L' OCSE: ITALIA PEGGIO DEL CILE POCHE LAUREE E PROF MALPAGATI SENZA FONDI E PROGETTI L' UNIVERSITA' NELL' OMBRA UNIVERSITÀ, LA RIVINCITA DELL' EUROPA TEST D’INGRESSO, LE POLEMICHE MEDICINA, STUDENTI SEMPRE SOMARI FUGA DALLUNIVERSITA': PORTE SBARRATE AI GIOVANI RICERCATORI. MODICA: L'UNTVERSITÀ IN GINOCCHIO CAGLIARI: VIETATO LAUREARSI». STUDENTI IN RIVOLTA IN RETTORATO BOLOGNA: ATENEO CON IL CODICE ETICO SI RIEMPIE DI PROF FIGLI D'ARTE ======================================================= SSN: OSPEDALI IN CALO, SPESE IN CRESCITA Annuario 2006: MEDICI IN STALLO (+0,2%), PERSONALE TA IN CALO (-1,6%) INFERMIERI IN CRESCITA DEL 5% ANNUARIO 2006/ LABORATORI: SOCIETÀ PIGLIATUTTO ANNUARIO 2006/ RADDOPPIANO LE CURE A CASA LA SANITÀ E LA LOTTA AGLI SPRECHI ERBE, AGHI E MASSAGGI GLI SCIENZIATI DIVISI AZIENDA MISTA SASSARI NOMINATO RENATO MURA BRUNETTA: OPERAZIONE VERITÀ SUI MEDICI: ONLINE LE LORO CARRIERE CERTIFICATI SANITARI A NORMA DI PRIVACY SANITA’: PER I GOVERNATORI SERVONO 9,4 MILIARDI ERRORI, CONTO SALATO PER GLI USA SULL'ERRORE DEL MEDICO IL PAZIENTE «CONCILIA» UNA CARTELLA CLINICA PER OGNI STRUMENTO IL BILANCIO DEGLI SCREENING ONCOLOGICI PIÙ CURE PER IL TUMORE AL COLON NEUROBICA Il cervello va in palestra PREVENZIONE CARDIOVASCOLARE SARDI BERSAGLIATI DALLE MALATTIE DELLA TIROIDE SLA, IN SARDEGNA IL RECORD MONDIALE IL MISTERO DELLA SCLEROSI LATERALE FEGATO:CON L' ONDA ELASTICA SI EVITA LA BIOPSIA ======================================================= ____________________________________________________________ Corriere della Sera 10 Sett. ‘08 L' OCSE: ITALIA PEGGIO DEL CILE POCHE LAUREE E PROF MALPAGATI Nuovo dossier sulla scuola. Ma l' 80% dei genitori è soddisfattoLe nostre maestre fanno 735 ore l' anno contro le 812 delle straniere. E in Europa si laureano il doppio dei ragazzi ROMA - Surplus di investimenti alle elementari e drammatica scarsità di investimenti all' università. Che proprio non va. Quanto a produzione di laureati, missione principale degli atenei insieme alla ricerca, siamo messi peggio del Cile. È l' immagine del nostro sistema formativo che emerge dall' ultimo rapporto Ocse, dell' Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Il tema scuola, intanto, diventa sempre più caldo, nonostante la fine della polemica tra il ministro dell' Istruzione e il leader leghista, che aveva criticato il passaggio dal team al singolo docente. «Bisognava fare un maestro unico, io sono d' accordo», ha precisato il ministro per le Riforme. E poi ha ribadito: «Certo con un maestro unico sbagliato si rischia di rovinare i ragazzi e quindi è meglio avere tanti insegnanti ma costa troppo». La Gelmini ha apprezzato le parole di Bossi. Pace fatta nella maggioranza, ma contro i tagli si preparano a scendere in campo opposizione e sindacati. Il Pd prevede la chiusura di 4000 scuole, di cui mille in Padania. E Walter Veltroni annuncia una mobilitazione per il 26, 27 e 29 settembre, che culminerà con un' iniziativa che coinvolgerà cento città. Il leader della Cgil, Enrico Panini, non esclude lo sciopero generale. La scuola elementare italiana, però, è tra le migliori del mondo secondo l' Ocse. Si attesta tra l' ottavo e il quinto posto. Ma l' indagine appena pubblicata non tiene conto dei risultati dei bambini. Analizza l' organizzazione, la sua razionalità. E scopre delle contraddizioni. Secondo il dossier, i salari delle nostre maestre si collocano al sesto posto nella graduatoria dei 30 Stati dell' Ocse. Non sono certo i più alti. In cambio, però, le nostre maestre assicurano 735 ore di lezione all' anno contro le 812 delle colleghe straniere. Meno ore, meno costi? No, perché abbiamo tante classi e quindi tanti docenti. Le classi delle elementari sono composte mediamente da 18,4 bambini, contro i 21,5 della media Ocse. I nostri alunni, inoltre, devono restare più tempo nelle aule: 990 ore l' anno contro le 796 ore della media Ocse. Anche per questo occorrono più docenti. Il risultato: nelle elementari l' Italia spende 6.835 dollari l' anno a studente, contro una media di 6.252. Per gli esperti dell' Ocse i conti non tornano. Il costo per studente diminuisce man mano che si sale nei gradi dell' istruzione. Alle medie il nostro sistema d' istruzione costa 7.648 dollari l' anno contro i 7.804 della media Ocse. Diminuisce ancora al liceo. All' università emerge il divario più consistente: spendiamo 8.026 dollari per studente contro gli 11.512 della media Ocse. Difficile dire se dipenda solo dal minor investimento, ma la produttività del nostro sistema è decisamente tra le peggiori. In fatto di laureati e specializzati siamo superati da Cile e Messico. Occupiamo un posto in fondo alla classifica, in compagnia di Brasile, Turchia, Repubblica Ceca e Slovacchia. In Italia solo il 17 per cento della popolazione tra i 24 e i 34 anni ha conseguito una laurea, percentuale che scende al 9 se si prende in considerazione la fascia di età tra i 55 e i 64 anni. Siamo sotto la media Ocse: 33 per cento di laureati - quasi il doppio - tra i giovani tra i 25 e i 34 anni e 19 per cento - oltre il doppio - tra i più anziani. Benedetti Giulio ____________________________________________________________ Corriere della Sera 15 Sett. ‘08 SENZA FONDI E PROGETTI L' UNIVERSITA' NELL' OMBRA Ha fatto bene il Corriere a dare tanto rilievo all' edizione 2008 del Rapporto Ocse sull' istruzione. Non perché racconti una storia molto diversa da quella del 2007 o metta a disposizione dati ignoti a chi si occupa di queste cose. Ma perché ogni occasione è buona, e questa era ottima, per mettere in allerta l' opinione pubblica su un tema di grande importanza per lo sviluppo economico, il benessere dei cittadini, la giustizia sociale, la qualità della società civile e della stessa democrazia. Di questo si tratta quando si parla di istruzione. E per questo è grande lo sconforto nel constatare che il nostro Paese occupa un posto così basso nelle classifiche che l' Ocse compila sui più diversi indicatori. E quando il posto non è basso, come non lo è per il numero di insegnanti o la spesa per allievo nella scuola media, lo sconforto è ancor maggiore perché l' efficacia dell' insegnamento misurata attraverso esami confrontabili ci fa di nuovo ripiombare negli ultimi posti della classifica. Limito il commento all' Università, che è il segmento che conosco meglio e sul quale il rapporto Ocse concentra le maggiori critiche. A differenza della scuola, è quello in cui la spesa per studente è inferiore alla media; il tasso di abbandono è superiore; la capacità di attrazione di studenti stranieri è infima; gli iscritti sono sì molto cresciuti, ma lo è assai meno la percentuale di laureati sulle fasce d' età più giovani: in ogni caso siamo sempre ben al di sotto degli altri Paesi avanzati. Un pessimo risultato per una grande nazione europea, la culla della civiltà occidentale come i politici amano ricordare, sempre aggiungendo che l' istruzione è la migliore carta che possiamo giocare per stimolare la crescita. A queste affermazioni corrispondono poi disegni, programmi, azioni concrete? Lascio da parte una valutazione del precedente ministro dell' Università: negativa, anche se a sua scusante può invocare la fragilità del governo di cui era parte e la sua breve durata. Il governo in carica è però robusto e sembra destinato a durare: qual è il disegno del ministro Maria Stella Gelmini? Per ora vediamo azioni, previste in alcuni articoli del super-decreto legge tremontiano di finanza pubblica, il ben noto 112/88: azioni gravide di conseguenze, ma di un disegno di lungo periodo neppure l' ombra. Il fondo di finanziamento ordinario delle università viene progressivamente ridotto e le assunzioni di personale tagliate: insomma, le «bestie-atenei» vengono affamate. Dove possono rivolgersi per nutrirsi? Si trasformino in Fondazioni di diritto privato - questa è la risposta dell' articolo 16 -, diventino più efficienti e cerchino risorse nella società civile: hanno voluto l' autonomia? La usino. «Maestà, il popolo non ha pane (pubblico). E allora si nutra di brioches (private)»: come non ricordare la famosa battuta attribuita a Maria Antonietta di fronte a questa operazione? Non vorrei suscitare equivoci. Tagli erano inevitabili, soprattutto nella scuola, dove non possiamo permetterci un rapporto docenti/studenti così elevato. Ma nell' università la situazione è semmai squilibrata in senso opposto e occorreva essere cauti nell' affamare: di inedia si può morire, se le brioches delle Fondazioni non funzionano. Funzioneranno? Come facciamo a saperlo se non ci viene presentato un programma di legislatura che disegni un percorso di transizione dalla situazione attuale ad una futura e più soddisfacente? Una road map, come si dice adesso. Non ce l' ho per principio contro l' idea delle Fondazioni, avanzata tempo addietro da due stimabili colleghi, Gianni Toniolo e Nicola Rossi. Né ce l' ho contro l' idea di immettere «più privato» nell' istruzione superiore: il gatto sia pure rosso o nero, purché prenda i topi. Ma in un Paese serio una grande riforma è sempre preceduta da una discussione di merito approfondita e razionale, spesso avviata da un documento ministeriale di un certo impegno: un libro verde, o qualcosa di simile, come Maurizio Ferrera non si stanca di ripetere. L' ha fatto Sacconi per il welfare, non poteva farlo Gelmini per l' Università e per la scuola? Per la scuola poteva partire dall' eccellente «quaderno bianco» dei ministeri dell' Economia e dell' Istruzione del precedente governo. Molti materiali ufficiali sono disponibili anche per l' Università e delle riflessioni di alcuni tra i più noti studiosi del problema fa una buona rassegna il libro di Moscati e Vaira, pubblicato quest' anno dal Mulino. Forse non sono gli studiosi cui il ministro fa riferimento, forse preferisce le tesi più radicali esposte da alcuni noti economisti della Bocconi. In via generale, ma soprattutto in questo caso, ci dia un' idea del percorso, passo per passo, prendendo posizione sul gran numero di problemi sui quali dovrà intervenire per arrivare ad una meta così distante dalla situazione attuale. Solo così saremo in grado di distinguere le resistenze conservatrici che ogni riforma importante incontra, e che devono essere superate, dalle obiezioni che devono essere discusse seriamente e sulle quali le forze politiche devono prendere posizione. Salvati Michele ____________________________________________________________ Corriere della Sera 19 Sett. ‘08 UNIVERSITÀ, LA RIVINCITA DELL' EUROPA STUDIARE ALL' ESTERO MOLTI I CORSI IN INGLESE NEL VECCHIO CONTINENTE. DA FARE INVIDIA AGLI USA Germania e Paesi scandinavi primi per qualità e prezzi contenutiE tra le business school Copenhagen e Stoccolma vantano strutture e servizi di livello elevato e rette contenute La laurea all' estero non è più un miraggio. Chi conosce l' inglese, oggi, fuori dai confini nazionali ha un' ampia scelta di università pubbliche che hanno ottima reputazione e tasse ragionevoli. Il miglior rapporto qualità-prezzo? Gli esperti non lasciano dubbi: si trova nell' Europa continentale. Il sistema d' istruzione del Centro Nord offre qualità elevata, fee contenute e (ultimo, ma non meno importante) un buon numero di corsi in inglese, soprattutto dal secondo ciclo in su. «La Germania è la meta preferita dai nostri universitari, secondo i dati dello scorso anno», afferma Dario Consoli, direttore dell' agenzia di consulenza per gli studenti italiani che vogliono studiare all' estero Studentsworld. «E non è un caso: le lauree tedesche, in particolare quelle in economia e ingegneria, sono più riconosciute della nostra, almeno fuori dall' Italia e costano poco se non niente. L' iscrizione alla Freie Universität di Berlino, per esempio, non raggiunge i 500 euro all' anno e include il trasporto pubblico». Non sono, però, da meno i Paesi scandinavi, dove, tra l' altro, c' è un sistema d' accoglienza notevole (esistono persino borse di studio per chi studia la lingua locale). «Quello dell' università di Umea in Svezia è eccellente, infatti ha una percentuale di alunni internazionali altissima», commenta Dario Consoli. «Nel nostro settore la Copenhagen business school e la Stockholm school of economics hanno sicuramente strutture e servizi di livello elevato e rette contenute», aggiunge Andrea Sironi, prorettore all' internazionalizzazione della Bocconi. Ma, grazie alla relativa debolezza del biglietto verde, è da prendere in considerazione anche "l' ipotesi America". Infatti, se l' istruzione privata Usa è sempre costosissima, università pubbliche del calibro di University of California (per intenderci, il prestigioso Berkeley è uno dei suoi campus) fino alla University of Texas sono diventate più accessibili. «Certo, si pagano: il costo varia a seconda dalle facoltà, ma è intorno ai 15 mila dollari all' anno - racconta Dario Consoli -. Però offrono servizi che gli studenti italiani si sognano. Basti dire che normalmente nelle tasse sono inclusi dalla mensa all' accesso alle biblioteche fino alle strutture sportive. Mentre l' housing, se non è compreso, ha prezzi estremamente politici». Le più interessanti opportunità offerte dall' istruzione superiore statunitense sono, però, forse i Community college: strutture spesso pubbliche, da noi pressoché sconosciute (il più noto è il Santa Monica in California), ma famose Oltreoceano (tra gli ex alunni vantano grandi personaggi politici e dell' economia) che erogano due anni di università e rilasciano un "associate degree", l' equivalente di una nostra mezza laurea. «Sono ideali per gli studenti internazionali, perché aiutano molto gli alunni, li portano per mano, li fanno avanzare - assicura il direttore di Studentsworld -. Infatti, in genere, vengono scelti dai ragazzi americani che non sono riusciti a entrare nelle grandi università, ma il loro lavoro è tanto riconosciuto che, chi esce con voti molto alti, ha poi l' accesso diretto al terzo anno di qualsiasi ateneo». Tra i vantaggi dei community college, il prezzo: mediamente non si superano i 15 mila dollari annui, compreso housing e tutti i costi della vita. Va detto che anche gli atenei italiani, oggi, propongono importanti esperienze internazionali. «E' sicuramente uno dei vantaggi che offre Bocconi: ogni anno accogliamo 1200 studenti stranieri e ne mandiamo all' estero circa 2.400, se calcoliamo pure gli stage, realizziamo doublee degree (lauree doppie) con le migliori università europee e non solo, la metà dei nostri programmi sono offerti in inglese», sintetizza Andrea Sironi. Ma anche il "sistema pubblico" sta muovendosi velocemente in questa direzione. «La stragrande maggioranza delle università italiane ha rafforzato l' ufficio relazioni internazionali», commenta Raimondo Cagiano de Azevedo, delegato del rettore per le relazioni internazionali e i rapporti con la comunità europea della Sapienza. «Oggi, i nostri studenti vanno in tutto il mondo». * * * 500 euro, il costo dell' iscrizione alla Freie Universität di Berlino, trasporti pubblici inclusi *** 15 mila *** dollari l' anno, la retta delle migliori università pubbliche negli Stati Uniti d' America Barera Iolanda ____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 7 set. ’08 TEST D’INGRESSO, LE POLEMICHE Geografia e storia per diventare medici: «Quesiti necessari» Dove si trova il lago Trasimento? Chi ha scritto La scomparsa di Patò ? E Gente di Dublino ? Queste sono solo alcune delle 33 domande di cultura generale proposte tra le 80 presenti nel test di ammissione al corso di laurea in Medicina e Chirurgia. Ed è subito polemica. Perché in tanti sostengono che sapere chi ha progettato la Reggia di Caserta non debba essere importante quanto i quesiti di biologia, chimica, fisica o matematica. Per sostenere l’importanza della presenza di argomenti non specifici rispetto al percorso di studi che le matricole affronteranno, interviene Ernesto d’Aloya, docente di Medicina, membro della commissione che ha valutato i test di quest’anno. «La selezione in un campo delicato come la Medicina - spiega - deve necessariamente tenere in considerazione una serie di caratteristiche. Ovviamente le conoscenze scientifiche servono come base. Il buon medico, però, non deve avere solo una componente tecnica ma anche morale. Altrimenti si va a ricostruire un modello di medico entrato in crisi adesso. Spesso gli episodi di mala sanità sono non di carattere scientifico ma comportamentale. Scegliendolo soltanto dal punto di vista tecnico si rischia di fare una selezione che penalizza l’aspetto umano, che nella professione medica è un elemento di non secondaria importanza». Ma è vero anche che «a volte - aggiunge - le domande di cultura generale proposte non servono a scegliere la persona migliore». Anche se «hanno lo stesso tipo di punteggio rispetto a quelle scientifiche». D’Aloya, per questo, suggerisce una variante. «Lascerei identico l’aspetto scientifico della prova ma farei anche un test psico-attitudinale. Preferirei evitare di prendere uno studente psicotico o che ha problemi d’ansia depressiva, oppure un nevrotico, perché non farei un buon servizio alla comunità». Perché può succedere che «una persona disturbata prenda la laurea. Esistono medici che dal punto di vista psichico non sono molto bilanciati. In Medicina così come in tante professioni». Infine, il docente risponde alle polemiche affermando che «abbiamo a che fare con un atteggiamento schizofrenico della nostra società, che da un lato vuole il medico iper tecnico e dall’altro ha bisogno di una figura professionale che si interessi al paziente considerandola una persona e non un soggetto malato». STEFANO CORTIS ____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 18 set. ’08 MEDICINA, STUDENTI SEMPRE SOMARI Università. Matematica e fisica gli scogli maggiori. Solo a Sassari hanno fatto peggio Test disastrosi: Cagliari si piazza al 34° posto su 38 facoltà Risultati pessimi nonostante i corsi di preparazione organizzati da più parti. Le lacune maggiori registrate in matematica, fisica e chimica La scusa, “ i nostri ragazzi non sono abituati al metodo di valutazione del test ”, non sta più in piedi. Ancora una volta gli studenti diplomati nelle scuole superiori sarde mostrano le immense lacune in chimica, matematica e fisica ottenendo, al test d’ammissione alla facoltà di Medicina, risultati disastrosi: Cagliari, nel confronto con le altre 38 facoltà dove si sono svolte le prove con le stesse e identiche domande, si è piazzata al 34° posto. Sta peggio Sassari, fanalino di coda insieme all’Università del Molise. Non solo. Cagliari si scopre terra di conquista: dei 165 posti a disposizione, 14 sono andati a studenti siciliani, due a ragazzi lombardi e uno a un giovane arrivato dalla Puglia per il test d’ammissione. Il dieci per cento dei futuri medici formati dalla facoltà cagliaritana quindi non sarà sardo. SCONFITTA Insomma la prova andata in scena lo scorso 3 settembre alla cittadella universitaria di Monserrato, con la partecipazione di 1.153 studenti, si è trasformata in un’ecatombe che mette ancora una volta a nudo l’insufficiente preparazione dei diplomati sardi nel confronto con quelli della Penisola. Se venisse applicata la graduatoria nazionale sarebbero soltanto 98 i ragazzi che hanno svolto il test a Cagliari ad accedere alla facoltà di Medicina. Inevitabile il piazzamento agli ultimi posti, il quintultimo. Anche la media ottenuta dai diplomati è da piena zona retrocessione, oltre che gravemente insufficiente. E ancora: il primo degli ammessi nel test cagliaritano si è piazzato al 661° posto con un punteggio distante anni luce da città come Catania, Bologna, Ferrara, Padova, Pisa, Bari e Palermo. SASSARI ULTIMA Peggio, molto peggio, sono riusciti a fare gli studenti che si sono ritrovati a Sassari: sarebbero passati in 36. Ultimo posto, così come nella media dei punteggi ottenuti dagli 871 ragazzi. PICCOLO PASSO AVANTI Dunque, nonostante le lezioni apposite nelle scuole superiori, i corsi d’approfondimento durante l’estate e lo studio matto e disperatissimo degli ultimi giorni per colmare qualche lacuna, il verdetto non cambia: i ragazzi che si diplomano nelle superiori della Sardegna zoppicano vistosamente. Qualche piccolo passo avanti è stato fatto: nel confronto con le prove del 2006 e del 2007 la media finale è cresciuta di due punti. Ancora troppo poco per lasciare le ultime posizioni. I problemi maggiori si incontrano nelle domande di fisica e matematica: Cagliari, nell’esame dei risultati dei primi 165 compiti, è all’ultimo posto con una media (5,59 contro quella nazionale di 6,99) da bocciatura senza appello. Nel chiudere la triste graduatoria è in compagnia. Di Sassari. Gravi carenze anche in chimica: i cagliaritani sono quartultimi. Qualcosa di meglio, ma sempre abbondantemente sotto la sufficienza, nei quesiti di logica-cultura generale e di biologia. L’ALLARME E se le scuole superiori dell’Isola non cercheranno di invertire la rotta le facoltà sarde di Medicina potrebbero diventare delle colonie di ragazzi provenienti dalla Penisola. È già capitato quest’anno a Cagliari: tra i 165 potenziali futuri medici ci sono 14 siciliani (erano in 105 gli studenti della Sicilia ha hanno affrontato la prova alla cittadella universitaria di Monserrato). LE SCUOLE Il maggior numero di diplomati è arrivato dai licei. Ma le medie dei ragazzi che sono stati ammessi non permettono sorrisi. Il dato migliore è quello del classico Dettori che ha piazzato 13 studenti su 64 partecipanti (20%). Subito dietro ci sono il Michelangelo (10 su 53, 19%), il Siotto (17%), l’Alberti (13%) e il Pacinotti (12%). Tra gli istituti bene il D’Arborea (17%) e il De Sanctis (12%). MATTEO VERCELLI ________________________________________________________ L’Espresso 25 Sett. ‘08 FUGA DALLUNIVERSITA': PORTE SBARRATE AI GIOVANI RICERCATORI. Corsi da chiudere. Meno servizi, Ecco gli effetti dei tagli di Tremonti e Gelmini agli atenei. Mentre cresce l'allarme dei rettori: "Così non c'è ,futuro" DI ROBERTA CARLINI come una porta girevole. Ma per ogni cinque che escono, è solo uno che entra. È il nuovo turn over dell'università, firmato Tremonti-Gelmini, con il quale gli atenei di tutt'Italia stanno facendo i conti. E i conti non tornano mai, soprattutto per i giovani: i giovani atenei, che non hanno pensionamenti in vista; e i giovani aspiranti ricercatori, che si trovano davanti solo porte sbarrate. Così, mentre monti la protesta della scuola contro i suoi S? mila tagli e le statistiche internazionali continuano a fare a pezzi il nostro sistema di istruzione, nelle università sta per esplodere la prossima emergenza. Quella che, tra blocco di assunzioni e tagli dei fondi, fa dire a Enrico Declevu, rettore della Statale di ,Milano e presidente della Conferenza dei rettori: «Con questi numeri, per il futuro diventa quasi inutile parlare di università—. In fila per la pensione Davanti all'ufficio di Paolo Garbarino, rettore dell'Università del Piemonte orientale, si va formando una strana fila. «Ci sono diversi professori che chiedono di andare in pensione al minimo, appena raggiunta l'età, così da poter essere sostituiti da qualche giovane,,, racconta il rettore del giovane ateneo che si divide tra Vercelli, Novara e Alessandria. Non che siano baby-pensionati, i fisici e chimici che si offrono volontari per il ritiro: la regola italiana prevede il pensionamento a 70 anni, più altri due di proroga su richiesta (oggi a discrezione dell'uni versi rà ), più altri rre ancora di "fuori ruolo" (privilegio semifeudale, in via di cancellazione). In ogni caso, il loro gesto è raro. E rischia di essere inutile, dice Garbarino, se resta la tagliola dei 20 per cento introdotta dal decreto Tremonti. Uno su cinque: anche se l'università ha il bilancio in attivo. E anche se un ricercatore costa quanto mezzo ordinario. Garbarino non è solo. In tutta Italia sono numerose (e università che nei prossimi anni potranno assumere ù1 misura pari a zero o poco più. li primato va all'Università del Sannio, sede a Benevento, dove si prevedono pensionamenti col contagocce: uno l'anno prossimo, nessuno nel 2010, due nel 2011, tre nel 2012. Numeri simili anche nell'Università del Molise, e in quelle d'i Foggia e della Basilicata, ma il fenomeno non è certo solo del Sud: negli atenei di Bergamo e Brescia andranno in pensione nei prossimi cinque anni meno di dieci docenti, mentre poco più saranno le uscite dall'Università dell'Insubria (Corno e Varese). Tutte a crescita zero, per decreto. Una inversione di rotta, dopo gli anni della proliferazione delle sedi universitarie? «Noi non abbiamo troppe università», dice Garbarino, in Italia ce n'è una ogni 900 mila abitanti, in Francia una ogni 400 mila, semmai il problema è il numero delle sedi e dei corsi: fenomeno sul quale c'è stato un ripensamento, pure la mia università ha chiuso alcune sedi». Anche perché la riforma precedente proprio per arginare l'inflazione dei corsi aveva dettato dei requisiti minimi sul numero dei docenti. Ma con queste misure, aggiunge, si va molto oltre: «Dovrò chiudere gran parte dei corsie. 1.050 euro al mese Ma non ci sono solo le debuttanti giovani e provinciali: l'accetta del 20 per cento colpisce a caso, a seconda della distribuzione per età del personale. Mietendo anche vittime eccellenti. ,, pronostica cupo. Cupo, e furibondo, anche il rettore di Milano Bicocca, Marcello Fontanesi: ~< Vogliono solo arraffare i soldi, del resto se ne fregano». E "il resto" è il funzionamento delle università: «Il tetto alle sostituzioni vale anche per il personale amministrativo: il che comporterà tagli ai servizi per gli studenti». Fonranesi sottolinea un altro paradosso del decreto:« La regola uno su cinque vate per tutti, indifferentemente. Vale a dire: posso assumere un bidello al posto di cinque prof, o viceversa». Meccanismo che scatenerà non pochi conflitti tra le categorie. Guardando all'intero sistema, Paolo Rossi, fisico di Pisa che da anni studia i flussi dei reclutamento universitario, prevede uno choc: « Ci sarà un picco di pensionamenti nel 2010, per effetto di variazioni delle regole sulle pensioni, ma in via generale il ritmo di uscite è di 2 mila l'anno». Se 2 mila escono e 400 entrano, da qualche parte la macchina traballerà. Scarso sollievo potranno direi pochi poveri ricercatori del già finanziato piano Mussi, che a quanto pare staranno fuori dalla tagliola. Mi anche con queste eccezioni, ,• bene che vada copriremo la metà delle uscite», prevede Rossi. Insomma, proprio quando arriva la grossa ondata di pensionamenti, il sistema invece di ringiovanire, dimagrisce. E di molto. Anche perché quell'80 per cento che si risparmia non resterà alle università, «contemporaneamente si taglia il Fondo di finanziamento ordinario, mentre ci sono gli aumenti automatici degli stipendi da pagare», spiega Decleva. Mancheranno all'appello 1,4 miliardi di qui al 2012: « Ma già dal 2010 non ci sarà neanche un'università col t bilancio in pareggio». L'Agenzia fantasma «Sembra che alla base di questa politica ci sia una valutazione precisa: in Italia c'è troppa offerta universitaria», commenta Daniele Checchi, economista ed esperto dei temi della formazione: «Ma questa ipotesi è smentita da tutti i dati», i dati sul numero di studenti per docente, quelli sulla spesa per l'università, quelli sul numero dei laureati. In tutti questi campi, ce lo ha appena ricordato ingloriosamente l'Ocse, siamo agli ultimi posti. Altro è dire che si spende male, con eccessi di spesa per stipendi o per corsi: —Ma allora si tagli selettivamente, definendo dei criteri, facendo valutazioni,,. Già, (a valutazione. Per ora resta la grande assente dal dibattito. Molto evocata in campagna elettorale, molto citata in tutti i discorsi sui premi al merito e ai talenti. Poi dimenticata. —L'Agenzia nazionale per la valutazione, istituita per legge, deve ancora nascere», dice Guido Fiegna, membro del Comitato nazionale di valutazione degli studi universitari, organismo che nel frattempo è stato messo in stand by e langue per mancanza di fondi. Mentre l’Agenzia, seppur finanziata, ancora non parte: tant'è che i suoi soldi se li è ripresi il Tesoro. Non è solo questione di sigle: quando partirà, l'Agenzia potrà farsi che i soldi siano distribuiti (o tagliati) meglio. Premiando ad esempio soggetti che non sono sempre quelli con più voce in capitolo. Fiegna racconta gli esiti della valutazione fatta qualche anno fa dal Civr, quando ai primi posti si piazzarono i dottorandi e gli assegnisti dì ricerca: loro erano più della metà dei lavori giudicati "eccezionali". Dottorandi e assegnisti, nella università del 20 per cento, sono destinati a fare anticamera. Ma molti dei loro colleghi più anziani danno segni pericolosi. Tra i tanti numeri dell'università, ce n'è uno sfuggito ai più: l'anno scorso 2,37 ricercatori si sono dimessi. Andati via, fuggiti dal sistema universitario. Hanno trovato un posto migliore. ________________________________________________________ Europa 19 Sett. ‘08 MODICA: L'UNTVERSITÀ IN GINOCCHIO Chissà se il 2008/09 sarà un anno accademico di passione. Da un lato i tagli ai finanziamenti statali operati dal governo Berlusconi metteranno sicuramente in ginocchio le attività universitarie. Dall'altro il mondo accademico ha patito una grande delusione nei confronti del governo Prodi e del centrosinistra, anche' oltre le reali responsabilità del ministro Mussi, e sembra non avere molta voglia di credere ancora una volta nella politica. Una favorevole coincidenza potrebbe però itiimare il dibattito a partire da dati quantitativi affidabili piuttosto che da armamentari ideologici generici é ormai largamente indigesti. Lo stesso giorno in cui il Pd con una conferenza stampa di Veltroni e Garavaglia lanciava la sua offensiva contro i provvedimenti Gelmini su scuola e università, l’Ocse presentava a Parigi il suo autorevole resoconto annuale sulla formazione nei 30 maggiori paesi nel mondo. Il colpo d'occhio è sconfortante per l’università italiana, come ha notato Salvati sul Corriere della Sera.. La crisi è strutturale e non congiunturale, ha origini lontane ed è dunque insensato addebitarla ad una sola parte politica o affrontarla con ricette semplicistiche. Piuttosto sembra quasi miracoloso che questa stessa università abbia saputo continuare a offrire una formazione di buon livello medio e con ottimi risultati nella fascia dei laureati più dotati, nonché una ricerca scientifica di livello internazionale in molti ambiti umanistici e scientifici. Ha dato anche esempi di flessibilità innovativa largamente misconosciuta, il tutto a prezzo di una disastrosa decadenza infrastrutturale media e di pesanti carichi di lavoro per buona parte dei migliori dipendenti universitari, docenti e non. Quattro indicatori Ocse scolpiscono plasticamente questa crisi. Si sente spesso affermare - normalmente da editorialisti che sono anche professori universitari, evidentemente poco avvezzi a documentarsi accuratamente sulla realtà in cui lavorano prima di scriverne - che in Italia si spende troppo per l’università. Si tratta di uri affermazione sbagliata. Se si misura la spesa totale per la formazione universitaria rispetto ai prodotto interno lordo, il nostro paese occupa l’ultimo posto in Europa con un misero 0,9 per cento a fronte di un valore medio dell’1,3 per cento sino al valore massimo dell'1,7 per cento di Danimarca e Finlandia. In termini assoluti lo scarto rispetto alla media corrisponde a circa 5,5 miliardi di euro che mancano ogni anno sui bilanci delle università a fronte dei 7,4 miliardi dell’intero finanziamento statale: una cifra colossale e dunque un ritardo incolmabile, almeno nel breve periodo. È alta forse la spesa pubblica italiana per l’università? No. Se si considera la quota dell'intera spesa pubblica nazionale che è destinata all'univérsità, anche in questo caso l’Italia con i1 suo 1,6 per cento oc cupa tristemente l’ultima posizione, con una media europea del 2,8 per cento fino al massimo del 4,5 per cento in Danimarca. Si potrebbe allora supporre che in Italia sia alta la spesa per studente, oppure che siano troppi gli studenti e i laureati. Nemmeno questo è vero. L'Italia occupa in Europa il tredicesimo posto su diciotto con 8.026 dollari spesi annualmente per studente, a fronte di una media di 10.474 e di un massimo raggiunto in Svezia di 15.946, Inoltre l'Italia è ultima in Europa per percentuale di laureati nella fascia di popolazione 2564 anni: 13 per cento contro una, media del 24 per cento e un valore massimo del 35 per cento della Danimarca. In termini assoluti rispetto alla media europea mancano all'appello circa 3,5 milioni di laureati italiani. La tanto bistrattata riforma che ha introdotto nel 2001 in Italia i tre livelli di laurea, come concordato nel 1999 a Bologna da tutti i paesi europei, sta dando qualche buon risultato iniziale: nel 2006 hanno conseguito la laurea circa i139 per cento delle classi di età interessate a fronte del 19 per cento del 2000, il che ci colloca finalmente in buona posizione in Europa, alle spalle solamente di Finandia, Polonia, Danimarca, Olanda, Norvegia e Svezia. Qual è stata la risposta di Berlusconi-Tremonti-Gelmini a questo stato di fatto? Innanzitutto diminuire pesantemente il già basso investimento statale. Quell'ultimo posto che l’Ocse documenta è destinato a rimanere tale, anzi il divario con gli altri paesi inesorabilmente aumenterà. Pèr finanziare l’abolizione dell’Ici sulla prima casa delle famiglie abbienti è stato tagliato circa il G per cento del fondo statale di finanziamento ordinario delle università. Poiché sullo stesso fondo gravano per l’87 per cento gli stipendi del personale di ruolo, ovviamente incomprimibili perché fissati dallo stato, il taglio ha come effetto di dover ridurre circa della metà tutte le spese di funzionamento degli atenei (utenze, pulizie, manutenzioni etc.), ovvero di dover chiedere alle famiglie degli studenti di provvedere con un aumento delle tasse universitarie. È stato poi fortemente ridotto il turn over del personale universitario (solo il 20 per cento delle risorse economiche che si liberano coni pensionamenti potrà essere utilizzata per le assunzioni) decretando così anche la fine delle speranze di tanti giovani e ben preparati dottori di ricerca di poter dedicarsi alla ricerca universitaria in Italia. Se a questi tagli si sommano altri di minore entità, nel quinquennio 2009-2013 si scenderà dai 37,5 miliardi per l’università previsti dal governo Prodi ai 33,7 del governo Berlusconi: un colossale taglio globale di quasi 4 miliardi di cui nessun euro è stato reinvestito nel settore. Ai tagli si sono aggiunti atti normativi che non vanno certo nella direzione di migliorare il funzionamento del sistema universitario. Il rinvio sine die dell'attivazione dell'Agenzia nazionale di valutazione dell'università e della ricerca messa a punto dal ministero Mussi impedirà il decollo del circolo virtuoso tra autonomia, responsabilità, valutazione e porrà ancora una volta 1Italia ai margini dell'Europa escludendola dalla rete europea delle agenzie nazionali indipendenti di valutazione. È stata poi data facoltà alle università di trasformarsi in fondazioni di diritto privato, quasi che il mero cambiamento di forma giuridica possa implicare miglioramenti di funzionamento: le università godono già di un’autonomia gestionale ampia quanto, o addirittura più, di quella delle fondazioni proposte da Tremonti-Gelmini. Il governo sembra anche aver dimenticato di aver sottoscritto con tutti gli altri governi europei le dichiarazioni di Praga (2001) e di Berlino (2003) in cui si afferma solennemente che la formazione universitaria «è e deve rimanere un bene pubblico ed una pubblica responsabilità». Insomma poco pragmatismo, poca Europa, pochi giovani, tanta ideologia, Eppure la nostra università, ganglio fondamentale della società/economia della conoscenza, ha bisogno estremo di pragmatismo, di Europa, di giovani ma soprattutto di una strategia politica. Una strategia che si basi solidamente sull'esistente ma che sappia anche produrre idee e scelte concrete sul sistema universitario dei prossimi decenni, fissando precise priorità. Se non vogliamo finire davvero fuori dall'Europa, maggioranza e opposizione, ciascuna per la sua parte di responsabilità, devono aprire un dibattito serio e documentato in parlamento e nel paese. ____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 17 set. ’08 CAGLIARI: VIETATO LAUREARSI». STUDENTI IN RIVOLTA IN RETTORATO Università. Debiti formativi e corsi costosi. Primi effetti della riforma Mussi Vorrebbero proseguire gli studi dopo la laurea triennale. Ma non possono farlo perché hanno debiti formativi, da colmare con un elevato numero di esami o, in altri casi, accedendo a costosi corsi. Così ieri mattina centinaia di studenti con in tasca lauree brevi hanno invaso il rettorato alla ricerca di una soluzione che li porti a uscire da un tunnel apparentemente senza uscita. Colpa degli effetti dei decreti di riforma degli ordinamenti universitari firmati dall’ex ministro dell’Università , Fabio Mussi, che non consentono di accedere alle lauree specialistiche o magistrali gli studenti che hanno accumulato un certo numero di crediti. Prima della riforma, era possibile recuperare durante il percorso biennale, ora non è più così. Il fatto è che molti non lo sapevano e, tra loro, c’è chi si è iscritto ai test di ammissione ai corsi (a pagamento) per poi scoprire che a quei corsi non può accedere. È il caso, ad esempio, dei laureati in Operatore culturale del turismo: hanno fatto le preiscrizioni alla specialistica in Archeologia e storia dell’arte e ieri mattina si sono presentati in facoltà per effettuare i test. Lì hanno scoperto che avrebbero dovuto recuperare i crediti o ricominciare daccapo con un nuovo corso. «Siamo in una situazione paradossale: non possiamo né proseguire gli studi né lavorare», chiarisce un gruppo di studentesse fuori sede. Poi c’è il caso di psicologia: quest’anno sono stati istituiti due nuovi corsi di laurea magistrale ed a luglio è stato pubblicato il bando. I requisiti richiesti per accedere ai diversi corsi sono differenti e per poter accedere è necessario colmare i debiti pagando 150 euro per acquistare una sessione del triennio e 50 euro ad esame. Gli studenti hanno inviato al rettore una richiesta di deroga del regolamento accompagnata da 88 firme. Oggi saranno di nuovo in rettorato per capire che fine faranno. «Capiamo la situazione perché stiamo passando da ordinamento all’altro, ma gli strumenti sono stati informati per tempo sia attraverso il manifesto generale degli studenti pubblicato a luglio e attraverso il sito internet», spiega Pina Locci, responsabile didattica e post lauream della segreteria dell’ateneo. «Quanto alla triennale in Operatore culturale del turismo, gli studenti sapevano che era un corso altamente professionalizzante che non ha mai avuto uno sbocco specialistico. In ogni caso la facoltà è a disposizione per trovare percorso appropriato. Quanto al costo dei corsi, come gli studenti sanno saranno detratti dalle tasse universitarie». ________________________________________________________ Il Giornale 18 Sett. ‘08 BOLOGNA: ATENEO CON IL CODICE ETICO SI RIEMPIE DI PROF FIGLI D'ARTE Bologna per prima ha vietato il nepotismo. Ma ora è sotto accusa pure il rettore E pensare che due anni fa l'Università di Bologna si era meritata i titoli dei giornali per la battaglia anti nepotismo. Era stato il primo ateneo italiano a dotarsi di un codice etico con una esplicita norma. Che recitava così: «In caso di carriera accademica si presume nepotismo qualora: (a) vi sia coincidenza o affinità fra il settore scientifico-disciplinare del protettore e quello del protetto; e/o (b) il protetto debba svolgere la propria attività nell'ambito dello stesso dipartimento del protettore». E tanto perché non sussistessero dubbi interpretativi; «Salvo prova contraria, si presume nepotismo l'appartenenza del protettore e del protetto alla stessa facoltà». Per protettore si intende «un professore, un ricercatore, o un componente del personale tecnico-amministrativo» che direttamente o indirettamente influisca sulla carriera universitaria di «figli, familiari o conviventi, compresi gli affini». Chissà dov'era il professor Sergio Stefoni quando il codice etico è stato approvato. Eletto preside di Medicina, il docente in questi giorni è al centro delle critiche perché suo figlio Vittorio ha vinto uno dei posti da ricercatore nella stessa facoltà del genitore. «Non ci vedo niente di inopportuno, non lavorèrà nel mio dipartimento - ribatte il professor Stefoni mentre sventola i numerosi titoli accademici del suo erede -. A 35 anni guadagnerà 1.400 euro al mese». E già, non è ancora stato stabilito un incentivo particolare per i figli d'arte. Stefoni insiste: «Ha sempre imbarazzato mio figlio avere il padre medico in facoltà». Imbarazzato sì, spinto a provare in un altro ateneo no. E il codice etico? Liquidato con una battuta: «Non è così stringente». Del resto a Bologna è sotto accusa perfino il rettore Calzolari, anche lui col figlio in ateneo, sebbene in una facoltà diversa dalla sua. [GiIma] ======================================================= ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 3 Sett. ‘08 SSN: OSPEDALI IN CALO, SPESE IN CRESCITA Sanità. L'analisi dei dati forniti dall'annuario statistico del Ssn su strutture e personale dal 1997 al 2006 In dieci anni 83mila posti letto in meno ma il costo pro capite è salito del 77% Roberto Turno ROMA Ben 288 ospedali in meno e un taglio secco a 83.231 posti letto. In dieci anni, dal 1997 al 2006, sono dimagrite in media del 30% le strutture pubbliche ospedaliere. Mentre la spesa pro-capite, 1.731 euro nel 2007, è schizzata all'insù del 77,7% registrando un disavanzo totale di 44,78 miliardi. E il personale è aumentato appena dello 0,3%, per effetto soprattutto del calo del 10,3% del personale tecnicoamministrativo, con i medici cresciuti nel frattempo dell'8,2 e gli infermieri del 5,3 per cento. Ecco il check up 1997-2006 del Servizio sanitario nazionale. Mentre incalza il federalismo fiscale e Governo e Regioni si preparano a una difficile maratona per il nuovo "patto sulla salute" previsto dalla manovra triennale (Dl 112, convertito nella legge 133), l'Italia della Sanità pubblica presenta tutti i suoi conti, le sue forze e le sue debolezze. Confermando l'esistenza di un sistema a venti velocità e gli effetti delle resistenze al cambiamento proprio in quelle realtà in queste ore sotto osservazione: Lazio, Sicilia, Calabria, Campania, Abruzzo. Il Lazio che rischia un commissario bis, nonostante la manovra estiva sottoscritta dal governatore (e commissario) Piero Marrazzo, l'Abruzzo destinato tra breve a finire sotto tutela e ancora Sicilia, Calabria e Campania sugli scudi del commissariamento dai primi di ottobre. La foto di gruppo del nostro Ssn, come risulta dalle elaborazioni del settimanale «Il Sole-24 Ore Sanità» sui recentissimi dati dell'Annuario 2006 del ministero della Salute confrontati con quelli del 1997, testimonia con chiarezza il cammino fatto in dieci anni, ma anche dove il percorso di razionalizzazione è rimasto al palo. Perché i tagli, è chiaro, ci sono stati. Eccome. Ma non sempre e non dappertutto. Tra eliminazioni, accorpamenti e razionalizzazioni di strutture, gli ospedali pubblici (654 quelli censiti nel 2006) sono dimagriti di 288 unità (-30,6%), con un significativo picco del 59% (87 in meno) in Lombardia e del 50,6% in Veneto e Puglia. A parte la Toscana, che vantava una rete già più razionale, spiccano le riduzioni assai meno consistenti nel Centro e in genere nel Sud: la Calabria (-2,6%) è in fondo alla classifica. Il taglio dei posti letto è andato ovviamente di pari passo con la riduzione delle strutture di ricovero: dai 295mila del 1997 i posti letto sono diventati 211.725 nel 2006, il 28,2% in meno, con la Puglia che può vantare l'abbattimento più consistente (ha perso 9.353 letti, ben il 40%). Al dimagrimento complessivo, ma non generalizzato, di un Ssn pletorico già messo a dieta a partire dal 1992 con la cura-Amato, ha corrisposto la razionalizzazione dei percorsi di cura. Vale a dire: più day hospital e day surgery al posto dei ricoveri ordinari, e, nel tempo, più cure a domicilio. Ma sempre nel segno dell'Italia a mille velocità. I ricoveri in day hospital sono passati così da 1,7 milioni a 3,9 milioni in dieci anni, incidendo nel 2006 per il 30,8% sui ricoveri ordinari per acuti, praticamente il doppio rispetto al 16% del 1997. Mentre anche l'Adi (assistenza domiciliare integrata) è raddoppiata dai 200mila casi registrati nel 1997 ai 414mila del 2006. Avanti, insomma, ma ancora troppo poco. Anche le politiche per il personale hanno registrato un andamento a marce differenziate tra le Regioni, frutto delle diversità locali, ma non solo. Il personale sanitario (452mila) è cresciuto di 25mila unità (+5,9%), quello tecnico e amministrativo ne ha perso 23mila (-10,3%). I medici (105.860) sono 8mila in più, gli infermieri (265.444) +13mila. Nel complesso il personale in dieci anni conta solo 1.700 unità in più, con la Puglia che ha perso il 10,7% di dipendenti e la Basilicata (a parte la Valle d'Aosta) che ne ha "conquistato" il 10,6 per cento. Infine, la spesa sanitaria pubblica. Anche quella quasi raddoppiata in dieci anni dai 974 euro pro capite del 1997 ai 1.731 del 2007 (ultimi dati dell'Economia). Ma attenzione: il dato non considera la qualità della spesa erogata. Rileva però chi ha incassato di più o di meno nel tempo: rispetto a un aumento medio del 77,7%, il Molise ha fatto segnare il 101,8% in più, la Sicilia il 99,3%, il Lazio il 94,2 per cento. Aspettando il federalismo fiscale. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 2 Sett. ‘08 Annuario 2006: MEDICI IN STALLO (+0,2%), PERSONALE TA IN CALO (-1,6%) INFERMIERI IN CRESCITA DEL 5% Il 70% dei dipendenti, soprattutto camici bianchi, lavora nei luoghi di ricovero Organici stabili nel 2006 rispetto al 2005: aumentano solo dello 0,8%, molto meno del normale turn over calcolato tra il 5 e il 6 per cento. Blocchi delle assunzioni e interventi di razionalizzazione scattati nelle Regioni che dal 2005 sono state sottoposte a verifiche rigide di spesa con la minaccia dei Piani di rientro, hanno portato a un sostanziale giro di vite sulla prima voce di spesa per il Ssn. I dati sono quelli riportati nell'annuario 2006 sul personale delle Asl e degli istituti di cura pubblici, pubblicato a fine luglio dal ministero della Salute. Tranne che in Friuli, dove l'aumento di organici ha fatto registrare il +7,5%, in nessuna Regione dove aumentano si superano incrementi di organico del 3,6%, mentre al contrario in alcune compare il segno meno. Il caso più evidente è quello del Lazio che sottoposto a un rigido Piano di rientro ha ridotto del -3,6% le unità di personale, agendo soprattutto (-9,7%) sui ruoli tecnici e amministrativi, quelli che, secondo gli esperti (Osservasalute 2007) rappresentano per questa voce di spesa l'aspetto più inappropriato, visto che la mission del Ssn è di erogare assistenza sanitaria. In realtà però se gli organici restano mediamente stabili con numerosi cali un po' ovunque per il settore amministrativo (tra gli aumenti, tutti contenuti, fanno eccezione la Valle d'Aosta che nel settore tecnico-professionale-amministrativo registra un +11,2% e il Friuli con il +5,9%), il numero di infermieri cresce in media del +5,1% le unità in servizio nel Ssn. E questo accade un po' ovunque, con le stesse percentuali di nuove assunzioni, tranne ancora che nel Lazio dove ci si ferma al +0,9% e a Bolzano dove addirittura gli infermieri nel 2006 sono il 2,4% in meno del 2005 (ma nella Provincia autonoma aumentano tutti gli altri ruoli, medici in testa con il +2,6%). Il fenomeno è comunque legato alle politiche anticarenza infermieristica che nelle ultime Finanziarie hanno previsto deroghe ai blocchi delle assunzioni solo per questa categoria. E dove, come in Friuli, si sono registrati gli aumenti maggiori di personale, in realtà si è riequilibrato il rapporto tra infermieri e medici. Indicato dall'Oms in almeno 4-5 infermieri per medico, infatti, in nessuna Regione raggiunge questi standard e si assesta su una media di 2,5 infermieri per medico. In questo quadro, gli interventi a Bolzano e in Friuli hanno avuto come risultato quello di raggiungere un rapporto di 3,2 infermieri per medico, confermando un precedente eccesso nella Provincia autonoma e una pregressa carenza nella Regione a statuto speciale. Rispetto alla media di 2,5 infermieri per medico, comunque, sono al di sopra e superano i 3, Bolzano, Trento, Friuli, Veneto ed Emilia Romagna. Sono al di sotto con un rapporto che non va oltre le 2,2 unità Lazio, Molise, Puglia, Calabria e Sardegna. Unica Regione più in basso della soglia dei 2 infermieri per medico è la Sicilia con 1,8. Per quanto riguarda i medici, la crescita di organici si ferma a livello nazionale a una media del +0,2%. Ma in alcune Regioni l'aumento è più consistente, come in Valle d'Aosta (+6,8%), Molise (+4,3%) e Campania (+3,3%). Al contrario, in nove Regioni i medici diminuiscono con una media di circa lo 0,4% e un'unica eccezione in Lombardia dove il calo è del -2,5 per cento. Dal punto di vista del luogo di lavoro, i dipendenti del Ssn si concentrano soprattutto nelle strutture di ricovero. Analizzando il dato relativo agli ospedali che fanno capo alle Asl e alle aziende ospedaliere (compresi Irccs e Policlinici) e aggiungendo anche i sanitari universitari che lavorano per il Ssn nei Policlinici (8.657), il 70% dei dipendenti si concentra negli ospedali e solo il 40% nelle strutture sul territorio. Che tuttavia utilizzano per la loro attività anche figure parasubordinate come i medici di famiglia, i pediatri di base e gli specialisti delle Asl. Prendendo in considerazione poi solo medici e infermieri questo rapporto ospedale-territorio si divarica ancora di più. Oltre l'81% di medici, infatti e il 79% degli infermieri lavora nelle corsie. Di questi, il 47% di medici e infermieri (uguale percentuale) dipendono da aziende ospedaliere e solo l'1,3% degli organici proviene dall'Università. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 3 Sett. ‘08 ANNUARIO 2006/ LABORATORI: SOCIETÀ PIGLIATUTTO Quindici Asl e 50 servizi in meno - L'accreditato saldo nel territorio Sempre più Srl per visite e analisi, al pubblico gli altri servizi più onerosi Prestazioni di laboratorio ancora saldamente nelle mani di un privato accreditato che affida sempre più alle società la gestione del business delle cure. E Asl che si riorganizzano, scaricando strada facendo servizi che non sembrano aver recuperato spazio e peso altrove, ma che concentrano comunque gran parte delle attività meno lucrose e tuttavia indispensabili per gli assistiti e parimenti onerose per il Servizio sanitario pubblico. L'identikit organizzativo ricavato dall'annuario statistico Ssn 2006 non lascia dubbi: dal confronto 2006- 2005 emerge una ulteriore diminuzione del numero complessivo delle Asl per un totale di 15 unità (da 195 a 180) esclusivamente come effetto delle razionalizzazioni realizzate da Marche e Campania nel corso del 2006 più un'altra sfilza di dati tutti col segno meno. In particolare perdono 11 unità i distretti; 10 i Cup; 8 i dipartimenti di salute mentale; 9 quelli di prevenzione. Si alleggeriscono di 11 unità anche i servizi domiciliari di assistenza integrata, mentre resta stabile il numero dei dipartimenti materno- infantili e si arricchisce di una sola unità (in Calabria) il parterre dei servizi trasporto centro dialisi, servizi che nel 2006 continuano a risultare assenti in Sardegna e sparisce dalla Basilicata (ne era stato censito 1 nel 2005). Complessivamente dal censimento 2006 risultano in attività 22.147 strutture extraospedaliere pubbliche e private accreditate, di cui 9.971 ambulatori e laboratori; 5.128 strutture territoriali diverse; 2.255 strutture semiresidenziali e 4.793 strutture residenziali. Estremamente diversificato, come accennato all'inizio, l'impegno relativo del pubblico e del privato accreditato sui diversi fronti. Il pubblico fa il pieno di altre strutture territoriali dedicate ai più diversi bisogni assistenziali (si va dalle analisi alla dialisi, passando per i centri di salute mentale, i consultori ecc.) -, garantendo la presenza di 4.600 strutture, contro le 528 dell'accreditato ma resta un passo indietro su quasi tutto il resto. Al pianeta dell'accreditato appartengono infatti, 1.290 strutture semiresidenziali (contro 965 del pubblico), 3.493 strutture residenziali (contro 1.300) e ben 5.851 tra laboratori e ambulatori a fronte dei 4.120 targati Ssn. Proprio il dato sulla laboratoristica si presta a qualche riflessione in più: preso atto della sia pur minima contrazione registrata al capitolo degli accreditamenti (117 in meno rispetto al 2005), emerge che nella titolarità del rapporto a "rimetterci" sono soprattutto i singoli professionisti (146 in meno tra il 2005 e il 2006), le case di cura (9 convenzioni in meno), ovvero altri tipi di strutture (14), mentre si arricchisce di 50 unità il pool delle società fornitrici di visite e analisi del servizio pubblico. Resta viceversa quasi inalterata l'incidenza territoriale relativa dell'accreditato, generalmente prevalente nelle Regioni Centro-meridionali e caratterizzato da picchi di 1.399 accreditamenti in Sicilia (-13 rispetto al 2005), 1.155 in Campania (-31), 604 nel Lazio (-6). Per quanto riguarda infine le strutture residenziali e semiresidenziali sono stati censiti 219.103 posti, pari a 372 ogni 100mila abitanti: il 71% è dedicato agli anziani, il 12,5% all'assistenza psichiatrica, il 15,6% alla disabilità fisica e psichica. Ammontano infine a 889 le strutture impegnate sul fronte del recupero e della riabilitazione funzionale: i posti disponibili a livello nazionale sono in tutto 15.520 per l'attività di tipo residenziale e 13.315 per l'attività di tipo semiresidenziale; complessivamente 50 ogni 100mila abitanti. Il grosso dell'utenza si indirizza verso i servizi residenziali, 54.761 assistiti contro i 26.889 che fanno ricorso all'assistenza semiresidenziale, anche se il rapporto cambia in base alla tipologia di attività riabilitativa. A gestire i servizi di riabilitazione complessivamente 46.022 unità di personale, di cui il 10% costituito da medici e il 41% da terapisti e logopendisti. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 8 Sett. ‘08 ANNUARIO 2006/ RADDOPPIANO LE CURE A CASA In un decennio l'assistenza a domicilio da 200mila a 414mila casi L'85% dell'Adi agli anziani - Mmg, pediatri e guardie: puzzle regionale Le cure sul territorio indossano il vestito di arlecchino: tanta variabilità sull'offerta da Regione a Regione, come accade del resto per tanti altri servizi sanitari. Ma in più c'è anche una certezza che fa capire in che direzione va il nostro Ssn: in dieci anni l'assistenza domiciliare integrata è cresciuta in modo esponenziale, praticamente raddoppiando (solo tra il 2006 e l'anno precedente la crescita è stata del 5%). Se nel 1997 medici e infermieri hanno bussato alla porta di circa 200mila pazienti nel 2006 hanno varcato la soglia di casa di ben 414mila assistiti. Come dire che le cure escono sempre di più dalle corsie di ospedali e strutture sanitarie per raggiungere i malati direttamente a domicilio. Con (forse) maggiore soddisfazione dei malati stessi e sicuramente con risparmi assicurati per il Servizio pubblico. Mmg e pediatri. In media a livello nazionale ogni medico di base ha un carico potenziale di 1.098 adulti residenti. Ma a livello regionale esistono notevoli differenze: per le Regioni del Nord, fatte salve alcune eccezioni, gli scostamenti dal valore medio nazionale sono positivi. In particolare si evidenzia la Provincia di Bolzano con 1.624 residenti adulti per medico di base (qui però il massimale di scelte è di 2mila assistiti contro i 1.500 del resto del Paese). Nel Lazio si registra il valore minimo di 945 residenti adulti per medico di medicina generale; nelle Regioni del Sud si registrano lievi oscillazioni attorno al valore nazionale. Il carico medio potenziale per pediatra è, invece, a livello nazionale di 1.023 bambini, con una variabilità territoriale anche più elevata rispetto a quella registrata per i Mmg. Tutte le Regioni comunque sono caratterizzate da una forte carenza di pediatri in convenzione con il Ssn: a eccezione di Abruzzo, Valle d'Aosta, Emilia Romagna, Trento e Sardegna che presentano un numero di bambini per pediatra di poco superiore al massimale stabilito nel contratto di convenzione. Nell'esaminare lo scostamento del carico potenziale dal valore nazionale, spicca, anche in questo caso, il dato di Bolzano con un valore pari al 47% (1.501 bambini per pediatra). In tutte le Regioni meridionali il carico potenziale di bambini per pediatra è superiore al valore nazionale, a eccezione di Puglia, Sicilia e Sardegna. Notevole è però lo scostamento rilevato nella regione Campania (+19%) e nella regione Basilicata (+12%). A fronte del carico potenziale dei medici di base (di medicina generale e pediatri), è possibile valutare il carico assistenziale effettivo, dato dal numero degli iscritti al Ssn (coloro che hanno scelto presso la Asl di competenza il proprio medico di base) per ciascun medico. In tutte le Regioni tale indicatore evidenzia che il numero di scelte per medico di medicina generale è maggiore della popolazione adulta residente, mentre il numero di scelte per pediatra è sempre inferiore al numero dei bambini residenti. Questo significa che per molti bambini è stata scelta l'assistenza erogata dal medico di medicina generale anziché pediatrica. Le guardia mediche. Come noto il servizio di guardia medica garantisce la continuità assistenziale per l'intero arco della giornata e per tutti i giorni della settimana. Ed è organizzato nell'ambito della programmazione regionale per rispondere alle diverse esigenze legate alle caratteristiche del territorio. Nel 2006 sono stati rilevati in Italia 3.019 punti di guardia medica; con 13.304 medici titolari ovvero 23 medici ogni 100mila abitanti. Anche qui a livello territoriale si registra una realtà notevolmente diversificata sia per quanto riguarda la densità dei punti di guardia medica che per quanto concerne il numero dei medici titolari per ogni 100mila abitanti. L'Adi raddoppia. L'assistenza domiciliare integrata (Adi) asssicura al domicilio del paziente le prestazioni di medicina generale, specialistica, infermieristiche domiciliari e di riabilitazione, di assistenza sociale, ecc. In generale le ipotesi di attivazione dell'intervento si riferiscono a malati terminali, incidenti vascolari acuti, gravi fratture in anziani, forme psicotiche acute gravi, riabilitazione di vasculopatici, malattie acute temporaneamente invalidanti dell'anziano e dimissioni protette da strutture ospedaliere. Nel corso del 2006 sono stati assistiti al proprio domicilio 414.153 pazienti, di questi quasi l'85% è rappresentato da assistibili di età maggiore o uguale a 65 anni. Mediamente a ciascun paziente sono state dedicate circa 24 ore di assistenza erogata in gran parte da personale infermieristico (17 ore). Nel 1997 l'annuario statistico contava 200.976 casi trattati in Adi (mancavano in realtà i dati di un paio di Regioni), dieci anni dopo sono diventati 414.153. Mar.B. L'assistenza domiciliare integrata ____________________________________________________________ Repubblica 7 Sett. ‘08 LA SANITÀ E LA LOTTA AGLI SPRECHI Guglielmo Pepe Itagli alle spese per la sanità sono stati I annunciati dal governo. Il Fondo sanitario nazionale è oggi a oltre ioo miliardi di euro e rappresenta il 6.4 per cento del Pii (arriva all'8,4 per cento la spesa complessiva per la salute). Questi numeri hanno determinato, nel corso degli anni, effetti positivi: gli italiani sono tra i più longevi al mondo e la nostra assistenza è a livelli alti, molto alti in alcune zone del Paese, mentre lascia a desiderare in altre, in particolare quelle del Sud. Ma proprio questa contraddizione fa capire che i soldi, gli investimenti non sono tutto (basti pensare agli Stati Uniti dove la sanità assorbe il 15,3 per cento del prodotto interno lordo, eppure quasi cinquanta milioni di persone sono senza cure). E' comunque convinzione diffusa che la spesa non potrà continuare a crescere ai ritmi sostenuti fino ad oggi, anche se il progressivo aumento dei costi e l'invecchiamento della popolazione italiana richiederebbero maggiori risorse. uttavia la crisi economica attuale e le previsioni non rosee sul futuro, dicono che bisogna introdurre qualche correttivo. Giusto. Ma quale? L'eliminazione dei posti letto negli ospedali? La riduzione degli organici? I minori investimenti in ricerca, strutture e mezzi? Saranno ridimensionati i Livelli essenziali di assistenza, così come erano stati garantiti dal passato governo Prodi? L'attuale ministro, Maurizio Sacconi, e il sottosegretario Ferruccio Fazio, hanno sostenuto che i Lea non saranno toccati ma rivisti, in base ai rilievi sollevati dalla Corte dei Conti, sulla mancata copertura. Anzi il governo vuole puntare sulla medicina del territorio (basata sulla continuità assistenziale e sulla appropriatezza delle prestazioni), programmare un nuovo piano nazionale per la prevenzione (insieme alle Regioni) e investire in ricerca biomedica (è stato appositamente istituito un tavolo tecnico). esta il timore, paventato dalle associa- I zioni di cittadini, dai medici e dai sindacati, che la sanità prossima sarà meno generosa con i più poveri, perché sarà più difficile assicurare l'universalismo delle prestazioni. Un rischio che potrebbe essere accentuato con il Federalismo fiscale (già si discute della cosiddetta "bozza Calderou"). che potrebbe favorire le Regioni più economicamente avanzate (due, come Lombardia ed Emilia-Romagna, avranno addirittura risorse in eccesso), se il • progetto di revisione istituzionale non prevederà dei sostanziosi correttivi statali a favore delle zone meno abbienti. Si vedrà presto se saranno vere le promesse ministeriali 0 le paure sullo smantellamento del sistema del welfare. Al momento si sa soltanto che le Regioni avran- no meno fondi a disposizione, \ pertanto alcuni interventi sanitari non potranno essere finanziati. Intanto si fa breccia la necessità di lavorare sugli I sprechi. Come ha annunciato ~ il "governatore" del Lazio, Pie- ro Marrazzo, che vuole chiù- : dere un ospedale di Roma, il San Giacomo. La sua decisione ha scatenato \ molte polemiche, ma chi sostiene che con que- sta chiusura il Centro della capitale resterebbe I senza strutture ospedaliere, non conosce bene la situazione: a Roma, in un territorio di 2,5 chilometri quadrati, ci sono sette ospedali, contro i 5 di Parigi e i due di Londra: e al San Giacomo ci sono più medici che posti letto. noi italiani piace l'ospedale sotto casa. Come sa bene Rosy Bindi che quando era ministro della Sanità annunciò la chiusura di 200 piccoli ospedali. Non se ne fece nulla. Ovviamente. Però oggi, se si vuole tutelare la salute di tutti, almeno così come è stata garantita finora, è fondamentale una forte lotta agli sprechi, una vera e propria riforma. g.pepe@ repubblica.it ____________________________________________________________ Corriere della Sera 18 Sett. ‘08 ERBE, AGHI E MASSAGGI GLI SCIENZIATI DIVISI FOCUS I NUOVI PERCORSI DELLA SALUTE. NEGLI USA FINANZIATI CON MILIONI DI DOLLARI PROGETTI PER STUDIARE L' EFFETTO DEI RIMEDI NON CONVENZIONALILA SVOLTA ALCUNE TERAPIE «AFFIANCANO» QUELLE TRADIZIONALI. MA L' OMEOPATIA È SEMPRE SOTTO ACCUSA Medicine non più alternative, ma integrate Gli Stati Uniti, in medicina, fanno tendenza. Il National Cancer Institute ha appena finanziato con 2,4 milioni di dollari l' Md Anderson di Houston, il più grande centro oncologico al mondo, per studiare gli effetti dello yoga tibetano nelle donne con tumore al seno in cura con la chemio. «Perché studiare le medicine alternative? Semplice - commenta Lorenzo Cohen, direttore del programma di medicina integrata del centro texano -. Le studiamo perché l' 80 per cento della popolazione mondiale le usa, perché il 50 per cento di tutti i medicinali approvati dal 1981 al 2002 (e il 62 per cento dei farmaci anti-cancro) o sono derivati da sostanze naturali o ne imitano l' effetto, perché lo yoga riduce lo stress nelle donne sottoposte a radioterapia per il tumore al seno e, teoricamente, una riduzione dello stress può anche significare un aumento delle difese immunitarie». Il centro di Houston fa ricerca su ogni sorta di rimedi compresi erbe, agopuntura e massaggi. Ma non sull' omeopatia «perché - spiegano - è troppo contestata». Anche i National Institutes of Health, finanziati dal governo americano, investono nella ricerca in questo settore attraverso un centro dedicato (il Nccam): il budget per il 2008 ha raggiunto quota 121 milioni di dollari e finora i progetti sponsorizzati sono stati 1.200. Eurekalert, uno dei siti web che recensiscono quotidianamente gli articoli della letteratura scientifica internazionale, ha riportato sotto la voce complementary - alternative medicine decine di lavori su omeopatia, agopuntura, chiropratica, erboristeria soltanto nell' ultimo anno. I trial clinici Tutto il mondo si sta muovendo per studiare le medicine non convenzionali (Mnc) secondo le regole della medicina basata sull' evidenza, basata cioè sul confronto fra una cura e il placebo (cioè una finta-cura) attraverso i cosiddetti trial clinici. I risultati? A volte positivi a volte no, ma spesso è difficile studiare terapie che prendono in considerazione l' uomo nel suo insieme, senza scomporlo nei vari organi e spesso senza distinguere fra mente e corpo. «Ma non dimentichiamoci che la stessa Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) - spiega Emilio Minelli, vicedirettore del Centro Collaborante dell' Oms per la medicina tradizionale all' Università di Milano - ha distinto, in un documento firmato ad Abu Dhabi, diversi livelli di "medicina basata sull' evidenza" che comprendono anche "l' evidenza dell' uso tradizionale": l' uso millenario di alcune terapie è già di per sé una prova. Certo, la ricerca va comunque implementata». L' Oms sostiene da sempre l' impiego delle Mnc. E non soltanto nei Paesi poveri dove il ricorso alle cure tradizionali è inevitabile perché la medicina occidentale costa troppo, ma anche alle nostre latitudini. E la gente le usa. Il 49 per cento dei francesi vi si affidano e sono in testa alla classifica europea, seguiti dai tedeschi con il loro 46 per cento e dagli inglesi con un buon 35 per cento. Il passo indietro degli inglesi Ma la Gran Bretagna, nonostante questo, nonostante il fatto che abbia fondato il primo ospedale omeopatico (il Royal Homoeopathic Hospital di Londra) fin dalla metà dell' 800 e che abbia sempre incluso le terapie alternative nel sistema sanitario nazionale, ora si trova in controtendenza. Per ragioni economiche, perché il sistema pubblico è a corto di fondi. Per i numerosi attacchi di una delle sue più note riviste mediche, The Lancet, soprattutto all' omeopatia e, ultimo, un libro ora in uscita anche in Italia per Rizzoli intitolato Aghi, pozioni e massaggi che coglie questi umori e si pone criticamente nei confronti delle Mnc. Simon Singh (giornalista scientifico) e Edzard Ernst (medico), partendo dalla storia del salasso, analizzano tecnica per tecnica secondo, dicono, i principi della medicina basata sui trial clinici e ne deducono che spesso il loro effetto è soltanto placebo. Quando va bene, come nel caso di agopuntura e omeopatia. Ma può anche andare male, come nel caso della manipolazione del collo con la chiropratica, che può essere persino dannosa. E avvertono del pericolo che un' eccessiva fiducia in questi rimedi possa distogliere l' attenzione del paziente nei confronti di terapie salvavita. C' è da dire, però, che l' ottica con la quale vengono oggi viste le Mnc in Occidente non è quella di «alternativa» ma quella di «integrazione» con quella convenzionale e che le prime hanno un senso in quegli spazi lasciati liberi dalla seconda forse più abituata a curare (soprattutto con i farmaci) che a prevenire. Il caso della Toscana «In Italia - commenta Minelli - l' unica Regione che ha integrato tre discipline, agopuntura, fitoterapia e omeopatia, nel sistema sanitario nazionale è la Toscana. La Lombardia aveva strutture che erogavano prestazioni di questo tipo, ma sono state abolite tranne che all' ospedale Sacco di Milano». Un aspetto nuovo è il crescente interesse delle strutture universitarie italiane verso la formazione dei medici anche nelle discipline non convenzionali: ha cominciato l' Università di Milano nel 1998 con i corsi organizzati da Umberto Solimene, poi quella di Pavia, di Roma e adesso quattro università, Bologna, Roma La Sapienza, Verona e Messina hanno appena dato vita a un corso di Alta Formazione in questo settore. «E' importante che i cittadini - osserva Manuela Caletti Fantinelli, direttore dell' associazione Pinus e coordinatrice nazionale dei corsi - non si affidino a pericolosi sedicenti esperti. Per questo abbiamo pensato a corsi destinati a medici e al personale sanitario che offrano una nuova visione integrata delle Mnc con quella ufficiale». E la ricerca in Italia? «Esistono diversi livelli - dice Minelli - L' Istituto Superiore di Sanità ha cominciato con progetti in alcuni settori che dovevano avere un maggiore sviluppo. Dal 2000 questo tipo di ricerca è sostenuto anche dalle Regioni: Lombardia, Emilia Romagna e Campania in prima fila, seguite dalla Toscana». * * * In libreria «Aghi, pozioni e massaggi» (Rizzoli, 360 pagine, 19 euro) è il libro nel quale i due autori, Simon Singh e Edzard Ernst, presentano la loro verità sulla medicina alternativa. Bazzi Adriana ____________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 8 set. ’08 AZIENDA MISTA SASSARI NOMINATO RENATO MURA L’Azienda mista: è un chirurgo il nuovo manager L’Azienda mista sassarese ricomincia da tre. Al terzo tentativo di dare continuità amministrativa alla nuova struttura ospedaliero-universitaria, la Regione affida a Renato Mura la direzione generale dell’Azienda mista. Dopo la breve guida di Gianni Cherchi, scomparso nel dicembre dello scorso anno, e la nomina a vuoto dell’americano David Harris (non possedeva i titoli per occupare quella poltrona), lunedì Renato Mura firmerà il contratto che gli affiderà una missione impossibile: miscelare a dovere la sanità ospedaliera e accademica del nord ovest Sardegna. Alla presentazione ufficiale Mura, sassarese, 63 anni, chirurgo, da quattordici anni a Olbia (dodici come primario di Chirurgia e gli ultimi due come direttore sanitario della Asl 2), siede gomito a gomito con l’assessore regionale alla Sanità, Nerina Dirindin. Ascolta in composto silenzio la lunga premessa dell’assessore, che parla di, «nomina legata esclusivamente al curriculum e ai risultati professionali ottenuti», che condisce il benvenuto con promesse e garanzie, «metteremo a disposizione finanziamenti per portare avanti i progetti», che indica senza tentennamenti le priorità del nuovo manager, «un progetto di organizzazione complessiva dell’Azienda, con la messa a norma di tutte le strutture, e la predisposizione dell’atto aziendale, così come indicato dalle linee di indirizzo varate dalla Regione». Il nuovo manager tiene le mani incrociate sulla scrivania, dosa gli sguardi e centellina i sorrisi. Dopo l’introduzione della Dirindin, Mura ascolta con altrettanta compostezza l’intervento del rettore dell’Università di Sassari, Alessandro Maida. Dopo le schermaglie di mezza estate, quando la Regione aveva tentato di nominare il cavallo di ritorno Bruno Zanaroli al vertice dell’Azienda mista, incassando il no secco dell’Ateneo, l’arrivo di Mura è stato concordato con attenzione. Il sì degli accademici è legato a filo doppio all’arrivo di finanziamenti regionali, pattuiti in un incontro fra gentiluomini (niente scritti, basta la parola), fra i vertici dell’Università sassarese e il Governatore Soru. Quando finalmente tocca a lui parlare, Renato Mura spende poche parole: «Il mio compito è arduo e punto a due obiettivi, creare un’ottima assistenza ospedaliero-universitaria, e sposarla con un’ottima attività didattica e di ricerca». (v. g.) Ieri il manager è arrivato in città «scortato» dall’assessore Dirindin e dal rettore Maida «Il mio obiettivo? Raggiungere l’eccellenza» Prima uscita pubblica per il nuovo direttore generale dell’azienda mista Renato Mura Sempre uguali gli obiettivi: «Porteremo a norma le strutture e daremo fiato alla ricerca» SASSARI. Le «mosse» strategiche per rendere la sanità sassarese adeguata alle necessità della popolazione sono sempre quelle. E anche Renato Mura, direttore generale dell’azienda mista appena nominato dal governatore Soru, non ha potuto non ripercorrere ragionamenti già espressi. Nella prima uscita ufficiale di ieri, negli uffici della direzione Asl in via Catalocchino, con la scorta dell’assessore alla Sanità Nerina Dirindin e del rettore Alessandro Maida, Renato Mura ha parlato di immediato adeguamento delle strutture alle norme di sicurezza previste dalla legge e di forte impegno perchè le cliniche universitarie possano tornare ai livelli di eccellenza che le hanno sempre contraddistinte fino a non molti anni fa. L’assessore regionale, invece, ci ha tenuto a sottolineare che la scelta di Renato Mura è stata dettata da ragioni puramente professionali e che si è arrivati alla nomina con il consenso unanime della parte universitaria. Proprio l’ateneo sassarese aveva a suo tempo siglato un protocollo di intesa con la Regione per la costituzione dell’azienda mista ospedale-università. «Come assessorato - ha detto - dobbiamo anche ringraziare i manager Antonello Ganau e David Harris che in mezzo a non poche difficoltà hanno consentito di portare avanti il lavoro in un’azienda che, a pochi mesi dalla nascita, è stata segnata dal lutto della perdita del proprio direttore generale, Gianni Cherchi». Harris e Ganau, che ieri erano presenti all’incontro ufficiale, hanno infatti svolto rispettivamente il ruolo di direttore generale e sanitario anche se le loro nomine erano state fin dall’inizio contestate da più parti per la mancanza dei requisiti necessari. Dopo diversi tentativi della Regione di sanare una situazione imbarazzante si è arrivati alla nomina di un nuovo direttore. Il quale, a sua volta, in servizio da lunedì 8, nominerà i direttori sanitario e amministrativo. Ieri Mura, tuttavia non si è sbilanciato sulla futura formazione del suo staff. «Lasciatemi prendere possesso del mio ufficio - ha detto - poi tutto verrà sistemato». Mura, comunque, i problemi della sanità sassarese li conosce bene. Nonostante abbia lavorato per diversi anni a Olbia, fra l’altro accanto a Cherchi, si è laureato a Sassari e qui ha intrapreso la sua carriera di chirurgo. «Ho lasciato questa città quando la sua sanità era ad altissimi livelli - ha detto - vorrei tanto contribuire a riportarla su un piano di efficienza». Il punto da cui partire sono ovviamente le strutture. A questo proposito l’assessore Dirindin ha detto che i lavori per la conclusione del primo «lotto» dell’ospedale civile Santissima Annunziata saranno portati a termine entro l’anno, compreso l’arredamento degli interni. All’inizio dell’anno prossimo i reparti potranno cominciare ad ospitare i degenti. Sono scaduti fra l’altro i termini del bando pubblicato dalla Asl per la seconda parte dell’ospedale che cancellerà del tutto l’ospedale come lo conosciamo oggi. «Sono già arrivate proposte e progetti interessanti quindi si potrà cominciare subito ad avviare i lavori per il completamento della struttura». L’ambizioso progetto era andato ad aggiungersi in un secondo tempo all’ampliamento dell’ospedale civile. Il «dente» che sta prendendo forma sull’area dove prima c’erano i giardini dell’ospedale è stato finanziato con 25 milioni di euro e prevede l’attivazione di tutta una serie di servizi che oggi sono ospitati in una struttura ormai considerata del tutto inadeguata. Le risorse per il nuovo ospedale, ha detto ieri l’assessore, saranno disponibili entro l’autunno. Un alto bel po’ di soldi saranno necessari per rifondare daccapo le cliniche universitarie, vero tallone d’Achille della sanità sassarese. Il neodirettore Renato Mura ha confermato, come il suo predecessore Harris, che si partirà dal risanamento del settore materno infantile il quale sarà spostato dalla sede attuale delle vecchie cliniche di viale San Pietro è troverà una collocazione più dignitosa per i pazienti e per i medici. Mura ha anche sottolineato, supportato in questo dalle parole del rettore Maida, che farà di tutto per raggiungere l’obiettivo aziendale di unire nel modo migliore gli aspetti dell’assistenza, della didattica e della ricerca. Ieri l’assessore Dirindin ha anche incontrato i sindaci di Ittiri e di Thiesi dove si trovano le due strutture destinate a diventare ospedali di comunità. Amadu: «Sanità, ora arrivino i fatti concreti» SASSARI. Dopo gli auguri di buon lavoro «nell’interesse generale della Sanità del Nord Sardegna» a Renato Mura, nuovo manager dell’azienda mista, Tore Amadu auspica «una decisa azione del mondo politico sassarese a sostegno delle richieste dell’Università». La nomina secondo Amadu pone fine «alla grave situazione di ingovernabilità nella quale la stessa giunta regionale aveva costretto l’Azienda mista ospedaliero-sanitaria di Sassari». Il compito di Mura consisterà, secondo l’esponente di Forza Italia - «soprattutto nell’impegno a recuperare le occasioni perdute: in questa ottica dovrà tenere uno stretto raccordo con la facoltà di Medicina e dovrà lavorare a stretto contatto con l’Asl per una eccellente qualità dei servizi sanitari offerti ai cittadini». Secondo Amadu «i progetti strutturali e tecnologici da realizzare richiederanno immediati finanziamenti». «Le promesse della giunta regionale su questo versante - si legge nella nota del consigliere - per essere credibili, dovranno presto essere suffragate da delibere e provvedimenti concreti». Amadu conclude auspicando «fronte comune della politica e delle istituzioni sassaresi a sostegno dei programmi per un rilancio del ruolo del polo sanitario universitario». ____________________________________________________________ Corriere della Sera 18 Sett. ‘08 BRUNETTA: OPERAZIONE VERITÀ SUI MEDICI: ONLINE LE LORO CARRIERE Sanità Il ministro: si deve sapere chi salva vite e chi è un macellaio. Online anche le carriere dei maestri Renato Brunetta, ministro della Funzione pubblica Se posso sapere tutto su yogurt e merendine non capisco perché non dovrei poter valutare chi mi metterà le mani addosso «Pubblicherò in Rete i curricula dei chirurghi». L'Ordine: toni rudi, ma collaboreremo La riforma dovrebbe partire dal prossimo anno. I dubbi dell'ex ministro Guzzanti: valutazioni complicate Margherita De Bac ROMA - «Ho lanciato un altro sasso nello stagno. Ma vedrete che i primi ad essere d'accordo saranno quelli bravi. Avranno tutto l'interesse a mettersi su internet», è sicuro Renato Brunetta, il ministro anti-fannulloni. Stavolta non annuncia una nuova crociata contro chi non fa. Ma contro chi fa male. Chirurghi in testa. «Se devo farmi operare ho il diritto di sapere se il mio medico è un macellaio oppure una persona efficiente. Se ammazza o salva le vite», insiste con linguaggio crudo, a Radio Radicale. Dal prossimo anno il ministero per la Pubblica Amministrazione renderà pubblici i curriculum e gli score dei camici bianchi. «Voglio mettere in rete i risultati di tutti i professionisti, non solo della sanità ma anche maestri, funzionari... Se posso sapere tutto su yogurt e merendine non capisco perché non dovrei poter valutare chi mi metterà le mani addosso», insiste chiarendo di non aver nulla di personale, di non essere stato vittima della cosiddetta malasanità. Ha un moto di sconforto Amedeo Bianco, presidente della Federazione degli Ordini dei medici e odontoiatri, la Fnomceo: «La nostra professione dà molto alla società e ora essere trattati con questo vocabolario truculento ci ferisce. Tuttavia siamo pronti a collaborare». Si sente offeso Roberto Tersigni, presidente della società italiana di chirurgia: «Il ministro è davvero andato sopra le righe. Essere paragonati allo yogurt. E perché non i curriculum dei politici?». Carlo Lusenti, segretario nazionale del sindacato medico Anaao, contesta i termini, non i contenuti: «La nostra attività non deve avere segreti». Tutti però ritengono di difficile applicazione il metodo dei punteggi. Secondo l'ex ministro della Sanità Elio Guzzanti, grande tecnico e studioso di sistemi sanitari, a partire dal nostro, allo stato attuale «non ci sono le basi per attivare gli score. È già complicato valutare i centri, figuriamoci i singoli operatori. Ci vorrebbero tecniche di valutazione molto raffinate. Non è detto che un chirurgo col 5% di mortalità dei pazienti sia peggiore del collega con l'1%. Potrebbe significare che opera i casi più gravi». «Un'anagrafe di chirurghi? Assolutamente condivisibile. Un cittadino deve sapere come lavoriamo, però dubito si trovi un metodo corretto. La medicina non è matematica», è in linea con Brunetta Lorenzo Menicanti, cardiochirurgo del Policlinico San Donato. Giuseppe Ettorre, responsabile del centro trapianti del San Camillo, a Roma, ha operato tutta la notte. Trapianto di fegato poi un'emergenza, in piedi 48 ore di fila: «Come verrebbe valutato il mio impegno? - si chiede - Quanti punti prenderei per aver rinunciato alla mia famiglia, per i sacrifici in ospedale? Io certo non ho paura di finire su internet». 354 Foto: Mila i medici chirurghi iscritti all'albo in Italia (dati 2006) Foto: Camici bianchi Per i chirurghi, l'ipotesi di curricula pubblici ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 17 Sett. ‘08 CERTIFICATI SANITARI A NORMA DI PRIVACY Le indicazioni dell'Istituto alle sedi Arturo Rossi Nuove misure da adottare subito per evitare che i trattamenti dei dati sanitari all'interno dell'Inps possano violare i diritti, le libertà fondamentali e la dignità degli interessati. Con la circolare 87/2008, l'Istituto riepiloga le misure già adottate e le nuove linee di indirizzo cui le sedi periferiche dovranno attenersi. I compiti sono divisi tra l'Unità di processo prestazioni a sostegno del reddito e il Centro medico legale. La prima si occupa della ricezione e dell'acquisizione dei certificati sanitari, della liquidazione dell'indennità di malattia e delle attività amministrative. Il secondo invece si occupa dell'attività di valutazione medico legale del certificato, dell'archiviazione e delle attività relative agli aspetti medico-legali dei flussi innescati da questa valutazione. Tutto ciò comporta una serie di adempimenti. In particolare, precisa l'Inps, i documenti con dati riferiti allo stato di salute vanno conservati in busta chiusa e allegati alle note di trasmissione solo se indispensabili. Vanno poi separate la documentazione amministrativa e quella sanitaria e quest'ultima va inserita in contenitori o buste con l'indicazione «contiene documentazione sanitaria» e protetta adeguatamente. La documentazione medica in più va restituita agli interessati e non può essere riutilizzata. I medici di controllo devono rispettare le fasce orarie e identificarsi con nome e qualifica esibendo, se possibile, il tesserino dell'Ordine dei medici o il cartellino di riconoscimento; devono bussare al domicilio del lavoratore evitando di chiedere notizie ai vicini o a persone diverse e identificare l'assicurato. La notifica dell'invito a visita medica di controllo ambulatoriale deve avvenire secondo le modalità indicate dal Codice di procedura civile. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 17 Sett. ‘08 SANITA’: PER I GOVERNATORI SERVONO 9,4 MILIARDI Il nodo sanità. Domani i presidenti a Palazzo Chigi Roberto Turno Berlusconi è pronto ad aprire il confronto con i governatori sulla spesa sanitaria. Il livello di finanziamento di Asl e ospedali si sta trasformando infatti in una pregiudiziale per le Regioni, tanto più davanti alla prospettiva del federalismo fiscale. E così, non solo per cercare di sminare il terreno della riforma, il premier già domani potrebbe incontrare a Palazzo Chigi una rappresentanza dei governatori, come promesso a fine luglio e come ribadito giovedì dai presidenti nell'incontro con Calderoli e Fitto. In attesa di esprimere formalmente il 25 settembre il proprio parere sulla bozza di riforma federalista, i governatori insistono nel pressing sulla spesa sanitaria: chiedono 7 miliardi in più per il 2010-2011, rivendicano una promessa di altri 2 miliardi per il 2008 ereditata da Prodi e Padoa-Schioppa e tengono alta l'asticella dei 400 milioni necessari nel 2009 dopo l'abolizione del superticket su visite e analisi. In tutto ben 9,4 miliardi, su cui però l'Economia non vuole cedere. Ma i governatori pretendono risposte. Anche per lo stretto legame, oltreché col federalismo fiscale, tra il finanziamento del Ssn e i piani di rientro delle Regioni in deficit: se il finanziamento è al ribasso, si lamenta, le "Regioni canaglia" avranno un motivo in più per sostenere che il percorso di risanamento è impraticabile. Ecco così che l'incontro a Palazzo Chigi tratterà non solo di sfuggita la situazione delle Regioni sottoposte ai Piani di rientro, con un occhio di riguardo per Lazio, Campania, Sicilia e Molise. Ma non solo. Perché senza certezze sulle risorse finanziarie già a breve-medio termine lo stesso «Patto per la salute», da riscrivere entro fine ottobre, rischia di arenarsi; e anche la revisione dei Lea (livelli essenziali di assistenza), sempre domani all'ordine del giorno in un incontro con gli assessori, difficilmente arriverà in porto e, in ogni caso, non potrà essere discussa. Tutte partite apertissime, come del resto quella sui farmaci e, in particolare, dell'extrasconto praticato ai farmacisti sui farmaci generici. Ieri a livello tecnico Governo e Regioni hanno presentato alle parti (distributori finali e intermedi, ma anche industrie) una proposta comune (blocco degli sconti, taglio dei prezzi dei generici, blocco della diminuzione dei listini sei mesi prima e sei mesi dopo la "caduta" dei brevetti) che però è stata contestata. La soluzione dovrebbe arrivare al tavolo politico del 24 settembre. Eventuali risparmi, va ricordato, potrebbero compensare il mancato finanziamento alle Regioni dell'abolizione del superticket sulle visite. Sanità a parte, le Regioni si preparano a discutere da oggi gli emendamenti alla "bozza Calderoli" sul federalismo fiscale. Nel mirino, come anticipato («Il Sole-24 Ore» del 14 settembre), la certezza dei costi standard anche per gli enti locali, la stretta correlazione tra risorse e funzioni trasferite, una clausola di garanzia per la Regione (la Lombardia) che non avrà accesso al Fondo perequativo in caso di entrate inferiori al previsto. Infine il finanziamento di Roma capitale, sul quale soprattutto dal Nord si chiede meno discrezionalità e un coinvolgimento di tutte le Regioni anche sui compiti della capitale. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Sett. ‘08 ERRORI, CONTO SALATO PER GLI USA La malpractice costa 1,5 miliardi ogni anno e causa il 10% delle morti in sala operatoria Una banca dati raccoglie le segnalazioni anonime dei medici americani Mar.B. Costano ben un miliardo e mezzo di dollari ogni anno e causano il 10% delle morti che avvengono in sala operatoria. Sono gli errori evitabili dei chirurghi americani: dalle "sviste" dei medici durante le operazioni agli effetti indesiderati come le infezioni post-chirurgiche. A fare il punto della situazione è l'«Agency for Healthcare (Ahrq) Research and Quality» statunitense nel suo ultimo report («The impact of medicai errore on ninety day costs and outcomes; an examination of surgical patients» pubblicato a fine luglio). L'agenzia governativa d'Oltreoceano ha analizzato i dati di lólmila pazienti con assicurazione sanitaria fra i 18 e i 64 anni sottoposti a interventi chirurgici fra il 2001 e il 2002.1 risultati hanno evidenziato che un paziente su dieci è morto entro 90 giorni dall'operazione a causa di errori evitabili. Un terzo delle morti è avvenuto una volta che la persona era stata dimessa dall'ospedale. Per quanto riguarda, poi, la nota dolente dei costi un malato che sviluppa un'insufficienza respiratoria acuta in seguito a un intervento chirurgico costa alla propria assicurazione sanitaria circa 28mila dollari extra, circa il 52% in più del previsto. Un'infezione vale invece quasi 20mila dollari, il 48% in più di quanto preventivato. Gli errori degli infermieri, inoltre, come una errata medicazione delle ferite o la frattura di un'anca dovuta a movimenti bruschi, possono far alzare il conto di altri 12mila dollari. «Eliminare gli errori evitabili - ha spiegato Carolyn Clancy, direttore dell'Ahrq - continua a essere la priorità del nostro Sistema sanitario». Del resto secondo le più recenti stime nelle corsie americane si rischia di più la vita che in un'autostrada affollata. Per ogni americano che muore a causa di un incidente stradale, ce ne sono almeno due che perdono la vita a causa di un errore medico: i dati, che risalgono al 2005, parlano di circa 90mila morti all'anno. Un'emergenza contro la quale l'amministrazione americana ha preso una serie di contromisure: a cominciare dall'approvazione nel 2005 di una legge («The patient safety and quality improvement act») che sta tentando di creare un'enorme banca dati nazionale, a prova di privacy, con tutte le segnalazioni volontarie di errori inviate da medici e strutture sanitarie. Con l'assicurazione che le informazioni raccolte non vengono mai utilizzate nei tribunali, ma solo per trovare soluzioni e interventi in grado di evitare nuovi errori medici in futuro. Dallo scorso febbraio le associazioni dei pazienti riconosciute a livello nazionale si sono messe a studiare insieme al Governo, sulla base delle segnalzioni ricevute, delle soluzioni e delle possibili ricette per arginare il boom degli errori. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 15 Sett. ‘08 SULL'ERRORE DEL MEDICO IL PAZIENTE «CONCILIA» Sanità COME EVITARE LE LITI Al Careggi di Firenze iter interno che evita le cause Marzio Bartoloni Un ritardo nella diagnosi, una terapia sbagliata o magari una brutta caduta dal letto d'ospedale: le ragioni di lite sulla salute non mancano mai, soprattutto se dietro all'incidente - oltre 20mila reclami all'anno in Italia - si annida un errore di medici e infermieri. Ma ora nelle corsie dei nostri ospedali può anche scoppiare la pace, grazie al "manager delle liti" che farà di tutto per convincere cittadini e camici bianchi a stringersi di nuovo la mano. Anche perché la tagliola dei costi assicurativi diventa sempre più stringente: basti pensare che alcuni liberi professionisti arrivano a pagare premi da 4mila euro l'anno. Il compito è delicatissimo e per nulla facile: trovare una soluzione evitando il tanto temuto ricorso a tribunali e avvocati. Con tutte le pesanti conseguenze del caso: salati risarcimenti dopo lunghi e costosi contenziosi e compagnie assicurative in fuga dalle strutture sanitarie. Meglio dunque trovare un'alternativa, soprattutto per quegli episodi - la stragrande maggioranza - che possono essere risolti velocemente e con indennizzi soddisfacenti per il paziente danneggiato. Una soluzione in questo senso l'ha messa a punto la Regione Toscana che solo nel 2007 ha "incassato" 1.325 tra atti di citazione e richieste di risarcimento. Sarà, infatti, l'ospedale Careggi di Firenze, seguito a ruota dall'Asl di Livorno, a gestire come battistrada il primo «servizio di conciliazione» per tutte le controversie sanitarie che hanno un valore fino a 50mila euro. E che riguarderanno, per ora, solo alcuni casi specifici piuttosto frequenti: dalle errate terapie alle diagnosi ritardate, dalle manovre di intubazione sbagliate fino allo smarrimento di protesi e alle cadute in corsia. Il nuovo servizio prenderà il via nelle prossime settimane, non appena insediata un'apposita segreteria che avrà il compito di informare con imparzialità le parti coinvolte nella controversia, accogliendo l'eventuale richiesta di conciliazione. Sarà poi il «conciliatore» - scelto dalla segreteria secondo criteri di rotazione presso un apposito albo costituito dalla Regione - ad aiutare, nel giro di un mese, i litiganti a trovare un accordo che possa soddisfare tutti. Stabilendo - se del caso - anche l'indennizzo che dovrà essere pagato al paziente. «Questo servizio - avverte, però, Beatrice Sassi, direttore amministrativo dell'azienda ospedaliera universitaria Careggi - non va concepito come la scorciatoia per soddisfare richieste di risarcimento in modo veloce e poco costoso». Insomma l'obiettivo non è quello di pagare e basta, «in realtà siamo di fronte - aggiunge il manager del Careggi - a uno strumento, che può avere altri esiti: per un errore di terapia, a esempio, si può decidere per l'effettiva presa in carico del paziente e del suo problema di salute indotto dall'errore». In ogni caso, anche se si arrivasse all'indennizzo, i risparmi per la struttura sanitaria sono garantiti. A cominciare dal taglio ai costi delle polizze con cui l'ospedale deve assicurare il personale sanitario: «Uno dei nostri obiettivi - conclude Beatrice Sassi - è quello di costruire un sistema di risarcimento autonomo per una parte consistente dei sinistri, in modo da abbattere i nostri costi assicurativi». La Toscana, con l'ospedale Careggi in prima fila, non è la sola Regione ad aver intrapreso la strada della gestione interna delle liti. L'Emilia Romagna, a esempio, da almeno un paio d'anni sta addestrando un drappello di mediatori del conflitto per impiegarli nelle sue strutture sanitarie. Con alcuni esperimenti, già riusciti, nelle Asl di Piacenza e Modena (imitate, poi, dall'Asl lombarda di Lecco) dove su un centinaio di colloqui si è giunti, almeno in una metà delle occasioni, a una composizione della controversia. La mediazione, a differenza della conciliazione, si occupa principalmente di ricomporre il conflitto attraverso l'ascolto dei reclami e puntando a ristabilire una buona comunicazione tra l'operatore sanitario e il suo assistito. Grazie all'intervento di un mediatore neutrale che nella garanzia del segreto professionale mette il medico e il cittadino sullo stesso piano: ognuno potrà spiegare con calma la sua versione dei fatti, studiando insieme una possibile soluzione. Che spesso arriva. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 15 Sett. ‘08 UNA CARTELLA CLINICA PER OGNI STRUMENTO Sara Todaro Serve una "cartella clinica" per ogni apparecchiatura in uso nelle strutture sanitarie italiane, per documentare la manutenzione, fare barriera contro gli incidenti in agguato, censire lo stato di salute di un parco tecnologico ormai alle corde. Il consiglio arriva dritto dritto dal Welfare, ovvero dal Dipartimento qualità dell'ex ministero della Salute. Appena pubblicata nel sito del dicastero, la raccomandazione per prevenire gli eventi avversi da malfunzionamento dei dispositivi medici non fa misteri: «il livello di obsolescenza delle tecnologie installate in Italia è più elevato della media Ue... la manutenzione inadeguata era stata indicata tra le cause d'errore nell'utilizzo degli elettromedicali fin dal 2003». Contromisure: un sano mix di primario buon senso e rispetto delle regole sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. L'obiettivo è quello di ridurre gli incidenti "evitabili". Il succo dei consigli: risparmiare sulla manutenzione non conviene. Riflessioni esplicite, insomma. Cartina di tornasole di un universo di consapevolezze da far tremare i polsi. Destinatarie dei buoni consigli, tutte le direzioni aziendali e le strutture deputate al governo del patrimonio tecnologico biomedico: servizi di ingegneria clinica in primis, là dove esistono. Nel pool degli suggeritori, ingegneri clinici, esperti del ministero, società scientifiche, ordini e collegi professionali, Ispesl e un ampio parterre di produttori (Assobiomedica, Assogastecnici, Assopresidi, Fifo). Le indicazioni vanno al nocciolo del problema: meglio prevenire che curare. Come? Creazione di un servizio ad hoc di ingegneria clinica; selezione di un laureato idoneo per dirigerlo (ingegnere clinico o biomedico); impiego di tecnici biomedici adeguatamente formati («preferibilmente» presso le aziende produttrici); centralizzazione di tutte le richieste di intervento tecnico, sono solo alcuni dei diktat indirizzati alle aziende. Gli allegati tecnici precisano che serve un piano generale di manutenzione; l'analisi del ciclo di vita di ogni macchina; una "cartella" per ogni apparecchio; le verifiche di sicurezza elettrica e quant'altro. Fine ultimo: operare in sicurezza, ma anche spendere allo stesso modo. Valutando le priorità di investimento in rapporto all'obsolescenza e coinvolgendo nelle scelte anche l'ingegnere clinico. Per un prendersi cura a misura di tecnologie. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 15 Sett. ‘08 IL BILANCIO DEGLI SCREENING ONCOLOGICI Un capitolo sui fattori di rischio Pubblichiamo uno stralcio del capitolo «Prevenzione dei tumori femminili» tratto dal libro verde «La salute della donna». In Italia, gli screening organizzati in ambito di prevenzione secondaria oncologica si sono sviluppati soprattutto durante gli anni '90 svincolandosi progressivamente dalla caratteristica di iniziative sperimentali e connotandosi sempre più come interventi di Sanità pubblica sempre più istituzionalmente supportati. Si pensi, per esempio, al ruolo del Centro nazionale di controllo delle malattie (Ccm), dell'Osservatorio nazionale per gli screening (Ons) e dei gruppi interdisciplinari di operatori (GisMa, GisCi e GisCor) che da anni offrono il loro contributo scientifico allo sviluppo dei programmi. Certamente un impulso decisivo allo sviluppo dei programmi italiani è pervenuto dai provvedimenti normativi che, sia in termini di pianificazione (Piano sanitario nazionale della prevenzione) che operativi (legge 138/2004), hanno stimolato l'attivazione dei programmi in molte Regioni. L'impegno non è stato solamente nella direzione dello stanziamento di fondi, ma anche nel mantenere costante e attivo il monitoraggio dell'evoluzione e dell'attivazione dei programmi attraverso l'operato della Conferenza Stato-Regioni e del Ccm. Va anche ricordato che nel 2006 il ministero della Salute, in collaborazione con l'Ons e la Lega italiana tumori, ha pubblicato un opuscolo dal titolo «Raccomandazioni per l'implementazione dei programmi di screening», entrando, quindi, nel merito delle caratteristiche organizzative e valutative dei programmi. Ogni anno, inoltre, i dati di attività e di valutazione dei programmi di screening sono raccolti e analizzali nel rapporto annuale dell'Ons. Limitandoci agli screening per i tumori femminili attualmente in Italia, i programmi di screening attivi per il tumore della mammella sono 123 e per il cervicocarcinoma sono 122. Risulta che in tutte le Regioni italiane sia attivo almeno un programma organizzato per lo screening mammografico. È verosimile che a breve ciò avverrà anche per lo screening per il collo dell'utero. Tuttavia, l'aver attivato i programmi non significa necessariamente essere in grado di invitare regolarmente la popolazione obiettivo. Soprattutto i programmi giovani hanno più difficoltà ad entrare «a regime», cioè a invitare con regolarità biennale o triennale come previsto dalle raccomandazioni nazionali. (...) I dati di estensione e di partecipazione più recenti sono disponibili sul sesto Rapporto dell'Osservatorio nazionale screening che ha pubblicato i dati, ancorché preliminari, anche per l'anno 2006. Da questo risulta che il 78,2% delle donne italiane appartenenti alla popolazione obiettivo per lo screening mammografico è inserita in un programma di screening (76,4% nel 2005); lo stesso indicatore si colloca al 69% per lo screening per il cervicocarcinoma (66,7% nel 2005). Il confronto tra ripartizioni geografiche evidenzia già a questo livello discrete differenze geografiche. Sono in particolare le regioni del Sud e le Isole che si distanziano, anche se questo gap si va progressivamente riducendo. Tuttavia non è sufficiente risiedere in un territorio ove è attivo un programma di screening. È necessario che il programma sia in grado di raggiungere e mantenere un livello di attività sufficiente a garantire l'invito a tutta la popolazione obiettivo secondo la periodicità prevista. L'atteso è che nello screening per il cervicocarcinoma si inviti ogni anno un terzo delle donne dell'intera popolazione obiettivo, data la periodicità di ripetizione triennale del test. Nel 2006, in Italia, i programmi hanno invitato il 25,3%. Per quanto riguarda la mammella invece, sono state, invitate il 57,2% delle donne che si sarebbe dovuto invitare. Infine, per ottenere successo in termini di impatto sulla mortalità ed eventualmente sull'incidenza, un programma di screening deve ottenere consenso e partecipazione da parte della popolazione. La partecipazione complessiva in Italia al programma di screening per il tumore della mammella è del 56,6% (adesione grezza anno 2006) e del 38,5% per il cervicocarcinoma uterino. Anche in questo caso vi sono differenze di tipo geografico. La partecipazione al programma deve però essere informata e consapevole ed è in questi termini che si sono sviluppati gruppi di lavoro "inter-screening". Vi deve essere, infatti chiarezza informativa sui vantaggi, ma anche sui possibili svantaggi per la salute (per esempio falsi positivi e falsi negativi, ansia, possibili sovradiagnosi e/o sovratrattamenti) e vi è, inoltre, l'esigenza di veicolare alla popolazione, almeno da parte istituzionale, messaggi semplici, chiari e non contraddittori. Su questo argomento pongono attenzione anche le recenti raccomandazioni ministeriali. (...) ___________________________________________________________ Il Giornale 20 Sett. ‘08 PIÙ CURE PER IL TUMORE AL COLON A STOCCOLMA 9500 ONCOLOGI PER il LORO CONGRESSO EUROPEO Nù Luisa Roma *Oltre 9.500 oncologi giunti da più di cento Paesi del mondo, si sono riuniti per quattro giorni a Stoccolma al 33° Congresso della Società europea di Medicina Oncologica (Esmo), per discutere e studiare le terapie d'avanguardia. Un' occasione che ha confermato, ancora una volta, il ruolo fondamentale degli anticorpi monoclonali, farmaci cosiddetti biologici diretti contro i fattori di crescita cellulare che alimentano i vasi sanguigni del tumore. Proprio questi farmaci offrono un contributo alla speranza di guarigione del cancro colon rettale metastatico; la seconda forma di neoplasia più comune al mondo: in Europa colpisce ogni anno oltre 400 mila persone; 30mila in Italia. Secondo dati emersi a Fresto l'85% dei pazienti potrà guarire grazie alla chirurgia e 'alla moderna chemioterapia con gli anticorpi monoclonali Stoccolma, bevacizumab, la molecola capostipite degli anticorpi monoclonali, in pazienti con carcinoma colon rettale metastatico, aggiunge in media, quasi due anni di vita, migliorando in modo significativo le possibilità di sopravvivenza, dopo l'intervento chirurgico di rimozione del tumore. «Gli anticorpi monoclonali, si sono dimostrati efficaci quando il cancro è localizzato e si è subito un intervento», commenta il professor Alberto Sobrero, primario di oncologia medica all'ospedale San Martino di Genova, precisando che nel tumore del colon, se il paziente ha avuto una resezione radicale, ha già un 50 per cento di possibilità di guarigione. La chemioterapia aggiunge un altro 20-25 per cento di probabilità di guarigione. Ciò significa raggiungere i175 per cento. Aggiungendo nuovi farmaci biologici, quel 25 per cento diventerà un 30-35 per cento, portando la percentuale di guarigione all'85 per cento». Se però la malattia non è localizzata ma disseminata, il gioco si fa duro. «In generale non si guarisce - aggiunge Sobrero, ma i progressi di questi ultimi anni hanno dimostrato che vi è un aumento delle percentuali delle guarigioni, con gli anticorpi monoclonali, anche a questo stadio». La ricerca è in rapida evoluzione . «Stiamo studiando oltre cinquanta nuovi farmaci, potenzialmente efficaci in questa patologia», ricorda l'oncologo genovese. La prevenzione? «Possiamo farla - dice - mangiando alla mediterranea. E poi con la diagnosi precoce. La colonscopia va fatta almeno una volta fra i 50 e i 60 anni e dai 40 se si- è a rischio». In Europa oltre al tumore del colon-retto, bevacizumab è approvato per il tumore della mammella; del polmone non a piccole cellule e per il carcinoma renale. ____________________________________________________________ Panorama 19 Sett. ‘08 NEUROBICA Il cervello va in palestra Il campanello d'allarme per decidersi ad allenare la mente è quando si dimenticano nomi e numeri. GIANNA MILANO Quando ho compiuto cinquant'anni, memore di ciò che sostengono neuroscienziati di fama, ho deciso di iniziare a suonare il trombone. E ora suono in una big band. Avrei potuto cimentarmi con una nuova lingua, ma ho preferito uno strumento. Anche per assecondare la mia passione per la musica. Il cervello è un organo complesso e le nuove tecniche di visualizzazione, che ne catturano le immagini mentre è in funzione, hanno evidenziato che più si specializza meno mantiene la sua plasticità. Di qui il beneficio di stimoli nuovi. La routine va spezzata, altrimenti il cervello si adagia». A raccontarlo è Pierluigi Politi, psichiatra all'Università di Pavia, che ha messo in pratica quanto molti esperti vanno ripetendo: un'attività mentale di qualità mantiene alto il rendimento del cervello. «Se anatomicamente va incontro con l'età a un lento declino, noi possiamo contrastare questo processo aiutando la formazione di nuovi circuiti, percorsi diversi che ne favoriscano la funzionalità. E il trombone, come altri strumenti, è perfetto perché stimola sia le capacità intellettuali sia la coordinazione fisica». Che la stimolazione intellettuale sia la chiave per tenere giovane il cervello è quanto ora propone la neurobica, termine coniato dal neurobiologo americano Lawrence Katz, della Duke University, per indicare gli esercizi (83 quelli contenuti nel suo saggio Keep your brain alive) che mantengono agile, flessibile e vispa la mente. «Più vecchi e più saggi: non è un antico adagio, può essere la realtà. Allo stesso modo in cui è possibile conservare una buona forma fisica, esistono strategie per acquisire un altrettanto buon fitness mentale» scrive Katz. Ciò che oggi gli scienziati sanno, e che non sapevano 10 anni fa, è che le persone non smettono di generare nuove cellule cerebrali e, soprattutto, nuove connessioni tra di esse. E più sono le riserve che si accumulano, proprio come i muscoli delle gambe si rafforzano camminando, meglio si affronta il declino cognitivo legato all'età. «È come se nel cervello ci fossero più antenne neuronali da cui inviare segnali: se sono numerose è meno facile perdere le chiamate» esemplifica Murali Doraiswamy, coautrice del libro, da poco uscito negli Stati Uniti, The Alzheimer's Action Plan, che suggerisce una quantità di modi per tenere arzillo un cervello ancora sano. Negli ultimi 10 anni molti luoghi comuni sull'invecchiamento cerebrale sono caduti grazie ai sofisticati strumenti della biologia molecolare e alle nuove tecniche di «imaging», dalla Pet alla risonanza magnetica. Nel 1998 ricercatori americani e svedesi dimostrarono per la prima volta che nuove cellule nervose sono generate nell'ippocampo, l'area del cervello legata a memoria e apprendimento, di persone dai 55 ai 70 anni. Lo studio uscì su Nature Medicine. E non è l'unico. Usando metodi accurati altri ricercatori hanno visto che il numero dei neuroni resta stabile dai vent'anni in poi. «Si raggiunge il massimo funzionamento mentale verso i 20-25 anni. Poi subentra un lento deterioramento fisiologico, qualche neurone delle decine di miliardi che formano il cervello muore, ma il problema è un altro» precisa Politi. Il declino mentale, dicono gli studiosi, è semmai dovuto alla riduzione dei dendriti, le ramificazioni che collegano una cellula nervosa all'altra e ricevono ed elaborano le informazioni attraverso punti di connessione, le sinapsi. «Se queste non vengono regolarmente accese, i dendriti si atrofizzano e questo riduce l'abilità del cervello di immagazzinare nella memoria nuove informazioni e recuperarne di vecchie» scrive Katz. «Nuovi studi hanno dimostrato che i dendriti possono svilupparsi nei neuroni di una persona adulta per compensare perdite. Non solo, anche un cervello che invecchia ha la capacità di sviluppare nuovi circuiti, di adattarsi e cambiare percorsi di connessione». Scoperte come queste sono alla base della teoria che sottoporre il cervello a un allenamento, attraverso esercizi di neurobica, appunto, lo mantiene in forma. Regola numero uno: rompere le abitudini, per esempio utilizzando la mano non dominante per penna, forbici, forchetta o martello e per lavarsi i denti. Serve a sviluppare nuove connessioni e a rafforzare percorsi nell'emisfero oppostoa quello normalmente usato. Regola numero due: dare nuovi stimoli che sviluppino tutti i sensi, non solo la vista, ma anche olfatto, tatto, gusto e udito, come fare la doccia o la colazione a occhi chiusi. Mettendo a riposo la vista, uno dei sensi più usati, e affidandosi ad altri, come il tatto, si stimola l'attività neuronale e si creano nuove connessioni tra diverse aree del cervello. «Le cellule nervose vengono stimolate a produrre nutrienti naturali, le neurotrofine, che a loro volta aumentano la complessità delle cellule dendritiche. Le neurotrofine rendono anche le cellule circostanti più forti e più resistenti agli effetti dell'invecchiamento» spiega Katz, il cui programma di neurobica spazia dalla casa all'ufficio, al tempo libero, dal mattino alla sera. Esercizi apparentemente banali ma che riaccendono la mente, magari sopita da troppa tv. «Le ricerche dimostrano che guardare la televisione letteralmente anestetizza la mente. Il nostro cervello è meno attivo davanti al teleschermo che nel sonno» scrive Katz. Insomma, al cervello piacciono le novità e le sfide. Imparare a suonare uno strumento, ma anche una lingua di cui non si ha la minima infarinatura, è di grande stimolo. Così come giocare a scacchi o a bridge e intraprendere qualsiasi altro gioco che richieda interazione sociale. «Per contrastare il declino mentale contano la stimolazione cognitiva, come pure l'essere curiosi, socievoli e flessibili mentalmente, ossia capaci di mettere in discussione le proprie certezze» osserva Politi. Le ultime ricerche sui fattori di rischio dell'Alzheimer hanno puntato su obesità, specialmente il grasso addominale, alcol, diabete, scarsa attività fisica, ma anche livello di educazione e quindi minore o maggiore attività mentale. «Le neuroimmagini funzionali stanno affrontando questo aspetto cruciale, cioè la possibilità di conservare la plasticità cerebrale anche in malattie degenerative associate a demenza, come l'Alzheimer» sostiene Daniela Perani, neurologa ed esperta di neuroimmagini al San Raffaele di Milano. «Esistono fattori come l'esercizio cognitivo, il grado di educazione e di istruzione capaci di influenzare la demenza ritardandone l'insorgenza? A queste domande ci saranno presto delle risposte grazie agli studi con la Pet, che nell'Alzheimer dimostrano chiaramente una riduzione della funzionalità del cervello, nelle aree preposte all'attività cognitiva». Ciò fa supporre, e l'ipotesi è affascinante, che allorché le sinapsi lavorano a pieno ritmo i sintomi della malattia possano comparire più tardi. È ormai diventato uno slogan: tutto ciò che fa bene al cuore fa bene alla testa e viceversa. L'esercizio fisico è benefico per la circolazione del sangue, però migliora anche le funzioni cerebrali. «Con l'attività fisica il sangue fa arrivare dosi ottimali di ossigeno e zuccheri al cervello e le capacità mentali migliorano» dice Stefano Bastianello, neuroradiologo al Mondino di Pavia. «Trenta minuti di camminata al giorno correggono il sistema vascolare, migliorano il flusso del sangue al cervello e aumentano i fattori di crescita nervosi e le connessioni quanto i videogiochi che ingaggiano la mente, ora molto di moda». Si chiamano Mind-Fit, Posit Science, Nintendo's Brain Ag e: palestre per la mente che promettono di allenarla e aiutarla a restare vigile e giovane. Negli Stati Uniti sono già un affare miliardario, in Italia il mercato del software antiaging è ancora agli inizi. Ma che i videogiochi riescano davvero a ringiovanire il cervello resta da dimostrare. «Ciò che manca per sostenere che abbiano efficacia è la ricerca» avverte Molly Wagster, neuropsicologa al National institute on aging. Mind-Fit sostiene per esempio di migliorare i tempi di reazione del 12,5 per cento, la memoria a breve termine del 18 e la coordinazione mano-occhio del 16,5. «Potrebbe essere un risultato meno rilevante di quanto sembri» avverte sul Washington Post Timothy Salthouse, direttore del Salthouse cognitive aging lab alla Virginia University. «L'allenamento di un certo tipo di memoria non necessariamente influisce su altri tipi di memoria». In altre parole, si può diventare abili nel riconoscere un cono di gelato o una rana tra le immagini che scorrono veloci sul video, ma ciò può non tradursi in una protezione del cervello o in vantaggi maggiori di quelli offerti dalla danza, dal mangiare mirtilli (benefici per la circolazione del sangue) o dallo stare in compagnia. Uno dei pochi studi clinici è di Posit Science: nel 2007, 468 persone, età media 75 anni, sono state assegnate a caso a due gruppi. Il primo usava il programma Brain Fitness, l'altro guardava il dvd educativo di Posit Science, rispondendo a quiz. Dopo 10 settimane di training, i primi hanno migliorato tempi di elaborazione e memoria rispetto agli altri. Lo studio però non è ancora pubblicato. Che il fitness mentale sia una tendenza crescente lo dimostra l'iniziativa (dal 15 al 20 settembre nella Settimana di prevenzione dell'invecchiamento mentale) Mentathlon: partecipano due categorie, junior (11- 49 anni) e senior (over 50) e una commissione scientifica valuterà le prove di logica, fluidità verbale, memoria visiva e dei nomi, orientamento, calcolo. Alla sfida all'ultimo neurone si affianca il convegno Longevamente. Che al cervello piacciano sfide e novità è provato. Ma al di là degli espedienti per tenerlo in forma conta lo stile di vita (poco alcol, niente fumo, dieta con frutta e verdura e pochi grassi saturi); e altrettanto cruciale è il sonno. Nella fase Rem, quella dei sogni, la memoria si consolida. Ma la civiltà moderna sta forse compromettendo gli ingranaggi del nostro orologio biologico. Com'era il sonno prima della rivoluzione industriale, della luce elettrica e della tv? È dimostrato per esempio che l'ormone dello stress, il cortisolo, deprime lo sviluppo di neuroni e le connessioni tra loro. Il segreto? «Non fermarsi mai» suggerisce un'email inviata a Panorama dopo la copertina sulla «bella età» da un lettore di 88 anni. Che scia, va in bici, pubblica romanzi. «Tutto quello che ho fatto e progetto mi fa vivere con lo spirito vigile». Può tuttavia succedere che, pur facendo tutto nel modo giusto, ci si ammali di Alzheimer. «I fattori genetici contano per un 30 per cento dei casi, lo stile di vita per il 70» calcola Doraiswamy. «Non c'è la soluzione magica. E non abbiamo tutte le risposte».MENTE PIÙ AGILE Rompere la routine e stupire le cellule nervose con nuovi stimoli: questo è fitness mentale. Si ottiene con esercizi mirati, in casa, in ufficio e nel tempo libero. Che mantengano giovane il cervello, ritardandone il declino, lo dimostrano le neuroimmagini. Anche l'attività fisica è fondamentale per il buon funzionamento del cervello. Apprendere a suonare uno strumento stimola capacità intellettuali e coordinazione fisica. Mantenete attivo così il cervello STRATEGIE Negli Stati Uniti è un successo. Il libro del neurobiologo Lawrence Katz stimola con 83 semplici esercizi la produzione di sostanze nutrienti che aiutano a mantenere il cervello giovane e attivo, facendo leva su tutti e cinque i sensi e rompendo la routine quotidiana. Ecco alcuni esempi.ore 7 Date spazio ai sensi andando sotto la doccia a occhi chiusi. Le mani coglieranno forme particolari del corpo che vi erano sfuggite: un altro modo di vedere. Continuate l'esercizio vestendovi a occhi chiusi. Rompere la routine, mettendo a riposo la vista e affidandosi ad altri sensi, come il tatto, stimola l'attività neuronale e crea nuove connessioni tra le aree del cervello. ore 8 Al mattino, quando portate fuori il cane per la consueta passeggiata, variate il percorso. La stessa cosa vale se correte: variate il tragitto. Idem se guidate fino all'ufficio. Le tecniche che visualizzano il cervello mostrano che introdurre novità sollecita larghe aree della corteccia e aumenta i livelli di attività cerebrale. Cosa che non fanno gli automatismi. ore 10 In ufficio cambiate la mappa spaziale della scrivania e degli oggetti (telefono, lampada, libri) o l'ordine delle mansioni quotidiane. Un esercizio banale? Spostate il cestino della carta da destra a sinistra. Rimescolare oggetti familiari riattiva il sistema dell'apprendimento spaziale e le aree visive e somatosensoriali.Una situazione nuova aumenta l'allerta. ore 18 Trasformate la sosta al supermercato in una caccia al tesoro. Chiedete al partner di fare la lista della spesa descrivendo gli oggetti anziché nominarli: rotonda, rossao verdeo gialla; stringhe lunghe, di spessore diverso, integralie non.... Sia chi fa l'elenco della spesa sia chi lo deve interpretare fa un esercizio di neurobica che utilizza tutte le associazioni sensoriali legate a un particolare cibo. ore 22 Lavare i denti con la mano non dominante, la sinistra invece della destra o viceversa. Lo stesso per pettinarsi, asciugarsi i capelli, allacciarsi i bottoni, usare il telecomando... Questo esercizio obbliga a usare il lato del cervello solitamente a riposo. I circuiti e le aree dell'emisfero non attivato sono coinvolti. Studi mostrano che si espandono i circuiti della parte di corteccia che elabora l'informazione tattile. ore 23 Leggere ad alta voce al proprio partner, alternando il ruolo di lettore e ascoltatore. Richiede tempo ma è anche un buon modo di dare qualità al tempo libero e stimoli alla discussione. A seconda che si ascolti o si legga, si attivano circuiti cerebrali differenti. Tecniche di visualizzazione del cervello mostrano che tre distinte aree cerebrali si attivano quando la stessa parola è letta, pronunciata ad alta voce, ascoltata. Non smettere di fare puzzle o cruciverba, di leggere, di viaggiare, di imparare una nuova lingua. Risolvere un problema o un gioco matematico stimola più aree del cervello. ____________________________________________________________ Espresso 19 Sett. ‘08 PREVENZIONE CARDIOVASCOLARE L'ALTRA FACCIA DELCUORE Aumentano gli studi che dimostrano come, oltre a colesterolo e ipertensione, esistano nuovi indicatori che segnalano il rischio infarto FEDERICO MERETA E'se non fosse tutta colpa dell'ipertensione, del colesterolo cattivo, del fumo, dello stress, del sovrappeso? Insomma, e se i tradizionali fattori di rischio per cuore e vasi non fossero sufficienti a dire chi davvero rischia un infarto? Molte delle nostre certezze si sgretolerebbero. Eppure si moltiplicano gli studi che menono in evidenza come, accanto a quelli più acclamati, ci siano altri fattori di rischio per cuore e arterie: dal cattivo funzionamento di specifiche proteine che trasportano i grassi nel sangue fino all'aumento del numero dei battiti, passando per marcatori dell'infiammazione come l'adiponectina e la proteina C reattiva. A mettere in dubbio il dogma dei cardiologi, ovvero il reale valore prcdittivo del colesterolo, è una ricerca condotta su oltre 27 mila persone, apparsa su "Lancet". Lo studio, coordinato da Matthevv MacQueen, docente di Patologia e Medicina molecolare dell'Università McMaster in Canada, ha dimostrato che il rapporto tra colesterolo cattivo e buono, cioè tra Ld) e Hdl, consente di definire solo il 37 per cento del reale rischio cardiovascolare del soggetto. La proporzione tra i due tipi di colesterolo è utilizzata proprio per comprendere se elevati valori di Hdl, la molecola che trasporta il colesterolo fuori dai vasi sanguigni, possono compensare un innalzamento del colesterolo totale. Secondo "Lancet" non sarebbe così importante: per calcolare l'effettivo rischio cardiovascolare sarebbe molto meglio utilizzare, invece, il rapporto tra la lipoproteina ApoBe la lipoproteina ApoAl. Secondo lo studio di MacQueen, la proporzione tra le due sostanze sarebbe in grado di definire il rischio di infarto in misura ben superiore ai parametri classicamente adottati: «C"'è un rapporto stretto tra colesterolo e lipoproteine», spiega MacQueen. Ancora nell'ambito dei lipidi, sempre nuove ricerche mettono sotto la lente d'ingrandimento anche i valori dei trigliceridi nel sangue come possibile fattore di rischio cardiovascolare. All'ultimo congresso dell'Esc (Società europea di cardiologia) uno studio del dipartimento di sanità pubblica finlandese su 22 mila persone, seguite per più di otto anni, ha dimostrato chiaramente come alti livelli dei trigliceridi nel sangue appaiano significativamente correlati con un più elevato rischio di infarto, indipendentemente dalla presenza di altri fattori di rischio cardiovascolare classici. L'eccesso di trigliceridi è spesso associato a un ridotto valore di Hdl, soprattutto nelle persone in sovrappeso che a tavola fanno il pieno di calorie. «Per correggere questi nuovi fattori di rischio è fondamentale una dieta dimagrante con regolare attività fisica», commenta Paolo Bellotti, responsabile della divisione di Cardiologia dell'Ospedale San Paolo di Savona: «Spesso i valori dei trigliceridi tornano alla normalità solo con queste due misure: inoltre l'attività fisica può contribuire a innalzare anche i livelli di colesterolo Hdl nel sangue». La ricetta dei cardiologi non cambia: poco cibo e movimento. Crollano le speranze di chi contava su terapie meno draconiane. Anche perché il regolare esercizio fisico è davvero il viatico per un cuore sano. È infatti la contromisura più efficace per tenere sotto controllo un altro fattore di rischio non classico: l'aumento della frequenza cardiaca. Parametro molto importante per chi è già cardiopatico, ma che potrebbe assumere un valore anche per i soggetti a rischio. Come dimostra lo studio "Beautiful", condotto su oltre 11 mila soggetti con scompenso cardiaco in fase iniziale, pubblicato su "Lancet": «Te- • nere la frequenza sotto i 70 battiti al minuto riduce del 36 per cento il rischio di infarto e del 30 per cento quello di un intervento alle coronarie», spiega Roberto Ferrari, direttore della Clinica cardiologica dell'Università di Ferrara e presidente della Società europea di cardiologi: «E fondamentale che il medico ricordi di sentire il polso a chiunque arriva in ambulatorio. E un esame privo di costi, non invasivo, che migliora il rapporto con il paziente e fornisce indicazioni importantissime: più bassa è la frequenza, più basso è il rischio di malattie cardiovascolari, e viceversa». Il rapporto tra numero elevato di battiti e rischio è direttamente legato al consumo di energia necessaria per il muscolo. Ogni giorno il cuore batte circa 100 mila volte e necessita di circa 30 chili di energia. Quando le coronarie sono malate arriva meno ossigeno al muscolo cardiaco, che produce quindi minor energia e si deteriora, provocando angina, infarto, scompenso. Ridurre la frequenza cardiaca di dieci battiti al minuto significa far scendere di ben cinque chili le necessità energetiche del cuore. Ciò si ottiene soprattutto con un regolare esercizio aerobico. Tra i fattori di rischio cardiovascolare che fino a oggi sono stati sottovalutati, un posto d'onore spetta ad alcuni parametri di infiammazione il cui incremento è sempre più spesso correlato a un aumento del potenziale rischio di infarto. Tra i parametri più studiati dalla comunità scientifica ci sono l'adiponectina e la proteina C-reattiva. La prima è una proteina prodotta dalle cellule adipose, la cui sintesi cala drasticamente nei soggetti diabetici obesi. Diverse ricerche hanno dimostrato come bassi livelli di adiponectina si associano all'incremento dell'indice di massa corporea, e ad un aumento del rischio cardiovascolare, con aumento di incidenza di infarto. La correlazione tra incremento dei livelli di proteina C-reattiva e maggiori pericoli per il cuore è stata dimostrata in diverse ricerche, tanto che il Centro per il controllo delle malattie (Cdc) di Atlanta e l'Amencan Heart Association hanno prodotto le prime linee guida per l'utilizzo di questo parametro quale fattore di rischio in aggiunta a quelli classici. Molti sono però i dubbi sulla reale applicabilità di questi elementi nella pratica clinica di ogni giorno, • così come parecchie perplessità rimangono ancora sul reale utilizzo dell'aumento dell'omocisteina nel sangue. È vero che un eccesso di questa sostanza è associato con la malattia coronarica, ma non si sa ancora se i tentativi di abbassare l'omocisteina con acido folico, associato o meno a vitamine del gruppo B, corrisponda a un effettivo calo della possibilità di andare incontro a un evento cardiovascolare. Sembrerebbe, insomma, che i cardiologi non siano ancora in grado di gestire molti dei nuovi fattori di rischio cardiovascolare proposti. Invece, anche il nuovo studio Interheart dimostra che i nove fattori di rischio classici identificano correttamente il 90 per cento dei soggetti che sviluppano effettivamente un episodio cardiovascolare. Sottolinea Bellotti: «Solo uno su dieci che andrà incontro a un infarto non presenta questi elementi: è in questa popolazione, tradizionalmente considerata a basso rischio, che la vantazione di _ . parametri diversi Cestista * . . . . ., inazione. P™ rivelarsi utile A sinistra, per definire meocclusione glio il livello di pesanguigna ricolo effettivo». Il 10 per cento: un'enormità, se si pensa che le maattie cardiovascolari uccidono quasi cinque milioni di persone anno nel mondo, e 250 mila solo in Italia. Un 10 per cento che diventa particolarmente rilevante quando si parla di persone che hanno già avuto esperienze di malattie cardiovascolari. Annota il presidente dell'Esc, Ferrari: «Nei pazienti cardiopatici occorre soprattutto una terapia personalizzata: un trattamento corretto regala anni di vita. In questo senso vanno utilizzate al meglio le informazioni che possono venire da test come il rapporto ApoB e ApoAl, non eseguibili in tutti i laboratori, e le informazioni che possono venire da test come la vantazione della Proteina C-reattiva, o il Bnp (Brain Natriuretic Peptide) che, quando è elevato in un paziente con scompenso cardiaco, è un indicatore di grande utilità. Questi dati possono aiutare a trattare al meglio specifici malati. Attenzione però a non esagerare con gli esami, se non sono strettamente indicati». • Fare sport è la contromisura più efficace contro l'aumento della frequenza cardiaca La giusta medicinaRegione Piemonte Valle d'Aosta Lombardia Trentino Alto Adige Veneto Friuli Venezia Giulia -66,8 Liguria Emilia Romagna Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna Italia Stima della riduzione dei costi totali (diretti + indiretti) a seguito del miglioramento del trattamento farmacologico, per anno e regione nel lungo periodo. In milioni di euro Sopra: elaborazione al computer del colesteroio Foto: A sinistra: cuore colpito da infarto. Sopra: sport e poco cibo sono la ricetta dei cardiologi Foto: II rapporto tra colesterolo buono e cattivo è uno strumento predìttìvo ormai limitato ____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 18 set. ’08 SARDI BERSAGLIATI DALLE MALATTIE DELLA TIROIDE In Sardegna le patologie della tiroide sono particolarmente diffuse e comportano un elevato costo sociale. Recenti indagini epidemiologiche, condotte dalle università di Cagliari e Sassari, hanno rivelato che oltre il cinquanta per cento della popolazione di età superiore ai 50 anni, residente sia in aree urbane che extraurbane, è affetta da gozzo multinodulare. Fra le cause principali di questa malattia, ha un ruolo fondamentale la mancanza di iodio, legata a un carente uso di sale iodato, come raccomandato da tutte le organizzazioni nazionali e internazionali. Inoltre, sebbene meno del 5 per cento dei noduli tiroidei sia di natura maligna, il numero dei casi di carcinomi tiroidei diagnosticati ogni anno è rilevante e apparentemente in crescita. I problemi sanitari derivanti da questa situazione sono rappresentati dal notevole sforzo diagnostico che deve essere dedicato alla identificazione dei tumori maligni della tiroide e dalla frequente evoluzione tossica del gozzo nell’età avanzata, con ipertiroidismo spesso associato a complicanze cardiovascolari. Questi temi saranno al centro del Congresso nazionale della Siec (Società italiana di endocrinochirurgia, che si terrà stasera, domani e sabato presso l’Aula Rossa del complesso universitario di Monserrato. Ai lavori del congresso, organizzato dal professor Angelo Nicolosi, capo del dipartimento di Chirurgia dello stesso Policlinico, prenderanno parte specialisti della materia provenienti da tutte le regioni d’Italia. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda18 Sett. ‘08 SLA, IN SARDEGNA IL RECORD MONDIALE Trenta casi nel Medio Campidano: occorre un'indagine dell'Asl DAL NOSTRO INVIATO PAOLO CARTA BARUMINI In tutta Europa si ammalano di Sla (sclerosi amiotriofica laterale) due persone ogni centomila abitanti. In Italia l'incidenza è di sei malati nella stessa popolazione. In Sardegna il triplo (18). Nel Medio Campidano, zona che rappresenta il campione tipo, cioè cento mila residenti, la Rianimazione dell'ospedale di San Gavino ne segue sedici a domicilio, tutte persone ormai impossibilitate a respirare da sole, ma si arriva a trenta considerando chi ancora è in grado di essere autosufficiente. Sei solo a Gonnosfanadiga. Record italiano? Quasi sicuramente. Europeo? Forse sì, anzi, probabilmente addirittura mondiale. Ne sono convinti Antonio Sollai, primario del reparto di Rianimazione di San Gavino, Giuliana Biasoli e Giuseppe Lo Giudice, responsabili provinciale e regionale dell'Aisla (Associazione italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica) e Leonardo Mameli, caposala a San Gavino e componente della commissione regionale Sla. RECORD L'allarme non è lanciato a caso. L'occasione per parlarne, per chiedere ufficialmente aiuto, è stata la giornata del malato di ieri a Barumini. Presenti le istituzioni, le autorità, anche il vescovo di Oristano, Ignazio Sanna, che ha portato la comunione a Luigina Murru Caddeo, 74 anni, una dei trenta malati del Medio Campidano. I familiari hanno raccontato una situazione difficile, la peggiore possibile: vedere una madre spegnersi lentamente, perdere progressivamente l'uso di gambe, braccia, della respirazione, della parola, delle labbra, anche degli occhi. E restare giorno dopo giorno praticamente soli. Senza assistenza, aiuto materiale, interlocutori. «Dobbiamo fare un monumento ai medici di San Gavino - dice Antonio Caddeo, 45 anni, imprenditore che ha lasciato serre e vivai di fiori e piante per stare accanto alla madre, per accudirla tutto il giorno e tutta la notte - è l'unico reparto ospedaliero al mondo in cui un primario va a visitare a domicilio i pazienti». L'INDAGINE Tonio Sollai è il primo a voler sapere. «Perché si ammalano così tanti di Sla nel Medio Campidano? È necessario fare la conta, uno studio epidemiologici, capire se esiste una connessione tra patrimonio genetico e fattori ambientali in grado di spiegare un'incidenza di malati così alta. Tutto questo è fondamentale anche per organizzare l'assistenza ai malati. Perché è vero che per qualcuno questa non è vita, ma io non sono d'accordo. Ho conosciuto solo un paziente che ha rifiutato le cure e si è lasciato morire. Tutti gli altri no, il cervello continua a funzionare perfettamente e restano aggrappati alla vita, anche a questa vita». L'ESPERIENZA Che le famiglie abbiano bisogno di aiuto concreto, non soltanto quello spirituale fornito ieri da monsignor Sanna, lo certifica il racconto di Antonio e Simona Caddeo, i figli di Luigina. «La Sla per noi è una bestia maledetta. Mamma si è ammalata qualche mese fa. Si affaticava quando usciva a fare la spesa, non riusciva più a versarsi l'acqua nel bicchiere, a reggere la tazzina del caffè. La diagnosi è arrivata dopo tanti ricoveri. Non le abbiamo nascosto niente: sa che ha la malattia dei muscoli , che non può guarire. Abbiamo chiesto assistenza. Il risultato? Per nostra madre, attaccata al respiratore artificiale, alimentata con un sondino, vengono un'infermiera e una ausiliaria un'ora al giorno, più una fisioterapista per un'altra ora. Basta. Per il resto dobbiamo pensarci noi. Ventiquattro ore al giorno. Abbiamo chiesto al Comune un sintetizzatore vocale in grado di tradurre in parole i movimenti dei suoi occhi. Il progetto è fermo nei cassetti. E mamma vuol restare aggrappata alla vita». L'APPELLO Giuliana Biasioli (Aisla) chiede che le istituzioni si facciano carico di questi malati: «Sia cercando di capire le cause di questa altissima incidenza nel Medio Campidano, sia garantendo un'assistenza adeguata a degenti e familiari». Trenta casi in una provincia così piccola, è davvero un'emergenza. Praticamente mondiale. ____________________________________________________________ Repubblica 18 Sett. ‘08 IL MISTERO DELLA SCLEROSI LATERALE NON ESISTE ANCORA UNA CURA DELLA SLA. MA SI POTREBBE FARE MOLTO PER LA DIGNITÀ DI QUESTI MALATI Mario Melazzin* La Sclerosi Laterale LAmìotrofica (Sla) è una rara e grave malattia neurologica, al momento ancora inguaribile, che comporta la completa paralisi dei muscoli volontari di chi ne è colpito. Senza troppi giri di parole, chi si ammala di Sla progressivamente perde la capacità di muoversi, comunicare, nutrirsi e respirare in maniera autonoma fino all'exitus finale per insufficienza respiratoria. Intanto la mente rimane lucida. I sintomi della malattia sono tanti e impercettibili. Alla diagnosi - in media dopo 13-17 mesi dell'insorgere della malattia si arriva spesso per esclusione di altre patologie. Anche perché della Sia non si conoscono con precisione neppure le cause. Complessivamente, in Italia, si contano poco più di 5.000 casi e si ammalano circa 3 persone al giorno. Numeri forse non molto significativi che il più delle volte sono alla base del poco interesse e della poca sensibilità nei confronti della malattìa, delle problematiche ad essa connesse, dei bisogni degli ammalati e delle loro famiglie. Generalmente si ammalano di Sla persone di entrambi i sessi tra i 40 ed i 70 anni di età, anche se qualsiasi età può esserne colpita. Esseri umani per il quale, forzatamente, la vita cambia in maniera radicale in poco tempo. La Giornata Nazionale della Sla in programma il prossimo 18 settembre si propone di puntare i fari su queste esistenze che non sempre hanno la concreta possibilità di vivere dignitosamente e liberamente la propria esperienza di malattia e quindi di vita. La Sla, come detto, si prende solo il corpo. Per questo il malato e la sua famiglia deve poter godere pienamente del diritto alla vita. Oggi la tecnologia offre ausili di ultima generazione (comunicatori, respiratori, ecc.) che consentono al malato di compiere le operazioni a cui non è più in grado di provvedere da solo. Servono anche percorsi assistenziali e di presa in carico reali, omogenei in tutto il territorio nazionale. C'è anche il bisogno di stimolare adeguatamente la ricerca, da cui un giorno, speriamo neppure troppo lontano, possano davvero arrivare una terapia efficace. Oggi i finanziamenti pubblici per la ricerca e gli investimenti delle case farmaceutiche non sono adeguati alle aspettative e alle esigenze dei malati di Sla. Ecco perché il contributo di chiunque è davvero prezioso, se non indispensabile. Per alimentare la ricerca ma anche, più in generale, per evidenziare ed affrontare la questione della presa in carico dei malati che qualcuno vorrebbe mettere al bando in una società sempre più fatta di "benpensanti". * Dir. Uoc Day Hospital Oncologico, Istituto Scientifico Pavia, Fond. Maugeri IRCCS Dir. Scien. Centro Clin. NeMo Fond. Serena, Osp. Niguarda per le malattie neuromuscolari Pres. Nazionale AI SLA Onlus 48589 www.aisla.it Fino al 21 settembre si dona 1 euro con un sms a questo numero e 2 chiamandolo da rete fissa ____________________________________________________________ Corriere della Sera 14 Sett. ‘08 FEGATO:CON L' ONDA ELASTICA SI EVITA LA BIOPSIA FEGATO ALLA PROVA ESAME NON INVASIVO Fino a non molto tempo fa l' unico metodo in grado di fornire una diagnosi precisa ed efficace delle alterazioni del tessuto epatico (la cosiddetta fibrosi, che nel tempo può peggiorare fino ad arrivare alla cirrosi) era la biopsia del fegato. Oggi si può contare anche sull' elastografia, tecnica non invasiva, facilmente riproducibile, facile da eseguire e senza complicazioni dirette. La conferma della validità di questa metodica nella diagnosi e nel monitoraggio delle malattie epatiche viene da uno studio pubblicato di recente sulla rivista Clinical Gastroenterology and Hepatology. Nello studio sono stati esaminati 133 pazienti affetti da una malattia epatica cronica, candidati per una biopsia, con l' obiettivo di valutare l' eventuale presenza di gravi fibrosi epatiche. I risultati ottenuti con l' elastografia sono stati sempre comparabili con quelli della biopsia, anche se le risposte più accurate sono state ottenute nei casi in cui il paziente presentava una fibrosi diffusa. «Per curare al meglio una serie di condizioni epatiche, dalle epatiti al fegato grasso, è fondamentale sapere se il fegato è fibrotico - premette Angelo Gatta, direttore della Clinica medica dell' Università di Padova e direttore del Centro della Regione Veneto per le malattie del fegato -. Valutare lo stato di fibrosi del fegato permette di vedere come evolve la malattia nel tempo e di evidenziare se si è verificata una regressione delle lesioni per merito delle terapie utilizzate. Ora, in alcuni casi, questo possiamo farlo con l' elastografia, evitando la ben più invasiva biopsia». L' elastografia viene eseguita con un apparecchio che, attraverso una sonda ad ultrasuoni applicata sulla cute in prossimità del fegato, ne misura la rigidità: in pratica quando si appoggia la sonda si crea un' onda elastica la cui velocità di trasmissione è direttamente proporzionale alla rigidità dell' area di fegato esaminata, in genere un cono di un centimetro di diametro e 3-4 centimetri di lunghezza. Più il fegato è "duro" (fibrotico e cirrotico), più l' onda elastica si propaga rapidamente; più invece è "morbido" (fegato normale) più la velocità di propagazione dell' onda è bassa. «Tra tutte le strategie non invasive di monitoraggio del fegato l' elastografia è quella che finora ha riscosso maggiori successi. I numerosi studi condotti hanno dimostrato che la tecnica permette una buona valutazione della fibrosi, soprattutto ai gradi estremi, ovvero iniziale e avanzato, permettendo così di diminuire il ricorso alla biopsia - puntualizza Gatta -. C' è invece ancora da lavorare per migliorarne l' accuratezza nel diagnosticare stati intermedi di fibrosi». Per ora l' elastografia è disponibile solo nei principali centri per la cura delle malattie epatiche. «Sebbene siano ancora da definire le indicazioni precise, possiamo contare su una tecnica diagnostica in più, gradita ai pazienti e unica alternativa in tutti quei casi in cui la biopsia non è eseguibile, per esempio in presenza di deficit della coagulazione. Certo, anche l' elastografia ha i suoi limiti, per esempio nei pazienti obesi non consente di ottenere risultati attendibili» conclude Gatta. Sparvoli Antonella