SCIENZA E UNIVERSITÀ POVERE E ALLO SBANDO - LA MEGLIO FACOLTÀ - LE 20 UNIYERSITÀ PROMOSSE CON LODE - UNA SOCRATICA SCALATA ALLE VETTE DEL SAPERE - AL PROFESSORE BASTANO 3 ORE DI LAVORO AL GIORNO - UMBERTO ECO: I DOTTORI DEL TRIENNIO - SULL'ORARIO L’ASSENTEISTA FINIRÀ ONLINE - CACCIA GROSSA AGLI ASSENTEISTI - FANNULLONI, RISCHIANO IL POSTO ANCHE I MEDICI COMPIACENTI - IN CORSIA DUE MESI DI ASSENZA - DAL 2005 IN ASL E OSPEDALI QUASI 90 LICENZIAMENTI - SANITÀ, ALLARME ASSENTEISMO NELL'ISOLA - DONNE E MATEMATICA, QUESTIONE DI POTERE - IL NUOVO CERVELLO DEL COMPUTER, SEMPRE PIÙ SIMILE A QUELLO UMANO - IL MISTERO DELLA SINDONE NON SI MISURA COL CARBONIO - CARO MISTRETTA, LE TASSE SONO PAZZESCHE - LE MULTINAZIONALI: IN ITALIA TROPPI BAMBOCCIONI - ======================================================= MALATI MOLTO IMMAGINARI - MENO FARMACI PIÙ UMANITÀ - NON UCCIDE SOLO L’AIDS - SLOW MEDICINE PER LEVARSI IL PESO - CAGLIARI: TIROIDE ECCO IL GENE CHE REGOLA GLI ORMONI - DOTTORE TI DENUNCIO - ASMA: SALUTE IN GARA - A MONSERRATO IL NUOVO OSPEDALE - PARTI CESAREI, CORSA SENZA FINE - ECCO LE MILLE INSIDIE NASCOSTE NELL'HARDWARE IN CORSIA - MEDICINA GENERALE, SERVONO LEA SPECIFICI - SANITÀ, I CONTI PEGGIORANO. MA MENO DEL PREVISTO - AIDS CACCIA AL VACCINO: DELUSIONI E SPERANZE - OSPEDALI, LA SPA NON È TUTTO - PSICHIATRIA -TRONCI: LA CALLIPHORA SOTTO IL CERONE - TUMORI, SCOPERTI CENTO NUOVI GENI - IL RUMORE FA AMMALARE - ======================================================= _____________________________________________________________ Il Manifesto 29 Mag. ‘08 SCIENZA E UNIVERSITÀ POVERE E ALLO SBANDO Presentato un documento dell'Accademia dei Lincei sulla ricerca. in Italia. Pochi i fondi pubblici, assente una visione progettuale. Mentre dilaga il precariato e continua la «fuga dei cervelli» Lo stato di salute della ricerca scientifica italiana è pessimo. Nonostante la firma al trattato di Lisbona sulla costruzione della «società della conoscenza», i finanziamenti pubblici sono la metà da quanto stabilito nella capitale portoghese oltre otto anni fa. Inoltre è assente una visione progettuale sia di breve che di lungo periodo. Infine, il precariato è diventata la norma nelle politiche di reclutamento del ricercatori, che non prevedono neanche una verifica del lavoro svolto, né la qualità scientifica del progetti di ricerca. È questo il fosco affresco che la «Commissione ricerca» dell'Accademia dei Lincei ha delineato in un documento sulla ricerca biologica e medica in Italia reso pubblico ieri. Un affresco che trova conferma in un'inchiesta condotta dal Cnr su come i giovani considerano sulla scienza: campì del sapere certa interessanti (80 per cento degli intervistati), ma difficili da apprendere (52 per cento) e che non aiutano certo a trovare lavoro (per il70 per cento del campione). Per tornare al documento de1l’Accademia dei Lincei, c'è la conferma che i finanziamenti pubblici alla ricerca scientifica è l'un per cento del prodotto interno lordo, cioè la metà di quanto i paesi dell'Unione europea, Italia compresa, avevano preso come impegno a Lisbona. Inoltre, il disinteresse verso la riesca scientifica è stato bipartism: da dieci anni a questa parte tutti i governi non hanno considerato l’Università e la ricerca scientifica come obiettivi strategici della propria azione. Anzi, la riduzione dei finanziamenti è stata una costante delle finanziarie approvate dai parlamenti che si sono succediti. Eccezione per l'ultimo governo Prodi, che ha mantenuto gli stessi finanziamenti del precedente di centro-destra: una conferma che non ha certo invertito la tendenza nell'emorragia di «cervelli» dal nostro paese. Da qui l’emorragia di «cervelli» del nostro paese. Una conferma della scelta di molti laureati di cercare lavoro nella ricerca al di fuori dal nostro paese viene anche dai dati contenuti nel documento dell'Accademia dei Lincei. Nel 2007 ci sono state 1700 proposte di progetti di ricerca presentate da laureati italiani all'European Research Council rispetto alle 1000 presentate da «colleghi» tedeschi o inglesi. Di queste sono state accolte solo settanta, ma il dato più allarmante è che oltre la metà dei laureati pensava l’inserimento lavorativo in un paese diverso dall'Italia, Altro dato sconfortante è che al bando sul tema «Salute» del VII Programma quadro dell'Unione europea la percentuale di successo di progetti di ricerca italiani non supera il 15 per cento, contro il 25 per cento degli altri paesi europei. L'Accademia dei Lincei affronta anche il tema della valutazione di qualità dei progetti di ricerca, riportando i dati di uno studio del National Institute of Health statunitense. È noto che negli usa la valutazione del lavoro dì ricerca avviene all'interno delle peer reuiew, cioè che dei «pari» che esprimono giudizi sulla qualità scientifica del lavoro svolto. Per i National Insitutes of Health solo il dieci per cento delle ricerche italiane è valutato secondo il metodo delle peer review. Da qui il giudizio impietoso dell'Accademia dei Lincei su come sì accede ai finanziamenti. Rapporti preferenziali con la pubblica amministrazione, costruzione di «cordate» accademiche: si fa di tutto pur di riuscire ad avere i pochi finanziamenti a disposizione, con un conseguente abbassamento della qualità. Per l'Accademia dei Lincei non esiste nessuna politica del «merito», chi riflette anche nel reclutamento dei ricercatori, Il precariato è infatti la norma, anche se nel documento non si parla ovviamente che molto del lavoro di ricerca è svolto proprio da ricercatori precari dell'Università. L'Accademia dei Lincei tuttavia non esclude che i primi anni di inserimento nel lavoro di ricerca possano essere legati a contratti di lavoro temporanei, ma questo non può essere protratto all'infinito, come spesso accade. Nel documento ci sono anche alcune proposte per migliorare la qualità del lavoro di ricerca. In primo luogo, la costituzione di centri scientifici interdisciplinari sul modello dei Clinical Research Cenrers delle Scuole di medicina statunitensi.. Per quanto riguarda l'accesso ai finanziamenti, che va da sé dovrebbero essere aumentati, i fondi pubblici dovrebbero essere annunciati da bandi pubblici. L'assegnazione vera e propria dovrebbe essere gestita da un'Agenzia nazionale, che dovrà inoltre stabilire le linee guida progettuali. _____________________________________________________________ L’Espresso 5 Giu ‘08 UMBERTO ECO: I DOTTORI DEL TRIENNIO Si addensano sempre più articoli apocalittici sullo sfacelo dell'università italiana. Certamente non è in buona salute l'università di un paese in cui i fondi per la ricerca sono così esigui, e dove gli obblighi di frequenza sono aleatori (siamo uno dei pochi paesi dove ci si può presentare a un esame di fine anno senza aver mai visto il professore - e non perché lui non si è fatto mai vedere, ma perché lo studente non veniva alle lezioni). È vero che certi articoli sono poco attendibili perché sono scritti da raffinati intellettuali che non fanno lo sporco mestiere d'insegnare e quindi parlano di un universo che gli è estraneo - ma cosa non si fa per farsi pagare un'articolessa. Infine la maggior parte delle deprecazioni riguardano l'invenzione della laurea breve. Si critica la laurea breve perché si seguono una serie di cosiddetti "moduli" didattici brevissimi, valutati fiscalmente in "crediti", per i quali non si devono portare più di un dato numero di pagine (a tal punto che gli editori sono stati costretti a ripensare dei manuali a dimensione d'analfabeta) così che la laurea breve si riduce quando va bene a un super liceo. La laurea breve esiste in tutti i paesi e l'Italia doveva uniformarsi. Quando si legge che John Kennedy era laureato a Harvard questo significa che aveva fatto i suoi tre anni di laurea breve al college. Ora in un triennio universitario americano s'impara poco più di quello che s'imparava da noi in un buon liceo di una volta (là le scuole medie sono pessime). E tuttavia si ritiene che una formazione universitaria di tre anni consenta a un cittadino di realizzare quella "istruzione superiore" indispensabile per inserirsi poi in una professione. Perché allora tre anni di college in America sono meglio di una nostra laurea breve? A parte il fatto che là non dicono ai ragazzi che dopo tre anni sono "dottori" (ma pazienza, per incoraggiare gli studi si potrebbe conferire anche il titolo di Eccellenza o di Satrapo), laggiù si è obbligati a frequentare tutte le lezioni, si vive insieme agli altri ogni giorno, sì è in contatto quotidiano e continuo coi professori. Sembra poco ma è tutto. Quindi il problema non è la brevità della laurea bensì l'intensità della frequenza. Come si può ovviare al fatto che da noi la frequenza non è obbligatoria ? Mi rifaccio alla mia esperienza di studente di filosofia negli anni Cinquanta. Anche allora potevi non frequentare, ma ciascuno dei diciotto esami richiesti era estremamente impegnativo. I nostri professori (che, detto incidentalmente, si chiamavano Abbagnano, Bobbio, Pareyson, eccetera) si erano messi tutti d'accordo in modo che alla fine dei quattro anni, tra un esame e l'altro, si fossero portati quasi tutti i classici della filosofia, da Platone a Heidegger. A seconda degli anni poteva capitarti di saltare, che so, Hegel, ma avevi portato Spinoza, Locke e Kant (tutte e tre le critiche) e quando ti sei scozzonato su autori di quel calibro sei poi in grado di leggere da solo quelli che hai per caso saltato. Considerando che alcuni esami implicavano almeno mille pagine e altri un poco meno, alla fine dei diciotto esami si era lavorato su almeno dodicimila pagine, e per un ragazzo che si forma la quantità conta molto. Erano diciotto esami, e per laurearsi entro il quadriennio (chi andava fuori corso era considerato un sottosviluppato) se ne davano cinque in ciascuno dei primi tre anni, e tre nell'ultimo, per avere tempo da dedicare alla tesi, molto impegnativa. Nessuno è mai morto. Ora, se quei quattro anni dovevano formare un esperto in filosofia, c'erano molti esami che con la filosofia non c'entravano, come latino, italiano, o quattro di storia. Per quanto fosse eccitante e più formativo di diciotto mesi di militare dare latino con Augusto Rostagni (che richiedeva un corso monografico sulla letteratura della decadenza, con tutti i testi di Ausonio, Claudiano, Rutilio Mamaziano e via dicendo, più tutto - dico tutto - Virgilio o tutto Orazio da tradurre all'impromptu), visto che all'epoca si erano già fatti italiano, storia e latino alle medie, si sarebbero potuti eliminare almeno tre di quegli esami. Ed ecco che si sarebbe arrivati a quindici esami di materie filosofiche, liquidabili in tre anni (senza tesi finale), imparando tutto quello che c'era da imparare, leggendo i classici, e senza moduli ridotti. Perché non si è fatto così? Perché si è data un'interpretazione restrittiva e fiscale dei "erediti", mentre non era indispensabile. Ma questo è un altro discorso. _____________________________________________________________ Panorama 5 Giu. ‘08 LA MEGLIO FACOLTÀ In testa c'è ingegneria meccanica, in coda giurisprudenza e fisica: nuovi dati mostrano quali corsi garantiscono prima il lavoro. E «panorama» indica i 20 atenei top. di ANTONELLA BERSANI A 3 anni dalla conquista della laurea un ingegnere meccanico ha sette volte le occasioni di lavoro di un medico chirurgo. Sul lungo periodo, però, sarà il dottore a riscattarsi con uno stipendio medio più soddisfacente. Meglio allora una laurea in camice bianco o una tesi in progettazione industriale? Gli incerti si rilassino: tengono bene anche il corso di farmacia, che garantisce un lavoro nell'81,7 per cento dei casi, di economia aziendale (76,6) e soprattutto di odontoiatria. Che con un tasso di impiego pari Al75,3 per cento colloca i dentisti davanti ai laureati in economia bancaria, finanziaria e assicurativa o in scienze statistiche. I:indagine Istat 2007 sull'inserimento professionale dei laureati (vedere le tabelle da pagina 33) insegna molte cose: tra le lauree triennali post riforma sono le professioni sanitarie, infermieristiche e ostetriche a offrire maggiori possibilità di successo (72,3 per cento di occupati a 3 anni dal titolo). Fra i corsi lunghi, vale a dire quelli del vecchio ordinamento e le nuove lauree a ciclo unico (come medicina, farmacia o architettura), occupano le prime sei posizioni le diverse facoltà di ingegneria. In particolare, le performance dei dipartimenti di meccanica (88,5 per cento) e telecomunicazioni (88,2) sono tali da creare un certo imbarazzo ai medici, penultimi con il 12,7, e ai laureati in giurisprudenza, che nel paese ritenuto la culla del diritto si impiegano soltanto in 38 casi su 100 nei primi 3 anni. Non si diceva che di medici e avvocati c'è sempre bisogno? «I laureati in medicina si impiegano soltanto dopo la specializzazione» sostiene il prorettore della Statale di Milano Marino Regini. «Se si tiene conto di questo, il tasso d'occupazione è in realtà molto al to. E lo dimostrano le percentuali di odontoiatria, professione per cui tale specializzazione non è richiesta». Un discorso applicabile anche a giurisprudenza, cui seguono lunghi tirocini per diventare notai, avvocati o magistrati. Le percentuali Istat, calcolate al netto degli studenti lavoratori, sono comunque un buon indicatore di come si muove il mercato. «Oltre alla tenuta delle facoltà tecniche, sottolineo il buon risultato di architettura, poco distante da scienze statistiche con ì162,2 per cento di occupati» sottolinea Giovanni Azzone, prorettore del Politecnico di Milano. «Si tratta infatti di una laurea duttile, con buone possibilità di impiego anche nelle pubbliche amministrazioni o nella pianificazione urbanistica». E qualche distinzione va fatta anche tra le facoltà economiche: «Aumentano le richieste di laureati in economia pura e di esperti in macroeconomia, molto ambiti dagli uffici studi delle banche» sostiene Pierugo Calzolari, rettore di Bologna e tra i promotori dell'Aquis, consorzio di 19 atenei che lavora per dare più risorse alle università di qualità. Un punto, questo, cruciale. Perché in un paese dove uno studente su tre si laurea con 110 l'ateneo di provenienza fa la differenza. Come orientarsi allora? Un riferimento sono le nove scuole universitarie superiori italiane, Normale e Sant'Anna di Pisa in particolare, ma hanno pochi posti. Quanto alle altre 77 università italiane, non esiste alcuna graduatoria qualitativa sul modello anglosassone. E si attende ancora di vedere all'opera la neonata Agenzia per la valutazione del sistema universitario. Incrociando il tasso di occupazione, le classifiche internazionali e la produzione scientifica, Panorama ha comunque individuato 20 università che si distinguono per offerta e qualità dell'insegnamento (riquadro in alto da pag. 30). Tra queste Bologna e il Politecnico di Milano, Padova, Bocconi e Roma La Sapienza. Non bisogna stupirsi se all'appello mancano atenei comunque prestigiosi, che per dimensioni o età magari non compaiono nelle graduatorie mondiali. Per esempio l’Università Vita e salute del San Raffaele o la Cattolica. Resta una domanda: le lauree brevi sono promosse dal mercato? Paola Ungaro, ricercatrice Istat, riconosce che «ì laureati dei corsi lunghi sono più favoriti nel trovare un lavoro continuativo». La gran parte degli studenti, non a caso, dopo il triennio si iscrive alla specializzazione. LE 20 UNIYERSITÀ PROMOSSE CON LODE Quali sono le università migliori d'Italia? Panorama ne ha selezionate 20, tenendo conto di alcuni criteri: la percentuale di occupati a tempo indeterminato dopo la laurea rilevata dall'Istat; il punteggio assegnato dal Civr (Comitato italiano di valutazione della ricerca) alla produzione scientifica nel triennio 2001 – 2003 ; le classifiche 2007 del Time e dell'Università di Shanghai, fra le pochissime che valutano gli atenei di tutto il mondo. Il Times stila la graduatoria sulla base del giudizio espresso da oltre 5 mila docenti universitari internazionale (che non possono indicare la propria università) e dai selezionatori del personale, quindi considera il numero delle pubblicazioni scientifiche, il rapporto fra docenti e studenti e il numero di studenti e professori stranieri. Shanghai tiene conto di studenti e staff vincitori di premi Nobel e medaglie di merito, dei ricercatori più citati nelle loro categorie e delle pubblicazioni scientifiche. TORINO L'Università di Shanghai la colloca al quinto posto tra gli atenei italiani, la graduatoria internazionale del Times invece la inserisce in 1891 posizione nell'area delle scienze sociali. Ottima la ricerca nelle scienze biologiche, buona nelle scienze giuridiche. Il 54,9 per cento dei laureati ha un impiego continuativo g anni dopo la tesi. POLITECNICO DI TORINO Come per molti politecnici, il tasso di occupazione a 3 anni dalla laurea è elevato: 81,2 per cento. È in sedicesima posizione nella graduatoria italiana secondo la classifica di Shanghai. POLITECNICO DI MILANO Ha ottimi voti nelle classifiche intemazionale: per il Times è il 66° ateneo al mondo nel settore dell'ingegneria e dell'information technology, mentre l'Università di Shanghai lo recensisce come il sesto ateneo italiano. Tasso di occupazione: 78,1 per cento. BOCCONI DI MILANO La classifica del Times la colloca 9 al mondo per le opportunità di impiego e 83 per la qualità dell'insegnamento nelle scienze economiche e sociali. Tasso di occupazione dell'82,1 per cento. STATALE DI MILANO L'Università di Shanghai promuove la Statale di Milano come miglior ateneo italiano, ma la classifica del Times non la cita. Tasso di occupazione: 54,4 per cento. PADOVA Quarta università italiana netta classifica di Shanghai. Il rankìng del Times sottolinea la buona performance nelle aree umanistica, medico-scientifica e nette scienze naturali. Occupati a 3 anni: 65,4 per cento. TRENTO Compare soltanto nella classifica del Times, in 259 posizione nell'area engineering e 266 nelle scienze naturali. Gli occupati a 3 anni dalla laurea sono il 71 per cento. TRIESTE Trieste è l'università italiana numero 15 nel ranking di Shanghai, mentre il Times la recensisce in tre aree: scienze naturali, medicina e scienze detta vita e umanistica. Ottima la ricerca in chimica. Occupazione al 51,5 per cento. GENOVA Anche Genova è tra le prime 500 università recensite nella graduatoria generica del Times. Secondo i parametri di Shanghai è decima tra le italiane. Corposa produzione di ricerca in ingegneria civile e architettura. Tasso di occupazione del 61,8 per cento. PAVIA Buon tasso di occupati (64,2 per cento) e citazioni nella classifica del times per l'engineering e l'area umanistica. Nella classifica Shanghai è 13° tra gli atenei italiani. MODENA E REGGIO EMILIA Si distingue tra i piccoli atenei per la produzione in ricerca nelle scienze economiche e statistiche. Il Times la inserisce tra le prime 500 università mondiali. Tasso di occupazione: 62,8 per cento. BOLOGNA Secondo la classifica del Times è la migliore università italiana, eccellente in discipline specifiche come quelle umanistiche e artistiche, le scienze sociali, medico scientifiche, scienze naturali e ingegneristiche. Nella graduatoria di Shanghai è settimo tra gli atenei italiani. Il tasso dì occupati è del 60,9 per cento. PISA Seconda in Italia secondo il ranking di Shanghai. Per i ricercatori del Times si distingue nelle scienze naturali , nell’ingegneria e in area medico- scientifica. Gli occupati, a tre anni sono il 56,1 per cento. NORMALE SUPERIORE DI PISA Non sono disponibili dati occupazionali, ma l'inserimento in elenco della scuola superiore Normale è dovuto alla citazione nella graduatoria dell'Università di Shanghai: è al nono posto tra gli atenei italiani. FIRENZE Il Times la premia nelle materie umanistiche, nelle scienze naturali, nelle scienze sociali e nell'ingegneria. Ottava in Italia per Shanghai. Occupati al 59 per cento. SIENA Una buona media: 394 nella graduatoria generica del Times, 247 nelle scienze sociali e 20 università italiana secondo Shanghai. Il 59,5 per cento degli studenti lavora a tre anni dalla laurea. LA SAPIENZA DI ROMA ottime performance secondo la classifica del Times nelle scienze naturali, nell’area umanistica. Ma La Sapienza si distingue anche nelle scienze sociali, nell’ingegneria e in medicina e biologia. Occupati a tre anni: 54,2 per cento. TOR VERGATA DI ROMA L'ateneo romano risulta 226° al mondo nell'area delle scienze naturali secondo la graduatoria Times e 19° tra le italiane secondo Shanghai. Il 53,4 per cento dei laureati lavora dopo tre anni dalla laurea. FEDERICO II DI NAPOLI Occupazione sotto il 50 per cento, ma il Times classifica l’università 228° a livello mondiale nelle scienze sociali. Undicesima in Italia secondo Shanghai, svetta nella ricerca in scienze agrarie e veterinarie. PERUGIA Il piccolo ateneo umbro vanta citazioni nella classifica di Shanghai e in quella del Times. Dopo tre anni, il 59,7 per cento dei laureati ha un lavoro continuativo. DOV'È LA CARRIERA PERFETTA Esiste davvero la carriera perfetta? Cercheranno di rispondere studenti, top manager e docenti della Sda Bocconi che il 6 e 7 giugno si riuniscono a Milano per discutere di come raggiungere e conservare le posizioni di vertice. «Non so se esista davvero la carriera perfetta, ma vi si può tendere» commenta Alberto Grandi, direttore della Sda. «Elemento imprescindibile è la passione, intesa come soddisfazione in quello che si fa. Quindi insisterei sull'atteggiamento di servizio verso ['istituzione per cui si lavora e infine sulla capacità di lavorare in gruppo con serenità». Quello di giugno è l'appuntamento 2008 della Clac, ovvero la conferenza degli ex studenti per l’apprendimento continuo. Tra gli altri vi parteciperanno Emma Bonino, il neopresìdente dei giovani imprenditori Federica Guidi e Corrado Passera, numero uno dell'intesa Sanpaolo. «Sarà l’occasione per uno scambio di esperienze, di consigli e di riflessioni per tutti coloro che da trent'anni a oggi hanno ottenuto un master alla Sda». QUANTI TROVANO LAVORO DOPO LA TESI Ingegneri, dentisti e infermieri non conoscono crisi. Come dimostra un'analisi condotta dall’Istat sulla capacità delle università di garantire un'occupazione, il mondo del lavoro premia le facoltà tecniche e le professioni sanitarie. Per esempio, il 62,2 per cento dei laureati in architettura ha un'occupazione stabile a 3 anni dalla laurea. La percentuale di occupati elaborata dall’Istat e pubblicata nelle tabelle qui accanto e nella pagina successiva si riferisce ai laureati del 2004 che a 3 anni dal conseguimento del titolo svolgono un lavoro continuativo (a tempo sia indeterminato sia determinato, ma non occasionale). Un dato rilevato nel 2007 e depurato da quegli studenti che hanno trovato un impiego prima di terminare il corso di studi. L'indagine dell'Istituto di statistica è rappresentativa di tutta la popolazione dei laureati itaGani, di tutti gli atenei e di tutti i corsi di laurea quinquennali e triennali post riforma. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 Mag. ‘08 UNA SOCRATICA SCALATA ALLE VETTE DEL SAPERE EUREKA DI MARCO MAGRINI Per seguire giornalmente le cronache scientifiche, c'è da metterci la testa. La crescita esponenziale dei progetti di ricerca, del numero degli scienziati all'opera e anche dei canali di comunicazione, sta moltiplicando le conoscenze del genere umano a livelli (ovviamente) mai raggiunti nella storia. Di qui, la sensazione-molto illuministica, se volete - che la scalata ai picchi del sapere andrà avanti senza posa. Fino al raggiungimento di innumerevoli, grandiose vette della mente. Adesso, ad esempio, spunta il pacemaker per il cervello. Invece di "tenere il ritmo" del cuore, aggiusta quello del sistema neuronale e-secondo un team di ricercatori delle università di Cleveland e di Leuven (Belgio) -ha effetti «straordinari» su alcuni soggetti affetti da depressione. Le cronache raccontano di una paziente che, un secondo dopo l'accensione della macchina, ha detto ai medici: «Mi viene da ridere». Battezzata Dbs (deep brain stimulation), la macchina è già in uso per ridurre gli effetti del Parkinson. Circa la metà dei pazienti depressi che l'hanno provata, ha trovato un «visibile miglioramento». Però c'è chi mette le mani avanti. «È una procedura invasiva e ancora da sperimentare», dice Wayne Goodrnan del National Institute for Mental Health americano. «Visto che quegli elettrodi sono disponibili sul mercato, non vorrei che qualcuno facesse impianti da 4omila dollari nella testa di qualcun altro senza pensarci». Intanto, si è scoperto perché l'incenso è utilizzato nelle cerimonie religiose di molte confessioni diverse. Ricercatori della Johns Hopkins di Baltimora e della Hebrew University di Gerusalemme, hanno appena rivelato che possiede effetti psicoattivi. Il cosiddetto franchincenso, estratto da millenni dalla pianta Boswellia, attiva alcuni ricettori cerebrali che alleviano la depressione e fansia. «Chi va alle cerimonie religiose -osserva Raphael Mecholaum, uno dei ricercatori-crede che l'incenso abbia solo un significato simbolico. E invece fa davvero bene allo "spirito"». C'è già chi prospetta nuovi farmaci antidepressivi basati sull'estratto di Boswellia. «Quei recettori però -ammettono gli studiosi - non sono ancora ben compresi». Quei farmaci dovranno probabilmente attendere ancora a lungo. Infine, tutti sanno che la fiducia è una cosa seria. Ma adesso, sappiamo che può anche essere indotta artificialmente. Un paper della Rutgers University, appena pubblicàto sulla rivista «Neuron», rivela che con la somministrazione per via nasale di ossitocina (un ormone che viene solitamente rilasciato durante fatto sessuale e l'allattamento e che funziona da neurotrasmettitore) si riesce ad alterare i meccanismi della fiducia nel prossimo. «È un passo avanti nello studio dei comportamenti asociali - commenta lo psicologo Mauricio Delgado della Rutgers - e potrebbe rappresentare una cura per certi casi di sociofobia». Qualche casa farmaceutica investirà miliardi di dollari per curare un disturbo così inafferrabile come la fobia degli altri? Non è impossibile. Ma è parecchio difficile. Ecco, dopo questa lista di notizie fresche di stampa, converrete che si avverte la socratica sensazione di non sapere nulla, tanto più riguardo al nostro cervello. A seguire giornalmente le cronache scientifiche, c'è da perderci la testa. m.magrini _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 Mag. ‘08 AL PROFESSORE BASTANO 3 ORE DI LAVORO AL GIORNO LA GIUNGLA DEI CONTRATTI Figure e indennità. L'Economica elenca 48 profili e 162 indennità diverse. Riforma. Con l'intervento del Governo ; si punta alla Responabilzzzazione Nelle università presenza ridotta al minimo Che cosa significa «tempo pieno»? Per un professore ordinario dell'università italiana, il tutto si traduce in tre ore e 39 minuti al giorno, per cinque giorni alla settimana e 252 all'anno- A una prima occhiata,la sua agenda non pare fittissima, ma le pagine bianche sono più frequenti in quella degli assistenti. Sempre a tempo pieno: due ore e mezza al giorno. Per chi insegna lontano dall'Accademia, invece. l’impegno è più gravoso, e le ore di lavoro al giorno richieste si impennano a quattro. I dati emergono dalle tabelle che accompagnano la circolare della Ragioneria generale dello Stato sul Conto annuale del personale. pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la scorsa settimana. Il Conto annuale è lo strumento con cui l’Economia rileva i tassi di assenza del pubblico impiego, e traduce in ore al giorno, e in giorni all'anno, li presenza al lavoro richiesta dai 48 contratti che disciplinano il pubblico impiego. E che si aprono anche a figure (non a tempo pieno, questa volta) la cui presenza (contrattualizzata) sul lavoro è ancora più sfuggente: per cercare i record bisogna tornare all'università, e incontrare (si fa per dire) i ricercatoti a tempo definito (un'ora e mezza al giorno) o gli esperti linguistici (pochi minuti meno di due ore). Nel caso di professori e ricercatori, naturalmente, la giornata lavorativa è fatta anche di studio, aggiornamento, c di tutte quelle attività intellettuali refrattarie a essere misurate con il cronometro. Orologio alla mano, invece. si può misurare tutta l'attività dei magistrati c dei dirigenti pubblici, per i quali le «otto ore» sono ancora una conquista da raggiungere: a loro, infatti, le tabelle della Ragioneria ne assegnano nove al giorno, mentre il dipendente pubblico-tipo, lontano dalle stellette dirigenziali, si ferma a 7,2 ore. Sono alcune delle stranezze che emergono dalle 46 forme contrattuali che disciplinano i 17 comparti del pubblico impiego. Articolato in centinaia di Figure professionali tipizzate, e dotate di un ventaglio di 162 diverse indennità. Un labirinto su cui sta per arrivare il ridisegno governativo, sotto forma di un Ddl delega che potrebbe essere presentato già in settimana. t il «piano industriale» per la Pa annunciato mercoledì scorsa dal ministro Renato Brunetta all'uscita dalla riunione napoletana del consiglio dei ministri. Del piano non emergono ancora i dettagli, ma i principi ispiratori sono chiari e ruotano intorno ai cardini della valutazione (declinata anche in chiave negativa, e non solo per dispensare premi) e della responsabilità. Sul fronte contrattuale l'idea-guida è quella di adeguare le «relazioni industriali» pubbliche, oggi viziate da un ritardo cronico nel rinnovo delle intese e dal tratto velleitario di molte previsioni contrattuali in fatto di produttività e merito, alle «pratiche più efficienti del settore privato». Un mutamento di pelle che potrebbe passare anche dalla soppressione de1l’r'1ran, trasferendo al dipartimento della Funzione pubblicale. funzioni dell'agenzia e una parte del personale tramite procedure di mobilità. Un'ipotesi che, secondo un Ddl delega sul tema presentato nell'autunno scorso da Maurizio Sacconi e Gaetano Quagliariello nell'autunno scorso, farebbe risparmiare il 50% delle risorse oggi spese per far camminare la macchina dell’Aran. Nel piano industriale troverà poi spazio un ampio capitolo sulla valutazione di risultato, che avrebbe il compito di mandare in soffitta l'attuale sistema dei controlli formali. Del resto, come ha dichiarato lo stesso Bizzetta all'indomani della sua nomina a ministro, «tutto si può misurare. Forse anche il lavoro di ricerca dei professori universitari. G.Tr. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 27 Mag. ‘08 SULL'ORARIO L’ASSENTEISTA FINIRÀ ONLINE Sindacati. «Ok all'operazione trasparenza» Cgil: il ministro convochi subito il tavolo Università. I docenti replicano alle stime del ministero dell'Economia Brunetta studia un piano: su internet le presenze degli statali Marco Rogari ROMA Da poco più di 6omila a oltre 1,4 milioni. In appena 48 ore, da venerdì scorso a domenica, il ministero della Pubblica amministrazione (Funzione pubblica) ha registrato una vera e propria impennata negli accessi al suo sito Internet. L'effetto-trasparenza (o l'effetto-Brunetta, come lo definiscono al ministero), con la pubblicazione degli stipendi dei dirigenti di Palazzo Vidoni, si è fatto subito sentire. AL ministero c'è soddisfazione. Ora Renato Brunetta si aspetta che anche i suoi colleghi di Governo lo seguano a ruota. E intanto studia le prossime mosse. L'obiettivo, anche se non a breve termine, è rendere pubblici tutti i dati riguardanti la spesa per il personale, i "dispositivi" dei contratti e anche l'andamento delle assenze dal lavoro. Una sorta di operazione "anti-assenteisti", dunque, a ruota di quella "anti-fannulloni", che scatterà nella prossime settimane. Brunetta non fornisce particolari. Ma a Palazzo Vidoni stanno monitorando con attenzione il fenomeno delle assenze dagli uffici pubblici (si veda Il Sole-z4 Ore di ieri). Che sarà uno dei termometri con cui misurare l'efficienza dei dipendenti statali attraverso i nuovi sistemi di valutazione in via di definizione da parte degli esperti di Brunetta. Anche i sindacati si mostrano favorevoli all'operazione trasparenza. «Mi aspetto che lo facciano tutti i ministeri», afferma il leader della Cgil, Guglielmo Epifani. Che aggiunge: «Con il consenso degli interessati si devono rendere trasparenti le retribuzioni di tutti i dirigenti pubblici. La trasparenza - prosegue - deve essere una costante quando si parla di pubblico impiego: se non si fa così diventa solo furbizia di un ministro». Epifani però non sembra troppo affascinato dalle prime dichiarazioni di Brunetta sui provvedimenti da adottare per riorganizzare la macchina burocratica e "ottimizzare" il settore del pubblico impiego. Il leader della Cgil dice a chiare lettere che i programmi che ha il governo per riformare la pubblica amministrazione devono essere affrontati a un tavolo con il sindacato. Ed Epifani fissa anche un paletto preciso: il punto di partenza deve essere il memorandum sul pubblico impiego firmato con il Governo Prodi. Anche la Cisl chiede che «venga aperto al più presto» il confronto su quello che Brunetta chiama il «piano industriale per modernizzare la pubblica amministrazione». Secondo la Uil, la riforma della Pa va affrontata «in maniera organica anche in merito alla produttività individuale»: il tavolo deve comunque essere convocato rapidamente. Per la Uil, tuttavia, il memorandum siglato con Prodi non deve essere necessariamente vincolante: Anche fUgl attende la convocazione. Ad apprezzare le prime mosse del ministro Brunetta è la Confsal. La partita è comunque solo agli inizi. Brunetta lo sa, ma non appare spaventato. L'operazione alla quale sta lavorando il ministro è imperniata su tre tappe: un primo disegno di legge delega anti-fannulloni; gli interventi strutturali per ridurre la spesa nell'anticipo della Finanziaria 2009 a giugno; un ulteriore provvedimento di riorganizzazione. Il perno del piano di riassetto nel pubblico impiego è rappresentato dal ricorso alla mobilità (che, rispetto al passato, sarà incentivata) e dai premi di produttività. Che potrebbero essere detassati. Il Governo dovrebbe anche puntare sulle esternalizzazioni di diversi servizi fin qui gestiti da strutture pubbliche. Il tutto sarà accompagnato dal completamento del processo di informatizzazione e digitalizzazione della macchina burocratica. I risparmi ipotizzati da tutto il pacchetto di interventi e potatura sulla Pa è di 7-8 miliardi nei prossimi tre anni. Anche se il Governo non fornisce cifre ufficiali. Tornando all'operazione trasparenza, in una nota di palazzo Vidoni si sottolinea che dopo il via di Brunetta all'immissione sul web degli stipendi dei suoi dirigenti, gli accessi al sito dél ministero sono passati da 61.461 del 17 maggio a 1.441.382 di domenica e il numero di visite è lievitato più,ai io volte rispetto al fine settimana precedente. Dopo le misure anti-furbi scatterà il secondo step: oltre alle assenze saranno resi noti i contratti e i dati sulla spesa per il personale Dopo l'immissione sul web degli stipendi dei dirigenti, gli accessi giornalieri al sito del ministero sono passati da 61.461 a 1.441.382 Gli orari del Pubblico impiego; Nelle Università l'orario di lavoro «formalizzato» vada un'ora e 12 minuti al giorno dei professori incaricati alle 3 ore 39 di quelli di ruolo. Nel complesso; per gli statali, orario che va da una a nove ore al giorno. Sono alcuni dei dati emersi da un'inchiesta del Sole- 24oredellunedì pubblicato ieri __________________________________________________________ Il Sole24Ore 27 mag. ’08 CACCIA GROSSA AGLI ASSENTEISTI Chi non lavora nel mirino della Funzione pubblica: il quadro delle aziende sanitarie Nel Ssn licenziamenti in salita - Un dipendente manca in media due mesi l'anno Gli assenti ingiustificati soprattutto, ma anche chi lavora poco e male deve tremare: nei piani del ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, c'è il provvedimento "tagliafannulloni" e anche l'intenzione di rendere pubblici su Internet tutti i dati (anche economici) dei dirigenti anzittuto del suo ministero, perché tutti possano vedere e giudicare che fa che cosa. In realtà però i licenziamenti non sono inesistenti nella pubblica amministrazione e i controlli si fanno, anche se il 65% circa delle Asl risulta in difetto da questo punto di vista e il 45% non ha servizi ispettivi. Per mettere a punto un rapporto per il ministro della Funzione pubblica, il ministero a febbraio di quest'anno ha elaborato dati raccolti nel Ssn alla fine del 2007, interpellando 217 aziende sanitarie su assenze e sanzioni. In queste nel 2006 per le assenze sono stati istruiti 1.513 procedimenti disciplinari, di cui in 1.017 (718 al Nord, 172 al Centro, 83 al Sud e 44 nelle Isole) c'è stata una sanzione. Quelle più frequenti sono le sanzioni lievi (rimproveri e censure) che sono state 474. In 282 casi si è avuta la sospensione, ma in 42 casi (erano stati 37 nel 2005) si è arrivati al licenziamento. Un focus particolare poi è stato effettuato sulle assenze per malattia, retribuite e spesso legate a certificazioni compiacenti. La media di assenze per dipendente del Ssn risulta di 13,16 giorni, ma il rapporto fa anche la classifica delle 10 aziende con la percentuale più alta e delle dieci con percentuale più bassa di assenze in questo settore. Il numero maggiore di giorni di assenza per malattia è tutto in aziende del Centro-Sud (Le Asl Roma E, H, B, G, di Latina e le Ao S. Giovanni di Dio di Agrigento, Gravina e Santo Pietro di Catania, Santobono Pausillipon di Napoli e S. Camillo di Roma) e vanno da una media di 18,69 giorni all'Asl Roma E ai 25,85 giorni dell'Ao S. Camillo di Roma. Al contrario, le dieci aziende con il minore numero medio di giorni per malattia per dipendente sono nove nel Nord e una nel Sud (Asl di Novara, Alba Bra, Provincia di Sondrio, Treviso, Mondovì, Lecco, Provincia di Cremona, Bussolengo, Caltanissetta e Provincia di Bergamo) e la media di giorni di assenza per malattia va dai 4,19 dell'Asl di Novara ai 7,13 di quella della Provincia di Bergamo. E per malattia fanno mediamente più giorni di assenza durante un anno (2006) gli operatori non dirigenti (13,61), seguiti dal cosiddetto "altro personale" (direttori generali e contrattisti: 11,12), poi i dirigenti non medici (9,02) e infine i medici (7,34). La rilevazione delle assenze dei dipendenti del Ssn (come di tutta la Pubblica amministrazione) la esegue ogni anno la Ragioneria generale dello Stato con il Conto annuale che proprio per il 2006 ne ha rilevati oltre 41,5 milioni di giornate: in media circa 60 giorni per ogni dipendente. Di queste 2,3 sono assenze non retribuite, quelle cioè in cui rientrano (ma non solo) anche le assenze ingiustificate. La parte del leone nelle cause di assenza è ovviamente tra le retribuite quella legata alle ferie che da sole assorbono oltre la metà delle assenze complessive con quasi 22 milioni di giornate, seguite proprio dalle assenze per malattia che però si fermano a 8,5 milioni di giornate di assenza. Pochissime invece le giornate di assenze per sciopero che si fermano a 30mila circa. Nel complesso a livello regionale il maggior numero di giornate di assenza medie per unità di personale si registra a Bolzano (74,7), seguiti dal Lazio (73,6) e dall'Emilia Romagna (67,9). La media italiana è di 60,6 giornate per dipendente e al contrario chi ne ha meno sono gli operatori della Campania (48,3), del Molise (53,1) e della Calabria (53). Il fatto di avere una media bassa di assenze complessive, spiegano i sindacati, non significa però necessariamente non farne, ma spesso semplicemente che non vengono rilevate ufficialmente dalle strutture. In sostanza speso accade che quanto più accurata è la rilevazione, tanto più risultano dati elevati di assenze e viceversa. «Nel valutare le assenze bisogna ragionare anche in altri termini - spiega Carlo Lusenti, segretario nazionale dell'Anaao -: se un medico sceglie di andare a perfezionare la sua professionalità all'estero per un anno, i primi mesi gli sono retribuiti, poi paga di tasca sua. Se una dipendente in maternità decide di dedicare più tempo alla famiglia e prolunga il permesso con quello non retribuito, fa una scelta trasparente, ma ottiene lo stesso effetto anche chi invece presenta un certificato di depressione post partum e resta a casa con il suo stipendio». A livello di aree professionali, il maggior numero medio per operatore di assenze retribuite spetta al personale del comparto (58,8), che al contrario registra il minore numero di giornate non retribuite (3,1). Escludendo il cosiddetto "altro personale" in cui rientrano nelle rilevazione del Conto annuale i contrattisti, ma anche i direttori generali delle aziende sanitarie che quindi hanno zero assenze per sciopero e solo un giorno in media di assenze non retribuite (ma anche poche giornate retribuite: solo 43,2), il maggior numero medio annuo di giornate di assenze non retribuite (ma attenzione alla trasparenza, come ammoniscono i sindacati) tocca ai dirigenti non medici (5), mentre le maggiori assenze per sciopero sono dei medici che con 0,08 giornate medie annue ne collezionano "il doppio" delle 0,04 sia del personale non dirigente che dei dirigenti non medici. P.D.B. __________________________________________________________ Repubblica 28 mag. ’08 FANNULLONI, RISCHIANO IL POSTO ANCHE I MEDICI COMPIACENTI Stipendi online, è caos. Volano le retribuzioni statali LUISA GRION ROMA - Il piano industriale che, nelle intenzioni del ministro Renato Brunetta dovrà a rivoluzionare la pubblica amministrazione, sarà consegnato questo pomeriggio ai sindacati e alle parti sociali. Si tratta come annunciato dal ministro stesso di un mix di «bastone e carota», punizione e licenziamenti per i «fannulloni», premi e incentivi legati al merito per dipendenti pubblici che raggiungono gli standard di produttività. Salari differenziati, dunque, e più poteri ai dirigenti cui sarà fornito l'elenco degli obiettivi da raggiungere. La formula scelta è quella di una legge delega che, da qui alla fine dell'anno sarà riempita di contenuti attraverso una serie di decreti legislativi, ma secondo una prima bozza anticipata da Italia Oggi, due sarebbero le principali novità introdotte: la prima riguarda la licenziabilità dei medici «complici», la seconda la possibilità per lo Stato di non riassumere il dipendente licenziato pur se definitivamente assolto dai gradi di giudizio. Per quanto riguarda la sanità «complice», nel mirino finirebbero i medici pubblici che firmano certificati di malattia falsi: se accertato che lo statale stava bene, a perdere il posto saranno in due, lui stesso e il suo medico. Un'impostazione che, se confermata, solleverà la protesta della categoria: «Non fate violenza ai nostri compiti - dice Amedeo Bianco della Fnomceo (la federazione degli ordini dei medici) noi dobbiamo pensare alla salute e al benessere del paziente». La seconda novità prevede invece che una volta licenziato, anche se il dipendente pubblico è reintegrato dal giudice, non vi sia l'obbligo per la pubblica amministrazione di riassumerlo: potrà decidere di liquidarlo riconoscendogli un risarcimento del danno. L'idea del ministro resta quella di introdurre, attraverso controlli e valutazioni, il concetto di «mercato» nel settore pubblico. Le differenze fra pubblico e privato sono legate, secondo Brunetta, alla mancanza di regole. A proposito di divergenze una la segnala l'Istat: le buste paga del pubblico impiego, nell'ultimo anno, sono riuscite a recuperare l'inflazione meglio di quelle di molti settori del privato. Il costo della vita, ad aprile 2008 rispetto all'aprile 2007 è aumentato del 3,3 per cento; le media delle retribuzioni ha recuperato il 2,8; gli statali(nella media) il 3,3 con punte del 6,2 per i ministeriali. Ciò nonostante siano molti i contratti ancora da rinnovare. Quanto a salari e alla operazione trasparenza - avviate sia dall'Agenzia delle Entrate sui redditi degli italiani del 2005, che dallo stesso Brunetta su quelli dei suoi dirigenti - impazzano invidie e confronti. Lo segnala una ricerca condotta da Gidp, l'associazione dei direttori di risorse umane: il 68 per cento degli intervistati, infatti, non si sente di escludere a priori che i dipendenti chiedano aumenti per raggiungere i redditi più alti riconosciuti ai colleghi. E se un 20 per cento nega che possa venire a crearsi una simile situazione, quasi il 9 dei direttori interpellati afferma di essere sicuro, a poco più di tre settimane dalla pubblicazione dei dati, che presto taluni colleghi chiederanno a chi di dovere una revisione delle proprie retribuzioni. I punti QUALITÀ Gli standard da raggiungere saranno di livello internazionale MALATTIA Licenziato il medico che certifica la falsa malattia dello statale LICENZIAMENTO La p.a potrà non riassumere lo statale reintegrato dal giudice RISPARMI Parte dei risparmi realizzati saranno ridistribuiti ai dipendenti 57,2 PREZZI CASE Crisi immobili Usa: a marzo i prezzi sono scesi del 14,4% rispetto ad un anno fa con le vendite si sono ridotte del 42% -14% CONSUMATORI Crolla oltre le attese la fiducia dei consumatori in Germania e negli Stati Uniti. Il valore Usa, 57,2, è il più basso dal '92 50% DIESEL La domanda gasolio salirà del 50%. L'Up stima una quota di mercato del 58% nel 2010 dal 42% del 2000. __________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 mag. ’08 IN CORSIA DUE MESI DI ASSENZA Pubblico impiego I DIPENDENTI DELLA SANITÀ Per soli permessi retribuiti e ferie a casa 45 giorni all'anno L'OBIETTIVO Nel provvedimento in arrivo un'azione decisa per contrastare gli abusi e per colpire i «fannulloni» LA DIFESA Nessun danno se si rispettano le norme, come nel caso dei congedi parentali e per necessità di formazione ART001 Paolo Del Bufalo Nel Servizio sanitario nazionale ogni dipendente manca in media dal lavoro circa 60 giorni in un anno. Ma gli assenti ingiustificati, insieme a chi lavora poco e male, hanno i giorni contati. Nei piani del ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, c'è il provvedimento "taglia-fannulloni" perché chi non va, sia allontanato senza appelli dalla pubblica amministrazione. Quello delle assenze è un argomento caldo per il Servizio sanitario nazionale che, anche per la numerosità dei suoi addetti (quasi 700mila), è al secondo posto dopo la Scuola per numero di giorni passati dai suoi dipendenti lontano dal lavoro: 41,5 milioni nel 2006, il 27% circa di tutte le assenze del pubblico impiego. Di queste, il 67% circa sono delle donne. E anche se la Scuola è al primo posto con 51,5 milioni circa di giornate, il Ssn è primo assoluto nelle assenze per invalidità, in quelle retribuite per maternità, congedi parentali, malattia dei figli ecc e in quelle definite "altri permessi e assenze retribuite" in cui rientrano, tra gli altri, i permessi sindacali, le giornate di studio e quelle di aggiornamento Le assenze dei dipendenti del Ssn (come di tutta la Pubblica amministrazione) le rileva ogni anno la Ragioneria generale dello Stato con il Conto annuale: secondo quello del 2006, l'ultimo pubblicato, in media ogni dipendente del Ssn ha fatto a vario titolo circa 60 giorni di assenza. La parte del leone, tra le assenze retribuite, la fanno le ferie che da sole assorbono oltre la metà delle assenze complessive, con quasi 22 milioni di giornate, seguite dalle assenze per malattia che si fermano a 8,5 milioni di giornate di assenza. Ed è sulle assenze per malattia che si concentra l'attenzione nei controlli: basta un certificato più o meno compiacente per restare lontani dal lavoro. E per malattia nelle strutture sanitarie pubbliche fanno mediamente più giorni di assenza durante un anno gli operatori non dirigenti (13,61), seguiti dal cosiddetto "altro personale" (direttori generali e contrattisti: 11,12), poi i dirigenti non medici (9,02) e infine i medici (7,34). A livello regionale, invece, il record è del Lazio con 16,8 giornate medie per dipendente, seguito da Calabria (16,1), Puglia (15,7), Sardegna (15,2) e Abruzzo (14,7). Al contrario chi ne fa meno sono i dipendenti di Bolzano (6,9) e quelli di Valle d'Aosta (9,1), Trento (9,2), Veneto (9,6) e Lombardia (9,9). La media italiana è di 12,4 giornate di assenza per malattia l'anno per dipendente. «Nel valutare le assenze bisogna ragionare anche in altri termini - spiega Carlo Lusenti, segretario nazionale dell'Anaao, il maggiore sindacato dei medici ospedalieri -: se un medico sceglie di andare a perfezionare la sua professionalità all'estero per un anno, i primi mesi gli sono retribuiti, poi paga di tasca sua: è un investimento in professionalità. Se una dipendente in maternità decide di dedicare più tempo alla famiglia e prolunga il permesso con quello non retribuito, fa una scelta trasparente. Ma ottiene lo stesso effetto chi presenta un certificato di depressione post partum, difficilmente dimostrabile dal punto di vista clinico, e resta a casa incassando tutto il suo stipendio». Nel complesso a livello regionale il maggior numero di giornate di assenza medie per unità di personale si registra a Bolzano con 74,7 giorni, segno anche di un certo rigore nei controlli, evidentemente non così efficaci in altre realtà. Al contrario chi ne fa meno sono gli operatori della Campania (48,3), del Molise (53,1) e della Calabria (53). Il fatto di avere una media bassa di assenze complessive però, spiegano i sindacati, non significa necessariamente non farne, ma spesso semplicemente che non vengono rilevate con l'accuratezza necessaria dalle strutture. Mancanza di efficienza quindi. E dai dati rilevati dalla Funzione pubblica i controlli scarseggiano in circa il 64% delle aziende sanitarie. Pochissime invece le giornate di assenze per sciopero che nel Ssn si fermano a 30mila circa contro, ad esempio, le oltre 650mila della Scuola. A livello di aree professionali, il maggior numero medio di assenze retribuite per operatore spetta al personale non dirigente del comparto sanitario (58,8), che al contrario registra il minore numero di giornate di assenze non retribuite (3,1). Il maggior numero medio annuo di giornate di assenze non retribuite tocca invece ai dirigenti non medici (5), mentre le maggiori assenze per sciopero sono dei medici che con 0,08 giornate medie annue ne collezionano "il doppio" delle 0,04 sia del personale non dirigente che dei dirigenti non medici. La radiografia I NUMERI LE ASSENZE MEDIE TOTALI DEL 2006 60,6 È la media complessiva dei giorni di assenza a qualunque titolo (incluse, quindi, ferie, permessi, malattie, scioperi eccetera) dei dipendenti del Servizio sanitario nazionale nel 2006. Nelle sole Asl la media è stata di 64,67 giorni. Tra le Regioni, Lazio e Provincia di Bolzano si collocano al top, con oltre 70 giorni di assenza LE ASSENZE MEDIE PER MALATTIA 12,4 Sono i giorni medi complessivi delle assenze per malattia dei dipendenti del Servizio sanitario nazionale. Nelle sole Asl la media per il 2006, è stata pari a 13,16 giorni. Nelle Regioni, i dipendenti più cagionevoli sono quelli di Lazio, Calabria e Puglia che registrano rispettivamente 16,8, 16,1 e 15,7 giorni di assenza L'ESERCITO DEI DIPENDENTI 684mila È il numero complessivo dei dipendenti del Servizio sanitario nazionale. Le donne sono oltre 420mila e rappresentano il 61,5% dei dipendenti della Sanità. Tra le Regioni è la Lombardia a contare la maggior concentrazione di addetti: i dipendenti sono oltre 100mila __________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 mag. ’08 DAL 2005 IN ASL E OSPEDALI QUASI 90 LICENZIAMENTI Marco Bellinazzo Più di due mesi all'anno. Per l'esattezza 64 giorni tra ferie, permessi, malattie, congedi parentali, aspettative e festività varie. Il tasso medio di assenza dei dipendenti delle aziende sanitarie e ospedaliere nel 2006 ha quasi "doppiato" quello che viene considerato, per prassi, il livello fisiologico di riposo (30- 35 giorni) e superato anche il valore di 60,6 giorni indicato nel Conto annuale della Ragioneria (si veda l'articolo a fianco). Sintomo del malessere che attraversa un settore, in cui sempre più spesso ad oasi di eccellenza e di efficienza si affiancano aree in cui sembra prevalere uno "scarso" attaccamento al lavoro. Non è un caso, del resto - come certificato dall'indagine del l'Ispettorato per la funzione pubblica commissionata nel dicembre 2007 dall'ex ministro per le Riforme nella Pa, Luigi Nicolais - che il 50% dei licenziamenti effettuati nella Pubblica amministrazione tra il 2005 e il 2006 abbia avuto luogo proprio nelle aziende sanitarie. Nel 2006 sono stati espulsi da Asl e aziende ospedaliere, prevalentemente per episodi di assenteismo, 42 persone. In alcuni casi stabilendo veri primati: 193 giorni di assenza ingiustificata sono costate il posto a un dipendente dell'Ospedale San Paolo di Milano, per esempio; mentre un dipendente dell'azienda Ospedali civili di Brescia è arrivato ad accumulare sei mesi di vacanza indebita; il licenziamento è scattato anche per un operatore dell'azienda ospedaliera Alessandro Manzoni di Lecco che aveva marcato visita per 160 giorni; e a "soli" cinque mesi di assenza ingiustificata sono giunti, prima di essere sanzionati, altri quattro dipendenti (assunti presso la Asl di Avezzano-Sulmona, la Asl Parma, la Asl 2 Savonese di Savona e la Asl Napoli 5 di Castellamare di Stabia). Il rapporto dell'Ispettorato per la funzione pubblica diretto da Andrea Morichetti è dalla scorsa settimana, insieme ad altri analoghi dossier relativi a diversi comparti della Pa, sulla scrivania del neoministro Renato Brunetta. I fenomeni portati alla luce (anticipati dal Sole-24 Ore del 27 febbraio 2008) potranno indirizzare gli interventi di Brunetta, il quale ha già annunciato di voler fare della battaglia per snidare i fannulloni uno degli assi portanti del suo mandato. L'inchiesta dell'Ispettorato, in particolare, si è focalizzata sulla voce «malattia», considerata come un indice molto significativo dell'esistenza di possibili sacche di assenteismo (quando, ovviamente non corrisponda a un reale stato di precaria salute dei dipendenti). La media dei giorni di assenza per malattia all'interno di Asl e aziende ospedaliere è risultata di 13 giorni. Apparendo, quindi, contenuta, secondo il rapporto. Tuttavia, si passa da strutture virtuose, in cui i dipendenti si ammalano mediamente meno di una settimana all'anno (appena quattro giorni presso l'Asl 13 di Novara), ad altre meno "salubri" (si veda le tabelle in alto), in cui il periodo trascorso lontano dal lavoro a causa di problemi di salute sale a più di tre settimane (con il record dei 131.448 giorni di assenza per malattia totalizzati dai 5.085 dipendenti dell'azienda ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma). Le aziende sanitarie stanno cercando di rimediare a queste situazioni, così come ad altre forme di negligente o irregolare svolgimento del rapporto professionale (dal doppio impiego alla falsificazione degli orari di presenza). Nel 2006 sono stati avviati 1.513 procedimenti disciplinari e 1.017 si sono conclusi con una sanzione (718 al Nord, 172 al Centro, 83 al Sud e 44 nelle Isole). Sono stati irrogati in 474 casi rimproveri e censure (nel 2005 erano stati 418), le sospensioni dal servizio sono state 282, mentre la sanzione più grave del licenziamento è stata disposta 42 volte (rispetto alle 37 del 2005). __________________________________________________________ L’Unione Sarda 27 mag. ’08 SANITÀ, ALLARME ASSENTEISMO NELL'ISOLA La Sardegna tra le regioni d'Italia con più giorni di malattia Per la Ragioneria generale dello Stato, i dipendenti della sanità sarda sono tra i più assenteisti. Fuori dal podio, per fortuna. Nella classifica delle regioni più assenteiste in fatto di sanità, la Sardegna è al quarto posto. Solo nel Lazio, in Calabria e in Puglia i giorni di malattia sono di più. Ma il fatto che ci sia chi fa peggio non consola: i dati della Ragioneria dello Stato, resi pubblici ieri dal Sole 24 Ore, chiamano pesantemente in causa i dipendenti isolani del servizio sanitario nazionale. E li etichettano tra quelli dal certificato medico facile. I sardi non sono tra quelli che fanno più assenze totali, comprese ferie, scioperi e permessi. Ma se si guardano le sole malattie, ogni dipendente manca in media per 15,2 giorni all'anno. Il dato nazionale è 12,4, in una graduatoria che sembra (con qualche approssimazione) lo stivale a rovescio: dal Sud più assenteista si passa al Centro, mentre il Nord occupa in blocco i sette posti dei più virtuosi. LE ASL Va detto che il mondo della sanità sarda non sembra sorpreso. Se l'assessore regionale alla Sanità Nerina Dirindin conferma che «il livello di produttività del settore è una preoccupazione», i direttori generali delle due Asl principali (Cagliari e Sassari) si confrontano da tempo con l'assenteismo. «Io ho trovato numeri molto negativi», ammette Gino Gumirato, manager dell'Asl 8: «Credo che sia un problema culturale, non vedo ragioni oggettive. Qui, come in molte altre regioni, più d'uno pensa che la pubblica amministrazione funzioni così: se uno vuole, si mette in malattia». A Cagliari c'era anche il 20 per cento degli infermieri che non faceva i turni di notte, con un'ampia gamma di ragioni di esenzione: «Siamo intervenuti con forza - spiega Gumirato - ma abbiamo anche raddoppiato le indennità per i turni». Ora le cose vanno meglio. E l'assenteismo puro «si è ridotto del 6-9 per cento». A Sassari ha dato buoni frutti il sistema informatizzato di controllo delle presenze, avviato due anni fa. E anche un accordo sindacale che ha creato «un meccanismo incentivante», come lo definisce l'attuale direttore generale Giovanni Mele, che premia chi fa meno assenze. «Non c'è assenteismo esasperato», precisa il manager, «ma molti certificati per patologie psichiatriche. Pesa lo stress da front office , di chi gestisce servizi al pubblico». Lo conferma Paolo Carossino, segretario regionale della Fimmg (il sindacato dei medici di famiglia: quelli accusati di fare certificati troppo allegri): «Forse qualcuno di noi deve farsi un esame di coscienza, ma io credo che il disagio che c'è nella sanità sarda porti a questa e altre storture. Se i reparti non funzionano, c'è mobbing, il personale viene utilizzato male, capitano queste cose». In ogni caso il medico di famiglia, dice Carossino, «non ha un reale potere per smascherare chi mente dicendo di avere uno stato d'ansia o un mal di testa cronico». I SINDACATI «I nostri dati parlano di un assenteismo molto basso tra i dirigenti medici», dice invece Marcello Angius, leader dell'Anaao, principale sindacato della categoria. «Quelle statistiche non dicono che spesso si va oltre l'orario previsto, magari dopo la guardia notturna si passa all'ambulatorio. Senza neppure le undici ore di riposo consecutivo previste dalle norme». «Spesso, in Sardegna, non si riesce a fare ferie e riposi per carenza di organici», aggiunge Giovanni Pinna (Cgil-Funzione pubblica). Poi magari «quando una donna aspetta un figlio, gli stessi dirigenti suggeriscono la maternità a rischio: perché dovrebbero spostarla a mansioni meno dure, ma non sanno come fare». A chi critica gli accordi per limitare le assenze (perché di fatto premiano chi va al lavoro regolarmente: cosa in teoria già compensata dallo stipendio), Pinna risponde che «in certi reparti, la sanità è un lavoro molto stressante. È giusto incentivare chi non cerca di andare verso mansioni più comode». GIUSEPPE MELONI _____________________________________________________________ Repubblica 30 Mag. ‘08 DONNE E MATEMATICA, QUESTIONE DI POTERE Dove c'è piú emancipazione sono abili come gli uomini. Italia fanalino di coda ROBERTO MANIA ROMA- Non c'è alcuna predisposizione genetica dei maschi ad avere successo in matematica. Piuttosto è una questione di potere o di mancata emancipazione delle donne, in termini politici, sociali e culturali. Così chi ha più potere, più è bravo a fare di conto. O meglio: dove le donne sono meno considerate nella società la distanza tra i due sessi sulle materie scientifiche si allarga. E infatti mentre in Islanda il gap si è ribaltato a favore delle donne, e Svezia, Norvegia e Finlandia lo stanno per azzerare; l'Italia è in fondo alla classifica, al pari di Giappone e Grecia, e solo poco sopra la Corea e la Turchia. Lo hanno studiato quattro economisti italiani, Luigi Guiso dell'Università europea di Firenze, Ferdinando Ponte, dell'Università di Chicago, Paola Sapienza dell'Università del Northwestern e, infine, Luigi Zingales della School of Business di Chicago. La ricerca è stata pubblicata sull'ultimo numero della prestigiosa rivista americana Science, ed è anche una risposta alla clamorosa tesi di Lawrence Summers, l'ex ministro del Tesoro di Bill Clinton, che ne12005, quando da rettore di Harvard, sostenne, in un convegno a porte chiuse a Boston, che le donne sono biologicamente svantaggiate nel campo scientifico. Summers fu travolto dalle critiche, provenienti non solo del mondo femminista, e l'anno dopo costretto a lasciare Harvard. Dunque anziché il Dna bisogna indagare sulle regole sociali. Ma i quattro economisti non si sono sostituiti ai politologi o ai sociologi. Per questo hanno guardato innanzitutto alle performance. Questo è il loro campo di indagine: capire come funzionano i sistemi economici, individuarne i limiti o punti di forza. E allora, perché oltre metà della forza lavoro (cioè le donne) non ottiene risultati positivi sul terreno delle materie scientifiche? Come mai alla School of Science del mitico Mit, la quota di scienziati femmine è solo dell'8 per cento? E ancora: perché al dipartimento di Fisica della stessa scuola su 95 membri sol0 5 sono donne? E al dipartimento delle Scienze cognitive e del cervello sono donne 11 su41? Da queste domande è cominciata la ricerca. Per avvicinarsi alla risposta il primo step dei quattro economisti è stato quello di analizzare l'indice Pisa, che sta per Programme for international student assessment. E' un'indagine periodica trai30paesi dell'Ocse e un gruppo di altri 11 che ha come obiettivo quello di valutare la capacità cognitiva degli studenti quindicenni in matematica e nelle materie letterarie. In genere nella prima primeggiano i maschi e nelle seconde le femmine. L'Italia si colloca in entrambe le classifiche agli ultimi posti. E va molto male nella graduatoria che registra il gap tra maschi e femmine in matematica: siamo Al36° posto su 40 paesi. I quattro economisti hanno poi messo in correlazione il gap tra maschi e femmine nelle materie scientifiche con un altro indice, utilizzato anche dal World economic Forum, che segnala il livello di emancipazione delle donne. E' il «Gender gap index» (Ggi) che tiene conto di diverse variabili: dalla partecipazione delle donne al mercato del lavoro, alla loro presenza in politica e nei luoghi di comando, e così via. Alla fine è emerso che dove l'indice di emancipazione è più basso è anche più marcata la distanza tra maschi e femmine sulle materie scientifiche e viceversa. Conclusione: sono i fattori culturali che portano le femmine ad essere meno brillanti in matematica, non la composizione dei loro geni. E poi se il gentil sesso migliora in matematica, crescono anche le performance maschili in letteratura. Come dimostrano i casi di alcuni Stati degli Stati Uniti. Insomma più donne al potere, più maschi bravi in letteratura. E – certo - più donne scienziate. Donne ematematica,questione dipotere n~~~Pnro~ma„~~tm„Pro„„.. _____________________________________________________________ Repubblica 30 Mag. ‘08 IL NUOVO CERVELLO DEL COMPUTER, SEMPRE PIÙ SIMILE A QUELLO UMANO I computer del futuro saranno più simili al cervello umano, grazie a una memoria, il memristore, che si comporta in modo analogo ai nostri neuroni nell'immagazzinare dati. Ideato nei laboratori della Hewlett Packard (e raccontato su Nature) il memristore è in grado di apprendere dall'esperienza e di creare, anche in autonomia, percorsi e associazioni complesse tra i dati. Erano più di trent'anni che gli scienziati di ogni parte del mondo stavano lavorando a quello che viene considerato l'anello mancante dell'elettronica (si affianca ai classici condensatore, resistenza e induttore), da quando cioè per la prima volta, nel 1971, il memristore venne ipotizzato da Leon Chua, dell'Università di Berkeley. Ad oggi c'è un prototipo di nanocavi di platino e uno strato di titanio, che costituisce una memoria in grado di conservare i dati anche quando non è alimentata da corrente elettrica (le memorie degli attuali computer sono invece volatili). Un vantaggio che ne deriva è che non si dovrà più perdere tempo ad avviare il pc basterà accendere per avere tutto come è stato lasciato il giorno prima. (alessandro longo) ___________________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 31-05-2008 IL MISTERO DELLA SINDONE NON SI MISURA COL CARBONIO di GIORGIO DE RIENZO Sulla Repubblica, con gran rilievo, si annuncia una nuova ostensione della Sindone di Torino, per altro già promessa dalla Stampa da quasi un mese. Secondo l'articolista, a volerla più che il popolo dei fedeli «sarebbe la comunità scientifica» per proporre «nuovi esperimenti» sulla datazione del telo «di più agevole realizzazione nel corso di una Ostensione». Nell'inverno scorso i due giornali avevano anticipato, con intere pagine, le rivelazioni di uno degli scienziati di Oxford impegnati nel 1988 a eseguire l'esame del carbonio 14 che datava, nella delusione generale, il funebre lenzuolo tra il 1260 e il 1390. In un documentario della Bbc lo scienziato in questione avrebbe sconfessato i risultati di quegli esami. Chi ha visto il documentario, lanciato in un clima d'avvento da Porta a porta e passato poi in prima serata qualche mese fa, ha potuto constatare come non ci fosse nessuna smentita, ma solo un abile montaggio giornalistico di supposizioni, che Vespa dava per certe sprizzando pia gioia nel proprio sguardo illuminato, quasi volesse comunicare entusiasmo ai cauti ospiti in abito talare. La Chiesa non ha mai affermato ufficialmente che la Sindone sia una reliquia autentica (anzi in passato, per voce autorevole di due papi, l'ha dichiarata apertamente falsa), ma ha lasciato che esperti al suo servizio lo sostenessero e tentassero di dimostrarlo pateticamente, trovando sul telo ora tracce di polline palestinese, ora improbabili impronte di monetine d'epoca adatte a una precisa autentificazione cronologica. Obiezione da sprovveduto uomo della strada: la scienza forse potrebbe togliere qualche velo a un fitto mistero, ma non sarebbe mai in grado di dimostrare un miracolo. Sarebbe un ossimoro concettuale. __________________________________________________________ La Nuova Sardegna 30 mag. ’08 CARO MISTRETTA, LE TASSE SONO PAZZESCHE I collettivi della Sinistra antagonista: «Più soldi in cassa ma dove sono i servizi?» CAGLIARI. Centinaia di lettere, ciascuna firmata da uno studente, per dire al rettore che l’aumento delle tasse proprio non ci voleva, e che nonostante l’Università abbia ora quattro milioni in più i servizi lasciano ancora a desiderare. È la nuova forma di protesta scelta dai collettivi studenteschi della sinistra antagonista “Entula Arrubia”, che fa capo alla facoltà di Scienze Politiche, e “Stalingrado”, Giurisprudenza. I Collettivi ieri si sono riuniti in un’aula del Magistero per fare il punto della situazione e capire come muoversi davanti ai nuovi aumenti che proprio in questi giorni hanno mandato a farsi benedire la tranquillità di molte famiglie. ‹‹Questo perché oggi scade il termine per pagare il saldo delle tasse - dice Luigi Pisci del collettivo Entula Arrubia - Dobbiamo, in sostanza, pagare la parte che mancava compresi gli aumenti decisi a dicembre››. All’indomani della prima rata, scaduta a ottobre, e della seconda, a gennaio, ora per gli studenti è arrivata davvero la resa dei conti: calcolatrice alla mano ogni famiglia, con uno o più figli all’università, ha dovuto mettere mano al portafoglio per pagare, in base al proprio reddito, quel che ancora rimaneva, da integrare però in base a quanto previsto dal nuovo regolamento tasse. Che per le prime due fasce di reddito ha lasciato le cose inalterate, mentre per i redditi dai trenta mila euro in su ha fatto scattare aumenti anche del venti per cento, arrivando al trenta per cento e più per gli studenti iscritti al secondo anno fuori corso e oltre. Un sistema che, avvertono dai collettivi studenteschi, non è stato abbastanza pubblicizzato tanto che per molti nuclei familiari è stata una sorpresa, una volta in banca, scoprire di dover spendere più del previsto. ‹‹Senza contare - va avanti il portavoce Luigi Pisci - che un reddito di trentamila euro, che magari per il servizio di ragioneria dell’Università è quello di una famiglia media, dove i genitori lavorano come impiegati, in realtà è davvero basso: oggi quei soldi non bastano più». Per capirlo basta confrontare gli stipendi con il costo della vita: ormai neppure una famiglia che prima avrebbe potuto vivere senza troppi pensieri economicamente è davvero tranquilla. E quel che è peggio, rincarano la dose gli studenti, è che i servizi aggiuntivi annunciati e causa dell’aumento delle tasse non si sono ancora visti. ‹‹Nella facoltà di Giurisprudenza - aggiunge Luigi Pisci- mancano, ad esempio, libri fondamentali per gli studenti››. A tutto questo si aggiunge la vertenza dei ricercatori precari, che secondo la Finanziaria 2008 dovrebbero essere stabilizzati, ma per i quali non si è ancora capito cosa riserva il futuro. Da qui la decisione della lettera di protesta da spedire al rettore Mistretta, in modo che abbia subito la misura reale del malcontento degli studenti. Sabrina Zedda _____________________________________________________________ Repubblica 31 Mag. ‘08 LE MULTINAZIONALI: IN ITALIA TROPPI BAMBOCCIONI Una giornata con le aziende a caccia di talenti. "Intraprendenza e inglese insufficienti " LUISA GRION ROMA - Non sanno l'inglese, hanno poche idee piuttosto confuse e scarsa capacità propositiva: sì, infondo i ragazzi italiani sono davvero un po' «bamboccioni». Le aziende internazionali che hanno a che fare con i nostri neolaureati danno ragione a Tommaso Padoa-Schiappa che quando utilizzò quel termine, qualche mese fa, scatenò risentimenti e polemiche in più di una generazione. Ma a sentire chi gira le università a caccia di nuovi talenti l'analisi dell'allora ministro dell'Economia non era del tutto sbagliata. Lo dicono molte delle 115 aziende che ieri, nel «career day», hanno invaso i cortili di una delle più importanti università private, la Luiss di Roma, per contattare possibili reclute. Cosa cercano e cosa trovano negli studenti italiani?Al di là delle specifiche esigenze ci sono richieste comuni: il neolaureato da «iniziare» non deve superare una certa età (spesso 25 anni, qualche volta 28) deve conoscere bene l'inglese, avere un buon voto di laurea (in genere non meno di 1001110), offrire disponibilità e dimostrare autonomia. La prima scrematura si fa su questi valori. Ma sui risultati, non ci siamo. L'inglese prima di tutto: «I neo laureati assicurano di averne una buona conoscenza, ma spesso non è così - commenta Pierfrancesco Matarazzo, responsabile Risorse Umane per Dexia Crediap. Stesso rilievo per Microsoft: «La lingua è un vero problema, a tutti i livelli: io scorso anno cercavamo 40 figure di alto profilo e non siamo riusciti ad assumere nemmeno un italiano, il livello tecnico in diversi casi era eccellente, ma l'inglese un disastro» dice E1s Van de Water, senior manager Risorse Umane della multinazionale. Ma non è sola questione di «fluent english» mancano anche idee e autonomia. Il modo di proporsi per esempio: «Invece di dirci loro cosa sanno fare o cosa vorrebbero fare ci chiedono: voi cosa offrite?» notano alla Microsoft. Quanto ad autonomia, nei curriculum scarseggia. «Valutiamo bene l’Erasmus, certo, ma ci piace molto anche sapere se i ragazzi cercano di cavarsela da soli, magari facendo i baristi o i camerieri,possibilmente all'estero,per mantenersi agli studi. Lo riteniamo un ottimo avvio alla «gestione clienti» -dice la Van de Water- ma se da noi ciò è quasi prassi (lei è belga ndr) qui no, o almeno non lo si ritiene un requisito importante da inserire nel curriculum, spesso farcito di titoli che non raccontano niente. Bamboccioni? Un po' sì». Altra questione: la disponibilità a qualche sacrificio. «Qualche anno fa ce n'era un po' di più - dice Carlo Berardelli socio delle revisioni alla Deloitte - anche per le retribuzioni: noi ai neoassunti offriamo 22mila euro lordi di partenza, ma investiamo talmente tanto sulla formazione che dopo cinque anni sei sul mercato. Non tutti lo capiscono e non tutti sono disposti a spostarsi, nemmeno fra Roma e Milano». E la preparazione com'è? Era decisamente migliore quando c' era il corso di laurea tradizionale. «Con il 3 più 2 di adesso si è perso in teoria e non si è guadagnato in pratica» è il commento generale. Ma è proprio così? «Nooo» è il coro dei ragazzi. Da Cristiana ad Andrea, da Viviana a Stefano tutti si dicono «disponibilissimi» sia a muoversi che a partire da zero. «Sono 1e aziende che se possono, negli stages, ci usano per fare fotocopie» accusano. Riassumendo, comunque, a tutti loro si può dare qualche consiglio: Erasmus, inglese e voglia di sporcarsi le mani. Tre mesi da cameriere a Londra possono valere più di molti altri titoli. ======================================================= _____________________________________________________________ L’Espresso 5 Giu ‘08 MALATI MOLTO IMMAGINARI La timidezza che diventa fobia sociale. La vivacità che diventa sindrome da iperattività. La caduta del desiderio che diventa nevrosi... F tutto per produrre nuove pillole e terapie. La denuncia di un guru Usa COLLOQUIO CON CHRISTOPHER LANE DI ENRICO PEDEMONTE FOTO DI JULIA FULLERTON- BATTEN C'è un'intesa tra psichiatri e case farmaceutiche. Per sfruttare l'anima Una volta si diceva: E’ timido e intelligente, e i due aggettivi erano affiancati per descrivere un bambino educato e sensibile. Ai tempi di mia madre», racconta Christopher Lane, professore di Letteratura alla Northwestern Universitv: La timidezza era considerata una forma di intensità tranquilla, di lodevole reticenza e capacità introspettiva. Poi le cose sono cambiare, e la timidezza si è trasformata in un problema. Come questo sia successo Lane lo racconta in un libro appena pubblicato: ("Shyness: How a Normal Beltauviour Beckame a Sickness": timidezza come un normale comportamento è diventato una malattia) che dimostra con una meticolosa analisi storica come gli interessi economici dell'industria dei farmaci e quelli di una categoria professionale (gli psichiatri) si siano saldati e siano riusciti a modificare in modo radicale la cultura collettiva e i comportamenti delle famiglie. Grazie anche a due alleati formidabili: il mondo del marketing e quello dei media. Lo abbiamo intervistato. Professor Lane, com'è successo che la timidezza è diventata una malattia? La storia comincia nel 1980, quando viene pubblicata la terza edizione del “Manuale dì diagnostica e statistica delle malattie mentali", la Bibbia degli psichiatri. Fu allora che vennero introdotte nuove malattie, per esempio la "fobia sociale" o il "disturbo evitante di personalità", che però furono definire in modo così generico da includere anche reazioni comuni come la timidezza. Come nacque questa scelta? Gli psichiatri responsabili del "Manuale di psichiatria" erano convinti che nelle vecchie edizioni le definizioni di alcuni comportamenti fossero imprecise, con troppi termini, tratti dalla psicologia e dalla psicoanalisi, che gli psichiatri americani non amavano. Soprattutto un termine freudiano come "nevrosi". Gli psichiatri americani wrlevano azzerare l’influenza culturale di Freud e della psicoanalisi per spingere la psichiatria verso la neuro- psichiatria. Eliminare la parola "nevrosi" era così importante? Cancellando il linguaggio delle nevrosi si mette l’enfasi sulla malattia, e sì sposta il focus dalla mente al cervello. In questo modo le sofferenze vengono descritte più come effetto di squilibri chimici nel cervello che di conflitti psicologici o stress ambientali nella niente delle persone. E le pillole prendono il posto delle terapie legate alla parola. Che ruolo ha avuto l'industria farmaceutica? — C’è un legame stretto tra aziende e psichiatri. Le prime sponsorizzano gli esperimenti clinici, i secondi sono spesso riluttanti a diffondere i risultati negativi per l'industria. Recentemente il New England Journal of medicine ha pubblicato uno studio che dimostra come le ricerche divulgate abbiano distorto o esagerato per 17 anni gli effetti di certe medicine. Sto parlando di molte pillole come la cosiddetta "ansia sociale" di cui parla Chrstopher Lane in queste pagine. Tutti esempi di "disease mongering", definito per la prima volta nel 1992 nel libro "Disease-mongers: How doctors, drug companies, and insurers are making you feel sick" (New York, Wiley & Sons). Ovvero: II tentativo di convincere persone sane di essere malate, e persone lievemente malate di essere molto gravi.. Da quel momento si sono moltiplicate le segnalazioni sulle riviste scientifiche e nel 2006 "PLoS" ha pubblicato un numero monografico, illustrando gli esempi più clamorosi. Eccoli. COLON IRRITABILE Secondo molti scienziati la sindrome del colon irritabile sarebbe un disturbo psicosomatico, eppure pochi giorni fa la Fda ha approvato il primo farmaco specifico. Si tratta di un lassativo chiamato amitiza approvato su dati scarsi e limitato, per ora, alle donne, che si aggiunge agli antidiarroici, antispastici, promotori della motilità, ansiolitici e antidepressivi già consigliati. DISFUNZIONI SESSUALI MASCHILI II caso del Viagra è emblematico delle forme più raffinate di disease mongering, perché l'impiego della molecola, inizialmente limitato a impotenza indotta da specifiche terapie o malattie, è stato (non in modo esplicito) via via allargato a soggetti del tutto normali, spesso giovani e ignari dei rischi che esso comporta. Oggi il Viagra è uno dei farmaci più venduti su Internet, e anche più contraffatti. Ed è considerato farmaco ricreativo. DISFUNZIONE SESSUALE FEMMINILE In dieci anni il fisiologico calo del desiderio legato all'età è diventato una patologia. In parallelo, però, diversi gruppi di consumatori hanno organizzato la resistenza, messa nero su bianco nel "Manifesto di New York", uscito nel 2000. GAMBE INQUIETE II disturbo comporta l'urgenza di muovere le gambe, e può danneggiare il sonno. Le terapie consigliate comprendono ansiolitici e calmanti. Poche settimane per combattere depressione e ansia». SONO FARMACI DANNOSI? La Glaxo Smith Kline, un'azienda britannica, ottenne l'approvazione dei Paxil (in Europa si chiama Servxat), nel 1996, per ogni tipo di "ansia sociale" (social anxiety disorder). Si tratta di un farmaco che ha parecchi effetti collaterali, crea dipendenza e può avere conseguenze gravi. E una situazione assurda, perché ci sono milioni dì persone che soffrono di ansie limitate e che prendono un farmaco con effetti collaterali gravi, inclusa l’ansia cronica». Colpa del marketing? «Il marketing ha giocato un ruolo importante. Quando gli psichiatri inserirono l'ansia sociale tra le patologie, aprirono le porte alle compagnie farmaceutiche che cominciarono a promuovere l'esistenza di questa nuova malattia e a incoraggiare la gente ad analizzare i propri comportamenti e le proprie emozioni per capire se ne soffrivano». Lei accusa gli psichiatri americani di avere medicalizzato problemi di routine come l'ansia di parlare in pubblico «Recentemente ho parlato con Robert Spitzer, che era il capo degli psichiatri che compilarono il "Manuale". Gli ho contestato che la definizione di ansia sociale ha causato un eccessivo consumo di farmaci, specie da parte dei bambini. Mi ha risposto di essere consapevole che c'è troppa gente trattata per questo disturba, anche quelli che sono affetti da semplice timidezza, ma che l'ansia sociale è un disturbo serio, e che gli psichiatri conoscono bene la differenza tra ansia sociale e semplice timidezza ». Lei cosa gli ha risposto? «Se si analizza la letteratura psichiatrica si capisce che la distinzione tra questi due disturbi è quasi impossibile da definire. Parecchi esperti sostengono che i sintomi dei due disturbi sono quasi identici. È disonesto dire che si possono distinguere. È disonesto non sottolineare i possibili effetti collaterali di certi farmaci utilizzati. A dicembre una bambina di quattro anni del Massachusetts è morta per overdose psichatrica. Le erano stati dati degli antipsicotici. L’ospedale ha avviato un'inchiesta e il primario psichiatra ha dovuto ammettere con qualche imbarazzo di avere sotto cura almeno 955 bambini che prendono lo stesso farmaco di cui è morta la bambina. Come siamo arrivati al punto in cui così tanti bambini prendono farmaci psichiatrici così seri per problemi che spesso sono normali comportamenti nella fase dello sviluppo: ». Ebbene? «Se si guarda con attenzione alla definizione di "ansia sociale" si scopre che i sintomi comprendono l'ansia di mangiare da soli al ristorante, il timore che ci tremi la mano quando firmiamo un assegno, o il desiderio di evitare i gabinetti pubblici. Cose normalissime. È successo qualcosa di assurdo ed estremo nella psichiatria americana. La fiducia in questi farmaci ha eclissato qualunque senso delle proporzioni». L’industria farmaceutica si sta inventando altre malattie? «Il prossimo "Manuale di psichiatria" dovrebbe essere pubblicato nel 2012. Ci sono pressioni per introdurre nell'elenco delle patologie da curare anche l'apatia, l'abuso di Internet, lo shopping eccessivo. Un'altra malattia possibile è "l'infelicità cronica indifferenziata" che si riferisce alle persone che appaiono generalmente tristi e melanconiche. C'è stato persino chi ha proposto "la malattia della lagnanza cronica" (Chronic Complaint Disorder) che riguarda chi passa il tempo a lamentarsi del tempo, delle tasse e della propria squadra che ha perso. Per fortuna questa proposta è stata respinta, ma già il fatto che sia stata discussa la dice lunga sul clima culturale esistente. Siamo alla farsa». Nel libro lei sostiene che la psicofarmacologia ha successo perché promette la perfezione, come la chirurgia plastica.. «L'enfasi sulla perfezione aumenta le sofferenze individuali perché le aspettative crescono ed è impossibile soddisfarle. È una tendenza che andrebbe fermata. Nel libro lei suggerisce che la fede nei farmaci nasce dal fatto che molti hanno elevato lo scientismo al rango di una religione. La scienza ci offre spiegazioni sempre più meccanicistiche di che cosa significa essere umani. Ci spinge a credere che se riusciamo a identificare un problema in modo scientifico si possa trovare una soluzione rapida sotto forma di un farmaco. li linguaggio stesso usato dai neuropsichiatri ci spinge a pensare che, se una persona ha uno squilibrio chimico nel cervello, questo possa essere corretto da una pillola. Si tratta di una fantasia che evita ogni discussione sugli effetti collaterali e sulle conseguenze impreviste in termini di alterazione della personalità. Ci viene fatto credere che il cervello è un meccanismo talmente semplice che può essere corretto in poco tempo con una pillola ogni volta che si incontra un problema. Questa cultura suggerisce che la neuropsichiatria possa evitare l'infelicità e la sofferenza. Molti neuropsichiatri mostrano un atteggiamento messianico quando parlano del loro lavoro, e quando spiegano come si può intervenire sullo sviluppo dei bambini per salvarli da sofferenze future». La Fda ha approvato il generico dei ropirinoio, indicato per i sintomi del Parkinson che, come pure gli altri prescritti per la sindrome delle gambe inquiete, può causare addormentamenti improvvisi anche durante il giorno. PREOSTEOPOROSI È l'ultima arrivata, secondo un recente articolo del "British Medical Journal". Da tempo vi sono pesanti dubbi sulla prevenzione dell'osteoporosi nelle donne che non ne presentano i segni, mai dimostratasi efficace. Ora il tentativo di spingere ulteriormente il limite, fino a medicalizzare la pre-osteoporosi con i farmaci già in commercio. Qualcosa di analogo, del resto, è in corso anche con la pre-ipertensione e il pre-diabete. DISTURBO DI IPERATTIVITÀ Lo strabiliante aumento di diagnosi di Adhd verificatosi in moltissimi paesi a partire dai primi anni Novanta è un esempio delle conseguenze di disease mongering. Milioni di bambini in tutto il mondo sono trattati con il metilfenindato (o ritalin), nonostante il rischio di suicidio e di danni a carico del cuore, e nonostante si pensi che i veri casi di Adhd siano solo un'esigua minoranza. Gli stessi rimedi sono stati proposti per il deficit dell'attenzione dell'adulto, VESCICA IPERATTIVA Anche in questo caso i progressi fatti nella cura dell'incontinenza urinaria, un disturbo reale, che affligge moltissimi anziani e che può essere un effetto collaterale di interventi e terapie, si sono via via trasformati nell'alibi per proporre la medicalizzazione della cosiddetta vescica iperattiva, sindrome caratterizzata dall'urgenza della minzione. Per la quale ci sono vari farmaci antitotinergici. _____________________________________________________________ Repubblica 28 Mag. ‘08 MENO FARMACI PIÙ UMANITÀ Meno farmaci, più umanità anche la medicina diventa "slow" Anche la medicina diventa slow Con l’ aumento della popolazione anziana, dall'Europa agli Stati Uniti cresce il numero degli "hospice" Luoghi dove al centro non c'è terapia, ma la qualità degli ultimi mesi di vita per anziani e malati terminali elle stanze dei pazienti noi entriamo in punta di piedi. Accompagnarli è il nostro mestiere, e per farlo abbandoniamo ogni fretta». Chi sente la parola "medicina" e pensa ai ritmi sincopati di E R. non è mai passato di qui. Fuori dai serial Tv, ci sono malati che non hanno bisogno di ambulanze a sirene spiegate, ma di una dose di quella "medicina della lentezza" che in un angolo della campagna bolognese sono specializzati nel somministrare. «Cerchiamo di cambiare la mentalità corrente. Prestiamo attenzione anche ai piccoli particolari. E ai nostri infermieri raccomandiamo di evitare ogni segno di agitazione» racconta la dottoressa Danila Valenti, direttrice dell'hospice Maria Chiantore Seragnali in un paese non a caso chiamato Bentivoglio. Sullo stampo dell'espressione slow food, anche in America da un paio d'anni è nato il movimento slow medicine. II tratto comune è l'attenzione alla qualità della vita, il rifiutare cibo e medicina intesi come spersonalizzante catena di montaggio. La differenza è che nelle corsie, a differenza dei tavoli con le posate, la "cura della lentezza" si applica solo a pazienti molto particolari: quelli per cui le terapie normali non servono più. Ma che hanno comunque bisogno di terapia del dolore e di strutture adeguate -dette hospice – per avvicinarsi alla morte con serenità. «Nella rete italiana ci sono dei buchi. Altri 80 hospice sarebbero necessari» ha ricordato domenica il sottosegretario alla salute Francesca Martini nella "Giornata nazionale del sollievo". «La morte è un affare troppo serio per lasciarlo ai medici» dice sorridendo Giovanni Zaninetta, direttore del primo hospice realizzato in Italia vent'anni fa, il Domus Salutis di Brescia. Questo medico anestesista, pioniere dell'assistenza ai malati terminali nel nostro paese, si riferisce alla dose di umanità in più che serve ad esercitare l'arte di Ippocrate negli unici casi in cui la prognosi è certa. Umanità che lentamente, con mezzi ancora limitati e discrepanze fra nord e sud, è iniziata a penetrare anche nel sistema sanitario nazionale. «Negli ultimi 5 anni sono aumentati sia i posti letto negli hospice che le risorse per l'assistenza domiciliare. Entro la fine de12009saranno completate nuove strutture, soprattutto al centronord. Al sud siamo ancora indietro» spiega Zaninetta. I primi finanziamenti pubblici significativi risalgono Al 1999, rimpolpati da una legge ad hoc del 2000. Allora in tutto il paese solo 5 ospedali si dedicavano all'accompagnamento dei malati nelle ultime fasi della vita. In tre anni, 206 milioni di euro sono stati spesi per insufflare vita in quella che poi sarebbe stata definita slow medicine. Alla fine del 2006 (data dell'ultimo censimento curato da Furio Zucco, ex presidente della Società italiana di cure palliative) si contavano 105 hospice e si stima che nel 2011 si arrivi a 243: un numero sufficiente a coprire le esigenze di un paese sempre più anziano. «La statistica ci parla di una quantità adeguata di posti letto. Ma di fronte a chi mangia due polli, c'è chi non ne ha nessuno o quasi: il centro-sud. Nel censimento del 2006 l'Italia a due colori emergeva distintamente: 46 centri di assistenza per la Lombardia, 4 per la Sicilia. E a Padova, dove stava per essere aperto il primo hospice per bambini, le stanze sono ancora vuote perché non si riescano a reclutare infermieri. «La casa è pronta dal 2005. A settembre del 2007 l'abbiamo inaugurata. Ma aspettiamo ancora di metterci in moto. Non troviamo il personale infermieristico: un lavoro simile fa paura a tutti» spiega la coordinatrice della struttura, Franca Benini. Rispetto a Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna - dove il sistema degli hospice è nato con lo scopo di sottrarre dolore e aggiungere serenità agli ultimi giorni - l'Italia ha effettivamente iniziato a colmare il divario delle risorse materiali. Ma c'è una differenza culturale che non cessa di sorprendere i medici. «Solo un malato su dieci è consapevole che la morte si sta avvicinando» ammette Zucco. «Nella maggior parte dei casi il rapporto fra medico e paziente rimane ambiguo. Il secondo preferisce non sapere. Il primo sta al gioco. Spesso la reticenza nasce da una richiesta dei parenti. Ma la relazione opaca non favorisce il dialogo in un momento in cui parlare sarebbe importante». In Emilia Romagna è stata svolta una ricerca su questo fenomeno. «Abbiamo chiesto - spiega Danila Valenti- ad alcuni pazienti terminali quali fossero le loro malattie e prognosi. Solo il12% si rendeva conto che da vivere non gli sarebbe rimasto molto. Nel resto del mondo, ci confermano i dati, il rapporto con la propria morte è molto più diretto». Negano i pazienti, ma a volte negano anche i camici bianchi. «Nessun medico accetta l'idea che i suoi sfarzi stiano diventando inutili. Il senso del limite non fa parte del nostro bagaglio culturale» ammette Zucco. «InEmiliaRomagnail22%deimalati oncologici- conferma la Valenti - è stato sottoposto a chemioterapia nell'ultima mese divita. Ha subito cioè un trattamento che non ha molto senso terapeutico, peggiora la qualità della vita e lambisce l'accanimento. Nelle fasi finali di una vita accade che i familiari non vogliano perdere la speranza e i medici cerchino di sopperire alla loro impotenza operando, intubando, somministrando». Non tra le cannule, ma vestita da sposa nell'hospice di Bentivoglio ha vissuto il suo ultimo giorno la signora Luce. «Era bellissima, aveva appena partorito e ha chiesta di potersi sposare da noi» racconta la Valenti, che ora ha un'altra mamma nel suo hospice. «Fa il bagno tutti i giorni in piscina stringendo il suo bimbo di sei mesi. E io, come medico, penso semplicemente che non ci sia un modo diverso da questo». _____________________________________________________________ Il Giornale 29 Mag. ‘08 NON UCCIDE SOLO L’AIDS Ecco perché Richard Darling, sopravvissuto a un male dopo l'altro, ha deciso di battersi per riequilibrare ì fondi per la ricerca in America E sopravvissuto all’epatite C , al diabete, alla cirrosi e al cancro al fegato. È caduto in coma, ha avuto un infarto, ha sofferto di sindrome epatorenale, ha la distrofia muscolare e, per riparare i danni ripetuti al suo fegato, ha dovuto sottoporsi per tre volte a trapianto. Di sicuro c'è che Richard Darling, 62enne dentista californiano ormai in pensione, non ha una salute di ferro. Aver subito questo calvario è però servito a lui, un medico, per capire quali siano i meccanismi del sistema _ sanitario statunitense e soprattutto quali logiche e interessi orientino la ricerca medica e scientifica tanto in America quanto all'estero. Dalla sua esperienza il dottor Darling ha tratto un libro, significativamente intitolato Coma Life, e l'ispirazione per dar vita a un'organizzazione, la Fair Foundation, che ha come obiettivo l'attività di lobbying per ridistribuire i fondi perla ricerca negli Stati Uniti. «Nove anni fa- racconta Darling a Tempi- cominciai ad accorgermi sulla mia pelle dello squilibrio che, nel mio paese, esisteva e tuttora esiste nel campo della ricerca scientifica e del favoritismo di cui godeva, grazie a campagne di sicuro impatto mediatico, la lotta all’Aids. Sia chiaro: l’Hiv è un flagello per il quale non è ancora stata individuata una cura valida, e che a questo scopo siano stanziati fondi pubblici e privati è un bene. Definirlo però una priorità per la sanità americana è un controsenso al quale nemmeno l’amministrazione Bush si è sottratta, dimostrandosi succube culturalmente delle campagne mediatiche liberal a base di nastrini rossi sui baveri delle giacche durante la notte degli Oscar. l’Aids è senza dubbio una priorità per l'Africa, ma di certo non lo è per i paesi occidentali, dove l'indice di contagio e la mortalità dei sieropositivi è tutto sommato bassa». Ed è bassa soprattutto se si confronta con i dati relativi ai decessi dovuti ad altre patologie. Restando in America, i numeri dicono molto: nel 1998, uno degli anni peggiori per le morti d a Hiv oltreoceano (la tendenza dell'ultimo decennio è di una progressiva riduzione delle morti), sono stati 16 mila i decessi causati dalla "peste del nuovo millennio". Nel corso dello stesso anno morivano più di 20 mila persone a causa della leucemia, 42 mila di cancro al seno, 62 mila per colpa del diabete, 168 mila di tumore ai polmoni e 725 mila per scompensi cardiaci di varia natura. «È un bollettino di guerra nel quale l’Aids, per quanto terribile, ha una piccolissima parte», sottolinea il dottor Darling. Eppure, confrontando i tassi di mortalità delle patologie più diffuse negli Stati Uniti con l'ammontare di finanziamenti pubblici concessi per studiarne e prevenirne le cause, si scopre una realtà rovesciata: «La fetta più grossa dei soldi per la ricerca - commenta il presidente della Pair Foundation- spetta da molti anni ormai alla ricerca contro l’Aids. Il National Institute of Health spende ogni anno oltre 2.400 dollari per ciascun paziente affetto da Hiv in America, contro i 28 per ogni diabetico. Eppure la percentuale di morti per diabete è cinque o sei volte superiore». Mai visto un vip contro la polmonite Che la tendenza non si sia invertita nemmeno negli anni dei repubblicani alla Casa Bianca è un dato di fatto. A scorrere i dati relativi Al2007-2008, che la stessa Fair Foundation diffonde sul proprio sito web, si scopre che alla ricerca e alla prevenzione dell'Hiv-Aids sono stati devoluti circa due miliardi e mezzo di dollari in un solo anno e che la cifra è pressoché uguale, con piccoli aggiustamenti al rialzo ogni dodici mesi, da almeno un decennio. Allo stesso tempo, la ricerca scientifica con cellule staminali ha ricevuto nel complesso, nello stesso lasso di tempo, circa 639 milioni di dollari. Quattro volte meno. II governo federale degli Stati Uniti ha stanziato pure 49 milioni per lo studio e la cura della setticemia, che parrebbe una patologia minore. Però fa 22 mila morti fanno, il doppio del1 Aids. Stesso discorso per la polmonite, cui vengono destinati appena 143 milioni di dollari. Ma una campagna pubblicitaria a base di star hollywoodiane contro la polmonite non l'ha mai fatta nessuno. Eppure sono quasi 90 mila gli statunitensi che ogni anno non riescono a sopravviverle. Secondo il medico americano il problema è, innanzitutto, politico: «Me ne accorsi nel 1999 quando già avevo affrontato i miei primi problemi di salute. Vidi in tv un documentario realizzato per la Abc da un reporter coraggioso, John Stossel. Il titolo da solo bastava a spiegare molte cose: DiseasePolitics, la politica delle malattie. Citando i dati dell’American Diabetes Association, il giornalista raccontava del paradosso americano perquanto riguarda la ricerca medica. Un paradosso che, data l'influenza statunitense sulla cultura occidentale, si ripete tale e quale in molti altri paesi. È un'anomalia che ha una spiegazione molto semplice, quella political correctness che fa sì che siano più ingenti i fondi stanziati da Washington per la lotta al cambiamento climatico di quelli destinati alla cura di cancro, malattie cardiovascolari e diabete. Con una differenza sostanziale: il climate change è ancora tutto da dimostrare, non ha ancora ucciso nessuno e probabilmente non lo farà mai. Di cancro, cuore e diabete muoiono ogni anno, soltanto in America, milioni di persone». Alan Patarga SLOW MEDICINE PER LEVARSI IL PESO La chiamano Slow Medicine ma non è l'ultima trovata di Carlin Petrini, ideatore di slow food. È una medicina lenta che, agli occhi dei critici, pare tanto l'anticamera della "morte dolce", l'eutanasia. Eppure buona parte della stampa liberai americana ne parla come di una scoperta rivoluzionaria, di un uovo di Colombo della sanità che prima non c'era "e menomale che qualcuno c'ha pensato". È il caso del New York Times, che alla moda della slow medicine ha dedicato un ampio servizio lo scorso mese. L’inviata Jane Gross è andata a visitare una clinica di Hanover, in New Hampshire, «dove si pratica un approccio meno aggressivo - e meno costoso - per le cure terminali». Nella casa di cura per anziani della Dartmouth Medicai School, infatti, «è possibile, anzi è routine, che gli ospiti possano rifiutare il ricovero in ospedale, le analisi, le operazioni chirurgiche, le medicazioni o il nutrimento». Traduzione: gli anziani hanno piena facoltà di lasciarsi morire senza che un medico muova - per deontologia professionale - un solo dito. Così il signor Charley Gieg, 86 anni, sindrome di Alzheimer in peggioramento e un probabile tumore all'esofago, è stato convinto da un'infermiera a non dar retta allo specialista che gli aveva prospettato un non facile iter medico per tentare di salvarsi: biopsia, anestesia, intervento, raggi e chemioterapia «Non sono cose da decidere in fretta», è stato il primo commento dell'infermiera della casa di cura di Hanover. II signor Gìeg e sua moglie le hanno dato ascolto. Che il signor Gieg sia morto pochi mesi dopo non sembrava preoccupare (Inviata dei New York Times anzi. «I pazienti più costosi - spiegava la giornalista nel suo articolo - sono gli anziani con malattie croniche. Sono i soli a essere tutelati dal sistema sanitario universale e ciò comporta un notevole esborso di fondi pubblici. Un esborso che diverrebbe insostenibile se tutti i baby boomers, una volta invecchiati (e manca poco, ndr), scegliessero l'approccio medico aggressivo». Insomma, per risparmiare sulle spese mediche (e magari pure sulle pensioni), c'è un metodo infallibile: sbrigarsi a morire. [al.pat] ______________________________________________________________ il Sardegna 31-05-2008 CAGLIARI: TIROIDE ECCO IL GENE CHE REGOLA GLI ORMONI Sono finite le bizze della tiroide ecco il gene che regola gli ormoni Lo studio di un'equipe del Cnr di Cagliari è stato pubblicato sull'American Journal of Human Genetics La ricerca apre nuove prospettive per la cura di alcune importanti patologie endocrine Mai più bizze della tiroide. Parola del Cnr, una cui equipe dell'istituto di Cagliari ha identificato un gene che regola i livelli dell'ormone TSH (Thyroid stimulating hormone) e la funzionalità della ghiandola. È possibile che questo gene possa costituire un bersaglio per il trattamento di alcune patologie endocrine che colpiscono circa il 10% della popolazione mondiale. La ricerca, pubblicata sull'American Journal of Human Genetics, ha avuto per laboratorio naturale la popolazione dell’Ogliastra, area isolata per millenni che si conferma area ottimale di ricerche genetiche. Lo studio - che ha coinvolto 4.300 volontari ogliastrini partecipanti al progetto "ProgeNIA; coordinato dal professor Antonio Cao «nasce -ha spiegato lo scienziato – dalla proficua collaborazione tra numerose figure professionali, quali clinici, infermieri, biologi molecolari, informatici e statistici appartenenti a gruppi di ricerca italiani e stranieri». LA RICERCA ha portato all'identificazione di una forte associazione tra uno specifico polimorfismo del gene PDESB ed i livelli di TSH. «In particolare -ha precisato Silvia Naitza, ricercatrice dell'Istituto di Neurogenetica e Neurofarmacologia del Consiglio nazionale delle ricerche di Cagliari e responsabile della ricerca - la presenza dell’allele raro di questo SNP è associata a un aumento dei livelli di TSH nel sangue. Tali livelli sono indicatori sensibili della funzionalità della tiroide, ghiandola che controlla il metabolismo corporeo e la cui alterazione porta allo sviluppo di alcune comuni malattie endocrine che colpiscono circa il 10% della popolazione mondiale». Il TSH è infatti prodotto dall'ipofisi e controllala crescita della tiroide e la secrezione da parte di questa ghiandola dell'ormone tiroideo. Questi risultati sono stati confermati con analisi di due popolazioni geneticamente distanti da quella sarda: la popolazione fondatrice degli Amish della Pennsylvania e quella toscana dello studio "InCHIANTI", oltre che in un campione indipendente selezionato tra i volontari 'ProgeNIA', per un totale di 4.158 individui. «Sebbene siano necessarie ulteriori indagini - conclude Naitza - i risultati di questa ricerca suggeriscono che varianti comuni del gene PDE8B hanno un effetto primario sui livelli di AMP ciclico presenti nella tiroide, che a loro volta influenzano la produzione dell'ormone tiroideo ed il conseguente rilascio nella circolazione sanguigna di TSH da parte dell'ipofisi. Visto il ruolo di PDE8B nella regolazione dei livelli di TSH e nella funzionalità della tiroide, è possibile che questo gene possa costituire un bersaglio per il trattamento di alcune patologie tiroidee». __________________________________________________________ L’Espresso 30 mag. ’08 DOTTORE TI DENUNCIO Le cause per la malasanità raggiungono ormai quota 30 mila l'anno. Medici e ospedali spendono per assicurarsi oltre mezzo miliardo. Ma per i risarcimenti i malati devono aspettare decenni DI PAOLO BIONDANI La sanità italiana spende ogni anno più di 500 milioni di euro solo per assicurarsi contro il rischio di ferire o uccidere i pazienti. È una spesa fuori controllo che ha l'effetto di una tassa occulta sulla salute dei cittadini: almeno mille miliardi di vecchie lire che, a ogni scadenza di bilancio, si trasformano in costi ospedalieri finanziati dallo Stato, finendo così per gravare su tutti i contribuenti. A differenza dell'Irpef o dell'Ici, questa imposta segreta sulla malasanità continua a salire a ritmi vertiginosi - nell'ultimo decennio l'aumento medio è di oltre il 20 per cento ogni 12 mesi - seguendo dinamiche inarrestabili: l'esborso finale è sempre variabile e imprevedibile, perché corrisponde all'insieme dei risarcimenti liquidati in migliaia di vertenze individuali. Oggi si contano circa 30 mila denunce all'anno per vere o presunte colpe professionali di medici e infermieri o per disservizi delle strutture sanitarie. Sul numero di vittime, in Italia non esistono stime accurate, ma le cifre degli Stati Uniti sono impressionanti: 98 mila morti all'anno di malasanità. Ora anche nel nostro Paese il boom delle cause intentate dai pazienti o dai loro familiari, che hanno cominciato ad affollare i tribunali dalla metà degli anni Novanta, sta provocando un'esplosione delle spese assicurative. Ma il corrispondente aumento degli indennizzi è tanto forte e diffuso che gli esperti cominciano a temere quei fenomeni predatori che fino a ieri sembravano tipici del sistema privatistico americano: l'abuso della malasanità come nuova frontiera delle speculazioni organizzate e delle frodi. Di fatto anche in Italia i drammi professionali dei medici e le tragedie dei pazienti si consumano tra liti e processi interminabili, perizie e consulenze contraddittorie, sospetti di connivenze e corruzioni, in un clima generale di sospetto e diffidenza che avvelena la sanità e ostacola la giustizia. Roberto T. era un bambino di sei anni, sano e molto intelligente, quando è diventato vittima di un orrore ospedaliero che ha convinto i giudici di Milano a infliggere il più elevato risarcimento individuale documentabile negli ultimi vent'anni. Ricoverato all'ospedale Buzzi per una semplice operazione alle tonsille, il bimbo entra in coma e dopo tre giorni ne esce cieco, paralizzato e con un deficit mentale del 90 per cento. La causa civile intentata dai suoi disperati genitori ha fatto scuola, perché ha segnato uno spartiacque nella valutazione delle prove scientifiche in un caso che sembra riassumere tutto quello che non dovrebbe succedere in un paese civile. Per cominciare, i tempi. L'intervento chirurgico (tonsillectomia) risale al 16 marzo 1989, la sentenza di primo grado è del 21 febbraio 1997, quella d'appello del 6 novembre 2001, per cui le condanne diventano definitive nel 2002: giustizia è fatta, ma dopo 13 anni. Secondo problema. Come in tutti i processi sanitari, di fatto a decidere sono le perizie. Firmate da altri medici, cioè da colleghi degli imputati. Nelle motivazioni (finora inedite) si legge che il primo collegio di periti aveva escluso qualsiasi responsabilità dei medici del Buzzi. Senonché il giudice istruttore scopre gravi lacune nel referto, s'infuria e nomina un secondo collegio, che invece accerta «colpe evidenti» del primario e di altri tre dottori. In appello, l'inevitabile terza perizia riconferma l'accusa ai quattro medici di non essersi accorti neppure che il bambino sono i ferri aveva «una vistosa emorragia interna con perdita di mezzo litro di sangue», che gli ha bloccato la respirazione. Tutti i periti sono d'accordo solo nel condannare il Buzzi, l'ospedale dei neonati di Milano, che all'epoca «non aveva nemmeno una rianimazione». Nel frattempo ai baroni innocentisti, benché smentiti dalle altre due squadre di periti, non succede nulla: continuano a lavorare anche per i tribunali, perché la medicina non è una scienza matematica. Il risarcimento record (più di 5 miliardi di lire da sommare a 13 anni di interessi calcolati all'8,12 per cento) sfonda il massimale coperto dalle assicurazioni e quindi diventa un costo imprevisto per l'ospedale che, non avendo risorse illimitate, deve recuperare i soldi tagliando altre spese. Rimborsi superiori, per quanto è possibile documentare, sono stati pagati solo per tragedie collettive, come il rogo del 31 ottobre 1997 nella camera iperbarica dell'ospedale privato Galeazzi ( 11 morti e, per la prima volta in Italia, un primario che sconta davvero in carcere la condanna a quattro anni) o il disastro nazionale delle migliaia di trasfusioni infette. L'avvocato Rosario Alberghina oggi ricorda soprattutto «quanto è stato difficile ottenere giustizia per Roberto» e ne attribuisce il merito «al coraggio del giudice di ordinare una seconda perizia» e alla «evoluzione generale della giurisprudenza: fino agli anni Novanta era difficilissimo dimostrare la colpa dei medici. Era quasi una prova diabolica». Vent'anni dopo, suggeriscono i sanitari, l'Italia sembra caduta nell'eccesso opposto: troppe denunce, troppi dottori sotto accusa, troppi risarcimenti facili. Secondo stime diffuse dalla Federazione degli Ordini dei medici, ogni anno i pazienti italiani farebbero piovere «oltre 16 mila esposti» contro ospedali (7.500) e singoli dottori (8.500). A pagare il conto, però, sono quasi sempre le assicurazioni. E i loro archivi, in gran parte inesplorati, amplificano il boom dei risarcimenti per colpe mediche e, in misura ancora maggiore, per i danni provocati dall'inadeguatezza e disorganizzazione delle strutture: in dieci anni il totale è addirittura decuplicato. L'Ania, l'associazione che raggruppa il 91 per cento delle compagnie italiane, nel 1995 registrava poco più 17 mila denunce di malasanità, coperte da incassi contrattuali (premi) per 35 17.208 milioni di euro. Dieci anni Numero di denunce dopo, le vertenze dei pazienti sono quasi raddoppiate (28.500 nel 2005) e i premi sono dieci volte superiori (381 milioni). Le assicurazioni registrano così circa il doppio delle denunce conosciute dai medici, ma negano di guadagnarci, anzi giurano di subire perdite sempre più pesanti: per ogni cento euro incassati per i contratti del 1995, dichiarano di essere arrivate a pagarne, nel 2005, ben 216. Sempre stando all'Ania, questo sbilanciamento sarebbe una costante degli ultimi 15 anni, con punte di 313 euro versati per ogni 100 incassati nel 1998. Se questo è vero, significa che il boom delle cause di malasanità sarebbe tanto esasperato da far regolarmente saltare i calcoli e gli accantonamenti annuali delle compagnie. Che a quel punto ricaricano i costi, con altrettanta regolarità, sui premi pagati dalle strutture (pubbliche e private) e dai singoli medici. In un settore a così alto rischio, le compagnie italiane stanno lasciando spazio a colossi stranieri come i Lloyd's di Londra e l'australiana Qbe. Il maggior gruppo italiano, Generali-Assitalia, nel 2007 ha risarcitol80 milioni di euro a 2.500 pazienti. Nel 2006, a conferma dell'aumento dei rimborsi medi e della cessione di quote di mercato, le Generali avevano riversato la stessa cifra (178 milioni) su 2.800 malati. Quasi in ogni ospedale sono attive associazioni di tutela dei pazienti. La rete più radicata è il Tribunale per i diritti del malato, che nel 2007 ha ricevuto 24.300 segnalazioni di errori medici o di altri disservizi sanitari. I settori più a rischio sono l'ortopedia 118,7 per cento delle denunce di malpractice), oncologia (12,1), chirurgia generale (9,5), ginecologia - ostetricia (6,9), odontoiatria (5,5), oculistica (5,4), cardiologia e neurologia (4 ciascuna ) . C'è il ragazzo che «si frattura il gomito destro. Ingessato dopo l'intervento, accusa dolore e la mano gli diventa nera. I medici dicono di allargare il gesso. Il paziente entra in coma e dopo 19 giorni muore per infezione. Le cartelle cliniche sequestrate dalla procura risultano alterate». C'è la signora che «operata all'anca, scopre dopo q u a t t r o mesi di avere una gamba più corta di sei centimetri». E la donna che «accusava dolori dopo il parto cesareo. La lastra ha evidenziato una garza infetta nell'utero. Nella lunga convalescenza ha perso il lavoro». Per non citarne che alcuni. I casi più costosi per le assicurazioni, sempre nel 2007, sono i parti con invalidità totale dei neonati (da 2 a 4,5 milioni di euro), la mancata diagnosi di tumori mortali (un milione), i più gravi danni ortopedici (400 mila euro) e le trasfusioni di sangue infetto (rimborsi medi da 200 a 400 mila euro). Oltre ad allargare il danno risarcibile alle vittime (patrimoniale, morale, biologico ed esistenziale), la giurisprudenza ha via via esteso il diritto ai rimborsi anche ai familiari in proprio. II risultato è un circolo vizioso. I pazienti e i loro avvocati presentano sempre più denunce. I giudici riconoscono risarcimenti sempre più numerosi ed elevati. Medici e amministrazioni pagano premi assicurativi sempre più cari, con aumenti annui (dichiarati dall'Ania) dal 10 fino al 59 cento. Gli ospedali sono sempre più indebitati e finiscono spesso col tagliare anche le spese necessarie a ridurre gli errori. E il giro ricomincia, sempre più a caro prezzo. A questo punto parecchi periti giudiziari cominciano a sospettare il peggio. Il medico e criminologo Michele Bellomo, docente della Scuola di specializzazione in Medicina legale dell'Università di Foggia, vede più di un'anomalia dietro il boom delle cause sanitarie: «Non vi è dubbio che stiano nascendo organizzazioni interessate a vario titolo ai risarcimenti spesso milionari che ne derivano». Bellomo è l'esperto che ha aiutato a scoprire le più • clamorose frodi sistematiche, con falsi referti e corruzioni a catena, nel settore dei sinistri stradali. Altri periti assicurativi, che chiedono di non essere nominati, segnalano «casi di galoppini mandati negli ospedali di Napoli e di Roma a reclutare pazienti»; strane società che «comprano cause sanitarie» a prezzi da «recupero crediti»; studi legali e singoli avvocati che, invece di ricevere i clienti, «vanno a caccia di malati promettendo processi gratuiti in cambio di una compartecipazione agli indennizzi, da dividere con il consulente medico associato». Luigi Palmieri, professore di medicina legale a Napoli e coordinatore dell'Osservatorio nazionale sulla malpractice (che ha coinvolto 12 università nei lo studio di 600 casi-pi Iota all'anno, finché nel 2006 sono cessati i finanziamenti), conferma che tra i periti dei tribunali «è sempre più diffusa la sensazione di una progresssiva strumentalizzazione delle cause per fini di profitto». Sensazione suffragata dal «crescente numero di denunce che già a un primo esame si rivelano totalmente infondate o che vengono presentate a grande distanza dai fatti, anche otto o nove anni dopo il preteso danno». Al di là delle deviazioni illegali, la malasanità è sicuramente diventata un business, fino a prova contraria lecito. Il decreto Bersani sulle liberalizzazioni, sbloccando le tariffe forensi, ha legalizzato i cosiddetti «patti di quota lite», con cui i legali si fanno riconoscere una percentuale in caso di vittoria. «L'articolo 19 del codice deontologico continua però a vietare a tutti gli avvocati qualsiasi accaparramento di clientela in luoghi pubblici come gli ospedali, nonché al domicilio degli utenti o pagando provvigioni», precisa Ubaldo Perfetti, vicepresidente del Consiglio nazionale forense. «Ma è chiaro che il patto di quota lite può prestarsi a qualche strumentalizzazione». Del tutto legale è l'offerta lanciata da società come la Sanitalex spa di San Marino, 77 mila euro di capitale, che garantisce ai pazienti «assistenza legale e • consulenze specialistiche senza alcun anticipo: il nostro compenso e gli stessi rimborsi spese verranno riconosciuti solo in caso di risarcimento». Mentre associazioni come il Periplo familiare di Roma, che ha per «presidente onorario il giudice Santi Lichen», il popolare arbitro televisivo di "Forum", pubblicizza con annunci a tutta pagina un numero verde, dove una signorina risponde che « l'assistenza legale è gratuita», mentre «il paziente deve pagare solo le consulenze tecniche». A questo punto anche i migliori medici italiani si sentono assediati e criminalizzati. L'oncologo Alberto Scanni, direttore dell'Istituto dei Tumori di Milano, testimonia: «Purtroppo comincia ad affermarsi anche nel nostro Paese un concetto di medicina difensiva. Nel timore di future denunce, il medico è indotto a eccedere in esami e prescrizioni che non hanno una reale necessità per il paziente, ma servono a precostituirsi una prova a discarico». Il cardiologo Marco Bobbio, primario all'ospedale Santa Croce e Carle di Cuneo, sottoscrive la stessa diagnosi e inserisce l'escalation delle cause sanitarie in «un aumento a tutti i livelli di un senso di risentimento, un imbarbarimento sociale che porta ogni individuo a sentirsi vittima di un torto, dalla bega di condominio ai problemi più gravi, e a cercare per forza un colpevole. Per dirla con un paradosso: diventare madri è sempre meno pericoloso, ma fare i ginecologi lo è sempre di più. Se nei secoli scorsi moriva di parto una donna su 20, e quindi la morte era considerata un evento naturale, oggi che il tasso è sceso a un decesso su 6 mila parti, il marito si chiede: perché proprio mia moglie? Nonostante tutti i progressi, la mortalità non potrà mai essere uguale a zero». Negli Usa, dove un ricoverato su cento denuncia l'ospedale, 34 Stati hanno approvato leggi che dichiarano «inammissibili» come prove le scuse rivolte ai pazienti dai medici che ammettono l'errore. L'Università del Michigan, come informava la settimana scorsa il "New York Times", ha studiato gli effetti della prima sperimentazione di una nuova strategia: dopo decenni in cui avvocati e assicuratori invitavano a «negare e difendersi», ora i "risk manager" di centri come Stanford e John Hopkins esortano i medici ad «ammettere e scusarsi». Risultato: le denunce sono crollate da 263 nell'agosto 2001 a 83 nello stesso mese di sei anni _ dopo. Il ritrovato clima di fiducia porta i pazienti ad accettare l'offerta di rimborsi sostenibili dall'ospedale e i dottori a imparare dagli errori riconosciuti e studiati t apertamente. In Italia giuristi co- g me Uckmar e Galgano parlano di «tendenza a oggettivizzare la colpa » : dal dottore alla struttura. E medici e magistrati ~ cominciano a sognare a una rivoluzione legale: risarcire il danno al paziente sen- i za più obbligarlo a dimostrare la colpa ° del medico. ___________________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 1 giu. ’08 ASMA: SALUTE IN GARA In aumento l'asma tra gli atleti. A Pechino sarà studiata in campo Troppi i campioni con i bronchi stretti. Uno studio vuole capire perché l'asma è in ascesa fra gli sportivi Asmatico e grande campione. Lo è stato Mark Spitz, il nuotatore che alle Olimpiadi di Monaco del 1972 vinse sette medaglie d'oro (record ineguagliato). A corto di respiro anche Rick DeMont: dopo aver vinto alle Olimpiadi di Monaco i 400 stile libero, fu squalificato per doping (c'era efedrina nelle sue urine) e riabilitato trent'anni dopo quando si accertò che quelle tracce erano compatibili con la cura dell'asma. Ha lottato con ì bronchi che sì stringono allo spasima anche Salvatore Antibo, argento nei 10.000 alle olimpiadi di Seoul, e lotta Paolo Bettini, campione olimpico in carica di ciclismo su strada. «Fra gli atleti professionisti l'asma è in ascesa - ci informa Sergio Bonini, professore di medicina interna della Seconda università di Napoli e ricercatore dell'istituto di neurobiologia del Consiglio nazionale delle ricerche - . Ne soffre il 20 per cento dei nuotatori e dei ciclisti, il lo per cento degli atleti che praticano sport invernali, il 50 per cento, addirittura, degli sciatori di fondo norvegesi. Sembra un paradosso perché una volta si diceva che l'ambiente delle piscina, caldo e umido, era lenitivo per l'asma; il fenomeno ora sembra invertirsi. La colpa? Forse della clorazione dell'acqua». Bonini coordina per l'Italia lo studio «Allergia e sport - finanziato dalla Commissione europea e dal ministero della Salute, Commissione antidoping, che coinvolge dieci paesi (ne è promotore il Comitato olimpico norvegese). 2000 atleti - 300 gli italiani - verranno seguiti prima, durante (con un vero laboratorio di fisiopatologia respiratoria) e dopo le Olimpiadi di Pechino con test, anche cutanei e visite periodiche. «A Pechino - prosegue Bonini - si prevede una temperatura che sfiorerà i 30' con l’80 per cento di umidità in condizioni di grave inquinamento (verranno fermate le attività industriali, ma è solo un palliativo). Un insieme di condizioni sfavorevoli all'atleta asmatico. Lo studia ha anche un'altra finalità: vuole approdare a criteri certi per la diagnosi dell'asma in condizioni di stress quali quelle dell'agonismo, che permettano di escludere un uso fraudolento dei farmaci antiasmatici. I beta-2-stimolanti (tipo il ventolin, per capirsi) che dilatano ì bronchi, vietati per bocca, sono concessi dalla commissione mondiale antidoping per via inalatoria agli atleti «documentatamente» asmatici. In questa versione, il preparato non sembra potenziare i muscoli quanto lo fa per bocca, ma non si sa ancora abbastanza sulla possibilità che mascheri il ricorso ad altre sostanze illecite (per gli esperti è improbabile, ma..). Non è il doping, ma il rischio di problemi cardiaci seri che guida il programma di screening cardiovascolare che il Comitato olimpico italiano sta completando sugli atleti che andranno a Pechino, 300 circa «Siamo l'unico Paese che prevede una serie di esami per accertare la salute del cuore degli atleti: elettrocardiogramma, ecocardiogramma, prova da sforzo» afferma Antonio Pelliccia, direttore scientifico dell'istituto di medicina dello sport del Coni. Proprio questi controlli hanno portato all'esclusione dall'attività agonistica del campione di Sydney 200o Domenico Fioravanti (due medaglie d'oro nei roo e 20o rana) per un'ipertrofia cardiaca. Patologia, su base genetica, più diffusa di quanto si creda il cui nome esatto è cardiomiopatia ipertrofica: ne soffrono in Italia 2 persone su 1000 in sostanza, oltre 110 mila. «Nel nostro Paese circa 6oo persone ogni anno muoiono improvvisamente per questa malattia - spiega il cardiologo Franco Cecchi, responsabile del centro regionale di riferimento per le cardiomiopatie dell'università di Firenze - mentre la sua identificazione precoce consente di curare le forme gravi e di rassicurare chi è a basso rischio. Negli Stati Uniti dove non si fanno esami, nel 5o per cento dei casi di morte improvvisa fra atleti professionisti,l'autopsia rivela che alla base c'era una cardiomiopatia ipertrofica. Un dato impressionante». Ma al di là dell'Atlantico, nessuno sembra sensibile al problema, neppure l’American heart association. Franca Porciani __________________________________________________________ La Nuova Sardegna 30 mag. ’08 A MONSERRATO IL NUOVO OSPEDALE Attorno all'area del Brotzu la scelta di valorizzare il polo di eccellenza È deciso: a Monserrato il nuovo ospedale Renato Soru lo vuole vicino al Policlinico per la velocità nelle procedure - Le società di biotecnologie e di farmacologia di Polaris trasferite vicino al San Michele ROBERTO PARACCHINI CAGLIARI. È quasi certo: il nuovo ospedale dell'area cagliaritana sarà realizzato vicino al policlinico universitario di Monserrato. La decisione definitiva sarà presa in questi giorni, ma il presidente della Regione Renato Soru si è espresso in questa direzione. In diverse occasioni, ma anche l'altro ieri durante l'inagurazione dei nuovi spazi dell'ospedale Brotzu, il governatore della Sardegna ha precisato che la scelta dell'area sarà fatta in rapporto alla funzionalità e al tempo per realizzarlo («è meglio impiegarci tre anni che non dodici»). Ed è per questo che l'area prescelta sarà quella di Monserrato, adiacente al policlinico universitario: sia perchè i tempi possono essere molto minori, in quanto vi sono già tutti i permessi; sia perchè quell'area permette di mettere «a fattore comune tecnologie e servizi». Come «possiamo fare massa critica sulla ricerca - si è domandato il presidente Soru - affinchè l'attività di cura, insieme all'attività di ricerca, possa anche portare impresa e lavoro?». E quale sito migliore, se non quello universitario (a fianco al policlinico), può permettere una «massa critica sulla ricerca» e creare sinergie tra quest'ultima e l'assistenza? Ed è per questi motivi che tra le aree di San Lorenzo e quelle di Elmas (precedentemente individuate), vincerà qualla di Monserrato, dove sarà realizzato uno dei due poli sanitari dell'area vasta. L'altro, di ricerca e sviluppo, sarà costruito con e attorno all'ospedale Brotzu. «Dobbiamo ripensare anche il ruolo del Brotzu - ha affermato l'altro ieri il presidente Soru - e renderci conto che accanto a questo ospedale c'è il Microcitemico e che, adiacente, c'è la nuova radioterapia e, un po' più in là, il Businco». Un'area, questa, per la quale si deve «pensare in grande (...), come un'unica cittadella sanitaria». E ciò «ricomponendo questi presidi ospedalieri e acquisendo le aree che sono interposte. A chiunque appartengano». Alcune anche alla famiglia del sindaco Emilio Floris. L'altro ieri, inoltre, il governatore Soru ha incontrato il responsabile di Sardegna ricerche Giuliano Murgia con cui ha discusso lo spostamento delle ricerche, legate al settore farmacologico e biotecnologico, dalla sede del parco scientifico di Pula all'area del Brotzu. In questo modo, e visto l'alta specializzazione dei tre presidi ospedalieri della zona, la Regione punta a creare un complesso interconnesso e in grado di diventare «il polo della degenza e della cura, ma anche della ricerca, pubblica e privata». Capace, quindi, di creare know how: conoscenza utilizzabile anche da imprese in grado di farne business. L'idea è stimolante anche perchè nel microcitemico (tramite la scuola di Antonio Cao, ma non solo) si svolgono importanti ricerche nel campo biotecnologico. Lo stesso dicasi, solo per fare due esempi (i punti di eccellenza sono tanti), per il dipartimento trapianti del Brotzu, o per l'ematologico del Businco. Si tratterà, poi, di verificare nella pratica la realizzabilità del progetto. Per il nuovo ospedale (il presidio che dovrà sostituire il Santissima Trinità, l'ospedale Marino e il San Giovanni) è già prevista una dotazione di centocinquanta milioni di euro (come scritto nella delibera «Prima indicazione dell'area su cui costruire il nuovo ospedale di Cagliari» approvata dalla Giunta regionale il 22 novembre scorso) su una spesa stimata in 250 miloni. Gli antefatti del futuro presidio parlano di un concorso, per la scelta dell'area in cui realizzare il nuovo ospedale, a cui hanno partecipato i comuni di Cagliari, Assemini, Capoterra, Elmas, Monserrato, Quartu, Selargius e Sestu. E raccontano dell'individuazione, come aree giudicate appropriate, delle zone proposte dal capoluogo (presso la Piana di San Lorenzo) e da Elmas (l'area ad ovest della dorsale Casic). Ultimamente, però, la verifica dei tempi necessari per la realizzazione della struttura hanno spinto - come accennato - il presidente Soru a optare per l'area adiacente alla cittadella universitaria di Monserrato, dove si trova il Policlinico. __________________________________________________________ Il Sole24Ore 27 mag. ’08 PARTI CESAREI, CORSA SENZA FINE Il ministero pubblica i nuovi dati sulle nascite: nel 37,5% dei casi si ricorre al bisturi Le mamme immigrate sono il 13% - L'88% dei genitori sceglie il Ssn Crescono ancora i figli del bisturi: quasi quattro bimbi su dieci in Italia nascono con il parto cesareo. Per l'esattezza il 37,3% (era l'11% nel 1981 e il 35% nel 2002), un record assoluto in barba a quanto predica da anni l'Organizzazione mondiale della Sanità che raccomanda la soluzione chirurgica, per il bene delle neomamme e anche dei nascituri, solo nel 10-15% dei casi. E con le Regioni del Sud molto al di sopra della media nazionale: in Sicilia ormai oltre la metà dei parti si fa con il cesareo (il 52,8) e in Campania se ne contano addirittura sei ogni dieci nascite, contro la Valle d'Aosta dove il bisturi si usa solo nel 22% dei "lieti eventi". Gli ultimissimi dati sui fiocchi rosa e azzurri delle sale parto italiane arrivano dal quarto rapporto sull'evento nascita in Italia, appena pubblicato dal ministero della Salute, che ha censito oltre 500mila parti (il 92% di quelli totali). E dove si confermano altri trend più o meno noti: cresce la squadra delle mamme immigrate protagoniste del 13,8 dei parti totali, con picchi del 20% al CentroNord. Le corsie multietniche sono popolate soprattutto da ragazze dell'Est (il 41%) e da quelle africane (il 25 per cento). Gli ospedali pubblici restano la primissima scelta: ben l'88% dei neo-genitori hanno scelto il Ssn, l'11,6% le case di cura e solo lo 0,18 il parto a casa di antica memoria. Con il Sud che preferisce spesso il privato, dove tra l'altro stravince il cesareo, rispetto al pubblico: in Campania, a esempio, il 45% dei parti si effettua nelle cliniche, meglio se accreditate con il Servizio pubblico. Le mamme italiane sono, poi, sempre più "attempate": in media hanno 32 anni contro i 28 delle straniere. E quasi tutte, nove volte su dieci, hanno accanto a sé, al momento del parto, il neo-papà. Si conferma anche il fenomeno della cosiddetta «medicalizzazione» della gravidanza: in circa l'83% dei casi sono state fatte più di quattro visite ostetriche, mentre nel 73,6% delle gravidanze sono state effettuate più di 3 ecografie. In media, inoltre, sono state realizzate circa 16 amniocentesi ogni 100 parti con le over-40 che hanno deciso di ricorrere al prelievo del liquido amniotico in quasi la metà dei casi per scoprire eventuali anomalie del feto. Infine il 63,7% dei parti è avvenuto in strutture mediograndi dove avvengono almeno 1.000 nascite all'anno, mentre il 10,8% in ospedali più piccoli che ne contano meno di 500. Marzio Bartoloni __________________________________________________________ Il Sole24Ore 27 mag. ’08 ECCO LE MILLE INSIDIE NASCOSTE NELL'HARDWARE IN CORSIA La sostituzione della cartella clinica cartacea può comportare dei seri pericoli per gli operatori e i pazienti: dalle infezioni agli errori fino allo shock elettrico Non si possono utilizzare Pc o tecnologie comuni - Si deve ricorrere ad appositi macchinari realizzando un'adeguata progettazione ANTONIO BARTOLOZZI * L'hardware informatico, per sostituire la cartella clinica cartacea, può comportare delle insidie in corsia. L'hardware di supporto alla cartella clinica informatizzata si può, infatti, installare in corsia e anche vicino al paziente, ma con diverse cautele. In altre parole non è possibile, senza precauzioni, usare comuni Pc o comune hardware informatico all'interno di corsie, sale operatorie, sale di pronto soccorso e in molti locali adibiti a uso medico (con alcune differenze) soprattutto all'interno dell'area paziente. È vero però, che del comune materiale informatico può essere utilizzato, anche in locali quali sale operatorie, seguendo le indicazioni delle nuove norme tecniche, come quelle della serie En 60601 o la norma En 14971. Cosa comporta in pratica? Che è necessaria una fase di progettazione prima di collegare dell'hardware informatico in ospedale, ovviamente tale fase può essere più o meno estesa a seconda di cosa andremo a usare e soprattutto dove andremo a usarlo. Un Pc a norme medicali può essere introdotto relativamente facilmente in sala operatoria (ma non a occhi chiusi). Prima di introdurre un Pc comune da ufficio in sala operatoria o anche nei pressi di un paziente, può essere richiesto così tanto lavoro per mitigare i rischi, da rendere la cosa del tutto infattibile. Ma è proprio necessario usare del comune hardware informatico (stampanti, Pc, video ecc.) in corsia? La risposta è "no". Fino a qualche anno fa era difficile trovare alternative ai dispositivi elettronici da ufficio, oggi troviamo praticamente ogni soluzione hardware equivalente per uso medico. Ci si potrebbe chiedere perché si devono usare dispositivi particolari in ospedale, e non si può beneficiare dei bassi prezzi dell'elettronica che usiamo a casa. Vediamone i motivi con un esempio. I rischi. Il paziente è un essere umano in condizione di momentaneo o permanente stato di "debolezza". Da un paziente non è possibile attendersi le stesse difese e reazioni che si hanno da parte di un essere umano in condizioni "normali" (a esempio a casa e in salute). Prendiamo il caso delle gestanti. In generale, le gestanti possono condurre una vita normale e sono del tutto assimilabili a persone sane: perché quindi devono essere trattate in modo diverso solo per il fatto di essere all'interno di una corsia di ospedale? Saprete certamente che per indurre le contrazioni spesso si usano delle flebo con relativi cateteri in vena. È normale vedere le gestanti aggirarsi per un reparto di maternità accompagnate da un carrello porta flebo. Questa condizione è particolarmente pericolosa dal punto di vista (se non altro) elettrico. I cateteri sono quasi sempre umidi, soprattutto nelle vicinanze dell'ago, per di più gli aghi, sono collegati in maniera ottimale dal punto di vista elettrico con il flusso sanguigno. Il sangue, vista la sua composizione, è un conduttore elettrico con una resistenza eccezionalmente bassa (assimilabile a un conduttore di rame) che porta direttamente al cuore. Cosa succede alla gestante se viene a contatto con hardware non medicale? Poniamo il caso che la gestante tocchi una Tv, una radio, un computer portato da casa o addirittura introdotto dall'ospedale, che non sia fatto per locali adibiti a uso medico. Le correnti di dispersione di questi oggetti sono molto al di sopra di ciò che è consentito in tali locali e questo fa sì che la paziente, se tocca un normale apparecchio elettronico, possa essere sottoposta a una corrente di dispersione molto più alta del consentito. Perché le correnti di dispersione che non uccidono in casa dovrebbero uccidere in ospedale? Semplicemente perché la gestante in casa non ha una flebo inserita in vena. La pericolosità di tali correnti in ospedale deriva dal fatto che i pazienti sono in condizioni svantaggiate: molti elettrodi sulla cute non si possono muovere facilmente, causa ambienti umidi, condizioni fisiche non ottimali ecc. Quindi la gestante può essere sottoposta a una scarica elettrica che passa dal dispositivo elettronico al catetere, dal catetere al sangue, e tramite questo arriva al cuore per scaricarsi su un termosifone o al suolo attraverso le gambe. Questa scarica può facilmente indurre una fibrillazione ventricolare fatale. Ragionamenti analoghi possano essere fatti per altri tipi di pazienti quando si usano Pc o altro hardware elettronico nelle vicinanze del paziente stesso. Capite bene che si rischia di arrecare un grosso danno solo per aver consentito l'uso di un dispositivo casalingo o di un computer da ufficio in corsia. I computer medicali hanno speciali protezioni che non consentono il passaggio di correnti elevate nel paziente, per cui il problema che abbiamo descritto non si presenterebbe. Torniamo all'uso della cartella clinica elettronica: ho visto spesso in corsia gli infermieri e i medici usare Pc portatili "comuni" appoggiati su un carrello. Questa pratica, visto quanto abbiamo detto, in generale, non è consigliabile. Infatti, esistono soluzioni alternative per dotare di Pc medicali anche i carrelli usati comunemente in ospedale, come un carrello per terapia. Queste soluzioni sono stabili meccanicamente, poco costose e soprattutto generano meno rischi per il paziente. È possibile andare al posto letto accompagnati dal proprio computer, posto sul carrello dei farmaci ed eseguire la terapia con l'aiuto di un lettore di codice a barre (o Rfid), il quale identifica con sicurezza (mediante del software) il paziente e il farmaco. Pensate che tali computer hanno a disposizione (opzionalmente) anche l'acquisizione automatica dei parametri vitali come la saturazione, la pressione, l'Ecg e la temperatura. Spesso non è neanche necessario sostituire il vecchio carrello porta farmaci, ma semplicemente si deve fissare il computer medicale su un carrello già in uso in ospedale, con un costo che non supera i duemila euro. È vero che una soluzione basata su comuni notebook da ufficio costa la metà, ma questi dispositivi (e altri analoghi) possono introdurre numerosi rischi, alcuni di questi sono raccolti, a scopo esemplificativo, nella tabella sopra. Il risparmio di mille euro non può giustificare i rischi seri per pazienti e operatori. C'è di più. I moderni software per cartella clinica prevedono il collegamento diretto con i dispositivi elettromedicali e il laboratorio di analisi, per l'acquisizione dei dati clinici, in modo da evitare al personale il fastidio, e il rischio, di dover reintrodurre i dati in cartella a mano. Questo sistema lo condivido pienamente, ma ad alcune condizioni. Alcune di queste condizioni "propedeutiche" riguardano il software, e le vedremo prossimamente, ma forse più importanti sono le condizioni che riguardano l'hardware. Il collegamento di un'apparecchiatura elettromedicale a un Pc o anche "semplicemente" alla rete dati (come una Lan) può portare a numerosi pericoli elettrici. Si prenda il caso di un elettrocardiografo usato in un pronto soccorso. Normalmente non è connesso ad altre apparecchiature. L'elettrocardiografo può venir collegato tramite un cavo seriale a un Pc, per effettuare l'acquisizione diretta del tracciato in cartella: si ottiene così un sistema molto diverso dalla situazione originale, con il solo elettrocardiografo, che introduce nuovi rischi per il paziente. Se non si fa progettare l'insieme a un fabbricante o a un esperto si rischia di trasmettere delle correnti di dispersione maggiorate al paziente tramite gli elettrodi dell'Ecg o tramite il personale medico. Questo può essere una causa di danno al paziente. Il semplice fatto che un elettrocardiografo abbia una porta seriale per la connessione dati, non significa che questa possa essere usata in tutte le condizioni. Il fabbricante pone dei precisi vincoli. Non è consigliabile effettuare collegamenti senza lo studio degli apparecchi e dei locali coinvolti. Per ragioni simili i Pc in sala operatoria devono essere introdotti con estrema cautela. I pericoli vanno dal microshock (contatto diretto con il cuore di una corrente di dispersione) all'igiene, ai rischi di incendio. Le tastiere, i mouse e tutti i dispositivi di input del Pc sono potenziali veicoli di contaminazione microbiologica. La stessa ventilazione del Pc costituisce un veicolo per le infezioni. All'interno dei computer si accumulano notevoli quantità di sporco (basta aprire il Pc che abbiamo in ufficio per rendercene conto) che non possono essere facilmente rimosse. Questo sporco contiene parte della carica batterica trasmessa dai pazienti che erano presenti in precedenza nel locale. Lo sviluppo dei batteri è facilitato dall'enorme quantità di polveri, spesso umide, e da condizioni ideali di temperatura (30-40 gradi) contenute all'interno dei computer. Esiste una soluzione? Certamente, basta acquistare hardware appositamente pensato per evitare questo fenomeno. La manutenzione. Introdurre hardware di provenienza non medicale significa anche avere dei dispositivi che non prevedono una manutenzione periodica adatta alle strutture sanitarie. Tutti i dispositivi sono soggetti a logorio e a varie problematiche connesse all'uso: è chiaro che il rischio è molto diverso se il computer viene usato in sala operatoria piuttosto che a casa. Se lo schermo del vostro computer inizia a fornire colori non nitidi non si generano rischi immediati alla salute. Lo stesso problema in sala operatoria è intollerabile: i livelli di grigio di una radiografia contengono informazioni cliniche vitali, non avendo più una nitida distinzione tra grigi, è impossibile identificare correttamente le zone da curare con un conseguente rischio di compiere errori clinici. Si può evitare tale pericolo facilmente sostituendo preventivamente i componenti logorati. Questa problematica è tipica degli ambienti medici e non è considerata (perché non è necessario) in situazioni dove non ci sono tali rischi. A esempio, sarebbe assurdo costringere un'azienda di consegne a sostituire lo schermo di un computer che viene usato nel magazzino: la non perfetta resa dei livelli di grigio non è importante per tale lavoro. Le soluzioni. L'hardware medicale è disponibile a costi ragionevoli. L'uso di hardware comune può esporre il paziente a rischi intollerabili, il tutto per risparmiare poche centinaia di euro. Cosa fare quindi? Seguire delle regole di buon senso: evitare di introdurre nelle vicinanze del paziente o in locali adibiti a uso medico hardware non pensato per tali ambienti (evitate anche dispositivi come Tv, videoregistratori e ogni sorta di apparecchio "casalingo"); se lo si fa o si collegano delle nuove apparecchiature, è bene farlo sotto la guida di un esperto; seguire attentamente i manuali dei costruttori, nel dubbio chiedere al costruttore stesso se è possibile usare quel dispositivo nei pressi del paziente e come collegarlo; non effettuare connessioni tra apparecchi elettromedicali senza un minimo di progettazione, nel dubbio chiedere al fabbricante; valutare con la guida di un progettista tutti i rischi che si generano introducendo del nuovo hardware (come i rischi di contaminazione microbiologica). In generale, evitare l'uso di materiali indicati per ambiente domestico o industriale, in locali adibiti a uso medico a meno che non si possa contare su qualche parere autorevole a sostegno. Usare computer e hardware informatico nelle strutture sanitarie non solo è possibile, ma è anche molto utile, questo non significa che debba essere fatto senza controllo: ci deve essere solo un'adeguata fase di progettazione. Per chi avesse dei dubbi sull'hardware che sta utilizzando può scrivermi (antonio@bartolozzi.it). * Direttore ricerca e sviluppo 7Consulting Srl __________________________________________________________ Il Sole24Ore 27 mag. ’08 «MEDICINA GENERALE, SERVONO LEA SPECIFICI» L'anno scorso parlavo di rilancio della medicina del territorio. Questo slogan ha trovato la sua applicazione nel nostro progetto: Me.Di.Co., nato per offrire una diversa proposta di organizzazione non solo del territorio ma anche dell'ospedale. L'acronimo centra lo spirito della proposta, «medicina distrettuale di continuità», e ricorda chi è e chi deve rimanere al centro della gestione della nostra bella professione, ovvero il medico. A questo progetto è dedicato il nostro XXVII congresso nazionale, che si svolge a Cervia dal 20 al 25 maggio. Un'occasione per sviscerare la proposta che nasce per rispondere ad alcune necessità innegabili del prossimo futuro, ovvero: l'invecchiamento progressivo della popolazione italiana che crescerà nei prossimi 20 anni di oltre il 50 per cento; la richiesta sempre maggiore di informatizzazione dei dati anche sanitari dei cittadini; il coordinamento a livello distrettuale della medicina territoriale. Vorremmo rispondere a tutto questo con un'organizzazione che rispecchi le caratteristiche alla base della medicina della persona che caratterizza la filosofia dello Snami: un approccio centrato sulla persona, orientato all'individuo, alla sua famiglia e alla sua comunità; un rispetto della relazione individuale che si sviluppa nel tempo attraverso il rapporto diretto medico e paziente; la garanzia della continuità longitudinale delle cure. Per raggiungere questo obiettivo è assolutamente necessario mantenere la valenza positiva, apprezzata da tutti e invidiata all'estero, della nostra attuale organizzazione sanitaria con la distribuzione nel territorio degli studi dei Mmg che garantiscono, con la loro parcellizzazione, la vera vicinanza del medico al cittadino. Per l'assistenza primaria è necessaria, con Lea specifici, una vera presa in carico del paziente e in modo particolare di quelle patologie croniche che ormai in tutto il mondo è acclarato sono di specifica pertinenza della medicina generale: Bpco, diabete di tipo 2 non insulino-dipendente non complicato, ipertensione arteriosa, pazienti in Tao, pazienti in menopausa ecc. Lea specifici, ovvero livelli essenziali di assistenza di sola pertinenza della medicina generale. Chiediamo alla politica di fare questa scommessa a cui ci sentiamo pronti: riservare solo a noi le patologie sopracitate, considerandole inappropriate per la specialistica. Otterremmo un risparmio economico di non poco conto che potrà essere in gran parte riversato nella medicina generale. Con un riconoscimento di Lea specifici per la medicina generale, agli specialisti potranno essere riservate le esigenze di salute di II livello, permettendo un'importante riduzione dei tempi e un netto abbattimento delle liste di attesa. Per quanto riguarda l'informatizzazione non si può certo pensare che nel terzo millennio la medicina del territorio ne possa rimanere ai margini. Ma non deve tradursi solo in un aggravio burocratico con l'unico scopo del controllo. Deve avere l'obiettivo di essere un vero aiuto per la salute del cittadino e per la professionalità dei medici. Il progetto Me.Di.Co. risponde anche alla richiesta di assistenza sulle 24 ore prevedendo un allargamento sull'intera giornata e per tutti i giorni della settimana delle attuali postazioni di continuità assistenziali. Tutto questo con un bassissimo investimento, a confronto di molte altre proposte di cambiamento strutturale dell'organizzazione territoriale, valutabile in pochi milioni di euro su base nazionale e con un aumento di almeno il 30% di nuovi incarichi per la continuità assistenziale. E anche un taglio alla burocrazia: il 35% del tempo trascorso in ambulatorio dal medico di famiglia è assorbito da pratiche burocratiche, senza considerare la compilazione delle ricette. Il medico di continuità assistenziale assicurerà le prestazioni sanitarie non differibili in favore dei cittadini residenti nell'ambito territoriale afferente alla sede di servizio per l'intero arco delle 24 ore, per tutti i giorni della settimana, nonché, in accordo con la programmazione regionale e aziendale, le prestazioni ambulatoriali più impegnative (codici bianchi e codici verdi), oltre a quella grande fetta di medicina preventiva di massa che negli anni si è persa. Ma per attuare tutto questo e in modo particolare la presa in carico della cronicità da parte dell'assistenza primaria che cosa serve? Essenzialmente, ribadisco, avere il coraggio di dare piena dignità alla medicina generale riconoscendole dei Lea specifici. Tutto ormai viene quantificato e organizzato con Drg o Lea. L'unico settore della Sanità italiana che non risponde a questi requisiti è la medicina di famiglia. La richiesta che facciamo al nuovo Governo è l'istituzione di una commissione per definire questi Lea specifici della medicina generale che diano regole certe per definire il campo di competenza esclusiva dell'assistenza di I livello riservata al Mmg. Bisogna definire, almeno per le patologie a maggior impatto sociale ed economico, quali siano le competenze specifiche ed esclusive del I livello e riportarle nei contratti della dirigenza e nella convenzione della medicina generale. Questo porterà a riqualificare l'attività del Mmg e a ridare la giusta collocazione allo specialista, consulente per le prestazioni di II livello. Non rinneghiamo la mancata firma della scorsa convenzione, che pure ha causato in molte realtà un'imbarazzante emarginazione per quello che è il secondo sindacato nazionale della medicina generale: ritengo sia stato un atto sindacale forte e coraggioso contro un Accordo che, come avevamo preventivato, si è dimostrato non solo carente in molti punti tra cui quello economico, ma ha permesso, tramite la "cedevolezza" di molti articoli a livello regionale, la creazione di 21, anzi di 185 diverse repubbliche sanitarie quante sono le Asl in Italia. Questo dato, scaturito dai nostri tre congressi interregionali conclusi un mese fa, è una stortura del Ssn che vogliamo venga corretta; la regionalizzazione voluta dal cambiamento del Titolo V della Costituzione e ora la scomparsa del ministero della Salute inglobato in un mastodontico ministero del Welfare, non devono creare diversità così eclatanti nella Sanità nazionale. Chiediamo a gran voce di tornare a un ministero a valenza nazionale, a garanzia di una Sanità nazionale a tutela della salute nostra e dei nostri cittadini, nel rispetto della Costituzione. I cittadini devono avere garantita ovunque la stessa Sanità. Uniti, e non mi riferisco solo all'interno del nostro sindacato ma come intera categoria, possiamo vincere questa battaglia per la riqualificazione della nostra professione e per la difesa del nostro bene più prezioso: la salute. Mauro Martini Presidente Snami __________________________________________________________ ItaliaOggi 29 mag. ’08 SANITÀ, I CONTI PEGGIORANO. MA MENO DEL PREVISTO La relazione della Corte dei conti sui piani di rientro delle regioni A sorpresa migliorano i conti della sanità. Le uscite complessive, infatti, sono sì cresciute ma con un incremento inferiore a quanto preventivato. Un risultato dovuto al rinvio del rinnovo dei contratti del personale sanitario, al buon risultato ottenuto dalla spesa farmaceutica e allo slittamento al 2008 del rinnovo delle convenzioni con i medici di famiglia. Nel 2007, inoltre, la spesa farmaceutica si è ridotta di circa il 7%, grazie soprattutto alla decisione delle regioni di un aumento dei ticket, pur garantendo alcune forme di esenzione. Tale risultato lo si deve soprattutto alle regioni soggette ai Piani di rientro (Lazio, Sicilia, Campania, Liguria, Molise), le quali possono ancora tuttavia far registrare degli ulteriori margini di miglioramento. Queste alcune considerazioni evidenziate dalle sezioni riunite della Corte dei conti nella «relazione sulla tipologia delle coperture adottate e sulle tecniche di quantificazione degli oneri relative alle leggi pubblicate nel quadrimestre settembre-dicembre 2007», (su www.corteconti.it) all'interno della quale particolare rilievo assumono i dati ricavati dalla spesa sanitaria e gli interventi legislativi operati per ridurla. La spesa sanitaria. Per la Corte, in attesa degli esiti del monitoraggio dei Piani di rientro, «vero punto strategico del processo avviato con il Patto per la salute», i risultati del 2007 relativi al conto consolidato della sanità (che si basa sui conti economici delle aziende sanitarie del quarto trimestre), indicano, per la prima volta negli ultimi anni, un consuntivo migliore delle attese. Numeri alla mano, le uscite complessive hanno raggiunto i 102,3 miliardi con un incremento dello 0,9 per cento rispetto al 2006. Al di sotto quindi dei 103,4 miliardi attesi per l'anno in base al preconsuntivo dell'ottobre scorso. Un risultato che, ad avviso della Corte, va letto con attenzione. Tale andamento è frutto di almeno tre elementi particolari: il rinvio del rinnovo dei contratti del personale sanitario che sposta sul 2008 oneri per circa 1500 milioni di euro (nel 2006 il risultato aveva risentito di oneri per arretrati pari a circa 2.300 milioni); il buon risultato ottenuto sul fronte della spesa farmaceutica per l'operare congiunto dei meccanismi centralizzati (controllo AIFA) e di quelli regionali; lo slittamento di oneri riferibili ai rinnovi delle convenzioni con i medici di medicina generale, anch'esse incidenti sul 2008 (700 milioni di euro). Purtroppo, rileva la Corte, si deve ancora evidenziare la crescita dei consumi intermedi delle strutture ospedaliere pubbliche, fattore che segnala le difficoltà di contenimento della spesa. La spesa farmaceutica. I dati relativi alla spesa farmaceutica presentano, invece, risultati confortanti: la spesa a carico del Servizio sanitario nazionale si è ridotta nell'anno del 6,8 per cento. Un risultato che si accompagna a una forte crescita degli incassi da ticket (+30 per cento), che sconta la decisione di varie regioni di aumentare l'incidenza dei contributi richiesti ai cittadini pur conservando forme di esenzione. Di questo risultato, un grazie va soprattutto alle regioni soggette ai Piani di rientro che, infatti, presentano le riduzioni maggiori. A conti fatti, il Lazio e la Sicilia riducono la spesa netta di circa il 13 per cento, la Liguria di poco meno del 10 per cento, la Campania e la Sardegna di circa il 9 per cento mentre l'Abruzzo e il Molise contengono la spesa rispettivamente del 7,7 e del 5,8 per cento. Un risultato questo che per la Corte si accentua guardando alla spesa pro capite, consentendo di ridurre significativamente le forti differenze di consumo finora rilevate. Nonostante i recuperi registrati nell'anno, restano per la Corte ulteriori margini per conseguire dei miglioramenti. Sulla possibilità, poi, di ripetere nel 2008 il buon risultato dell'anno appena concluso in termini di spesa farmaceutica pesa, da un lato, il venir meno degli effetti degli interventi attivati nel 2006 dall'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) sui prezzi e, dall'altro, invece, la scadenza nel 2008 di alcuni importanti brevetti di medicinali con un risparmio che è stato stimato dall'AIFA in 411 milioni di euro. Naturalmente, per la Corte, si potrà valutare quanto al risultato finanziario complessivo possa corrispondere un reale avvio del recupero di controllo della spesa nei settori critici solo una volta che si disporrà dei dati relativi ai Piani di rientro. Antonio G. Paladino __________________________________________________________ Avvenire 29 mag. ’08 AIDS CACCIA AL VACCINO: DELUSIONI E SPERANZE Quasi venticinque anni di ricerche non sono bastati per trovare un vaccino che sia in grado di fronteggiare l'infezione da Hiv, che continua a mietere vittime: nel 2007 erano 33 milioni le persone che convivevano con il virus (circa 2,5 milioni i nuovi casi), e oltre due milioni sono stati coloro che hanno perso la vita. Una calamità gigantesca per il futuro dell'umanità, che interpella in una sfida epica la ricerca scientìfica: non bastano i farmaci, ci vuole un vaccino. Dalle fiduciose parole del ministro della Sanità statunitense Margaret Heckler nel 1984 (sarà pronto per i test entro due anni), alle rinnovate promesse del presidente Bill Clinton nel 1997 (un vaccino entro un decennio), al fallimento della sperimentazione del prodotto studiato dall'azienda statunitense Merck in collaborazione con i National Institutes of Health (nel novembre 2007) la parabola sembra inesorabilmente in discesa. E, come rileva un articolo pubblicato sulla rivista «Science», si trattava solo del secondo vaccino candidato a completare i test di efficacia sull'uomo. Un editoriale su «Nature» in aprile segnalava la profonda riflessione, quasi una correzione di rotta, che molti scienziati cominciano a fare, consapevoli che ogni fallimento porta a perdere consenso in quegli osservatori, benefattori della ricerca e semplici cittadini (che pagano le tasse), dalle cui risorse vengono i fondi indispensabili per condurre gli studi. Al punto che la Aids Healthcare Foundation, un'organizzazione non profit, ha auspicato, in marzo, la fine dei test clinici per un vaccino contro l'Aids. Eppure lo stesso articolo di «Science» spiega anche perché esistono motivi dì ragionevole speranza e valutazioni di ordine socioeconomico che spingono a continuare gli sforzi verso lo studio di un vaccino. «Del resto la strategia di cercare un vaccino contro una malattia virale - osserva Roberto Cauda, direttore dell'Istituto di malattie infettive del Policlinico universitario «Gemelli» di Roma - viene sempre perseguita (anche perché vi sono pochi farmaci antivirali) e in alcuni casi ha dato ottimi risultati: vaiolo e poliomielite, per esempio, sono quasi scomparsi grazie alla vaccinazione». «Inoltre - rileva Addano Lazzarin, direttore del Dipartimento di Malattie infettive dell'Istituto scientifico universitario San Raffaele di Milano - occorre dare una risposta al fatto che, nonostante l'Aids si possa curare con la terapia antiretrovirale, nei Paesi dell'Africa subsahariana (dove si concentra la stragrande maggioranza dei soggetti infetti, 25 milioni di persone) i costi dei farmaci sono insostenibili, anche se si fa ricorso ai generici». L'articolo di «Science» illustra perché finora il vaccino contro l'Hiv è stata una sfida persa. Lo scopo di un vaccino (con virus vivo attenuato, con virus ucciso o con particelle virali ricombinanti) è esporre il sistema immunitario all'agente patogeno senza danni, in modo da suscitare la memoria delle caratteristiche dell'aggressore, che sarà quindi rapidamente riconosciuto se si ripresenta. La principale barriera protettiva è quindi lo sviluppo di anticorpi neutralizzanti, che aggrediscono il virus prima che questo possa infettare le cellule. D vaccino può anche suscitare una reazione dell'immunità cellulare, che porta i linfociti T (un gruppo di globuli bianchi incaricati di aggredire agenti patogeni) a individuare le cellule infettate (grazie ad antigeni del virus presenti sulla superficie della cellula stessa) e a distruggerle. Si tratta, in questo secondo caso, di un vaccino «terapeutico», nel senso che non impedisce l'infezione, ma aiuta a contenerla efficacemente. «Molti vaccini peraltro - osserva Cauda - ottengono entrambi i risultati». Nell'approntare un vaccino contro l'Aids il primo obiettivo non è stato raggiunto, anche per l'estrema variabilità delle proteine di superficie del virus: nessun candidato vaccino che punti allo sviluppo di anticorpi neutralizzanti si trova al momento in avanzati studi clinici. «Anche se prima di parlare della variabilità del virus - puntualizza Lazzarin - va riconosciuto che non si è ottenuta risposta per un solo ceppo virale: anche per l'influenza il virus cambia ogni anno, ma noi modifichiamo il vaccino e otteniamo risposta. Per ora manca proprio un vaccino efficace». La ricerca si è quindi concentrata sulla possibilità di suscitare la risposta dei linfociti T, ma altre difficoltà insorgono. La prima è che l'Hiv è un virus che attacca proprio il sistema immunitario: lasciarlo penetrare nelle cellule significa avere grandi problemi nel generare la risposta capace di combattere il virus. L'altra è che il virus ha sviluppato enormi capacità di eludere, nascondendosi, l'attacco dei linfociti T. «È il motivo per cui attualmente - spiega Cauda - con i farmaci l'infezione si controlla abbastanza bene, ma non si guarisce: il virus si nasconde in "santuari" all'interno delle cellule, che non sono raggiungibili dalle terapie». Da dove nascono, allora, le ragioni della speranza? Da tre fatti: innanzitutto in alcuni modelli animali è stata ottenuta una protezione a lungo termine contro 1 infezione del virus. Si trattava di vaccini con virus Hiv vivo attenuato, considerato troppo pericoloso per l'uomo: ma dimostra che si può ottenere un controllo duraturo. «Però - osserva prudente Cauda - potrebbe trattarsi di animali meno recettivi verso il virus». In secondo luogo c'è l'esistenza di alcuni individui infetti che sviluppano anticorpi neutralizzanti i quali, trasfusi in modelli animali, si sono dimostrati capaci di indurre una immunità. Infine, il fatto che ci sono persone, infettate dal virus Hiv, che non sviluppano la malattia conclamata, perché mantengono un basso livello di replicazione (moltiplicazione) virale attraverso un controllo esercitato dal loro sistema immunitario. Proprio questi soggetti, secondo Lazzarin, rappresentano il vero motivo di maggiore ottimismo: «È importante sapere che c'è un modello umano su cui fare la corsa per studiare il vaccino. Il problema è che in questi individui non c'è un meccanismo specifico che permette loro di controllare l'infezione, ma un complesso di caratteristiche che è difficile trasferire in un vaccino». Eppure, sottolineano Bruce Walker e Dennis Burton su «Science», non è il momento di arrendersi. Ira i consigli che i due autori forniscono, quello di riprendere studi di base con l'interazione tra diverse competenze per comprendere a fondo i meccanismi che portarono al successo i vaccini per le altre malattie e di non affrettare le sperimentazioni cllniche su vasta scala. Vincere la sfida contro l'Aids, ripetono, è un'assoluta necessità, e le aspettative suscitate nell'opinione pubblica e poi deluse possono avere ripercussioni sull'intero mondo della ricerca scientifica. __________________________________________________________ Il Sole24Ore 27 mag. ’08 OSPEDALI, LA SPA NON È TUTTO Caro direttore, l'intervento di Giuseppe Rotelli, presidente del gruppo San Donato «I conti in ordine curano la sanità» è occasione preziosa per qualche riflessione su ospedali, costi e buone cure. e Davvero quanto si spende per la sanità in Italia basterebbe ad assicurare a tutti gratuitamente tutto quello che serve? Sì. In medicina l'offerta di prestazioni è teoricamente illimitata, ma i soldi pubblici no, e allora bisogna fare delle scelte. Con quali criteri? Fondamentalmente due: efficacia e efficienza. Vuol dire che i medici si dovrebbero dedicare alle cure che funzionano ma evitare tutto quello per cui non c'è evidenza che serva agli ammalati. E se cure diverse sono altrettanto efficaci si devono scegliere quelle che costano di meno. Se tutte le organizzazioni di salute pubbliche e private si attenessero a questi principi, le risorse che il Governo mette a disposizione per la sanità basterebbero. r Davvero i bilanci delle Aziende ospedaliere dovrebbero essere sottoposti alla disciplina del Codice Civile? Sì. Qualche anno fa un gruppo di medici della Lombardia ha preparato un «Manifesto per la rinascita della sanità» che diceva fra l'altro: «Gli Ospedali vanno riconosciuti come imprese art. 2082 del codice civile e art. 41, 43 della norma costituzionale, così anche le aziende ospedaliere pubbliche potrebbero operare con i criteri propri dell'imprenditorialità privata. Si ridurrebbero i vincoli di oggi e si potrebbe operare con i criteri e la flessibilità propri delle imprese private». Ma quella dell' ospedale è impresa particolare il cui fine non è la sopravvivenza, la crescita e il profitto, ma la cura e la tutela della salute. Rotelli ha assolutamente ragione, si spreca negli ospedali e non lo si dovrebbe fare più, ma l'idea che il pubblico sprechi e il privato porti efficienza e buone cure è sbagliata. t Davvero per avere il bilancio in ordine serve trasformare gli Ospedali in Spa? Non è detto, Alitalia per esempio è società per azioni. I conti possono essere in ordine con la normativa che c'è, basta saper gestire con efficacia e efficienza. E nemmeno è vero che Ospedali Spa sarebbero svincolati da procedure di legalità. Le società per azioni di diritto pubblico sono comunque soggette alle procedure legali imposte dall'Unione Europea (lo ha ribadito la Corte di giustizia e la magistratura italiana) e vale specialmente in materia di affidamento di beni e servizi, ristrutturazione e costruzione di ospedali. Rotelli dice che gli Ospedali Spa potrebbero mantenere «la proprietà totalmente pubblica». Perché? Se tanti ammalati scelgono strutture private, perché non investire sempre di più nel privato e sempre meno nel pubblico? Una ragione ci sarebbe: la logica del mercato - la Lombardia per esempio ha puntato tutto sul mercato in nome della libertà di salute del cittadino - non si applica all'impresa di salute, che non dovrebbe lavorare per aumentare il fatturato, ma per ridurlo. u Davvero molti problemi si risolverebbero se si adottassero modelli di organizzazione più flessibile? Certamente. E si è anche provato a farlo con la legge del '95 quando il consiglio di amministrazione degli ospedali è stato sostituito da un direttore generale. Doveva dare dinamicità, rispondere in prima persona delle sue scelte (e del bilancio). Ma presto ci si è accorti che direttori generali si diventa solo se vicini a questo o quel partito. A loro volta i direttori generali scelgono i primari e i direttori di dipartimento privilegiando il criterio di appartenenza politica piuttosto che le competenze. È necessario invece separare la politica dalla gestione e scegliere i direttori delle Asl e degli Ospedali sulla base delle competenze. i Davvero gli ospedali si potrebbero rifare senza sborsare nulla, se si adottassero misure di project financing? No, non del tutto per lo meno. Il project financing va bene per attività tecnico-economali (pulizia, manutenzione, riscaldamento, attrezzature): queste si possono affidare a ditte esterne che gestiranno i servizi per il periodo che serve. Ma le attività di diagnosi e cura non andrebbero affidate all'esterno. La missione di chi risponde a ditte esterne è quella della società che li paga, che quasi mai coincide con quella dell'ospedale. «Ma se sono bravi e fanno le cose bene, non basta?» No. Quando gli ospedali avranno appaltato all'esterno le attività del laboratorio, dell'anatomia patologica, della radiologia e tante altre lo si capirà meglio. Da anni certi ospedali degli Stati Uniti appaltano a società esterne anche la dialisi. Qualcosa si risparmia. Capita però che medici dagli Stati Uniti vengano da noi per capire perché i nostri malati con la dialisi vivono più di vent'anni, anche trenta, anche di più. Negli Stati Uniti non succede quasi mai. o Davvero il problema non sono i soldi ma è la volontà politica? Certamente. E cosa si può fare per cambiare le cose? Poco, specie di questi tempi. Questo è il primo governo in cui non c'è il Ministero della Salute. Il bilancio della sanità - circa cento miliardi di euro - sarà quasi completamente devoluto alle Regioni. Per un certo verso è un bene. Identificare i bisogni di salute della Lombardia o della Toscana, progettare gli interventi e finanziarli lo si fa meglio da Milano o da Firenze che da Roma. Ma di Regioni in Italia ce ne sono di grandi e piccole, di ricche e povere, di ben organizzate e non. È giusto che subito dopo il parto un bambino abbia meno probabilità di morire se nasce in Veneto che non se nasce in Sicilia? Della politica c'è davvero bisogno, per ristrutturare o ricostruire ospedali obsoleti, certo, ma forse ancora di più perché tutti in questo Paese se hanno malattie gravi abbiano le stesse probabilità di essere curati bene. Giuseppe RemuzziOspedali Riuniti/Istituto Mario Negri, Bergamo Francesco Provera ex direttore del Servizio Ospedali della Regione Lombardia e direttore generale dell'A.O. Ospedali Riuniti di Bergamo IL DIBATTITO Proposta. Giuseppe Rotelli, sul Sole 24 Ore del 20 maggio, ha lanciato l'idea di trasformare gli ospedali in Spa __________________________________________________________ L’Unione Sarda 24 mag. ’08 PSICHIATRIA -TRONCI: LA CALLIPHORA SOTTO IL CERONE di Antonio Tronci* Sulla replica del prof. Gessa, pubblicata martedì scorso: i friulani straricchi e megafinanziati, che vogliono indottrinarci, al di là della sua esibizione di variabili sul suicidio, in 30 anni di lavoro "basagliano" continuano a detenere il record di auto-soppressioni. Punto. Riguardo alla ripetutamente sottolineata necessità di competenze che cita per alludere alla ignoranza del sottoscritto: caro prof., non mi interessa affatto esser dotto né collezionare nozioni o conoscenze, soprattutto per poi asservirle alla protezione dei potenti, non ho simpatia per gli "intellettuali", non aspiro a diventarlo e mi piaccio molto di più da ignorante quale sono. Tengo peraltro molto alla parola data. Non so se ne sappia qualcosa chi se l'è mangiata già due volte. Ultima di cronaca: la CGIL, indomito difensore dei diritti dei potenti, ha appena istituito la prima edizione del premio "Franco Basaglia". Nominations ? Eravamo la solita cricca, direbbe il conte Tacchia. Lascio immaginare al lettore. Intanto la signora Gisella Trincas, impegnata a calcare i palcoscenici della ribalta politica, esprime una devozione verso gli importatori del modello triestino, fortunosamente tradottasi in 40.000 euro nel 2005 (del. N. 45/12 del 27.09.05), più 76.000 nel 2006 (del. N. 37/11 del 13.09.06) per l'associazione ASARP Onlus, la quale, nonostante l'esplicito divieto espresso nella finanziaria 2001, usufruisce in comodato gratuito dell'intero Padiglione E dell'Ospedale Psichiatrico (11 locali). La patetica propaganda di regime dei presunti "saperi", delle presunte "competenze" e dei sedicenti "percorsi di guarigione" dei nostri rieducatori, cozza. Cozza con i 14 mesi di carcere costati al giovane Simone per la gita-terapia blablablà sostituita ai farmaci (e il diritto alla cura?). Cozza peraltro miseramente anche con le due fughe e l'impiccagione avvenute nello spazio di una settimana di personalissima gestione "Del Giudice" del reparto psichiatrico che continua a non rispettare le norme di sicurezza; impiccagione (passata sotto silenzio) sventata solo per puro caso da un degente entrato nella propria camera quando il paziente in questione era già appeso per il collo alla cornice di alluminio di una finestra. Cozza con l'emergenza del minacciato suicidio di Luca con la fiocina del fucile sub alla gola davanti al reparto, per diverse ore nel corso delle quali la dottoressa Del Giudice, massima autorità del DSM, restava rintanata all'interno dello stesso, senza degnarsi di intervenire quantomeno per supervisionare la grave emergenza. Cozza con la ennesima onanistica celebrazione nel reparto, nel corso della quale si festeggiava, con pasticcini e musica a volumi da discoteca, mentre tutti i gravi pazienti ricoverati si ritiravano, invasi e infastiditi, nelle proprie camere, affatto coinvolti da una festa fatta per celebrare gli organizzatori e il grande direttore Gumirato intervenuto come "special guest" per marcare il territorio del SPDC appena espugnato. Cozza, ancora, con la demolizione delle storiche equipe territoriali, che ha frantumato migliaia di lunghi e preziosi rapporti terapeutici con i pazienti mandandone allo sbando un numero impressionante (e il diritto alla cura?). Si aggiunga il diktat: vietato prendere in carico i pazienti non "psicotici gravi". Ossia: niente specialista per i pazienti con altre gravi patologie, i quali devono prendere atto di non esistere più come persone sofferenti (e il diritto alla cura? Il primato triestino nei suicidi sarà un caso?). I numeri della catastrofe li forniscono, su un articolo del 12 aprile scorso di Matteo Vercelli, gli stessi occupatori i quali ammettono che, per esempio, nel territorio di competenza dei CSM Cagliari-Assemini si passa da 3578 pazienti in carico nel 2006 ai 1878 attuali. La sparizione dei pazienti viene comicamente attribuita al fatto che non si farebbero più "trattamenti forzati in istituti chiusi": tanto, il popolo bue che legge i quotidiani, pensano i nostri social-Silvan, non capisce mica che le "prese in carico" nei CSM nulla hanno a che vedere con i ricoveri, volontari o meno, presso il SPDC (reparto). Insomma si trasformano le prese in carico in prese per i fondelli. Così i desaparecidos del territorio in questione (circa 1700), la metà dei pazienti di due anni prima, vengono cancellati come quando ci si libera della spazzatura. A proposito di ingiustizie e persecuzioni: in questi giorni ricorre il ventennale della morte di Enzo Tortora, per la quale non ha mai pagato nessuno. Se il cerone di regime non riesce a mascherare i miasmi di una amministrazione in tale avanzato stato di decomposizione, i "triestini" procedono comunque indisturbati dalle calliphore brulicanti, sostenuti dal doppiogiochismo dei politici (anche l'ultimo Atto Aziendale ci nega la scissione del SPDC), con la poderosa operazione di propaganda- maquillage . Tutte credenziali per le prossime terre di conquista: chi l'ha detto che il Basaglioma metastatizzi con difficoltà? Intanto vai col cerone! "La morte ci fa belli", è il segreto della magia triestina. Psichiatra - SPDC (borderline@tiscali.it) __________________________________________________________ La Nuova Sardegna 26 mag. ’08 TUMORI, SCOPERTI CENTO NUOVI GENI Consentiranno di studiare farmaci oncologici molto più efficaci SCIENZA Pubblicazione di «Nature» Già quattordici di quelli studiati si sono rivelati indispensabili allo sviluppo di molte neoplasie ROMA. “Sgominata” una nuova famiglia di 100 geni legati al cancro: prendono ordini direttamente dai’boss’ dei tumori, gli oncogeni responsabili di innescare il processo tumorale, ma sono ancora sani e’rieducabili’. La loro scoperta traccia una “roadmap” verso una nuova generazione di farmaci oncologici, anche contro quei tumori resistenti ai farmaci oggi in uso. Secondo quanto riferisce la rivista Nature, si tratta di 100 geni che cooperano insieme in risposta ai comandi degli oncogeni per far crescere il male. Già 14 tra quelli studiati finora si sono rivelati indispensabili allo sviluppo di molte neoplasie. Battezzati’geni di risposta cooperativa’ (cooperation response genes - CRGs), sono stati isolati dall’equipe di Hartmut Land, professore dell’Università di Rochester e direttore scientifico del James Wilmot Cancer Center dell’ateneo, un pioniere della ricerca sul cancro che, 25 anni fa, fu tra i primi a capire che le neoplasie sono il risultato di un processo di mutazione multipla a carico di più geni. La particolarità di questa nuova’gang’ di geni é che, pur avendo un ruolo critico nella crescita del male, sono del tutto sani. Il loro torto, quindi, é solo trovarsi a diretto servizio dei’boss’ del tumore, gli oncogeni, che però, senza i loro’aiutanti’, non risulterebbero così pericolosi. «La nuova famiglia traccia una roadmap verso una nuova generazione di terapie mirate - ha detto Land all’Ansa - soprattutto per i tumori più resistenti ai farmaci». Gli oncogeni sono i geni del cancro per eccellenza. Sono mutati per difetti ereditari o acquisiti, per esempio a causa di esposizione scorretta al sole o per altri fattori ambientali e comportamentali. Sono geni chiave dello sviluppo cellulare e regolano la normale crescita del corpo, per questo le mutazioni a loro carico danno il via al cancro. Un esempio tipico é p53, una proteina’freno’ normalmente accesa per evitare che le cellule si moltiplichino troppo e, dunque, per frenarne la crescita. Se p53 si danneggia si determina allora un tumore, e anche dei più resistenti perché, senza freno, le cellule crescono a briglia sciolta. Tuttavia gli oncogeni da soli non hanno grande potere. La loro potenza risiede nel fatto che sono a capo di una’montagna’ di geni che costituiscono gli ingranaggi fondamentali della moltiplicazione cellulare. E’ proprio mettendosi sulle tracce di questi’scugnizzi’ alle dipendenze dei’boss’ del cancro che gli scienziati Usa hanno scoperto i CRG: in tutto 100 geni che rispondono sinergicamente ai comandi di alcuni dei più importanti oncogeni noti da anni come RAS e p53. Finora gli scienziati ne hanno studiati a fondo 24 e, di questi, 14 sono risultati cruciali per la formazione dei tumori. La differenza con gli oncogeni é non solo marcata ma anche determinante per fare dei CRG un bersaglio importantissimo di nuove terapie anticancro mirate e senza effetti collaterali. Infatti, mentre gli oncogeni sono malati, rotti, irreparabili, «i geni di cooperazione sono invece del tutto sani - spiega Land - e, resettandone il normale livello di attività, si può bloccare facilmente la crescita del male». Ciò «rappresenta un’opportunità di intervento enorme in futuro - rileva Land - e la nostra scoperta traccia dunque una roadmap per una nuova generazione di terapie mirate». __________________________________________________________ Repubblica 29 mag. ’08 IL RUMORE FA AMMALARE Gli effetti negativi riguardano tutto il corpo Indagini recenti rivelano che l'inquinamento acustico induce squilibri nei sistemi di controllo della pressione e degli ormoni di Francesco Tomei * L'inquinamento acustico è l'insieme degli effetti negativi prodotti dal rumore generato dall'uomo nell'ambiente urbano e naturale e capace di influire in modo rilevante su molti aspetti della vita quotidiana, dal benessere psicofisico delle persone al lavoro. Studi recenti dimostrano che il rumore è oggi una delle principali cause del peggioramento della qualità della vita nelle città, in particolare in quelle grandi. L'inquinamento acustico è prodotto da innumerevoli fonti. Oggi le principali sorgenti di rumore possono essere identificate nel traffico stradale, nelle ferrovie, nel traffico aereo, nell'industria, nei cantieri, nella vita domestica ecc. Il traffico stradale è identificato come la principale causa di rumore nei paesi industrializzati. Uno studio dell'Unione Europea ha evidenziato che su circa 200 milioni di cittadini comunitari circa il 60% è esposto a emissioni sonore prodotte da traffico stradale superiori a 55 dB (decibel), mentre il 39% sopporta livelli acustici pari a 60 dB, intensità per le quali si determinano effetti negativi in vari apparati del corpo umano. La sovraesposizione al rumore provoca problemi particolarmente gravi alle persone, causando alterazioni fisiologiche e/o patologiche che variano in funzione delle caratteristiche fisiche del rumore e della risposta dei soggetti esposti. Qualora l'esposizione sia temporanea, queste alterazioni possono regredire. L'entità e la durata sono inoltre determinate in parte dalla sensibilità individuale, dallo stile di vita e dalle condizioni ambientali. In seguito ad esposizioni prolungate ad elevati livelli di rumore si possono sviluppare effetti permanenti quali ad esempio ipertensione o cardiopatia ischemica. Mentre gli effetti sul sistema uditivo nell'ambiente di lavoro sono facilmente riconducibili al rumore e sono identificati e denunciati dal medico del lavoro competente, è da rilevare invece che i danni ad altri organi e apparati (effetti extra-uditivi) causati da rumore sono di gran lunga sottostimati, sia negli ambienti di lavoro che negli ambienti di vita, persino da parte degli specialisti. I maggiori effetti extra-uditivi si manifestano sull'apparato cardiovascolare (ad esempio ipertensione arteriosa), sull'apparato digerente (variazioni della secrezione gastrica), sul sistema nervoso centrale (ad esempio fatica cronica), oltre che sui livelli di vigilanza e attenzione (riduzione), solo per citare i più importanti e con maggiori conseguenze. Mentre fino a qualche decennio fa le ricerche erano scarse e i risultati incerti, oggi la letteratura scientifica documenta in maniera inequivocabile che il rumore è in grado di determinare effetti su vari organi e apparati, non solo sull'orecchio. Una recente rassegna effettuata dal nostro gruppo, in corso di pubblicazione su Il Giornale Italiano di Medicina del Lavoro ed Ergonomia, ha analizzato i lavori scientifici inerenti agli effetti extra-uditivi del rumore pubblicati nell'ultimo decennio, oltre le ricerche effettuate dalla nostra Scuola. Mentre viene valutato, ma sottostimato, l'effetto sinergico tra rumore e sostanze ototossiche negli ambienti di lavoro, non viene neanche preso in considerazione il fatto che anche negli ambienti di vita vi possa essere una sinergia tra rumore e sostanze ototossiche presenti nell'aria. Critica è la situazione per quanto riguarda l'inquinamento acustico urbano. In città, pur essendo l'intensità del rumore di gran lunga inferiore a quella presente negli ambienti di lavoro, pur tuttavia si verifica un effetto sinergico tra rumore, agenti chimici e agenti ototossici, particolarmente dannoso in quanto, a differenza che nei luoghi di lavoro (esposizione lavorativa circa 40 ore a settimana), la popolazione generale non si può sottrarre all'esposizione. E in questa vi sono anche soggetti molto più vulnerabili della popolazione in età lavorativa, come bambini, anziani, malati, per i quali non è previsto nemmeno il monitoraggio sanitario preventivo che si applica invece per i lavoratori. * Professore ordinario di Medicina del Lavoro direttore della scuola di specializzazione Università La Sapienza, Roma