SCIENCE: «RICERCA ITALIA, TROPPI FAVORITISMI» - MENO NORME PER VALUTARE IL MERITO - I (DUBBI) MERITI DEI FAN DEL MERITO - GELMINI: IL SI A 3 MILA RICERCATORI - SORPRESA, LA LAUREA BREVE FUNZIONA - LAUREE TRIENNALI COL FRENO - SDA BOCCONI SUPERA LA LONDON SCHOOL - LE IDEE? IL GURU NON BASTA PIÙ - IL CNR SNOBBA ANCORA LA "RICERCA CREATIVA" - L'UNIVERSITÀ IN GUERRA CON OMERO E DANTE - TRA I CHIP È SBOCCIATA UN'ANIMA - IL LABORATORIO CHE NON C'È - WEB.2 LA CULTURA DELL'ACCESSO - EINSTEIN: FEDE SUPERSTIZIONE INFANTILE - BIOTERRORISTI CON I MONTONI I MAESTRI GLI ITTITI - INGEGNERIA, MASSACCI È IL NUOVO PRESIDE - ARCANGELI NUOVO PRESIDE DI LINGUE - BOTTA: -È UN MALE PASSEGGERO - LA MODA HA UCCISO L'ARCHITETTURA - ======================================================= LA SALUTE SENZA MINISTERO - SISAR, DECISIONE TRA 30 GIORNI - LA SALUTE CONDIVISA - ZEKI: L'ARTISTA È UN NEUROLOGO - VA AD ELEONORA COCCO IL PREMIO MONTALCINI - L'UDITO DIVENTA WIRELESS - UNA LAUREA AD HONOREM AL MEDICO SENZA LAUREA - L’ETERNO CONFLITTO TRA CUORE E CERVELLO - INCAPACI MENTALI, DIRITTO ALL'EUTANASIA - QUATTRO BAMBINI SU DIECI NASCONO CON PARTO CESAREO - MALATTIE RARE, IN PISTA LA NUOVA RETE - FURBIZIE DA «COLPO DI FRUSTA» - IL FUTURO DELLA MAMMOGRAFIA - OSPEDALE E MEDICO, NESSUNA DISTINZIONE DI RESPONSABILITÀ - I CONTI IN ORDINE CURANO LA SANITÀ - SORDOMUTI, ORA LA VISITA SI PRENOTA VIA INTERNET - ALLARME MORBILLO TRIPLICATI I CASI IN POCHI MESI - INGRASSATI DI NUOVO? NON È COLPA VOSTRA - ADROTERAPIA: L'ACCELERATORE DI TERAPIA - L'USO SOCIALE DEL GENOMA - ======================================================= _________________________________________________________ Corriere della Sera 19 mag. ’08 SCIENCE: «RICERCA, TROPPI FAVORITISMI» SCIENCE APRE IL CASO ITALIA La rivista Usa: più trasparenza nella gestione dei fondi Rilanciata la petizione che 1.500 ricercatori hanno presentato a Napolitano. Ignazio Marino: il 10% dei fondi agli under 40 MILANO — La rivista scientifica americana Science, nell'ultimo numero (16 maggio), affronta il tema della ricerca in Italia. In particolare sulle staminali, ma in generale su come vengono distribuiti i pochi fondi pubblici. E titola: «Richiesta di trasparenza». Nella foto, il presidente Giorgio Napolitano e il primo ministro Silvio Berlusconi. Un'anomalia per l'apolitico Science. Che rilancia la petizione sottoscritta da 1.500 ricercatori italiani e inviata a Napolitano. Rafforzata dall'editoriale sul Sole 24 Ore (da cui Science prende spunto) dell'economista Andrea Ichino contro i «finanziamenti a pioggia». Insomma «pochi soldi e distribuiti secondo parametri politici o favoritismi», segnala Science parlando di «rivolta» della scienza italiana. Quale la soluzione? «La stessa in vigore per i fondi pubblici negli Stati Uniti: si valutano i progetti, si selezionano, si verificano nella loro evoluzione ». E i soldi sono nominali, affidati alla responsabilità di chi presenta il progetto. «Trasparenza, nessun conflitto di interessi nell'assegnazione dei fondi, meritocrazia», è la formula giusta secondo Science. Stessa proposta viene dal genetista Mario Renato Capecchi, premio Nobel per la medicina 2007. Statunitense di origine italiana. E' nel nostro Paese, per conferenze e onorificenze: a Bologna, a Padova. «Se l'Italia non investe in ricerca — dice —, presto si potrebbero avere grossi problemi economici». Si riferisce alle staminali ma il discorso vale per tutto. Il motivo? «Non essere allineati al momento della ricerca teorica e nella successiva fase delle applicazioni pratiche significa essere tagliati fuori dai processi di produzione — risponde —. E un Paese che non è al passo con la ricerca deve poi aspettare che arrivino le innovazioni dall'estero, ma questo significa non essere più competitivi in un mondo che cambia a grande velocità». Insomma, «non investire in ricerca si riflette, e aggrava, la crisi economica». Capecchi rafforza i concetti di Science: «Una cosa che gli Stati Uniti fanno davvero bene è quella di dare agli scienziati più giovani delle opportunità; in Italia invece i soldi vanno ai leader dei settori della ricerca e filtrati giù per la piramide dello staff. Non c'è alcuna possibilità per il giovane ricercatore brillante di farsi notare». Il senatore Ignazio Marino, chirurgo che negli Stati Uniti ha lavorato per anni, una soluzione l'ha trovata: «Nell'ultima Finanziaria ho fatto introdurre una norma rivoluzionaria: il 10 per cento delle risorse per la ricerca (pari a 81 milioni di euro) devono essere attribuite per merito a ricercatori al di sotto dei 40 anni e nominalmente. In base a progetti valutati da una commissione internazionale composta da 10 giovani scienziati, 5 italiani e 5 stranieri». La commissione è stata insediata lo scorso 4 aprile ed è presieduta da Monica Buzzai, 37 anni, biologa molecolare che lavora alla North Western University di Chicago. «Questo è il primo passo per cambiare ma ora va applicato», aggiunge Marino. Peraltro il nostro Paese non attira nemmeno ricercatori dall'estero. I dati 2007 di Farmindustria sono eloquenti. In Italia solo tre occupati su mille sono ricercatori, rispetto ai 6 dei Paesi dell'Ue (per esempio 8 in Francia, 7 in Germania, 6 in Gran Bretagna). E si riscontra un rapporto deficitario fra ricercatori che vanno all'estero e stranieri che arrivano nel nostro Paese: sono solo il 4,3% rispetto a una media degli altri Paesi che è del 17,5%. «Questo nonostante le aziende abbiano aumentato negli ultimi 5 anni il numero di addetti in ricerca e sviluppo, passando dal 7,4% all'8,7% dell'occupazione nel settore», dice Sergio Dompé, presidente di Farmindustria. Ma occorrono anche più fondi da investire. La proposta del neosenatore Umberto Veronesi è chiara: «Aumentare la percentuale del Pil da dedicare alla ricerca: attualmente in Italia siamo allo 0.9-1, bisogna almeno arrivare all'1.5. Media europea». Mario Pappagallo _________________________________________________________ Corriere della Sera 16 mag. ’08 MENO NORME PER VALUTARE IL MERITO Scenari Roger Abravanel propone in un saggio il metodo per misurare l' efficienza. E illustra un caso: la «delivery unit» di Tony Blair Destra o sinistra, come si valuta il merito Meno norme, più risultati: il sistema per dare i voti a scuole, ospedali e uffici pubblici S e il quarto governo di Silvio Berlusconi verrà ricordato, dipenderà soprattutto da quanto riusciranno a fare due ministri: Mariastella Gelmini, ministro dell' Istruzione, e Renato Brunetta, ministro della Funzione pubblica. Entrambi hanno predecessori illustri - Giancarlo Lombardi e Letizia Moratti all' Istruzione, Sabino Cassese e Franco Bassanini alla Funzione pubblica - ma scuola e pubbliche amministrazioni rimangono i due più gravi problemi del nostro Paese (con l' eccezione forse dell' ordine pubblico). CONTINUA A PAGINA 49 * * * In entrambi i casi si tratta di ministri alla loro prima esperienza. Da un lato questo è positivo: spesso l' efficacia dei ministri (e anche quella dei governi) peggiora alla seconda esperienza. Dall' altro l' inesperienza spesso rende i neoministri più dipendenti dai burocrati che reggono i dicasteri e che riescono a spegnere rapidamente il loro entusiasmo e a bloccare ogni innovazione: accadde sette anni fa a Letizia Moratti, proprio all' Istruzione; accadde ai ministri della Lega nel 1994, ai tempi del primo governo Berlusconi. Se posso permettermi un consiglio ai due nuovi ministri, prima di affrontare la pila di documenti che troverete sulle vostre scrivanie, dedicate qualche ora alla lettura del libro di Roger Abravanel Meritocrazia (Garzanti), in particolare il capitolo 9, «Quattro proposte concrete per far sorgere il merito». La prima è di istituire, come fece Tony Blair in Gran Bretagna, una delivery unit. L' aspetto nuovo di questa idea è lo spostamento dell' attenzione dall' analisi delle norme e delle procedure all' analisi dei risultati. Introdurre questo metodo in Italia significherebbe ribaltare il modo di lavorare e di pensare delle pubbliche amministrazioni, spesso più interessate alle procedure che ai risultati. Per esempio si tratterebbe di valutare la scuola sulla base dei risultati che gli studenti ottengono nei test Pisa (Programme for International Student Assessment) dell' Ocse. In Gran Bretagna questo metodo ha dato esiti significativi soprattutto nella sanità. La delivery unit ha obbligato le varie unità sanitarie (ospedali, ambulatori, day-hospital) a pubblicare i loro dati: tempi medi di attesa, tasso di sopravvivenza dopo alcuni interventi standard, incidenti, emergenze I cittadini hanno così potuto confrontare strutture sanitarie simili e chieder conto a quelle meno efficienti del perché i loro risultati fossero peggiori di quelli di altre. Il successo dell' esperimento britannico è dovuto alla compresenza di due fattori: l' informazione e la possibilità dei cittadini di accedervi e poi di far sentire la propria voce. La delivery unit ha risolto il primo problema, l' accesso all' informazione. Ma questo servirebbe a poco se i cittadini non potessero «farsi sentire». Questa possibilità in Gran Bretagna deriva dal sistema elettorale uninominale, nel quale ogni circoscrizione è rappresentata da un solo deputato, e quindi l' elettore sa sempre chi è il suo rappresentante in Parlamento, sia che lo abbia votato sia che rappresenti un partito diverso dal suo. Sa quindi a chi rivolgersi quando vuole lamentarsi per i risultati relativamente insoddisfacenti di una pubblica amministrazione. (È un aspetto che mi ha sempre colpito anche negli Stati Uniti. La frase «Ora telefoniamo all' ufficio del senatore Kennedy e gli chiediamo di occuparsene» si sente spesso in Massachusetts, uno Stato da quarant' anni rappresentato in Senato da Ted Kennedy, che tutti nello Stato conoscono come il «nostro senatore»). Cambiare il sistema elettorale, lo sappiamo, sarà complicato. Una delivery unit, invece, i ministri Gelmini e Brunetta potrebbero crearla in poche settimane. Non le dovrebbe essere affidato alcun compito legislativo, semplicemente chiedere che raccolga ed elabori in modo scientifico l' informazione. Per farlo, dovrà avere poteri forti ma limitati: semplicemente il potere di obbligare le amministrazioni (a cominciare dall' Istat) a pubblicare i dati, perché il fatto straordinario in Italia è che spesso i dati esistono, ma sono custoditi gelosamente in cassetti ben chiusi, caso mai qualche cittadino li volesse consultare. (Molte scuole ad esempio raccolgono - ma non rendono pubblici - dati sui loro alunni: quanto tempo hanno impiegato a trovare un lavoro, quanto guadagnano, in quanto tempo si sono laureati, dove e con che voti). Il professor Daniele Checchi ha mostrato come sia possibile elaborare su basi scientifiche classifiche delle scuole. Un esperimento simile è stato svolto dal professor Andrea Ichino per l' università Bocconi: egli ha elaborato una classifica delle scuole superiori della provincia di Milano che tiene conto del reddito delle famiglie (passo necessario per evitare che la classifica rifletta semplicemente differenze nel reddito) e dei risultati che gli allievi di queste scuole hanno conseguito in alcuni esami sostenuti presso l' università Bocconi. Ho esposto solo la prima delle quattro proposte di Abravanel, ma immagino sia sufficientemente attraente da voler subito conoscere le altre. Quindi buona lettura: di tutto il libro, non solo del capitolo 9. * * * Il brano Per una visione a lungo termine di ROGER ABRAVANEL L' unico modo per ristabilire il merito nella nostra società è la nascita di una nuova destra e di una nuova sinistra moderne e lungimiranti. Questo non richiede un ripensamento della legge elettorale o la rinuncia alle tessere di partito, ma un profondo cambiamento culturale. Il merito delle nuove classi politiche di destra e di sinistra non dovrà più essere quello di portare voti promettendo ai gruppi di interesse (con impegni che bloccano società ed economia), ma quello di convincere i propri elettori dei benefici a lungo termine del merito. La chiave risiede in un' espressione: il lungo termine. Mancano la volontà e il coraggio di proporre e realizzare riforme che penalizzano i propri elettori a breve, a fronte di una promessa per il futuro. Perciò l' ideologia del merito si realizzerà solo se la nuova destra avrà il coraggio e soprattutto la credibilità per convincere i propri elettori imprenditori che i sacrifici a breve, per creare una maggiore concorrenza, si tradurranno in opportunità a medio e lungo termine per le imprese. A loro volta le nuove sinistre dovranno spiegare ai propri elettori che il sacrificio di una liberalizzazione del mercato del lavoro e dei prodotti si tradurrà in nuovi posti di lavoro per i giovani e in prezzi più bassi che aumenteranno il potere di acquisto di lavoratori e pensionati. La chiave, quindi, risiede nel cambiare radicalmente il rapporto tra politici ed elettori: non si tratta di tenersi attaccati gli elettori con privilegi antimerito a breve, ma servono credibilità e coraggio nel proporre ai cittadini i vantaggi a lungo termine del merito per ottenere una società più ricca e più giusta. Giavazzi Francesco _________________________________________________________ Corriere della Sera 14 mag. ’08 I (DUBBI) MERITI DEI FAN DEL MERITO Scuola: il ministro Mariastella Gelmini promette interventi severi. Ma bisogna essere credibili... Per 37 volte è invocata la parola merito nella proposta di legge 3423 presentata il 5 febbraio scorso dall' allora deputata Mariastella Gelmini destinata a diventare pochi mesi dopo il ministro per l' Istruzione, l' Università e la Ricerca. Parole d' oro, come hanno già sottolineato sul Corriere Giovanni Sartori e Francesco Giavazzi. Dio sa quanto abbiamo bisogno del ripristino del merito in una scuola in cui da tempo immemorabile i maestri e i professori non vengono assunti per concorso ma di sanatoria in sanatoria, a partire da quella del 1859. Una scuola in cui l' unica «pagella» accettata da chi ci lavora, solo volontariamente e solo provvisoriamente e solo sperimentalmente, è l' «autovalutazione annuale effettuata dal dirigente scolastico stesso» il quale deve riempire un quiz in cui gli si chiede se sia o meno bravo nell' «identificare con immediatezza i problemi che impediscono una corretta realizzazione di attività rientranti nelle proprie responsabilità» o nel «riconoscere il livello di priorità degli interventi da realizzare». Una scuola in cui, dicono le classifiche internazionali del P.I.S.A. le scuole siciliane, cioè di quella terra che ha regalato decine di genii alla cultura mondiale, hanno oggi una quota di somari doppia della media Ocse e quadrupla di quella dell' Azerbaijian nonostante i bocciati alla maturità 2006 negli istituti classici, scientifici, magistrali e linguistici siano stati, nell' isola, solo l' 1,3%. L' ex ministro Giuseppe Fioroni, davanti a quei dati, si mise la mani nei capelli, spiegando che non c' era da meravigliarsi: «Alle superiori, in 10 anni, abbiamo scrutinato e mandato avanti circa 8 milioni e 800 mila studenti con lacune gravi o gravissime». Di più: «Alle medie solo il 17% di chi ha la cattedra di matematica ha la laurea corrispondente. I risultati si vedono...». Insomma, come non condividere l' accusa della Gelmini contro «l' impostazione statalista e dirigista che ha imperniato l' ordinamento degli ultimi cinquanta anni» e «ha portato con sè la marginalizzazione del merito»? Come non appoggiare il suo appello a «favorire quel processo di valorizzazione del merito che costituisce il momento di partenza per un' effettiva inversione di tendenza»? Come non schierarsi al suo fianco quando sprona il governo all' adozione di decreti legislativi volti alla «valorizzazione del merito nell' ambito della scuola, dell' università e della ricerca»? Peccato soltanto che, per fare riforme serie, profonde, radicali, una classe politica debba essere (e anche apparire) credibile, autorevole, rispettata. E possiamo scommettere che saranno in tanti a sollevare il dito per chiedere: scusate, ma in base a quale merito è stata affidata la gestione di un mondo come la scuola a una persona che fino a ieri risultava aver fatto soltanto la presidente del consiglio comunale di Desenzano e l' assessore al Territorio della provincia di Brescia? E in base a quale merito è stato fatto sottosegretario alla Scuola e all' Università il signor Giuseppe Pizza, segretario della micro-Dc, che dagli amici viene chiamato «professore» ma dice lui stesso, sul suo sito, di avere solo «frequentato» la «Federico II» di Napoli? Per carità, magari si riveleranno bravissimissimi. Ma certo, come esordio sul merito... Stella Gian Antonio _________________________________________________ ItaliaOggi 17 mag. ’08 GELMINI: IL SI A 3 MILA RICERCATORI Per entrare nelle università rispolverati i vecchi concorsi DI RICCIARDI Era tutto pronto. C'era il ministero dell'economia che aveva dato il via libera, la Finanziaria che stanziava i fondi necessari, mancava solo il regolamento che disciplinasse le regole dei concorsi. O meglio, il regolamento era stato pure fatto, ma si era incagliato presso la Corte dei conti, che lo aveva bloccato per illegittimità. E cosi oggi, a distanza di due anni dalla legge finanziaria che consentiva l'operazione, la prima del governo Prodi, il nuovo ministro all'istruzione, università e ricerca, Mariastella Gelmini, si accinge a fare quelle assunzioni di ricercatori universitari che erano sfumate tra le mani del suo predecessore, Fabio Mussi. E lo farà attraverso un decreto legge, che i vertici del dicastero stanno preparando e che potrebbe ricevere il battesimo già nel corso del primo consiglio dei ministri napoletano della prossima settimana. La Getmini, appena insediatasi al dicastero di viale Trastevere, ha focalizzata l'attenzione su due dossier urgenti: sul fronte scuola, quello che riguarda i corsi di recupero delle insufficienze per gli studenti elle superiori. Si tratta in media di 2-3 debiti per il 42% degli studenti, ovvero un milione di ragazzi, che se non recuperano entro l'estate saranno bocciati. Il problema è che. rilevano fonti sindacali, circa la metà delle scuole non sarebbe riuscita a tenere le lezioni di riparazione obbligatoriee. Niente lezioni, niente recupero. E da più parti è stata sollevata la richiesta di una sanatoria dei debiti per l'anno in corso. Il secondo fronte di intervento, riguarda invece l'università, La legge n. 296 del 2006 aveva avviato un piano straordinario per il reclutamento di ricercatori universitari e di enti di ricerca per il triennio 2007-2009. Con uno stanziamento rispettivamente ad anno di 20 milioni di euro, 40 milioni di euro e 80 milioni di euro per il solo settore universitario. Complessivamente dovevano servire a far entrare in ruolo 3,150 ricercatori, 1,050 ad anno. Ma la procedura per il 2008 si è arenata sul regolamento voluto da Mussi a disciplina dei concorsi. Regole nuove, che avrebbero dovuto eliminare i rischi dei baronati, ricorrendo per esempio a un doppio grado di esame e a valutatori autonomi. Ma la Corte dei conti ha bocciato il regolamento o perché non conforme ai principi della Costituzione che vogliono che sulle assunzioni si agisca per legge e non per atto ministeriale. A suggerire alla Gelmini la via di uscita. È stato il responsabile scuola e università di Alleanza nazionale, il senatore Giuseppe Valditara Che ha messo in luce in particolare il rischio del non fare niente, ovvero di perdere pure i fondi già autorizzati che sarebbero tornati al Tesoro, E cosi il decreto legge rispolvera i vecchi concorsi per l’accesso. Ragionamento analogo, per il pacchetti università, il dicastero della Gelmini lo sta conducendo anche sul fronte dell'Anvur, l'agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e di ricerca. Altra creatura (li Mussi che non è mai definitivamente decollata. In attesa che sia pienamente operativa, il Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario resta in carica nella sua attuale composizione. E ne riassorbe, assieme ad altri enti, i fondi relativi. Una disposizione transitoria che potrebbe però durare fino al 31 maggio 2009, Un anno pieno per la Gelmini che avrà cosi tempo per rimettere mano anche a questo filone della riforma mussiana. __________________________________________ la Repubblica 14 Mag. ‘08 SORPRESA, LA LAUREA BREVE FUNZIONA così lo studente non è più fuori corso La riforma universitaria del 1999 ha mantenuto le promesse: meno abbandoni e dispersione Resta però insufficiente la sinergia con il mondo del lavoro: serve ancora la specializzazione VLADIMIRO POLCHI ROMA ottobre in tre anni. Stop ai fuori-corso e a chi abbandona gli studi. Accesso immediato al mondo del lavoro. A nove anni dalla riforma universitaria, la "laurea breve" ha mantenuto le sue promesse? Alcune, senz'altro:i laureati dei corsi triennali in regola con gli esami sono ora il34,8%. Una rivoluzione: prima della riforma del `99, gli studenti in corso erano fermi al 9,5%. Non solo. Sempre meno sono quelli che abbandonano i corsi tra il primo e il secondo anno. «Ciò che però è mancato -spiega Antonello Masia, direttore generale del ministero dell'Università e della Ricerca - è una piena armonizzazione tra università e mondo del lavoro». Basta guardare ai numeri: oltre il 63% degli studenti, terminati i tre anni, decide di iscriversi alla laurea specialistica. Solo così, infatti, può accedere a tutti gli albi professionali, partecipare ai concorsi pubblici ed essere preso in considerazione da ogni azienda. Tra chi si accontenta della laurea breve, solo il 27,4% trovalavoro,il10%èdisoccupato. La riforma universitaria, introdotta con il decreto ministeriale 509 del 1999 in attuazione della Dichiarazione congiunta europea di Bologna, è entrata a regime nell'anno accademico 2001/02. Cosa prevede? Un corso di laurea triennale, terminato il quale, lo studente può proseguire per altri due anni e ottenere la laurea specialistica. Obiettivo della riforma? Abbassare l'età dei laureati (28130 anni, rispetto a una media Ue di 21), limitare i fuori-corso e porre un freno all'abbandono anticipato degli studi. Obiettivo in gran parte centrato. Nell'anno accademico 2007/2008 gli iscritti ai corsi di laurea triennale sono stati un milione e 137rnila: un daio pressoché stabile nel corso degli anni. Gli studenti sono in maggioranza donne (622mila), concentrati per lo più nel Nord Italia (circa 440mila studenti). In quanti abbandonano gli studi, tra il primo e il secondo anno? Pochi: il 12,6% nel 2006/07 (erano oltre il 20% nell'anno accademico 2004/05). E ancora: oltre uno studente su tre (il34,8%) si laurea regolarmente, mentre il 40,6% si laurea con solo un anno di ritardo. «Anche qui- conferma il direttore Masia - la laurea breve sembra aver davvero funzionato, se si pensa che prima della riforma del `99 gli studenti in regola con i corsi erano meno del 10%». Allora cos'è che non va? Per rispondere, bisogna guardare l'indagine AlmaLaurea2007 effettuata su 45 università italiane. Cosa emerge? Oltre il63% degli studenti non si accontenta della laurea breve, ma prosegue nella specialistica. Di questi, 45% studiano e basta, 18% coniugano studio e lavoro. Solo il27% invece è entrato definitivamente nel mercato del lavoro. Gli altri sono disoccupati. Grandi differenze si registrano poi tra i diversi corsi di laurea. Le aree più critiche? «I laureati triennali in geologia-spiega Masia - che per esercitare hanno bisogno del titolo di secondo livello. Gli psicologi, che senza la specialistica non possono iscriversi all'albo. I laureati in lettere, che senza il biennio non possono insegnare. Gli ingegneri, anche se per loro è previsto un albo differenziato tra lauree brevi e specialistiche». Per queste difficoltà, l'83% dei geologi e biologi decidono di proseguire gli studi, dopo la laurea triennale, così come il 76% degli ingegneri, l’82% degli psicologi, il 64% dei laureati in lettere. «Il problema prosegue Masia- è che ci sono ancora aree lavorative che non vedono di buon occhio la laurea triennale. Ma penso -conclude - che quando la riforma sarà davvero completata entro il 2010, l'offerta formativa sarà più rispondente alle esigenze lavorative del Paese». Vi è poi il caso di Medicina, con un boom di "laureati brevi" che lavorano: ben il94,1 %. «Ma attenzione - avverte Andrea Cammelli, docente a Bologna e direttore del consorzio AlmaLaurea in questo caso parliamo dei laureati nelle professioni sanitarie, diversi dunque dai medici tradizionali: sono per lo più persone con diplomi sanitari già acquisiti e che già lavoravano». Cammelli invita comunque alla cautela, perché «siamo di fronte a un'indagine solo a un anno dalla laurea, per questo non è facile fotografare la vera risposta del mondo del lavoro alle lauree brevi». E poi, «non va dimenticato che la riforma ha aumentato il numero degli studenti regolari e diminuito gli abbandoni, peccato solo che abbia anche drasticamente ridotto le esperienze di studio all'estero». La resa delle lauree brevi, si differenzia anche tra regione e regione. L' "Iniziativa interuniversitaria Stella" anticipa a Repubblica la sua indagine sulle università lombarde (oltre a quelle di Pisa e Palermo). I risultati? Meno della metà degli studenti (il 40,8%) prosegue gli studi, dopo la triennale. Oltre il47% già lavora e il10% è in cerca di occupazione. «Nelle università del nostro campione – spiega Nello Scarabottolo, docente a Milano e presidente del comitato scientifico dell'iniziativa Stella- gli studenti privilegiano il corso breve». I motivi? «Negli ultimi due anni, il mercato del lavora in Lombardia si è riaperto. La domanda di laureati, anche triennali, è cresciuta. Basta pensare che in un recente incontro tra i docenti milanesi d'informatica e alcune importanti aziende come Ibm e Telecom, è emerso il bisogno urgente da parte degli imprenditori di laureati sia specialistici che"brevi"».Anche in Lombardia rimangono però delle facoltà critiche: «In matematica, fisica e chimica -fa sapere Scarabattolo- solo il 17% trova lavoro dopo la laurea breve, il77% deve invece proseguire gli studi». _____________________________________________________ ItaliOggi 17 mag. ’08 LAUREE TRIENNALI COL FRENO Titoli accademici a confronto. La sezione B degli ordini stenta a decollare In pochi si fermano per la libera professione PAGINA A CURA DI BENEDETTA P PACELId Circa un anno fa oltre 170 mila giovani (fonte miur) sono arrivati alla laurea di primo livello guadagnandosi il titolo di dottore. Molti di questi sono stati assorbiti dal mercato del lavoro, altri, (la maggioranza) hanno deciso di proseguire gli studi iscrivendosi al biennio specialistico. Ma quanti hanno invece optato per l'iscrizione a un ordine professionale che consentirebbe di esercitare la libera professione? Pochissimi. E basta spuntare i numeri degli iscritti alle sezione B degli ordini professionali (quelle dei triennali appunto) istituite con il dpr 328/Ol che ha modificato l’accesso alla professione, per rendersene conto: dai circa 1.000 architetti junior ai 148 psicologi fino ai 26 geologi e a un solo iscritto all'ordine degli attuali. Insomma se da una parte è vero che ì laureati triennali aumentano di anno in anno (erano poco più di 1.000 nel 2001, oltre 22 mila nel 2002, 138 mila nel 2005, oltre 161 mila nel 2006) è pur vero che i numeri degli iscritti alle sezioni B degli ordini si possono contare sulle dita di una mano. E la laurea triennale come canale .d'accesso al mondo delle professioni sembra lontana dai successi cui ambiva. La stragrande maggioranza dei laureati di primo livello sembra decisa a evitare il problema, se è vero che il 70% non si ferma al titolo triennale ma si iscrive alla laurea specialistica. E la spiegazione sta anche nel fatto che le competenze professionali riconosciute agli iscritti delle sezioni B sono ridotte rispetto ai colleghi delle sezioni A. Un caso esemplificativo è rappresentato dagli ingegneri. Agli ingegneri iunior possono essere affidate «la progettazione assistita, la direzione dei lavori, la vigilanza, la contabilità e la liquidazione relative a costruzioni civili semplici, in concorso e in collaborazione (con altro professionista abilitato ndr), con fuso di metodologie standardizzate». Ma cos'è un progetto semplice? Cosa una metodologia standardizzata? In altre parole, come sapere se un ingegnere iunior è o non è abilitato a firmare un certo progetto? Questa incertezza scoraggia i committenti dall'affidarsi agli iunior, per evitare il rischio di vedersi bocciato il progetto in quanto firmato da una persona priva di titolo. Ma scoraggia anche i giovani ingegneri a iscriversi alla sezione B dell'albo. E che le lauree triennali siano nate sotto la stella sbagliata lo dimostra anche il caso limite dei dottori commercialisti e degli esperti contabili alle prese con il nuovo esame di stato della professione riformata. Ma la vecchia disciplina e l'istituzione dell'albo unico (1 gennaio 2008) molti laureati triennali si sono trovati di fronte a un vuoto normativo che li ha costretti a dovere aspettare fino a oggi per poter sostenere Fesame di stato per cui avevano studiato, oppure, in alternativa, a iscriversi alla laurea specialistica per accedere direttamente alla sezione A dei dottori non esistendo più quella B dei ragionieri contabili. E questo, come è evidente, ha completamente svuotato per intero la sezione B della categegoria che dovrà aspettare la conclusione dell'esame di stato per poter contare su qualche iscritto. Tutt'altra cosa è invece avvenuta per 1'ordine degli assistenti sociali istituito con la legge del 1993: in questo caso il dpr 328 ha fatto confluire tutti gli iscritti di allora, anche se non laureati, alla sezione B. Oggi, invece, per esercitare la professione è necessaria la laurea quinquennale. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 13 mag. ’08 SDA BOCCONI SUPERA LA LONDON SCHOOL La Sda Bocconi si piazza in quinta posizione in Europa e quindicesima nel mondo tra le scuole di management, superando la London Business School nelle classifiche dell'executive education, i corsi per manager, pubblicata ieri dal Financial Times. La classifica, basata in prevalenza sul giudizio dei partecipanti ai corsi (15mila l'anno per l'istituto milanese) ha visto la Scuola di direzione aziendale della Bocconi avanzare di unaposizione in Europa rispetto all'anno precedente e di sei nella graduatoria mondiale. Il primo istituto a livello mondiale è l’Harvard Business School, in Europa 1Imd.IlFinancialTimes utilizza32 parametri, 21 dei quali basati sul giudizio dei partecipanti. Tra gli aspetti della SdaBocconi che i clienti hanno dimostrato di apprezzare di più si segnalano la struttura dei corsi, il processo di fallow-up e le infrastrutture messe a disposizione. «Il riconoscimento arriva nel momento in cui 1a Sda Bocconi propone un catalogo di corsi sempre più internazionali - ha detto ieri il direttore Alberto Grandospesso organizzati in joint con altre istituzioni universitarie». _____________________________________________________ Il Sole24Ore 17 mag. ’08 LE IDEE? IL GURU NON BASTA PIÙ Il leggendario presidente della General Electric a scuola era uno studente mediocre. Quando gli ho chiesto quale fosse l'attributo più importante, per guidare in modo cosi illuminato un gigante come Ge mi ha risposto: "Quello che conta veramente è che sono irlandese e so come si raccontano le storie"». Può sembrare una battuta, invece per Laurence Prusak, 48 anni, fondatore dell’Institutie for Knowledge Management (Ikm), è l'ennesima conferma dell'importanza dello story telling all'interno delle organizzazioni aziendali. «Raccontare storie, saper immaginare e comunicare il futuro dell'azienda è un fattore che distingue un ceo di successo», racconta il ricercatore americano che sarà in Italia lunedi per parlare all'università Luiss di Roma nel corso di un incontro organizzato dà Assokaowledge, l'associazione di categoria dell’education e del knowledge. «So che può sembrare strano. Ma non è assolutamente una carattéristica rara. All'Ibm cosi come alla Banca mondiale, e non solo nelle alte sfere, è pratica diffusa incontrarsi per condividere informazioni. Raccontare significa anche "vendere" le proprie idee sull'azienda. Ma attenzione – sottolinea - non si tratta di una tecnica di marketing quanto piuttosto di uno strumento per stimolare il management e creare un immaginario collettivo aziendale accessibile a tutti». La tensione a rendere le organizzazioni aziendali delle strutture aperte dove le idee possono viaggiare e quindi attecchire è il mantra che percorre tutta la produzione editoriale di Prusak: In particolare, insieme al collega Thomas H. Davénport, il direttore dell'Tkm ha analizzato nel _libro What's the big idea? Creating and capitali il ciclo di vita delle idee, cercando di capire come le grandi organizzazioni si strutturano per sapere chi sa cosa al loro interno. «Ogni azienda dovrebbe creare una propria mappa della conoscenza, dovrebbe sapere dove si nascondono le competenze é di quale capitale umano si dispone. Ma, soprattutto, nelle grandi compagnie, questo non è operazione semplice. E spesso non se ne sente neppure l’esigenza»,spiega Prusak. Eppure, tutti gli esperti di knowledge management indicano questo tema come lo spirito dei tempi dell'era della conoscenza. E tendono a esaltare la figura dei guru, dei visionari, dei produttori di idee aziendali. «Dopo aver analizzato centinaia di compagnie innovative, ci siamo resi conto che non bastano i guru. Per un'azienda è fondamentale avere al proprio interno anche quelli che definiamo gli idea practitioners, i professionisti delle idee». Come spiega nel libro 4Vhat's the big idea, non sono figure facilmente identificabili con titolo di studio e per dati anagrafici. Si tratta di persone intrinsecamente motivate, che si innamorano delle idee, ovvero di piccoli-grandi cambiamenti che possono, secondo loro, migliorare il business o, il funzionamento dell'impresa. Sono persone che ossessionano i propri capi con i loro progetti, spesso hanno un effetto dirompente nella vita aziendale. Tuttavia, non sono creatori di idee bensi agenti di trasmissione del cambiamento. «E spesso sono percepiti come uno ostacolo e un fastidio, soprattutto da quei manager che tendono a mantenere l'equilibro. Eppure, è chiaro che, salvaguardare lo statu quo significa condannare la propria azienda al fallimento. Spesso aziende meno gerarchiche e più snelle sono maggiormente capaci di generare innovazione al loro interno. Servono certamente i guru - riflette Prusak- ma anche una nuova classe di manager, professionisti delle idee». Prusak, non a caso, è laureato alla New York University in Storia delle idee. Ma è anche un esperto di nuove tecnologie. «In realtà - osserva - sono tra coloro che riconoscono l'importanza delle reti per la trasmissione della conoscenza, ma cerco di non enfatizzarne il ruolo. Per esempio, non credo ai mondi virtuali come Second Life: Provo a spiegarmi meglio: internet consente nuove forme di trasmissione della conoscenza. Ma sono io individuo che decido se e quando attivarle. In sostanza le tecnologie non bastano. E spesso certi tipi di comunicazioni richiedono la presenza personale, il faccia a faccia. Soprattutto nelle aziende: incontrarsi è un'opportunità per alimentare nuove idee. Del resto - osserva - se non fosse cosi non ci piacerebbe cosi tanto viaggiare e incontrare nuove persone». Proprio la voglia di viaggiare ha recentemente spinto Prusak a visitare Paesi come la Malesia, Singapore, il Giappone. E che saranno oggetto del suo prossimo libro. «Ho analizzato importanti aziende asiatiche come l'indiana Tata. E ho studiato molto anche la Toyota, che rappresenta in questo momento forse l'organizzazione più innovativa e più aperta del pianeta. Da qui la riflessione contenuta nel mio prossimo libro che vuole un po' allargare la sguardo al di fuori delle aziende. Mi sono chiesto, in tempi dove grazie a internet tutti sanno praticamente tutto, dove l'accesso alle informazioni è più facile rispetto al passato, come trasformare la conoscenza in un vantaggio competitivo. Non solo per le aziende, ma anche per i Governi e i singoli individui». Là risposta a questa domanda, per.usare una espressione cara a Prusak, sarà un'altra storia da raccontare. ________________________________________________ LiberoMercato 22-05-2008 IL CNR SNOBBA ANCORA LA "RICERCA CREATIVA" LUCA MAURELLI Su due piedi è impossibile afferrare le ricadute scientifiche dello studio sui saraghi giganti confusi dalla scoperta di barriere artificiali, difficile immaginare conseguenze epocali sulle nostre provvisorie esistenze da una ricerca sulle uova di struzzo depositate diecimila anni fa nel deserto, troppo forte la tentazione di archiviare alla voce "sprechi della sanità" la sperimentazione della risonanza magnetica sul fagiolino fresco. Eppure questi sono esempi di quella che il Cnr classifica e finanzia alla voce "Rstl, ricerca spontanea a tema libero", l'unica metodologia che Albert Einstein considerava davvero creativa, originale e fruttifera: quella dei cervelli che studiano, analizzano e sperimentano a briglie sciolte, senza l'obbligo immediato del risultato. I progetti "liberi" sono apprezzatissimi in tutto il mondo, finanziati alla grande e orgogliosamente definiti "curiosity driven", cioè mossi dalla semplice curiosità, dall'intuito. Un merito, ma non in Italia, dove invece le ricerche "spontanee" sono sostenute poco, male e con grandi lungaggini burocratiche. Lo dimostra l'ultima ripartizione dei fondi del Cnr, che il 13 maggio scorso ha pubblicato l'elenco di 70 progetti finanziati presentati ben due anni prima: meno di tre milioni di euro il budget assegnato alle "Rstl", rispetto ai quasi sette milioni girati ai ricercatori nel 2007 per 241 progetti. In entrambi i casi, comunque, siamo molto al di sotto di quel 15% del budget che il Centro nazionale di ricerche dovrebbe mettere a disposizione dei "curiosity driven": ricerche, queste ultime, che secondo i massimi esperti mondiali sono alla base delle tecnologie più importanti che supportano la nostra vita quotidiana e che incidono sul nostro benessere molto più delle cosiddette "application oriented". La scarsa attenzione riservata dal precedente governo e dai vertici del Cnr a questo settore potrebbe essere uno dei tanti aspetti di un sistema di finanziamenti da rivedere, anche alla luce delle recenti critiche arrivate dalla rivista internazionale "Science" sulle modalità di distribuzione dei fondi per la ricerca in Italia. La ricerca "libera e spontanea", in Italia, dovrebbe essere finanziata col 15% dei fondi messi a disposizione del Cnr dal Miur, circa 500 milioni, ma negli ultimi due anni le cose non sono andate esattamente così. Alla fine del 2006 furono valutate 988 richieste "Rstl", ma solo 543 di queste furono considerate ammissibili e finanziabili, per un importo totale di 21,6 milioni di euro. Ma di quei fondi alla fine del 2007 erano stati assegnati solo 6.856.000 euro, per 241 richieste. Nel 2008le cose sono andate anche peggio. A disposizione dei giovani cervelli sono rimasti solo 2 milioni e 800mila euro per 70 progetti, sbloccati nell'ultima seduta del consiglio di amministrazione del Cnr, che si è svolta il 16 aprile scorso e presieduta dal neo presidente Luigi Maiani, nominato nel dicembre 2007 dal governo Prodi. Insomma, dai quasi mille progetti presentati due anni fa, alla fine del ciclo ne risultano finanziati solo un terzo, e per una cifra ben al di sotto di quella quota "80 milioni" che dovrebbe rappresentare il15% dei fondi a disposizione del Cnr da destinare alle "Rslt". Tutto ciò nonostante quanto annunciava, nel 2006, l'ex presidente del Cnr Fabio Pistelli che parlava di ri partizione al 15, 15 e 70% rispettivamente per "Rstl", attività di I sviluppo competenze e progetti tematici a carattere strategico. Ma che cosa c'è nel panel di fondi per il 2008 che vengono infine destinati ai settanta fortunati? A parte i saraghi disorientati, di cui sopra, si va da ri cerche matematiche e chimiche di assoluto livello, alla sperimentazione in campo medico e biologico di eccellenza internazionale. Ma di assoluta eccellenza sarebbero anche i costi derivanti dall'utilizzo di "referee" esterni per la compilazione delle graduatorie: secondo fonti interne al Cnr si va infatti dai 200 ai 600mila euro l'anno. Sarà questa una stima attendibile? Se lo chiedono in tanti, tra gli 8mila dipendenti del Cnr". "Curiosity driven", è il caso di dire. _____________________________________________________ TST 14 mag. ’08 TRA I CHIP È SBOCCIATA UN'ANIMA LUIGI GRASSIA «Non fate innervosire quel robot, che è tanto sensibile». E magari è anche un po' permaloso, come il computer Hal 9000 di «Odissea nello spazio». Entro questa generazione l’emotività delle macchine farà parte della nostra vita quotidiana. Ci sono due programmi dell'Ue che consorziano le migliori università del continente per un obiettivo a prima vista un po' stravagante: produrre automi capaci di essere compagni interattivi degli esseri umani, in grado di cogliere le sfumature di umore di uomini e donne e di adattarvisi - sperando che non debba succedere il contrario. Uno dei due programmi, avviato nel 2006, si chiama «Feelix Growing» ed esplora l’intelligenza sociale e come questa possa essere creata nei sistemi artificiali. Tl secondo, lanciato e finanziato in questi giorni da Bruxelles, mobilitando 10 università Tra i rischi ci sono (coordinate dalla Queen Mary University di Londra), è stato battezzato «Lirec», cioè «Living with robots and interactive companions», e si baserà su una serie di esperienze tratte da «Feelix Growing» per esaminare «come si possano creare dei rapporti duraturi in situazioni sociali reali», per usare le parole del capo del progetto, Peter McOwan. In particolare, «con "Lirec" creeremo delle entità identificabili e socialmente consapevoli, che mantengono le loro caratteristiche quando migrano, ad esempio, dal corpo di un robot alla vostra casa per apparire come avatar sul vostro palmare». Insomma, la persistenza di una precisa e complessa personalità sarà il valore aggiunto rispetto agli studi da pionieri condotti finora, che miravano a scorporare, analizzare e riprodurre le singole funzioni elettronico-psicologiche. Sappiamo tutti che avere una psicologia, una personalità, è fonte di possibili problemi; e allora perché inserirle nel cervello elettronico delle macchine, rendendolo meno stabile e prevedibile?' Perché rischiare di scatenare crisi di identità cibernetiche, come quelle in «Blade Runner», o tentativi di ribellione individuale, come in «Electric Dreams», o coIlettiva, come in «Terminator»7 Il fatto è che per avere il massimo di flessibilità e personalizzazione nelle prestazioni delle macchine bisogna renderle capaci di interagire con noi, ma interagire sul serio, non in base a risposte stereotipate. In un mondo occidentale che ha tanto bisogno di colf e di badanti, il progetto «Lirec» si propone, ad esempio, di creare degli assistenti domestici che facciano un po' di tutto: lavare i piatti, e im qui non ci vuole una grande sensibilità, ma anche tenere compagnia. E questo richiede una tecnologia amichevole molto sofisticata. «Vogliamo sviluppare anche una prospettiva critica e porre problemi etici e psicologici rispetto a questo tipo di compagnia - spiega Kerstin Dautenhahn, un altro dei coordinatori -. Non vogliamo che i robot diventino sostitutivi delle persone in ogni aspetto. Quale che sia il modo in cui un robot si comporti, non dovremo mai confondere macchine e umani. Vorremmo evitare situazioni in cui una persona si leghi troppo a un robot». Per quanto cauti siano i propositi dei ricercatori del «Lirec», il confine fra uomo e macchina pare destinato a sfumare. Nell'intelligenza artificiale è stato elaborato il test di Touring che ha questa caratteristica: anche una persona non disposta a riconoscere filosoficamente che una macchina sia intelligente si può trovare in condizione di non saper distinguere, all'atto pratico, l’intelletto di un essere umano da quello di una macchina. Sogno o incubo, non si può escludere che fra qualche anno i robot superino l’equivalente emotivo del test di Touring, così che non li si possa distinguere, in questo, dagli umani. le crisi di identità cibernetiche, come in «Blade Runner» Gli assistenti domestici di silicio non soltanto laveranno i piatti, ma ci terranno compagnia _________________________________________________________ Repubblica 20 mag. ’08 L'UNIVERSITÀ IN GUERRA CON OMERO E DANTE PIETRO CITATI COME ogni anno, la produttività italiana è diminuita di qualche punto. Pochi anni fa, era lievemente inferiore a quella inglese: poi a quella francese e tedesca: poi a quella spagnola: poi a quella greca: poi a quella boema: poi a quella polacca: poi a quella bulgara: poi a quella moldava; e quest’anno si discute seriamente se sarà superiore o inferiore a quella del Ghana. Pare che abbiamo buone speranze. Tutti sanno qual è la ragione: la scuola e in primo luogo l’Università. È il vero problema italiano: infinitamente più grave dell’inflazione, del tenore di vita, del bilancio dello stato, dell’Alitalia, dell’immigrazione clandestina, dell’immondezza che ha trasformato Napoli in una elegantissima pattumiera sotto il cielo. Nel dopoguerra, tutti i ministri della Pubblica Istruzione sono stati mediocri. Ma, un tempo, i bigi e saggi ministri democristiani non osavano nemmeno sfiorare il vecchio edificio scolastico: sapevano che era pieno di crepe; e che un solo colpo di piccone avrebbe rischiato di distruggere l’Università, il liceo, le medie, le elementari. Poi, non so come, presero coraggio: la parola riforma li incantava: risvegliava in loro una specie di euforia e di ebbrezza, come se scrivere centinaia di leggi incomprensibili facesse conoscere loro la vera vita, — quella vita ardente che non avevano mai conosciuto. Così cominciarono le allegre catastrofi: quella della scuola elementare, a causa della moltiplicazione della maestra di base. Quella dell’esame di riparazione; e soprattutto (niente li affascinava tanto) l’invenzione delle cattedre universitarie grottesche, come Sociologia del gatto siamese o Il comp u t e r a p p l i c a t o a l l a letteratura . Ma il vero, immane disastro, paragonabile a un terremoto del decimo grado della scala Mercalli, doveva ancora giungere. Otto anni fa, l’onorevole Luigi Berlinguer, circondato da una schiera di pedagogisti e seguito da Letizia Moratti, diede solennemente il primo colpo di piccone. Sono passati appena otto anni. E del vecchio edificio scolastico non resta più niente: tutte le tegole al suolo, muri maestri e pilastri divelti dal bulldozer, mattoni in briciole, fango, poltiglia e, sopra la immensa rovina, una fittissima nube di tenebra. Oggi, gli studenti universitari non leggono più: seguono piccoli corsi di poche settimane, che si susseguono vorticosamente; e, alla fine, dopo aver saltabeccato da un piccolo corso ad un altro piccolo corso, giacciono a terra sfiniti, senza avere appreso assolutamente nulla. Come libri di testo, non adottano tutta la Divina Commedia , tutta l’ Odissea , e Ernst Robert Curtius e Santo Mazzarino, come si faceva nel vecchio edificio scolastico: ma miserabili librettucci, che raccontano in cento pagine la Storia delle Crociate o i Moralisti classici. Testi, niente, perché leggere Dante o l’ Odissea può riuscire pericoloso per le anime dei ragazzi innocenti. I pochi studenti dotati sono (giustamente) puniti: dopo aver studiato per otto anni, debbono affrontarne due di inutilissima pedagogia, prima di poter insegnare nelle medie o nei licei. Poi il ciclo si ripete all’infinito: pessimi professori universitari generano professori di liceo ancora peggiori, e questi allevano studenti per i quali scrivere una pagina in italiano è molto più arduo che ascendere l’Himalaya. Berlinguer e i suoi amici immaginavano che la società moderna, o società di massa, o società globale, fosse il regno dell’immensa faciloneria, governata da un sovrano idiota. Leggere è inutile: studiare inutile: conoscere i classici antichi e moderni inutilissimo; basta ignorare l’italiano e blaterare sciocchezze. In realtà, la società moderna esige studi difficilissimi, molto più difficili di quelli di cinquanta anni fa: richiede un’assoluta precisione mentale, una cultura che abbraccia molte specializzazioni, il dono del pensiero analogico, e quello di scoprire il tutto nel minimo. L’università di Berlinguer e della Moratti prepara ingegneri incapaci di costruire ponti e case, storici medioevali che ignorano il latino, fisici che confondono Einstein ed Euclide. In un disastro così totale, qualcosa di utile è naturalmente venuto alla luce. Come testimonia un’ottima inchiesta di Vladimiro Polchi pubblicata giorni fa su Repubblica, gli studenti fuori corso sono diminuiti: cosa ovvia, se lo studio è stato ridotto a pochissimo. I laureati della laurea breve che appartengono alla facoltà di medicina (i sanitari, non i medici) trovano facilmente lavoro. Ma la colpa gravissima della Riforma Berlinguer è stata quella di trasformare l’Università in un cattivo liceo di provincia. L’Università non può accontentarsi di produrre infermieri e odontoiatri: persone utilissime; ma deve educare specialisti, studiosi di cose ardue e difficili, come quelli che l’Italia costringe ogni anno ad emigrare in tutte le facoltà dell’universo. Così la Riforma Berlinguer va radicalmente riformata. Dobbiamo ripristinare i grandi corsi, lunghi sei o sette mesi, sugli argomenti fondamentali della conoscenza. Gli studenti devono tornare a leggere. Se qualcuno studia letteratura greca, o storia del pensiero economico, o storia della filosofia, tremila (non duecento) pagine di testi sono appena sufficienti. Qualche tempo fa, ho letto che, in Gran Bretagna, il ministro dell’Istruzione progettava o progetta di abolire, nelle scuole medie e nei licei, lo studio delle lingue straniere, che ormai sono perfettamente inutili (malgrado Dante, Racine, Cervantes e Goethe), visto che ormai tutti gli abitanti della Terra parlano inglese. La settimana scorsa, ho appreso da Repubblica che il vento ardimentoso della demenza europea ha preso a soffiare anche in Germania, dove il governo ha deciso che le scuole costano troppo: quindi niente più bocciature, niente più voti, e se i voti sono bassi verranno rialzati dal preside. Consoliamoci. Ogni paese ha il Berlinguer che si merita. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 22 mag. ’08 IL LABORATORIO CHE NON C'È Gli strumenti multimediali possono limitare carenze della didattica. Ma servono idee chiare Insieme ai libri tradizionali, i contenuti online sono un'opportunità. Purché docenti e istituzioni si mettano in gioco DI MICHELE FABBRI Alunni delle elementari all'università. Accade oggi a Roma al Dipartimento delle scienze, dei segni, degli spazi e della cultura della Sapienza, dove i bambini delle scuole primarie Lante dalla Rovere, Bonghi e Saffi partecipano alla manifestazione finale del progetto "Segni e sogni in città". Un'intera giornata per discutere le riprogettazioni - ideate dagli alunni - di aree degradate della città e del cortile della scuola. Libri, cartografia etecnologie multimediali di telerilevamento per tradurre in segni il sogno di una città vivibile e rispettosa dei bisogni dei giovanissimi cittadini. «È la didattica del fare, il learning by doing, commenta Gino De Vecchis, presidente dell'Associazione italiana insegnanti di geografia, che ha lanciato il progetto. È un caso emblematico di come gli strumenti tradizionali su carta e quelli informatici si integrano correttamente in un'attività laboratoriale complessa. Purtroppo è un caso abbastanza isolato». Si può partire da qui per gettare uno sguardo sulla cultura scientifica della scuola e sul ruolo che hanno i libri di testo e gli strumenti multimediali. «La geografia - sottolinea De Vecchis -è stata rivoluzionata da strumenti come i Geographical Information System e Google Maps. La carta geografica e il libro sono strumenti indispensabili, che vanno però utilizzati insieme alle nuove tecnologie. Il problema è che molti insegnanti non hanno la preparazione per affrontare questi sviluppi recenti. Così le case editrici non possono spingersi troppo avanti nell'aggiornamento. 1 libri non sarebbero utilizzati». Ecco, questo è il punto. II libro di testo è solo un anello di una catena con punti di forza e altri di debolezza. La qualità dei contenuti è fuori discussione. «I nostri manuali non hanno nulla da invidiare a quelli della tradizione anglosassone - afferma Massimiliano Gallioni- direttore generale di Rcs Education, anzi spesso sono più ricchi di esercitazioni di quelli stranieri. «Anche perché - come sottolinea Roberto Gulli della Paravia Bruno Mondatori - i manuali che "fanno il mercato" in materie come biologia e fisica spesso sono la traduzione dei migliori testi stranieri, scritti da esperti di fama internazionale». Il problema sono gli insegnanti, che spesso non riescono a utilizzare tutte le potenzialità del testo. Ma - si badi bene - non siamo in presenza di un esercito di fannulloni, che svilisce le qualità del manuale e non consente agli studenti di trarne profitto. AL contrario, gli insegnanti sono i primi a essere frustrati dalla situazione e a invocare soluzioni. Soluzioni che hanno un solo nome: aggiornamento. Soprattutto in laboratori attrezzati. Questo è l'anello debole della catena. «Bisogna tenere presente - afferma Bruna Baggio-docente di biologia all'Istituto Levi di Bollate, distaccata presso l'Ufficio scolastico regionale della Lombardia - che l'età media dei docenti della nostra Regione supera i 5o anni. Quasi tutti hanno lasciato l'università più di vent'anni fa. Quello che manca è l'aggiornamento "in situazione", in laboratori di qualità. I manuali diventano così per molti l'unico mezzo di aggiornamento e, in questo senso, sono sicuramente adeguati». AL capo opposto della Penisola, in Sicilia, l'analisi non cambia. «Da quando insegno - afferma Andrea Cosentino, dell'Associazione insegnanti di scienze naturali, discutiamo molto spesso dei libri di testo. Sono aggiornati e le modalità di rappresentazione dei contenuti migliorano costantemente, come nel caso della biologia, materia in rapidissima evoluzione. Il problema è che molti colleghi si fermano alla zoologia e alla botanica descrittiva su cui si sono formati». - Visti così da vicino, i problemi acquistano un'altra prospettiva. È il caso del darwinismo, di cui si discusse ai tempi della riforma Moratti. «La polemica - afferma Sergio Saviori - direttore editoriale di Mondadori education, è stata un'increspatura di superficie, che non ha coinvolto gli autori. Basti pensare che noi pubblichiamo i lavori di Cavalli Sforza. I veri problemi sono altri. Ad esempio come affrontare la matematica, dove i nostri studenti manifestano gravi carenze». E senza un'adeguata preparazione dei docenti, sarà impossibile affrontare quei temi di bioetica (come l'utilizzo delle cellule staminali) che cominciano a entrare effettivamente nella vita dei cittadini. Insomma, più dell’ intelligent design sembra preoccupare l'assenza di un disegno sensato che faccia emergere le qualità degli insegnanti: «...si figuri - ironizza Michele Lessona, presidente di De Agostini - che il mio trisnonno era il traduttore ufficiale di Darwiri». Il vero problema è che i laureati in matematica insegnano le scienze e quelli in lettere la geografia, che non si usano i laboratori e che nessuno sa che fine ha fatto l'Agenzia nazionale per lo sviluppo dell'autonomia scolastica». In questo quadro, che aiuto può venire dagli strumenti multimediali ori line e off line uniti al libro di testo? Laboratori virtuali, Cd rom, learning object possono, per lo meno in parte, sostituire il laboratorio che non c'è? simulare processi e fenomeni che si affrontano nella ricerca? La risposta è si, se si hanno ben chiari gli obiettivi didattici. Molte case editrici lo stanno già facendo. Alcuni sono pionieri come Garamond, che il manuale l'ha già "spostato" tutto su internet con tanto di oggetti multimediali a prezzi competitivi, altri stanno sviluppando prodotti già ben affermati. Dall'anno prossimo, ora che è stata risolta la questione con l'Antitrust, molti editori si sono impegnati a trasferire in digitale parte del contenuto cartaceo. L'operazione è sostanzialmente volta a contenere i costi. Potrebbe essere anche una buona occasione per sviluppare i contenuti. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 2 mag. ’08 WEB.2 LA CULTURA DELL'ACCESSO Obiettivo finale è un contenuto aperto per tutti Web 2.0, web sociale, contenuti generati dagli utenti. Il web abbatte le barriere, consente a chiunque di partecipare, di condividere, di pubblicare. Almeno in teoria perché c'è una fetta di popolazione che ancora agli strumenti informatici e del web può accedere solo con forti limitazioni. Si tratta dei disabili, coloro che hanno problemi di vista, di udito, che hanno difficoltà motorie, ma anche i più anziani e perfino coloro che devono utilizzare servizi online scritti in una lingua che conoscono poco. L'accessibilità a siti web; servizi online e applicazioni informatiche è, in teoria, garantita per legge, almeno per quanto riguarda le pubbliche amministrazioni che dovrebbero applicare i dettami della legge 4/2004, nota anche come legge Stanca, cosa che però avviene solo in pochi casi virtuosi. C'è poi il decreto legislativo 216/2003 che impone l'abbattimento delle barriere che discriminano i disabili in tutti gli aspetti della vita, compresa quella lavorativa. A livello internazionale è la Convenzione dei diritti delle persone con disabilità emanata dalle Nazioni Unite nel marzo 2007 e sottoscritta anche dal nostro Paese a indicare la strada che deve essere seguita. Ciò però pare non essere sufficiente, non aiuta nemmeno il fatto che la Presidenza del Consiglio dei ministri sia membro del Worldwideweb consortium (W3C), l'organismo che definisce gli standard del web tra cui anche le web content accessiUility guideline (Wcag), le raccomandazioni tecnologiche da adottare per dare concretezza all'accessibilità. I risultati ottenuti fino a ora sono infatti ancora deludenti. Il problema non deve però essere risolto attraverso l'imposizione normativa, quanto piuttosto facendo leva sulla sensibilità e sulla cultura nei confronti della questione. Così come gli utenti del web partecipano nel definire i contenuti più utili, affidabili, i servizi più innovativi, potrebbero anche partecipare a scegliere i siti più accessibili preferendoli ad altri. Se per esempio ogni utente che crea il suo sito web lo realizzasse pensando anche al problema dell'accessibilità, se i motori di ricerca assegnassero collocazione preferenziale ai siti accessibili, si creerebbe un meccanismo di diffusione virale della consapevolezza verso questo tema. «È sul fronte della cultura che si gioca il futuro dell'accessibilità. Bisogna rivolgersi agli interlocutori istituzionali e privati parlando seriamente di accessibilità, spiegandone il senso e i vantaggi, anche economici, ma soprattutto portando esempi concreti di applicazione. Gli aspetti tecnici sono importanti ma solo se si pone al centro del processo il contenuto. Per costruire un sito web fruibile è necessario che il team, o il singolo sviluppatore, acquisisca competenze in materie come usabilità e architettura dell'informazione, insieme alla conoscenza delle tecniche di accessibilità», enfatizza Marco Bertoni di Semplicemente.org, esperto di accessibilità e consulente del Cnipa (Centro nazionale per l'informatica nella Pa). Intanto per fortuna di accessibilità, internet e information technology si parla con sempre maggiore frequenza. Nelle ultime settimane l'Università Tor Vergata di Roma e il Politecnico di Milano hanno ospitato due incontri dal titolo, rispettivamente, «Web senza barriere» e «Ict accessibile e disabilità: una fotografia della situazione in Italia», durante il quale sono stati presentati i dati del primo Osservatorio Ict accessibile e disabilità realizzato dalla School ofmanagement del Politecnico di Milano con la collaborazione di Asphi (Avviamento e sviluppo di progetti per ridurre l'handicap mediante l'informatica) che ha in preparazione l'evento Handimatica dove saranno presentati progetti e soluzioni tecnologiche (a Bologna, dal 27 al29 novembre 2008). Andrea Rangone della School ofmanagementdel Politecnico di Milano nell'illustrare i dati emersi dall'Osservatorio che ha analizzato l'accessibilità a strumenti e risorse informative nei luoghi di lavoro, sottolinea come in molte realtà, soprattutto quelle di piccole dimensioni, il problema non è nemmeno affrontato perché i disabili non sono presenti nello staffo sono destinati a mansioni che non prevedono l'uso del computer. Nelle aziende più grandi invece appare una netta differenza tra la percezione che il management con la responsabilità delle risorse umane e dei sistemi informativi ha nei confronti della diffusione dell'accessibilità con un livello di risposte positive che sfiora il 7o%, e la reale presenza di strumenti tecnologici che consentono ai disabili di utilizzare strumenti e risorse informatiche che a stento arriva al 25%, e che crolla al3% se si considerano i dispositivi mobili. EMIL ABIRASCID emil @abirascid.com _________________________________________________________ Corriere della Sera 15 mag. ’08 LA LETTERA DI EINSTEIN SULLA FEDE: «SUPERSTIZIONE INFANTILE» IL CARTEGGIO LA MISSIVA AL FILOSOFO GUTKIND TROVATA DOPO 53 ANNI. DOMANI SARÀ MESSA ALL' ASTA DA BLOOMSBURY A LONDRA LONDRA - Ebreo sì, ma solo nel senso di appartenenza a un popolo e di affinità mentale con la sua gente. Perché credere in Dio è «superstizione infantile», e la Bibbia è «un insieme di storie primitive». Così si esprimeva Albert Einstein il 3 gennaio 1954, in una lettera scritta in tedesco al filosofo di Princeton Eric Gutkind, che a sua volta gli aveva mandato copia di un suo libro. Uno scambio epistolare nel quale il padre della relatività, che rinunciò a essere il secondo presidente di Israele, non lascia dubbi sul suo agnosticismo. «La parola Dio - scrive Einstein - per me non è altro che l' espressione e il prodotto delle debolezze umane, la Bibbia una collezione di leggende dignitose, ma pur sempre primitive e abbastanza infantili, nessuna interpretazione, per quanto sottile, può cambiare questo fatto. Per me la religione ebraica è, come tutte le altre, l' incarnazione delle superstizioni più infantili». E ancora: «Il popolo ebraico, al quale sono felice di appartenere e con la cui mentalità ho una profonda affinità, non ha qualità diverse rispetto ad altri popoli - sottolinea lo scienziato -. Per quanto mi riguarda, non è migliore di altri gruppi umani, anche se è protetto dai cancri peggiori dalla sua mancanza di potere. A parte questo, non ci vedo nulla di "eletto"». Parole inequivocabili, che però difficilmente metteranno fine alla lunga disputa sulla religiosità del genio per antonomasia, voluto come portabandiera da scienziati credenti e non, e invece contento, come sempre, di cercare una sua chiave di lettura. Come ha precisato al quotidiano britannico Guardian il professor John Brooke, docente dell' università di Oxford, «etichettare il pensiero di Einstein, come spesso avviene con i grandi scienziati, è impossibile. Senz' altro ha più volte espresso rispetto per i valori religiosi adottati dalle tradizioni ebraiche e cristiane. Ma la religione, intesa da Einstein, è qualcosa di molto complesso e astuto». Su questi argomenti Einstein si era già interrogato nel 1940, quando in un articolo pubblicato dalla rivista scientifica Nature sottolineava, con una frase rimasta storica, che «la scienza senza religione è zoppa, la religione senza scienza è cieca». Scriveva Einstein: «Il conflitto tra religione e scienza è nato da errori fatali», spiegando che «la persona religiosa è colui che al meglio delle proprie abilità si è liberato dalle catene dei desideri personali e si occupa di pensieri, emozioni e aspirazioni in cui crede per via del loro valore sovra- personale, senza necessariamente riconciliare tutto ciò con l' Essere Divino, altrimenti né Buddha, né Spinoza potrebbero essere considerati personalità religiose». Della lettera a Gutkind non c' è menzione nel libro che Max Jammer, amico di Einstein, dedicò al rapporto tra il premio Nobel per la fisica e la religione. Secondo la casa d' aste Bloomsbury, che la metterà in vendita domani a Londra, venne acquistata da un collezionista privato subito dopo la morte dello scienziato, nel 1955. Solo ora viene alla luce. * * * Debolezze umane La parola Dio per me non è altro che l' espressione e il prodotto delle debolezze umane|| * * * Leggende e Bibbia La Bibbia è una collezione di leggende dignitose, ma pur sempre primitive e infantili|| _____________________________________________________ Tst tutto Scienze e tecnologia 14-05-2008 BIOTERRORISTI CON I MONTONI I MAESTRI FURONO I GENERALI ITTITI Usarono il batterio della Tularemia per difendere il proprio impero EUGENIATOGNOTTI UNIVERSITA'DI SASSARI La prima arma biologica della storia sarebbe stato un batterio, il Francisella arensis: responsabile di una zoonosi, la Tulare è tuttora considerato come una possibile e micidiale arma utilizzabile dai fanatici del bioterrorismo. La suggestiva teoria - corredata di dati e cronologie - ha trovato ospitalità nella prestigiosa rivista «Journal of Medical Hypotheses». La storia della guerra batteriologica avrebbe avuto inizio più di 3 mila anni fa con gli ittiti, abitanti del potente impero che, all'epoca, dall'attuale Turchia stava estendendo il proprio dominio e affrontando una lunga serie di guerre con popoli di varia provenienza. Proprio in uno di questi conflitti avrebbero utilizzato contro i loro nemici pecore e montoni affetti da Tularemia - o febbre dei conigli - una malattia estremamente contagiosa e in grado di trasmettersi dagli animali agli uomini: questi, infatti, possono infettarsi sia ingerendo acque o carni contaminate sia inalando materiale infetto sia, ancora, maneggiando animali malati oppure attraverso punture di zecche, zanzare e tafani. ANTICHI DOCUMENTI Rara, ma ancora presente in alcuni Paesi dell'Europa dell'Est come la Bulgaria, l'infezione - che presenta una grande varietà di manifestazioni cliniche legate alla via di introduzione e alla virulenza del ceppo - può essere fatale nel 15 per cento dei casi senza un adeguato trattamento antibiotico. Ammesso che sia corretta l'interpretazione degli antichi documenti da parte dell'autore, Siro Trevisanato, un ex microbiologo (studioso di Oakville, Ontario, Canada) e con la passione della storia, tutto sarebbe cominciato con una devastante epidemia scoppiata in Medio Oriente nel XIV secolo a.C., ricordata come «La peste ittita». Da quanto si evince dalle lettere al faraone egiziano Akhenaton (1359 a.C. - 1342 a.C. circa), il perdurare della pestilenza, che infieriva nella città fenicia di Simyra, ai confini tra il Libano e la Siria, aveva consigliato alle autorità di vietare che nelle carovane che entravano in città fossero utilizzati gli asini (tra i 150 mammiferi soggetti all'infezione): è una decisione che farebbe pensare proprio a un collegamento tra questi animali e la vasta crisi epidemica provocata dalla Tularemia. Dieci anni più tardi gli ittiti attaccarono quella città e con il bottino si portarono dietro anche l'infezione degli animali razziati. Quasi subito, infatti, la popolazione fu colpita dalla malattia, che uccise anche il loro sovrano. Fu un periodo di emergenza: delle condizioni di debolezza che si crearono nell'impero approfittarono i popoli confinanti di Arzawa, stanziati nell'Anatolia occidentale, e intenzionati ad estendere i loro confini. Negli scontri che seguirono, tra il 1320 e il 1318 a.C, cominciarono ad apparire, misteriosamente, in molte zone del loro territorio dei montoni. Furono catturati, trasportati nei villaggi, macellati o inseriti negli allevamenti. Ma questi animali - secondo Trevisanato - erano i micidiali vettori della prima arma biologica della storia, proprio il batterio Francisella tularensis. Trasmessa per contatto diretto con gli animali infetti o per mezzo di insetti, la Tularemia si diffuse quindi rapidamente tra la p"obáu ne, che cominciò a collegare la strana comparsa degli animali, intenzionalmente inviati nelle loro terre, con la diffusione della malattia. Il risultato fu quello sperato dagli ittiti: riuscirono a battere i nemici. Loro, perciò, potrebbero fregiarsi del titolo di primi bioterroristi: avevano avuto l'intuizione di indebolire il nemico con un'epidemia, inducendolo ad abbandonare la guerra di aggressione. Ripresi da innumerevoli giornali, d'informazione e scientifici, i risultati dello studio hanno fatto il giro del mondo, sebbene con i limiti che ricercatori ed esperti di armi chimiche e biologiche non hanno mancato di segnalare. Per esempio il microbiologo Mark Wheelis: professore all'Università della California e autore di un libro sulla guerra biologica prima del 1914 («Biological warfare before 1914») ha osservato che per considerare i montoni una possibile arma «alternativa» si dovrebbe trovare la prova che l'intento degli ittiti fosse esattamente quello di trasmettere la malattia. Fino a che questo obiettivo non sarà dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio, si resta ancora nel campo della teoria e della speculazione. E questa - aggiungono altri ricercatori - presta il fianco a una serie di critiche, anche riguardo all'interpretazione retrospettiva dei documenti storici e all'identificazione della «peste ittita» con la Tularemia, che presenta almeno sei forme cliniche, tra cui quelle polmonare e tifoidea, che possono essere confuse con quelle di altre patologie. E infatti si deve tenere conto degli enormi problemi correlati alla difficoltà d'identificazione delle malattie del passato solo sulla base di fonti storico-letterarie, con tutte le incertezze derivanti da successive traduzioni di sintomi e segni. MANUALE DEI CINQUECENTO In attesa di nuove informazioni dovremmo forse restare, per quanto riguarda le prime prove delle guerre batteriologiche, a un manuale di guerra italiano del Cinquecento: descriveva come preparare «misture» atte a produrre gravi malattie nel nemico attraverso l'avvelenamento di acque e alimenti. _________________________________________________________ L’Unione Sarda 24 mag. ’08 INGEGNERIA, MASSACCI È IL NUOVO PRESIDE Università. Ha ottenuto 109 voti battendo Mazzarella che si è fermato a 51 Giorgio Massacci, presidente del corso in Ingegneria per l’ambiente e il territorio, è il nuovo preside della facoltà di Ingegneria. Nella tornata elettorale di ieri ha ottenuto 109 voti, più della metà del suo rivale, Giuseppe Mazzarella che si è fermato a 51. Due le schede bianche, altrettante le nulle. Massacci prenderà il posto del preside uscente, Francesco Ginesu, all’inizio del prossimo anno accademico. Il presidente del corso ambientale e del territorio è sembrato da subito il favorito: nelle precedenti due tornate è sempre risultato il più votato rispetto a Mazzarella e Giacomo Cao (uscito al secondo turno). Nel ballottaggio definitivo i colleghi del polo di Ingegneria hanno fatto crescere le preferenze per Massacci che nella seconda votazione aveva preso 84 voti. Il nuovo preside si è laureato in Ingegneria mineraria all’Università di Cagliari nel 1977. L’anno dopo ha iniziato la carriera accademica nel dipartimento di Geoingegneria e Tecnologie ambientali della facoltà. Dal 2001 è ordinario di Sicurezza del lavoro e difesa ambientale e dal 2003 è presidente del corso di studi in Ingegneria per l’ambiente e il territorio: nello stesso anno è diventato responsabile del servizio di prevenzione e protezione dell’Università di Cagliari. (m. v.) _________________________________________________________ L’Unione Sarda 17 mag. ’08 ARCANGELI NUOVO PRESIDE DI LINGUE Università. Prenderà il posto di Ines Loi Corvetto È Massimo Arcangeli, docente di Linguistica italiana, il nuovo preside della facoltà di Lingue e letterature straniere. Il professore non aveva rivali ma è riuscito a superare al primo turno le elezioni ottenendo 40 voti, più della metà delle preferenze degli aventi diritti (70). Nove le schede bianche. Nel prossimo anno accademico prenderà il posto della preside uscente, Ines Loi Corvetto. Nato a Roma 48 anni fa, Arcangeli insegna a Cagliari dal 2000 ed è garante per l’Italianistica all’Università slovacca di Banska Bystrica. «È un voto», commenta il docente, «che fa piacere. Il mondo universitario ci dipingeva come una facoltà spaccata in due tronconi. L’esito della votazione conferma invece una grande unità che mi fa ben sperare per l’attuazione del programma». Sono diversi gli obiettivi che il docente si è prefissato. «Cercherò, insieme ai colleghi, di rilanciare il sostegno ai corsi di lingue straniere, soprattutto in estate, e ai laboratori di scrittura non soltanto per i nostri studenti ma per tutti gli iscritti nell’Ateneo. Si deve poi puntare a una sempre crescente internazionalizzazione della facoltà. Per questo spero di arrivare alla firma di un accordo con la Cina per far venire a studiare a Cagliari i ragazzi cinesi e mandare i nostri studenti da loro. Inoltre ci proporremo come centro per la certificazione dell’italiano come lingua L2 : attualmente sono quattro i centri certificatori in Italia. Sarà importante la collaborazione con le istituzioni e con la Regione per avviare nuovi progetti legati all’insegnamento delle lingue straniere». (m. v.) _________________________________________________________ Corriere della Sera 23 mag. ’08 BOTTA: «È UN MALE PASSEGGERO». Koolhaas «Finita l'età delle teorie» di PIERLUIGI PANZA La moda ha ucciso l'architettura o l'ha solo ferita? Per alcuni progettisti la tesi contenuta nel libro di Franco La Cecla Contro l'architettura (presentata ieri sul Corriere) non coglie nel segno: i sistemi della moda e della comunicazione, al massimo, hanno ferito l'architettura... che con un buon cordiale si riprenderà. Ma critiche e approvazioni all'invettiva dell'antropologo milanese sono di segno diverso, talvolta opposto. E questo va a suo favore. Rem Koolhaas, per La Cecla il «trend setter» di Prada, autore del breviario nichilista dell'architettura contemporanea, Junkspace (Quodlibet), non può che ribadire una tesi già espressa al Congress centre di Londra nell'intervento Dilemmas in the evolution of the city: «C'è stato un periodo in cui sapevamo esattamente quello che dovevamo fare: molti hanno scritto manifesti, dichiarando quello che stavamo facendo e alcuni hanno realizzato quei manifesti. Negli ultimi 15 anni, a causa dei nostri errori, la cultura è cambiata, e quella fede nel sapere ciò che dovevamo fare è crollata completamente. Oggi non scriviamo più manifesti, ma al massimo ritratti di città particolari, non con la speranza di sviluppare una teoria su cosa fare, ma solo con quella di capire come sono attualmente le città. La fiducia è completamente assente e ci vorrà tempo prima che ritorni». Su questa linea, ma in una forma tanto radicale da rigettare le tesi di La Cecla, è il progettista del nuovo Museo del '900 e del Just Cavalli Café di Milano, Italo Rota: «La moda non ha ucciso nessuno: un paio di jeans di Cavalli che migliorano la forma di un 60enne lo aiutano a vivere meglio, così come una casa a Dubai, che costa meno che in Brianza. La Cecla parla dello 0,1% del mondo degli architetti e ignora quindi il 99,9% dei problemi. Ad esempio, il fatto che i costruttori si stiano già spartendo le aree per l'Expo di Milano». Più comprensione per il j'accuse si trova abbandonando gli style-architect (ci sono anche Tadao Ando per Armani, David Chipperfield per Dolce & Gabbana...). Mario Botta, ad esempio, ritiene veritiere le critiche di La Cecla, ma toccano, afferma, «solo una degenerazione impietosa del nostro tempo. È vero che la moda ha spopolato in settori non solo di costume attraverso la pubblicità e altre forme edonistiche del vivere. Ora sembra contare solo l'immagine, ma non è così: l'architettura resta costruzione dello spazio in rapporto con un contesto, un'attività che lavora sul territorio della memoria. L'architettura è il risultato delle forze fisiche relative al processo di creazione. Se sono in atto solo quelle edonistiche è chiaro che la forma finale sia quella del decostruzionismo contemporaneo. Ma anche la moda passerà di moda». Un'analisi non dissimile è quella di Vittorio Gregotti, che di La Cecla, però, rifiuta la critica di «non assunzione di responsabilità» da parte degli architetti che hanno costruito alloggi popolari in periferia. Un tema, quest'ultimo, sul quale invece benedice le critiche di La Cecla il direttore del Domenicale, Angelo Crespi, che con il critico Nikos Salingaros ha bacchettato il decostruzionismo delle «archistar »: «Ogni civiltà ha costruito case che rappresentavano un modo di pensare e vivere; i nostri architetti fabbricano alloggi e mausolei per futuri cadaveri. Pensiamo alle periferie ideate dai modernisti: sono luoghi orrendi, degradati, in cui gli abitanti hanno come disvalore di riferimento il brutto. Pensiamo invece a quanto i borghi medievali, costruiti senza l'ausilio di urbanisti e architetti, siano integrati nel paesaggio e funzionali alla vita umana. L'architettura e l'arte hanno rinunciato a pensare in termini di bellezza ». Ed è proprio Salingaros che, pur volendo riformulare l'idea di progetto su base «biologica» e «scientifica», accenna a vecchie nostalgie attraverso la citazione di alcuni amici, come Leon Krier, l'architetto classicista prediletto dal principe Carlo, e Michael Mehaffy, già «direttore educazione» della Fondazione del principe Carlo. «Leon — afferma Salingaros — non vuole mescolarsi negli affari italiani, ma dice che è totalmente disgustato della direzione che ha assunto l'architettura contemporanea italiana». Quanto a Mehaffy, afferma: «Questi progetti (il riferimento è al grattacielo di Libeskind per Milano) non aggiungono realmente qualcosa alla vita di una città, forse sono solo un'icona aziendale che potrebbe essere interessante guardare per un paio d'anni. Il prezzo urbano pagato, però, è molto elevato». _________________________________________________________ Corriere della Sera 23 mag. ’08 LA MODA HA UCCISO L'ARCHITETTURA Gli stilisti usano le «archistar» per stupire. Non per migliorare le città di PIERLUIGI PANZA Il sistema della moda e dei mass media ha arricchito pochi architetti e ucciso l'urbanistica. È la sostanza della tesi che l'antropologo dell'Università San Raffaele di Milano, Franco La Cecla, dà della situazione dell'architettura in un saggio ( Contro l'architettura, Bollati Boringhieri, pp.118, e 12), talvolta disorganico, ma che ha la forza tipica della riflessione di uno studioso «fuori casta» e che riecheggia il celebre Maledetti architetti di Tom Wolf (1982). E' vero, la moda ha fagocitato il mondo dell'architettura, ha per lo più «ridotto » gli architetti ad artisti creatori di oggetti «alla moda», deresponsabilizzandoli nei confronti del funzionamento della città e della società. Li ha trasformati in «creatori di trend» (come «stilisti») al «servizio dei potenti di oggi... Senza Prada e Versace — afferma La Cecla — non ci sarebbero stati i vari Gehry, Koolhaas, Nouvel, Calatrava e Fuksas... Sono state le marche di moda a trasformare l'architettura in moda». Quello che gli artisti hanno trovato nel sistema delle gallerie, dei curatori e nel mercato dell'arte, gli architetti lo hanno trovato nelle vetrine e negli stilisti. Anzi, afferma La Cecla, gli architetti hanno direttamente «preso il posto della maglietta firmata, sono diventati quella maglietta e quel paio di mutande». E una volta che sono diventati mutande, anche i mass media si sono accorti degli architetti. Cancellata la critica architettonica e del restauro (anche se siamo il Paese con il 50% dei beni culturali) i media hanno fatto scivolare l'architettura, l'arte e il design dal «giornalismo culturale» al «giornalismo di moda», direi dell'«intimo », con responsabilità gravi per il nostro territorio. Tanto che ciò, come nota pure La Cecla, serve da alibi ad alcune «archistar » che finiscono con l'occuparsi «di decoro, di cose carine», come mutande disegnate da calciatori o starlet. Morti Tafuri e Zevi, alla critica e alla «scienza» urbana (non servirebbe una pianificazione collegata ai problemi dell'immigrazione? La rivolta dei cinesi a Milano e la nascita di campi rom non sarà dovuta anche a un deficit urbanistico?) si è sostituita la costruzione del consenso. Così c'è chi, come Rem Koolhaas, che diventa «un trend setter, qualcuno che apre nuove direzioni al marketing Prada». E c'è qualcun altro, come Frank O. Gehry, che si affida al «brand», al salvagente della genialità: peccato che sulla sua testa piovano accuse come quelle contenute nel libro di John Silber della Boston University dal titolo esplicito: Architettura dell'assurdo. Come il genio ha sfigurato la pratica di un'arte. Ma La Cecla accusa anche la «continua presa di distanza» degli architetti dai loro progetti una volta che questi, specie quelli delle periferie, prestano il fianco a situazioni che diventano invivibili. Il riferimento è allo Zen di Vittorio Gregotti ma, in generale, a tutta l'architettura di quegli «apostoli che dagli anni 50 alla fine degli anni 80 hanno promosso l'idea che l'abitare andasse risolto con grandi costruzioni condominiali concentrate nelle aree vuote della città», generando mostruose periferie che ricordano quelle istituzioni totali vituperate da Michel Foucault. Giustamente La Cecla individua nella spostamento di termini da «casa» ad «alloggio » l'orizzonte di questa degenerazione, il cui fallimento ha spianato la strada all'affermarsi del sistema della moda e, di conseguenza, al decostruttivismo internazionale. L'idea tayloristica di stoccare gli individui come ingranaggi di un sistema all'interno di alloggi razionali ha distrutto l'orizzonte storico-simbolico dell'architettura, ovvero quello delle relazioni primarie, ad esempio quella di vicinato, della cui perdita evidente anche gli architetti dovranno pur portare una responsabilità! Naturalmente, di fronte alle accuse di La Cecla, la comunità che si autolegittima «addetta ai lavori» già stringe le fila, cercando di depotenziare l'analisi a «logica di gossip» (Fulvio Irace, «Il Sole 24 ore») come espressione di una generica «ostilità al progetto». Vero è che La Cecla riduce la complessità del Movimento Moderno e si lascia andare a una adulazione per Renzo Piano del tutto fuori contesto, ma mette a nudo le responsabilità del mondo dell'architettura. Gli architetti sono rimasti in mutande a causa della loro ostinata volontà di rifondare solo dall'interno la loro disciplina (creando università fondate per scuole stilistiche) e non dal confronto con gli altri nuovi campi del sapere, strutturando per decenni un pensiero «unico» di riferimento, costruendo mostruose periferie consegnandosi, poi, talvolta, alla speculazione edilizia, tanto che le questioni in cui oggi si trovano impelagati sono «per lo più irrilevanti ». Detto questo, non tutti i rilievi sono acriticamente accettabili: intanto bisogna essere consci che siamo di fronte a una smaterializzazione della civiltà con una conseguente ineludibile perdita di centralità dell'architettura. L'essere «al servizio dei potenti di turno» (gli stilisti) non è una novità: i grandi architetti sono sempre stati al servizio dei potenti di turno. Riuscire a ispirare un «trend» sarebbe un bene per gli architetti, se ciò non fosse fine a se stesso. Infine, il decostruttivismo internazionale, con i suoi limiti, è una testimonianza simbolica della società liquida, dello «stupefacente» e della trasformazione genetica e ha fornito anche sollecitazioni e sviluppo al settore e alla società. Ma è anche un monito sul solipsismo «stilistico» in cui si rifugia l'architettura di fronte alle difficoltà di confrontarsi con problematiche come il protocollo di Kyoto, l'affermarsi o meno di città multiculturali, le dinamiche della comunicazione e l'interrogarsi su cosa voglia dire declinare il globale nel locale, magari riesplorando anche il lascito dell'architettura organica. ======================================================= _________________________________________________________ Repubblica 17 mag. ’08 LA SALUTE SENZA MINISTERO IGNAZIO MARINO Caro direttore, la decisione non potrebbe essere più chiara: la salute dei cittadini non rientra nelle priorità del governo Berlusconi. Il premier non ha istituito il Ministero della Salute e, per la prima volta nella storia della Repubblica, l’Italia non avrà un coordinamento centrale e una figura di riferimento autorevole per i problemi dei pazienti, dei medici, degli infermieri ecc. E’ vero che da anni molte competenze sono state trasferite alle regioni, che amministrano e governano direttamente il complesso mondo della sanità, ma è altrettanto vero che un coordinamento nazionale è sempre stato importante per salvaguardare l’omogeneità e l’equità nell’assistenza. Ma partiamo dagli aspetti pratici: il Ministro della Salute partecipa al Consiglio dei Ministri, ovvero la riunione dell’esecutivo dove vengono prese tutte le decisioni più importanti; un viceministro o un sottosegretario no. Il primo può essere invitato a partecipare ma senza diritto di voto, il secondo non può nemmeno entrare nella stanza dei bottoni. Ciò significa che quando si discuterà, per esempio, dei finanziamenti da destinare alla Sanità, non ci sarà nessuno a difendere in prima persona gli interessi di questo importantissimo settore. Ci si dovrà accontentare della mediazione del Ministro del Welfare che, però, allo stesso tempo e allo stesso tavolo, dovrà preoccuparsi anche di finanziare adeguatamente le politiche per il lavoro e quelle sociali. Inoltre, verrà meno una funzione di regia autorevole, riconosciuta a livello internazionale, nel compito della prevenzione di malattie che pongono problemi planetari (basti pensare alla Sars o al bioterrorismo), oltre che nella definizione dei livelli essenziali di assistenza, nel piano nazionale per le vaccinazioni, nelle emergenze sanitarie come quella dei rifiuti in Campania e così via. Sebbene dal punto di vista strettamente giuridico tutte queste funzioni vengono assunte da un sottosegretario, e quindi in apparenza tutto rimarrà uguale, in realtà politicamente parlando, è solo con la presenza di un ministro che si riconosce ad un determinato settore un’importanza strategica, cruciale per la vita dei cittadini e per il buon funzionamento dello Stato. Probabilmente è proprio per questo che tutti i paesi del mondo hanno un Ministro della Salute… Vale la pena ricordare poi che la nostra Costituzione all’articolo 32 indica che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Non è un principio scontato, negli Usa per esempio, la salute non è considerata un diritto ma un servizio per cui è necessario pagare, e, infatti, la Costituzione americana non se ne occupa. I nostri padri costituenti, invece, hanno valutato che i cittadini italiani debbano essere trattati tutti allo stesso modo per quanto riguarda l’accesso alle cure. E anche per questo la legge prevede che il Servizio sanitario nazionale debba fornire i Livelli essenziali di assistenza (Lea), ovvero le prestazioni che vanno garantite a tutti, gratuitamente o in compartecipazione, grazie alle risorse raccolte attraverso le tasse. E su questo punto è stato fatto un grave errore: il governo Berlusconi ha deciso di cambiare rotta rispetto ai principi costituzionali. La logica che si è scelta è di una spinta ulteriore nella direzione del federalismo. Ma non nascondiamoci dietro a un dito: in sanità questo significa che alcuni cittadini potranno continuare a contare su tecnologie avanzate, su ospedali e servizi territoriali al passo con i tempi, mentre altri dovranno accontentarsi di pregare di non ammalarsi mai…E’ una logica agghiacciante. L’annullamento di un punto di riferimento nazionale non è casuale: dimostra la volontà di indebolire uno dei cardini dell’unità del nostro paese per aumentare il divario tra le regioni, già enorme e molto difficile da colmare. Io non trovo accettabile che i diritti e la salute dei cittadini delle regioni più efficienti siano protetti, mentre quelli delle regioni più deboli affondino e non mi pare parta col piede giusto un governo che considera il Ministro della Salute, garante della Costituzione e dell’equità, solo una poltrona in meno da assegnare. _________________________________________________________ La Nuova Sardegna 15 mag. ’08 SISAR, DECISIONE TRA 30 GIORNI Ieri udienza del Tar sul sistema informativo sanitario regionale CAGLIARI. Si conoscerà fra trenta giorni la decisione del Tribunale amministrativo regionale della Sardegna sul bando per il Sistema informativo sanitario integrato regionale (Sisar), impugnato dalla Reply Spa dopo l'assegnazione della gara al raggruppamento temporaneo di imprese formato da Engineering Sanità Enti Locali e Telecom Italia. Nell'udienza di ieri mattina, i legali delle tre parti in causa (tra le quali si era costituita anche la Regione Sardegna), hanno incentrato la discussione sui criteri "motivazionali e di valutazione" per l'aggiudicazione del punteggio in funzione della formazione della graduatoria finale, nonchè sulla composizione della commissione di gara. Sempre ieri, i giudici della prima sezione del Tribunale amministrativo, presieduta da Paolo Numerico, hanno mandato a decisione anche il ricorso del Banco di Sardegna contro l'affidamento a Unicredit della tesoreria regionale. Su un altro contenzioso con la Regione, quello aperto dalle banche (Banco di Sardegna e Banca Cis) sull'appalto per l'erogazione dei fondi della legge 51 (agevolazioni alle imprese), il Tribunale amministrativo regionale si è riservato di valutare la possibilità di affidare ad una perizia esterna l'accertamento delle condizioni economiche alla base dell'affidamento impugnato. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 22 mag. ’08 LA SALUTE CONDIVISA Oggi i pazienti usano il web per informarsi. Ma anche per creare relazioni Soli con la propria malattia. Soli in ospedale. Con il medico come unico punto di riferimento per la cura e la speranza. Può il wéb cambiare questa situazione? Può ristrutturare pratiche di cura e una relazione medico-paziente che hanno alle spalle una storia ormai secolare? La risposta è si. Anzi lo ha già fatto. In un numero di casi e con una profondità che chi non ha a che fare con medicine e ospedali nemmeno immagina. È un cambiamento profondo e in molti casi positivo; ma non è la soluzione di tutti i mali. Poiché il web, soprattutto nella fase definita 2.0, manifesta la propria forza nella circolazione libera delle informazioni e nella costruzione di relazioni e conoscenze, è in questi campi che bisogna cercare le novità e le criticità della medicina al tempo di internet. Oltre ai portali di informazione e di domande agli specialisti, tipici della prima fase del web, ci sono social network come Patients Like Me, un progetto web a. o, fatto dai pazienti che condividono la propria esperienza, trovano altri pazienti nella stessa condizione e imparano dagli altri: Daily strength, invece, permette ai pazienti di scegliere un gruppo di sostegno e di creare un blog dedicato a malattie come la fibrosi polmonare o il diabete. Mentre con ICYou i pazienti condividono la propria storia inviando dei video clip. Esistono inoltre blog come: CarePages in cui i pazienti americani ricoverati comunicano con i loro cari, informandoli della propria salute o CaringBridge che gestisce oltre G3mila pagine personali di pazienti. Il nocciolo del problema è chiaro: il bisogno di umanizzare il sistema sanitario, migliorare il rapporto medico-paziente che spinge - in maniera apparentemente paradossale- a cercare su internet risposte alle proprie domande di salute, siano esse curiosità o drammatiche esigenze terapeutiche. «Informati virtualménte» è diventata la parola d'ordine e la strategia del moderno c .consapevole consumatore di salute; ed è anche il titolo di una ricerca diretta da Ulrike Felt, dell'Università di Vienna. Dalla ricerca, presentata a Fest, la Fiera dell'editoria scientifica di Trieste, emerge anzitutto che nell'era dei cyber pazienti «il sapere della salute ha abbandonato lo spazio controllato dagli esperti della medicina classica per spostarsi in costellazioni assolutamente insolite». La prima fondamentale conseguenza è che in questo spazio pubblico le voci si sono moltiplicate e gli attori sono cambiari. Basta guardare a cosa è successo al medico. L'indagine 'ne individua sei tipologie, che hanno preso il posto della tradizionale figura monocratica. Si va dall'«interprete della scienza», che aiuta il paziente a interpretare é utilizzare le informazioni di internet, al caso estremo del «cyber dottore», con cui si interagisce solo nello spazio virtuale dei siti di medicina online. Certamente nella posizione peggiore si trova il «medico controllato/minacciato» che viene testato dal paziente in una situazione di concorrenza con internet. Anche i pazienti, secondo la ricerca, si comportano in modo nuovo. Per prima cosa si va su internet per capire se è il caso 0 meno di andare dal medico, poi, una volta giunti a casa, con l'aiuto del web si traduce quello che ha detto il dottore. L'autorevolezza del medica resta, dichiarano i pazienti, ma il rapporto e l'efficacia della visita migliorano, perché il medico non deve "perdere tempo" in spiegazioni troppo approfondite nei pochi minuti di una visita. Ma cercare informazioni correttamente non è semplice e può produrre risultati inaspettati. Google non è solo il punto di partenza della ricerca ma diventa una «fune di sicurezza» perché, rileva lo studio, l'utente va e viene continuamente dalla lista e così Google, involontariamente, diventa «da rete complessa di informazioni una lista lineare e con ciò un ordinamento gerarchico». Se le informazioni raccolte sono sbagliate o scarsamente attendibili, è la rete stessa a fornire alcuni strumenti di verifica: Revolution healt, è uno strumento di "rating" attraverso cui i cittadini possono valutare i medici e i centri nei quali operano. Patient opinion è un sito britannico nel quale gli assistiti del National health service esprimono la propria valutazione sul servizio di medici e ospedali. MICHELE FABBRI _____________________________________________________ Il Sole24Ore 25 mag. ’08 ZEKI: L'ARTISTA È UN NEUROLOGO di Gilberto Corbellini L’infelicità umana è un potente stimolo e richiamo nella creazione, così co me nella fruizione artistica. Era quindi inevitabile che diventasse un argomento centrale nel contesto degli studi neurobiologici che più produttivamente stanno definendo le basi naturali del giudizio estetico. Qualsiasi nostra esperienza, conoscitiva, sociale, amorosa, religiosa, politica, artistica, o al limite emotivamente disturbata, passa per il cervello. Oggi, grazie alle tecnologie del neuroimaging è possibile visualizzare quali zone del cervello si attivano o disattivano esponendo un soggetto a un qualsiasi tipo di esperienza tra quelle sopra elencate, il che non significa aver stabilito un qualche nesso causale. Sapendo che grosso modo diverse zone del cervello sono deputate a diverse funzioni si può capire e approssimativamente valutare come interagiscono tra loro le varie aree, e quali prevalgono o danno il tono "soggettivo" nelle diverse situazioni. Il neurofisiologo Semir Zeki è stato un pioniere nello studio scientifico delle esperienze umane tradizionalmente ritenute impermeabili all'indagine sperimentale. E l'ha fatto innanzitutto creando una linea di studi interdisciplinari, tra arte e neurobiologia, che ha battezzato (e protetto con copyright) «neuroestetica». Non solo dell'origine del bello si è occupato Zeki, ma anche di varie altre applicazioni della neurobiologia alla comprensione delle dimensioni più tipicamente umane del nostro comportamento. L'interesse di Zeki per la neurobiologia dell'infelicità umana è legato a una rilettura del famoso testo di Freud, II disagio della civiltà, e rappresenta uno sbocco necessario della sua teoria del cervello. Ogni attività umana, dalla produzione scientifica all'arte, dalla moralità alla religione all'innamoramento, per Zeki dipende da, e obbedisce, alle leggi del cervello; la cui funzione è di produrre incessantemente concetti, a partire dalle esperienze sensoriali, per consentirci di acquisire conoscenza. I concetti sintetici cui il cervello arriva partendo dalla variabilità delle esperienze sensoriali passate assumono la funzione di ideali, rispetto ai quali vengono confrontate le esperienze del momento. Nella misura in cui l'esperienza corrente soddisfa o meno le aspettative alimentate dall'ideale, si può produrre lo scontento. È il processo stesso dell'acquisizione di conoscenza, quindi, che condanna l'uomo all'infelicità; soprattutto nel contesto delle relazioni amorose, dove il partner per varie ragioni può discostarsi dall'ideale individuale della bellezza. Ma questa infelicità è anche l'origine dell'arte. In un saggio dedicato a Dante, Michelangelo e Wagner, Zeki ha mostrato che si trattava di artisti dominati dalla passione per l'amore romantico, uno dei sentimenti più complessi e soverchianti: in uno studio sperimentale Zeki ha mostrato che la passione amorosa "disattiva" nel cervello la capacità di giudizio obiettivo. Nessuno dei tre artisti trovò nella vita reale l'ideale che sia era creato nel cervello, e ognuno fu spinto in un modo diverso a creare opere d'arte in risposta a quella mancanza. Un artista può anche cercare di ricreare ideali più semplici, per esempio, di uno scenario naturale o persino di una linea retta. Ma, in ogni caso, la forza motivante viene dalla costruzione concetti ideali da parte del cervello, e dalla sensazione di scontento per la mancanza di una corrispondenza tra l'ideale e la realtà. L'arte, dunque, allevia i costi anche in termini di sofferenze - che comporta l'essere efficienti nell'acquisizione della conoscenza. E non è un'opzione, ma un imperativo. Zeki ha identificato i correlati neurali del "bello". Si tratta di complesse interazioni tra aree visive distinte e specializzate del cervello coinvolte nella percezione di differenti categorie di dipinti che vengono considerati belli e aree della corteccia motoria. In un altro studio ha mostrato una relazione di tipo quantitativo tra il livello di attivazione delle aree cerebrali e il livello di apprezzamento estetico soggettivo: Se le arti visive rispecchiano alle leggi del cervello e hanno la funzione di estendere le potenzialità conoscitive, gli artisti sono allora, per Zeki, anche dei neurologi, che studiano le capacità del cervello visivo con tecniche particolari e loro proprie. BELLEZZA E CERVELLO _________________________________________________________ L’Unione Sarda 23 mag. ’08 VA AD ELEONORA COCCO IL PREMIO “MONTALCINI” La ricercatrice ha ricevuto il riconoscimento ieri dal presidente Napolitano La dottoressa Eleonora Cocco, ricercatrice presso il Centro per la sclerosi multipla dell’Università di Cagliari, ieri mattina al Quirinale ha ricevuto dalle mani del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il premio "Rita Levi Montalcini", prestigioso riconoscimento conferito da una giuria internazionale a giovani scienziati che si siano distinti nella ricerca sulla grave malattia che colpisce il sistema nervoso centrale. Alla consegna dell’onoreficenza alla Cocco, giovane studiosa di appena 34 anni, era presente lo stesso premio Nobel per la medicina Montalcini, che si è complimentata con la ricercatrice per l’importante risultato raggiunto. La Cocco si interessa sin dai primi anni di attività scientifica alla genetica e alla epidemiologia della sclerosi multipla in Sardegna, isola che presenta una delle più alte frequenze della malattia al mondo. In particolare, negli ultimi anni, la ricercatrice ha focalizzato la sua attenzione sul ruolo dei mitocondri, centrale energetica della cellula umana, e della genetica mitocondriale nella patogenesi della sclerosi. Attualmente la giovane scienziata è responsabile del progetto pilota intitolato “Ruolo del genoma mitocondriale nella sclerosi multipla primaria progressiva in Sardegna”. (l. m.) _____________________________________________________ MF 25 mag. ’08 L'UDITO DIVENTA WIRELESS Ricerche I nuovi apparecchi acustici rendono possibile una percezione simile a quella naturale I suoni sono più chiari e localizzati. Cellulari e iPod si sentono nelle protesi di Elisa Martelli Nasce il primo apparecchio acustico dotato di tecnologia wireless. L'innovativa soluzione realizzata da Oticon permette di offrire alle persone colpite da una perdita uditiva non superiore al 50% una percezione sonora binaurale, ossia il più possibile vicina a quella naturale, con entrambe le orecchie. La tecnologia wireless permette alle protesi di funzionare come un'unità di elaborazione del suono centrale, lavorando in modo sincronizzato e scambiandosi informazioni in tempo reale. «Si risolve cosi un problema comune agli apparecchi acustici tradizionali che quando erano usati in coppia non si coordinavano fra di loro», commenta Walter Avi, direttore dell'Unità operativa di audiologia del dipartimento organi di senso dell'Università di Siena. «Localizzare un suono diventa più semplice, con un conseguente miglioramento della spazialità e dell'ascolto in contesti rumorosi, con l'ottenimento di una percezione uditiva normale», continua Gaetano Paludetti, direttore dell'Istituto di clinica otorinolaringoiatrica. del Policlinico Gemelli di Roma. Il sistema di controllo dinamico del feedback, inoltre, combina e bilanciagli ingressi del suono da entrambe le orecchie, minimizzando il rischio di fischi. «La binauralità è fondamentale per la qualità del suono percepito, permette l'attivazione dell'attenzione selettiva, ma anche del meccanismo dell'ascolto incidentale, quel sentire con la coda dell'orecchio fondamentale per l'apprendimento nei bambini, e migliora l'ascolto dei segnali non ridondanti, come quello della televisione», spiega Sandro Burdo, responsabile del dipartimento di audiovestibologia dell'Ospedale del Circolo di Varese. «Nell'udito naturale ciascun orecchio suddivide i suoni in singole parti e le trasmette al cervello contemporaneamente, per attivare il processore binaurale è importante, però, che i suoni presentino uno sfasamento di tempo e d'intensità», continua Burdo. L'apparecchio della Oticon è collegato, inoltre, a un dispositivo indossabile simile a un iPod, detto streamer, che funziona da portale fra le protesi acustiche e altre apparecchiature elettroniche grazie all'uso del bluetooth. Questo facilita, quindi, l'utilizzo di dispositivi come il cellulare da parte dell'ipoacusico, che sente direttamente nella protesi, con la conseguente eliminazione dei rumori di fondo. «Si evita il disagio di dover posizionare il cellulare in prossimità della protesi per sentire meglio e si scongiura il rischio di fischi causati dalla conflittualità con altri dispositivi elettronici», commenta Livi. Le protesi possono essere indossate sopra l'orecchio o inserite all'interno. Per minimizzare la sensazione di orecchio ovattato, provocata dalle protesi intrauricolari, l'apparecchio dispone di forellini di qualche millimetro, che non chiudono del tutto il condotto uditivo. Il tema dell'udito binaurale sarà trattato al congresso della Società italiana di otorinolaringoiatria (Sio), che si terrà a Torino il 23 maggio. L'impianto cocleare resta comunque una soluzione nel caso di sordità profonde, superiori al 70%, e da pochi anni può essere impiantato in entrambe le orecchie. «Un problema che si riscontra nel caso degli impianti cocleari bilaterali è che i microfoni non sono sensibili alle variazioni di tempo e intensità del suono ma, sfruttando la plasticità cerebrale, nei bambini operati si riattiva comunque un udito naturale», afferma Burdo. Anche tramite questi impianti uditivi è possibile ricevere via radiofrequenza la voce dell'insegnante o usare il cellulare grazie 'a dispositivi bluetooth. Un altro tema trattato al congresso sarà la stimolazione elettro-acustica, con gli apparecchi, che intervengono sulle frequenze di suoni gravi, e gli impianti per quelle acute, metodica che permette di coprire una fascia di pazienti prima difficilmente trattabile. _____________________________________________________ il Giornale 21 mag. ’08 UNA LAUREA AD HONOREM AL MEDICO SENZA LAUREA Vittorio Macioce L a legge li chiama semplicemente impostori. In queste storie il talento non basta, non cancella la truffa. Resta solo un dubbio: vale di più il mestiere o il pezzo di carta? Il dottor A, racconta Il Secolo XIX ha 55 anni e da più di venti lavora in un istituto di ricerca di Genova. È un immunologo. Ha pubblicato una cinquantina di libri, viaggiando tra l'Italia e gli States. Tutti dicono che è veramente bravo. Ogni giorno la stessa battaglia. Seguire gli attacchi dei virus, segnare sulla carta la strategia dei loro attacchi. Chi sono? Dove si nascondono? Come si moltiplicano? E, soprattutto, come fermare le loro mosse? Una partita a scacchi e qualche volta un buon medico, uno scienziato, deve ispirarsi al genio militare di Napoleone, uno che diceva ai suoi uomini: ognuno di voi ha nello zaino il bastone da maresciallo. Il dottor A ama chi sa sporcarsi le mani. Quelli che combattono sul campo. Lui è uno di questa schiatta. Nulla a che fare con l'arte della guerra di Von Clausewitz, roba da scrivania. L'immunologia è sudore, testardaggine e esperienza. L'immunologia è la sua vita. Solo quando scende sera una sottile inquietudine, quel buco nero tra il sapere e la legge. Una mattina la legge bussa alla sua porta e indossa la divisa dei Nas e della Finanza: «Dottore ci fa vedere la sua laurea?». Il bluff viene scoperto. Quella laurea è falsa, taroccata, porta il nome di un quasi omonimo. È bastato aggiungere un nome. La legge ha svelato le carte false con un controllo random. Qualcosa non tornava, codice fiscale e nome sulla laurea non concordavano, come un puzzle a cui manca un pezzo. Il dottor A ha letto l'accusa di abuso d'ufficio e truffa continuata. Ha confessato tutto e firmato le dimissioni. Questo soldato della guerra ai virus aveva nello zaino il bastone da maresciallo. Ma era fuorilegge. Quando tutto è finito si è tolto il camice quasi con un sospiro di sollievo. Era come vivere ogni giorno con il volto di un altro, uno identico a te, ma con una laurea in tasca. È là stessa angoscia con cui ha vissuto, per 20 anni, Poppe De Luca, professione ortopedico. A Latina il suo studio era uno dei più noti. Tante operazioni, più di cento ricorda ora lui, senza un solo errore. Infallibile. Ma senza laurea. E una vita da clandestino, come Giuditta Russo. Giuditta ha mentito per 15 anni. Ha infilato ogni giorno le pratiche in una valigetta, vestita in tailleur, ha aperto studi, trovato clienti, chiesto onorari. Ma l’avvocato Russo non era avvocato. Era brava: 250 processi vinti. «Cioè tutti, fino all'ultimo. L'ho perso di proposito per non essere scoperta. Ai miei clienti ho detto di averlo vinto, con un risarcimento di 60mila euro. Pur di trovare quei soldi mi sono inventata una serie di investimenti. Li ho proposti a amici e parenti. E alla fine, per risarcirli, ho escogitato aste immobiliari inesistenti. Li ho capito di essere al capolinea. Non volevo più mentire. Ho scritto una lettera aperta in cui chiedevo scusa a tutti». Tutti e tre volevano essere bravi professionisti. E non hanno nulla a che fare con l'epopea di Frank Abagnale, l'uomo che riuscì a indossare 8 identità diverse, dal pilota al pediatra, truffando malcapitati in 27 Paesi. No, quei tre sono solo un immunologo, un ortopedico e un avvocato che ti gettano in faccia un dubbio: non è il caso di abolire il valore legale 'del titolo di studio? È una battaglia sotterranea che va avanti da anni. Un calcio alla società delle carte bollate, la voglia di ribellarsi all'idea di uno Stato che certifica la bravura, il sapere, la conoscenza. Il sogno di una società libera dove il mercato segna il prezzo del tuo valore. Non ti chiedi chi sei, questo è un quesito che sta in fondo alla tua coscienza, ma quanto vali. Non sei un medico, un avvocato, un farmacista, un ingegnere. Ma sei uno che sa curare o difendere il prossimo. Sei uno che sa costruire ponti. Non sei il vestito che indossi, ma quello che fai. È una logica anglosassone, poco statalista. 11 problema è capire se qui funziona. Questa è una terra dove regna la sfiducia e dove ti rimbalza in faccia una domanda, in fondo, molto umana: ma tu ti faresti curare da un chirurgo senza laurea? La risposta più razionale è: se è bravo si. Ma la ragione non sempre basta. Vittorio Macioce La storia di un immunologo di fama ma senza pezzo di carta riapre il dibattito sul valore legale del titolo di studio «VERO» PROFESSIONISTA Ha pubblicato libri, era «immunologo» apprezzato in un istituto ricerca genovese. Ora, però, Nas e Guardia di finanza hanno scoperto che aveva falsificato la laurea. Un autodidatta eppure all'altezza dei suoi colleghi regolarmente laureati _____________________________________________________ Repubblica 22 mag. ’08 L’ETERNO CONFLITTO TRA CUORE E CERVELLO di Massimo Pomponi * Il cervello di un adulto produce 30 volte più colesterolo dei restanti organi e contiene il 40% del colesterolo del corpo Alla fine degli anni 7o si scopri il segreto della longevità cardiaca degli Eschimesi, malgrado un'alimentazione ricca di lipidi e colesterolo perché a base di pesci molto grassi di acque fredde, avevano una minor mortalità rispetto ai danesi che vivevano anch'essi in Groenlandia. I nativi Eslàmos si nutrivano di pesce ricco di acidi grassi omega3, mentre i danesi avevano una dieta con un basso contenuto di questi grassi. Si scopri che non tutto il grasso era poi così dannoso per il nostro sistema cardiovascolare e vennero alla ribalta gli omega-3, acidi grassi poliinsaturi (DHA, EPA). Uno di essi, il DHA, tanto è importante per lo sviluppo anatomico del cervello umano e della sua rete informativa, che è considerato un nutriente essenziale. II cervello infatti non può sintetizzarlo ex novo. Può invece sintetizzarlo a partire dall'acido alfa-linolenico (fornito dalla dieta), ma la resa è veramente bassa: meno di 5 molecole di DHA per ogni 10.000 di molecole di alfa-linolenico. I lipidi che non s6rtetiuiamo Morale, il DHA deve essere contenuto nell'alimentazione giornaliera. Ma quali sono gli alimenti più comuni ricchi di DHA? Principalmente pesce azzurro, salmone e per chi può, soprattutto caviale. C'è a questo punto da fare una piccola considerazione. Con in mente la prevenzione delle malattie cardiovascolari - promosse da un esagerato consumo di grassi e carboidrati - le organizzazioni sanitarie pubblicizzano i rischi per la salute legati ad una "cattiva dieta". Ed ecco che un produttore alimentare, ogni volta che può scrivere "privo di grassi" o "non contiene colesterolo" sembra quasi che aggiunga del valore virtuale all'etichetta e quindi al prodotto. Ma è proprio così? Dopo tanti anni in cui abbiamo pensato che i grassi fossero solo un alimento dannoso per il nostro sistema cardiocircolatorio, è necessario che l'importanza di alcuni grassi sia riconsiderata. Ad esempio, il cervello di un adulto produce 30 volte più colesterolo dei restanti distretti anatomici e contiene il 40% del colesterolo totale, indicando con ciò un fabbisogno di grassi che non ha riscontro nel nostro sistema cardiovascolare. Considerando che in un adulto il cervello pesa circa r:5o del peso corporeo, ma in un neonato questo rapporto si riduce a circa r:5, è facile dedurre il bisogno, spesso sottovalutato, che il cervello di un neonato ha di colesterolo. Forse il fatto che le malattie cardiovascolari siano le più diffuse non dovrebbe poi stupirci. II nostro cervello per crescere ed evolversi ha bisogno di grassi. Paradossalmente, una dieta con meno grassi avrebbe forse garantito minori malattie cardiovascolari, ma anche una minore evoluzione cerebrale. Indispensabili allo sviluppo il nostro cervello, quindi, continua a fare scelte alimentari dettate dall'evoluzione, di qui la giustificazione di certi nostri piaceri alimentari. Scelte che hanno fatto si che dai circa 450 grammi di peso dei nostri avi (australopitechi), oggi pesi più del triplo. Il cuore non ha avuto un analogo sviluppo. Certo, questo integralismo evolutivo del nostro cervello alla lunga danneggia il sistema cardiovascolare, che a sua volta danneggerà il cervello, con una minor ossigenazione delle sue cellule. Ma perché il cervello si farebbe la mortalità cardiovascolare è molto bassa tra gli eskimesi proprio per la loro alimentazione a base di pesci molto grassi, ma contenenti gli omega 3 del male? La risposta è articolata e rivela un confronto tra esigenze nutrizionali e funzionali difformi tra distretti anatomici diversi, in particolare tra il cervello ed il sistema cardiovascolare. Ecco quindi svelato una delicata omeostasi. Il cervello è un ambiente con una richiesta di grassi maggiore di quella del nostro cuore o del nostro sistema vascolare. Certo, l'espansione di un organo come il cervello ha richiesto un cambiamento coordinato dell'espressione di alcuni geni. La principale variabile ambientale che può agire in concerto con questa espressione e ne può promuovere un cambio è la dieta. UNA DIETA EQUILIBRATA La dieta, quindi, ha indirizzato con successo questo cambio unidirezionale verso una rifinitura dell'architettura anatomica più idonea a sviluppare le funzioni superiori del nostro intelletto (progettare, creare, comprendere, amare, ...). Da essi, inoltre, il cervello sintetizza colesterolo ed altri acidi grassi, così necessari per la struttura delle membrane delle innumerevoli connessioni che il cervello modella durante la fase fetale e la prima infanzia. È altresì importante notare come il cervello, che non può importare dal sangue né il colesterolo né la gran maggioranza degli acidi grassi (ma con alcune esclusioni come ad esempio gli acidi grassi polinsaturi) non possa neanche perdere questi lipidi (se non alterando la loro struttura), rivelando così un chiaro meccanismo di protezione delle sue riserve lipidiche. Tutto ciò indica anche che i meccanismi fisiologici che indirizzarono lo sviluppo del nostro cervello sono tuttora attivi. Ecco forse spiegato perché alla nascita un bambino ha circa 50o grammi di grasso, che costituiscono un'essenziale riserva energetica del cervello. Ma allora non sarà mai pace fatta tra cuore e cervello? Fortunatamente gli omega-3 sono la sintesi di questa necessità contrastante cerebro cardiovascolare. Conservano il nostro cervello, ma fanno un gran bene anche al nostro cuore. Massimo Pomponi Professore di Biochimica Facoltà di Medicina Un. Cattolica, Roma _________________________________________________________ Corriere della Sera 23 mag. ’08 INCAPACI MENTALI, DIRITTO ALL'EUTANASIA Etica e malattia Il progetto apre anche ai pazienti che non hanno espresso il consenso in precedenza Belgio, la proposta per estendere la dolce morte. I critici: si torna a Hitler Iniziativa del partito liberaldemocratico dell'ex premier Verofstadt. In Belgio l'eutanasia è legale dal 2002 DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES - Prima proposta: lasciar morire, o meglio uccidere con un'iniezione o con una manciata di pastiglie, un paziente che sia «mentalmente incapacitato». Seconda proposta: lasciar morire o uccidere anche, sempre per sottrarlo al dolore di una malattia non più controllabile, chi per la legge è minorenne, troppo giovane per decidere da solo. Questo ed altro chiedono 4 progetti di legge - presentati dal partito liberaldemocratico fiammingo - che stanno dividendo ancora una volta il Belgio cattolico: prevedono cioè che l'eutanasia, già legalizzata dal 2002 per i maggiorenni e a determinate condizioni, possa essere estesa legalmente anche ai minori - come già avviene in Olanda - e ai «dementi», cioè a persone che non siano in grado di intendere e di volere per effetto di una incurabile forma di demenza. Stando agli oppositori dell'idea, soprattutto a quelli dell'area cattolica, si tratta poco meno che di un ritorno al «T4», il piano per l'eutanasia di massa messo in cantiere da Hitler subito prima della guerra. Stando ai sostenitori, le ideologie naziste non c'entrano proprio nulla: si vorrebbe solo combattere la condanna della sofferenza inutile, e offrire a tutti la possibilità di una «morte con dignità». Sostenitori e oppositori sono disposti in file trasversali, si trovano più o meno in tutti i partiti. Ma a firmare i 4 progetti di legge sono i liberaldemocratici dell'Open Vld, il partito dell'ex primo ministro Guy Verofstadt e anche il primo partito in vaste zone delle Fiandre. Il clima politico è già appesantito dalle tensioni etnico- linguistiche, e in tema di eutanasia non si è ancora spenta l'eco della morte di Hugo Claus, lo scrittore che ha scelto la «dolce fine» pur di non arrendersi al morbo di Alzheimer: secondo il quotidiano fiammingo De Standaard, dalla morte di Claus sono raddoppiate le richieste di eutanasia in tutto il Paese. Ma Claus, appunto, era ancora in possesso delle sue facoltà mentali. Quelli di cui oggi si discute sono casi probabilmente molto diversi. Per un «mentalmente incapacitato», si dice, potrebbe comunque far testo una sua volontà espressa in precedenza, e la decisione del medico dovrebbe sottostare alle stesse condizioni previste oggi: che la malattia sia grave e incurabile; che le sofferenze «fisiche o psichiche» siano «costanti, intollerabili e non sedabili»; e che vi sia stata, appunto, una richiesta «volontaria, ripetuta e libera da ogni pressione esteriore». Ma se quest'ultima richiesta non vi fosse stata, se l'incapacità psichica - o anche l'età troppo giovane del paziente (o tutt'e due, nel caso di ragazzi gravemente handicappati) - l'avesse resa impossibile? Basterebbe l'accordo del medico con i parenti stretti del paziente? Qui c'è una zona opaca, di ambiguità giuridica, in cui si concentrano le polemiche. In Olanda, questi ostacoli sono stati aggirati da una legge che permette l'eutanasia per i ragazzi dai 12 ai 16 anni purché vi sia il consenso dei genitori o dei tutori; e per quelli di 16-17 anni, anche senza questo consenso (ma dietro richiesta del ragazzo, naturalmente). In Belgio, finora, si è sempre proceduto con il sistema della «notifica a posteriori»: una volta accertate le condizioni prescritte, il medico somministra la «dolce morte», o iniettando dei farmaci o «aiutando» il paziente a prenderli per bocca. Poi, entro 4 giorni dalla morte, avverte la Commissione cui spetta il giudizio finale. E lo fa con un modulo scaricabile anche da Internet, poiché la burocrazia imbriglia pure la morte. Luigi Offeddu Le «macchine» per morire Il «dottor morte» Jack Kevorkian, 80 anni di cui passati 8 in cella per aver aiutato a morire circa 100 malati terminali, con il suo «Thanatron». A destra, la macchina della morte «fai da te» del tedesco Peter Kusch Il progetto belga Incapaci Se il progetto di legge sarà approvato, i medici belgi potranno compiere l'eutanasia attiva su soggetti incapaci di intendere e di volere, purché questi abbiano espresso questa volontà In Europa Ad oggi l'eutanasia attiva è consentita solo in Belgio, Olanda (che la autorizza anche per i ragazzi dai 12 anni in su) e Lussemburgo. In Svizzera è previsto, invece, il «suicidio assistito» Attiva È prevista l'eutanasia attiva (iniezione di farmaco neuro-paralizzante che conduce alla morte), distinta da quella passiva (rifiuto dell'accanimento terapeutico e/o somministrazione di forti sedativi-palliativi) I funerali Lo scrittore belga Hugo Claus, morto con l'eutanasia _________________________________________________________ Il Sole24Ore 22 mag. ’08 QUATTRO BAMBINI SU DIECI NASCONO CON PARTO CESAREO Sanità. Il rapporto del ministero della Salute IL PRIMATO DEL SUD In Campania soluzione chirurgica per il 60% delle puerpere contro il 22% della Valle D'Aosta Marzio Bartoloni Crescono ancora i figli del bisturi: quasi quattro bimbi su dieci in Italia nascono con il parto cesareo. Per l'esattezza il 37,3% (era l'11% nel 1981 e il 35% nel 2002), un record assoluto in barba a quanto predica da anni l'Organizzazione mondiale della Sanità che raccomanda la soluzione chirurgica, per il bene delle neo-mamme e anche dei nascituri, solo nel 10-15% dei casi. E con le Regioni del Sud molto al di sopra della media nazionale: in Sicilia ormai oltre la metà dei parti si fa con il cesareo (il 52,8%) e in Campania se ne contano addirittura sei ogni dieci nascite, contro la Valle d'Aosta dove il bisturi si usa solo nel 22% dei "lieti eventi". Gli ultimissimi dati sui fiocchi rosa e azzurri delle sale parto italiane arrivano dal quarto rapporto sull'evento nascita in Italia, appena pubblicato dal ministero della Salute, che ha censito oltre 500mila parti (il 92% di quelli totali). Si confermano altri trend più o meno noti: cresce la squadra delle mamme immigrate, protagoniste del 13,8% dei parti totali, con picchi del 20% al Centro Nord. Le corsie sono popolate soprattutto dalle ragazze dell'Est (il 41% delle immigrate puerpere) e da quelle africane (il 25%). Gli ospedali pubblici restano la primissima scelta: ben l'88% dei neo-genitori hanno scelto il Ssn, l'11,6% le case di cura e solo lo 0,18 il parto a casa di antica memoria. Con il Sud che preferisce spesso il privato (dove tra l'altro stravince il cesareo): in Campania, a esempio, il 45% dei parti si effettua nelle cliniche, meglio se accreditate con il Servizio pubblico. Le mamme italiane sono, poi, sempre più "attempate": in media hanno 32 anni contro i 28 delle straniere. E quasi tutte, nove volte su dieci, hanno accanto a sé, al momento del parto, il neo-papà. Si conferma anche il fenomeno della cosiddetta «medicalizzazione» della gravidanza: in circa l'83% dei casi sono state fatte più di quattro visite ostetriche, mentre nel 73,6% delle gravidanze sono state effettuate più di 3 ecografie. In media, inoltre, sono state realizzate circa 16 amniocentesi ogni 100 parti con le over 40 che hanno deciso di ricorrere al prelievo del liquido amniotico in quasi la metà dei casi per scoprire eventuali anomalie del feto. Infine, il 63,7% dei parti è avvenuto in strutture medio-grandi dove avvengono almeno mille nascite all'anno, mentre il 10,8% in ospedali più piccoli che ne contano meno di cinquecento. _________________________________________________________ Il Sole24Ore 22 mag. ’08 MALATTIE RARE, IN PISTA LA NUOVA RETE Manuela Perrone Ospedali, reparti, primari ed esperti: la mappa contro le malattie rare è servita. Anche on line, in un'apposita sezione del portale SardegnaSalute (www.sardegnasalute. it). Per ogni patologia orfana sono indicati il centro di riferimento regionale, i centri assistenziali e i centri correlati, più l'Unità operativa, il responsabile dell'Uo e persino il referente che dovrà assicurare la presa in carico dell'assistito. È questa la "ricetta" della Sardegna per la cura delle malattie rare, messa nero su bianco nella delibera n. 26/15, approvata dalla Giunta il 6 maggio scorso su proposta dell'assessore alla Sanità, Nerina Dirindin . Il provvedimento mantiene le promesse del Piano socio- sanitario regionale e ridefinisce la rete per le patologie orfane, confermando l' Ospedale microcitemico di Cagliari quale centro di riferimento regionale "generale". Con il compito di supportare la Regione nella gestione del Registro epidemiologico per le malattie rare, di promuovere collaborazioni con l'Istituto superiore di Sanità e le altre amministrazioni locali, di coordinare la rete dei presìdi e di costituire un "faro" privilegiato per malati e familiari. I nodi della rete sono di tre tipi: centri di riferimento regionali per patologia, centri assistenziali e centri correlati (cui spettano solo compiti di ausilio diagnostico e di consulenza). Il cuore della delibera è l'allegato, che contiene il percorso per ciascuna malattia. Un esempio? La Corea di Hungtington ha il suo centro di riferimento regionale nella clinica neurologica dell'Aou di Sassari, diretta da Giulio Rosati : il referente per il paziente è Virgilio Agnetti . Sono centri assistenziali per il morbo la neurologia dell'ospedale San Francesco di Nuoro e la neurologia e la neuropsichiatria infantile dell'Aou di Cagliari. Centri correlati sono la genetica medica del Binaghi di Cagliari e la genetica clinica dell'Aou di Sassari. Verranno seguite invece in due centri di riferimento regionali quelle malattie che insorgono da bambini e accompagnano il paziente nell'età adulta, come la talassemia. Nel caso di patologie molto rare, senza alcuna casistica, l'unica struttura di riferimento sarà la clinica pediatrica del Microcitemico di Cagliari. La rete - avverte il provvedimento - sarà integrata alla luce dei nuovi Lea, che hanno ampliato l'elenco delle malattie rare ad altre 109 patologie. Con una delibera successiva saranno inoltre precisate le procedure di erogazione delle prestazioni sanitarie, di assistenza farmaceutica e di rilascio degli attestati di esenzione per i malati. «La pubblicazione nel portale della Regione dell'elenco delle malattie rare con relativo centro e specialista di riferimento - ha commentato Dirindin - permetterà ai pazienti e alle loro famiglie di avere immediato accesso a quelle informazioni primarie e indispensabili per prendere contatto con le strutture e i medici». Perché le malattie rare non siano più "orfane". _________________________________________________________ Il Sole24Ore 22 mag. ’08 FURBIZIE DA «COLPO DI FRUSTA» MEDICINA ASSICURATIVA/ Check su100mila perizie svolte per conto delle assicurazioni Danno micropermanente e aggravanti: il rebus dei divari regionali Giovanni Cannavò Utilizzando un campione di circa 100.000 perizie medico-legali redatte dal settembre 2003 al settembre 2007 in formato elettronico (e quindi con dati omogenei, statisticabili e valutabili) e raccolte da tutte le Regioni d'Italia, l'associazione Melchiorre Gioia ha realizzato un interessante studio (pubblicato per esteso su Tagete Achives of legal medicine and dentistry 2/2008) finalizzato a verificare l'aderenza nella redazione delle perizie stesse alle indicazioni operative e tabellari fornite dal Dm 2003 sulle micro-permanenti. Le perizie sono state studiate evidenziando innanzitutto l'entità delle lesioni accertate (per verificare se effettivamente sono le micro permanenti a ricoprire la maggior fetta del risarcimento da responsabilità civile), quindi le tipologie di lesione più frequentemente riscontrate con i distretti corporei maggiormente interessati e, infine, le valutazioni fornite e, in particolare, la loro conformità o meno a quanto indicato nel Dm, nonché - in caso di scostamento - i motivi di un'eventuale allontanamento da tali direttive. Primo step dunque l'individuazione del range di percentuale di invalidità più frequentemente assegnato ai postumi: i risultati hanno mostrato che la fascia maggiormente rappresentata è quella da 0,5 a 9 (82,8% dei casi), seguita poi dall'assenza di postumi ovvero 0 (14,5% dei casi) e quindi dalla fascia con valutazione superiore al 9 (2,7% dei casi). Tra le perizie con una valutazione nel range 0,5-9 (micropermanenti) il valore più frequentemente assegnato è 2 (39%), seguito da 1 (38,3%) e poi in ordine decrescente i valori sempre maggiori. All'interno della quota di perizie in cui la valutazione è superiore al 9%, si assiste a un ordine di frequenza decrescente all'aumentare dei valori. Dato dunque atto che la fetta maggiore del risarcimento riguarda lesioni micropermanenti, si è passati ad analizzare quali sono i distretti corporei prevalentemente interessati dalle lesioni. Ovviamente il trauma distrattivo al rachide cervicale (c.d. colpo di frusta) è risultato comprendere il 44% di tutte le lesioni quando compare come unica lesione riscontrata, mentre se in associazione con altri traumatismi in diversi distretti corporei, arriva a coprire il 72% di tutte le lesioni (tabelle n. 4 e 5). Tra i distretti corporei più spesso associati al trauma distorsivo del rachide cervicale si trovano il rachide lombare, quindi la spalla, il cranio e il ginocchio, mentre, in assenza di colpo di frusta, le lesioni più frequenti riguardano il ginocchio, a seguire, la spalla, la caviglia e il rachide lombare. Vengono dunque esaminate le valutazioni medico legali assegnate alle lesioni con riferimento alle indicazioni del Dm 3 luglio 2003, il cui obiettivo è perseguire la massima omogeneità scientifica e riproducibilità del giudizio valutativo a parità di diagnosi delle infermità e menomazioni conseguenti, permettendo comunque una variabilità nella valutazione in ragione dell'incidenza in maniera apprezzabile «su particolari aspetti dinamico-relazionali personali», che però deve essere giustificata e motivata dal medico legale. È qui che emergono senza dubbio i dati più interessanti. In buona parte della casistica, infatti, il medico valutatore resta allineato con le indicazioni del Dm in quanto assegna ai postumi di un trauma distrattivo una valutazione pari o inferiore a due, in particolare nell'11,9% dei casi, pari a zero e nell'85,9% dei casi tra 0,5 e 2. Rimane comunque una percentuale non irrilevante di casi (il 2,1%), nella quale il fiduciario assegna a un trauma distorsivo del rachide (cervicale per lo più, ma anche lombare) un valore superiore a 2, ovvero superiore al punteggio massimo previsto dal barème ministeriale. Quali dunque le motivazioni di tale discostamento? Dall'analisi delle perizie emerge che il valore tabellare viene solitamente superato non per quanto previsto dal Dm (ovvero per una maggiore incidenza su particolari aspetti dinamicorelazionali personali), ma perché vengono considerate delle preesistenze come fattori aggravanti il danno o perché vengono riscontrate alcune menomazioni "accessorie" al colpo di frusta. In particolare si tratta di artropatie (artrosi e/o ernie discali), sintomatologia vertiginosa e sofferenza radicolare strumentalmente accertate. Il dato interessante (e che fa sorgere qualche dubbio) è la circostanza che tali fattori aggravanti del danno (e del risarcimento) appaiono costanti in alcune Regioni d'Italia (sempre le stesse), mentre sono quasi del tutto assenti in altre. Si prenda a esempio la sintomatologia vertiginosa (ma analoghe valutazioni si potrebbero fare per le altre aggravanti). Il Dm 2003 considera la voce «Sindrome vertiginosa periferica da asimmetria labirintica compensata, strumentalmente accertata» e indica una valutazione che va dal 2 al 5 per cento. Numerosi sono gli studi di ambito clinico e medico-legale che hanno analizzato la correlazione patogenetica tra sintomatologia vertiginosa e colpo di frusta cervicale. Ognuno di questi studi ha fornito alcuni punti fermi da considerare nella valutazione di queste patologie, ma le risposte definitive non sono purtroppo molte. Da un punto di vista strettamente clinico le teorie eziopatogenetiche indicano che il colpo di frusta può determinare effetti lesivi sul sistema dell'equilibrio attraverso un danno isolato o combinato a carico di diverse strutture. Da un punto di vista medico-legale appare però molto importante riuscire a stabilire che effettivamente l'eventuale danno vestibolare sia conseguenza del traumatismo in questione. A tal fine pertanto risultano imprescindibili alcuni accertamenti clinici e strumentali da cui può emergere un indizio diagnostico bisognoso comunque di ulteriore approfondimento sui risultati funzionali. Dall'analisi delle perizie emerge che in alcune Regioni - come Veneto e Toscana - il medico tende ad accettare supinamente le conclusioni fornite dalla relazione di parte, senza praticare alcuna revisione critica dei dati clinici e strumentali, Altre volte la sintomatologia è evidenziata da prove strumentali corrette e complete, ma effettuate a troppo breve distanza dal trauma (anche soltanto di qualche mese), altre volte le prove vestibolari compaiono improvvisamente, a guarigione avvenuta, senza che mai nel periodo di malattia siano state evidenziate nella sintomatologia lamentata dal paziente, quasi sempre infine non viene assolutamente considerata la reale entità del trauma e quindi la sua efficienza lesiva. Emerge dunque dal lavoro che per la più parte dei casi vi è un sostanziale rispetto delle indicazioni del Dm 2003. Emergono poi altresì - nella casistica ove ci si è discostati dal valore tabellare ministeriale - quali sono gli errori più ricorrenti e quali i metodi per evitarli. L'analisi consente peraltro anche di registrare un fenomeno di cui si poteva solo avere percezione, ma che non era mai stato analizzato e quantificato. Il fatto che cioè vi sono alcune realtà regionali in Italia dove le "prassi" medico-legali locali hanno per anni enfatizzato il significato di alcuni accertamenti, richiesti in maniera strumentale, finalizzati esclusivamente a incrementare il valore economico dei risarcimenti, sulla base di presupposti scientifici spesso discutibili se non applicati per intero e con criteri del tutto rigorosi. Ed è significativo il fatto che, fra queste realtà locali, vi sono quelle ad alta presenza di strutture professionali specializzate alle richieste di risarcimento da sinistri stradali. Giovanni Cannavò Specialista medicina legale Presidente Associazione medico giuridica "Melchiorre Gioia" Le lesioni più frequenti nelle 100mila perizie prese in esame Non compilata Spalla/ginocchio Diagnosi medico legale Diagnosi medico legale Colonna vertebrale cervicale/ colonna vertebrale lombare Colonna vertebrale cervicale/ ginocchio Colonna vertebrale cervicale/ parete toracica (costa/e) Colonna vertebrale cervicale/ colonna vertebrale dorsale (toracica) Colonna vertebrale cervicale/altro 8 Colpo di frusta e lesioni associate 72 Colonna vertebrale cervicale 44 Colonna vertebrale cervicale/spalla 5 Colonna vertebrale cervicale/cranio 3 Colonna vertebrale cervicale/polso 1 Colonna vertebrale lombare 1 Parete toracica (costa/e) 1 Lesioni senza colpo di frusta 28 Distr. invalidità permanente Distribuzione invalidità micropermanenti I dati sul colpo di frusta Vertigini: i dati regionali % Zone Zone Incidenza regionale Nord 45,5 Centro 44,5 Sud 10,0 Totale 100,0 Maggiore incidenza Veneto 30,9 Toscana 26,4 Lombardia 8,2 Marche 6,4 Sardegna 5,5 Campania 5,5 Totale parziale 82,9 Regioni rimanenti 17,1 Totale 100,0 Artropatie-discopatie: i dati regionali Emg (elettromiografia): i dati regionali % % % Zone Zone Zone Zone Incidenza regionale Nord 58,0 Centro 26,5 Sud 15,5 Totale 100,0 Maggiore incidenza Veneto 25,5 Lombardia 12,4 Toscana 9,5 Piemonte 8,4 Umbria 7,8 Emilia Romagna 7,1 Totale parziale 70,7 Regioni rimanenti 29,3 Totale 100,0 Incidenza regionale Nord 57,4 Centro 33,3 Sud 9,3 Totale 100,0 Maggiore incidenza Veneto 29,6 Lombardia 20,4 Marche 11,1 Toscana 11,1 Totale parziale 72,2 Regioni rimanenti 27,8 Totale 100,0 _________________________________________________________ Il Sole24Ore 22 mag. ’08 IL FUTURO DELLA MAMMOGRAFIA Diagnosi più sicura con la tomosintesi I nuovi sistemi riducono le possibilità di errore La digitalizzazione degli esami al seno migliora la qualità delle immagini Mentre per la radiologia generale, grazie all'introduzione di rivelatori digitali negli apparecchi radiologici e di sistemi Pacs per la visualizzazione e archiviazione delle immagini (si veda l'articolo pubblicato su il Sole 24- Ore Sanità n. 22/2007) il percorso verso la gestione digitale delle immagini si trova ormai a uno stadio avanzato, solo in tempi più recenti hanno cominciato a diffondersi sistemi digitali per l'esecuzione degli esami radiografici della mammella (mammografia). I costruttori di tali apparecchi hanno infatti dotato i mammografi tradizionali di rivelatori digitali. Questi rivelatori differiscono da quelli impiegati nella radiologia generale principalmente per le dimensioni più ridotte dei singoli elementi sensibili. Una più alta risoluzione è infatti necessaria per rivelare i piccoli dettagli presenti nella mammella (come le microcalcificazioni). Come per la radiografia generale, il vantaggio principale della digitalizzazione delle immagini mammografiche è nella rapidità di esecuzione (è eliminata la fase dello sviluppo delle pellicole) e nella possibilità di archiviazioni delle immagini su supporto digitale, eventualmente impiegando i sistemi Pacs esistenti. Ciò permette, a esempio, un immediato confronto con gli esami precedenti del paziente, ottenuti sia per via radiografica che con risonanza magnetica, modalità intrinsecamente digitale. La gestione digitale non è l'unico vantaggio: l'impiego di questi rivelatori consente una riduzione della dose al paziente (indicativamente del 20-30%), un miglioramento della qualità di immagine e la possibilità di impiego di strumenti caratteristici dei sistemi digitali. Tra questi i sistemi Cad (Computed aided detection) che supportano il radiologo nella ricerca di possibili lesioni, impiegati soprattutto come verifica (seconda lettura) degli esami ottenuti nelle sessioni di screening mammografico. Nonostante questi progressi, come per tutti gli esami di radiografia tradizionale, il problema fondamentale della mammografia, anche nella sua versione digitale, è la sovrapposizione nel piano dell'immagine delle strutture anatomiche che si trovano in un volume tridimensionale. Questa "interferenza" di strutture anatomiche poste in piani diversi rende arduo e talvolta impossibile il riconoscimento della lesione e induce a ipotizzate tecniche di tipo tomografico, in cui cioè le informazioni in ogni immagine si riferiscono a un singolo strato dell'organo da esaminare. A questo scopo è stato sviluppato un prototipo di "mammo Tc" (denominata Cbbtc-Cone Beam Breast Computerized Tomography), in cui la paziente viene posta in posizione prona su un lettino, all'interno del quale è prevista un'apertura circolare in cui viene introdotta la mammella che viene poi immobilizzata con un opportuno sistema di contenimento, posto al di sotto del lettino. Sempre al di sotto del lettino, il tubo a raggi X e il rivelatore digitale ruotano contrapposti attorno alla mammella da esaminare. Il risultato, come nella Tac, sono diverse "proiezioni" dell'organo sotto angoli diversi che consentono, tramite un algoritmo matematico di ricostruzione, di ottenere un insieme di immagini, ciascuna corrispondente a un singolo strato della mammella. Anche se il sistema appare di grande interesse e la qualità delle immagini prodotta assai elevata, la grande industria sembra orientata a ottenere un risultato tomografico senza cambiare totalmente la geometria di acquisizione delle immagini rispetto al mammografo digitale tradizionale. La nuova tecnica, denominata "tomosintesi", impiega, infatti, la stessa geometria di un mammografo convenzionale in cui, però, il tubo a raggi X, invece di rimanere fisso, compie un piccolo arco di rotazione (da ±15 a ± 30 gradi a seconda dei sistemi) rispetto all'asse verticale, raccogliendo una serie (generalmente una ventina) di "proiezioni" della mammella sotto i diversi angoli. Tali immagini (ottenute con un rivelatore digitale di ampie dimensioni) vengono rielaborate con un algoritmo analogo a quello impiegato nella Tc. La mammella viene poi visualizzata "sfogliando" le immagini corrispondenti a diverse sezioni dell'organo perpendicolari all'asse verticale (ciascuna dello spessore di 1-3 mm). La limitatezza dell'angolo di rotazione (rispetto alla rotazione di 360 gradi della Tc) non consente una completa cancellazione dalle immagini dei particolari contenuti nei piani sovra o sottostanti rispetto a quello di interesse ("ombre di trascinamento"). Tuttavia i particolari anatomici realmente presenti nel piano esaminato, appaiono perfettamente "a fuoco" e quindi con una evidenza (rapporto segnale/rumore) molto maggiore. Ciò consente una diagnosi più facile e sicura (riduzione dei falsi positivi e negativi). Grazie al rivelatore digitale, le singole esposizioni sono a dose ridotta per cui la dose totale è solo leggermente superiore a quella di una singola immagine statica tradizionale e abbondantemente inferiore agli standard previsti. Il tempo di esecuzione dell'esame, ovviamente, aumenta e l'insieme delle proiezioni dura oggi circa 10-15 secondi, ma è destinato a ridursi a meno di 5-6 secondi nei modelli commerciali. Si tratta comunque di un tempo ridotto rispetto ai tempi tipici dell'esame, in particolare a quelli necessari al posizionamento della paziente. L'approvazione da parte della Food and drug administration (ministero della Sanità Usa) di almeno 3 di questi sistemi, prodotti da Hologic, Siemens e Ge è previsto nell'anno in corso o nella prima parte del prossimo. Anche la ditta svedese Sectra e l'italiana Giotto hanno in fase di validazione progetti in questa direzione. Esiste, naturalmente, ormai da circa un triennio una vasta sperimentazione della tomosintesi a livello mondiale sia nel campo della mammografia "clinica", che, in forma più ridotta, nel campo dello "screening". I primi risultati sono assai incoraggianti. Ad esempio il gruppo di ricercatori della Duke University (Durham, NC), che lavora con un prototipo Siemens, ha riscontrato, su un campione di 92 mammelle, un aumento della sensibilità dal 65 al 91% (cioè 21 su 23 cancri rivelati con la tomosintesi contro 15 su 23 rivelati con la mammografia digitale statica). Il gruppo dell'Università di Ann Arbor (Mi), che lavora con un prototipo Ge, ha osservato un aumento delle masse rivelate (ca benigni + maligni) del 36%. Infine il gruppo di Boston (Massachussetts General Hospital) ha potuto dimostrare, impiegando un prototipo Hologic in un ambito di screening, una riduzione della frequenza di richiamo (per presenza di masse sospette) delle donne partecipanti del 43 per cento. Si tratta di risultati di assoluto valore clinico che potranno essere ulteriormente migliorati con la ottimizzazione delle apparecchiature e con l'introduzione, anche in questo ambito, di sistemi Cad di ausilio alla rivelazione. Giovanni Borasi, Andrea Nitrosi, Franco Nicoli Carlo Alberto Mori e Pierpaolo Pattacini Servizio di Fisica sanitaria e Dip.to Diagnostica per immagini Azienda ospedaliera Arcispedale S. Maria Nuova e Usl di Reggio Emilia _________________________________________________________ Il Sole24Ore 20 mag. ’08 OSPEDALE E MEDICO, NESSUNA DISTINZIONE DI RESPONSABILITÀ LA STRUTTURA Sentenza della Corte di Cassazione sanitaria risponde del danno in forza del "contratto di spedalità", a prescindere dalla colpa del singolo operatore In materia di responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto equivalenti sono a livello normativo gli obblighi verso il fruitore dei servizi. Anche in considerazione del fatto che si tratta di prestazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria. La responsabilità della struttura sanitaria va inquadrata come responsabilità contrattuale, sul rilievo che l'accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto. A sua volta anche l'obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale", ha natura contrattuale. LA SENTENZA Le sezioni unite della Suprema corte hanno risolto, con la sentenza numero 577 dell'11 gennaio 2008, il contrasto giurisprudenziale che distingueva tra responsabilità della struttura e responsabilità del medico curante, nel senso della sussistenza della prima solo in caso di accertata presenza della seconda; il presupposto, cioè, per l'affermazione della responsabilità contrattuale della struttura era l'accertamento di un comportamento colposo del medico operante presso la stessa. Con la pronuncia numero 577/08 la Corte di Cassazione ha definitivamente sciolto tale rapporto di dipendenza. IL CASO Il ricorrente in cassazione ha impugnato la sentenza della Corte di Appello di Roma che aveva ritenuto che fosse onere dell'attore provare il nesso causale tra emotrasfusione e l'epatite C contratta, nonché provare che esso attore non fosse già portatore di tale malattia al momento del ricovero. La Suprema Corte, accogliendo la doglianza del malato, ha cassato la decisione impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte romana. I principi espressi dalle sezioni unite partono dal recente orientamento giurisprudenziale per cui il rapporto paziente-struttura deve essere considerato come autonomo da quello paziente-medico e, come tale, riqualificato come contratto atipico a prestazioni corrispettive (contratto di spedalità o di assistenza sanitaria). «Da ciò consegue l'apertura a forme di responsabilità autonome dell'ente, che prescindono dall'accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, e trovano invece la propria fonte nell'inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all'ente. Ciò comporta che si può avere una responsabilità contrattuale della struttura verso il paziente danneggiato non solo per il fatto del personale medico dipendente, ma anche del personale ausiliario, nonché della struttura stessa (insufficiente o inidonea organizzazione)». Inquadrata tale responsabilità dell'Ente come contrattuale, sul piano dell'onere probatorio consegue che il paziente è tenuto a dimostrare soltanto l'esistenza del contratto e del danno sofferto (insorgenza o aggravio della malattia) ma non anche l'inadempimento del prestatore (ente e/o medico) delle cure. Sarà il medico a dover dimostrare di aver rettamente adempiuto a tutte le relative obbligazioni. A cura dello Studio legale dell'avvocato Antonino Menne _________________________________________________________ Il Sole24Ore 22 mag. ’08 I CONTI IN ORDINE CURANO LA SANITÀ RISULTATICONCRETI I soldi ci sono: lo Stato può non sborsare nulla adottando le procedure del project financing con semplice garanzia EDIFICIVECCHI Le strutture hanno per il 60% un'età superiore ai 60 anni: per il recupero occorrono almeno 60 miliardi, il valore di quattro ponti sullo Stretto Di Giuseppe Rotelli * Per la Sanità è tempo di iniziative serie e concrete, dopo un lungo periodo di chiacchiere ispirate a visioni ideologiche e propagandistiche. Anzitutto va detto che i principi cardine del sistema, che consistono nell'universalità, intesa come gratuità per tutti, e generalità delle prestazioni, intesa come tutte le prestazioni sanitarie di cui è nota l'efficacia, non sono affatto incompatibili con un livello di spesa sopportabile. E il livello di spesa pubblica attuale dell'Italia non è affatto eccessivo, anzi è tra i più bassi in Europa (6,7% del Pil). Occorre viceversa agire sul fronte degli sprechi, nella spesa corrente e sul fronte degli investimenti in conto capitale. Disavanzi pregressi enormi ed emersi d'improvviso, dopo complesse "due diligence", dimostrano che bisogna portare a trasparenza la spesa corrente delle aziende sanitarie, e ospedaliere in particolare. Per raggiungere questo obiettivo occorre che i disavanzi non rimangano occulti e i contributi a ripianamento siano inseriti nei bilanci delle aziende come tali. Per ottenere questo risultato, sempre e dovunque, occorre che i bilanci delle aziende siano sottoposti alla disciplina del Codice civile, che prescrive di separare i ricavi da prestazioni dai finanziamenti a fondo perduto (cioè i ripianamenti sotto qualsiasi forma). Questa regola dovrebbe essere imposta anzitutto alle aziende ospedaliere che, in tal modo, dovrebbero depositare i loro bilanci annuali presso la Camera di commercio, rendendoli pubblici e soggetti al controllo di chiunque interessato (tramite Cerved). Questo risultato è conseguibile trasformando gli ospedali in S.p.A., pur mantenendone la proprietà totalmente pubblica, come molte altre aziende dello Stato e delle Regioni. Questa misura porterebbe un ulteriore vantaggio. Libererebbe queste aziende da tutti i vincoli soffocanti della contabilità pubblica, sempre accampata come scriminante per giustificare l'inefficienza della gestione. Renderebbe quindi i bilanci confrontabili con quelli di analoghe aziende ospedaliere di diritto privato e sottrarrebbe i dipendenti amministrativi e gli operatori, medici e non medici, di queste aziende ai reati tipici del pubblico ufficiale che mal si attagliano alla pratica medica, come è avvenuto per le banche. Inoltre, e più ancora rilevante, sarebbe la possibilità di adottare modelli di organizzazione più flessibili, più adatti alla competizione, abbandonando l'uniformità imposta dal principio di legalità, che imprigiona la Pubblica amministrazione. Trasparenza, flessibilità, gestione orientata al risultato clinico ed economico insieme, e non a un astratto rispetto della norma giuridica, renderebbero i nostri ospedali migliori sotto il profilo clinico e meno dispendiosi sotto il profilo economico. Questa iniziativa non costa nulla, richiede l'approvazione di una norma d'indirizzo (Legge quadro) di poche righe, è rispettosa delle competenze regionali in materia e soprattutto consentirebbe di mettere mano alla riduzione dello spreco che in alcune regioni d'Italia arriva e supera il 30% della spesa (Luca Ricolfi). L'altra iniziativa fondamentale riguarda l'obsolescenza degli ospedali pubblici. Da una ricerca risulta che oltre il 60% dei 750 ospedali italiani hanno più di 60 anni, sono cioè stati costruiti, per la maggior parte, prima della Seconda guerra mondiale. Devono essere ristrutturati completamente o ricostruiti. Per rifarli occorrono almeno 60 miliardi, volendone ricostruire subito almeno un terzo occorrerebbero 20 miliardi subito, quattro ponti sullo Stretto di Messina. Ma per rifare gli ospedali i soldi ci sono e lo Stato potrebbe non sborsare nulla se adottasse le procedure del project financing con semplice garanzia dello Stato. La garanzia non entra nel bilancio dello Stato come spesa ma va nei conti d'ordine, per memoria, e quindi non incide sul disavanzo, che potrebbe ridursi o rimanere invariato, nel pieno rispetto dei vincoli posti dall'Unione Europea. Eppure investire per rifare gli ospedali porterebbe benefici a tutti e su tutto il territorio nazionale e non solo per alcune Regioni. Inoltre la politica ne potrebbe beneficiare rendendo visibile a tutti gli italiani l'opera di riscatto del Governo. Nuovi ospedali significano costi più contenuti nella gestione e soddisfazione per i pazienti, e anche questo porterebbe benefici al bilancio dello Stato per lunghi anni. La costruzione in project financing, infine, consentirebbe anche la gestione economica di alcuni ospedali che per i successivi 30 anni potrebbero essere gestiti dai promotori, secondo criteri di efficienza ed efficacia misurabili. Come si vede non sono i soldi che fanno difetto e le misure proposte non comportano costi aggiuntivi ma risparmi certi, sia in conto economico (spesa corrente) che in conto capitale (investment). Ciò che fa difetto, almeno fino ad oggi, è la volontà politica. *Ha ricoperto la prima cattedra in Italia di Organizzazione e legislazione sanitaria all'Università Statale di Milano, fondatore e presidente del Gruppo ospedaliero San Donato _________________________________________________________ L’Unione Sarda 17 mag. ’08 SORDOMUTI, ORA LA VISITA SI PRENOTA VIA INTERNET Presentato il nuovo servizio della Asl 8 destinato a chi non può telefonare al Cup Funziona esattamente come le chat: si scrive nel computer che si ha bisogno di una visita, dall'altro capo del web l'impiegato del Centro unico di prenotazione (Cup) verifica la disponibilità e fissa l'appuntamento. Presentato ieri pomeriggio nella sede cittadina dell'Ente nazionale sordomuti (Ens), il Web Cup è il primo servizio italiano di prenotazione destinato ai pazienti non possono telefonare al centralino Cup come chiunque altro. Costato circa cinquantamila euro, il software ideato dall'Azienda sanitaria cagliaritana e stato istallato direttamente nel portale internet e consentirà ai circa seicento sordomuti che vivono nell'area metropolitana di prenotare direttamente le visite dal computer, senza bisogno di dipendere da nessuno. «Ora basterà un clic», ha spiegato Gino Gumirato, manager dell'Asl, mentre la platea attenta composta da un centinaio di sordomuti guardava nel maxischermo come accedere al servizio. «In passato l'unico modo per prenotare una vista era il telefono, ma questo era impossibile per un'intera fascia di pazienti. Ora dopo essersi identificati e aver digitato la password, così da garantire privacy e riservatezza dei dati sensibili, ciascun utente entrerà in comunicazione con gli operatori del Cup, esattamente come avviene nelle comuni chat. Così», ha aggiunto Gumirato, «basterà spiegare di cosa si ha bisogno e si riceveranno indicazioni sui tempi e sul luogo dove si vuole fare l'esame, chiudendo infine l'operazione con la prenotazione». Sarà sufficiente dunque un personal computer connesso alla rete. Per chi non l'avesse, l'Ente nazionale sordomuti metterà a disposizione quelli della sede di via Salaris. In futuro il web-cup potrebbe essere destinato anche al resto della popolazione, velocizzando enormemente i tempi sia di prenotazione l'efficienza del servizio. Ma se lo sportello virtuale è già operativo da queste ore, l'altro progetto in cantiere per i sordomuti è il "118 Pegaso". Attraverso una serie di sms già impostati nei telefonini delle persone inserite nella banca dati della Asl, i pazienti senza voce avranno comunque la possibilità di comunicare con la centrale operativa, lanciando l'allarme e attivando la macchina del soccorso anche quando sono soli o non c'è qualcuno in grado di comprendere il linguaggio dei sordomuti. FRANCESCO PINNA _________________________________________________________ Repubblica 19 mag. ’08 ALLARME MORBILLO TRIPLICATI I CASI IN POCHI MESI Quasi 700 nel solo Piemonte L'obiettivo dell'Oms per il 2010 è la scomparsa della malattia MARIO REGGIO ROMA - Sembrava ormai un ricordo legato al passato. Invece una nuova epidemia di morbillo ha fatto scattare l'allarme. Più di mille casi in Italia nei primi quattro mesi di quest'anno. La situazione più grave in Piemonte con 635 casi segnalati. Seguono la Lombardia con 130, poi l'Emilia-Romagna, Toscana e Puglia. Una recrudescenza dell'epidemia che ha messo in allarme il ministero della Salute e l'Istituto Superiore di Sanità. Nulla a che vedere con la "grande paura" del 2002-2003, con 60 mila persone infettate e otto morti. Così, proprio dopo il "biennio nero", le autorità sanitarie italiane e l'Organizzazione mondiale della Sanità hanno deciso impegnarsi a fondo nei piani di vaccinazione, per arrivare alla completa "eradicazione" del morbillo nei Paesi europei entro il 2010, prima fissata nel 2007. Conseguenza immediata è stato un brusco calo delle infezioni, scese a dodicimila nel 2003 e 215 nel 2005. Il piano di vaccinazione, che riguarda assieme morbillo, parotite e rosolia, concordata con le Regioni nei confronti dei nuovi nati entro il compimento dei 24 mesi dalla nascita ha dato i suoi effetti. I nuovi casi, infatti, riguardano in grande misura i giovani in età adolescenziale che non sono mai stati vaccinati. Ma cosa è il morbillo? È una malattia infettiva causata dal virus Morbillivirus, uno dei più contagiosi che si conoscano e che si trasmette solo tra gli esseri umani. Prima dell'introduzione del vaccino, quasi tutti i bambini si ammalavano prima dei 15 anni. L'epidemia è ciclica e si manifesta ogni tre o quattro anni. Una volta superata l'infezione l'immunità dura tutta la vita. Si trasmette per via aerea, attraverso le goccioline di saliva emesse con i colpi di tosse, gli starnuti o semplicemente parlando. Se la persona contagiata ha dei problemi al sistema immunitario i rischi di complicazione sono molto alti. Ei danni possono essere gravi,a volte letali. Quindi attenzione se si manifestano forme di laringiti, broncopolmoniti, otiti. In casi molto rari il virus può provocare una forma di encefalite morbillosa che genera danni permanentia livello neurologico. Ma torniamo agli anni neri. Nel 2002-2003 i bambini colpiti dall'epidemia, secondo le rilevazioni dell'Istituto Superiore di Sanità, furono più di 44 mila. A pagarne di più le conseguenze i giovanissimi delle regioni del Sud, dove l'incidenza del virus fu di 22 volte superiore a quelle del Nord ed 8 volte rispetto alle regioni del Centro. Nel 2002 la diagnosi per un ricovero ospedaliero causato dal morbillo è stata spesso accompagnata da complicazioni del sistema respiratorio e di quello nervoso. Su un totale di 3.072 ricoveri sono state infatti registrate 391 diagnosi di polmonite ed 81 di encefalite. E pensare che tutto si poteva evitare con una estesa e capillare campagna di vaccinazione. Senza contare i costi economici a carico del Servizio sanitario nazionale: cinque milioni di euro per i ricoveri ospedalieri, ai quali si aggiungonoi 12 milioni legati alle terapie per chi non è stato ricoverato e alle giornate di lavoro perse. L'intervista Stefania Salmaso dirige il centro nazionale di epidemiologia dell'Istituto Superiore di Sanità "Ora bisogna vaccinare gli over 16" In Europa Il trend è ancora più preoccupante in Svizzera, Gran Bretagna e Germania (ma.re.) ROMA - «Il nuovo allarme morbillo non riguarda solo l'Italia. Il centro di controllo delle malattie infettive di Stoccolma segnala un trend ancor più preoccupante in Svizzera, Gran Bretagna e Germania. Il piano di vaccinazioni per i nuovi nati ha funzionato, ora è necessario convincere gli over 16 che non l'hanno fatto di sottoporsi al vaccino». Stefania Salmaso dirige il Centro nazionale di Epidemiologia dell'Istituto Superiore di Sanità. Il vaccino protegge da tre virus? «Certo. Quelli di morbillo, parotite e rosolia congenita. Anche quest'ultima crea non poche preoccupazioni perché la donna in gravidanza che non siè vaccinata rischia conseguenze molto gravi, fino ad arrivare all'interruzione della gravidanza. Dai nostri studi, poi, risulta che la metà delle infezioni colpiscono le donne in attesa del secondo figlio». La situazione è più preoccupante in altri Paesi europei? «La Svizzera è in testa alla percentuale di casi di morbillo perché tra la popolazione è diffusa l'idea che il vaccino non serva. In Gran Bretagna il calo dell'attenzione è derivato dalla disinformazione sui rischi che potrebbe creare il vaccino. In Germania, infine, le campagne varianoa seconda della sensibilità dei governi dei Lande quindi non sono omogenee. L'Organizzazione mondiale della Sanità, dopo la recrudescenza dell'epidemia ha deciso di spostare al 2010 il traguardo dell'eradicamento del morbillo nei Paesi europei. Il vaiolo è scomparso, la poliomielite quasi del tutto, ora tocca al morbillo». Quindi lei è fiduciosa? «È suonato un campanello d'allarme, non dobbiamo abbassare la guardia. Dobbiamo tagliare le strade di fuga al virus che si sposta con le persone che viaggiano. Come un gruppo di studenti italiani che l'hanno portato dall'Inghilterra» _________________________________________________________ Corriere della Sera 19 mag. ’08 INGRASSATI DI NUOVO? NON È COLPA VOSTRA Dieta Scoperti i meccanismi che vanificano i risultati raggiunti Geni e ipotalamo sono i veri nemici della linea Ogni tentativo di dimagrire viene visto come una minaccia dall'organismo. Che si difende come può Cronicità L'obesità è una malattia cronica: può essere curata, ma non si può guarire del tutto Luca Carra Più lo tiri giù e più torna su. Tutti conoscono la maledizione dello yo-yo: uno ce la mette tutta a dimagrire e nel giro di qualche anno recupera tutti i chili faticosamente persi: secondo le statistiche dell' Istituto Auxologico di Milano, sarebbero addirittura 9 persone su 10 a riprendere il peso, al massimo dopo 5 anni dal dimagrimento. E in molti casi ai chili recuperati se ne aggiungono perfino altri. A consolazione dei condannati allo yo-yo giunge ora la notizia che tutto sommato non è colpa loro se ringrassano, ma delle caratteristiche dei geni del cervello e del tessuto adiposo. Uno studio internazionale, che ha analizzato i geni di 90.000 individui di varia provenienza, ha scoperto infatti che alcune varianti genetiche piuttosto comuni influenzano la quantità di grasso presente nel nostro corpo, il peso e il rischio di ringrassare dopo le diete. Si tratta di varianti che interessano un tratto di DNA molto vicino al gene MC4R, la cui mutazione causa una grave forma di obesità familiare. Le persone che hanno due copie di questa variante pesano in media 1,5 chili in più rispetto a chi non ha nessuna delle varianti. La ricerca, coordinata dal Cambridge GEM Consortium e dall'Università di Oxford, ha visto la collaborazione di 77 istituzioni e centri di Regno Unito, Usa, Francia, Germania, Italia, Svezia e Finlandia. Non è chiaro quali meccanismi vengano interessati da queste varianti genetiche, ma le conseguenze biologiche sono chiarissime: i chili di troppo. La proteina prodotta dal gene MC4R, che porta lo stesso nome, ha infatti un ruolo chiave nell'orchestrare il traffico di informazioni riguardo all'appetito, all'introduzione di cibo e al dispendio energetico, essenziali per mantenere sotto controllo il peso. Chi ha questo gene difettoso, è come se avesse un direttore d'orchestra più facilone e approssimativo, che lascia prevalere l'introito in eccesso di calorie. Questo studio fa il paio con una ricerca svedese, pubblicata di recente su Nature, che ha dimostrato con un esperimento su 700 persone che il numero di cellule adipose rimane costante per tutta la vita. Una volta terminata la crescita, non c'è niente che possa modificarlo. Nemmeno diete molto strette o una cospicua perdita di peso. Insomma geni e caratteristiche del tessuto adiposo sembrano congiurare nel rendere difficile dimagrire e conservare i risultati ottenuti. E non è solo colpa loro. «La tendenza a mantenere il proprio peso dipende da molti fattori, fra cui il ruolo dell'ipotalamo, la parte del cervello che regola il livello di riserve energetiche dell'organismo» spiega Paolo Marzullo dell'istituto Auxologico italiano.- «L'ipotalamo conserva la memoria, fino ad otto anni prima, del peso massimo raggiunto. E ogni tentativo di ridurre i chili viene quindi visto come una minaccia alla conservazione delle scorte iniziali di energia, che viene prontamente contrastata». In che modo? «Aumentando la sensazione della fame, ma anche riducendo i consumi di energia e la produzione di calore». Un'altra interessante scoperta dello studio svedese riguarda il fatto che le cellule di grasso hanno un ricambio ciclico: intervenire con nuovi farmaci su questo turn-over potrebbe sciogliere il puzzle dell'obesità. Che tuttavia si rivela sempre più come una malattia cronica complessa. «Proprio perché è una malattia cronica, soggetta a frequenti ricadute, va compreso che l'obesità può essere curata, ma che da essa non si può compiutamente guarire» spiega Franco Balzola dell'Istituto Auxologico. «Una persona obesa deve considerarsi in trattamento a lungo termine, se non addirittura per tutta la vita, indipendentemente dal suo peso corporeo. L'Italia sulla bilancia 35% 31% 33% ETÀ ETÀ italiani su a dieta 100 42,5% Tra gli ADULTI, i più soggetti all'eccesso di chili hanno tra i 64 e 74 anni: in questa fascia di età il 45,1% è sovrappeso, il 15,7% obeso Tra i GIOVANISSIMI, i più soggetti ai chili di troppo sono i bambini tra i 6 e i 9 anni: in questa fascia di età è sovrappeso o obeso il 34,1% PERCENTUALE DI PERSONE SOVRAPPESO E OBESE PERCENTUALE DI PERSONE SOVRAPPESO E OBESE Tra gli ADULTI, i più soggetti all'eccesso di chili hanno tra i 64 e 74 anni: in questa fascia di età il 45,1% è sovrappeso, il 15,7% obeso Tra i GIOVANISSIMI, i più soggetti ai chili di troppo sono i bambini tra i 6 e i 9 anni: in questa fascia di età è sovrappeso o obeso il 34,1% ITALIANI SOVRAPPESO E OBESI lla bilancia 26,6% 1 controllano regolarmente il peso 4vorrebbe mettersi a dieta _____________________________________________________ Il Sole24Ore 22 mag. ’08 ADROTERAPIA: L'ACCELERATORE DI TERAPIA Il primo edificio, quello che accoglierà i pazienti, è stato consegnato a febbraio. II resto il sincrotrone e le apparecchiature ancora mancanti tra le quali le Tc, le Tac-Pet, le risonanze, i robot, i sistemi di videoimaging - dovrebbe essere completato entro giugno ed entrare in funzione a pieno,regime alla fine dell'anno. A quel punto l'Italia, e in particolare il Policlinico San Matteo di Pavia, avrà il secondo Centro europeo di adroterapia al carbonio (il primo è ad Heidelberg, in Germania, e altri ne seguiranno nei prossimi anni a Lione, Vienna, Marburgo). Nel frattempo è alle battute conclusive il complesso iter burocratico che dovrebbe portare, nel giro di 3-5 anni, alla costruzione di un secondo centro di adroteiapia, questa volta ai protoni, all'Ospedale di Mestre. L'Italia quindi, una volta tanto, si muove in anticipo rispetto ad altri Paesi europei per assicurare a una parte dei malati oncologici nostrani una speranza in piu'. Ma in che cosa consiste l’adroterapia? Risponde Roberto Orecchia, ordinario di Radioterapia dell'Università di Milano e direttore della Radioterapia clinica della Fondazione Cnao (Centro nazionale di adroterapia oncologica), che gestirà l’impianto di Pavia: «L'adroterapia si basa sui cosiddetti adroni, particelle pesanti generate dall'accelerazione del carbonio 0 dei protoni, che sono in grado di spezzare la doppia elica del Dna con un'altissima precisione. Rispetto alla radioterapia tradizionale, i vantaggi sono molteplici: innanzitutto le radiazioni sono molto più potenti (fino a 4 volte tanto), perché se i raggi X entrano con una potenza pari al 100% e poi, via via che incontrano i tessuti, perdono forza, gli adroni non disperdono più del 30%della carica nel percorso attraverso i tessuti, e scaricano poi sul bersaglio una potenza di fuoco intera che corrisponde a un vero e proprio picco di emissione, senza disperdere radiazioni nei tessuti circostanti. Inoltre gli adroni non sono sensibili alla presenza di ossigeno, e questo li rende utilizzabili nei tumori più difficili da curare. I raggi X, infatti, per agire devono interagire con l'ossigeno: per questo alcuni tumori solidi, con zone necrotiche, non sono molto sensibili o comunque diventano radio resistenti. Questo non accade con gli adroni, indicati per i tumori radio resistenti o che si sono sviluppati nei tessuti profondi come i sarcomi, i tumori cerebrali èq uelli della base della testa e del collo, ma anche per le neoplasie polmonari e quelle solide dei bambini». L'impianto, del costo di circa un centinaio di milioni di euro, a regime dovrebbe trattare 3.000-3.50o pazienti all'anno; il numero limitato dipende dal fatto che i ltrattamento è ancora molto costoso e dovrebbe essere riservato, almeno in una prima fase, ai malati per i quali non ci sono alternative terapeutiche valide. Il centro, inoltre, avrà una forte connotazione di struttura di ricerca. Si pensa, in questo modo, di convalidare ultèriormente una tecnica che è in studio da più di mezzo secolo, ma che solo negli ultimi anni è stata oggetto di ricerche scientifiche. Ma il lavoro da fare è ancora molto. Continua Orecchia: «Sono ormai più di 100 gli studi pubblicati su riviste quotate e più di 45 mila i malati trattati in tutto il mondo, e i risultati sono nel complesso molto buoni. A livello internazionale si sta lavorando proprio alla messa a punto di possibili protocolli sperimentali». In Italia, comunque, un Centro di adroterapia c'è già e opera da tempo: è quello di Catania, presso l’Istituto nazionale di fisica nucleare. Si tratta però di una tecnologia che ha alcuni limiti strutturali che le consentono di essere applicata soltanto alla terapia di una forma di tumore dell'occhio, il melanoma uveale. Più simile all'impianto di Pavia sarà invece quello di Mestre, presso il nuovo ospedale. Spiega Guglielmo Brayda, neurologo e amministratore delegato di Medipass, azienda che fa parte del consorzio che si fa carico della realizzazione del nuovo centro, e che ora deve affrontare gli ultimi passaggi burocratici: «La scelta di Mestre dipende dal fatto che le autorità locali si sono mostrate molto sensibili alle potenzialità dell'adroterapia e che una realtà innovativa come l'ospedale è adatta a essere interfacciata con un centro a elevatissimo contenuto tecnologico. Non solo: in Veneto esiste già una rete oncologica regionale molto attiva, che costituisce un alveo ideale nel quale inserire l’adroterapia e sfruttare al meglio tutto quello che essa può offrire». AGNESE CODIGNOLA _____________________________________________________ Il Sole24Ore 17 mag. ’08 L'USO SOCIALE DEL GENOMA Come ricostruire il libro della vita `di ognuno di noi DI SUSANNA IACONA SALAPIA Del genoma umano ormai si sa quasi tutto: quante e quali sono le combinazioni possibili, quali i geni portatori di malattie, quali quelli ereditari eccetera. Ma le applicazioni mediche, di tanta ricerca, tardano ancora ad arrivare. A detta degli stessi esperti ci vorranno ancora anni. E allora? Cosa farsene nel frattempo di decine di banche dati di genoma divari screening compiuti in questi anni o delle tecniche di rilevamento del Dna ormai ultra perfezionate con numerosi tool anche "web-based"? Oltre alla ricerca medica.(che continua incessante con risultati sempre incoraggianti) si profila adesso anche un possibile uso "sociale" del genoma umano, quest'ultimo già disponibile anche online, ovviamente in forma anonima, per usi di ricerca medica. Cioè, utilizzarlo per rintracciare il "libro della vita" di ognuno di noi. Se abbiamo il "dono" del disegno o una intolleranza al lattosio o siamo mancini lo dobbiamo alla famiglia di mamma o papà? Chi sono i nostri "parenti" sparsi nel globo? Anziché digitare il nostro cognome su Google, basterà cercare invece nel motore di ricerca di questo immenso databank genetico. Il "grand parents tree" (albero genealogico) online e la realizzazione di un enorme social network che condivida le proprie informazioni genetiche è un'idea di una first lady della tecnologia: Anne Wojicki, biologa, moglie di Sergey Brin, uno dei fondatori di Google, in partnership con Linda Avey, manager farmaceutica. Sul progetto, già lanciato dal sito vrww.2;andme.com (23 è il numero delle coppie di cromosomi presenti in ogni essere uma no), ci punta anche Google, che ha deciso di investirci qualche milione di dollari. Non a caso questa internèt company è stata selezionata dal World Economy Forum per il premio «Technology Pioneering 2008». Ma quali sono esattamente i servizi di questa avveniristica azienda biotecnologica? Con il semplice invio di un campione di Dna, al prezzo di soli 90o dollari, «23 and me» da l'accesso online (ovviamente protetto da parola chiave) al proprio «Gene Journal», un vero e proprio "giornale", con diverse tabelle comparative, che consente di scoprire come i propri geni influenzano le probabilità di contrarre o meno determinate malattie, come pure alcune "predisposizioni" naturali come, per esempio, l'abilità atletica o il disegno. I geni non sono comunque gli unici fattori che causano una malattia: il «Gene Journal», attraverso uno specifico strumento di calcolo, permette così di combinare tutte le informazioni aggiuntive che costituiscono fattori di rischio (ambiente, stile di vita, alimentazione,...) e tracciare un "prospetto", aggiornato anche alle nuove ricerche che forniscono terapie. «Per spiegare ancora meglio, il nostro "Gene Journal" è ciò che consentirà di connettere il vostro genoma alla letteratura scientifica, cioè alle ultime scoperte - spiega la biologa co-fondatrice, Anne Wojicki -. Per quanto riguarda invece le ricerche degli antenati, noi aiuteremo a esplorare la discendenza, così come a paragonare il corredo genetico a quello di altre popolazione del mondo». La sezione «Family lnheritance» del «Gene Journal» online consentirà inoltre di vedere come i geni sono passati da generazione a generazione. E infine nella sezione «Genome Labs» sarà possibile vedere l'intero proprio genoma, con tutte le svariate sequenze di Dna. Ma c'è anche il Grandtree", un particolare strumento di calcolo che consente di disegnare graficamente il "pedigree" di generazioni multiple che si intrecciano. «Abbiamo due tools nella sezione dedicata alla ricerca degli antenati - continua Wojicki -, il primo consente di esplorare la discendenza materna; il secondo invece è in grado di confrontare il proprio genoma con un nostro database di riferimento che contiene mille campioni di Dna di ben 52 popolazioni diverse». Un database genetico, quello messo a disposizione da «23 and me» ai propri clienti, destinato a espandersi con il numero dei nuovi iscritti che daranno il consenso a utilizzare i dati personali. C'è infatti tutta la complessa tematica legata alla questione dei figli adottati o dei nati in provetta con seme da donatore a cui gli strumenti di «23 and me» potrebbero essere molto utili. «Per questo genere di ricerche, oltre a utilizzare il nostro database di riferimento di cui Anne ha parlato - t conclude Linda Avey-, c'è anche la possibilità di esplorare il proprio genoma attraverso il nostro browser,individuando ogni singolo cromosoma o Snp».