineata l'elevata sicurezza e la scarsa incidenza di effetti indesiderati della cura. Infine, come ha ricordato il professor Savino Bruno dell'ospedale Fatebenefratelli di Milano, sono in fase di sviluppo alcuni farmaci antivirali più selettivi di quelli attuali che sono destinati a rendere più efficace la terapia dell'epatite C ed a stroncarla anche in quel trenta per cento di casi che non rispondono al peginterferone alfa-2a. Grandi speranze accompagnano queste ricerche, la cui conclusione è prevista per il2010. Due nuove ricerche cliniche confermano l'efficacia della terapia con il peginterferone per battere il virus HCV Nuove terapie farmacologiche arrestano il decorso della malattia prima delle devastanti complicazioni oncologiche __________________________________________________________________ Corriere della Sera 03 Mag. ‘08 L'OCCHIO VEDE, IL CERVELLO SA GIÀ Da una studio del San Raffaele nuovi risultati sui meccanismi cerebrali della percezione visiva I neuroni «capiscono» prima ciò che si imprimerà nella retina Gli studi di due neuroscienziati del San Raffaele di Milano confermano la distinzione tra stimolo visivo e percezione consapevole. Il ruolo delle saccadi, rapidi movimenti oculari: dai loro «tempi» dipende la presa di coscienza di ciò che ci circonda di MASSIMO PIATTELLI PALMARINI In questi ultimi anni, la registrazione fine dei processi cerebrali in tempo reale ci ha rivelato qualcosa che forse non ci fa del tutto piacere. Cioè che il nostro cervello, o meglio qualche porzione di esso, «sa» cosa faremo un attimo prima che noi stessi lo si sappia. Metto questo «sa»tra virgolette, in quanto ci è arduo credere che un ammasso di cellule; per quanto solerti e ben interconnesse, possa davvero sapere qualcosa. Resta il fatto, comunque, che qualcuno al di fuori di noi può tendenzialmente prevedere quanto noi, dopo qualche attimo, sentiremo e faremo. Solo qualche attimo, certo, ma esiste davvero il libero arbitrio, se percepire, sentire e decidere discendono da binari cerebrali così obbligati? Un nuovo risultato viene ora rivelato, sull'ultimo numero della rivista internazionale specialistica The journal of Neuroscience, da due neuroscienziati e psicologi sperimentali dell'Università San Raffaele di Milano: Claudio de Sperati e Gabriel Baud-Bovy. I loro astuti esperimenti mostrano come il dramma che potremmo intitolare «neurone sa, ma tu (ancora) no!» investa anche il guardare e il vedere, ovvero quanto di più basilare, onnipresente e rapido esiste nella nostra vita mentale e cerebrale. Premettiamo che, senza requie, due o tre volte al secondo, i nostri occhi fanno qualcosa di cui non abbiamo alcuna consapevolezza, cioè rapidissimi movimenti in varie direzioni, chiamate in gergo saccadi. Se, per assurdo, un movimento saccadico potesse durare un intero secondo, il nostro occhio girerebbe su se stesso circa tre volte. Ebbene, de Sperati mi dice testualmente: «I movimenti oculari saccadici sono a un tempo padroni e schiavi della visione. Padroni, perché sono loro a dettare quale stimolo visivo cadrà sulla retina; schiavi, perché sono guidati dalle domande che il nostro cervello pone come conseguenza di ogni successiva fissazione oculare». I loro esperimenti rivelano qualcosa che già si supponeva, cioè che l'occhio si indirizza verso un oggetto prima che questo sia stato visto in maniera pienamente consapevole. Si guarda prima di vedere, insomma. Baud-Bovy mi spiega, in breve sintesi, l'esperimento stesso: «Si fa lampeggiare per un istante un puntino luminoso in prossimità di un secondo stimolo in movimento. II primo stimolo non viene percepito nella sua posizione fisica, bensì stabilmente spostato di una piccola quantità in direzione del movimento, come se il movimento del secondo stimolo avesse trascinato con sé il primo stimolo». Quale lezione trarne? «Ci si potrebbe aspettare che, se si chiede a un osservatore di muovere gli occhi verso il primo stimolo, questi guardi verso la posizione percepita (e illusoria), e non verso la posizione fisica dello stimolo, che non viene registrata nella percezione. E così è infatti, ma solo se la saccade parte un po' meno di mezzo secondo dopo la presentazione dello stimolo, cioè abbastanza tardi (si consideri che una saccade può essere diretta a un bersaglio in soli uno 0 due decimi di secondo). Se la saccade parte prima, il movimento oculare è invece accurato, ed è diretto verso la posizione fisica, invisibile, del primo stimolo. Quanto più la saccade ritarda a partire, tanto più è "contaminata" dalla percezione illusoria. In altre parole, nel "primo mezzo secondo", guardare (la saccade) e vedere (l'immagine cosciente dello stimolo) sono dissociati, e le saccadi, pur essendo accurate, partono "alla cieca". Solo nel volgere di mezzo secondo dalla presentazione dello stimolo i meccanismi di generazione delle saccadi accedono pienamente al segnale visivo che corrisponde alla visione cosciente». La scommessa degli autori è che il graduale cambiamento della codifica della direzione saccadica nel tempo riveli la dinamica temporale della formazione della percezione visiva consapevole nella corteccia cerebrale, cosa che si è sempre rivelata assai ardua da studiare. Da circa quindici anni si sapeva che esistono due canali cerebrali distinti: uno che presiede alle risposte motorie a uno stimolo visivo (movimenti dell'occhio compresi), e un altro che presiede in qualche modo misterioso ciò che noi percepiamo consapevolmente a seguito di quello stesso stimolo. Un canale per il «cosa» e uno per il «dove», che poi vanno a ricomporsi. Questa nuova scoperta di de Sperati e Baud-Bovy conferma che le due vie sono anatomicamente separate, non solo, ma che lo sono anche i loro tempi di elaborazione dei segnali rispettivi. Mi spiegano: «II segnale visivo in arrivo dalla retina è utilizzabile dopo pochissimo tempo dai circuiti della corteccia che generano i movimenti oculari saccadici, ma solo in un secondo momento dà luogo alla percezione consapevole». Che si possa guardare senza vedere, insomma, non è solo il risultato di distrazione, dell'avere la testa tra le nuvole, bensì di meccanismi microscopici connaturati a come funziona il nostro cervello.